“Dopo la pandemia lo Stato ristori anche le nostre ferite” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 giugno 2021 “Valutare la possibilità di attivare il meccanismo della liberazione anticipata speciale e un provvedimento di indulto generalizzato, nonché un intervento di modifica alle norme penitenziarie, nella parte relativa ai colloqui tra familiari e detenuti, affinché sia favorito il tanto declamato principio di rieducazione della funzione carceraria che, necessariamente passa dalla serenità generata dal singolo individuo, acquisita nel calore dei propri affetti”. Sono le parole dei detenuti del carcere di Tolmezzo che, tramite una lettera rivolta alla ministra della Giustizia Marta Cartabia e al presidente della Repubblica, desiderano rivolgere alle autorità una riflessione divenuta urgente “in quanto - sottolineano - fonte di collettiva sofferenza”. I detenuti di Tolmezzo, premettono che questi lunghi mesi di pandemia, hanno stravolto e modificato il volto dell’intera umanità, raggiungendo ogni settore e singolo individuo. Osservano che “la gestione dell’emergenza sanitaria ha comportato scelte difficili e sacrifici per lo stesso Stato, che dimostreranno i loro effetti nel tempo ma, la funzione di protezione e il welfare, hanno corrisposto la loro perfetta realizzazione”. I detenuti di Tolmezzo, nella lettera, proseguono spiegando che ora la fase apice di questa tragedia diffusa sembra essere stata superata, e quindi “si potrà rivolgere lo sguardo a quella società silenziosa che, marginalmente attende un barlume di speranza e lo scioglimento delle sue sofferenze occulte”. Osservano che i detenuti, non solo italiani ma di ogni nazione e condizione, affrontavano già problematiche storiche, e “oggi sono soggiogati dall’ulteriore tragedia della pandemia”. Spiegano che, mentre fuori il mondo combatteva questa guerra subdola, “migliaia di uomini che ne stavano già conducendo una personalissima, si sono fatti carico di un’ulteriore grave fardello”. Nello stesso tempo, i detenuti precisano che non vogliono essere rappresentati come una immagine di guerra, in antitesi con il diritto e la giustizia, ma preferiscono piuttosto riconoscersi “nell’aspetto virtuoso della pacificazione, in aderenza a questa più alta missione dello Stato stesso, che si fa garante “della salvaguardia dei sacri principi costituzionali, nati dalle ceneri di un’Italia che si accingeva a riemergere dal trauma degli eventi bellici”. Per il raggiungimento di una proficua e realistica riflessione, i detenuti spiegano che si deve necessariamente passare attraverso una visione pragmatica, che loro desiderano consegnare alle autorità istituzionali riassumendo i drammi vissuti sul campo minato dalla pandemia. Ed ecco che spiegano i motivi che scatenarono le rivolte, motivi purtroppo affossati da dietrologie utili per chi vuole nascondere le problematiche penitenziarie. I detenuti denunciano che comunità carcerarie hanno certamente pagato un prezzo altissimo, a partire dal legittimo Dpcm, attraverso il quale si vietavano i colloqui visivi. “Ricordiamo - osservano nella lettera - le deprecabili forme di protesta violenta che, in quei giorni hanno avuto luogo all’interno di poche realtà penitenziarie, (noi oggi ne parliamo e lo facciamo con una punta d’imbarazzo) auspicando di non subire un giudizio di categoria, ma invocando il criterio di soggettività delle responsabilità”. Spiegano che “la paura, talvolta, è la matrice di azioni irresponsabili”. La paura di che cosa? “Subdola - dicono i detenuti - s’ingenerava dall’incertezza del futuro; da tutti gli interrogativi esistenziali ammantati di una circolarità incombente, per effetto della quale, era reale il rischio di sprofondare nel baratro”. I detenuti sottolineano che, parlando di comunità carceraria, non fanno esclusivo riferimenti alle persone detenute, ma riconoscono come comunità “tutti coloro che, con straordinaria professionalità, operano all’interno delle carceri: il personale di polizia penitenziaria, che al pari di ogni detenuto ha vissuto il dramma dell’emergenza e, per dovere istituzionale è rimasto sul campo di battaglia, lontano dai propri affetti e sottoponendosi a turni di servizio estenuanti per colmare le lacune di tutti colleghi che si sono ammalati di Covid”. E non per ultimo “lo stesso personale sanitario, la cui presenza all’interno delle carceri può certamente definirsi provvidenziale”. Ed ecco che ricordano ciò che Il Dubbio rese noto. Ovvero quando la comunità carceraria di Tolmezzo è stata scossa non soltanto dalla paura che il peggio potesse accadere, in quanto, com’è noto nel mese di novembre 2020, è stata il teatro di uno dei più ampi focolai Covid sviluppatisi all’interno delle carceri con 170 detenuti su un totale di 185 affetti dal Covid, con due di loro che hanno pagato il prezzo estremo della vita e, circa 60 agenti penitenziari anch’essi affetti dal virus. Scrivono i detenuti: “Scenario infernale! Quindici mesi di pandemia, vissuti tra queste mura, senza avere la possibilità di coltivare i propri affetti, non potendo trovare la forza e la speranza in un abbraccio familiare, equivalgono certamente a un periodo di detenzione molto più lungo ed estenuante”. I detenuti fanno sapere che le comunità carcerarie, nella singolarità dell’esperienza hanno percepito “l’inasprimento della già conosciuta solitudine e distanza nella loro variante sincronica poiché, chi già era distante dalla propria casa è stato proiettato in uno spazio siderale”. Ricordano che figli, genitori e affetti, sono stati esclusi dalla quotidianità e il ponte che “rappresentavano con le nostre vite di persone libere è drammaticamente crollato difronte all’impotenza generale”. I detenuti arrivano al punto: “Lo Stato che certamente, con la sua sapiente scienza ha saputo rimarginare le ferite del tessuto sociale, attraverso strategie di ristoro e ammortizzatori, non può dimenticare un’intera categoria che rimane fiduciosa di interventi analogamente efficienti”. Spiegano che nelle mani della ministra Cartabia c’è “lo strumento che la straordinaria carta costituzionale vi ha consegnato che include l’atto d’indulgenza come manifestazione di quegli stessi valori intrinsecamente connaturati al diritto e alla giustizia”. I detenuti di Tolmezzo fanno dunque appello “al sicuro senso di umanità - scrivono - che contraddistingue le istituzioni preposte, affinché riconoscano le comunità carcerarie come parte integrante di un sistema democratico positivo e attuino in questo momento ‘post bellico’, anche a queste comunità una forma di ristoro che, per le peculiarità dell’ambiente può materializzarsi attraverso un atto d’indulgenza, inteso non come atto di impunità ma, come atto di riconciliazione e unità, sinonimo di Libertà”. Parole chiare quelle dei detenuti, ben consci che l’unica arma è quella della non violenza per far rispettare i propri diritti. Non una contrapposizione con le istituzioni, ma un dialogo attraverso “l’arma” del diritto e in maniera particolare della nostra costituzione italiana. La loro richiesta, sottolineano, altro non è che una celebrazione dell’immagine della ‘ libertà’, “rappresentata dagli antichi nella grazia delle sembianze femminili, e oggi, non a caso incarnata dalla ministra di Grazia e Giustizia”. “Se i magistrati vogliono capire cosa è la pena si facciano un giro in cella” di Viviana Lanza Il Riformista, 12 giugno 2021 Parla il magistrato del Tribunale di Napoli Nicola Graziano. Quanto ne sanno di carcere i magistrati? Quanto conoscono a fondo il mondo in cui finiscono i condannati e molto spesso persino gli indagati, i presunti innocenti, i cittadini in attesa di giudizio? Quanti sono andati oltre la saletta dei colloqui per vedere con i propri occhi come si vive dietro le sbarre, nei luoghi della pena che secondo la Costituzione dovrebbero servire soprattutto a responsabilizzare l’autore di un reato e sostenerlo nel percorso di reinserimento sociale? “Un tirocinio all’interno delle carceri dovrebbe far parte del percorso formativo di ciascun magistrato”, spiega Nicola Graziano, magistrato del Tribunale di Napoli e autore di Matricola zero zero uno, un libro con cui ha provato a superare il muro del pregiudizio vivendo 72 ore da detenuto nell’ospedale psichiatrico di Aversa. L’esperienza da infiltrato l’ha fatta per esigenze di studio e letterarie, ma Graziano è convinto che un tirocinio formativo all’interno degli istituti di pena possa arricchire la formazione di un magistrato. “Credo sia un’esperienza formativa molto utile che può sicuramente dare un valore importante. Soprattutto quando si è all’inizio della carriera, si arriva un po’ troppo giovani a funzioni che sono molto importanti. Il magistrato entra nella vita delle persone - sottolinea Graziano - Per questo un tirocinio formativo penitenziario sarebbe da riprendere e incentivare”. In Francia, per esempio, l’Ècole nationale de la magistrature prevede stage penitenziari obbligatori per gli aspiranti magistrati: una settimana vissuta all’interno di una prigione assieme agli agenti della penitenziaria osservando con i propri occhi la realtà dietro le sbarre. Vivere il carcere e non limitarsi a sentirne parlare dall’esterno è esperienza che cambia la vita. Quando, nell’ottobre 2014, Nicola Graziano ottenne dal Dap il permesso di vivere da infiltrato nella struttura detentiva di Aversa, sapeva di stare per vivere un’esperienza che avrebbe segnato la sua vita. Soltanto il direttore del carcere e il comandante della polizia penitenziaria sapevano chi fosse in realtà, per tutti gli altri Graziano era uno dei detenuti. “Vivere tre giorni nel carcere psichiatrico è stata un’esperienza che mi ha segnato per la vita”, racconta. “Mi ha consentito di vedere la realtà anche da un’altra prospettiva e ha rafforzato in me la considerazione che un detenuto, e comunque tutte le parti del processo, non devono mai avere un nome, perché bisogna sempre essere imparziali, ma non devono neanche avere un numero. E mai bisogna dimenticare che dietro un processo ci sono anime, sofferenze, percorsi di vita”. “Ricordo per esempio - aggiunge Graziano - il valore dell’attesa che aveva l’udienza con il magistrato della sorveglianza per la verifica, ogni sei mesi, della pericolosità. Quel tempo per chi è detenuto è un’eternità”. “È chiaro tuttavia - sottolinea - che questo non deve condizionare l’esercizio della funzione, perché un giudice deve applicare la legge e ne è soggetto. Però - osserva Graziano - se si riuscisse a portare avanti un’idea di maggiore consapevolezza e maggiore conoscenza degli effetti e delle conseguenze di certe decisioni, sarebbe davvero molto interessante il percorso della formazione anche varcando la soglia del carcere”. Attualmente quello penitenziario è un sistema con molte criticità e in cui la pena ha una funzione più afflittiva che rieducativa. E c’è chi vorrebbe ancora più carceri. “Non condivido la proposta di nuove carceri. Penso, piuttosto, che sia importante capire chi davvero in carcere ci deve stare perché davvero merita di stare in cella e chi invece ha la possibilità di scontare la pena con misure alternative”. Il carcere, dunque, come extrema ratio. “Qualche anno fa - osserva Graziano - c’è stata una proposta di riforma importante, che poi è stata interrotta, e guardava alle misure alternative e alla possibilità di risocializzazione e reinserimento sociale del condannato. Sono queste le finalità che lo Stato non dovrebbe mai perdere di vista, perché sono un obiettivo fondamentale per la democrazia del nostro Paese”. “Il 4 bis è incostituzionale, la Consulta doveva intervenire”, l’accusa di Onida di Angela Stella Il Dubbio, 12 giugno 2021 Nel collegio difensivo di Marcello Viola alla Cedu c’era anche l’ex presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida che ci spiega: “Quando siamo intervenuti dinanzi ai giudici di Strasburgo abbiamo fatto riferimento all’impossibilità per il signor Viola di poter accedere alla liberazione condizionale, perché all’epoca era applicabile l’art. 4-bis che escludeva i benefici; e anche la liberazione condizionale, in mancanza della collaborazione con la giustizia, era preclusa. Oggi (ieri, ndr) il Consiglio di Europa non ha detto che occorre concedere tale beneficio al detenuto, ma semplicemente che l’Italia, adeguandosi anche alla recente ordinanza della Corte Costituzionale (n. 97 del 2021), deve dotarsi di una legge che escluda l’attuale automatismo tra assenza di collaborazione e divieto di concessione della liberazione condizionale”. Tuttavia, nonostante la sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019 ha escluso che la collaborazione con la giustizia sia condicio sine qua non per la concessione dei permessi premi ai condannati ostativi, Marcello Viola non ha ottenuto neanche un permesso premio: “Questo - spiega Onida - è un altro discorso. L’automatismo tra mancata collaborazione e divieto di concessione dei permessi premio è già caduto e non occorre attendere una legge per decidere su di essi. Se non gli è stato concesso, evidentemente ci sono valutazioni della magistratura di sorveglianza contrarie alla concessione: ma si tratta di vedere se le motivazioni sono plausibili (per esempio, il fatto che un parente o una sua ex moglie, in ipotesi, abbia tuttora rapporti con la mafia, non potrebbe essere motivo sufficiente di per sé per ritenere che anche per Viola questi rapporti sussistano tuttora)”. Chiediamo al Presidente Onida come dovrebbe comportarsi la magistratura di sorveglianza in attesa che il Parlamento faccia una legge entro maggio 2022 sull’ergastolo ostativo: “Attualmente il Tribunale di Sorveglianza che viene investito di una richiesta di liberazione condizionale da parte di un detenuto “ostativo” non potrebbe appoggiarsi, per respingere la richiesta, sulla circostanza che la norma del 4-bis è ancora in vigore nel testo attuale. Anzi, dovrebbe sospendere la decisione e sollevare un nuovo dubbio di legittimità costituzionale (stante la sua evidente non manifesta infondatezza), in attesa dell’intervento del legislatore o della decisione futura della Corte costituzionale sulla questione ora rinviata al 10 maggio 2022”. Anche se l’incostituzionalità è accertata, dovendo attendere una legge del Parlamento, i detenuti che in teoria potrebbero accedere alla liberazione condizionale rimangono sospesi in un limbo, in una situazione di privazione della libertà personale: “Senza dubbio rappresenta una anomalia il fatto che una norma sia stata ritenuta incostituzionale ma resti ancora in vigore. Per questo il giudice di sorveglianza non potrebbe respingere le richieste in nome dell’articolo 4-bis motivando con l’assenza di collaborazione”. Però, nonostante la fermezza delle sue argomentazioni, facciamo presente al presidente Onida che la scarcerazione di Giovanni Brusca ha riaperto la discussione sull’ergastolo ostativo e molti parenti di vittime di mafia e diverse forze politiche chiedono la riforma della legge nella direzione di chiusura ai benefici. La cornice però l’ha data già la Consulta e non si può tornare indietro: “Certamente, lei ha ragione. Manca ancora una legge che, accogliendo l’impostazione della Corte Costituzionale, regoli l’ipotesi di liberazione condizionale per gli ergastolani ostativi in un modo conforme alla Costituzione. Il minimo, ripeto, è che i giudici non possono applicare semplicemente il 4-bis così com’è, per cui se non c’è collaborazione niente liberazione condizionale. Nel frattempo però questi ergastolani potrebbero chiedere e ottenere altri benefici come i permessi premio, già sganciati dalla condizione della collaborazione ad opera della sentenza n. 253 del 2019”. In ultimo chiediamo al presidente Onida se la decisione della Consulta era la migliore possibile o si poteva evitare il rinvio al Parlamento: “Probabilmente, dinanzi a una palese incostituzionalità, la cosa migliore sarebbe stata quella di adottare una decisione dichiarativa di questa incostituzionalità. Eventualmente con quei tipi di sentenze - manipolative, additive, additive di principio - che tante volte la Corte ha pronunciato intervenendo direttamente sulla legge. In ogni modo la norma denunciata non può più essere applicata”. “Riformate l’ergastolo ostativo”, Strasburgo striglia l’Italia di Angela Stella Il Riformista, 12 giugno 2021 Il tema dell’ergastolo torna al centro del dibattito politico: ieri, nel stesso giorno in cui il Consiglio d’Europa ha chiesto all’Italia di adottare quanto prima una legge sul carcere a vita, la Ministra della Giustizia Marta Cartabia, ascoltata dalla Commissione Antimafia, si è appellata al Parlamento affinché “non perda l’occasione per riscrivere la norma” sul fine pena mai. Ha indicato anche una possibile strada come quella di “prevedere, sempre a titolo esemplificativo, specifiche prescrizioni che governino il periodo di libertà vigilata, anche regolandone diversamente la durata”. Dunque due moniti importanti - uno dall’Europa, l’altro dalla Guardasigilli - arrivano alla politica chiamata a trovare la quadra entro maggio 2022, come richiesto dalla Corte Costituzionale in una recentissima decisione che, pur dichiarando l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, ha dato un anno di tempo al Parlamento per originare una legge che bilanci il diritto alla speranza dei detenuti e le esigenze di sicurezza e lotta alla criminalità organizzata. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa questa settimana ha esaminato i passi compiuti dall’Italia dopo la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’uomo sul caso di Marcello Viola, pronunciata nel 2019. L’uomo, sempre proclamatosi innocente, fu condannato all’ergastolo ostativo in via definitiva per associazione di stampo mafioso, oltre che per altri delitti, quali l’omicidio. In carcere dagli anni ‘90, aveva chiesto ai magistrati di sorveglianza di poter accedere ai benefici - permessi premio e liberazione condizionale -, dopo 26 anni di reclusione. Richieste più volte respinte a causa della mancata collaborazione con le autorità. Da lì il ricorso alla Cedu che con una sentenza del 2019 condannò l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione (nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti) a causa dell’impossibilità per un detenuto, condannato per uno dei reati previsti dall’articolo 4 bis comma 1 della legge sull’amministrazione penitenziaria, di poter accedere ai benefici penitenziari in assenza di utile collaborazione con la giustizia. Nonostante siano passati tre anni, il Comitato dei Ministri da un lato “ha preso atto con preoccupazione che il ricorrente non può accedere alla liberazione condizionale” e dall’altro ha rilevato che è necessaria “l’adozione di misure legislative per garantire la possibilità per i tribunali nazionali” di valutare il percorso rieducativo del detenuto al fine di ottenere la liberazione condizionale, pur in assenza di collaborazione. Di conseguenza “preso atto con soddisfazione” della sentenza 97/2021 della Consulta, il Comitato dei Ministri “ha sottolineato l’urgenza di porre fine alla violazione subita dal ricorrente e di garantire la non reiterazione della violazione dell’articolo 3 della Convenzione, disposizione che non consente alcuna eccezione o deroga; ha pertanto invitato le autorità ad adottare senza ulteriori ritardi le misure legislative necessarie per rendere l’attuale quadro legislativo conforme ai requisiti della Convenzione”. L’avvocato Antonella Mascia, legale di Viola, accoglie con “soddisfazione” questo monito europeo. Tuttavia ci racconta che, nonostante la sentenza Cedu e quella della Consulta sui permessi premio, “le nostre richieste per ottenere almeno un permesso premio per concedere qualche ora di libertà a Viola con i figli fuori dal carcere sono state respinte con diverse motivazioni, tra cui un parere negativo della DNA e il fatto di non aver richiesto la revisione del processo, visto che Viola si ritiene innocente. Eppure noi abbiamo portato all’attenzione dei giudici di sorveglianza diverse relazioni che dimostrano che l’interessato ha una condotta esemplare, lavora in carcere, aiuta gli altri detenuti, si è separato dalla moglie con la quale non ha più contatti dal 2013 perché ancora legata ad un contesto criminale”. La conclusione per l’avvocato Mascia è che “il legislatore dovrebbe comprendere che occorre guardare al percorso rieducativo del detenuto e non considerarlo pregiudizialmente parte di un tutto, ossia di una categoria di uomini mafiosi irrecuperabili. Dopo tanti anni di detenzione gli uomini possono cambiare e non possono quindi rimanere incatenati per sempre alla loro condanna. È giunto ora il momento che il giudice esamini in concreto il percorso riabilitativo intrapreso dal detenuto, nel pieno rispetto della nostra Costituzione e della Convenzione”. Ergastolo ostativo, anche il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa dice no di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 giugno 2021 Anche il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa condanna l’ergastolo ostativo e ribadisce la posizione espressa dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 97 (redattore Nicolò Zanon) depositata l’11 maggio scorso. A darne notizia è l’Associazione Antigone. Nella riunione tenutasi tra il 7 e il 9 giugno 2021 il Consiglio d’Europa ha discusso di ergastolo ostativo a partire dal caso Viola per il quale l’Italia era stata già condannata. E il Comitato dei Ministri, che è incaricato di supervisionare l’esecuzione delle sentenze della Corte Edu, “ha ribadito - riferisce Antigone - che sono necessarie misure legislative che diano ai tribunali la possibilità di rivedere la condanna all’ergastolo alla luce di una valutazione globale del percorso di risocializzazione anche in assenza di collaborazione con la giustizia”. E ha “sollecitato il legislatore a superare l’attuale automatismo ostativo che subordina l’accesso alla liberazione condizionale alla mera collaborazione con l’autorità giudiziaria”. Inoltre l’organismo europeo, spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “ha sottolineato che l’Italia deve urgentemente porre fine alla violazione del diritto del ricorrente (Viola), la cui richiesta di accesso alla liberazione condizionale non può ancora essere esaminata da un tribunale in assenza di collaborazione con la giustizia, e ha invitato le autorità italiane ad adottare senza ulteriori ritardi le misure legislative necessarie a garantire che non si verifichino ulteriori violazioni dell’articolo 3 della Cedu”. Non c’è però alcun automatismo neppure nella possibilità, da parte del condannato, di ottenere la liberazione condizionale quando richiesta. La decisione spetterebbe soltanto all’autorità giudiziaria che dovrà valutare, di volta in volta, se il detenuto abbia adeguatamente partecipato all’opera di rieducazione a prescindere dal fatto che abbia collaborato con la giustizia o meno. Quello de Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa è un pronunciamento “importante”, ha commentato Gonnella augurandosi “che il Parlamento si impegni, entro l’anno previsto dalla Corte costituzionale, nell’approvare una legge che tenga conto della giurisprudenza italiana ed europea. L’ergastolo senza speranza è in contrasto con i principi costituzionali e convenzionali”. Il carcere deve rieducare, non punire di Pietro Chiaro Il Domani, 12 giugno 2021 Dopo aver ascoltato qualche sera fa il procuratore Gratteri alla trasmissione curata dalla Gruber, mi sono ancora più convinto del ritardo culturale che ci accompagna sul versante carcerario, del quale, non a caso, non si parla più da tempo. Nemmeno è dato, tra l’altro, di sapere a che punto sono le indagini sulle rivolte avvenute l’anno scorso nelle carceri di Pisa e Santa Maria Capua Vetere, con le morti poco chiare di alcuni detenuti, conseguenti alle stesse. Accennavo al deficit di approfondimento cognitivo del problema del carcere e della sua funzione, e reale necessità. Ritardo culturale che non permette l’adeguata comprensione della problematica correlata alla natura e all’entità della pena, e alla sua funzione in rapporto al trattamento e alla sorte del detenuto. Ebbene, a differenza del messaggio che sembra pervenire dal pur ottimo magistrato in questione - sotto scorta da moltissimi anni, per la costante e rigorosa lotta alla malavita calabrese - bisogna insistere nel ricordare ai cittadini che la pena, più che alla funzione vendicativa, racchiusa in quella punitiva e retributiva, ha una finalità essenzialmente rieducativa e recuperativa (così come previsto dall’art. 27 della Costituzione). La privazione della libertà, che non va affidata necessariamente alla restrizione in quattro mura, da adottare come extrema ratio, ma altresì alle previste pene alternative, deve avere come ottica il recupero alla società del soggetto-detenuto, che un giorno dovrà in essa rientrare, libero da ogni vincolo. Resto convinto se si insiste su questo messaggio, si riuscirà a far comprendere perché il carcere ha una funzione falsa e puramente ideologica e perché il “fine pena mai” è incompatibile con il rispetto della dignità della persona, insita anche nel peggiore assassino. Giustizia, la riforma senza forma di Michele Ainis La Repubblica, 12 giugno 2021 Manca ancora un testo, un progetto di legge timbrato dal governo, eppure si discute animatamente su proposte e ipotesi. Fin qui, sulla giustizia, c’è una riforma senza forma: manca ancora un testo, un progetto di legge timbrato dal governo. Eppure le discussioni s’accendono come cerini. Ma senza un testo sul quale confrontarsi, di che discutono i discussant? D’ipotesi, o al più di proposte caldeggiate da questa o quella commissione ministeriale, e immediatamente respinte da questo o quel partito. È l’esito d’una babele che dura ormai da troppo tempo: qualunque idea divide prima ancora di venire formulata. In questa Babilonia, c’è però una scelta che chiama in causa la ministra in carica, e insieme a lei le forze di governo. Dovranno decidere fra l’aspirina e il cortisone, fra una terapia minima e uno shock per curare la giustizia italiana. Che sia malata, d’altronde, non c’è dubbio. Un sondaggio Ipsos espone numeri eloquenti: quasi un italiano su due (il 49%) dichiara di non avere più fiducia nella magistratura, mentre nell’ultimo decennio il credito che circonda il potere giudiziario è sceso a precipizio (dal 68 al 39%). La giustizia - dice l’articolo 101 della Costituzione - viene “amministrata in nome del popolo”; ma di questi tempi manca il popolo, resta soltanto l’amministratore. Ed è un problema, anzi una sciagura. Perché il discredito offusca l’autorità dei giudici, ne incrina la legittimazione. E perché mette radici nella stessa democrazia applicata alla cittadella giudiziaria, con i suoi tre corollari: il pluralismo culturale, il metodo elettivo, il consenso come fondamento del potere. Sennonché il potere del Csm è tutto in mano alle correnti organizzate, che nessun sistema elettorale è riuscito mai a scalfire. E le correnti decidono carriere, incarichi, prebende. Dinanzi a questa crisi - giuridica e morale - si fronteggiano due eserciti: i minimalisti e i massimalisti. Non sempre è agevole distinguerli, giacché i primi spesso si travestono con i panni dei secondi, e allora dettano riforme secondarie spacciandole per altrettanti rivolgimenti normativi, quando si tratta in realtà d’aggiustamenti, di correzioni leggere come cipria. I minimalisti sono conservatori, però hanno pudore a dichiararsi. Tuttavia c’è almeno un elemento, un indice esteriore, che li divide dai massimalisti. Dipende dall’oggetto stesso della riforma: la legge ordinaria o la Costituzione. E dipende dalla profondità dell’intervento, dalla sua attitudine a separare nettamente politica e giustizia, anche attraverso soluzioni inedite, mai sperimentate. Come il divieto di ricoprire funzioni giudicanti nei confronti del magistrato cessato da una carica elettiva. O l’uso del sorteggio per formare il Csm. O il rinnovo parziale dell’organo, allo scopo di rompere la morsa correntizia. O l’attribuzione a un’Alta corte di giustizia del potere di decidere sugli illeciti disciplinari dei magistrati, dato che la giurisdizione domestica ha offerto pessime prove (nemo iudex in causa propria, dicevano i latini). Su tutti questi aspetti la commissione nominata da Cartabia ha detto no. Senza compromessi, senza concessioni al fronte dei massimalisti. Proponendo viceversa l’ennesima legge elettorale che dovrebbe trasformare in santi i diavoli. Riducendo le firme necessarie per la presentazione delle candidature, quando il referendum di Lega e Radicali le elimina del tutto. Aumentando a dismisura i membri del Csm (36+1, come alla roulette). E respingendo con toni un po’ sdegnati l’idea stessa del sorteggio, pur applicandola - contraddittoriamente - in un’ipotesi minore (pag. 12 della Relazione). Eppure il sorteggio, diceva Montesquieu, rende concreta l’eguaglianza. E i giudici formano una comunità d’eguali, distinti solo per funzioni (articolo 107 della Costituzione). D’altronde gli stessi costituenti prescrissero l’uso del sorteggio per il nostro più alto tribunale, la Consulta, quando giudica sui reati del capo dello Stato (articolo 135). Non sarebbe una bestemmia, quindi, estenderlo pure al Csm. Si può fare a Costituzione invariata, benché quest’ultima indichi il metodo elettivo: basta sorteggiare una platea di candidati da sottoporre alle elezioni. Per le correnti giudiziarie, sarebbe un funerale. Per la giustizia italiana, è un funerale ogni riforma finta, edulcorata. Processi giusti e processi spettacolo. Un media-evo d’ingiustizia di Glauco Giostra Avvenire, 12 giugno 2021 Assistevano in prima fila allo ‘spettacolo’ della decapitazione, continuando a lavorare a maglia: erano le tricoteuses, donne del popolo che non possiamo immaginare tutte sadiche sanguinarie. Probabilmente, nella eliminazione fisica dei rappresentanti di quell’aristocrazia che aveva tanto e tanto a lungo vessato il popolo, vedevano la giusta punizione per i soprusi subiti e la fine del loro soffrire. Il fatto, poi, che si stessero ghigliottinando molti innocenti e che quella lama non fosse la soluzione dei loro problemi, non possiamo certo addebitarglielo. Anzi, non è azzardato ipotizzare che, se lo avessero potuto immaginare, avrebbero smesso di sferruzzare e avrebbero chiesto una giustizia più giusta, nonché risposte meno plateali, ma più appropriate. Anche noi rammagliamo le nostre giornate cenando o sdraiandoci sul divano davanti alla tv, il cui palinsesto sempre più spesso erige un patibolo mediatico sopra al quale trascinare il presunto responsabile del terribile misfatto di turno, che tanto ha scosso la nostra sensibilità e tanto angosciante allarme ha suscitato in noi. Ascoltare perentorie affermazioni di colpevolezza rassicura: la profonda ferita sociale causata dal delitto trova convincente e tempestiva sutura, senza attendere un processo lontano da noi, quanto a metodo di accertamento, e dal fatto di reato, quanto a distanza temporale. Per carità, nessun plausibile accostamento con quello squarcio della Rivoluzione francese. Eppure c’è qualcosa, nella prontezza con cui certi media (magari ‘garantisti’ a intermittenza, come certi politici, quando alla sbarra vanno figure amiche) si affrettano a ghermire lo sconvolgente fatto di cronaca nera e a predisporre il carro su cui far salire i condannati senza giudizio; nella ostentata esibizione dei risultati investigativi da parte delle autorità inquirenti, soddisfatte di poter annunciare che giustizia è fatta; nel nostro inconfessato bisogno di crederci; nel diffuso fastidio per qualsiasi accertamento che possa in seguito smentire quelle sbandierate certezze; nel ritenere che non vi sia nulla di più democratico del tribunale dell’opinione pubblica; c’è qualcosa, dicevo, che dovrebbe destare molta preoccupazione. Perché il tribunale dell’opinione pubblica ha a che fare con la giustizia, quanto la folla acclamante sotto a un balcone o ‘likeggiantè dai social network ha a che fare con la democrazia: cioè nulla, assolutamente nulla. Sarebbe bene piuttosto, dopo aver restituito a queste due forme di ‘barbarie civilè i nomi appropriati - rispettivamente, infotainment giudiziario e oclocrazia (óchlos, massa; krátos, potere) -, coglierne la strettissima e inquietante parentela. Perché una società per la quale la dignità del singolo è valore sempre subvalente rispetto al proprio bisogno di rassicurazione è una collettività in balìa di chi saprà agitare pericoli e paure, puntando l’indice contro ogni diversità in grado di calamitare il rancore sociale. Perché l’insicurezza sociale, che troppi media a mo’ di specchio ustorio riflettono e alimentano, costituisce una ghiotta opportunità per certa politica deteriore: offre agli imbonitori di turno la possibilità di lucrare facile consenso contrabbandando per argine contro la criminalità il più cieco rigore punitivo, notoriamente inutile rispetto all’obbiettivo che si ostenta di voler perseguire (negli Usa, gli Stati che prevedono la pena di morte registrano mediamente più alti indici di criminalità rispetto a quelli che non la ammettono). Perché all’opinione pubblica che reclama a gran voce una risposta immediata alla propria angoscia, talvolta la magistratura inquirente è indotta sciaguratamente a offrirla, con maldissimulato compiacimento, e, nel migliore dei casi, con impropri intenti rassicuratori. Perché i testimoni finiscono fatalmente e inconsapevolmente per rielaborare il proprio ricordo in modo da conformarlo al racconto che del fatto di reato hanno imbastito gli organi di informazione: una ‘subornazione mediatica’ che non potrà trovare alcun antidoto processuale. Perché questo ingravescente fenomeno per cui le autorità giurisdizionali, ogniqualvolta che sono chiamate ad assumere decisioni percepite come incidenti sulla sicurezza sociale, vengono cinte da una sorta di assedio emotivo, finisce per delegittimare la giustizia che non condanna e alla lunga potrebbe indurre persino a conformare alla precedente sentenza mediatica quella giurisdizionale. Non vorremmo che un Alessandro Manzoni del futuro dovesse scrivere anche del nostro tempo che i giudici avevano “il timor di mancare a un’aspettativa generale, di parer meno abili se scoprivano degl’innocenti, di voltar contra di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente perverso, e non meno miserabile, quando sottentra al timore, veramente nobile e veramente sapiente, di commettere l’ingiustizia”. Sono tanti i fattori che dovrebbero sinergicamente concorrere per superare questa inquietante tendenza mediatica, segnatamente della tv, ad allestire parodie processuali: una maturazione civile del nostro Paese, dopo la desertificazione culturale prodotta da certa televisione commerciale, purtroppo in larga misura emulata dal servizio pubblico; una politica che sappia rinunciare alla cinica speculazione sulle paure della gente; una riforma del processo penale che ne riduca i tempi geologici; una maggiore professionalità degli operatori dell’informazione e della giustizia; più stringenti regole deontologiche e disciplinari; un assetto normativo che segni rigorosi confini tra informazione sul processo e processo sui mezzi di informazione, presidiandoli con rigorose sanzioni interdittive ed economiche. Ma nell’orizzonte prossimo non si scorgono miglioramenti significativi. Di certo, non se ne vedranno sino a quando non vi sarà diffusa, turbata consapevolezza dell’insidioso degrado civile che stiamo attraversando: il media- evo della giustizia penale. Referendum sulla giustizia, per Letta non s’ha da fare di Astolfo Di Amato Il Riformista, 12 giugno 2021 Il segretario dem ha detto che il referendum è solo un modo per fare lotta politica e che il suo programma è quello di Cartabia. Quindi nessun blocco alle porte girevoli, nessuna responsabilità per i magistrati e ancora più potere alle correnti. Una vera riforma della giustizia non s’ha da fare! Questo il vero senso delle parole, che Letta sta spendendo, giorno dopo giorno, sul tema della giustizia. Dispiace rilevare che anche Mattarella ha pronunciato, probabilmente al diverso fine di tutelare le istituzioni, parole che, di fatto, possono avere lo stesso effetto. Ma procediamo con ordine. Lo scadimento raggiunto dal precedente CSM nella amministrazione dell’Ordine Giudiziario è stato ben rappresentato dalla lettera pubblica, con cui Andrea Mirenda, presidente di sezione del tribunale di Verona, annunciava nel luglio 2017 di andare a fare il magistrato di sorveglianza come “gesto controcorrente, di composta protesta verso un sistema giudiziario improntato ormai ad un carrierismo sfrenato, arbitrario e lottizzatorio, che premia i sodali, asserve i magistrati alle correnti...”. Successivamente, il trojan, che ha disvelato i rapporti di Palamara, ha portato alla luce una realtà ancora più ampia e degradata di quella denunciata da Mirenda. Ha fatto seguito la pubblicazione del libro intervista Sallusti-Palamara, che ha dato conto dell’esistenza di un sistema, capace di influenzare non solo l’attribuzione degli incarichi nell’ambito dell’ordine giudiziario, ma anche l’esito dei procedimenti. Il sistema avrebbe anche determinato l’elezione dell’attuale vicepresidente del CSM. Sono divenute di pubblico dominio le registrazioni di alcune dichiarazioni di Amedeo Franco, giudice relatore nel processo in Cassazione che ha confermato la condanna di Berlusconi, secondo cui il collegio giudicante non sarebbe stato sereno. Un componente togato del CSM è andato in pensione per limiti di età, ma solo dopo aver condotto una battaglia strenua per restare ciononostante al suo posto. È divenuto noto il contenuto di alcuni verbali relativi agli interrogatori re si dall’avv. Amara innanzi alla Procura della Repubblica di Milano, secondo i quali sarebbe esistita una cd. Loggia Ungheria, che, tra l’altro, avrebbe condizionato l’assegnazione di incarichi direttivi ai magistrati. Tali verbali sarebbero stati informalmente consegnati da un magistrato inquirente ad un componente del CSM ed il relativo contenuto sarebbe stato, sempre informalmente, condiviso da quest’ultimo con il Presidente della Commissione antimafia. La ragione di questo passaggio di mano dei verbali sarebbe stata la preoccupazione dovuta al fatto che, nonostante la gravità delle rivelazioni, non fossero state subito disposte dal capo dell’ufficio le conseguenti indagini. Milena Gabanelli nella sua rubrica ‘Data room” ha offerto alcuni dati precisi, e sconvolgenti, su come funziona la giustizia domestica nell’ambito del CSM. Alla crisi di carattere istituzionale, di cui sono espressivi i fatti appena menzionati, si è aggiunto, con drammatica evidenza, l’aggravarsi della crisi del servizio giusti zia, che non è più in grado, troppo spesso, di dare una risposta adeguata, nei tempi e nei contenuti, alle esigenze della collettività. Tanto da essere diventato uno dei fattori decisivi della crisi struttura le in cui versa l’economia italiana. A fronte di tutto questo, il Capo dello Stato ha affermato, in occasione del ventinovesimo anniversario della strage di Capaci, che “sentimenti di contrapposizione, contese, divisioni, polemiche all’interno della Magistratura, minano il prestigio e l’autorevolezza dell’Ordine Giudiziario”. In altri termini, “non litigatè. Forse un po’ poco, troppo poco, rispetto al quadro appena descritto. La drammatica crisi in cui la giustizia è sprofondata è il frutto avvelenato del rifiuto di dare corso a qualsiasi tentativo di riforma. La Magistratura associata, con il sostegno di alcune forze politiche, si è opposta pervicacemente a qualsiasi tentativo di incidere sull’attuale assetto, in nome della tutela dell’autonomia e dell’indipendenza. Ma, nel momento in cui emerge che il risultato è la creazione di un “sistema”, quale quello descritto da Palamara e confermato dalle intercettazioni che lo riguardano, il rifiuto di ogni possibile riforma si è palesato essere stato nient’altro che la difesa di un assetto di potere, per giunta del tutto illegittimo. Oggi, il Governo in carica si sta muovendo in una duplice direzione da 1m lato cercando di intervenire sui meccanismi della giustizia civile e su quelli della giustizia penale e, dall’altro, cercando di intervenire sull’ordinamento giudiziario (composizione del CSM, rapporti tra funzione requirente e funzione giudicante, attività politica dei magistrati, etc.). Su quest’ultimo tema si concentra, in modo pressoché esclusivo, anche l’iniziativa referendaria portata avanti dal Partito Radicale e dalla Lega. Letta non ha avuto esitazioni nel posizionare il Partito Democratico su di un atteggiamento nettamente conservatore. Sul tema della riforma della giustizia penale ha tenuto a precisare di essere contro l’impunitismo. Neologismo creato per l’occasione, ma di significato assai miserevole se, come sembra, esprime l’ossessione di ogni giustizialista che qualcuno possa farla franca. Tutto il contrario di quello che il pensiero liberale ha sempre ritenuto: il problema centrale del diritto penale è quello di garantire lo statuto dell’imputato, anche se colpevole, essendo chiamato a misurarsi con un potere, quale quello dello Stato, che se non regolato è illimitato e potenzialmente prevaricatore. Ma è soprattutto sul secondo aspetto che si misura la posizione di Letta. Ha, difatti, dichiarato che il suo programma su questi temi è quello della Ministra Cartabia e che l’iniziativa referendaria è solo un modo, evidentemente a suo avviso esecrabile, ‘per fare lotta politica”. Sennonché la proposta di riforma dell’ordinamento giudiziario, che la Ministra ha illustrato ai capi gruppo dei partiti di maggioranza della Commissione Giustizia alla Camera non tocca, ma anzi rafforza, il potere delle correnti, non (docce le porte girevoli tra magistratura e politica, non introduce alcun profilo di responsabilità per i magistrati, non affronta realmente il tema della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, non assegna alcun ruolo alla società civile nella valutazione dei magistrati. Si potrebbe obiettare che si tratta, alla fin fine, di problemi che riguardano per lo più le questioni interne all’Ordine Giudiziario. Ma non è cosi: qualsiasi riforma della giustizia civile e della giustizia penale passa attraverso l’interpretazione, che poi è chiamata a darne la magistratura. Ed una magistratura totalmente autoreferenziale, come quella attuale, è capace di vanificare ogni riforma. Un esempio? Più volte il legislatore, negli ultimi trenta anni, ha cercato di intervenire per limitare l’uso della carcerazione preventiva. Ma senza successo: la magistratura ha interpretato le nuove norme in continuità con le proprie prassi precedenti. E l’eccesso di custodia cautelare non è mutato. La provocazione di Calderoli: “Cartabia firmi i referendum” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 12 giugno 2021 “Io capisco che un ministro della Giustizia non possa venire a firmare per un referendum sulla giustizia, ma la invito ugualmente a farlo”, dice il senatore leghista. “Personalmente nutro la massima stima nell’attuale Ministro della Giustizia, Maria Cartabia, per il il suo incarico attuale e per la sua esperienza e autorevolezza da giudice. Ho apprezzato le sue parole nell’intervento di oggi in Senato se non fosse che nella realtà temo siano scritte sull’acqua, soprattutto rispetto all’avviso di garanzia. Se la Cartabia dovesse mai, e non glielo auguro ovviamente, provare sulla propria pelle cosa significa ricevere un avviso di garanzia ritengo che solo allora potrebbe capire che significato ha oggi mediaticamente la ricezione di quest’atto a tutela dell’indagato che, come ha ammesso la stessa Cartabia: “spesso diviene di dominio pubblico e rischia di innescare di un meccanismo di stigmatizzazione sociale, a detrimento, anziché a vantaggio, della persona destinataria”“. A dirlo è il senatore leghista Roberto Calderoli, vice presidente del Senato, che si rivolge alla guardasigilli Marta Cartabia per sottolineare l’importanza dei referendum sulla giustizia proposti da Lega e Radicali. “Ecco, questo è proprio quello che non riesco a capire, e rivolgo la domanda al Ministro della Giustizia, non riesco a capire come un atto a tutela dell’indagato finisca prima alle testate giornalistiche che nelle mani dell’interessato, come possano contenuti di indagine, sottoposti a segreto d’ufficio, o le motivazioni di pronunciamento di un Tribunale, arrivare nelle scrivanie dei giornalisti prima che nelle mani degli imputati. Ma tutto questo, ministro, non rappresenta un reato? Ovviamente sì. E qualcuno non può prendersi la briga di indagare sulle origini di queste fughe di notizie con l’esercizio dell’azione penale e arrivare a trovare il vero responsabile di questa fuga di atti riservati? Finora ovviamente no! I nostri referendum chiedono anche questo, che chiunque nel sistema della giustizia sbagli poi paghi ma paghi sul serio. Io capisco che un ministro della Giustizia non possa venire a firmare per un referendum sulla giustizia, ma la invito ugualmente a farlo: venga a formare anche lei, la aspettiamo! Ma soprattutto spero vengano a firmare i cittadini perché andare avanti così non è giusto”, aggiunge Calderoli. “Basta con la discrezionalità delle procure, serve la responsabilità civile dei magistrati” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 12 giugno 2021 Intervista al sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, dopo il caso della sindaca di Parma: “Se ci sono pm in giro per l’Italia che indagano quattro o cinque volte un primo cittadino e finisce sempre con il non luogo a procedere, con l’archiviazione o con l’assoluzione, una conseguenza dovrà pur esserci”. Il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, sulle recenti indagini contro i sindaci spiega che “se ci sono pm in giro per l’Italia che indagano quattro o cinque volte un primo cittadino e finisce sempre con il non luogo a procedere, con l’archiviazione o con l’assoluzione, una conseguenza dovrà pur esserci”. Sindaco Pizzarotti, a mente fredda che idea si è fatto dell’indagine sulla sindaca di Crema? Il fatto di Crema è stato così paradossale che ha reso evidente ciò che in altre occasioni lo era già. Senza entrare nel dettaglio della scuola di Crema, il tema generale era la porta, che secondo l’accusa doveva avere presupposti di sicurezza diversi da quelli che aveva. Ma se il sindaco avesse voluto intervenire, avrebbe potuto comunque essere indagata perché avrebbe potuto usare impropriamente il suo potere, non essendoci motivi di urgenza. Come fai, sbagli. Quali garanzie dovrebbero essere fornite a sindaci per evitare conseguenze del genere? Tutti i sindaci hanno sempre detto che nessuno di noi vuole avere un lasciapassare che lo sottragga dalle proprie responsabilità, ma queste devono essere conseguenti alle potenzialità della figura del sindaco. È necessario poi che non ci sia discrezionalità delle procure, perché questa renderebbe tutto molto complesso. Cioè? A volte vengono indagati i dirigenti, in altri casi gli assessori, in altri i sindaci, in base al gusto di chi sta indagando. Se c’è una catena delle responsabilità e delle azioni si deve poter seguire in ogni occasione. Non credo sia naturale che ogni volta sia a discrezione dell’inquirente. Faccio un esempio che mi riguarda. Sono stato indagato per disastro colposo per i fatti dell’alluvione del 2014, quando l’acqua aveva invaso anche altri comuni, i cui sindaci però non sono stati indagati. Io lo sono stato semplicemente perché Parma era la più grande città colpita e si trova a valle, ma non mi sembra questo un canone per prendere decisioni diverse sui singoli. Servono canoni oggettivi e non soggettivi. Si dice che per evitare casi come quello di Crema “bisogna cambiare le leggi”. In che modo? Non sono un giurista e non entro nella questione, ma la paura della firma, tante volte citata da Draghi, è un tema che esiste. Sono le procedure a dover cambiare. Il sindaco firma ogni giorno decine di documenti sui quali non ha la competenza personale per sapere se sono giusti o sbagliati e così si fida del proprio assessore o funzionario. Se ci sono i visti di correttezza amministrativa ed economica la firma del sindaco è un atto politico, ma un atto politico non può avere conseguenze di responsabilità giuridica. É per tutti questi motivi che oggi nessuno o quasi vuol fare più il sindaco? É un tema molto soggettivo. Sicuramente il lavoro del sindaco è uno dei più belli, perché lo fai per la tua comunità con l’orgoglio della città dove tendenzialmente sei nato e vissuto. Puoi prendere decisioni efficaci in poco tempo, se hai le risorse economiche, e questo lo differenzia ad esempio dal consigliere regionale o dal parlamentare. Al tempo stesso, a differenza di come lo può pensare il comune cittadino, più il comune è piccolo più il sindaco è a contatto diretto con i vari problemi. Nell’immaginario medio del cittadino forse non è chiaro quali siano i contorni entro i quali il sindaco, a fatica, si muove. Molti sindaci delle grandi città hanno a proprio carico delle indagini pendenti. Crede che l’operato della magistratura rischia di imbrigliare il lavoro dei primi cittadini? Il tema giudiziario è sempre più rilevante. Potremmo citare i casi di Appendino e Raggi, ma sono tanti i sindaci che hanno inciampi giudiziari che poi nella stragrande maggioranza finiscono nel nulla. Ed è per questo che chi ha una propria credibilità magari rinuncia a candidarsi. Non è bello vedere sul giornale locale della città il proprio nome con la dicitura “indagato” e doverlo spiegare ai propri familiari e amici. Io, ad esempio, spendo duemila euro all’anno di assicurazione sulla cause civili e penali. A volte, poi, finisce male. Come nel caso dell’ex rettore dell’università di Parma... Esatto. Il nostro ex rettore, persona straordinaria, si è suicidato nel 2018 a causa di un procedimento che oggi, anni dopo la sua scomparsa, si è chiuso con un nulla di fatto per tutti. Il fattore di interpretazione e di peso personale non può essere sorvolato. Bisognerebbe poi anche entrare nel filone della separazione delle carriere e della responsabilità dei magistrati. Entriamoci, visto che sono questioni di grande attualità. Tra le due questioni, quella che riguarda più da vicino le indagini sui sindaci è la responsabilità civile dei magistrati. Se ci sono pm in giro per l’Italia che ti indagano quattro o cinque volte e finisce sempre con il non luogo a procedere, con l’archiviazione o con l’assoluzione una conseguenza dovrà pur esserci. Come viene chiamato in causa il medico o il sindaco che sbaglia, così deve esserlo il magistrato che sbaglia. È un tema che è stato lasciato troppo alla destra, perché la sinistra non ha mai avuto il coraggio di affrontare in maniera sana il tema delle riforme della giustizia, necessarie per adeguare il sistema con ciò che accade in Europa. Crede che le scuse di Di Maio all’ex sindaco di Lodi siano un segnale del fatto che il giustizialismo è ormai stato messo in soffitta o andrebbero contestualizzate nell’attuale scenario politico? La mia interpretazione è che si tratta di opportunismo politico. Prima c’erano la gogna mediatica e il giustizialismo, oggi si va verso un’immagine moderata del Movimento 5 stelle con e grazie a Conte, e per farlo anche i toni devono essere quelli di un centro moderato, che difende fino a giudizio definitivo chi è accusato o indagato. Era opportunismo politico all’epoca, perché faceva audience urlare contro i politici che rango tuti corrotti, e lo è oggi, perché essendo al governo fa comodo dare un’immagine diversa. Oggi essere garantisti conviene a tutti. Penso però che la mancanza di coerenza spinga le persone sempre più lontano dalla politica, e questo lascia l’amaro in bocca. Giustizia italiana in affanno, rilancio possibile con l’intelligenza artificiale di Eduardo Savarese Il Riformista, 12 giugno 2021 Luoghi e occasioni per parlare di giustizia predittiva e intelligenza artificiale nel comparto giustizia aumentano vertiginosamente. Intanto il 20 aprile scorso la Commissione europea ha approvato la proposta di regolamento sull’AI (Intelligenza Artificiale), contenente procedure di valutazione di impatto e di certificazione per le applicazioni ad alto rischio, come gli algoritmi valutativi e quelli adoperati nel settore della giustizia. Il libro bianco Giustizia 2030, dal canto suo, nel prospettare tutte le possibilità della giustizia digitale, riserva ampia attenzione al tema di intelligenza artificiale e uso di algoritmi nell’identificare mezzi e obiettivi della giustizia predittiva. Si intensificano, in quest’ottica, i progetti di ricerca, come quello avviato a Pisa dalla Scuola Superiore Sant’Anna, funzionale a creare una banca dati della giurisprudenza per valutare le chance di successo e i tempi di contenzioso. Tra gli entusiastici aedi di questa nuova frontiera e i diffidentissimi critici che invocano Sofocle e la Costituzione, poniamoci, socraticamente (ma anche vonnegutianamente), qualche domanda. La prima afferisce al metodo: la giustizia predittiva è invocata a quale scopo? La risposta parrebbe, più che semplice, banale: velocizzare la giustizia, rendere il sistema più performante, più efficiente, a beneficio della (famigerata, perché a sua volta scarsamente definita) utenza. Declinata così, mi sembra che continuiamo imperterriti a parlare del fumo e non dell’arrosto. Il quale arrosto sta in un interrogativo ben diverso: posto che una risposta di giustizia deve attuarsi in un tempo ragionevole, in un certo contesto - poniamo l’Italia, anzi poniamo il Mezzogiorno d’Italia - secondo quali meccanismi e per quali bisogni fa formandosi la domanda di giustizia? A me pare che questo interrogativo resti ostinatamente inevaso: ma per incidere sui sistemi noi dobbiamo avere la possibilità di analizzare il dato da entrambi i lati, domanda e offerta. Allora forse gli algoritmi ci potrebbero aiutare a comprendere, per esempio, che impatto ha il numero di avvocati nella creazione di domanda di giustizia, oppure cosa comporta - in termini di costi per il sistema giustizia - un fenomeno epocale come quello del flusso incessante di migranti da un continente a un altro. Una seconda domanda tra Socrate e Vonnegut è poi culturale: quando invochiamo o condanniamo l’algoritmo, sappiamo davvero di cosa stiamo parlando? Insomma, i giuristi - almeno in Italia - spesso fanno fatica con le scienze più o meno esatte. Una cosa è certa, però (la letteratura distopica lo insegna): l’algoritmo è un dispositivo tecnico strumentale a un esercizio di potere. Occorre capire chi lo forma, perché, secondo quali criteri: occorre cioè formarci ad apprendere la lettura del contenuto e del modo d’operare dell’algoritmo. Si tratta quindi di farci consapevoli della modificazione del paradigma di conoscenza in atto da tempo in ogni settore e che vuole attraversare anche la giustizia. Terza e ultima questione: dal momento che l’algoritmo può servire a molte cose (prevenire i reati, orientando l’attività di indagine, valutare le prove, risolvere questioni interpretative delle norme, orientare i modi di risoluzione delle controversie civili alternativi alla sentenza), a me pare di poter individuarne tre utilità foriere di risultati potenzialmente fecondi. In primo luogo, forse potremmo affidare a un algoritmo - definito per legge del Parlamento - la scelta dei dirigenti degli uffici giudiziari (l’uso degli algoritmi nei concorsi pubblici, come si sa, è già una realtà effettiva, e il Consiglio di Stato ha fornito diverse indicazioni al riguardo). In secondo luogo, all’algoritmo potremmo chiedere di analizzare i flussi di domanda di giustizia al fine di ridisegnare la geografia giudiziaria di questo Paese e soprattutto dei Tribunali campani. In questi due casi, la pretesa neutralità dell’algoritmo potrebbe liberarci di due zavorre che opprimono la magistratura e il funzionamento della giustizia (con profili e problemi evidentemente diversi tra l’uno e l’altro aspetto).Infine, e quel che mi sembra più interessante, è l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale per l’analisi delle prospettive di successo di un’azione giudiziaria civile che si voglia intentare, sistemi leggibili (questa è un po’ la ratio del progetto pisano, se ho ben capito) anche dal comune cittadino senza la necessaria intermediazione dell’avvocato. Questo percorso aprirebbe una - per così dire - maggiore consapevolezza democratica nella volontà di ricorrere ai Tribunali ovvero nella scelta di trovare sistemi alternativi di risoluzione delle controversie. Non solo, l’elaborazione dei dati assicurata da sistemi di AI nel comparto giustizia aiuterebbe un istituto al quale credo molto e che sostengo da anni, prendendolo a prestito dalla riforma attuata presso la Corte di Strasburgo: quello del “giudice filtro” che stabilisce, anche sulla base dell’esistenza di consolidati orientamenti giurisprudenziali oppure di pacifiche applicazioni di norme di diritto positivo, se una causa è più o meno “sensata”, stabilendone anche la futura calendarizzazione nei mesi se non negli anni a venire. In conclusione, se tutto non si riducesse a formulette di marketing e a target efficientisti, i temi dell’intelligenza artificiale e della giustizia predittiva potrebbero essere un campo di rinnovamento vasto e stimolante del sapere giuridico. Non voglio essere pessimista, ma lo “Zeitgeist” sembra soffiare verso una nuova corsa alla redazione di pagelline e premi a punti. Potere psichiatrico e potere giudiziario, il caso Vattimo di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 12 giugno 2021 A più di 50 anni dal caso Braibanti, il reato di “circonvenzione d’incapace” definito dal nostro codice penale, non è che una variante di quello di plagio. Sono passati più di 50 anni dal “caso Braibanti”, la persecuzione di un intellettuale antifascista, ex-partigiano giustificata da un reato, il plagio, che fu poi cancellato dal codice penale. Risalgono ai primi anni Settanta gli studi foucaultiani sul potere psichiatrico e la sua connivenza con i sistemi punitivi, giudiziario e carcerario. Quarant’anni anni fa, moriva Franco Basaglia, medico e filosofo decisivo nel liberare gli internati dalle catene, metaforiche e non, di una psichiatria oppressiva e punitiva. Questa progressiva liberazione della sofferenza personale, della marginalità sociale e dell’indipendenza esistenziale dall’oppressione legalizzata - giudiziaria o para-scientifica che sia - sembra un mero ricordo, svanita com’è nell’attuale ritorno di una pratica psichiatrica legata a concezioni arcaiche della vita psichica e basata sugli psicofarmaci, sulla contenzione e sulla segregazione. Lo dimostrano i casi di diversi centri per la salute mentale nell’Italia del nord a cui l’amministrazione di destra, con il contributo decisivo leghista, ha imposto direttori culturalmente reazionari, in certi casi denunciati per gli abusi commessi sulle persone di cui dovrebbero prendersi cura. Ma lo dimostra anche il ritorno di un’alleanza diffusa tra potere psichiatrico e potere giudiziario-inquisitivo, come è manifesto nell’incredibile caso in cui è coinvolto il filosofo Gianni Vattimo. Apprendiamo infatti dalle cronache che un convivente di Vattimo, Simone Caminada, è stato rinviato a giudizio per “circonvenzione d’incapace” dopo che uno psichiatra torinese, tal Franco Freilone, ha giudicato Vattimo, in una perizia disposta dal pubblico ministero Giulia Rizzo, “circonvenibile”, in sostanza incapace di giudizio autonomo. L’oggetto della “circonvenzione” sarebbe costituito, naturalmente, dal patrimonio del filosofo, come dimostrato - secondo l’accusa - dai benefici economici ottenuti da Caminada. Conosciamo da circa quarant’anni Gianni Vattimo, con cui abbiamo collaborato in diverse occasioni, da “Il pensiero debole” (Feltrinelli 1983) a diversi annuari filosofici e volumi collettivi curati da Vattimo e pubblicati da Laterza. Recentemente, abbiamo partecipato con lui a incontri e seminari. Lo riteniamo non solo una delle menti più brillanti della filosofia italiana, come è anche dimostrato dal suo grande riconoscimento internazionale, ma un uomo libero, buono e generoso. Le sue prese di posizione a favore dei movimenti sociali di liberazione, degli oppressi e degli esclusi dimostrano inoltre un’apertura politica e culturale di cui raramente molti pensatori, italiani e non, si sono dimostrati capaci. Ci rifiutiamo di credere che la sua militanza nei movimenti omosessuali e la sua nota vicinanza alla sinistra radicale siano state determinanti nel rinvio a giudizio del suo amico e convivente, nonché nella valutazione di una sua incapacità di giudicare. È davvero sconcertante, anzi grottesco, che, proprio nel momento in cui la casa editrice Nave di Teseo dà alle stampe la sua opera filosofica completa, qualcuno, in base a un mandato giudiziario, contribuisca a coinvolgerlo in un processo. Parliamo di un uomo di 85 anni, che ha sofferto diverse perdite personali ma che, nonostante tutto, è attivissimo in campo intellettuale. Ci chiediamo inoltre come tanti suoi allievi e colleghi, filosofi e non, che Vattimo ha aiutato a imporsi sulla scena intellettuale e mediale, tacciano. Sarebbe imperdonabile se si trattasse di una sorta di realismo politico, o peggio personale, applicato al pensatore e all’amico. Ma il punto è anche un altro. Riteniamo che il reato di “circonvenzione d’incapace”, così come definito dal nostro codice penale, non sia che una variante di quello di plagio. E che soprattutto comporti una svalutazione “a prescindere” dell’indipendenza personale che non dovrebbe avere cittadinanza in una società che si presenta come “liberale”. Oggi parliamo di Vattimo, perché siamo personalmente toccati dalla sua vicenda. Ma dovremmo parlare anche e soprattutto della penetrazione dei poteri - giudiziari e non - nella vita privata dei cittadini. Crediamo che il caso di Vattimo dovrebbe innescare un dibattito sul modo in cui una società, che si riempie la bocca di parole sulla libertà personale, tratta chi decide di beneficare in qualsiasi modo le altre persone, in base alla sua esclusiva libertà di giudizio. Arimo cooperativa: delinquenza minorile, 30mila reati all’anno di Chiara Daina Corriere della Sera, 12 giugno 2021 Quali sono le strategie più efficaci per aiutare i minori che hanno commesso un reato? Chi sono gli adolescenti che trasgrediscono? Quali necessità hanno? La cooperativa sociale Arimo di Milano (che dal 2003 aiuta i minori con vite difficili, sottoposti a misure penali o vittime di abuso e allontanati dalle famiglie, a riscrivere i loro destini) ha istituito il primo Osservatorio annuale dedicato ai ragazzi e alle ragazze a rischio di devianza, con l’obiettivo di capire i loro bisogni e di trovare nuove soluzioni e di promuovere interventi in grado di stimolare le risorse personali con cui costruire una nuova identità e un’alleanza con la società civile. L’Osservatorio è presieduto da un comitato scientifico, di cui fa parte Lamberto Bertolè, presidente di Arimo, e a cui hanno già aderito Joseph Moyersoen, giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Genova, Ferruccio De Bortoli, e Federico Capeci, amministratore delegato di Kantar. “Un adolescente che commette un reato sta chiedendo aiuto, spesso inconsciamente, e se non riceve risposte l’asticella si alza, il livello di trasgressione diventa ancora piu forte e questa identità si consolida - dichiara Bertolè -. Le risposte che possiamo dare, che possono essere anche sanzionatorie, devono soprattutto essere risposte responsabilizzanti e non passivizzanti, come quelle della detenzione”. Il ruolo delle comunità per il recupero dei minori in difficoltà - Per far funzionare i servizi e le comunità educative, sottolinea il presidente di Arimo, “c’è bisogno di educatori formati e motivati e di non demonizzare il mondo delle comunità, di cui comunque si fa un uso residuale in Italia, perché si tende a lasciare il minore il più possibile con la sua famiglia, e che sono più sicure del carcere avendo tassi più bassi di recidiva. Fondamentale, inoltre, fare rete con i servizi di neuropsichiatria sul territorio”. Gli interventi precoci sono salvavita. Ipotecare il futuro è un danno indelebile. “L’investimento sul capitale umano va concentrato soprattutto negli anni della formazione della personalità - ricorda De Bortoli -. Il tempo del recupero si restringe e si esaurisce con l’avanzare dell’età. Rinviare questo investimento sugli adolescenti significa eliminarli dal panorama sociale, non considerarli più dei cittadini ma degli invisibili e la pena dell’invisibilità è una sorta di ergastolo nascosto, quando si potevano benissimo incoraggiare dei percorsi di recupero”. L’indagine di Kantar - L’urgenza di indagare il fenomeno della devianza minorile è confermata dall’indagine svolta da Kantar tra il 13 e il 17 maggio su un campione di mille cittadini, da cui emerge una significativa discrepanza tra la percezione che si ha sulla delinquenza minorile e la realtà dei numeri. Questa disinformazione produce una serie di pregiudizi fuorvianti. Partiamo dal primo dato. Nel 2020 i minori che hanno commesso reato sono stati circa 30mila. Ma solo un intervistato su dieci si è avvicinato alla stima corretta. Il 28 per cento pensa sia un milione o più, mentre la valutazione media è di 750mila minori autori di reato. Due italiani su tre ritengono che nell’anno della pandemia la delinquenza minorile sia aumentata rispetto al 2019: falso. E solo il 17 per cento ne ha consapevolezza. Un altro stereotipo riguarda la nazionalità. Solo il 23 per cento dei minori che commettono reati è straniero, ma un italiano su due crede siano molti di più, addirittura oltre il 70 per cento per un intervistato su dieci. Il tipo di reato più frequente è il furto ma la maggior parte delle risposte ha indicato la detenzione e lo spaccio di stupefacenti. La sovrastima dei reati minorili spiega perché il 70 per cento degli intervistati si senta preoccupato dal fenomeno. Malgrado ciò, evidenzia Capeci “c’è un’apertura nei confronti di chi sbaglia: solo il 16 per cento ritiene che la detenzione sia lo strumento più indicato e un intervistato su tre sostiene che possano essere molto più efficaci le comunità educative, seguite dalle attività socialmente utili. Il 17 per cento, inoltre, chiede nuovi strumenti non ancora conosciuti che non siano quelli ad oggi disponibili per questi ragazzi”. Gli italiani tendono una mano ai minori in difficoltà - Per fortuna la solidarietà batte gli stereotipi. “Il 60 per cento degli italiani, infatti, si dice disponibile ad aiutare chi si occupa di minori in difficoltà. Una percentuale che per il 64 per cento è rappresentata da appartenenti alla cosiddetta Generazione Z, ovvero ai nati fra il 1997 e il 2010” conclude Capeci. Secondo il dipartimento per la giustizia minorile e di comunità il tasso di recidiva per chi sconta la pena interamente in carcere è superiore al 60 per cento. Nel caso delle misure alternative, invece, non supera il 20 per cento. Morale, la detenzione è inefficace e per di più produce maggiori costi economici a carico dello Stato. “Il processo penale minorile disegna un modello rieducativo e trattamentale che mette al centro dell’attenzione i bisogni di crescita del ragazzo, assegna alle misure penali un contenuto educativo, prevede la residualità del carcere e include l’apporto dei servizi sul territorio per i ragazzi più problematici”, chiarisce Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano. Che insiste: “La risposta giudiziaria da sola non è sufficiente per affrontare incisivamente la delinquenza minorile. Occorre - sostiene - una strategia complessiva che preveda l’investimento di risorse per il riscatto dei quartieri abbandonati, per contrastare la dispersione scolastica, per creare opportunità occupazionali, per favorire percorsi di integrazione dei minori non accompagnati che altrimenti possono essere coinvolti in attività criminose. Servono investimenti coraggiosi a sostegno di interventi psicologici e assistenziali seguiti da progetti di responsabilizzazione personale. Questo costo si tradurrà in futuro in un beneficio e in un successo per tutta la società oltre che in un sicuro risparmio di spesa”. L’Osservatorio di Arimo e il recupero sociale dei minori - L’Osservatorio ideato da Arimo sarà un’occasione per raccogliere e diffondere iniziative virtuose di recupero sociale già sperimentate, come “Liberi di scegliere”, un protocollo di intesa tra ministero della Giustizia, ministero dell’Istruzione, dipartimento delle Pari opportunità della presidenza del Consiglio, direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, Conferenza episcopale italiane, associazione Libera, Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria e Procura, volto a fornire una rete di supporto (educativa, psicologica, logistica, scolastica, economica e lavorativa) e un’alternativa concreta di vita ai minori e alle loro madri che provengono da famiglie inserite in contesti di criminalità organizzata e vogliono uscire dal circuito mafioso. Case popolari: escludere i migranti è discriminatorio di Marinella Salvi Il Manifesto, 12 giugno 2021 “Prima gli italiani”: la sindaca leghista aveva tagliato fuori dal bando i cittadini bengalesi. Che la Lega, dappertutto, cerchi in tutti i modi di far fuori gli extracomunitari, anche quando regolarmente residenti, da contributi, concorsi, assegnazioni di posti negli asili nido e quant’altro, è cosa risaputa. Così come ormai fa giurisprudenza la lunga lista di sentenze che riconoscono l’illegittimità di tali atti. Bandi annullati, graduatorie sospese, un po’ dappertutto è tutto un fare e disfare. È successo anche a Monfalcone dove sono finiti sotto processo bandi e graduatorie legate all’assegnazione di alloggi popolari e all’ottenimento di contributi per l’affitto. Coinvolta Regione, Ater, e Comune. Chiedere un supplemento di documentazione ai cittadini extracomunitari, la prova ufficiale di non possedere proprietà immobiliari all’estero, quando agli altri basta autocertificare, il più delle volte cozza contro l’impossibilità pratica di ottenere tale documentazione che, se anche fosse disponibile, comporterebbe spese inaffrontabili di registrazione, traduzione, autenticazione ecc. Vale così, in particolare, per i cittadini bengalesi, quei tanti che lavorano nel cantiere navale di Monfalcone, spesso per incontrollate ditte di subappalto, con contratti capestro quando riescono ad avere un contratto, ricattati, sfruttati, lasciati in mano a profittatori di ogni genere che speculano sulla loro fragilità e non si fanno scrupolo anche di ospitarli in nero per lucrare sui loro bisogni più basilari. Gli extracomunitari a Monfalcone rappresentano più del 25% della popolazione, un numero enorme, e orbitano praticamente tutti attorno a Fincantieri. La maggioranza viene dal Bangladesh e ha attraversato mezzo mondo per arrivare su questo golfo e costruirsi un futuro. Sembra inevitabile che l’amministrazione comunale debba occuparsene, dopo tutto è sul loro disgraziato lavorare che si garantisce anche un bel ritorno economico ed è sulla costruzione di una società includente e pacifica, che può misurare la serena convivenza dei suoi cittadini. Invece no, “Prima gli italiani”, ecco così i bandi che pretendono documenti da reperire in Bangladesh e poco importa se in quel Paese sostanzialmente il catasto, come parecchio altro, non esista. Fuori dalle graduatorie, niente casa, niente contributi. Ma quindici cittadini asiatici e trentacinque residenti bengalesi si sono rivolti all’avvocato Cattarini ed è partito il ricorso. Di due giorni fa la sentenza: la giudice del Tribunale di Gorizia, Di Lauro, riconosce che Regione, Ater e Comune di Monfalcone hanno tenuto una condotta di carattere discriminatorio e, regole uguali per tutti, ha ordinato l’inserimento in graduatoria di tutti quelli che ne avrebbero avuto diritto. Ma per la sindaca di Monfalcone Cisint oltre al danno c’è la beffa: la Regione Friuli Venezia Giulia aveva messo a disposizione un budget per finanziare il taglia/affitti ma, se ora Monfalcone deve raddoppiare la graduatoria degli aventi diritto, mancano più o meno 700 euro che spettano ai cittadini monfalconesi che affittano casa e che la Regione non può più garantire. Gli uffici comunali devono rifare tutto, nuove graduatorie, altro tempo perso, altro lavoro che si poteva evitare se solo si fosse usata la ragionevolezza e non la protervia leghista. Il commento di Anna Maria Cisint? La sindaca glissa ma dovrà tagliare da qualche altra parte, dovrà ridurre altri servizi perché servono soldi a questo punto. Pagheranno i cittadini. “Siamo stanchi di vedere i costi della propaganda scaricati sui cittadini, vogliamo amministratori che facciano il bene della comunità, che conoscano e difendano la Costituzione, che uniscano la comunità anziché dividerla” commenta Cristiana Morsolin, consigliera comunale di “la Sinistra per Monfalcone”. “Maltrattamenti in famiglia” anche per il farmacista che vessa e umilia le dipendenti di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2021 Se il luogo di lavoro determina di fatto comunanza di vita è ravvisabile quel rapporto di “para-familiarità” che integra il reato. La Corte di cassazione con la sentenza n. 23104/2021 ha riconosciuto come para-familiare la relazione instauratasi tra le dipendenti di una farmacia e il loro datore di lavoro che era uso trattarle umiliandole, molestandole sessualmente o addirittura ordinando loro di assumere compiti di colf, pena il licenziamento. Il carattere para- familiare del rapporto di lavoro è stato ravvisato dai giudici in alcune circostanze di fatto della vicenda: l’esiguo numero di lavoratori all’interno della farmacia e la vicinanza fisica tra essi e il datore dovuta allo spazio ristretto del luogo. Da tutto ciò le molestie e violenze venivano inquadrate come maltrattamenti in famiglia. Il ricorrente contestava che il rapporto di sovraordinazione/subordinazione lavorativa, tra lui e le proprie dipendenti, potesse rappresentare quel consorzio di tipo familiare che costituisce lo scenario di fondo in cui è ravvisabile il reato ex articolo 572 del Codice penale. In particolare, faceva rilevare che la sua presenza in farmacia non era continua, cioè abituale, perché spesso egli si trovava nel proprio ufficio. Affermava, in sintesi, di occuparsi esclusivamente della gestione amministrativa della farmacia e di non aver condiviso l’attività di vendita cui erano, invece, sempre preposte le dipendenti che lo avevano denunciato. Quindi, afferma il ricorrente, non lavorando a stretto contatto tra loro non si poteva ravvisare quel tipo di condivisione di vita tipico di un rapporto familiare. La Cassazione ha precisato più volte che anche il mobbing in ambito aziendale “ristretto” può determinare la commissione del reato di maltrattamenti in famiglia. Ciò si determina in caso di relazioni abituali tra datore e dipendente e consuetudini di vita condivise connotate da un rapporto di fiducia. E a maggior ragione in caso questo determini una supremazia di una parte sull’altra. Infatti, i reati previsti in ambito familiare sono ravvisabili al di là della famiglia in senso stretto poiché le stesse norme incriminatrici indicano esplicitamente come vittime non solo i parenti, ma anche chi è sottoposto all’autorità dell’agente o chi è a lui affidato nell’esercizio di un’arte o di una professione. Determinandosi di fatto quella subordinazione/sovraordinazione fondata sulla fiducia tipica del rapporto tra familiari, che obbliga colui che è in posizione di supremazia a un atteggiamento protettivo (e non vessatorio, abusando della propria preminenza) contro la parte più debole della relazione. Relazione di fiducia che, appunto, può essere originata anche dal rapporto para-familiare di lavoro. La mancata costituzione delle parti civili in appello a seguito del pagamento di un risarcimento da parte dell’imputato dopo la conclusione del primo grado di giudizio non è stato sufficiente secondo i giudici di merito a riconoscere la ricorrenza delle attenuanti generiche. Torino. Corso Brunelleschi struttura disumana? Il suicidio di Balde interroga la città di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 12 giugno 2021 Parla la Garante dei detenuti. Nel cuore della città continua la reclusione degli stranieri in condizioni degradanti. Da tempo Monica Cristina Gallo, garante dei Diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Torino, denuncia la drammatica situazione del Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di corso Brunelleschi a Torino. E proprio dal suicidio di Musa Balde, il giovane guineano impiccatosi nel Cpr il 23 maggio scorso, è partita la relazione annuale sulla situazione dei luoghi detentivi della città, presentata on line dalla garante, all’indomani della tragica morte del migrante africano. La vicenda ha scosso quella parte di società civile che si oppone alla retorica populista del “Prima gli italiani” e ha suscitato dolore e mobilitazioni. A partire dall’affollata preghiera voluta dall’Arcivescovo Nosiglia nella chiesa dei Santi Martiri lo scorso 31 maggio, quando Nosiglia invitò i torinesi ad “un sussulto di coscienza”. Il 4 giugno si è tenuta in piazza Castello, davanti alla Prefettura, una manifestazione cittadina in memoria di Musa organizzata da avvocati, associazioni, forze politiche e sindacati: anche qui è stato rimarcato con forza come il suicidio del guineano (non un fatto isolato: dal 2019 nel Cpr sono morte 6 persone) sia “una ferita per lo Stato e che la struttura di corso Brunelleschi ha i connotati di una galera”. E proprio dai problemi legati alle cosiddette strutture di “detenzione amministrativa”, così vengono definiti i Cpr, ha esordito Monica Cristina Gallo presentando il suo rapporto annuale: “Musa Balde era il suo nome, era un ragazzo che proveniva dalla Guinea e nel mese di luglio avrebbe compiuto 23 anni. Il 9 maggio aveva subito un’aggressione dinnanzi a un supermercato a Ventimiglia ad opera di italiani. Il video che mostra la violenza dei tre aggressori nei confronti di Musa diventa virale in poche ore. Ma sino ad allora Musa Balde è un essere anonimo, trattato come se fosse privo di una propria storia e senza riconoscergli un nome: non dare un nome a quel giovane è stato il primo diritto che gli è stato negato e a seguire, sono stati lesi il diritto alla propria dignità ed alla propria integrità fisica e psichica”. Il giorno successivo all’aggressione le autorità competenti di Imperia emettono nei suoi confronti un decreto di espulsione dal territorio nazionale e dispongono l’invio immediato nel Cpr di corso Brunelleschi. “Ci poniamo una prima domanda”, prosegue la garante, “un altro fondamentale diritto come quello alle cure è stato sufficientemente garantito nel momento in cui si è proceduto al trasferimento dopo un solo giorno dall’aggressione tanto brutale da motivare una prognosi di dieci giorni?”. Nel Centro di Torino Musa ha continuato a non avere un nome, una biografia, un’identità, “condizione drammatica e dolorosa che lo ha portato alla privazione del più fondamentale dei diritti, quello alla vita. Questo è accaduto all’interno di quell’enclave territoriale, confinata dentro una moderna città all’avanguardia, la nostra, ma da essa completamente separata, che porta l’asettico nome di Centro di Permanenza per il Rimpatrio”. E poi i dati riferiti al Cpr: nel 2020 le persone trattenute nella struttura sono state 791 di cui 252 rilasciate per vari motivi e 461 rimpatriate. Un numero che va però preso con le pinze, ha proseguito Gallo, “perché per la maggior parte si è trattato di giovanissimi tunisini provenienti dalle navi di quarantena, portati al Centro di Torino e poi rimpatriati con voli charter. Solo a partire da ottobre 2020 il Centro ha gradualmente ripreso a trattenere migranti di altre nazionalità ma dai numeri è facile dedurre che la maggior parte di loro proviene dalla libertà, in condizioni di irregolarità e mancata inclusione sociale, e non dagli Istituti penitenziari come spesso viene narrato”. La Garante è poi passata a descrivere la situazione dell’anno appena trascorso - pesantemente condizionato dalla pandemia - nei due penitenziari torinesi, la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” alle Vallette e l’Istituto penale minorile “Ferrante Aporti”. Per quel che riguarda il “Ferrante”, che ospita minorenni e giovani maschi italiani e stranieri fino ai 25 anni che scontano pene commesse prima di raggiungere la maggiore età, nel 2020 gli ingressi sono stati 115 con una presenza media di 20-30 persone a fronte di una capienza di 40. Una situazione abitativa che non presenta criticità. Sovraffollamento e carenza di organico sono invece le due ferite che non si rimarginano nel carcere degli adulti e che, con l’emergenza Covid, hanno reso il clima pesante. “La chiusura ancora più stringente si è aggiunta a quella strutturale, amplificando le ansie e le paure tipicamente presenti nelle istituzioni”, ha proseguito Gallo, “lo stesso nemico invisibile che ha condizionato la nostra libertà, per coloro che ne sono già privati ha tolto ogni possibile segmento riconducibile alla normalità. Affetti, scuola, lavoro, formazione professionale, attività laboratoriali e incontri di preghiera e di confronto”. Un miglioramento si è avuto nella “fase due” dove il vuoto di relazione è stato parzialmente colmato dall’ingresso della tecnologia nelle sezioni che ha permesso di organizzare colloqui visivi anche con la garante. Da segnalare la presenza de “La Voce e il Tempo” che ogni settimana, grazie alla generosità di 60 abbonati che hanno aderito alla campagna “Abbona un detenuto”, viene letto in altrettante sezioni del penitenziario. È l’unico giornale oltre il quotidiano “Avvenire” che viene donato gratuitamente ai ristretti. Sovraffollamento: nel 2020 il tasso al “Lorusso e Cotugno” è stato del 130 per cento, con punte del 150: “la capienza regolamentare dell’Istituto è di 1.062 posti, ma la media degli uomini e delle donne presenti negli ultimi anni si è aggirata intorno alle 1400 presenze. Nel 2020 si è avuto un picco di 1.402 persone nel mese di ottobre con una discesa nei mesi di marzo, aprile (1.269) e maggio come effetto dei provvedimenti “Cura Italia” e “Svuota Carceri” in materia di Covid” ha illustrato la garante. E che ha poi messo in rilievo il prezioso lavoro di sostegno dei volontari, in particolare la Caritas diocesana che, se anche in tempo di pandemia non sono potuti entrare in carcere, hanno supportato anche nei bisogni primari le necessità dei reclusi più fragili come gli stranieri che non che non hanno famiglie in Italia. Biella. Agenti e detenuti vaccinati al carcere newsbiella.it, 12 giugno 2021 Tutti i carcerati della Casa Circondariale di Biella, che hanno espresso la volontà di ricevere il vaccino anti-Covid, hanno già completato il ciclo vaccinale, a seconda delle rispettive categorie di rischio e fasce d’età. Inoltre anche gli agenti della Polizia Penitenziaria in forza al carcere cittadino che hanno aderito alla vaccinazione hanno ricevuto le dosi loro destinate (quella delle Forze dell’ordine è una delle categorie prioritarie individuate all’interno della campagna). È quanto ha comunicato la dottoressa Tullia Ardito, direttore della Casa Circondariale e di Reclusione di Biella, al direttore generale dell’ASL Biella, Mario Sanò, nel corso di un incontro conoscitivo tra le parti organizzato in Ospedale giovedì 10 giugno. Le operazioni di vaccinazione all’interno del carcere sono state gestite dal personale dell’Azienda Sanitaria Locale biellese. “Sono felice del fatto che sia i detenuti che gli agenti in forza alla struttura siano stati vaccinati, a tutela dell’attività carceraria, degli addetti ai lavori e delle famiglie degli operatori - commenta Sanò - Ringrazio quindi la dottoressa Ardito e gli operatori della nostra Asl per aver completato questo importante percorso di messa in sicurezza della Casa Circondariale e di Reclusione”. L’impegno della struttura prevede anche il recupero dei carcerati tramite attività da svolgere dopo aver scontato la pena detentiva. Macerata. Il Garante: “Carcere provinciale necessario, la logica dice di farlo nel capoluogo” di Luca Patrassi Cronache Maceratesi, 12 giugno 2021 L’avvocato maceratese sulla questione della casa circondariale da ricostruire. “Va tenuto conto delle necessità degli operatori e la funzionalità. Capisco le ragioni di Camerino e che possa rappresentare una ricchezza per la città ma per rispondere ai problemi dell’entroterra bisogna far ricorso ad altri tipi di interventi”. Avvocato di lungo corso e da qualche mese garante dei diritti della Regione Marche, Giancarlo Giulianelli interviene nel dibattito sulla necessità di realizzare un nuovo carcere in provincia. Il sindaco di Camerino, Sandro Sborgia, ha chiesto di ospitare una struttura che c’era fino al terremoto di alcuni anni fa. Giulianelli condivide il punto di partenza, vale a dire la necessità di un carcere nel Maceratese, ma non il punto di arrivo camerte: la collocazione. “Come Garante non posso che confermare la legittimità di una simile richiesta, del resto la provincia di Macerata è l’unica nel territorio regionale a non avere una struttura carceraria. Camerino aveva una struttura carceraria ma in un edificio vecchio con spazi assolutamente inadeguati per i detenuti ed è stata chiusa per via del terremoto. Detto che è necessario un carcere in provincia di Macerata, bisogna riflettere su dove realizzarlo, partendo dalla logistica”. Ecco la valutazione del garante Giulianelli, nel cui ruolo rientra appunto la tutela dei detenuti: “Non è una questione di campanile. Ci sono due Corti d’assise nelle Marche in cui si celebrano i processi per i delitti più gravi, una ad Ancona e l’altra a Macerata di riferimento per il centrosud della regione. Macerata è anche sede dell’Ufficio di sorveglianza, è sede del tribunale unico provinciale. Ne discende che realizzare un nuovo carcere a Macerata, vicino al Tribunale nei limiti del possibile, risponde a una logica tecnica, risponde alle esigenze degli operatori che sono magistrati, avvocati, agenti di polizia penitenziaria, operatori, tutti i soggetti che ruotano attorno a una struttura carceraria. Sono riflessioni che porto sommessamente sulla questione della realizzazione del nuovo carcere senza spirito di campanile”. A Camerino la pensano diversamente. “Ripeto, le valutazioni da farsi sono tecniche. Poi aggiungo che per rispondere ai problemi, anche di spopolamento, dell’entroterra bisogna far ricorso ad altri tipi di interventi. Capisco che il carcere possa rappresentare una ricchezza per la città, tutte le aspirazioni sono legittime, ma bisogna andare incontro alle esigenze degli operatori: credo si debbano privilegiare le logiche della funzionalità, il ripopolamento dell’entroterra non può essere un criterio di scelta per un carcere. Senza considerare poi i costi materiali che comporta un carcere lontano dai tribunali con i trasferimenti dei detenuti per udienze varie e le relative scorte”. Ci sono speranze concrete che un nuovo carcere venga realizzato in provincia di Macerata? “Il ministro ha detto che vuole destinare fondi all’edilizia carceraria. Nelle Marche Pesaro ha il carcere, Ancona ne ha due, Fermo ne ha uno ed Ascoli uno. Tutti gli interessati che operano nel settore della giustizia non possono non riconoscere la necessità di un carcere a Macerata, città che del resto ha sempre avuto una struttura carceraria fino a quando, una ventina di anni fa, l’amministrazione comunale si è defilata dai piani per l’edilizia carceraria”. Livorno. Carcere, alle Sughere “taglio” dei corsi di studio Redattore Sociale, 12 giugno 2021 I detenuti scrivono una lettera aperta: “Colpo mortale alla nostra possibilità di svolgere un regolare corso di studi, così come dovrebbe essere garantito a tutti i cittadini”. Il garante Solimano rilancia la protesta. Tagli di classi da parte del Provveditorato per i detenuti della Casa Circondariale “Le Sughere”, “un colpo mortale alla nostra possibilità di svolgere un regolare corso di studi, così come dovrebbe essere garantito a tutti i cittadini italiani, qualunque sia la loro età e il loro status”. Comincia così la lettera di un gruppo di studenti e docenti del corso SIA della IIS “Vespucci” delle Sughere consegnata al Garante dei detenuti del Comune di Livorno Marco Solimano il quale dichiara: “Ieri mi è stata consegnata, all’interno dell’istituto penitenziario Le Sughere, la lettera sottoscritta da tutti gli studenti detenuti e i docenti dell’Istituto Vespucci cui esprimo totale solidarietà e vicinanza. Ne condivido appieno i contenuti e considero l’accorpamento deciso dal Provveditorato una ulteriore mortificazione del diritto allo studio soprattutto dopo due anni di pesanti limitazioni causa Covid. Il sapere, la conoscenza, la cultura sono elementi imprescindibili di un percorso di rielaborazione delle scelte negative del passato ed un caposaldo verso la costruzione di nuovi scenari esistenziali. Anche in virtù di questo - sottolinea Solimano - ritengo molto grave la decisione di accorpamento assunta da Provveditorato con il quale sto avviando contatti per la costruzione di un tavolo comune di riflessione che porti alla revoca del provvedimento”. Nella loro lettera gli studenti detenuti spiegano: “Lo scorso anno scolastico per noi la frequenza si è interrotta a marzo 2020 a causa del Covid, non essendo possibile lo svolgimento della D.A.D. all’interno della casa circondariale. Il corrente anno scolastico si è aperto con l’accorpamento delle classi IV e V in una sola con il conseguente dimezzamento delle ore di frequenza che già si svolgono in forma ridotta (sono di 45 minuti e in numero minore rispetto al corrispettivo “fuori”). Come se non bastasse le lezioni si sono interrotte a ottobre per riprendere in D.A.D. ma solo con la presenza degli alunni di un piano alla volta dei tre in cui è divisa l’Alta Sicurezza, settore a cui la scuola attiene. A gennaio abbiamo ripreso in presenza ma sempre un piano alla volta, solo a fine febbraio è tornata la normalità. Chi di noi quest’anno ha frequentato la IV classe è come se avesse perso un anno di scuola. Ed ora invece di tornare a una forma di normalità viene ulteriormente punito con ancora un anno di dimezzamento delle ore di lezione”. Gli studenti concludono chiedendosi: “Non sappiamo se chi prende queste decisioni ha presente l’importanza che ha la scuola in una situazione come quella delle persone private della libertà, una delle poche possibilità di attuare quel percorso indicato dall’art.27 della Costituzione che stabilisce l’aspetto rieducativo della pena. Facciamo quindi un appello alla possibile soluzione in positivo della situazione”. Forlì. Educazione ambientale in carcere forlitoday.it, 12 giugno 2021 Alea Ambiente e Techne insieme per un progetto rivolto ai detenuti. L’iniziativa è stata realizzata in collaborazione con Techne, realtà locale da sempre impegnata sul fronte dell’integrazione sociale. Alea Ambiente crede nell’importanza di contribuire a formare una coscienza civica attenta ai temi dell’ecologia e della protezione ambientale in tutti i suoi aspetti, per questo si impegna a creare occasioni di sensibilizzazione che coinvolgono cittadini di ogni età e provenienza. Con questo intento, la società inhouse providing di 13 comuni della Romagna Forlivese ha dato vita ad un progetto rivolto ai detenuti della Casa circondariale di Forlì, per una corretta gestione dei rifiuti interna alla struttura. L’iniziativa è stata realizzata in collaborazione con Techne, realtà locale da sempre impegnata sul fronte dell’integrazione sociale, a cui è stata affidata l’organizzazione di tirocini formativi sul tema della gestione della raccolta differenziata, che si sono svolti all’interno della struttura, nel pieno rispetto delle norme anti-Covid. Il progetto “La raccolta differenziata in carcere”, che ha avuto inizio lo scorso anno e che è stato riproposto anche poche settimane fa, ha coinvolto alcuni detenuti prossimi al fine pena che, insieme ad operatori di Alea Ambiente, hanno imparato a separare correttamente gli scarti e a riflettere sul ciclo dei rifiuti, dimostrando grande interesse e curiosità. Ai detenuti sono stati consegnati i dispositivi di protezione individuale che usano gli stessi operatori di Alea Ambiente durante il servizio e i sacchetti per la raccolta dell’umido in tutte le celle. L’obiettivo del tirocinio è stato non solo informare i detenuti scelti per i tirocini, ma anche migliorare concretamente la raccolta differenziata all’interno del carcere. Infatti, fin da subito, si sono visti gli effetti positivi, sia in termini di riduzione del rifiuto indifferenziato prodotto, sia di aumento delle frazioni riciclabili. Roma. Teatro in carcere, “Fort Apache” allo Shanghai Film Festival di Teresa Valiani redattoresociale.it, 12 giugno 2021 L’opera racconta l’esperienza dell’omonima compagnia di Rebibbia ed è l’unico documentario italiano in gara. La regista Valentina Esposito: “Una seconda opportunità è possibile grazie alla passione, all’impegno e all’intenso lavoro”. “Una seconda opportunità è possibile grazie alla passione, all’impegno e all’intenso lavoro che richiede l’attività teatrale”. Valentina Esposito commenta così l’importante comunicazione arrivata in teatro: “Fort Apache” sarà l’unico documentario italiano in concorso ufficiale allo Shanghai International Film Festival 2021 che il 13 e il 19 giugno, per la 25esima edizione, ospiterà le due proiezioni del docufilm scritto insieme ai registi Ilaria Galanti e Simone Spampinato. Un’opera centrata sull’esperienza dell’omonima compagnia che nel 2014 esce dal palcoscenico rinchiuso del carcere di Rebibbia per iniziare un nuovo percorso artistico all’esterno. Una regista preparata, una compagnia mista di attori ex detenuti e non, ormai tutti professionisti, anni di prove e un riconoscimento che dona nuova linfa dopo lo stop imposto dalla pandemia. Prodotto da Jumping Flea in Associazione con Fort Apache Cinema Teatro, “Fort Apache” concorre per vincere il Golden Goblet nella categoria Miglior Documentario. In selezione in una rosa di cinque opere, il film è interpretato da Alessandro Bernardini, Christian Cavorso, Chiara Cavalieri, Matteo Cateni, Viola Centi, Valentina Esposito, Alessandro Forcinelli, Gabriella Indolfi, Romolo Napolitano, Piero Piccinin, Giancarlo Porcacchia, Fabio Rizzuto, Edoardo Timmi, Cristina Vagnoli e Marcello Fonte, pluripremiato per il suo ruolo nel film “Dogman”, di Matteo Garrone. “Un trionfo straordinario, quello di Dogman - spiega la regista fondatrice della compagnia - e di Marcello Fonte, vincitore della Palma d’oro come Miglior Attore al Festival di Cannes 2018, che ha fatto da volano al grande successo riportato dallo spettacolo che fa da fil rouge al documentario. Un’opera scritta e diretta a partire dalle biografie degli attori, dai traumi irrisolti, dalle difficili esperienze vissute da interpreti che hanno imparato a usare il teatro per riscrivere la propria vita attraverso la scena e a condividerla con lo spettatore”. Novantatré i minuti che raccontano la storia di una compagnia composta da attori che sono saliti per la prima volta su un palcoscenico durante la reclusione nella Casa Circondariale di Rebibbia. “La nascita di una passione che diventa professione - spiega una nota della produzione -, con il concretizzarsi di una possibilità lavorativa che diviene reale al di fuori delle mura del carcere. Le repliche, il backstage, il lavoro sotto le luci del palco e le testimonianze di vita degli attori si intrecciano nel corso del delicato processo di messa in scena di ‘Famiglia’, scritto e diretto da Valentina Esposito, fondatrice e responsabile del progetto di reinserimento sociale degli ex detenuti attraverso il teatro”. “Il documentario - racconta la regista - si propone di restituire un ritratto degli attori e del progetto di Fort Apache nel corso dell’ultimo anno di attività. Attori che si sono avvicinati al teatro in carcere e che hanno deciso di proseguire il percorso professionale e formativo durante il delicato passaggio dalla reclusione alla libertà. Adesso, dopo anni di collaborazione fanno parte stabilmente del nostro gruppo di lavoro. Cuore del racconto è il doloroso nodo affettivo messo in scena attraverso la pièce teatrale, la relazione padre-figlio, che da tema di lavoro dello spettacolo diventa anche il centro della narrazione filmica, lasciando allo spettatore la possibilità di immedesimarsi nelle vicende biografiche degli attori, di riconoscersi nelle loro difficoltà, di commuoversi. È in questo modo che il documentario tesse la sua tela, costruendo un racconto nel racconto, seguendo contemporaneamente la storia della Compagnia, la storia dello spettacolo e quella di uno scontro generazionale che appartiene a tutti noi, di grande forza narrativa, nel quale lo spettatore potrà identificarsi, coinvolgersi, ritrovarsi”. Attore stabile di Fort Apache, Marcello Fonte viene scoperto e scelto da Garrone come protagonista di “Dogman” proprio durante una replica di un precedente allestimento del gruppo e girerà il film contemporaneamente alle prove di Famiglia. “La sua presenza e il racconto della sua straordinaria vicenda esistenziale e professionale - conclude Valentina Esposito - sono parte integrante di questo documentario e diventano il simbolo della incredibile seconda opportunità resa possibile da ‘Fort Apaché per gli attori che ne fanno parte”. “Mio giudice”, il romanzo di un magistrato che racconta il volto umano della giustizia Libero, 12 giugno 2021 Un giudice e un delinquente. Il primo Franco Scala, proveniente da una famiglia agiata, ha potuto studiare ed è diventato magistrato di sorveglianza. L’altro, Sasha Iannitto è un derelitto, abbandonato dalla madre su una spiaggia. Entra ed esce dal carcere. Mio giudice è il romanzo di Alessandro Giordano (Mursia) un magistrato che svela il lato umano della giustizia raccontando il legame che si crea tra Franco e Sasha: due mondi agli antipodi, due modelli di vita, l’uno cresciuto nella devianza e l’altro nella legalità, imparano a confrontarsi e a coesistere. Un giudice dal volto umano e un reo in cerca di riscatto viaggiano, così, all’interno di una varia umanità, tra periferie e quartieri della Roma bene, tribunali e carceri, crimine e legalità, malavita e istituzioni. In questo percorso fede e disabilità sono protagoniste in un continuo confronto con le difficoltà della vita. Ne parla Lucia Esposito nella sua rubrica “Un libro in due minuti”. La tentazione di esagerare un po’ con l’ottimismo di Paolo D’Angelo* Il Domani Il filosofo best seller Harari riabilita la nozione di progresso senza porsi troppi problemi e ci spiega che il motore dell’avanzamento di una società è solo nella scienza. Prima o poi verrà il mattino, ma intanto è ancora notte. Yuval Harari è una specie di Alessandro Barbero planetario. Entrambi si occupano di storia, di tutta la storia; entrambi sono dei formidabili divulgatori; entrambi fondano la loro popolarità solo parzialmente sui libri (che pure vendono centinaia di migliaia di copie) ma anche su lezioni online, video, registrazioni di conferenze. C’è però una differenza saliente tra i due. Barbero resta uno storico, anche se, contrariamente a quello che di solito gli storici fanno, cioè concentrarsi su un periodo o una nazione, passa da un’epoca all’altra e da una battaglia all’altra, da Adrianopoli a Waterloo a Caporetto. Yuval Harari, invece, non è uno storico. Anche se ha studiato e insegna storia (alla Hebrew University di Gerusalemme) è un’altra cosa. Se fosse nato un secolo fa non avremmo avuto nessuna remora a definirlo non uno storico, ma un filosofo della storia. Infatti Harari non si occupa soltanto di passato; si occupa anche di futuro, e non si fa scrupoli a interrogarsi sul senso e sulla direzione della storia. Anche se non cita mai i filosofi (con l’eccezione, ma quando proprio è tirato per i capelli a farlo, di Rousseau e di Nietzsche), quello che fa è più simile a quello che in passato hanno fatto Vico, Hegel o Spengler che a quello che hanno fatto Tucidide, Ranke o Marc Bloch. Come spesso capita a chi fa filosofia della storia, finisce anche lui per parlare di fine della storia, incurante del fatto che tutti quelli che si sono lasciati trascinare a profetizzare che la storia era finita sono stati smentiti abbastanza rapidamente e in qualche caso (da ultimo quello grottesco di Fukuyama) si sono coperti di ridicolo. Ma proprio perché non è uno storico ma un filosofo della storia, le idee di Harari sono estremamente utili per capire certi orientamenti del nostro presente, certe idee fisse e certi preconcetti. Ci portano in pieno al centro di quello che potremmo chiamare, se non fosse un’espressione degna appunto di un filosofo della storia, lo spirito del tempo. L’idea di progresso - Una cosa molto interessante è per esempio il fatto che Harari riabilita pienamente la nozione di progresso, un concetto con il quale, dopo le catastrofi della storia del Novecento, avevamo tutti qualche problema. Un filosofo (non della storia) come Gennaro Sasso ci aveva spiegato come la nozione di progresso fosse entrata in crisi, travolta dalle rovine di due guerre mondiali, dai genocidi e dalle letali utopie del secolo scorso (in un libro di quasi quarant’anni fa, Tramonto di un mito, che non a caso però rielabora una voce della Enciclopedia del Novecento). Harari la resuscita senza porsi tanti problemi, prospettandoci addirittura il passaggio dell’essere umano da animale a dio, da creatura indifesa a individuo capace di progettare integralmente la propria esistenza, in quello che resta il suo libro fondamentale Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità. Per mettere in atto questa riabilitazione dell’idea di progresso Harari si serve di un trucco che, come un prestigiatore troppo sicuro di sé, non fa neanche molti sforzi di tenere nascosto. Il trucco è quello di ridurre il progresso storico a un solo aspetto del progresso, il progresso scientifico. Si capisce che mettere così le cose significa farsela abbastanza facile, non solo perché siamo tutti convinti che la scienza progredisca, ma anche perché l’idea che la scienza e la tecnica siano arrivate ormai a potere qualsiasi cosa, solo che lo vogliano, è un’idea, per quanto errata, che crediamo circoli solo da poco. Quel che potrebbe contribuire a relativizzare questa affermazione, e che Harari non vede, è il fatto sorprendente che l’uomo ha sempre avuto questa impressione; anche in epoche che oggi ci appaiono particolarmente arretrate o indifese, e comunque lontanissime dalle nostre capacità di dominio. Quando alla fine del Settecento i fratelli Montgolfier fecero volare il primo aerostato, il pallone ad aria calda destinato a prendere il loro nome, il poeta Vincenzo Monti scrisse un’ode, appunto Al signor di Montgolfier, che è utile tenere presente, anche se non per i suoi meriti poetici, per la verità abbastanza esigui. Monti celebra con parole ispirate i progressi della chimica (confondendo il pallone a idrogeno che si sperimentava in Inghilterra con quello ad aria calda dei Montgolfier), e gli pare che l’umanità sia arrivata a gettare lo sguardo nelle sorgenti della vita stessa (“E le sorgenti apparvero/ove il creato ha vita”). Non solo: ha l’impressione che ormai non ci siano più limiti e che tutto sia a portata di mano, inclusa la vittoria sulla morte. “Che più ti resta?”: appunto, solo vincere la morte. Ma persino 2.500 anni fa, in un coro dell’Antigone, Sofocle celebrava la terribile e stupenda capacità dell’uomo di dominare tutta la natura e di asservirla al proprio benessere, arrestandosi solo davanti alla morte. Le conquiste scientifiche - Il secondo trucco che Harari deve mettere in atto per accreditare la rivoluzione scientifica come fine della storia consiste nel negare valore e togliere ogni peso alle altre forme del progresso civile. Le conquiste sono solo scientifiche e il motore dell’avanzamento è solo nella scienza. Tutto quello che accade sul piano giuridico, economico, sociale, tutto ciò che gli uomini pensano intorno al modo in cui organizzare la propria vita è degradato a mito, a qualcosa che è frutto solo dell’immaginazione e non ha riscontro oggettivo. Mito è il codice di Hammurabi, ma mito è anche la dichiarazione di Indipendenza. Dove, con un colpo solo, si consumano due stravolgimenti. Il primo consiste nell’insinuare il dubbio che tra un codice che prevede la legge del taglione come principio basilare e uno che fa lo stesso con la libertà e l’eguaglianza non ci sia differenza; il secondo è non capire che la codificazione scritta di un diritto (per quanto barbarico esso sia) costituisce un incalcolabile progresso rispetto a una situazione in cui non esiste nessuna oggettività della legge. Con la stessa disinvoltura Harari mette sullo stesso piano le religioni e le convinzioni filosofiche e politiche, arrivando a vere e proprie enormità come affermare che la moderna dottrina della libertà dell’uomo è figlia della fede cristiana. Come no, lo vada a raccontare a Giordano Bruno, a Pietro Giannone, a Voltaire, poi ne riparliamo. La sua idea è che non solo il progresso futuro, ma anche l’evoluzione della storia negli ultimi cinque secoli, sia stata dettata solo dalle scoperte scientifiche, e non da bazzecole come l’avvento della secolarizzazione, lo scontro tra religioni, i nazionalismi, le lotte tra le classi ecc. Tanto, scrive, con gli sviluppi della scienza “il dibattito odierno fra le religioni, le ideologie, le nazioni e le classi sociali è destinato a scomparire”. Harari si deve essere reso conto che una narrazione così bolsamente ottimistica, se da un lato andava incontro a qualche bisogno di rassicurazione e quindi poteva procurargli un po’ di consenso, d’altra parte poteva anche riuscire irritante, e nei libri successivi è corso ai ripari teorizzando non solo le grandi prospettive aperte dalla scienza ma anche le minacce che lo sviluppo scientifico porta con sé. Così ha dato spazio al rischio della crisi ecologica del pianeta o a quello che potrebbe derivare da una dittatura degli algoritmi e da una vita sociale sempre più manipolabile attraverso l’enorme congerie di dati di cui chi governa può disporre. Non gli è stato troppo difficile perché evidentemente la crisi ecologica è proprio l’esempio di un rischio epocale che è direttamente indotto dallo sviluppo economico-scientifico, tanto vero che attraversa imparzialmente le società contemporanee indipendentemente dalla loro organizzazione sociale e politica. Scenari chimerici - Ma la fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità gli è rimasta appiccicata in modo tenace. Per esempio nella convinzione che l’uomo stia per farsi dio, cioè per poter determinare totalmente il proprio essere biologico, fino a superare la morte. Ora, francamente questa prospettiva ci appare un po’ più remota di quel che pensa Harari, e questo, se da un lato ci fa tirare un sospiro di sollievo, dato che non poter morire mai è una prospettiva abbastanza agghiacciante, dall’altro conferma una certa sua tendenza ad abbandonarsi a scenari chimerici. Anche se Harari tende a dimenticarlo, e a ricordarci ogni piè sospinto che carestie, guerre e malattie vanno scomparendo, temiamo infatti che il suo punto di vista sia leggermente esagerato. Ci si ammala ancora, e si muore ancora, anche in guerra; metà dell’umanità è retta da regimi dispotici; troppa gente vive ai limiti della sussistenza; le disuguaglianze di genere sono ancora enormi in una quantità di paesi, inclusi quelli avanzati, in troppe nazioni i detenuti sono in condizioni inumane ed esiste la pena di morte, milioni di persone non hanno accesso all’istruzione. Ne abbiamo di cose da fare prima di diventare immortali. Verrà il mattino, ma è ancora notte. Il caso Saman Abbas e i partiti di Piero Ignazi* Il Domani, 12 giugno 2021 La difesa dell’uomo bianco è l’ultima trincea della destra. Quando si irride alla richiesta dell’attribuzione della cittadinanza ai giovani stranieri nati in Italia, ribadita dal segretario del Pd, si sottintende che queste persone devono essere trattate come untermenschen, sottouomini. La linea nera che unisce la destra salviniana-meloniana e anche berlusconiana è proprio quella della superiorità dell’uomo bianco. Quindi le pratiche barbare, violente e inaccettabili, a cui si dedicano alcune comunità immigrate, sono la prova della loro inferiorità. Ha ragione Enrico Letta nel definire “vergognosa speculazione politica” l’attacco contro il Pd da parte della destra e dei suoi giornali sul caso della ragazza pachistana Saman Abbas, uccisa a Reggio Emilia dalla famiglia per salvare l’onore. In un orwelliano ribaltamento di senso, chi non si è mai curato dei diritti, in particolare di quelli legati al genere e alla libera sessualità, punta ora il dito contro chi fa del contrasto alla violenza sulle donne un punto fondamentale della propria politica, prestando attenzione alle pratiche delle comunità immigrate. Proprio l’Emilia-Romagna ha varato una legge regionale di contrasto a mutilazioni genitali femminili, tratta e matrimoni forzati. Mentre la destra xenofoba e razzista non ha fatto altro che ghettizzare gli immigrati negando loro ogni diritto, e ignorando lo sfruttamento schiavistico in campagne e fabbrichette. La sinistra invece può vantare molti interventi a sostegno di chi è arrivato sulle nostre sponde. Sono proprio le amministrazioni locali governate dalla sinistra, spesso coadiuvate dall’associazionismo cattolico, che mettono a disposizione risorse, personale, mediatori culturali per favorire la socializzazione ai nostri valori e ai nostri principi di vita civile. La destra si limita invece a dire ci sono dei selvaggi tra noi e che vanno separati ed espulsi. Quando si irride alla richiesta dell’attribuzione della cittadinanza ai giovani stranieri nati in Italia, ribadita dal segretario del Pd, si sottintende che queste persone devono essere trattate come untermenschen, sottouomini. La linea nera che unisce la destra salviniana-meloniana e anche berlusconiana è proprio quella della superiorità dell’uomo bianco. Quindi le pratiche barbare, violente e inaccettabili, a cui si dedicano alcune comunità immigrate, sono la prova della loro inferiorità. Piuttosto, il paese in cui si è dovuto aspettare il 1981 per cancellare dal codice il delitto d’onore, un’abitudine “siculo-pakistana”, come disse una volta disse Giuliano Amato suscitando indignazione a destra, deve ricordare quanto impegno è necessario per sradicare idee e costumi incompatibili con la nostra attuale società. *Politologo Libia, Tigray e Mozambico, queste sono le prossime mosse dell’Italia di Marina Sereni* Il Domani, 12 giugno 2021 La proliferazione di gruppi armati di matrice jihadista e la diffusione di traffici illeciti sono per l’Europa e l’Italia fonte di grande e motivata preoccupazione. Lo sono a maggior ragione se alziamo lo sguardo sulla Libia. Sul Tigray Nei giorni scorsi ho personalmente partecipato ad una riunione a porte chiuse promossa dall’Amministratrice di USaid Samantha Power per coordinare al meglio le nostre iniziative umanitarie e veicolare un messaggio unitario e netto alle autorità etiopi e a tutte le parti coinvolte. Infine, condivido la necessità di accendere i riflettori sulla situazione nel Nord del Mozambico. Stiamo organizzando un volo umanitario per le prossime settimane e faremo ogni sforzo per non far venir meno la tradizionale e importante presenza italiana in quel paese. Rispondo volentieri alle domande sull’Africa che dalle colonne di questo giornale domenica scorsa l’amico Giro ha posto al Governo italiano. Lo spazio a mia disposizione mi costringe ad essere schematica. Partiamo dal Sahel, regione che sempre di più rappresenta per l’Italia un dossier prioritario, come testimoniano le recenti visite dei Ministri Di Maio e Guerini in Mali e in Niger. Gruppi armati - La proliferazione di gruppi armati di matrice jihadista e la diffusione di traffici illeciti di ogni sorta - inclusi quelli di essere umani - sono per l’Europa e l’Italia fonte di grande e motivata preoccupazione. Lo sono a maggior ragione se alziamo lo sguardo sulla Libia e sulla fragile transizione che ha portato, dopo anni di guerra, alla nascita del Governo di unità nazionale. L’uccisione del Presidente Deby in Ciad e il “doppio colpo di stato” in Mali accrescono le inquietudini e spingono la comunità internazionale - a partire da Ecowas, Unione Africana e Unione Europea - a premere perché si avvii in entrambi i Paesi una rapida transizione, a guida civile, verso nuove elezioni secondo principi democratici. Aiutare i Paesi del Sahel a combattere il terrorismo è d’altra parte necessario non solo per ragioni di sicurezza ma anche per sostenere quelle realtà - come il Niger e il Burkina Faso - che invece stanno dando vita a processi democratici, cercando di affrontare le cause profonde dell’instabilità e della violenza. Le nuove ambasciate - Non è all’ordine del giorno un disimpegno francese dall’area quanto piuttosto una riarticolazione della loro presenza tra le diverse missioni cui anche noi prendiamo parte. L’impegno dell’Italia a sostegno dei G5, d’altronde, non si esaurisce nella dimensione securitaria e militare, avendo il nostro paese investito sia in termini politici - con l’apertura di nuove ambasciate in Niger e Burkina, con la nomina dell’Ambasciatore in Mali (che si recherà nel paese non appena si realizzeranno le condizioni politiche e di sicurezza) e con l’annuncio della prossima apertura di un’ambasciata in Ciad - sia in termini di cooperazione allo sviluppo sostenibile e di collaborazione per rafforzare le istituzioni civili e garantire servizi essenziali alle popolazioni. Un approccio complesso e multidimensionale che Mario Giro conosce bene, per avervi contribuito personalmente nella sua precedente veste, e che la recente nomina di Emanuela Del Re a Rappresentante Speciale Ue per il Sahel conferma essere apprezzato e condiviso dai nostri partner. Tigray ed Etiopia - Veniamo alla crisi del Tigray e all’Etiopia. L’Italia si riconosce totalmente nelle cinque priorità evidenziate dal Mae finlandese ha visto dopo la sua ultima missione nella regione, per conto dell’UE: pieno accesso umanitario; indagini indipendenti sulle violazioni dei diritti umani; ritiro delle truppe eritree dal Tigray; avvio di un percorso di riconciliazione nazionale; maggiore coordinamento con i principali attori regionali. Siamo allarmati per l’aggravarsi di una crisi umanitaria sempre più profonda, che può sfociare - come denunciano le principali organizzazioni umanitarie e le stesse realtà cristiane lì presenti - in una carestia di proporzioni indicibili. Le violenze nella regione stanno continuando e assumono contorni impressionanti, in particolare nei confronti delle donne e delle ragazze. Tutto questo è inaccettabile e l’Italia sosterrà ogni iniziativa - nelle sedi multilaterali e nei rapporti bilaterali - che possa far cambiare questo quadro e dare un aiuto concreto alle popolazioni civili colpite. Per questo abbiamo aderito all’Appello per il “cessate il fuoco umanitario”, anche per consentire la stagione della semina e l’agricoltura di sostentamento. Per questo nei giorni scorsi ho personalmente partecipato ad una riunione a porte chiuse promossa dall’Amministratrice di USaid Samantha Power per coordinare al meglio le nostre iniziative umanitarie e veicolare un messaggio unitario e netto alle autorità etiopi e a tutte le parti coinvolte. Non ci sfugge la complessità del quadro in Etiopia, il moltiplicarsi di violenze tra gruppi etnici anche in altre aree del Paese, le turbolenze della regione (dalle tensioni confinarie di Fashaga alla disputa per la Gerd) e l’avvicinarsi delle elezioni del 21 giugno. Riteniamo tuttavia che un approccio franco che parta dall’emergenza umanitaria sia quello più efficace per combinare pressione e confronto costruttivo con le autorità etiopiche. Infine, condivido la necessità di accendere i riflettori sulla situazione nel Nord del Mozambico. Stiamo organizzando un volo umanitario per le prossime settimane e faremo ogni sforzo per non far venir meno la tradizionale e importante presenza italiana in quel paese. Canada. Quel terrorismo di altro segno: strage anti-musulmana di Maurizio Ambrosini Avvenire, 12 giugno 2021 Si è parlato molto poco sui mass media italiani di un fatto accaduto domenica scorsa in Canada, nella città di London (Ontario). Un giovane di neppure vent’anni ha investito volontariamente con la sua auto una famiglia di cinque persone, per la sola ragione che si trattava di musulmani. Quattro sono rimaste uccise, un ragazzino di nove anni è stato gravemente ferito. Erano arrivati dal Pakistan 14 anni fa, e vengono descritti come partecipanti attivi nella locale moschea, ma anche ben integrati nel contesto sociale. L’assalitore non aveva nessun rapporto con le vittime, non c’erano precedenti di litigi o tensioni. La motivazione dell’attacco è stata il semplice, ma fanatico, odio anti-musulmano, spinto fino alle estreme conseguenze. Non si tratta quindi di un mero fatto di cronaca, benché tragico. Si tratta di quello che, a parti invertite, sarebbe stato certamente definito come un attentato terroristico. La triste vicenda suscita tre riflessioni. La prima riguarda il Canada, il Paese che ha per primo e più convintamente adottato un modello di integrazione di diverse culture come politica pubblica, e come un tratto tipico della propria identità nazionale post-britannica. Per decenni il modello ha funzionato pacificamente, e il Canada nel mondo ha beneficiato della reputazione di Paese-guida per l’integrazione riuscita di successivi flussi d’immigrati, anche perché in buona parte selezionati per livelli d’istruzione, competenze professionali, legami familiari con altri immigrati già insediati. È presto per decretare il fallimento del modello, ma qualcosa dev’essersi incrinato, e non perché gli immigrati abbiano manifestato segni di rifiuto dell’integrazione, ma perché tra i cittadini nativi la mala pianta dell’intolleranza sta attecchendo. Il bersaglio più colpito sono proprio i musulmani: nel 2019, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, 181 episodi di violenza nei loro confronti, più di uno ogni due giorni (The Submarine, dati Statistics Canada). La seconda riflessione riguarda la risonanza mediatica internazionale: bassissima. Non è difficile immaginare quale sarebbe invece stata se un musulmano in auto avesse investito e ucciso quattro pacifici cittadini non musulmani. Mentre in questi giorni si rievoca lo ‘scontro di civiltà’ nel caso della povera Saman, che ha trovato giustamente ampio spazio sui media nazionali, stentiamo a riconoscere quanto odio anti-islamico scorra nelle società occidentali. Il trattamento mediatico, politico e giudiziario della violenza contro i musulmani è sistematicamente riduttivo, rispetto a quello riservato ai fatti violenti in cui in un modo o nell’altro sono implicate come aggressori persone riconducibili a un’identità religiosa e culturale musulmana. Questo doppiopesismo conduce alla terza riflessione. Chiamiamo terrorismo la violenza cieca che suscita un terrore diffuso, che spaventa la società nel suo insieme. Ma quando esplodono attacchi che hanno come bersaglio i musulmani, stentiamo a riconoscerli come attentati terroristici perché non prendono di mira noi, ma una minoranza identificabile, e per di più malvista. Quando avvengono, dalla Nuova Zelanda alla Germania, ora al Canada, ci si accorge troppo tardi che le avvisaglie, i messaggi, gli ambienti propulsori erano stati sottostimati. Sarebbe sbagliato rinfacciarsi le vittime, si alimenterebbe nuovamente il fantasma dello ‘scontro di civiltà’. Abbiamo bisogno invece di una battaglia convinta e condivisa contro l’odio con pretesti religiosi e culturali, ovunque si celi, in nome di una civile concittadinanza e di una rinnovata fraternità tra persone e comunità di fede diversa. Danny Fenster, ostaggio in Birmania di Paolo Lepri Corriere della Sera, 12 giugno 2021 Un giornalista di nazionalità americana è stato arrestato ed è sparito in Myanmar, e i militari non danno informazioni da venti giorni. Silenzio. La giunta militare che ha preso il potere in febbraio non ha niente da dire su Danny Fenster. Nessuno può sapere quali siano le accuse contro di lui e dove si trovi. Bocche cucite, disprezzo per i diritti più elementari. Eppure sono passati quasi venti giorni da quando il caporedattore di Frontier Myanmar è stato arrestato mentre era in attesa di imbarcarsi in un aeroporto birmano. A nulla è servito l’impegno di alcuni parlamentari democratici del Michigan, uno dei quali, il senatore Gary Peters, ha parlato del caso con il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan. I generali golpisti, che hanno represso con il sangue tutte le proteste popolari contro il regime (almeno 800 persone sono state uccise dalla polizia) pensano evidentemente di poter agire con totale impunità. “In quel paese - dice al Detroit Free Press Buddy Fenster, padre del giornalista - chiunque può essere messo in prigione senza spiegazioni”. Nato a Detroit, studi alla Columbia di Chicago e un master alla Wayne State University, sposato, il caporedattore di Frontier Myanmar ha iniziato a lavorare in Louisiana, dove si è dedicato tra l’altro a raccontare storie di bambini vittime di sparatorie. Nel 2018, poi, il trasferimento in Asia. In Myanmar ha scritto anche del genocidio dei Rohingya. “È sempre stato dalla parte dei perseguitati”, spiega Buddy Fenster. Questo impegno affonda le sue radici, secondo il fratello Bryan, anche nella storia della famiglia. “I genitori di nostro padre - aggiunge - vivevano nel ghetto di Varsavia e sono sopravvissuti all’Olocausto. Danny è attratto dalle persone che lottano”. “Non ha fatto niente di sbagliato. Era lì soltanto per raccontare coraggiosamente la verità”, afferma un altro parlamentare, Andy Levin, che ha scritto al segretario di Stato Antony Blinken chiedendo di premere per la liberazione dell’arrestato. C’è poco da sperare vedendo come la giunta militare ha agito spietatamente contro gli oppositori e si sta comportando con Aung San Suu Kyi, la donna che era riuscita (sia pure con tante contraddizioni) a portare il Myanmar verso la democrazia. Ma, come sa Danny Fenster, essere pessimisti non è una ragione per smettere di lottare. Anzi. Cina. L’inferno distopico dello Xinjiang tag43.it, 12 giugno 2021 Torture, lavaggio del cervello, raccolta di dati biometrici e medici. Le testimonianze inedite di ex detenuti nei campi di detenzione cinesi dello Xinjiang raccolte da Amnesty International. “Nello Xinjiang le autorità cinesi hanno dato vita a un inferno distopico di dimensioni gigantesche”. La denuncia arriva Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International che il 10 giugno ha pubblicato il rapporto di 160 pagine Cina: ‘Come nemici in guerra’. Internamento di massa, tortura e persecuzione contro i musulmani dello Xinjiang. Una raccolta di testimonianze inedite di ex detenuti nei campi di rieducazione realizzati dal governo di Pechino su torture e le persecuzioni subite, soprattutto uiguri e kazaki. Violenze e abusi che si configurano, scrive Amnesty, come crimini contro l’umanità, e che le autorità cinesi hanno adottato dal 2017 con l’obiettivo di sradicare le tradizioni culturali e linguistiche di alcuni gruppi etnici della regione - tra cui anche hui, kirghizi, uzbechi e tagichi - giustificandoli come lotta al terrorismo. “Gli uiguri, i kazachi e le altre minoranze musulmane subiscono crimini contro l’umanità e altre gravi violazioni dei diritti umani che minacciano di radere al suolo le loro identità culturali e religiose”, ha detto senza mezzi termini Callamard. La raccolta dei dati biometrici, gli interrogatori e le torture - Nella regione nel nord ovest della Cina dal 2017 in poi sono stati costruiti centinaia campi di internamento per, sostiene Pechino, la “trasformazione attraverso l’educazione”. L’esistenza di centri in cui numeri enormi di persone - si parla di centinaia di migliaia, se non addirittura un milione - vengono “sottoposte al lavaggio del cervello, alla tortura e ad altri trattamenti degradanti”, sottolinea la segretaria dell’associazione, “per non parlare degli altri milioni che vivono nella paura a causa del sistema di sorveglianza di massa, dovrebbe sconvolgere la coscienza dell’umanità”. Gli ex detenuti intervistati da Amnesty International hanno raccontato di essere stati arrestati per condotte del tutto legali, come il possesso di immagini religiose o il contatto con persone all’estero. Il tutto, come emerge dalla testimonianza di un funzionario di Stato cinese che ha preso parte agli arresti di massa, senza mandato di cattura e al di fuori di qualsiasi garanzia giudiziaria. Una volta arrestati e interrogati, ai detenuti venivano presi i dati biometrici e medici. Quindi erano assegnati ai campi. Gli interrogatori avvenivano frequentemente sulle cosiddette “sedie della tigre”, a cui i detenuti erano ammanettati in posizioni innaturali e dolorose. Nei campi lavaggio del cervello per disprezzare l’Islam e rinnegare la propria cultura - Una volta nei campi, i detenuti dovevano sottostare a un rigido regolamento. Vietato parlare tra loro o rivolgersi alle guardie del campo nella propria lingua e non in mandarino. “Ogni giorno ci svegliavamo alle 5 del mattino e dovevamo rifare il letto in modo perfetto”, racconta una ex detenuta finita nel campo per aver installato WhatsApp sullo smartphone. “Poi c’erano la cerimonia dell’alzabandiera e il giuramento. Poi la colazione. Poi tutti in casse. Poi il pranzo. Poi di nuovo tutti in classe. Poi la cena. Poi ancora una lezione. Poi a dormire. Ogni notte due di noi dovevano ‘essere in servizio’, cioè controllare gli altri, a turni di due ore. Non c’era un attimo libero. Eravamo esausti…”. Dopo settimane costretti a restare seduti o inginocchiati e in silenzio per la maggior parte della giornata, cominciava per i detenuti il programma di rieducazione: un lavaggio del cervello per disprezzare l’Islam, rinnegare la propria cultura e lingua e studiare la propaganda del Pcc. Tutti i 50 ex detenuti sentiti da Amnesty raccontano di aver subito anche torture: pestaggi, scariche elettriche, privazione di cibo acqua e sonno erano all’ordine del giorno. Amnesty ha appreso anche di un detenuto morto per essere stato ammanettato per 72 ore di fila alla sedia della tigre davanti ai suoi compagni di cella. Sorveglianza elettronica e fisica anche dopo il ritorno in libertà - I campi dello Xinjiang sono sotto rigida sorveglianza. E anche quando i detenuti ritrovano la libertà restano sotto vigilanza, elettronica e fisica. Naturalmente ogni espressione religiosa, pubblica o privata, non solo è vietata ma diventa automaticamente prova di estremismo tale da motivare l’arresto. Per essere internati basta possedere un Corano o scaricare software di messaggistica sullo smartphone. In tutta la regione sono sistematicamente demoliti luoghi sacri, cimiteri, moschee. In alternativa, viene cambiata la loro destinazione d’uso. Molti dei detenuti dei campi vengono “venduti” a blocchi alle grandi aziende manifatturiere che lavorano soprattutto il cotone. Materiale che poi viene acquistato da grandi multinazionali occidentali.