Morte viva o diritto alla speranza? di Elisabetta Grande L’Indice, 13 giugno 2021 Intervista a Stefano Anastasia. Il 15 aprile di quest’anno la tanto attesa decisione della nostra Corte Costituzionale relativa alla possibilità di concedere la liberazione condizionale della pena agli ergastolani ostativi non è giunta. La Corte ha deciso di non decidere fino al maggio del 2022. In gioco c’erano le speranze (al momento deluse) di coloro che, per dirla con Carmelo Musumeci, stanno scontando la pena di morte viva. Cosa credi che abbia mosso la Corte a prendere questa posizione attendista? Premesso che, nonostante tutto, la Corte ha manifestato il suo orientamento nel merito del quesito che gli era stato proposto, e cioè che l’ergastolo ostativo è incostituzionale, è vero che si è messa in una posizione di attesa, rinviando di un anno l’operatività della sua decisione, in modo da dare il tempo al legislatore di assumere quelle misure di politica criminale che dovesse ritenere opportune per bilanciare la fine dell’ergastolo ostativo con la continuità dell’azione di contrasto alle organizzazioni criminali. E’, questa sospensione, una decisione che non condivido: non necessaria e che non credo che porterà a nulla, considerate le culture giuridiche presenti in Parlamento e l’eterogeneità della maggioranza che sostiene il Governo. Per di più è una decisione che dichiara l’illegittimità dello status di centinaia di persone e non obbliga i giudici a porvi fine, di fatto accettando che diritti fondamentali costituzionalmente acclarati possano continuare a essere violati dall’autorità pubblica senza che nessuno intervenga. Ciò detto, non dobbiamo dimenticare che la Corte costituzionale è l’autorità giudiziaria più politica che ci sia, composta per due terzi da membri di nomina politica e inserita dentro una trama di relazioni istituzionali che è politica al massimo grado. Non a caso, già nella precedente pronuncia sulla concedibilità dei permessi-premio agli ergastolani ostativi, la Corte si era inventata una nuova valutazione prognostica sulla persona, che dovrebbe obbligare il giudice di sorveglianza a valutare “il pericolo di ripristino” di collegamenti non più esistenti con l’organizzazione criminale. Pura scienza divinatoria, ma evidentemente considerata necessaria all’accettabilità politica dell’affermazione di quel principio di diritto. Già quella decisione fu presa sotto l’enorme pressione di alcuni settori della stampa e della magistratura che hanno esplicitamente sostenuto la legittimità della deroga alla legalità costituzionale e alle convenzioni internazionali sui diritti umani in nome della lotta alla criminalità organizzata, secondo i parametri del diritto penale del nemico. E il coro si era già rianimato in questa occasione. Così, la Corte ha ritenuto di dover chiamare in causa il Parlamento per affrontare le opposizioni che le si sarebbero scagliate contro. E’ stata, quella della Corte, una chiamata in correità del Parlamento: la Costituzione dice questo (l’ergastolo ostativo è illegittimo), fate quel che potete per farlo comprendere all’opinione pubblica, altrimenti vi assumerete la responsabilità di quel che noi non possiamo non dire. Due recenti sentenze della nostra Corte Costituzionale, la 253 e la 263 del 2019, sulla scia della decisione resa dalla Corte europea nel caso Viola, il 13 giugno 2019, avevano assestato i primi due fermi picconi a quel sistema di automatismi e preclusioni nell’applicazione dei benefici penitenziari che, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, ha caratterizzato il regime penitenziario di alcuni detenuti, responsabili dei delitti elencati nell’art 4 bis. La rigida logica per cui alla mancata collaborazione con la giustizia corrisponderebbe necessariamente un non ravvedimento, sembrava abbandonata. Con la prima delle due sentenze- in particolare- anche ai detenuti non collaboranti è stata data la possibilità di accedere al beneficio del permesso premio “allorchè siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti”. Credi che, dopo l’ordinanza di aprile, l’ottimismo di quanti immaginavano “una scia giurisprudenziale composta da tante pronunce di accoglimento quante sono le misure alternative alla pena, oggi ancora precluse al detenuto non collaborante” (Pugiotto), sia fuori luogo? Ottimista non sono, perché intanto registro che finora quelle sentenze hanno avuto una, forse due applicazioni, e neanche per tutti i casi approdati al giudizio delle Corti superiori. Eppure non penso che la Corte possa fare marcia indietro da quanto affermato in quelle sentenze e, soprattutto, da quanto anticipato con la notizia dell’accoglimento della decisione della incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Dalla parte del “diritto alla speranza” c’è qualcosa di più dell’ottimismo della volontà e il Parlamento non potrà resistervi varando una normativa incostituzionale, che faccia rivivere l’ostatività sotto altre spoglie. Il problema saranno piuttosto le decisioni di merito e la capacità della giurisdizione di sorveglianza di rispondere positivamente al giudicato costituzionale. “La realtà esclude in modo assoluto che lo status di un uomo d’onore possa mai cessare, salvo nell’ipotesi (unica) di collaborazione” dice Gian Carlo Caselli, a sostegno dell’attuale preclusione agli ergastolani ostativi di accedere alla liberazione condizionale della pena. “E’ da Lombrosiani pensare che se non ti penti sei mafioso per sempre” sostiene invece Giovanni Fiandaca, ritenendo opportuno e doveroso valutare caso per caso l’effettivo ravvedimento del detenuto che non abbia collaborato. Qual è la tua opinione? Ho grande stima per Gian Carlo Caselli, ma non capisco come possa evocare l’esistenza di una realtà inoppugnabile e metterla in relazione a una scelta processuale, come tutte le scelte processuali, legittimamente opportunistica. Come hanno ben detto le Corti, si può collaborare senza ravvedimento e si può non collaborare pur avendo maturato un distacco definitivo da precedenti scelte devianti. La verità è che le esperienze delle lunghe pene mette a dura prova l’equilibrio psico-fisico di una persona, inducendola a rivendicazioni identitarie del proprio passato o a difficili oltrepassamenti verso un nuovo modo di essere e di pensare. La minaccia della pena fino alla morte induce più facilmente ad atteggiamenti opportunistici o a paranoie identitarie che a reali percorsi di cambiamento. Nella mia esperienza ho conosciuto decine di ergastolani ostativi, a partire da Carmelo Musumeci, che quel percorso l’hanno compiuto o lo stanno compiendo, nonostante l’ostatività e senza mai subordinarlo a scelte di collaborazione postuma con la giustizia. Sono storie che vanno conosciute, comprese e sostenute, dando concretezza ai principi dell’articolo 27 della Costituzione. Giustizia ripartiva. Per realizzare l’art. 27 della Costituzione di Annapaola Laldi aduc.it, 13 giugno 2021 Come è noto, l’articolo 27 della Costituzione si occupa della responsabilità penale delle persone e del modo in cui si devono far scontare le pene irrogate. Vale la pena riportarlo per intero: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Purtroppo, a parte il dettato dell’ultimo comma, l’articolo 27 C. è uno dei più disattesi della Carta fondamentale. Infatti, i commi due e tre non trovano piena realizzazione nei fatti. Il punto più dolente, comunque, è il terzo comma e soprattutto il fine rieducativo della pena. A questo proposito qui si aggiunge un ulteriore problema nient’affatto secondario, che però non è neppure previsto dalla Costituzione: l’attenzione e la tutela per le vittime del reato. Da alcuni anni, e per iniziativa di persone di buona volontà, ci si è accostati a tale questione sviluppando l’idea della giustizia ripartiva. Vale a dire l’incontro tra vittime e carnefici, che mi pare sia stato inaugurato da Agnese Moro, la figlia dell’uomo politico fatto prigioniero dalle Brigate Rosse, con la strage di via Fani (16 marzo 1978) e fatto trovare assassinato in via Caetani il 9 maggio 1978. Riscoprire il Mi ha dato lo spunto per parlare di questo argomento un articolo pubblicato su “Riforma” (settimanale delle Chiese evangeliche) del 4 giugno scorso. Si intitola Il dono di una seconda vita di Marta D’Auria che intervista Franco Bonisoli, il quale, nel 1978, partecipò al sequestro di Aldo Moro e che, da quando ha riacquistato la libertà, nel 2008, come si legge nell’introduzione dell’articolo, partecipa a un gruppo che è ispirato proprio alla giustizia ripartiva “per cercare una via che possa ricomporre quella frattura che provoca ancora dolore”. Lascio la parola a Marta D’Auria e a Franco Bonisoli per questa importante e anche toccante testimonianza. Il dono di una seconda vita, di Marta D’Auria Intervista a Franco Bonisoli, che partecipò al sequestro Moro. Il percorso della giustizia riparativa fatto insieme ai familiari delle vittime: fare i conti con il passato per poter vivere il presente Franco Bonisoli, ex responsabile delle Brigate Rosse, nel 1978 partecipa alla strage di via Fani dove viene sequestrato Aldo Moro. Arrestato, processato e condannato a quattro ergastoli, a metà anni Ottanta si dissocia dalla lotta armata e la carcerazione viene commutata in una pena a termine. Nel 2008, ormai libero, partecipa a un gruppo formato da vittime, familiari di vittime e responsabili della lotta armata che iniziano a incontrarsi, a scadenze regolari e con assiduità sempre maggiore, per cercare una via che possa ricomporre quella frattura che provoca ancora dolore; una via alternativa che affonda le sue radici nel paradigma della giustizia riparativa. A Bonisoli abbiamo rivolto alcune domande. Che cosa l’ha spinta ad accettare di intraprendere il percorso della giustizia riparativa? “Questo cammino inizia quando ero ancora in carcere. Nel 1983, dopo il processo per l’assassinio di Aldo Moro, rientrai nel carcere di Nuoro dove fui preso da una profonda crisi interiore. Non mi riconoscevo più nella lotta armata, avevo rovinato la mia vita, quella della mia famiglia, e soprattutto quella delle vittime. Pensai che la mia vita fosse arrivata alla fine. Anche altri miei compagni vivevano le stesse cose e allora cominciammo uno sciopero della fame. Fu allora che accadde ciò che non ci saremmo mai aspettati: il cappellano, don Salvatore Bussu era preoccupato per noi, per dei terroristi. Ci riconosceva come persone e teneva alla nostra vita! Eravamo sotto Natale e don Salvatore decise che non avrebbe celebrato la messa perché dei suoi “fratelli” stavano morendo. Tutti i giornali ne parlarono. Da lì ho iniziato a guardare criticamente il mio passato, fino ad ammettere che ero uno sconfitto e che la violenza non ha nessuna possibilità di successo. Quando sei nella spirale violenta, abdichi alla tua umanità. Io sentivo il bisogno di ritrovare la mia umanità perduta. Fu in carcere che cominciai a incontrare volontari e vittime che mi riconoscevano come persona”. L’incontro con le vittime prosegue dopo la scarcerazione definitiva nel 2001, usufruendo dei benefici della legge sulla dissociazione e della nuova legge di riforma penitenziaria. “Allora incontrai padre Guido Bertagna che, insieme al criminologo Adolfo Ceretti e alla docente di diritto penale Claudia Mazzucato cominciarono a elaborare degli incontri tra vittime, familiari di vittime e ex brigatisti (di cui si parla ne “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, Il Saggiatore, 2015, ndr). Sognavo la possibilità di poter chiedere scusa per quello che avevo fatto e per il dolore che avevo loro provocato. La cosa incredibile è stata che, durante gli incontri, invece di freddezza, diffidenza e magari rabbia - sentimenti legittimi - ho trovato riconoscimento in quanto persona. Non solo. Nell’arco degli anni, da questa serie di incontri, sono arrivato a stringere rapporti di vera e profonda amicizia, prima di tutto con Agnese Moro. Ricordo ancora il nostro primo incontro: mi invitò a casa sua e le portai una piantina. Parlammo tanto. A un certo punto le dissi che poteva chiedermi qualunque cosa. Non mi chiese del passato ma voleva che le parlassi della mia famiglia, dell’impegno sociale che portavo avanti: le interessavo io, la vita che stavo conducendo. Agnese ama ripetere che ogni persona ha il diritto a essere riconosciuta nella sua dignità. Il percorso della giustizia riparativa mi ha dato proprio questo: di essere riconosciuto come persona, con le sue debolezze, fragilità e la sua dignità”. Che cosa ha ricevuto da questo percorso durato anni? “Ho ricevuto una grandissima lezione di vita. Nel percorso della giustizia riparativa mi sono trovato a dover rispondere personalmente delle mie azioni. Io e i miei compagni eravamo abituati alla responsabilità collettiva: dietro il gruppo ci si giustificava, ci si nascondeva. Dopo la fine della lotta armata, quando inizi a pensare alle vittime, al dolore provocato, alle famiglie coinvolte, ti porti dietro un senso di colpa immenso. Accettare l’incontro con le vittime mi ha permesso di affrontare questo macigno, di assumermi le mie responsabilità e di guardare avanti. Man mano che procedevo, prendevo più consapevolezza di me, dei miei limiti; cominciavo a interrogarmi e confrontarmi con quella ricerca di delicatezza che il tipo di incontro richiedeva e che a mia volta ricevevo, in termini di immenso rispetto e di riconoscimento non politico ma umano. Questo percorso è stato un passaggio epocale nella mia vita”. Da diversi anni insieme ad Agnese Moro dà la sua testimonianza in primis ai ragazzi e ragazze nelle scuole. Che cosa anima questo suo impegno? “Attraverso il percorso fatto è come se mi fosse stata donata una seconda vita, e allora mi sono detto: devo usarla al meglio! Voglio mettermi al servizio degli altri, prima di tutto dei giovani. Dopo aver ascoltato le nostre testimonianze, molti ragazzi ci scrivono lettere molto belle, commoventi, che ci confermano che le nostre vite sono la prova che il male non è invincibile, non ha l’ultima parola. Grazie al dialogo e al confronto autentico, le nostre vite si sono aperte al futuro. Testimoniare è per me un atto di responsabilità”. Oggi in quali progetti è coinvolto, oltre alle sempre più numerose testimonianze sul vostro percorso di giustizia riparativa? “Quando ero al carcere di San Vittore feci un corso di yoga con la maestra Gabriella Cella, ideatrice dello Yoga Ratna, un metodo che pone particolare attenzione all’esperienza personale del praticante. La meditazione yoga è un modo per conoscere se stessi: dentro ognuno di noi c’è una perla che ciascuno deve recuperare; attraverso un lavoro sul proprio corpo, respiro, si va a riscoprire e a tirare fuori il meglio che tutti abbiamo dentro. Quell’esperienza mi ha segnato al punto che dopo diversi anni, su incoraggiamento della maestra Cella e di alcuni suoi allievi, ho frequentato la Scuola insegnanti Yoga Ratna (Siyr). Nella ricerca per scrivere la mia tesina finale, ho scoperto la storia della riforma del carcere di Tihar a Nuova Delhi, elaborata dalla direttrice Kiran Bedi, che poneva la meditazione al centro del modello di rieducazione. In soli due anni la recidiva di quel carcere di 10.000 detenuti scese dal 70% al 10%, grazie agli effetti della meditazione, che permetteva ai detenuti di conoscersi interiormente e di comprendere gli errori compiuti. Oggi vorrei portare avanti questo discorso nelle nostre carceri. Purtroppo, il lockdown ha fermato questo progetto; però qualcosa si sta muovendo in collaborazione con Eduradio e altre figure professionali che operano con le carceri dell’Emilia anche sul tema della giustizia riparativa. Spero che presto si possa aprire un corso di yoga all’interno di una di queste carceri”“. E dopo Brusca si accende la speranza dei boss mai pentiti: tornare liberi di Lirio Abbate L’Espresso, 13 giugno 2021 Con la cancellazione dell’ergastolo ostativo ai mafiosi, molti killer condannati definitivamente che non hanno collaborato con la giustizia pensano di poter lasciare il carcere. La sera dell’arresto di Giovanni Brusca i poliziotti che lo portano negli uffici della Squadra mobile a Palermo perdono le chiavi delle sue manette. Non si trovano. O forse nessuno ha voglia di trovarle. Gli agenti che lo hanno bloccato in una casa di campagna nell’agrigentino sono quasi tutti amici dei poliziotti saltati in aria a Capaci. Nella squadra della “Catturandi” che è entrata in azione c’è pure il fratello di una delle vittime di via D’Amelio. Fosse per loro, quelle manette a Brusca non gliele toglierebbero più. A tarda sera devono intervenire i vigili del fuoco per liberare i polsi del mafioso. Ricordo bene quella serata del 20 maggio di venticinque anni fa per averla vissuta direttamente da giovane cronista. All’imbrunire il corteo di auto sulle quali sono stati divisi Giovanni Brusca, suo fratello Enzo e uno dei favoreggiatori, arrestati nell’Agrigentino, parte a forte velocità in direzione di Palermo. Alle porte della città, gli agenti che hanno in custodia l’assassino di Capaci decidono di deviare il percorso, allungano per una strada del centro, arrivano in via Notarbartolo e qui si fermano davanti all’albero Falcone, ricoperto da immagini delle vittime, da fiori e messaggi sui biglietti lasciati da migliaia di persone. Lo mostrano all’uomo che ha le mani bloccate dalle manette. E poi volano dritti alla Squadra mobile. Le prime due auto vengono accolte davanti alla questura da un tripudio di clacson e sirene. Ci sono cittadini che applaudono. Poliziotti con il volto coperto che agitano i mitra in aria dai finestrini delle auto, in segno di vittoria. Lo sfogo, legittimo e umanamente comprensibile, di chi ha lavorato a lungo alla ricerca di un assassino e adesso festeggia il risultato dello Stato che vince sui mafiosi. Nel cortile della palazzina della Squadra mobile c’è un folto gruppo di poliziotti che attende l’ingresso dell’auto. Sono agitati ma commossi. Pensano ai loro colleghi uccisi. Arriva un’auto, viene fatta entrare e bloccata nel cortile. Gli sportelli si aprono, scendono gli agenti in borghese che proteggono l’arrestato e in una frazione di secondo hanno addosso una decina di persone che provano ad afferrarlo, fino a quando, dopo meno di un minuto, si sente una voce urlare: “Unnè iddu! (non è lui, ndr)”. Tutti si fermano, si girano verso l’ingresso dove sta per entrare un’altra auto, pensano che l’assassino dei loro colleghi possa essere su questa vettura, la puntano e la scena violenta si ripete. Ma non è lui l’uomo stretto fra i poliziotti, è uno dei favoreggiatori. Dopo pochi minuti si fa largo tra la piccola folla di poliziotti un furgone scortato. E da qui scende ammanettato Giovanni Brusca. In quel momento i poliziotti di Palermo vedono in faccia l’uomo della strage, stretto fra gli agenti, e gli urlano contro scaricando rabbia e dolore. È una scena che traumatizza Brusca, come poi ricorderà. Nell’estate del 1996 inizia a fare dichiarazioni ai magistrati. All’inizio tenta una manovra per screditare l’antimafia e alcuni politici come Luciano Violante, ma questa azione viene smascherata. E fornisce una collaborazione più ampia: è il primo a rivelare “il papello” e la trattativa tra mafia e Stato nel 1992. Ma nel settembre 2010 scoprono che continua a gestire traffici e ricatti, proteggendo un tesoro accumulato con i crimini. Rischia di perdere i benefici e di essere retrocesso da “collaboratore” a “dichiarante”. Di fronte alla possibilità di vedere chiudersi le porte del carcere per sempre, senza più permessi e sconti di pena, sostiene di volere raccontare la seconda parte della sua storia criminale. Completando un quadro che era già stato in parte intercettato dalle microspie nella sua cella. Rompe il silenzio mirato a “non rendere dichiarazioni su persone che sono state “disponibili” con Cosa nostra”. E per paura di non riprendersi la libertà, si mostra davanti ai giudici con le lacrime agli occhi. È il 2013 e Giovanni Brusca piange di fronte alla corte d’Assise di Caltanissetta. Le lacrime scendono, non riesce a proseguire nel discorso. A 17 anni dal suo arresto, per la prima volta, chiede pubblicamente perdono ai familiari delle sue vittime. Lo fa ricordando di essere l’assassino di Falcone, degli agenti della scorta e di tanti altri “di cui non capivo il motivo per cui Cosa nostra e Riina ne decideva la morte. E continuo a non comprenderlo adesso… Sono stato un automa del male, perché credevo in Riina e per me Cosa nostra era una istituzione e la rispettavo”. Con le lacrime agli occhi aggiunge: “Ho fatto del male a tante famiglie, di giudici e altre persone, e ai loro familiari chiedo perdono”. Il boss torna al giorno del suo arresto che ricorda come un momento tremendo per la forte azione degli agenti: “Comprendo lo stato d’animo che avevano i poliziotti, ai quali non porto rancore. Avevo ucciso Falcone e gli uomini della scorta e quindi non mi aspettavo un trattamento particolare. Ho pensato che durante il blitz i poliziotti fossero arrivati per uccidermi. Per fortuna c’è un Dio: mi sono buttato a terra, perché se non fosse stato così non sarei qui”. L’inizio turbolento della collaborazione è quello che marchia la carriera da pentito di Brusca. “All’inizio ho commesso un errore, ma quando ho deciso di essere serio, privo dei rancori nei confronti di pentiti che erano miei ex nemici, ho iniziato a fare sul serio ma avevo la sensazione di un muro di gomma che veniva alzato dai magistrati perché quasi tutto quello che dicevo mi veniva rivolto contro”. E conclude: “Difficile è stato in passato il mio rapporto con alcuni pm. Ho dovuto riconquistare la fiducia di tutti grazie ai riscontri processuali che sono stati trovati alle mie dichiarazioni”. La data di fine pena era fissata per il prossimo 15 luglio, a poca distanza dalla ricorrenza della strage di Borsellino. Il ricalcolo fatto dai giudici di Milano ne ha anticipato la scarcerazione al 31 maggio. Brusca è l’unico collaboratore che ha scontato fino all’ultimo giorno la sua pena in carcere. Altri hanno goduto di arresti domiciliari o del ritorno direttamente in libertà, anche gli assassini come lui. In tanti dicono di provare sconcerto per questa scarcerazione, ma è conseguente ad una legge, ispirata da Falcone. È nelle regole. Questa liberazione anticipata deve però far riflettere su quello che accadrà nei prossimi undici mesi, quando l’ergastolo ostativo, come indicato dalla Corte costituzionale, verrà cancellato anche per i mafiosi che non collaborano, e allora inizieranno ad uscire dal carcere i killer, gli stragisti, i boss che mai si sono pentiti e che hanno già fatto 27 anni di galera. Torneranno liberi gli ergastolani come Giuseppe Graviano e Filippo Graviano, e guarderanno i loro “picciotti” con la spalvaderia che loro non sono “infami”, cioè non “tradiscono” e che quindi sono “uomini d’onore”, sui quali purtroppo potrebbe rinascere una nuova Cosa nostra, come lo è stata cinquant’anni fa con i Corleonesi. Su questo punto occorre che si rifletta. Nella speranza che qualcuno possa salvarci da questa nuova mostruosità. Riforma del Csm inefficace, le correnti continueranno a comandare di Armando Mannino Il Riformista, 13 giugno 2021 È stata pubblicata la relazione della Commissione ministeriale, costituita dalla ministra Cartabia e presieduta dal prof. Massimo Luciani, incaricata di predisporre le proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura (Csm). I suoi contenuti erano stati già oggetto di sommaria discussione nell’incontro svoltosi la settimana scorsa presso la commissione Giustizia della Camera dei deputati tra il ministro stesso e gli esponenti dei partiti di maggioranza. Tra queste proposte vi è anche quella di integrale sostituzione del sistema elettorale del Csm, trasfuso nel disegno di legge n. 2681 trasmesso alla Camera dei deputati dal precedente governo Conte e divenuto testo base per i lavori in corso nella Commissione giustizia della Camera: sistema elettorale che, se approvato, cristallizzerebbe la deteriore situazione attuale e renderebbe ancor più difficile il rinnovamento interno alla magistratura. Il sistema elettorale verso il quale si è orientata la Commissione Luciani è quello proporzionale con voto singolo trasferibile, oggetto a dire il vero del disegno di legge n. 2536, presentato alla Camera dei deputati dall’on. Costa (Azione) allo scopo di “ridimensionare le distorsioni legate al peso preponderante assunto dalle diverse correnti non solo nel momento per così dire genetico, cioè in sede di individuazione dei candidati destinati a concorrere per l’elezione, ma anche successivamente, nel quotidiano esercizio da parte dell’organo delle proprie attribuzioni costituzionali”. È opportuno sottolineare che, secondo lo stesso parlamentare, questo sistema elettorale non elimina il condizionamento di fatto esercitato dalle correnti sul Csm e sulle sue decisioni, né incide sulle conseguenti “distorsioni”, ma le riduce soltanto. Occorre quindi chiedersi se sia idoneo a risolvere la grave “degenerazione” dell’apparato giudiziario derivante dalla loro perniciosa influenza sul suo funzionamento. L’intento di “limitare”, e non di recidere alla radice, l’influenza delle correnti è recepito anche dalla Commissione Luciani e giustificato con l’esigenza di assicurare il massimo pluralismo della competizione elettorale, realizzato integrando quello associativo o correntizio con quello individuale dei singoli magistrati, ottenuto favorendo la partecipazione alla competizione elettorale del maggior numero possibile di candidature. La motivazione appare in effetti molto debole. Da un lato è infatti noto che da due decenni almeno le correnti non hanno nulla da spartire con il pluralismo di idee o culturale, essendosi trasformate in centri di potere clientelare e di carriera, che attraverso il controllo del Csm e dei suoi poteri di attribuzione degli uffici direttivi e di irrogare le sanzioni disciplinari, controllano di fatto tutto l’apparato giudiziario, condizionandone nel bene e nel male tutto il funzionamento. Questo tipo di pluralismo non può considerarsi positivo nell’ordinamento costituzionale ed è comunque opinione diffusa che non possa essere mantenuto, ma che debba essere estirpato. In secondo luogo l’ampliamento del pluralismo culturale non si realizza rendendo più facile la presentazione delle candidature, ma assicurando la presenza degli orientamenti minoritari all’interno del Csm: cosa che il sistema elettorale suggerito dalla Commissione Luciani non sembra consentire. Questa Commissione suggerisce di aumentare la composizione del Csm portando a venti i componenti togati e a dieci quelli di nomina parlamentare e di suddividere il territorio nazionale in cinque circoscrizioni: una relativa ai magistrati di legittimità, cui sarebbero assegnati due seggi; una riservata alla magistratura requirente e tre a quella giudicante. Il numero dei seggi attribuito a queste ultime circoscrizioni non è indicato, ma dovrebbero essere quattro o cinque ciascuna. Ogni elettore esprime più preferenze (non meno di tre, con la sola eccezione della circoscrizione di legittimità cui sono assegnati solo due seggi), ma preferibilmente in numero pari a quello dei seggi attribuiti alla circoscrizione, nei confronti di candidati indicati in ordine decrescente di gradimento. Se il primo candidato ottiene il quoziente - cioè il numero di voti necessari per l’elezione, risultante tendenzialmente dalla divisione del numero complessivo degli elettori del collegio per il numero dei seggi da assegnare - e viene eletto, i voti in eccesso, divenuti superflui al fine della sua elezione, vengono trasferiti, con un sistema abbastanza complesso ancora da definire, al candidato al secondo posto o se già eletto a quello successivo, fino all’esaurimento dei seggi. Questo sistema elettorale, adottato in pochissimi Paesi prevalentemente anglosassoni (Irlanda, Malta, Australia), è caratterizzato dal divieto di presentazione di liste di partito. Tende quindi a favorire la presentazione di candidature “spontanee” e indipendenti e a ridurre l’influenza dei partiti sugli eletti. Gli elettori, infatti, votano per i candidati e non per le liste, e possono scegliere anche candidati che hanno diversi orientamenti politici. Ma l’influenza dei partiti, nella specie delle correnti, sugli eletti non viene affatto esclusa. In via generale, infatti, ogni sistema elettorale nel rappresentare in un organo ristretto il corpo sociale sottostante ne recepisce e ribadisce le caratteristiche. La magistratura italiana è organizzata in associazioni diverse, presenti in tutti i distretti giudiziari, che come in passato continueranno a condizionare in modo informale il procedimento elettorale per consentire l’elezione dei propri candidati. Il divieto di presentazione delle liste non è sufficiente ad impedirlo, perché può essere facilmente aggirato. Nulla infatti impedisce alle correnti di selezionare i propri candidati, di pubblicizzarne i nominativi nelle diverse sedi giudiziarie e di invitare i propri iscritti e in generale tutti i magistrati a votarli. Non per caso sia la Commissione Luciani, sia l’on. Costa nella relazione introduttiva al ddl n.2536, precisano chiaramente che questo sistema elettorale limita soltanto, senza annullarla, l’influenza delle correnti sul funzionamento del Csm. Inefficace allo scopo di incentivare la presentazione delle candidature appare ancora la prospettata riduzione del numero delle firme necessarie, perché ciò che più conta a questo scopo è la prospettiva di conseguire l’elezione, di cui solo le correnti oggi possono rendere più o meno attendibile la realizzazione. La possibilità che candidati “indipendenti”, quindi non iscritti a una corrente, possano essere eletti appare infatti più teorica che reale, considerate le dimensioni delle circoscrizioni, a meno che non si tratti di personalità di acclarata notorietà. Queste possono essere certamente avvantaggiate dalla possibilità data al singolo elettore di scegliere, sia pure graduati tra loro, più candidati contemporaneamente. Occorre però chiedersi se sia più conveniente per loro affrontare una competizione elettorale confidando soltanto sulla propria notorietà, ma correndo al contempo il rischio di un insuccesso, o non piuttosto collegarsi a una corrente, nell’interesse oggettivo di entrambe le parti. Bisogna ancora domandarsi se l’elezione di un candidato indipendente sarebbe la regola o una semplice eccezione, in quanto tale poco rilevante rispetto al fine anche soltanto di limitare l’influenza delle correnti, tenuto anche presente che l’elezione degli altri candidati dipenderà principalmente dall’appoggio ottenuto dalla corrente di appartenenza, che ne condizionerà poi le decisioni. È invece pienamente condivisibile la conclusione della Commissione, che “non può fare a meno di richiamare l’attenzione su ciò che nessun intervento riformatore può avere successo senza un profondo rinnovamento culturale, del quale devono essere partecipi la politica, i mezzi di informazione, l’opinione pubblica e - soprattutto - la stessa magistratura. Non spetta alla Commissione indicarne la direzione, sebbene essa emerga con chiarezza già dal nitido disegno costituzionale della magistratura e dei suoi rapporti con gli altri poteri dello Stato, che deve costituire l’ineludibile paradigma di riferimento”. Questo profondo rinnovamento culturale non può essere affidato soltanto allo spontaneismo dei singoli individui, ma deve essere inserito in un complesso di regole, in un “sistema normativo” fondato sui valori costituzionali che ne impedisca la violazione. Solo in tal modo potrà essere superata la crisi in cui si dibatte la giustizia. Ma non sembra che vi sia ancora la consapevolezza sufficiente a livello politico-parlamentare per adottare le misure necessarie. Troppo marcio in magistratura, la Giustizia va commissariata di Francesco Viviano Quotidiano del Sud, 13 giugno 2021 Dopo certi scandali qualunque ente pubblico sarebbe commissariato, mentre i palazzi di giustizia ne escono indenni. Dopo le rivelazioni di Amara e Palamara, attesa per le dichiarazioni di Montante, ex vice di Confindustria. Se in una Asl, in un piccolo Comune, in una Regione, in una Provincia, in qualunque ente pubblico avvengono, accertate o sospettate, irregolarità, anche penali, che si fa? Vengono commissariati. Sono centinaia in Italia i Commissari di vari enti pubblici e privati, aziende piccole e grandi che vengono affidate ad amministratori giudiziari. Ma se tutte queste magagne, intrallazzi e anche reati penali accadono nei palazzi di giustizia, ma soprattutto al Consiglio superiore della magistratura, che succede? Niente o quasi. Qualche espulsione, qualche altro provvedimento disciplinare che quasi sempre viene aggirato con varie formule, molte con l’anticipata pensione dei magistrati coinvolti, nei confronti dei quali si interrompe la cosiddetta “azione disciplinare”. È vero che i “pannicelli sporchi” dovrebbero essere “puliti in famiglia”, ma quando è troppo e troppo. Ci sono interi palazzi di giustizia in Italia, con in testa il Consiglio superiore della magistratura, che sono stati sconvolti da scandali incredibili che, a memoria d’uomo, forse non hanno precedenti nella storia giudiziaria del nostro Paese, che dovrebbero essere “commissariati” come avviene per altri enti e istituzioni pubbliche e private. Ma il potere giudiziario, che costituzionalmente è indipendente dalla politica e spero che lo rimanga, non si deve toccare. Si fanno giustizia da soli, ma non vera giustizia. È una giustizia che fa acqua da tutte le parti e fino a quando non dimostreranno (il potere giudiziario) che possono fare pulizia da soli, l’indice di credibilità della magistratura, è purtroppo destinato a scendere ancora più in basso davanti a una opinione pubblica (soprattutto davanti alle persone oneste) a dir poco sconcertata e senza fiducia nei confronti di chi, invece, dovrebbe proteggerli. È chiaro che non si deve fare di tutta un’erba un fascio, perché ci sono molti magistrati che fanno coscienziosamente il proprio lavoro e il proprio dovere, spesso, come purtroppo è accaduto, anche a rischio della loro vita. E questa giustizia dovrebbe, proprio per onorare i propri caduti, impegnarsi a essere una giustizia giusta e vera. Qualche esempio? Per la verità sono molti e non c’è spazio in questa pagina per elencarli tutti, ma ci limitiamo agli ultimi avvenimenti provocati dal “duo” Luca Palamara, ex magistrato, componente del Csm (Consiglio superiore della magistratura) e dell’Anm (Associazione nazionale magistrati) e dall’avvocato Pietro Amara, ex legale dell’Eni e di tanti altri enti: con le loro dichiarazioni e rivelazioni, hanno svelato il marcio che esiste all’interno della magistratura (soprattutto dentro il Csm) deputata a difendere i cittadini onesti del nostro Paese. Luca Palamara è andato giù duro sull’amministrazione della Giustizia (in casi rarissimi è stato querelato) rivelando tra l’altro che anche l’attuale procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, lo contattò in una terrazza di un albergo romano per chiedere un sostegno per le proprie aspirazioni. E lui, Salvi, che ha fatto appena diventato procuratore generale della Cassazione? Ha emanato una circolare chiedendo di fatto una “amnistia” per i magistrati finiti nelle chat per aver brigato con l’ex leader dell’Anm. Sostenendo che “l’autopromozione non è un illecito”. Dove di fatto dice che chi ha chiesto una “raccomandazione” o “intervento” (come lui ndr) non ha commesso un reato e neanche un illecito disciplinare. Ma se lo fa il sottoscritto o qualunque altro cittadino normale, finisce quanto meno in carcere o ai domiciliari. La circolare ha fatto indispettire centinaia di magistrati che sarebbero al di fuori dei traffici di Palamara, che hanno chiesto a Salvi e ad altri magistrati coinvolti, di fare “chiarezza”. Ma ancora aspettano. Ma torniamo ai giorni nostri, a ieri e all’altro ieri, con tre palazzi di Giustizia letteralmente “in confusione”. Partiamo da quello di Milano, dove l’attuale procuratore, Francesco Greco, è subissato da scandali che non riescono a fermarsi. L’ultimo è quello dell’iniziativa della Procura di Brescia (competente per eventuali reati commessi da magistrati milanesi) che ha indagato tre magistrati. Il pm Paolo Storari (che, se posso permettermi, è una persona per bene, ma forse si è fidato dei suoi ex capi e colleghi) è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio per aver mostrato all’ex togato del Csm, Piercamillo Davigo, i verbali dell’ex avvocato dell’Eni Piero Amara. Con lui sono stati indagati i suoi colleghi Fabio de Pasquale e Sergio Spadaro per rifiuto di atti d’ufficio nell’ambito del processo Eni-Nigeria. Secondo l’ipotesi accusatoria, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro non avrebbero depositato un video che avrebbe potuto minare la credibilità di un testimone d’accusa e avrebbero depositato chat manomesse. In buona sostanza, i due magistrati avrebbero nascosto delle prove a favore degli imputati del processo Eni che sono stati tutti assolti, anche per questa ragione. Perché Pietro Amara aveva registrato di nascosto una conversazione con un testimone del processo Eni che confessava che le sue accuse non erano veritiere. Tutta questa storia è adesso nelle mani del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che è, purtroppo o per fortuna, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei tre magistrati indagati da Brescia. Indagini, quelle di Brescia, che potrebbero influire sulla nomina del nuovo Procuratore di Milano dove sono in corsa il pm romano Paolo Ielo e il milanese Maurizio Romanelli. Ma in corsa c’è anche un altro magistrato, Nicola Gratteri, percepito, come ha detto qualcuno, come il “papa straniero” e indipendente dalle dinamiche correntizie, quindi al di fuori del “sistema” di Luca Palamara e dell’avvocato Pietro Amara. E, proprio per questa ragione, sarà difficile che Gratteri possa essere nominato, salvo cambi di fronte dell’ultimo momento, come spesso accade per rifarsi una verginità. L’altro caso spinoso per la magistratura e per il Csm è il “caso Verbania”, dove il Gip che aveva scarcerato alcuni degli indagati per la strage della funivia del Mottarone (una decina di morti) è stata scippata del fascicolo d’indagine affidato a un’altra collega. Una scelta molto discutibile, perché è stata interpretata come una scelta garantista che non è andata a genio ai pm che indagano sulla vicenda. E quindi si è aperto un grande scontro sul quale sono intervenuti, a ragione, due componenti del Csm, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, provocando anche la protesta degli avvocati della difesa che hanno annunciato uno sciopero, con l’Unione delle Camere penali che torna a chiedere la separazione delle carriere in magistratura. Insomma, il fascicolo è stato tolto a un gip e assegnato a un altro che non se n’era potuto occupare perché oberato di lavoro e che, improvvisamente, adesso se ne può occupare perché con una bacchetta magica avrebbe smaltito il lavoro pregresso. Miracoli della giustizia, anzi della magistratura. E, come detto, la lista è lunga, ma ricordiamo l’ultimo scandalo, quello del palazzo di giustizia di Taranto e anche quello di Trani che ha visto coinvolto l’ex procuratore Carlo Mario Capristo, sottoposto all’obbligo di dimora su decisione della Procura di Potenza. La stessa ha anche disposto misure cautelari nei confronti dell’avvocato siciliano Pietro Amara (carcere), dell’avvocato di Trani, Giacomo Ragno (arresti domiciliari), del poliziotto Filippo Paradiso (carcere), e dell’ex consulente di Ilva in amministrazione straordinaria, Nicola Nicoletti (domiciliari). L’inchiesta verte su un presunto scambio di favori nell’ambito di procedimenti per l’ex Ilva, con il procuratore Capristo che, secondo l’ accusa, “ha venduto la sua funzione giudiziaria”. La Procura di Potenza, guidata da Francesco Curcio, dice che “Capristo stabilmente vendeva ad Amara e Nicoletti, la propria funzione giudiziaria, sia presso la Procura di Trani (a favore del solo Amara) che presso la Procura di Taranto (a favore di Amara e Nicoletti) svolgendo, in tale contesto, Paradiso, funzione d’intermediario presso Capristo per conto e nell’interesse di Amara”. Un Amara che aveva sponsorizzato e ottenuto la nomina di Capristo a Procuratore della Repubblica di Taranto. Ne volete ancora? Sì, forse un’ultima chicca. Ieri Antonello Montante, ex vicepresidente di Confindustria ed ex paladino dell’Antimafia, già condannato, ha parlato in aula a Caltanissetta. I giornalisti non sono stati ammessi. Ma credetemi, se Montante parlasse, Amara e Palamara, sarebbero dei dilettanti perché Montante potrebbe sconvolgere più di loro, gli apparati giudiziari e istituzionali. Staremo a vedere. L’avvocato Naso: “La politica abbia la schiena dritta contro lo strapotere della magistratura” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 giugno 2021 Intervista all’avvocato Giosuè Bruno Naso su referendum, politica, magistratura, riforma della giustizia, commissione Lattanzi e informazione. L’avvocato Giosuè Bruno Naso frequenta le aule di tribunale dal 1971. È stato difensore di Erich Priebke, di Massimo Carminati, ma lo abbiamo ascoltato anche nel processo Cucchi e in quello a carico di alcuni esponenti della famiglia Casamonica. Massimo Bordin gli dedicò anche un commento sul Foglio dal titolo ‘ Lo stile dell’avvocato Naso’ che “è da processo politico, secondo un antico e famoso testo di Jacques Verges, pubblicato da Einaudi, anche se le idee politiche del penalista romano credo siano agli antipodi del mitico “avvocato del Diavolo”“. Avvocato, qual è il suo parere sull’iniziativa referendaria promossa dal Partito Radicale e dalla Lega? Sono assolutamente favorevole a questo strumento, lo sono stato fin dagli anni 70, dai primi referendum promossi dal Partito Radicale. Resto basito quando qualcuno, anche tra coloro che rivestono ruoli istituzionali e di responsabilità politica, nutre dubbi sulla legittimità e utilità del referendum che conferisce in maniera più diretta e genuina al popolo, nel nome del quale la legge viene esercitata, il compito di interloquire su temi di tale delicatezza. Forse qualcuno teme i risultati dell’appuntamento referendario. Uno dei quesiti più osteggiati dalla magistratura è quello sulla separazione delle carriere. La mancata attuazione di quello che è un principio costituzionale ha determinato l’involuzione culturale nell’esercizio della giurisdizione penale. Si è sostenuto da parte dei magistrati che la separazione delle carriere sarebbe un fattore negativo perché trasformerebbe il pm in un poliziotto specializzato. La pratica invece ci dice il contrario: il pm è diventato il regista assoluto e incontrastato del processo e abbiamo assistito alla trasformazione culturale del giudice in un poliziotto. Tranne qualche giudice che suo malgrado conserva principi di autonomia e di indipendenza di giudizio, una buona parte, soprattutto tra i gip e gup, si appiattisce sulle posizioni del pm; anche per pigrizia, perché è più comodo lavorare adeguandosi al lavoro fatto da altri. È chiaro che la magistratura non vuole questa riforma. Ma allora la politica? Noi avvocati vediamo nella separazione delle carriere un esercizio di purificazione e di laicismo culturale della giurisdizione. La politica invece è scesa a patti con questo enorme potere della magistratura: durante gli anni del terrorismo, quando ogni giorno si uccidevano magistrati, poliziotti, giornalisti, la politica non ha perso la testa e non si è piegata alla cultura emergenziale, nonostante il ricorso a leggi abbastanza limitative della libertà personale. Quello che invece è avvenuto da Mani Pulite in poi è ciò che ha dato il colpo mortale alla cultura della giurisdizione. Una parte preponderante ha delegato alla magistratura l’esercizio anche di potestà politica, amministrativa ma soprattutto il compito di neutralizzare gli avversari politici. Da quel momento è stato un piano inclinato, una deriva incontrollata fino alle situazioni di oggi: magistrati intercettati, inquisiti, coinvolti in inchieste di mera criminalità economica o corruzione. Noi avvocati non ci compiacciamo di questo. Al contrario: nell’autonomia e autorevolezza del giudice troviamo gli strumenti che garantiscono l’esercizio della nostra attività professionale. Il quadro che lei descrive porta ad un paradosso: la magistratura più involve e più ostacola le riforme. No alla separazione delle carriere, no a serie valutazioni di professionalità, no agli avvocati nei Consigli giudiziari, no ad una radicale riforma del Csm. Torno alla domanda di prima: la politica si prenderà la responsabilità di cambiare le cose? La politica deve dare un colpo di coda, deve drizzare la schiena che per troppi lustri ha piegato intimidita, impaurita e anche in parte ricattata per i propri difetti e vizi, terreno fertile per lo strapotere della magistratura. Detto questo, ora la politica si deve riappropriare della propria funzione: i magistrati applicano le leggi che il Parlamento promulga. Non si può più consentire che alcune leggi vengano messe nel nulla attraverso interpretazioni giurisprudenziali. Attribuisco delle responsabilità anche al ruolo svolto dalla Cassazione che, vuoi per miopia, vuoi a volte per condivisione di certe posizioni ideologiche o politiche, ha acconsentito a interpretazioni della legge che sono palesemente distorsive e che erano finalizzate a cristallizzare determinate situazioni. L’equivoco di fondo di una gran parte dei magistrati è quello di credere di essere pagati per fare giustizia, invece lo sono per applicare la legge. Quello che dovrebbe prevalere è il principio di legalità, il rispetto sacrale delle regole del gioco. Un esempio: la prova di un reato è contenuta in una intercettazione telefonica, che però non è stata autorizzata, è illegittima. Di conseguenza non è utilizzabile: il buon giudice di conseguenza deve assolvere l’imputato, pur sapendo che è colpevole. Inoltre, c’è una tendenza dei magistrati a contrastare i fenomeni sociali e non a giudicare singoli casi... Ormai si giudicano le persone non per quel che hanno fatto, ma per quello che sono o per quello che si ritenga siano. Le faccio un esempio: si vuole individuare nella famiglia Casamonica una associazione di stampo mafioso. I pm, nel processo che si sta celebrando dinanzi la Tribunale di Roma, non indicano gli imputati con il loro nome, dicono spessissimo “i Casamonica”, che vengono così criminalizzati in quanto tali. Ricordo ancora il suo scontro a La7 con Gianluigi Nuzzi in merito a Mafia Capitale. Purtroppo non è stato più invitato... È colpa anche di voi giornalisti che non volete sentire voci scomode e non omologate. A proposito di mafia voglio parteciparle un piccolo orgoglio personale: oggi tutti si scandalizzano di quello che sta emergendo all’interno del Csm. Giugno 2016 - può risentire tutto su Radio Radicale - nella mia prima arringa nel processo Mafia Capitale polemizzavo con il dottor Pignatone che è venuto a Roma pensando che fosse una grande Reggio Calabria e per fortuna non lo è. Dissi: invece che le associazioni di stampo mafioso, il dottor Pignatone ha portato a Roma la cultura mafiosa che alligna persino al Csm. E spiegai: la mafia è caratterizzata dal familismo e dal controllo del territorio. Cosa c’è al Csm? Il familismo attraverso le correnti, il controllo del territorio attraverso la spartizione degli incarichi direttivi. Incredibilmente si trova d’accordo con il consigliere Nino Di Matteo che parlò di metodo “mafioso” utilizzato nelle nomine... Perché no, se dice una cosa che io condivido? Una ultima considerazione sui lavori della Commissione Lattanzi, in particolare sulla riforma dell’appello... I lavori della Commissione Lattanzi sono altra cosa rispetto a quello che si è visto negli ultimi anni partorire da parte del ministero della Giustizia. Lattanzi è stato un grande magistrato e un raffinato cultore del diritto penale. L’appello del pm contro le assoluzioni era stato abolito e poi ripristinato per via giudiziaria, attraverso un intervento abrogativo della Corte Costituzionale. Purtroppo anche la Consulta talvolta è andata al di là di quelli che sono i suoi compiti: si è mostrata molto più sensibile alle istanze della magistratura requirente, rispetto a quella che era stata l’impostazione parlamentare. C’è una riflessione banalissima per cui non si può consentire l’appello al pm: un giudice di primo grado, all’esito della raccolta delle prove, ha stabilito che l’imputato non è colpevole o almeno ha nutrito un dubbio ragionevole, che è espressione di un principio costituzionale, sulla responsabilità dell’imputato. Basta questo per non consentire l’appello del pm. Il giudice di secondo grado potrebbe arrivare ad una decisione opposta. Avremmo una assoluzione e una condanna. Ma in dubio pro reo! Invece per quanto riguarda la riforma dell’appello per noi difensori, sono molto preoccupato: da un lato in Cassazione i nostri ricorsi sono dichiarati inammissibili perché avremmo sconfinato nel merito ma poi ci vorrebbero privare dell’Appello proprio in una fase di pieno merito. Non possono confinarci nell’angolo. La riforma del civile limita il diritto di difesa e crea una giustizia di serie A e B di Antonio De Notaristefani Il Domani, 13 giugno 2021 Aumentare le competenze dei giudici di pace, che già sono pochi, significa creare una giustizia di serie A, riservata a coloro che si rivolgeranno ai Tribunali, ed una di serie B, dinnanzi a quei giudici di pace che sono sovraccarichi, e non hanno il supporto della informatica. La Commissione ministeriale Luiso aveva detto che introdurre preclusioni sin dagli atti introduttivi, nelle cause complesse, riduce anche la efficienza (oltre le garanzie) ma il Ministero lo vuol fare lo stesso. Nel merito, quell’emendamento è sbagliato, perché riduce il diritto di difesa, ed allunga i tempi della giustizia. Egualmente inaccettabile è l’idea ricorrente di introdurre sanzioni: se scrive gli atti “male”, se fa cause ritenute da un giudice temerarie, se non presta acquiescenza alla anticipazione di una decisione sfavorevole. La pretesa punitiva dello Stato viene estesa dal penale al civile. Nella più famosa delle sue “Prediche inutili”, Einaudi aveva rivolto tre esortazioni al Legislatore: “Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare”. Quando non si fa così, proseguiva, “le leggi frettolose partoriscono nuove leggi, intese ad emendare, a perfezionare; ma le nuove, essendo dettate dall’urgenza di rimediare a difetti propri di quelle mal studiate, sono inapplicabili, se non a costo di sotterfugi, e fa d’uopo perfezionarle ancora...”. Partiamo quindi dai numeri, presi dalla relazione del primo presidente per l’inaugurazione dell’anno 2021: A) in Tribunale, pendono n. 2.015.188 giudizi; dinanzi al giudice di pace, 858.874; B) la durata media in Tribunale è di 348 giorni; dai giudici di pace, di 327; Questi essendo i numeri, mi pare che la conclusione sia evidente: ci sono pochi giudici togati, e pochi giudici di pace. E quindi aumentare le competenze, per materia o valore, di questi ultimi, significa soltanto trasferire arretrato dagli uni agli altri. Significa creare una giustizia di serie A, riservata a coloro che si rivolgeranno ai Tribunali, ed una di serie B, dinnanzi a quei giudici di pace che sono sovraccarichi, e non hanno il supporto della informatica. Si dirà: ma il riparto di competenza per valore assicurerà che alla giustizia di serie A vadano le cause “importanti”. Rispondo citando il manuale del Presidente della Commissione che quella riforma ha proposto, Prof. Francesco Paolo Luiso: “Contro tale criterio sono state sollevate diverse critiche, probabilmente fondate, perché effettivamente il valore delle controversie non è un criterio razionale per determinare la competenza”. Passiamo al giudizio ordinario di cognizione. La Commissione Luiso aveva presentato due diverse proposte, una delle quali - quella contraddistinta dalla lettera A - una sua razionalità ce l’aveva. Circola un testo di emendamento diverso e quindi evidentemente il Ministero le ha bocciate tutti e due. Non si è trattato di preferire la efficienza alla equità, che sarebbe stata una scelta politica, e non tecnica: la Commissione aveva detto che introdurre preclusioni sin dagli atti introduttivi, nelle cause complesse, riduce anche la efficienza (oltre le garanzie) ma il Ministero lo vuol fare lo stesso. Finisce sempre così: si nominano Commissari illustri, che formulano proposte anche ragionevoli; quelle proposte entrano nell’Ufficio legislativo, saldamente presidiato da Magistrati fuori ruolo, e ne escono stravolte: perché? Perché quelle due ipotesi della Commissione Luiso, prima di finire alle ortiche, non sono state sottoposte al dibattito tra gli addetti ai lavori, come suggeriva di fare il mai abbastanza compianto Presidente Einaudi? Confesso che non l’ho capito. E per questo il dibattito lo abbiamo aperto noi delle Camere civili, il 7 giugno. Nel merito, quell’emendamento è sbagliato, perché riduce il diritto di difesa, ed allunga i tempi della giustizia nel suo complesso. Esso vorrebbe “realizzare una maggiore concentrazione delle attività nell’ambito della prima udienza di comparizione delle parti e di trattazione della causa” A questo fine: 1) domande e prove devono essere contenute tutte negli atti introduttivi; 2) alla prima udienza, l’attore potrà replicare al convenuto “anche proponendo domande ed eccezioni che siano conseguenze delle difese svolte dal convenuto, nonché il diritto di entrambe le parti ad articolare i necessari e conseguenti mezzi istruttori”. Anche ammesso che non si sprechino migliaia di sentenze per stabilire quando la modifica di una domanda è conseguenza di una difesa altrui, e quando no, e tralasciando la difficoltà obiettiva di replicare immediatamente a domande, eccezioni e nuove prove articolate in quella stessa udienza, è l’impianto che non va, non solo la possibilità di qualche inconveniente pratico. Limitare la facoltà delle parti di modificare le domande o eccezioni ai soli casi in cui la modifica sia conseguenza delle difese della controparte comprime i diritti dei cittadini, e nello stesso tempo moltiplica i processi, e quindi rallenta la giustizia nel suo complessivo funzionamento. Ridurre il cd. “deducibile”, infatti, significa restringere i limiti oggettivi del giudicato; e dunque le parti potrebbero dedurre in un secondo processo quello che era vietato allegare nel primo. È per evitare questo, che le Sezioni Unite (sentenza 12310/2015) hanno sancito che per ogni rapporto in contestazione dovesse esserci un processo soltanto, e perciò hanno consentito di “modificare” senza limiti le domande, nella dichiarata convinzione che facendo così i tempi della giustizia si riducano: per loro, per tutti i Relatori che hanno preso parte al confronto organizzato dalle Camere civili, e per noi, le preclusioni immediate pregiudicano nello stesso tempo la equità e la efficienza dei processi. Egualmente inaccettabile è l’idea ricorrente di introdurre sanzioni per chi dovesse sbagliare: se scrive gli atti “male”, se fa cause ritenute da un giudice temerarie - il che non significa necessariamente che lo siano - se non presta acquiescenza alla anticipazione di una decisione sfavorevole. La pretesa punitiva dello Stato viene estesa dal penale al civile, e questo non è ragionevole. L’errore umano è inevitabile, quando si parla di due milioni di cause ogni anno; è per questo che esistono le impugnazioni. Ed è per questo che non è condivisibile ipotizzare che chiunque sbagli debba essere severamente punito. La norma dell’art. 96 cpc, nella sua struttura originaria, serviva a ristorare eventuali danni provocati da una iniziativa giudiziaria, e ad affidarne la liquidazione al giudice chiamato a deciderla, non a comminare sanzioni. Un ultimo cenno, prima di concludere, alla estensione della media conciliazione. Gli incentivi fiscali proclamati a gran voce, per ora, non ci sono. Forse ci saranno, e saranno riconosciuti (secondo l’articolato contenuto nella proposta della Commissione Luiso) “in relazione ai procedimenti conclusi…in misura proporzionale alle risorse stanziate”. Auguri. Molte ombre e poche luci, quindi; la verità, è che aveva ragione il Presidente Einaudi: prima di deliberare, bisognerebbe discutere. Speriamo che da oggi in poi accada davvero. Eni, Ilva e magistrati cosa resta dei veri depistaggi di Stefano Feltri Il Domani, 13 giugno 2021 Oggi i due pm dell’accusa del processo Eni-Nigeria sono indagati per non aver prodotto subito un video girato nel 2014, di nascosto, dal misterioso avvocato Amara. Proprio l’avvocato, però, è l’unico depistatore certo: nuove carte ricostruiscono le sue manovre. Piero Amara sarà pure agli arresti, come chiesto dalla procura di Potenza, ma questa è l’unica cosa che (forse) non si augurava, tutto il resto ha preso la piega che da anni auspicava. Dopo aver provato per anni a depistare il processo a Milano per corruzione internazionale che vedeva accusata l’Eni e i suoi manager, oggi Amara vede non solo l’azienda assolta ma i pm sbeffeggiati dai giudici nella sentenza e due di loro pure indagati per aver omesso dalla documentazione processuale un video che lui stesso aveva girato nel 2014 e che mette in dubbio la credibilità di Vincenzo Armanna, accusatore - a fasi alterne - dei vertici Eni. Quello che sta succedendo a Milano, però, va incrociato con quanto ricostruito dall’ordinanza di arresto di Amara a Potenza per capire cosa resta dei depistaggi di questi anni. Partiamo però prima da Milano. Il 28 luglio 2014 Amara registra di nascosto un incontro nella sede del gruppo di Enzo Bigotti, imprenditore vicino a Denis Verdini, con Vincenzo Armanna, Paolo Quinto, collaboratore dell’allora senatrice Pd Anna Finocchiaro, e Andrea Peruzy, vicino a Massimo D’Alema. In quella fase Armanna è un rancoroso ex manager Eni, appena licenziato per scorrettezze rilevanti sulle spese. Da poco è iniziata l’inchiesta della procura di Milano sull’acquisto nel 2010 del giacimento in Nigeria OPL245, seguita a lungo da Armanna sul posto: l’Eni e Shell hanno pagato al governo nigeriano oltre un miliardo di dollari che poi è finito in gran parte nelle tasche di politici nigeriani, non un euro è andato allo stato. I pm pensano sia corruzione internazionale e cercano anche mazzette di ritorno a manager Eni (le troveranno solo per Armanna, 1,2 milioni). Il tribunale, poche settimane fa, ha accolto la tesi difensiva dell’Eni: operazione legittima, Eni ha trattato col governo senza essere parte di uno schema corruttivo. Armanna, in quel video del 2014, parla di affari in Nigeria, dice di voler mettere le mani sul “50 per cento delle raffinerie dell’Eni”, vede come ostacoli due manager del gruppo: Ciro Antonio Pagano e Donatella Ranco. Armanna evoca “una valanga di merda che io faccio arrivare”, parla di far consegnare “un avviso di garanzia a Pagano”. Sembra, insomma, che Armanna intenda abusare del suo ruolo di indagato e accusatore nel processo Nigeria per regolare conti personali. Pagano sarà indagato molto tempo dopo, da una posizione marginale, e prosciolto, Donatella Ranco non è mai stata indagata. Armanna non parla dell’ad di Eni Claudio Descalzi e neppure della vicenda OPL245, ma nelle polemiche seguite alla assoluzione nel processo principale, e pure secondo i giudici che hanno esteso la sentenza, i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno nascosto il video di Armanna perché minava la credibilità di Armanna come accusatore. Un possibile reato per il quale ora sono indagati a Brescia. Il video nel processo in realtà ci è entrato da tempo, nel luglio 2019, portato dai difensori di Roberto Casula, altro manager dell’Eni nigeriana sotto accusa in quel momento. Quel video non era stato acquisito nelle indagini di De Pasquale e Spadaro, ma in quelle parallele sul depistaggio di Amara, De Pasquale e Spadaro ne erano a conoscenza ma si sono limitati a dire che per acquisirlo bisognava chiedere ai pm titolari del fascicolo. Certo, dal punto di vista di De Pasquale e Spadaro non c’erano grandi incentivi a usarlo: Armanna parlava di altre vicende, ma dimostrava - come ha fatto in mille altre occasioni - di essere un personaggio incline a manipolare la realtà e le dichiarazioni a seconda delle sue esigenze. Come riportato da Gianni Barbacetto sul Fatto Quotidiano, De Pasquale spiega in aula nell’udienza del 23 luglio del 2020 perché considerava il video irrilevante: tra l’altro, perché Amara sosteneva di averlo girato su mandato dell’Eni per incastrare Armanna, all’epoca nella fase delle accuse a Descalzi. Queste le parole di De Pasquale: “Amara dice che aveva avuto l’incarico di registrarlo qualora Armanna dicesse qualcosa di utile per incastrarlo… Detto questo, non ho nessuna difficoltà al deposito, però non posso giuridicamente farlo senza avere il consenso dei colleghi che stanno gestendo quell’indagine”. Tuttavia i giudici di primo grado nelle motivazioni della sentenza di assoluzione considerano il video un elemento rilevante e che avrebbe dovuto essere portato all’attenzione della corte. Nella sentenza scrivono che “risulta incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell’auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati” e che la decisione dei pm, “se portata a compimento, avrebbe avuto quale effetto la sottrazione alla conoscenza delle difese e del Tribunale di un dato processuale di estrema rilevanza”. Se il comportamento di De Pasquale ha sollevato molte polemiche, nessuno ha commentato quello di Eni che non sembra indicare la convinzione che il video fosse decisivo ai fini del processo. Eni ottiene il video già a febbraio 2018, dalla difesa del suo dirigente Massimo Mantovani. Eppure, l’azienda che avrebbe in mano la prova regina, non la usa. E quando viene finalmente acquisito nel processo Nigeria, oltre un anno dopo, Eni rinuncia a contro-interrogare Armanna in aula, anche se aveva l’occasione di minarne la credibilità definitivamente. Comunque, tutto è bene quel che finisce bene per l’Eni: la sentenza di primo grado del tribunale di Milano nega la corruzione internazionale in modo così assertivo che le dichiarazioni di Armanna, tanto care ai pm, poco spostavano. In estrema sintesi, i giudici dicono che anche se una parte di quei soldi sono diventati effettivamente qualcosa che assomiglia molto a mazzette dopo che l’Eni aveva pagato (quasi mezzo miliardo cambiato in contati), non c’è evidenza di un accordo esplicito tra le parti coinvolte e neppure degli atti contrari ai doveri di ufficio di un pubblico ufficiale. C’è, in pratica, una lettura plausibile degli eventi nella quale le pratiche contestate dai pm di Milano sono perfettamente legittime. L’Eni sarebbe quindi vittima di uno dei più clamorosi abbagli giudiziari della storia e dell’azione di due pm scorretti che hanno tentato - senza peraltro riuscirci - di escludere dal processo prove cruciali che minavano la credibilità di uno degli accusatori dei vertici, Armanna. La nota stonata in questa narrazione è che nel processo Nigeria sono state escluse anche le evidenze che dimostrano invece un tentativo di depistaggio acclarato di cui l’Eni era la beneficiaria - inconsapevole e addirittura parte offesa, ribadisce l’azienda in ogni occasione - orchestrato però da persone pagate da Eni, a cominciare dal solito Amara. Vale la pena quindi di ripercorrere quello che emerge dall’ordinanza del giudice di Potenza che convalida le richieste di arresto nei confronti di Amara e altri. Il 23 gennaio 2015, quindi pochi mesi dopo aver registrato il video che dovrebbe servire a compromettere Armanna, Amara consegna al suo amico e sodale Carlo Maria Capristo, procuratore capo di Trani ora arrestato per la seconda volta, un esposto “anonimo” pieno di accuse inventate: un improbabile complotto contro Claudio Descalzi, ordito, tra gli altri, dai consiglieri di amministrazione Lugi Zingales e Karina Litvack che in quella fase stavano facendo domande sgradite proprio sul dossier Nigeria. Nulla si sa in pubblico di quella patacca di Amara, le prime notizie filtreranno il 10 luglio 2015 quando sempre Amara fa scrivere un articolo ad Agir, un’agenzia di stampa. Uno degli obiettivi di Amara è far aprire a Capristo una indagine specchio di quella di Milano, sul finto complotto, che permetta di accedere agli atti di quella principale. Stando a quello che dichiara Amara a verbale nel 2018, era una sua iniziativa per accreditarsi con i vertici dell’Eni, azienda con la quale lavorava da anni, e ottenere l’incarico a seguire l’indagine fittizia che stava facendo aprire all’amico Capristo. La cosa all’inizio sembra funzionare: con tempi fulminei per la giustizia italiana, il 20 febbraio Capristo chiede all’Eni nientemeno che tutti i verbali dei consigli di amministrazioni, documenti molto sensibili per una società quotata. Sta iniziando l’operazione per sabotare il processo Nigeria da Trani. Pochi giorni dopo Amara ha già organizzato un incontro a Trani con gli avvocati interni dell’Eni, il capo dell’ufficio legale Massimo Mantovani e il responsabile del penale, Vincenzo Larocca, che arrivano per discutere del dossier anonimo sul complotto. C’è un intoppo nel piano di Amara: Larocca chiede che la questione Trani venga affidata ad Amara. Ma Mantovani si oppone e l’incarico va al famoso penalista Carlo Federico Grosso (poi scomparso) per una questione di “standing”. Qui succede una delle tante cose assurde della storia. Se Amara ha montato tutto il finto complotto per ottenere l’incarico di occuparsene da Eni, dopo che il piano è fallito dovrebbe disinteressarsene. Invece no, Amara continua a trafficare ed Eni, che pure ha ritenuto di tenerlo a distanza dall’affare Trani, continua ad avere rapporti con lui e a stipendiarlo per centinaia di migliaia di euro in vari procedimenti legali. A maggio 2015 il professor Grosso, Mantovani e Larocca atterrano a Bari, diretti a Trani e trovano ad aspettarli Amara in persona. “Sono certo che fu lo stesso Larocca a informare Amara del nostro arrivo”, dice Mantovani a verbale nel 2021, perché Larocca “non voleva escluderlo del tutto” dall’affare Trani. Ma niente da fare, l’affare Trani non genera consulenze. Ma Amara, che pure formalmente sarebbe stato scaricato dall’Eni sul finto complotto, continua a industriarsi e addirittura rilancia. Quando capisce che a Trani non si va da nessuna parte, per la resistenza di alcuni pm e della polizia giudiziaria ad approfondire l’indagine patacca, riesce a spostare il suo depistaggio sul caso Eni a Siracusa, dove può contare su un altro pm, Giancarlo Longo (che poi ha patteggiato una pena per corruzione). A Siracusa Amara diventa più creativo: invece che scrivere un “esposto” anonimo, attiva le indagini sul falso complotto Eni per sabotare il processo Nigeria di Milano con un testimone che si presta a raccontare un sequestro di persona mai avvenuto connesso al grande complotto contro Descalzi. Longo si autoassegna il fascicolo e lo usa per accedere ad altre informazioni sensibili: a gennaio 2016, per esempio, riesce a farsi consegnare da Eni tutte le mail interne che riguardano le segnalazioni di presunti illeciti commessi dai manager Eni sul caso Nigeria. Poi, con una mossa mai vista prima nella cronaca giudiziaria, manda un avviso di garanzia ai consiglieri scomodi Zingales e Litvack contestando la diffamazione prima che il soggetto diffamato sporga denuncia e prima che il diffamatore diffami. Il diffamato, cioè l’Eni, non poteva denunciare perché niente era uscito sui giornali: le prime notizie divulgate sul presunto complotto riguardano proprio l’inchiesta di Longo, su una diffamazione che mai si è consumata. Eni continua a pagare - Nonostante i traffici di Trani fossero ben conosciuti dall’Eni, l’azienda guidata da Claudio Descalzi si libera di Amara? Assolutamente no. Racconta Vincenzo Armanna, la cui attendibilità è sempre scarsa, che Amara nel 2016 gli propone di rivedere le sue accuse al processo Nigeria in un patto con il numero tre del gruppo, Claudio Granata. L’Eni smentisce tutto. Anche ignorando l’opaco Armanna, l’ordinanza della gip di Potenza chiarisce che nel 2016 quattro diverse società del gruppo Eni pagano comunque compensi rilevanti ad Amara per un totale di 533mila euro. Nel 2017 ne ottiene altri 230.000. L’azienda ha sempre spiegato che Amara difendeva singoli manager del gruppo, perché Eni si avvale spesso di legali esterni, nessuna connessione con i traffici illeciti dell’avvocato. Resta il fatto che Amara continuava a essere nel giro di Eni nonostante le sue strane manovre fossero ben note ai vertici dell’azienda. E non soltanto sul fronte Nigeria. Obiettivo Ilva - Mentre Amara traffica a Siracusa, si adopera anche perché il suo amico Carlo Maria Capristo passi dalla procura di Trani alla guida di quella di Taranto. Amara muove tutta la sua rete che, tramite il misterioso ex poliziotto Filippo Paradiso, riesce a far arrivare la richiesta anche a Maria Elisabetta Alberti Casellati, all’epoca membro del Csm e oggi presidente del Senato. Anche l’ex ministro del Pd Francesco Boccia, pugliese, si informa della nomina. A marzo 2016 il Csm vota all’unanimità e Capristo va a Taranto. Un attimo dopo pure Amara inizia a occuparsi di Taranto e del processo più sensibile in città: l’inchiesta Ambiente Svenduto sull’Ilva. Capristo si dimostra subito favorevole a un’ipotesi di patteggiamento che, in estrema sintesi, avrebbe preservato l’attività degli stabilimenti e limitato le conseguenze penali per gli azionisti, la famiglia Riva (il predecessore di Capristo, Franco Sebastio, si era sempre opposto). Amara punta probabilmente ad accreditarsi con la famiglia Riva come uno che può far andare le cose nel verso giusto e il primo passo è ottenere una consulenza dall’Ilva, in quel momento in gestione commissariale e affidata al commercialista Enrico Laghi (oggi ad Atlantia dei Benetton). Nel 2020, già fuori da Eni, l’ex responsabile degli affari penali del gruppo petrolifero Larocca racconta di aver partecipato a una cena per festeggiare la nomina di Capristo a Roma, organizzata da Amara, a inizio 2016. Lì, oltre a Capristo, c’era Nicola Nicoletti, manager della società di consulenza Pwc, già consulente di Eni, e in quel momento consulente dell’Ilva su cui Capristo avrebbe dovuto indagare. A Taranto si replica lo schema di Trani. Vari testimoni raccontano che Nicoletti si dà subito da fare per assegnare incarichi ad Amara nel processo Ilva, come intermediario con Capristo. Chi glieli dia non è chiaro: il commissario Laghi nega di averlo ordinato lui, ma Amara viene comunque pagato dall’Ilva 60.000 euro nel 2016 e 30.000 nel 2017. Stando all’ordinanza di arresto di Potenza, questi contratti vengono approvati - da chi? - violando le norme che il comitato di sorveglianza doveva far rispettare. E in quel comitato c’era uno che Amara lo conosceva bene, cioè il solito Massimo Mantovani, in quel momento sempre responsabile degli affari legali dell’Eni. Mantovani nega di aver approvato la consulenza ad Amara che però viene deliberata dal comitato di sorveglianza a giugno e poi a settembre 2016. Capristo poi viene arrestato una prima volta a maggio 2019 con l’accusa di aver provato ad aggiustare un processo a Trani in tutt’altre vicende, poi gli viene imposto l’obbligo di dimora nei giorni scorsi, sempre dalla procura di Potenza che considera corruttivi i suoi rapporti con Amara. In mezzo c’è la condanna a secoli di carcere per tutti gli imputati nel processo Ambiente svenduto. L’eredità avvelenata - A Milano, invece, il depistaggio di Amara continua a far danni: le sue manovre per il finto complotto non sono entrate nel processo principale su Eni e Nigeria, anche se quello volevano influenzare, però hanno contribuito a creare una nebbia di false verità e ricatti che include il tentativo di infangare i giudici del processo (Amara aveva sparso vaghe accuse sul presidente del collegio giudicante Marco Tremolada, la procura di Brescia ha aperto un fascicolo e l’ha chiuso subito archiviando), poi i verbali sulla presunta loggia Ungheria che hanno innescato la rottura tra il pm Paolo Storari - che indagava con la collega Laura Pedio sulle manovre di Amara - e il procuratore capo Francesco Greco. Così ci sono Spadaro e De Pasquale indagati, la procura criticata da tutti per la gestione del processo e derisa dalla sentenza. Eni, che nel frattempo si è liberata di tutti i manager toccati da queste vicende (da Nicoletti a Mantovani a Larocca) esce illibata e rigenerata. Amara, che sta dando da lavorare a procure di mezza Italia, continua a rimanere un enigma: avvocato di provincia che, mentre riceve parcelle dall’Eni, smuove mezzo mondo per depistare un processo cruciale per Eni, cercando incarichi da un amico nell’ufficio legale di Eni ma alle spalle di Eni e del suo amministratore delegato Claudio Descalzi che ha ottenuto da poco il terzo mandato e già pensa a un ulteriore rinnovo, quasi risarcitorio. Eni esce rigenerata da questa vicenda e la magistratura a pezzi, spaccata anche dalle rivelazioni del solito Amara di una fantomatica “loggia Ungheria” che governa in modo occulto il sistema giustizia. Sardegna. Minori e detenuti senza un Garante di Michele Cossa buongiornoalghero.it, 13 giugno 2021 Sono ancora in attesa di essere nominati il Garante per l’infanzia e l’adolescenza e quello per i diritti dei detenuti. La denuncia arriva dai consiglieri dei Riformatori Michele Cossa e Sara Canu (capogruppo), che evidenziano l’importanza di due figure di tutela di soggetti fragili. “È fondamentale tutelare e promuovere l’attuazione dei diritti e degli interessi di queste due categorie - spiegano Cossa e Canu - L’introduzione di queste figure ha rappresentato un salto in avanti nella tutela delle persone considerate più vulnerabili. Lasciare quei posti vacanti non aiuta a mantenere il giusto equilibrio in una società che oggi risulta fortemente influenzata dagli effetti nefasti della pandemia”. Da qui la presa di posizione, mossa dalla necessità urgente, spiegano sempre i consiglieri dei Riformatori, “di ripristinare uno strumento fondamentale che è garanzia di libertà anche laddove questa libertà risulta sottoposta a misure restrittive, come nel caso dei detenuti”. Stesso discorso per i minori: “È necessario arrivare quanto prima alla nomina del Garante, organo autonomo e indipendente quindi libero da ogni condizionamento, che svolga l’importante funzione di tutela dei diritti di cui sono portatori i bambini e gli adolescenti”. Veneto. Relazione annuale del Garante regionale per i diritti della persona consiglioveneto.it, 13 giugno 2021 La commissione Sanità e Sociale del Consiglio veneto, presieduta da Sonia Brescacin (ZP) ha approvato all’unanimità la relazione del Garante regionale per i diritti della persona sull’attività svolta nel 2019. Una media di tre fascicoli al giorno, 394 istanze di accesso agli atti della pubblica amministrazione, ricerca di un tutore per 422 minori, in gran parte stranieri non accompagnati, 223 casi di affido, conflitto genitoriale o criticità nei servizi per l’infanzia affrontati con interventi mediazione, orientamento, ascolto istituzionale, 53 richieste di intervento da parte di detenuti relativamente alle condizioni di vita carceraria e di salute o di accesso a visite familiari, opportunità di lavoro o di studio: questi i numeri che sintetizzano l’attività di un anno del Garante regionale per i diritti della persona, impersonato in Veneto dal 2015 ad oggi da Mirella Gallinaro, già responsabile dell’Ufficio legislativo del Consiglio veneto. Figura unica di garanzia istituita con lo Statuto regionale nel 2012, il Garante accorpa le funzioni del Difensore civico e del Pubblico tutore dei minori (il Veneto fu la prima regione d’Italia nel 1988 a creare il tutore per l’infanzia) con quelle del Garante per le persone private di libertà personale. L’attività del Garante regionale, che utilizza prevalentemente gli strumenti della mediazione, della conciliazione e della ‘moral suasion’, ha dedicato particolare attenzione sulle problematiche dell’infanzia: ha formato con appositi corsi centinaia di volontari disponibili ad assumere la funzione di ‘tutore dei minori’ (725 quelli disponibili nel 2019, quasi 1500 i volontari formati dal 2004 ad oggi), in particolare nei confronti dei minori stranieri non accompagnati (che costituiscono l’85 per cento dei 407 minori interessati); ha esercitato interventi istituzionali di mediazione, ascolto e orientamento in 223 casi di minori in difficoltà per fragilità della famiglia, disomogeneità e carenza di personale dell’organizzazione nei servizi, conflitti genitoriali, difficoltà di trovare strutture accoglienti nei casi di disabilità, contenziosi tra Comuni e strutture di accoglienza per il pagamento delle rette. Altro ambito di particolare impegno per il Garante regionale è la situazione carceraria: a fine 2019 nei nove istituti penitenziari del Veneto erano detenute 2672 persone, 730 in più rispetto alla capienza regolamentare di 1942 posti, con un indice di sovraffollamento del 138 per cento, superiore di 18 punti alla media nazionale. Oltre a farsi carico di 53 istanze personali presentate da altrettanti detenuti, il Garante regionale è intervenuta con visite di monitoraggio non annunciate, facendo rete con i Garanti comunali dei detenuti, promuovendo un nuovo protocollo per l’accoglienza di madri con bambini nel carcere femminile di Venezia e collaborando con l’Osservatorio permanente interistituzionale sulla salute in carcere istituito in Veneto. Veneto. A Padova e Belluno terapia in carcere per gli autori di femminicidio di Andrea Priante Corriere del Veneto, 13 giugno 2021 Ai detenuti condannati per i reati di violenza contro le donne viene offerto di partecipare a sedute di “trattamento psicoeducativo”. “Fanno autocritica”. Andrea Donaglio, ancora non se lo spiega: “Possibile che non capissi ciò che comunque era chiaro senza tante spiegazioni?”. Gli sembra davvero difficile da credere. Ma almeno finalmente adesso lo sa, che dentro di sé tutto partiva “da un atteggiamento di superbia che in realtà mascherava insicurezza e carenza di autostima”. Ecco, le ragioni della violenza sulle donne spiegate da chi l’ha commessa. E che spesso l’ha fatto nel modo più feroce e irreparabile. Andrea Donaglio - Ciascuno confida le proprie ragioni a tutti gli altri, in una sorta di terapia di gruppo che da qualche tempo viene portata avanti all’interno di alcune carceri del Veneto. Guidati da psicologi e operatori, i detenuti ascoltano altri detenuti, affrontando le confessioni più intime. “Ritrovandomi in alcuni aspetti definiti scorretti, prevaricanti, violenti - arriva ad ammettere Donaglio - ho provato un senso di vergogna”. A Spinea nessuno ha scordato il suo nome: Andrea Donaglio è il professore di chimica che il 6 luglio 2010 massacrò con oltre sessanta coltellate la sua ex fidanzata Roberta Vanin. Un femminicidio per il quale sta scontando una condanna a sedici anni di reclusione al Due Palazzi di Padova. Ed è chiuso lì dentro, che s’è ritrovato a essere uno dei partecipanti a quello che lo psicoterapeuta Antonio Di Donfrancesco definisce “un ciclo di incontri di tipo psicoeducativo durante il quale si parla degli effetti che la violenza ha sulle vittime e di come nasce l’aggressività. L’obiettivo è di arrivare al punto che l’autore degli abusi ne comprenda le dinamiche, scoprendo così che è possibile interpretare un modello diverso di maschilità”. Gli incontri - In un lungo articolo su Ristretti Orizzonti, la rivista carceraria, Donaglio ha spiegato come, attraverso quegli incontri, trova “la conferma dell’importanza basilare di saper gestire le proprie emozioni. Senza sviluppare questa capacità prima o poi ci si schianta, col rischio di coinvolgere altri in questa forma di autolesionismo”. Al Due Palazzi sono già tre anni che ai detenuti - specie quelli che scontano condanne per femminicidi e reati di maltrattamenti in famiglia - viene offerta l’occasione di partecipare a sedute di “trattamento psicoeducativo”; da quest’anno il servizio si è allargato al “Baldenich” di Belluno. Oltre a Di Donfrancesco, gli incontri vengono condotti dalla psicologa Nicoletta Regonati e dal counselor Fabio Ballan, operatore del servizio “Cambiamento maschile” di Montebelluna. Un “fenomeno trasversale” - “Quello della violenza sulle donne - spiega Regonati - è un fenomeno trasversale. In carcere ci finiscono ragazzi poco più che maggiorenni e pensionati, laureati e semianalfabeti. E questo perché gli abusi hanno radici che affondano in fattori diversi. C’è chi ha avuto genitori aggressivi e chi sente di non avere scelta e vuole il controllo dell’altro, magari per un senso di superiorità del maschio sulla femmina”. Attraverso ventiquattro incontri in carcere - due ore la settimana, che possono proseguire anche all’esterno, quando il detenuto ha finito di scontare la pena - gli psicologi puntano a far sviluppare all’autore dei maltrattamenti un senso di autocritica. “Il 90 per cento di chi accetta di partecipare - assicura Ballan - continua a mantenere un comportamento non violento anche dopo la scarcerazione”. L’impiegato trevigiano - È stato così anche per un impiegato trevigiano che nel 2013 tentò di uccidere la moglie, per fortuna senza riuscirci. “Tenevo tutto dentro - ci racconta - nella convinzione che parlarle dei miei problemi fosse un segno di debolezza. E alla fine, come una pentola a pressione, sono scoppiato arrivando al punto di scaricarle addosso la colpa di tutto...”. Chiede di restare anonimo perché, assicura, “in tanti ricordano ciò che ho fatto e ogni volta che il mio nome esce sui giornali, scoppia un putiferio”. Sia chiaro: gli incontri con gli psicologi gli sono serviti a capire che “la responsabilità era solo mia e, anche se non posso tornare indietro e correggere i miei errori, almeno adesso so che non sbaglierò più”. Scontata buona parte della pena, e complice la buona condotta, ora è libero. “Ho chiesto scusa in lacrime alla mia ex e credo abbia capito che il mio pentimento è sincero. Oggi ho una nuova compagna alla quale parlo di tutto: assieme sapremo affrontare ogni difficoltà”. Genova. Detenuto morto, la prova del luminol non chiarisce i dubbi di Danilo D’Anna Il Secolo XIX, 13 giugno 2021 L’esame non ha evidenziato tracce di sangue ripulite e rilancia la tesi del suicidio. Ma i risultati delle analisi della scientifica, attesi a breve, potrebbero ribaltare tutto. L’esame del luminol non ha dato l’esito che si aspettavano gli inquirenti: nella cella dove è morto Emanuele Polizzi, l’artigiano recluso a Marassi per rapina, non sono state trovate tracce di sangue pulito frettolosamente per nascondere le prove di un omicidio volontario. È stato un suicidio, quindi? Difficile stabilirlo senza gli esiti delle analisi effettuate dalla polizia scientifica nei pochi metri quadrati che il quarantenne divideva con altre persone. Anche perché bisogna dare una spiegazione plausibile alla ferita alla testa riscontrata dal medico legale durante l’autopsia. Per questo motivo Procura e squadra mobile non mollano la pista dell’omicidio, per cui restano sempre sotto indagine i detenuti Mattia Romeo e Giovanni Genovese (separati e messi in isolamento). Gli investigatori hanno ipotizzato il loro coinvolgimento per un debito di droga che la vittima non avrebbe onorato. Ma bisogna trovare le prove per dire che Polizzi è stato assassinato: mentre il primo sopralluogo effettuato dagli agenti del vice questore Stefano Signoretti, dal pm Giuseppe Longo e dal medico legale Sara Lo Pinto aveva dato indicazioni che sembravano confermare la tesi dell’accusa, il luminol ha smontato le certezze. Anche se la scientifica potrebbe ribaltare tutto non appena avrà terminato di esaminare i reperti che sono stati acquisiti nella cella. In particolare, i periti della polizia si sono concentrati nei pressi della branda della vittima, dove in teoria sarebbe cominciata l’aggressione. Romeo e Genovese - il primo difeso dagli avvocati Celeste Pallini e Fernando Barnaba, l’altro da Mauro Morabito - insistono nel dire che non c’entrano nulla con la morte del compagno di cella, e che quello dell’artigiano è stato un gesto volontario. Interrogati, hanno spiegato che quando Polizzi si stava togliendo la vita loro dormivano e quindi non hanno sentito niente. Entrambi hanno fornito una spiegazione per quel gesto: Emanuele viveva un momento di grande depressione e sconforto dovuto alla lunga permanenza in carcere - da ottobre 2019 - e al fatto che se la sentenza di primo grado fosse stata confermata anche in appello avrebbe dovuto scontare dieci anni di reclusione. “Non riusciva più a sopportare il carcere”, hanno fatto mettere nero su bianco. Il luminol è un punto a loro favore. Torino. Migrante suicida al Cpr: si indaga per omicidio colposo di Massimiliano Nerozzi Corriere della Sera, 13 giugno 2021 Primi due indagati nell’inchiesta: sono il direttore della struttura e un medico. Cambia indirizzo (giuridico) l’inchiesta sulla morte di Moussa Balde, il ragazzo di 23 anni, originario della Guinea, che si era tolto la vita a fine maggio, dentro al Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di corso Brunelleschi: la Procura, che stava indagando per istigazione al suicidio, ipotizza ora l’omicidio colposo. E se prima il fascicolo era contro ignoti, adesso spuntano i primi nomi sul registro degli indagati: sono il direttore della struttura e il medico coordinatore. L’ipotesi è che in quei giorni, nel Cpr, possano essere state violate le necessarie regole e norme di cautela, portando il giovane al suicidio. Gli investigatori hanno girato un video - Ieri mattina (11 giugno), il procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo e il pubblico ministero Rossella Salvati hanno fatto un’ispezione al Cpr, insieme ai carabinieri del Nas e a personale medico: anche grazie a riprese video, gli investigatori vogliono rendersi bene conto dello stato dei luoghi e della situazione all’interno della struttura. Soprattutto perché - secondo la prima ricostruzione - Moussa Balde era stato spedito in una cella del cosidetto “ospedaletto”, per un’infezione dermatologica poi rivelatasi inesistente. “Chi lo ha chiuso in gabbia, ha stretto con lui il nodo del lenzuolo con cui si è impiccato”, aveva detto l’avvocato Gianluca Vitale, che assiste i familiari della vittima. E che ieri, in una lettera, ha polemizzato con il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, che del caso aveva parlato rispondendo al question time: “Nelle sue parole non traspare il minimo rincrescimento per questa morte”. Duro era stato anche l’avvocato Davide Mosso, dell’Osservatorio carcere: “I Cpr sembrano campi di concentramento”. Il pestaggio di Ventimiglia - Il ragazzo, accusato di una tentata rapina, era stato aggredito da tre italiani all’uscita di un supermercato di Ventimiglia, e picchiato. Gli aggressori, identificati dal video fatto da un passante, andranno a processo per lesioni, ma senza l’aggravante razziale, di cui però resta il dubbio. Dimesso dall’ospedale, Moussa Balde era poi stato trasferito al Cpr, avendo il permesso di soggiorno scaduto e un decreto di espulsione. Rossano Calabro (Cs): Cesare Battisti in sciopero della fame: “Mi lascerò morire” Il Giornale, 13 giugno 2021 L’ex terrorista contesta l’isolamento, nel suo settore a Rossano i detenuti sono jihadisti islamici. Sciopero della fame e rifiuto della terapia a oltranza. Anzi “fino alla morte”. Cesare Battisti protesta contro le condizioni della sua detenzione nel carcere di Rossano Calabro dove è stato trasferito 9 mesi fa, in seguito a un altro sciopero della fame, contro l’isolamento “di fatto” a cui era costretto nel carcere di Oristano, essendo il solo detenuto classificato As2, ossia Alta Sicurezza 2, riservato ai terroristi. A Rossano di As2 ce ne sono, ma tutti jihadisti a parte lui. “Qui tutto è predisposto per tenere a bada dei ferventi musulmani”, ha scritto l’ex terrorista ricordando che pure il cappellano “ha ignorato le mie richieste di colloquio” perché si tiene alla larga dal cosiddetto “antro Isis”. E così di fronte al no del Dap alla nuova richiesta di trasferimento fatta dai suoi legali, Battisti il 2 giugno ha iniziato lo sciopero della fame contro la sua classificazione As2, ritenuta inadeguata visto che i suoi reati risalgono agli anni 70 e che inoltre non garantirebbe rieducazione e reinserimento. Ecco dunque la lettera in cui Battisti chiede ai suoi cari e “ai compagni” comprensione per la sua “scelta radicale”, lamentando di essere stato “spremuto e usato per ogni scopo ignobile del potere” e dicendosi pronto ad andare avanti “fino alla morte”. Che Battisti abbia diritto a essere “rieducato e reinserito” è fuori di dubbio. Ma Battisti, condannato per omicidio, è dietro le sbarre da due anni e mezzo dopo 37 anni di latitanza durante i quali si è sottratto sia ai processi che al carcere. Non è certo colpa dello Stato se gli altri terroristi “italiani” hanno scontato le loro pene mentre lui era latitante. Olbia. “Operatrice non vedente a piedi fino al carcere” di Angelo Mavuli La Nuova Sardegna, 13 giugno 2021 Appello per l’istituzione di una fermata dell’Arst davanti casa di pena di Nuchis La 48enne di Olbia costretta a fare mezzo chilometro ogni giorno insieme al cane. A piedi dalla fermata del bus di Nuchis al carcere dove lavora, mezzo chilometro sotto il sole o la pioggia. È un disagio per chiunque, ma lo è ancora di più per una donna di 48 anni, di Olbia, non vedente. E così da Tempio parte una petizione all’Arst perché istituisca una fermata intermedia del pullman fra Nuchis e Tempio, anche di fronte al piazzale della Casa di reclusione Paolo Pittalis. L’iniziativa è stata assunta all’interno della struttura carceraria da alcuni operatori e ha trovato subito ottima accoglienza. In questo momento è rivolta soprattutto a favore di Amelia De Carlo, una operatrice carceraria di Olbia, non vedente, che quotidianamente deve lavorare nella casa di reclusione posta in piena campagna a circa un chilometro dall’abitato di Nuchis, sulla direttrice provinciale per Tempio. La donna che arriva nel piccolo centro con un mezzo pubblico dell’Arst è costretta a percorrere a piedi, in qualunque condizione atmosferica, aiutata solo da Itaca, il suo dolcissimo e bellissimo cane guida, il mezzo chilometro di strada che divide a fermata del bus dall’ingresso dell’imponente e importante struttura carceraria, che si trova in campagna. La richiesta di una ulteriore fermata, proprio di fronte al carcere, pare non sia mai stata presa in considerazione dall’Arst, nonostante le visite alla struttura siano numerose e frequenti, soprattutto da parte dei parenti di detenuti e nonostante gli stessi accessi all’enorme piazzale esterno del carcere consentano, strutturalmente e fisicamente, il comodo passaggio di grossi mezzi ivi compresi gli autobus. “Le fermate del mezzo di linea fra Nuchis e Tempio - si legge nella petizione che si rivolge soprattutto alle autorità comunali - sono due. La prima nel centro del paese e la successiva in località la Madonnina, posta però poco più avanti, rispetto al bivio sulla destra che porterebbe proprio al carcere. Chiediamo che chi di competenza, politica o meno, si faccia parte attiva chiedendo all’Arst di istituire fra Nuchis e la Madonnina una ulteriore fermata nell’ampio ed enorme parcheggio all’esterno della casa di reclusione. ùCosì da permettere, non solo ad Amelia ovviamente, ma a quanti hanno necessità di giungere a piedi sul posto, di poterlo fare, nel caso specifico, in piena sicurezza”. La richiesta di quanti stanno perorando la causa di Amelia si rivolge anche al consigliere comunale della frazione di Nuchis, Marco Careddu, “perché anche lui voglia farsi parte diligente per risolvere al più presto la situazione. Nel caso di Amelia la soluzione diventa estremamente urgente e necessaria”. Milano. La poetessa, il pugile e i detenuti “Insieme sul ring dell’esistenza” di Mauro Cerri Il Giorno, 13 giugno 2021 Antiniska Pozzi racconta il progetto Pugni Chiusi che l’istruttore Mirko Chiari ha portato dentro le carceri milanesi di San Vittore e Bollate in un magnetico intreccio di vicende umane. Sono frammenti immutabili di dna e la variabile incerta degli incontri a decidere il nostro destino, a decretare chi diventeremo. Quale dei due elementi prevale sull’altro? Se lo chiede spesso Antiniska Pozzi, poetessa e scrittrice per vocazione ancor prima che per scelta. La risposta l’ha trovata inciampando nella vita di Mirko Chiari, pugile per ostinazione e istruttore di boxe per precisa volontà. Dal loro incontro, sullo sfondo denso di vita e pericoli della periferia nord di Milano, che può condannarti o elevarti con eguale possibilità, è nato il racconto di un’esperienza che va oltre l’ispirazione iniziale dell’autrice: documentare, cioè, il progetto Pugni Chiusi che Mirko Chiari ha portato come volontario dentro le carceri di Bollate e Milano. Le lezioni di pugilato ai detenuti, certo, dove Mirko - che l’umido della cella lo ha respirato per una sola notte ma così lunga da cambiargli la vita - insegna più che la tecnica la gestione della rabbia e dell’offesa, la resistenza all’istinto della reazione immediata, l’arte di incassare, essenza del pugilato e forse della vita. Così su quel ring ci salgono in tanti, il bandito specializzato nei colpi in banca o la bellissima donna imprigionata nel corpo di un uomo e molti altri “ospiti” del penitenziario. Qualcuno resiste, parecchi mollano perché la disciplina e la motivazione per resistere là sopra pretendono un prezzo alto tanto quanto la ricompensa. Ognuno è una storia che nessuna definizione può cristallizzare, figuriamoci quella di “detenuto”. Sul ring ci è salito anche lo sguardo di Antiniska Pozzi che quelle storie ha provato a raccogliere, trasmettere e rielaborare nelle pagine di “Per essere chiari” edito da Milieu, un romanzo che nasce come biografia e si trasforma in qualcosa d’altro che sfugge alle etichette proprio come i suoi personaggi. Un gioco di contrasti, come la boxe, come il linguaggio poetico a illuminare gli angoli bui di Milano dove si rubano motorini o ad amplificare i tonfi sordi dei guantoni appena prima degli schizzi di sangue sulle pareti. Un mondo di maschi indagato dagli occhi di una donna. “Il mio linguaggio risponde al mio modo di osservare il mondo - spiega Antiniska Pozzi, giornalista milanese, già autrice di “Dove vanno le iguane quando piove” e di varie raccolte di poesia - e osservare questo mondo è stato un viaggio faticoso e sorprendente, come lo è la vita di Mirko e degli altri personaggi che ho incontrato in questi due lunghi anni di scrittura e conoscenza”. Cagliari. Teatro, nel laboratorio di Cada Die il sogno di una nuova vita per ex detenuti di Giacomo Pisano nemesismagazine.it, 13 giugno 2021 Il teatro come percorso di crescita libera e creativa? Ne sono convinti Alessandro Mascia e Pierpaolo Piludu, attori e registi della compagnia cagliaritana Cada Die Teatro che ha ideato un laboratorio gratuito, iniziato il 1 giugno e tuttora in corso, nel Centro d’Arte e Cultura la Vetreria di Pirri-Cagliari, rivolto a ex detenuti che hanno da poco terminato di scontare la pena. Il laboratorio mira a trasmettere stimoli, tecniche, suggestioni e competenze professionali per affrontare il mondo dopo l’esperienza carceraria. “Che il teatro possa migliorare i percorsi di vita è indubbio - ci ha detto Alessandro Mascia - fare un lavoro di gruppo, di espressione libera, è un’occasione di condivisione sociale importantissima”. Grazie alla collaborazione con i docenti del CPIA 1 Karalis (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti di Cagliari) al progetto, che si concluderà a dicembre con un saggio finale, partecipano studenti e giovani adulti che hanno avuto esperienze carcerarie, di affidamento o che abbiano vissuto situazioni di disagio. L’iniziativa si inserisce in un contesto progettuale nazionale “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere con la cultura e la bellezza”, giunto alla sua terza edizione, finanziato nell’Isola dalla Fondazione di Sardegna. Il significativo nome dato all’iniziativa è un motto latino che significa “attraverso gli ostacoli verso le stelle” e contiene in sé un buon augurio. L’idea promossa da Acri (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio) e sostenuta da dieci Fondazioni bancarie, da tre anni coinvolge circa 250 detenuti di dodici carceri italiane in percorsi di formazione artistica e professionale nei mestieri del teatro. In Sardegna è coinvolta la Casa Circondariale di Uta che da tempo collabora con la compagnia cagliaritana. Il lavoro teatrale è ispirato ad un testo inedito della scrittrice sarda d’origine e danese d’adozione, Maria Giacobbe e che tratta della Sardegna degli anni ‘60 e ‘70 quando, attraverso il Piano di Rinascita, venne finanziata l’industrializzazione dell’Isola e nacquero poli chimici e petrolchimici a Ottana, Porto Torres, Sarroch. In tanti si illusero che quei grandi investimenti sarebbero stati un’opportunità di crescita e di riscatto; altri, già da allora, temevano che un’improvvisa trasformazione della millenaria economia agropastorale in economia incentrata sul petrolio e i suoi derivati avrebbe avuto effetti devastanti sul territorio, sulla salute, sull’identità di un intero popolo. Questa tematica è particolarmente cara ai Cada Die Teatro, da sempre sensibili verso le questioni legate all’ambiente e alla salute. Como. “Cucinare al Fresco” oltrepassa i confini comaschi e diventa un libro primacomo.it, 13 giugno 2021 Dai ricettari distribuiti a Como, il progetto si fa ancora più grande. “Abbiamo ricominciato a vivere, ad assaporare la libertà. Cucinare al fresco non è semplicemente un ricettario, ma una speranza, un percorso per comprendere meglio un cammino di riabilitazione. È una testata giornalistica ideata e scritta da persone che hanno perso la libertà, ma che non si sono perse d’animo e hanno deciso di rimettersi in gioco per fare ‘qualcosa di buono’ attraverso il cibo, spiegando i metodi utilizzati nelle stanze di reclusione per cucinare con le risorse a loro disposizione”. Esce martedì 15 giugno 2021 in tutte le librerie d’Italia “Cucinare al fresco” edito da L’Erudita. Si tratta della prima raccolta di ricette che caratterizza il progetto Cucinare al fresco, un laboratorio di idee all’interno del quale, attraverso i piatti preparati dai detenuti e dalle detenute, vengono raccontate storie, emozioni e soprattutto ricordi. Un percorso che vuole creare momenti di normalità per creare nuove chance e nuovi percorsi riabilitativi. Partito in sordina nella Casa circondariale del Bassone di Como, oggi la redazione conta un centinaio di detenuti che lavorano su singole proposte editoriali, oltre ad essere riusciti a strutturare una redazione con ruoli e organizzazione simili a quanto avviene nei giornali. Difficile, anzi improbabile pensare che in carcere si possano preparare dei manicaretti da leccarsi i baffi, ma così è, e solo leggendo le pagine di questo libro, che preferiamo definire “quaderno dei sapori”, i detenuti e le detenute raccontano, attraverso un linguaggio semplice, il proprio rapporto, sempre molto personale, con il cibo, narrando i propri gusti e i propri piatti preferiti. “Partendo dal presupposto che non sono nata per insegnare, ma sempre per imparare dagli altri, ho approcciato i gruppi di lavoro con grande leggerezza cercando di mettere al centro di ogni lezione loro, i detenuti e le detenute, coloro che mi hanno dato fiducia e stimolata a proseguire - commenta la coordinatrice del progetto, Arianna Augustoni. Ho lasciato a loro il compito di organizzare il progetto in base alle singole esigenze, ma sempre con un solo obiettivo: raccontare le proprie esperienze in cucina attraverso un linguaggio corretto e preciso. Dal racconto alla scrittura il passo è stato breve, in quanto le tante nozioni sono state organizzate per dare vita a una pubblicazione che raccontasse queste esperienze anche all’esterno”. Siamo rassegnati alla nuova violenza? di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 13 giugno 2021 Fatichiamo a capire questa generazione incupita dall’isolamento sanitario, vulnerabile alle ossessioni social, priva di miti e modelli (i pochi che esistono pensano solo a far soldi sulla propria popolarità). La questione terrorizza chi ha figli o nipoti adolescenti, e dovrebbe spaventare chiunque abbia due occhi, un cuore e un cervello. La violenza tra i giovanissimi cresce e cambia. Gli episodi si moltiplicano. A Milano scontri ripetuti, con machete e cani feroci. A Roma risse continue come passatempo; dopo la partita Italia-Turchia, lanci di bottiglie contro i poliziotti e scontri a Campo dè Fiori. A Torino, fuori dalla scuola media “Rosselli”, una ragazzina di 13 anni è stata chiamata “cagna” e “lesbica schifosa” da un gruppo di coetanee, poi pestata a sangue. Portava una borsa con i colori dell’arcobaleno e un collarino rosa. Ogni luogo d’Italia, grande e piccolo, ha brutte storie da raccontare. La primavera 2021 ci sta riconsegnando una generazione che fatichiamo a capire, nelle sue frange estreme. Incupita dall’isolamento sanitario, vulnerabile alle ossessioni social, priva di miti e modelli (i pochi che esistono pensano solo a far soldi sulla propria popolarità). Polizia e carabinieri sono molto preoccupati perché si accorgono che è saltato il nesso tra provocazione e reazione, per quanto odioso potesse essere. Non c’è un movente ideologico, come un tempo; non c’è un movente politico o sociale; lo scontro fra bande rivali - patetica imitazione americana - esiste, ma è marginale. È una violenza nuova, casuale e cattiva. Una violenza spesso senza conseguenze, per chi ne è responsabile. Il codice penale può poco con i minorenni. Il carcere a quell’età non è quasi mai una risposta, anche perché i giovanissimi criminali non hanno consapevolezza dei crimini, dei rischi e delle conseguenze. E la società non trova soluzioni. La cosa più grave è che nemmeno le cerca. Eppure qualcosa di nuovo bisogna inventare, tra pene alternative e servizi sociali. Non è una proposta, ovviamente, solo una considerazione. Un articolo di giornale non può suggerire soluzioni per un fenomeno che i genitori non possono evitare, i sociologi non sanno spiegare, gli psicoterapeuti non riescono a curare, le forze dell’ordine faticano ad arginare. Ma sembra evidente: così non si può andare avanti. Gli adolescenti di oggi cresceranno e cambieranno, certo. Ma nel frattempo rischiano di farsi, e di fare, molto male. Liberare l’azione del Terzo Settore di Giampaolo Silvestri* Corriere della Sera, 13 giugno 2021 Bisogna ripensare i rapporti con lo Stato. I mesi della pandemia hanno dimostrato che la cura dei più fragili e quindi della collettività è stata presa in carico da subito da altri soggetti e in certe circostanze con maggior efficacia e immediatezza Stato e Terzo Settore: la relazione tra questi due pilastri del nostro vivere insieme ha bisogno di essere rivista. I dati e le esperienze inedite registrate nell’ultimo anno ci incalzano in questa direzione. Certo, molti segni della necessità di impostare un nuovo modo di lavorare e di investire le risorse erano già sotto i nostri occhi prima della pandemia, ma questa ha spazzato via gli ultimi residui di incertezze. Giuliano Amato, in particolare, ha affrontato recentemente il tema con alcune provocazioni che meritano di essere riprese dal dibattito comune. Credo che sia esaurito il paradigma vigente nel Novecento secondo il quale lo Stato, nelle sue articolazioni, promuove e attua il bene comune quasi in esclusiva, come sua prerogativa assoluta. Usando una metafora molto semplice, lo Stato era la macchina, unica, certa e necessaria a raggiungere il traguardo del bene comune. E in questa cornice si comprende bene quanto la politica fosse considerata lo strumento più nobile in grado di far funzionare lo Stato. Restando alla metafora automobilistica, la politica era la benzina indispensabile per viaggiare. E se questa era la politica, la “forma più alta di carità”, è chiaro che i “migliori” dovessero avvertire il richiamo all’impegno pubblico come una vocazione speciale, perché quello era il luogo adatto a realizzare il bene nella misura più alta. Ma oggi la società, le relazioni, gli equilibri, sono mutati. Lo abbiamo visto in modo chiaro durante i mesi scorsi: la cura dei più fragili e quindi della collettività è stata presa in carico da subito da altri soggetti accanto allo Stato, e in certe circostanze con maggior efficacia e immediatezza. Anzi addirittura in alcune situazioni certe decisioni statali hanno avuto come risvolto non voluto la crescita di alcune forme di diseguaglianza. In questi primi anni del nuovo millennio, anche se non se ne ha piena coscienza, il vecchio paradigma sta cedendo il passo: alla macchina statale si sono affiancate altre vetture che viaggiano più veloci, consumando di meno, e in grado di raggiungere prima, senza sprechi, le mete che si pongono. Sono i soggetti del Terzo Settore che, nonostante le leggi ancora non le sostengano pienamente, si pensi solo alla questione fiscale, si sono imposte come soggetti insostituibili di sviluppo, capaci di investire le risorse economiche meglio di organi statali e di coprire l’ultimo miglio. Perché allora invitare chi sta svolgendo in pieno il suo “mestiere” di cura del bene comune all’interno del terzo settore a trasferirsi in politica, come suggerisce Amato? Non si rischia di bruciare chi sta già offrendo efficacemente il suo contributo? La proposta di Amato non si basa ancora sulla convinzione che solo lo Stato sia titolato a fare bene il bene comune, alla fine? Invece è tempo di liberare e sostenere l’azione del Terzo Settore come partner di quella statale. Sono consapevole che le mie parole sono in controtendenza in una fase in cui lo Stato è tornato alla ribalta in molti interventi ottimisti sulle sua capacità. Ma dopo mesi in cui ripetiamo che il Covid chiede un cambio di passo, ritengo che potremmo cominciare da qui: dal pensare in modo radicalmente nuovo sia il compito della politica e di chi la fa, sia i rapporti tra Stato e Terzo Settore. Non più di cooptazione, ma di responsabilità condivisa nella cabina di regia, dove si disegnano i piani, si decidono i budget, si assegnano le risorse, si valutano i risultati raggiunti. Segretario generale di AVSI* Migranti. La tregua è finita. La Germania torna a rispedirli in Italia di Tonia Mastrobuoni Corriere della Sera, 13 giugno 2021 Li chiamano i “dublinanti”. Secondo gli accordi di Dublino devono chiedere asilo nello Stato di primo approdo e non si possono spostare in altri nazione europee. La pandemia aveva fermato i charter tedeschi che li riportavano verso questi paesi. Hussein, siriano: “Cacciato due volte”. Lamin, Sierra Leone: “In Lombardia tentai il suicidio, qui lavoro”. Tre anni fa lo hanno costretto per la prima volta a lasciare la Germania. E Hussein Hulouajjouri si è ritrovato solo. Quando è atterrato a Milano, la polizia ha registrato le sue impronte digitali e lo ha mandato via. La prima notte ha dormito sotto a un albero, a “milanocentrale”. In uno scambio whatsapp lo scrive così, tutto attaccato. Quando si è svegliato, i suoi vestiti e la sua borsa erano spariti. E da lì è cominciata la sua odissea: ogni tanto il ventiduenne dormiva alla Caritas, ogni tanto lo ospitavano altri siriani, ma “nessuno mi ha aiutato”, ci racconta. Hussein è ripartito per il nord. Prima ha tentato la sua fortuna in Norvegia, poi è tornato in Germania. Il suo destino, però, era segnato. Il siriano è un “dublinante”, il suo primo approdo in Europa è stato in Italia. Ed è lì, secondo le regole europee fissate a Dublino, che deve tornare. Può chiedere asilo soltanto dopo anni. Ma il governo tedesco cerca di rispedirlo in Italia prima della scadenza. Prima della pandemia, nel 2019, i dublinanti respinti in Italia erano ancora 2.692, secondo i dati del governo. Nel 2020 sono crollati a 509, perché tutti concentrati nei primi mesi dell’anno, prima che il governo Conte bloccasse i trasferimenti a causa della pandemia. Ma qualcosa comincia a muoversi. Hussein è terrorizzato, ammette. È già stato due volte in Italia, la prima volta dalla Libia, dopo essere stato vessato dai ribelli. Ha vissuto di stenti e non vuole tornare nel nostro Paese. Quando di recente gli è arrivato l’ennesimo avviso che sarà respinto a Milano, per la prima volta la sua fidanzata lo ha visto piangere. “Non smetteva più”, ci racconta Sandra al telefono. I due vivono insieme da un anno a Erfurt, in Turingia. “Siamo felici, Hussein sta imparando il tedesco. Ci vogliamo sposare, perché ci devono separare?”. È chiaro che se anche dovesse essere respinto, Hussein tenterebbe subito di fuggire in Germania. “Anche perché - sostiene Sandra - sul documento del governo c’è scritto che in Italia gli daranno soldi e un posto dove stare. Ma chi ci crede più?”. Il suo non è un caso isolato. Sull’avviso del tribunale bavarese che è arrivato a Lamin C. c’era scritta persino una data per il ritorno in Italia: 22 aprile 2021. Anche lui si è disperato. Lamin viene dalla Sierra Leone, è passato per la Libia, ma non riesce a parlarne, troppi traumi. È in Baviera da un anno, sta imparando il tedesco e la sua insegnante all’istituto tecnico che frequenta, Eva Gahl sostiene che “è un ottimo allievo e ha ottime possibilità di trovare un lavoro”. Lo abbiamo raggiunto al telefono: quando è arrivato dalla Libia, perché il suo gommone si è rovesciato al largo delle coste siciliane, lui si è salvato per miracolo. “Tanti intorno a me sono morti affogati”. Per anni ha tentato la fortuna in Lombardia, ma “dopo essere uscito dal centro di accoglienza sono finito a lavorare un po’ in nero e un po’ con contratti precari e mi pagavano troppo poco per una casa”. Per sei mesi, Lamin ha dormito sotto a un ponte. Lavorava in un magazzino frigorifero, “tornavo sul fiume con il freddo nelle ossa e dormendo sotto al ponte non mi passava mai”. Un paio di volte è salito sul ponte e ha guardato giù, ha fissato per un po’ il fiume. “Mi ha salvato la mia religione, che vieta il suicidio. Ma avevo cominciato a prendere delle droghe, andavo nei supermercati e mi venivano idee sbagliate. Io non voglio rubare, non voglio drogarmi. Io voglio un futuro”. Quando ha letto sui giornali dei primi casi di coronavirus nella sua città, Lamin è andato nel panico. Da senzatetto, temeva di essere particolarmente a rischio. È allora che ha deciso di scappare in Germania, con la speranza di trovare quello che non ha trovato in Italia: un lavoro e una casa. In Baviera gli hanno dato un tetto e la possibilità di frequentare una scuola e un corso di tedesco. Ma come Hussein, essendo stato registrato in Italia, dovrà tornare lì. Con noi al telefono, Lamin parla in italiano. Ed è grato al suo angelo custode, Stephan Reichel, l’instancabile direttore di Matteo, l’organizzazione che si occupa dei migranti e li aiuta a ottenere l’asilo della chiesa. Lamin ora è sotto l’ala protettrice della Chiesa evangelica: l’asilo è una zona grigia, dal punto di vista legale. Ma la differenza è enorme, se lo ottieni, come ci spiega Reichel. “Il tribunale ha avvisato Lamin che la polizia lo avrebbe prelevato il 22 aprile. Se lui fosse scappato, lo avrebbero dichiarato fuggitivo e avrebbero potuto spostare la sua data della fine del periodo da ‘dublinantè di diciotto mesi”. C’è infatti una scadenza per tutti i dublinanti: se non vengono riportati in Italia entro una certa scadenza, possono chiedere asilo in Germania. Così, per evitare di essere considerato latitante, Lamin ha chiesto aiuto alla Chiesa. E in questo caso, la scadenza non slitta, non è considerato fuggitivo. Il sierraleonese potrà chiedere presto asilo in Germania. Ma Reichel racconta che ci sono almeno altri due casi che lo preoccupano. Uno è un ragazzo afgano che dovrà essere riportato in Italia martedì prossimo. “Gli ho offerto il nostro aiuto, ma non mi risponde più al telefono, temo sia scappato”. L’altro è un venticinquenne somalo che vive in Germania da nove anni. Ha persino un figlio che è nato qui. Anche lui è nel limbo dei dublinanti rimandati già in Italia una volta, che sono fuggiti in Germania e vogliono restarci. Il suo avvocato, Johannes Fleischmann parla di una situazione “difficile”. La polizia sta già preparando l’espulsione. Migranti. Storia di un ragazzo: Moussa Baldé di Riccardo Staglianò La Repubblica, 13 giugno 2021 Dal pestaggio a Ventimiglia (mostrato in un video terribile) al suicidio nel centro per i rimpatri: un caso con tante ombre, che per la famiglia (ma non solo) non è ancora finito. Mamadou Moussa Baldé viene selvaggiamente aggredito da tre italiani a Ventimiglia il 9 maggio. Non ha i documenti in regola e l’indomani lo trasferiscono nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Torino. Ne uscirà tredici giorni dopo senza vita per essersi impiccato con un lenzuolo nella cella di isolamento dove l’avevano trasferito per proteggere gli altri “trattenuti” da una psoriasi scambiata per scabbia. Arrivato in Italia nell’ottobre del 2016, era nato in Guinea, ventitré anni prima. Questa le versione stringatissima dei fatti. In un video su Sanremo News di un paio di anni fa si vede un bel ragazzo snello che dice che la pasta gli piace molto, la pizza no, è un calciatore e tifoso della Roma, musulmano, e il suo progetto è “studiare per trovare un buon lavoro e vivere bene”. Dice anche di essere scappato dal suo Paese per problemi politici e che è contento di stare da noi perché ha finalmente avuto un “assaggio di come la vita può essere bella”. Purtroppo le portate successive si riveleranno non all’altezza di quelle speranze. La sua è la storia di una metamorfosi rapidissima e incomprensibile: da vittima a colpevole a morto, in una struttura dello Stato, il tutto nell’arco di due settimane. Il racconto del fratello - Il caso nasce da un video tremendo in cui tre uomini si avventano, colpendolo alla testa con un portacenere a colonna e un altro oggetto cilindrico, su Moussa, che continuano a prendere a calci una volta a terra. Sono 42 secondi di violenza in purezza. I tre, identificati in meno di un giorno e ora indagati a piede libero per lesioni aggravate, sono Ignazio Amato, 28 anni, di Palmi, Francesco Cipri, 39 anni, e Giuseppe Martinello, 44 anni, entrambi originari della provincia di Agrigento. Uno di loro ha dichiarato che il pestaggio era nato dal tentativo di furto di un cellulare. Moussa al suo avvocato Gianluca Vitale ha negato, dicendo che stava chiedendo l’elemosina davanti a un supermercato, e l’assalto sarebbe stato del tutto immotivato. Inutile dire che, ai fini della reazione barbarica, cambia poco, ma cerchiamo di capire che tipo era Moussa. Fotogramma del video che mostra il pestaggio di Mamadou Moussa Baldé avvenuto a Ventimiglia il 9 maggio da parte di tre italiani Con l’aiuto del fratello maggiore Thierno Hamidou, architetto di 29 anni, che al telefono da Matoto, in Guinea - dove vive il resto della famiglia con i dodici figli che il padre, prima contabile e poi imprenditore edile, ha avuto da due diverse mogli - ci racconta: “Era un bravo ragazzo. Aveva fatto studi coranici fino a sedici anni ma poi, per aiutare economicamente, aveva fatto l’elettricista per un paio di anni prima di decidere di partire per l’Europa per cercare migliori prospettive”. Trafila classica: via terra attraverso Mali e Algeria e da lì in barca fino in Sicilia, da cui, poi, lo assegnano a una casa comunità di Imperia. È qui che fa il ciclo delle scuole medie, impara bene l’italiano e fa amicizia con Fofana Jibril, un ragazzo maliano che ora lavora e studia Scienze politiche all’Università e ricorda un “tipo molto intelligente, determinato, che nell’attesa di trovare un lavoro faceva volontariato in un’associazione che portava in piscina i disabili”. Con Thierno, invece, Moussa parlava via Whatsapp o Messenger quando trovava un buon wifi: “Stava bene da voi, non si è mai sentito minacciato”. A Imperia frequenta l’associazione La talpa e l’orologio, di cui Guglielmo Mazzìa è membro storico: descrive un “ragazzo fiero, che partecipava alle manifestazioni antirazziste, magari un po’ impaziente”. Sono tre anni d’altronde che aspetta che la Commissione sulla domanda di asilo si pronunci. Esasperato, decide di trasferirsi in Francia e se ne perdono i contatti. Chiede l’elemosina, vive per strada. Dopo un po’ viene espulso ma soprattutto manca l’appuntamento con la Commissione (non ha più un domicilio) e diventa clandestino. Una qualifica che, di ritorno in Italia, dirotta il suo tragitto di integrazione. A Ventimiglia dorme sotto un ponte in tende di propilene, la tipica plastica blu dell’Ikea, in un accampamento di fortuna. Vive di quel che gli danno fino all’incontro fatale del 9 maggio. Il questore di Imperia all’indomani dei fatti esclude l’aggravante dell’odio etnico (“Sulla base di cosa?” si domanda l’avvocato Vitale). Sta di fatto che la libertà la tolgono a Moussa, pestato, una vistosa ferita sulla tempia destra e 10 giorni di prognosi. Finisce nel Cpr di corso Brunelleschi, che è decisamente peggio di un carcere. “In prigione almeno” osserva Maurizio Veglio, legale esperto di diritto dei migranti, “sai quanto dura la pena e quali sono i tuoi diritti”. Qui no. Tra le poche cose certe c’è la durata massima della permanenza (90 giorni, rispetto ai 180 dei decreti sicurezza Salvini). Il fatto che ti toglieranno il cellulare, dandoti in cambio una scheda telefonica da 5 euro che, se chiami in Africa, serve giusto per dire “sono vivo”. E il fatto che si sta così male che il 2011, l’ultimo anno in cui hanno tenuto il conto, ha fatto totalizzare 156 casi di autolesionismo, di cui 100 casi di ingoiamento di oggetti e 56 di tagli. D’altronde, osserva l’avvocato Veglio, “se ti fai molto male puoi sperare di essere ritenuto incompatibile con il Cpr, ma anche se ti fai poco male puoi comunque uscire per essere portato dal medico e sperare di fuggire”. In entrambi i casi ti aprono le porte della cella. Un’altra delle poche certezze è che la riduzione delle risorse d’epoca leghista ha portato i medici nella struttura da una copertura di 24 ore a una di 5 ore al giorno. “Per i 107 trattenuti attuali” calcola la garante dei detenuti di Torino Monica Gallo “è veramente poca cosa perché la maggior parte di queste persone ha qualche vulnerabilità”. Nel caso di Moussa, bastonato il giorno prima, non dovevano essere particolarmente difficili da notare, eppure è stato valutato “idoneo” alla permanenza “in comunità ristrette”. Un certificato verosimilmente riempito in pochi minuti da un medico di pronto soccorso. Eppure, mi racconta l’avvocato Vitale, co-presidente di Legal Team Italia, che l’ha difeso gratuitamente, quando il 20 maggio l’ha incontrato per la prima volta, un addetto del Cpr gli avrebbero detto “non so se viene a colloquio: sta male”. Quindi non doveva essere impossibile accorgersi che c’era un problema. Sempre Vitale: “Era prostrato, depresso, non capiva perché era finito lì. Il giorno dopo, nel secondo incontro, aveva ripetuto: io devo uscire di qui”. Il Cpr è gestito dalla Gepsa, un’azienda francese specializzata in sicurezza privata. Il personale è composto dai charlie, addetti in maglietta rossa che svolgono varie funzioni logistiche, la sorveglianza vera e proprie e alcuni mediatori culturali. Più un medico molto anziano che una volta ammise che lì il Valium scorreva a fiumi. Incontro Monica Gallo, la garante dei detenuti di Torino, che descrive come “gabbie di uno zoo” le dodici celle, con sbarre davanti e sopra, del cosiddetto “ospedaletto” in cui hanno trovato morto Moussa. Purtroppo ho potuto vederle solo in bianco e nero nelle foto del fascicolo di un’altra morte, quella del bangladese Faisal Hossai, avvenuta un paio di anni fa (dopo tre settimane in isolamento), che a sua volta era stata preceduta da quella del tunisino Fathi Manai nel 2008, per una polmonite mai curata. Qualche articolo in cronaca. Piccolo scandalo tra poche anime belle, subito metabolizzato dall’opinione pubblica distratta dall’emergenza migranti. Tra i compiti di Gallo c’è anche quello di monitorare i rimpatri: dalla sveglia improvvisa nel cuore della notte a un rapido racimolare gli effetti personali in sacchetti neri (“Non dimenticherò mai uno che conservava poche padelline di plastica come fossero un tesoro da cui non voleva separarsi”), l’accompagnamento con due agenti in aeroporto e il volo fino a destinazione. Dice: “Tra l’altro, da questo punto di vista, i Cpr sono un colossale fallimento, dal momento che dall’inizio dell’anno i rimpatri sono stati 44 contro 142 rilasci di persone che tornano per strada. Non sarebbe il caso di cambiare metodo?”. Già, ma come? Oltre al combattivo consigliere comunale di Leu Marco Grimaldi, la vicepresidente del Senato Anna Rossomando, assieme al parlamentare del Pd Andrea Giorgis, è stata l’unica politica nazionale a riuscire a entrare nella struttura. Dice: “Bisogna stanziare molte più risorse per ampliare la copertura sanitaria, servono psichiatri, ristabilire le comunicazioni con l’esterno e dare attuazione alle misure alternative. Soprattutto, come ha sempre previsto la direttiva europea, puntare sui rimpatri volontari”. Rilancia Veglio, che ha preparato un Libro nero del Cpr di Torino e che è tra le anime di una manifestazione di giuristi torinesi preoccupati: “Chiudere subito l’ospedaletto e un paio di altre celle particolarmente indegne; ristabilire un minimo di socialità all’interno; tornare a distinguere tra minori e maggiorenni, spesso trattati indifferentemente. In Norvegia li trattengono in hotel, qui in una discarica sociale: troviamo una via di mezzo. E mettiamo fine alla vergogna di carceri di massima sicurezza per innocenti!”. Torno da Thierno, l’architetto che la famiglia ha nominato portavoce ufficiale di questa tristissima vicenda. È stato lui a fotografare dall’album tenuto dalla madre l’istantanea familiare che trovate qui. Oltre alla passione del fratello per il calcio mi confessa anche quella, più disarmante, per i cartoni animati. Il 23 maggio ha ricevuto la chiamata di un amico di Moussa e lui ha chiesto a sua zia di avvisare la madre perché non era sicuro di saper trovare le parole giuste. Gli chiedo se prova rabbia: “Servirebbe a riportarlo in vita? No, la rabbia fa male solo a chi la sente. Solo un dolore profondo. La nostra religione dice che nessuno scappa al suo destino e sono convinto che anche mio fratello penserebbe questo. Vorremmo solo che il suo corpo fosse rimpatriato per poterlo piangere qui e faccio un appello a tutte le persone di buona volontà per renderlo possibile”. La Rete dei Comuni Solidali e altre associazioni hanno aperto una raccolta fondi. Una sorella con cui ho scambiato messaggi prima di riuscire a parlare con Thierno ha tenuto a dirmi solo che “Moussa era una brava persona”. Risentimento non pervenuto. Cosa ci faccio io qui - Nel rapporto “No one is looking at us anymore”, sulle disumane condizioni dei centri di detenzione per migranti, la criminologa ricercatrice di Oxford Francesca Esposito insiste sullo spaesamento di persone che non capiscono neppure perché si trovano lì e scrive che “usano i corpi come campo di battaglia finale, mezzo per proclamare l’ingiustizia del loro confinamento per essere nati nel lato sbagliato del Pianeta. Tali azioni sui corpi sono di natura politica. Un grido contro un regime che nega il passato delle persone, detta il loro presente e colonizza il loro futuro”. Non so, e credo che nessuno sappia, cosa sia passato nella testa di Moussa quell’ultimo sabato notte trascorso nella lurida gabbia dell’ospedaletto. Il giorno prima l’avvocato Vitale l’aveva visto abbattuto ma Mazzìa, l’attivista di Imperia, mi ha detto che era uno che si ribellava ai torti. C’è solo da sperare che la ballata di Baldé, invece di una canzone triste come troppe altre, diventi piuttosto l’inno dell’inizio della fine di un sistema, quello dei Cpr, che talvolta uccide e quasi mai funziona. Raccolta fondi. Per aiutare la famiglia a riportare in Guinea la salma di Moussa Baldé la Rete Comuni Solidali Re.Co.Sol. ha varato una raccolta fondi. L’iban presso Banca Etica è IT49G0501801000000011795150. Specificare “per Moussa” nella causale. Quanto c’entra davvero l’Islam nel delitto di Saman Abbas di Walter Siti Il Domani, 13 giugno 2021 Se un padre oggi in Italia, avendo scoperto che il figlio ha una relazione omosessuale, uccidesse sia il figlio che il compagno e sostenesse di averlo fatto in ossequio alla Bibbia, verrebbe considerato un pazzo criminale: ma la sua citazione biblica sarebbe corretta. A nessuno verrebbe però in mente di associare il delitto alla religione cristiana. Ridurre tutte le vicende (come quella recentissima di Saman) a una lite da pollaio, tra occidentali che danno colpa di tutto alla religione e imam tesi a rassicurare che la religione non c’entra, è fuorviante e fa solo casino. Se un padre oggi in Italia, avendo scoperto che il figlio ha una relazione omosessuale, uccidesse sia il figlio che il compagno e sostenesse di averlo fatto in ossequio alla Bibbia, verrebbe considerato un pazzo criminale: ma la sua citazione biblica sarebbe corretta (Levitico 20, 13): “Se un uomo giace con un altro uomo come si fa con una donna, entrambi hanno commesso una cosa abominevole: siano messi a morte e il loro sangue ricada su di loro”. A nessuno verrebbe in mente di associare il delitto alla religione cristiana. Ma, in Italia oggi, non verrebbe in mente a nessun padre di giustificarsi in quel modo; sono secoli ormai che da noi vige l’idea che il testo sacro debba essere interpretato storicamente, considerato datato e/o simbolico, adattato culturalmente alle leggi e ai diritti moderni. (E poi tanto oggi il Levitico non lo conosce nessuno). Nei paesi musulmani questo percorso di laicizzazione, di separazione delle regole di convivenza civile dai rigidi dettami della religione è stato più lento ed è ancora in corso. Dal punto di vista strettamente religioso (soprattutto per le religioni monoteiste) non è facile accettare che le leggi degli uomini valgano più della legge di Dio. Dio ha imposto ad Abramo di sgozzare il suo unico figlio e Abramo era pronto a obbedire. Quanto allo Stato, l’obbligo di “adattarsi” alle regole del luogo che ti ospita era quello che l’Impero Romano chiedeva ai primi cristiani, e il loro rifiuto ancora oggi lo esaltiamo come eroismo spinto fino al martirio. L’Islam non ha un Papa, la sua “dirigenza” è plurale, difficile che parli con una voce sola; ci sono musulmani progressisti che interpretano il Corano come noi da secoli abbiamo interpretato la Bibbia, rifiutando la sua letteralità soprattutto per quel che riguarda la sensibilità moderna ai diritti. Ci sono femministe musulmane che hanno da tempo interpretato in senso moderno la famosa sura 2 là dove dice che “gli uomini sono superiori” e la sura 4 (detta “delle donne”) dove si dice di “chiudere in casa, finché non sopraggiunga la morte” quelle che hanno commesso “atti infami” (se in essi sia da considerare, oltre all’adulterio, anche l’insubordinazione è oggetto di aspre discussioni). Femministe musulmane che, tra l’altro, fanno notare come nella religione cristiana Dio dopotutto si sia incarnato in un maschio, mentre nella loro si è incarnato in un Libro. L’importante è capire in che tempi e con che modi anche l’Islam arriverà al processo di secolarizzazione che separa nettamente Religione e Stato; nei diversi Paesi, secondo le diverse declinazioni dell’Islam, nelle diverse classi sociali e calcolando i gap generazionali - con corsi universitari, libri e (perché no?) fatwe, cioè chiarimenti religiosi rivolti alle autorità civili. Ridurre tutte le vicende (come quella recentissima di Saman Abbas) a una lite da pollaio, tra occidentali che danno colpa di tutto alla religione e imam tesi a rassicurare che la religione non c’entra, è fuorviante e fa solo casino. Pardon, spettacolo. Cina. Amnesty International: “Non solo gli uiguri perseguitati” La Repubblica, 13 giugno 2021 “Internamento di massa e torture contro le minoranze musulmane. Nella regione dello Xinjiang un inferno distopico di dimensioni gigantesche che dovrebbe sconvolgere la coscienza dell’umanità”, ha detto Callamard, segretaria generale dell’organizzazione. “Come nemici in guerra”: un rapporto di 160 pagine di Amnesty International denuncia l’inferno delle minoranze musulmane, inclusi gli uiguri, nella provincia dello Xinjiang in Cina, per la responsabilità di Pechino. Le conclusioni della lunga relazione si basano su testimonianze di prima mano raccolte tra ottobre 2019 e aprile 2021, sull’analisi di immagini satellitari, su dati ufficiali e su documenti governativi trapelati al pubblico. Amnesty ha intervistato oltre 50 ex detenuti, persone residenti nello Xinjiang a partire dal 2017, tra cui 70 parenti di persone scomparse o detenute, informatori del governo, giornalisti e altri ancora. Sono decine le testimonianze di ex detenuti che hanno descritto le misure estreme adottate dalle autorità cinesi a partire dal 2017 per sradicare le tradizioni religiose, culturali e le lingue locali dei gruppi etnici musulmani dello Xinjiang. Torture commesse col pretesto ufficiale della lotta al “terrorismo”. Questi crimini hanno preso di mira uiguri, kazaki, hui, kirghizi, uzbeki e tagiki. “In tutto lo Xinjiang le autorità cinesi hanno realizzato uno dei più sofisticati sistemi di sorveglianza del mondo e costruito centinaia di centri per la ‘trasformazione attraverso l’educazionè, veri e propri campi d’internamento”, riporta Amnesty nel rapporto. All’interno di queste strutture, i maltrattamenti e le torture sono sistematici e ogni aspetto della vita quotidiana è regolamentato per instillare a forza gli ideali di una nazione cinese non religiosa e omogenea e quelli del Partito comunista. “Nello Xinjiang le autorità cinesi hanno dato vita a un inferno distopico di dimensioni gigantesche - ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty - Gli uiguri, i kazachi e le altre minoranze musulmane subiscono crimini contro l’umanità e altre gravi violazioni dei diritti umani che minacciano di radere al suolo le loro identità culturali e religiose. Il fatto che enormi numeri di persone vengano sottoposte al lavaggio del cervello, alla tortura e ad altri trattamenti degradanti in quei campi d’internamento, per non parlare degli altri milioni che vivono nella paura a causa del sistema di sorveglianza di massa, dovrebbe sconvolgere la coscienza dell’umanità”. Dall’inizio del 2017 centinaia di migliaia di persone sono state portate in carcere e altrettante inviate nei campi d’internamento. Tutti i sopravvissuti sentiti da Amnesty International hanno riferito di essere stati arrestati per “condotte del tutto legali, come il possesso di immagini a tema religioso o il contatto con persone all’estero. Un funzionario dello Stato cinese che partecipò agli arresti di massa nella seconda metà del 2017 ha raccontato che la polizia portava via le persone dalle loro abitazioni senza mandato di cattura e le poneva in stato d’arresto al di fuori di qualsiasi garanzia giudiziaria”. Spesso gli interrogatori - hanno riferito - avvenivano sulle “sedie della tigre” - strutture d’acciaio con sbarre di ferro e manette incorporate per bloccare i detenuti in posizioni dolorose. I pestaggi, la privazione del sonno e il sovraffollamento erano la norma. Il racconto di una detenuta - “Ogni giorno ci svegliavamo alle 5 del mattino e dovevamo rifare il letto in modo perfetto. Poi c’erano la cerimonia dell’alzabandiera e il giuramento. Poi la colazione. Poi tutti in classe. Poi il pranzo. Poi di nuovo tutti in classe. Poi la cena. Poi ancora una lezione. Poi a dormire. Ogni notte due di noi dovevano ‘essere in servizio’, cioè controllare gli altri, a turni di due ore. Non c’era un attimo libero. Eravamo esausti…”. Nelle prime settimane di reclusione, continua Amnesty, gli internati venivano costretti a restare seduti o inginocchiati immobili, in completo silenzio, per buona parte della giornata. Successivamente, seguivano corsi di “educazione” forzata dove venivano indottrinati a disprezzare l’Islam, a dimenticare la loro lingua e altre tradizioni culturali, a imparare il cinese mandarino e a studiare la propaganda del Partito comunista cinese. L’appello di Amnesty - Chiediamo alla Cina di smantellare immediatamente i campi d’internamento, rilasciare le persone arbitrariamente detenute in quelle strutture così come nelle carceri e porre fine al sistematico attacco in corso contro la popolazione musulmana dello Xinjiang”, ha detto Callamard. “La comunità internazionale deve prendere posizione e agire all’unisono per porre fine a questo abominio una volta per tutte. Le Nazioni Unite devono istituire e mandare urgentemente sul posto un meccanismo d’indagine indipendente con l’obiettivo di chiamare a rispondere le persone sospettate di crimini di diritto internazionale”. Etiopia. Carestia in Tigray, l’arma della fame di Michele Farina Corriere della Sera, 13 giugno 2021 La denuncia Onu: 350 mila persone nel pieno di una “catastrofe alimentare”. Una tragedia provocata dal leader che vinse il Nobel. Non c’è la siccità nel Tigray, le cavallette se ne sono andate e stanno per arrivare le piogge, eppure la gente rischia di morire di fame. Alex de Waal racconta sulla Bbc che i soldati impediscono ai contadini più coraggiosi di seminare nei campi: qualcuno si arrischia ad andare di notte a scavare qualche solco, con improvvisate sentinelle pronte a dare l’allarme in caso arrivino i militari. Vietato seminare. Questa è ancora più atroce delle “solite” calamità africane: questa carestia è causata dagli uomini (e addirittura dai premi Nobel per la Pace), dagli uomini che portano avanti una guerra nel Nord dell’Etiopia che si combatte anche distruggendo gli ospedali, rubando i sacchi degli aiuti e togliendo il pane di bocca ai bambini. Che sono i più colpiti: l’ultima denuncia dell’Onu scodellata sul tavolo del G7 parla di almeno 350 mila persone nel pieno di una “catastrofe alimentare” (fase 5 della Integrated Food Security Classification), con altri 1,7 milioni che premono dal gradino della fase 4 (quella dell’“emergenza”). E in caso di grande carestia, sappiamo che due terzi delle vittime sono i più piccoli, i primi a morire. Sembra pazzesco che una regione dove si vedono ancora le turbine dell’energia eolica all’orizzonte sia ridotta così, con il 90% degli abitanti (in totale 6 milioni) che non hanno abbastanza da mangiare. E non lo dicono i nemici del governo di Addis Abeba (che pure nega l’emergenza: “Il cibo in Tigray non manca”) ma 18 agenzie e organismi internazionali dentro e fuori l’Onu. Si può scavare nelle responsabilità del conflitto tra il premier Abiy Ahmed, premiato nel 2019 con il Nobel per la pace fatta con la vicina Eritrea, e i dirigenti del Tpfl (Fronte Popolare di Liberazione) che dopo aver governato con mano autoritaria l’intero Paese si sono arroccati nella regione nativa del Tigray (il Tigrè di italica memoria). Si può discettare sulle radici del conflitto, sulle responsabilità condivise, ma l’urgenza impone di parlare dei mancati germogli nei campi, delle violenze contro la popolazione civile, degli stupri di massa, della fame usata come arma. Sette mesi di guerra e di terra bruciata (l’80% degli ospedali della regione è stata distrutta, denuncia Medici Senza Frontiere) hanno prodotto una delle peggiori crisi umanitarie degli ultimi anni. E questa volta non sono la siccità o le cavallette, non è l’Etiopia del 1984, non ci sono popstar a organizzare un nuovo Live Aid. Un Paese di 120 milioni di abitanti, una locomotiva che per anni ha viaggiato con una crescita del Pil a due cifre, l’avvento di un leader giovane e dinamico come Abiy che aveva cominciato svuotando le carceri dai prigionieri politici e tendendo la mano nel 2018 al grande nemico della porta accanto, quell’Eritrea del dittatore Afewerki diventata alleato indispensabile e sanguinario nella campagna del Tigray cominciata nel novembre 2020. Dei 150 massacri documentati in questi mesi, la maggioranza è imputabile al fronte governativo, con le forze eritree e le milizie di etnia Amara. Portano la loro firma anche 128 dei 129 “incidenti” segnalati dall’Onu per quanto riguarda il blocco di aiuti umanitari nell’ultimo mese. Si è cominciato a morire di fame nel Tigray. Jan Egeland, capo del Norwegian Refugee Council, chiede un cessate il fuoco per fermare la carestia. Nessuno si è fatto avanti in questo senso. Mesi fa Addis Abeba aveva annunciato il via libera agli aiuti internazionali. L’Onu attraverso il Programma Alimentare Mondiale è riuscito a distribuire cibo a 2,8 milioni di persone: un sacco di farina da 30 chili, il fabbisogno di una famiglia per dieci giorni. Due milioni di sfollati interni costretti a fuggire dalle loro case incenerite vivono in condizioni particolarmente precarie. In un luogo dove persino le ambulanze sono state requisite dai militari, dove 22 mila donne sono sopravvissute agli stupri e i contadini sono costretti ad arare i campi al buio per paura di rappresaglie, tutto è possibile: che 300 mila bambini muoiano di fame nei prossimi mesi. O che uno sforzo decisivo della comunità internazionale sospenda la guerra tra le pale eoliche e i canyon mozzafiato: dove fino a ieri arrivavano i pulmini dei turisti, passino i camion con la farina e i piselli secchi.