La riforma della Giustizia passa anche dalle carceri di Roberta Benvenuto Il Foglio, 11 giugno 2021 Le carceri italiane sono ormai luoghi insicuri e obsoleti. Assunzioni, sicurezza sul lavoro e rinnovo del contratto: gli agenti della polizia penitenziaria chiedono al ministro Cartabia impegni concreti per l’organizzazione carceraria. La manifestazione oggi a Roma. Impegni concreti su assunzioni, sicurezza e rinnovo del contratto. Con queste richieste sono scesi in piazza oggi gli agenti della polizia penitenziaria, rivolgendosi da via Arenula al ministro della Giustizia Marta Cartabia. “Si parla di riforma della Giustizia come pilastro del Recovery, ma la giustizia non è soltanto quella nelle aule di tribunale, è anche quella nelle carceri”, dice al Foglio Florindo Oliverio, segretario Fp Cgil. “Dev’essere garantito che chi è ritenuto colpevole alla fine di un processo possa avere garantiti i propri diritti dentro strutture nelle quali anche gli operatori di polizia penitenziaria assolvono una funzione importante per la giustizia di questo paese”. Secondo i sindacati sono quasi 5.000 i posti da occupare per portare la dotazione organica a un livello adeguato per consentire ai lavoratori di svolgere in sicurezza i propri turni. “L’interesse per il carcere è diminuito da molti anni”, aggiunge Massimiliano Prestini (Fp Cgil settore penale). “A volte i politici lo usano come spot nelle campagne elettorali, ma nel momento in cui vanno al governo risultati concreti non ci sono mai stati”. Il Consiglio dei ministri Ue: “La riforma dell’ ergastolo ostativo deve essere fatta” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 giugno 2021 La storica sentenza della Cedu sul caso di Marcello Viola. Per i giudici di Strasburgo la non collaborazione non può essere un vincolo per i benefici. Il consiglio dei ministri europei, deputato alla vigilanza sull’esecuzione delle sentenze Cedu, ha dato tempo all’Italia fino al 15 dicembre 2021, per fornire informazioni sui progressi nell’adozione delle misure generali. “La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Viola deve essere rispettata, dando la possibilità della concessione della libertà condizionale, valutando caso per caso, anche a chi non collabora con la giustizia”. Parliamo dell’ergastolo ostativo. L’Italia dovrà fornire informazioni sull’adozione delle misure entro il 15 dicembre. Il Consiglio dei ministri europei, deputato alla vigilanza sull’esecuzione delle sentenze Cedu, ha dato tempo all’Italia, fino al 15 dicembre 2021, di fornire informazioni sui progressi compiuti nell’adozione delle misure generali. Il Consiglio dei ministri dell’Unione Europea ha redatto un documento scaturito dall’incontro del 7-9 giugno. Ha quindi ricordato che il caso Viola contro Italia riguarda una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea a causa dell’impossibilità ai sensi dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario per i detenuti condannati all’ergastolo ostativo di poter beneficiare della libertà condizionale in assenza di cooperazione con l’autorità giudiziaria. Ricorda inoltre che la Corte europea ha indicato, ai sensi dell’articolo 46, che le autorità italiane dovrebbero intraprendere una riforma, preferibilmente mediante l’introduzione di norme, per garantire una possibilità procedurale di revisione di tale condizione detentiva. Marcello Viola rimane ancora ostativo - Per quanto riguarda la misura individuale, il consiglio d’Europa nota con preoccupazione che il ricorrente, ovvero Marcello Viola, rimane ancora ostativo alla liberazione condizionale; rileva inoltre che un mutamento di tale situazione è legato e subordinato all’adozione delle misure generali necessarie per garantire la possibilità di rivedere la sua pena detentiva. Quali sono le misure generali indicate dal Consiglio dei ministri europei? Ha osservato che l’esecuzione di questa sentenza richiede l’adozione di misure legislative per garantire la possibilità per i tribunali nazionali di rivedere interi ergastoli per determinare se, alla luce di una valutazione globale del processo di riabilitazione dell’individuo e anche quando manca la collaborazione con la giustizia, la detenzione è ancora giustificata da legittimi motivi penali. Soddisfazione per la richiesta di riforma da parte della Consulta - Il Consiglio dei ministri europei ha rilevato con soddisfazione al riguardo, che nell’aprile 2021 la Corte Costituzionale italiana, in accordo con la sentenza della Corte Europea, ha chiesto una riforma legislativa dell’esistente meccanismo automatico per il quale la collaborazione con l’autorità giudiziaria è il presupposto per ogni valutazione della riabilitazione del condannato all’ergastolo ostativo. Anche la ministra della Giustizia Cartabia è intervenuta - Ha inoltre rilevato che è pendente dinanzi al Parlamento un disegno di legge volto a modificare le disposizioni pertinenti dal 2019. A tal proposito è intervenuta anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia, ricordando l’invito che la Corte costituzionale ha rivolto alle Camere per “modificare” la legge sull’ergastolo ostativo e “scrivere nuove norme che tengano in considerazione la peculiarità del fenomeno mafioso e della criminalità organizzata”. Secondo la guardasigilli Cartabia, “si potrebbero prevedere specifiche condizioni e procedure più rigorose per l’accesso alla libertà condizionale e ad altri benefici in caso di condannati per reati di mafia”. Il Consiglio dei ministri europei sottolinea l’urgenza di porre fine alla violazione - Ritornando al documento emanato dal Consiglio dei ministri europei, viene sottolineata l’urgenza di porre fine alla violazione del diritto dell’ergastolano Viola e di garantire la non reiterazione delle violazioni dell’articolo 3 della Convenzione, disposizione che “non ammette eccezioni o deroghe”. Il Consiglio europeo ha quindi invitato le autorità italiane ad adottare “senza ulteriori indugi le misure legislative necessarie per conformare l’attuale quadro normativo ai requisiti della Convenzione, come enunciato nella presente sentenza, anche attingendo alla Raccomandazione del Comitato dei ministri agli Stati membri sulla libertà condizionale”. Rilascio negato se il detenuto rappresenta ancora un pericolo - Nello stesso tempo, il Consiglio europeo ha sottolineato, come ha fatto la Corte europea, che la possibilità di riesame implica la possibilità di chiedere il rilascio sulla parola, ma non necessariamente di essere rilasciato se le autorità giudiziarie competenti concludono che il detenuto rappresenta ancora un pericolo per la società. Per questo, conclude il documento, il Consiglio dell’Unione Europea ha chiesto alle autorità italiane di fornire informazioni sui progressi compiuti nell’adozione delle misure generali entro il 15 dicembre 2021. Cartabia: 753 detenuti al 41 bis, ad oggi nessun permesso premio di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2021 “I detenuti sottoposti al regime del 41 bis sono attualmente 753, di cui 740 uomini e 13 donne”. Lo dice la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, durante l’audizione in Commissione Antimafia. “La mafia non è stata ancora definitivamente sconfitta. Estende i suoi tentacoli nefasti in attività illecite e insidiose anche a livello internazionale. Per questo è necessario tenere sempre la guardia alta”. Inizia con la citazione della frase sulla mafia del capo dello Stato Sergio Mattarella, pronunciata in occasione del ventinovesimo anniversario della strage di Capaci, l’audizione della ministra della Giustizia Marta Cartabia, dinanzi alla commissione Antimafia. La ministra ha citato più volte Giovanni Falcone, il magistrato ucciso dalla mafia il 23 maggio del 1992 insieme alla moglie Francesca Morvillo e ai tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Un magistrato, ha detto la Guardasigilli, “che osservava i fatti e stabiliva le strategie”. La criminalità è attratta da facili guadagni - Dopo i lunghi mesi di stallo legati alla pandemia, la ministra si è augurata che i fondi del Recovery “non finiscano in mani sbagliate”. La criminalità organizzata, ha detto la Guardasigilli ai parlamentari della commissione Antimafia, “è attratta da facili sorgenti di ricchezza. Non possiamo consentire che i fondi del Recovery finiscano nelle mani sbagliate e l’intervento sia inquinato da interessi illeciti”. Ergastolo ostativo: il Parlamento colga l’invito della Corte Costituzionale - La ministra della Giustizia ha parlato anche dell’ergastolo ostativo. “Stavolta il Parlamento non dovrebbe mancare l’occasione di raccogliere l’invito della Corte Costituzionale a rimuovere i profili di incostituzionalità per scrivere nuove norme che tengano in considerazione le peculiarità del fenomeno mafioso e della criminalità organizzata”, ha detto la ministra. Occorre “evitare che siano assimilati al trattamento” dei detenuti comuni e “si potrebbero prevedere specifiche condizioni e procedure per l’accesso alla liberazione condizionale, più rigorose di quelle applicabili ad altri detenuti”. Chiesta l’estradizione per Morabito - La ministra ha reso noto che l’Italia ha chiesto l’estradizione per Rocco Morabito, il narcotrafficante della ‘ndrangheta arrestato in Brasile, considerato il secondo latitante più pericoloso dopo Matteo Messina Denaro. Estradizione che è stata chiesta anche per Vincenzo Pasquino. La scarcerazione di Brusca: “Norma sui pentiti da preservare” - La Guardasigilli ha parlato anche della scarcerazione di Giovanni Brusca. “Credo che la norma sui collaboratori di giustizia - ha detto Marta Cartabia - sia da preservare, anche se pronunciare questo in questo momento è impegnativo. Non sono insensibile al dolore dei familiari delle vittime provocato dalla scarcerazione di Giovanni Brusca”. Sono 753 i detenuti al 41-bis, nessun permesso premio - La ministra in commissione Antimafia, ha fornito i numeri dei detenuti in regime di 41-bis: sono 753 i detenuti in tutto: 740 sono uomini e 13 donne. Sei di loro hanno chiesto di fruire dei permessi premio, “ma nessuno lo ha ottenuto”, solo uno del circuito di alta sicurezza. Sette procedimenti alla Procura europea. Sono già 7 i procedimenti avviati in Italia dalla Procura europea e 162 quelli in tutti i Paesi aderenti a questa struttura, ha detto la ministra della Giustizia Marta Cartabia nella sua relazione davanti alla Commissione Antimafia, sottolineando che il nuovo organo giudiziario operante dal primo giugno offre uno “strumento fondamentale per il contrasto ai reati finanziari”. Restituire alla collettività i beni sequestrati è un messaggio forte alla criminalità. “Un bene, un’azienda, un immobile, che lo Stato sottrae alla criminalità e restituisce alla collettività - ha sottolineato la Guardasigilli - è un messaggio forte che lo Stato manda alle organizzazioni mafiose e ai cittadini. Questo aspetto della nostra legislazione ha potenzialità ancora tutte da esplorare”. I poteri dell’Anac non saranno intaccati - “I poteri di indirizzo e vigilanza dell’Anac non saranno intaccati. E cito parole recentemente sottolineate da Palazzo Chigi”, ha detto la ministra della Giustizia Marta Cartabia, sottolineando il ruolo dell’Autorità nazionale anticorruzione nella prevenzione della corruzione. Cartabia all’Antimafia: “Norme sui pentiti da preservare, regole rigorose per la libertà ai boss” di Liana Milella La Repubblica, 11 giugno 2021 La ministra della Giustizia sulla scarcerazione di Brusca: “Non sono insensibile al dolore dei familiari”. La libertà condizionale ai mafiosi ergastolani andrebbe concessa solo “in specifiche condizioni e con specifiche procedure”, anche prevedendo una serie “di prescrizioni” e controlli rigorosi, all’esito di una catena decisionale in cui “avranno il loro ruolo i procuratori che hanno condotto le indagini e la Direzione nazionale antimafia”. Ecco l’idea che la ministra della Giustizia Marta Cartabia affida alla Commissione parlamentare Antimafia - e ovviamente attraverso l’organo bicamerale al Parlamento che dovrà legiferare - nel corso dei suoi sessanta serrati minuti di audizione, a Palazzo San Macuto. Numerosi i temi affrontati (nonostante il tempo contingentato per il question/time ad attenderla alla Camera), appunti che si snodano per sei capitoli, e più citazioni per il presidente Sergio Mattarella e il giudice Giovanni Falcone. Nei sei capitoli, oltre al fenomeno mafioso e alla dimensione internazionale del contrasto alle mafie (a proposito della quale Cartabia ha ricordato anche il recente accordo firmato tra Eppo, la neo-costituita Procura europea, e la nostra Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, siglato il 24 maggio scorso “per rendere più efficace l’attività di contrasto”), la ministra ha toccato anche il tema degli interventi nel settore agroalimentare; le misure contro la corruzione; le riforme del processo penale e le misure di prevenzione con l’aggressione ai patrimoni illeciti. La ministra premette “l’alta vigilanza” già attivata dall’Italia, che resta “all’avanguardia nel contrasto alla criminalità organizzata”, sul “rischio infiltrazioni delle mafie nei fondi del Recovery Plan”. Ammonisce con chiarezza: “La criminalità organizzata è attratta dalle facili sorgenti di ricchezza e denaro. Ma non possiamo permetterci che i fondi del Recovery Plan” finiscano in mani sbagliate, “che quei processi siano inquinati da fenomeni illeciti”. Poi, sul fronte divisivo della sentenza Cedu che ha riguardato l’ergastolo ostativo, e che ha spinto di recente la Consulta ad annunciare la conseguente e analoga pronuncia se nel corso di un anno le Camere non riuscissero a produrre le norme adeguate, la ministra lancia la sua esortazione al Parlamento.”Credo che questa volta il Parlamento non dovrebbe mancare l’occasione di cogliere l’invito della Corte. Per scrivere nuove norme che tengano però in considerazione la peculiarità del fenomeno mafioso e della criminalità organizzata”, puntualizza Cartabia. Che poi rimarca la necessità di conservare la distinzione tra condannati per mafia e altri, per la “intrinseca pericolosità sociale” cui la stessa Corte costituzionale fa riferimento. Quindi, per la titolare della Giustizia, sarebbe naturale prevedere l’eventuale concessione della libertà condizionale, “a titolo esemplificativo - specifica - con specifiche procedure e in specifiche condizioni”. Mentre, chiarisce sull’altro livello della scelta, è chiaro che “sebbene sia il giudice di sorveglianza colui che appone l’ultima firma”, il processo decisionale coinvolgerebbe come da norma “sia i procuratori che si sono occupati delle indagini, sia i riferimenti della Direzione nazionale antimafia”. Cartabia si sofferma poi sulla vicenda della recente scarcerazione del capomafia, e super killer Giovanni Brusca. “Comprensione e solidarietà “ con le famiglie delle vittime innocenti delle mafie”, ma “la norma sul contributo fornito dai collaboratori di giustizia va preservata”, sottolinea la ministra. Che si dice “consapevole” di quanto sia difficile pronunciarsi in termini solo tecnico-giuridici. “Non sono insensibile al dolore dei familiari delle vittime per la scarcerazione di Giovanni Brusca - sottolinea ancora - e anche per la tragica vicenda del piccolo Giuseppe Di Matteo”. Ma il contributo dei cosiddetti pentiti, argomenta Cartabia, “ si è storicamente rivelato assai rilevante. E naturalmente si può valorizzare solo se inserito in un robusto quadro probatorio. La collaborazione di Buscetta, ad esempio, pare fosse corredata da 3600 riscontri”. “I reati commessi dai minori preoccupano, ma il carcere non è la soluzione” redattoresociale.it, 11 giugno 2021 Il 90% degli italiani sovrastima il fenomeno della delinquenza minorile. Ma non pensa che vada affrontato mettendo tutti in carcere: meglio le comunità. E chiede anche che si trovino nuovi strumenti per aiutare questi adolescenti. I risultati dell’indagine della cooperativa Arimo. Gli italiani sono preoccupati per la delinquenza minorile e stimano che sia più diffusa di quanto lo sia in realtà. Ma sono anche convinti che non sia il carcere la soluzione. È quanto emerge da una ricerca condotta dall’agenzia Kantar, per conto della cooperativa sociale Arimo, su un campione rappresentativo della popolazione italiana di mille intervistati. Nel 2020 sono circa 30 mila i minori che hanno commesso reati, ma per il 90% degli intervistati sono molti di più, intorno ai 750 mila. Non solo. Mentre i dati dei tribunali dei minori registrano un calo dei reati, secondo gli italiani sono in aumento. Ed è quindi per questo che il 71% degli intervistati si dice preoccupato o molto preoccupato per il fenomeno dei reati commessi dai minori. I dati della ricerca sono stati presentati oggi durante il convegno, “Impossibili o invisibili” organizzato da Arimo “per rendere più visibile il fenomeno degli adolescenti in difficoltà e a rischio di devianza e fare un punto sulle possibili soluzioni per affrontarlo”. E a proposito di soluzioni, dalla ricerca emerge (a sorpresa) che gli italiani, nonostante la maggioranza abbia una percezione esagerata del fenomeno, ritengono che il carcere non sia una soluzione: “Lo strumento maggiormente suggerito è la comunità educativa -sottolinea Federico Capeci, ceo di Kantar- e il 17% chiede nuovi strumenti non ancora conosciuti”. “Uno dei principi fondamentali del nostro sistema penale minorile -aggiunge Lamberto Bertolé, presidente della Cooperativa Arimo- è che il reato commesso da un adolescente viene interpretato come una richiesta di aiuto. Questo non vuol dire che non ci debba essere una sanzione e che l’adolescente non debba assumersi la responsabilità dei propri atti. Ma è anche assodato che il minore che commette reati sta chiedendo una risposta ai suoi problemi e lo Stato e tutti noi abbiamo il compito di dargliela”. Dall’indagine emerge anche che il 60% è disponibile dedicare tempo o la propria professionali o a donare soldi per aiutare questi adolescenti. Rems, una questione di cura. Ma la giustizia dov’è? di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 giugno 2021 Sulle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che hanno sostituito gli Opg, pende il giudizio della Consulta e della Corte Edu. Alla Camera depositate due leggi per modificare il percorso dedicato ai folli-rei. A fine mese, dopo vent’anni, la II Conferenza nazionale sulla salute mentale. Tra qualche giorno la Corte costituzionale renderà nota la decisione, discussa in Camera di consiglio il 26 maggio scorso, riguardante gli atti rimessi dal Tribunale di Tivoli per il caso di un uomo condannato, dichiarato incapace di intendere e volere al momento del reato, che avrebbe dovuto essere ricoverato in una Residenza per l’esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) ma non ha trovato posto e sarebbe stato quindi costretto al carcere. Il giudice di Tivoli, Aldo Morgigni, ha chiesto alla Consulta di pronunciarsi sulla costituzionalità della legge istitutiva delle Rems nella parte in cui conferisce alle sole Regioni e alle Asl la competenza su queste strutture, lasciando fuori il Ministero di Giustizia, e nella parte in cui fissa a 20 il numero massimo di internati possibili in ciascuna Rems. Il tribunale si è rivolto alla Corte costituzionale perché il Dap - che aveva il compito di individuare la struttura dove inserire un condannato che si rifiutava di sottoporsi a cure e per il quale perciò il giudice aveva disposto il ricovero in Rems senza passare per il carcere - non ha potuto fare nulla per trovare un posto. Secondo Morgigni, l’attesa per le liste d’attesa possono durare anche più di un anno e mezzo. E c’è il caso di una direttrice di un carcere romano sulla quale pende un procedimento penale conseguente al suicidio in carcere di un ragazzo detenuto ingiustamente da mesi in attesa della collocazione in Rems. L’atto di remissione di Tivoli spiega che il ricovero tramite Trattamento sanitario obbligatorio “trova fondamento costituzionale nell’articolo 32 della Costituzione, mentre la misure di sicurezza presso una Rems trovano giustificazione nei diritti di incolumità personale di terzi, diversi dall’infermo, negli articoli 2 e 25 della Costituzione, oltre che allo stesso 32”. E siccome la misura, provvisoria, come in questo caso, “è sostanzialmente assimilabile alla esecuzione giudiziaria penale restrittiva della libertà personale”, va affidata a chi ne è competente, “ovvero il ministero di Giustizia ai sensi dell’art. 110 della Costituzione”. Infine, spiega il giudice, l’articolo 117 della Carta affida esclusivamente alle competenze dello Stato e non delle Regioni le materie di ordine, sicurezza e di giurisdizione. Sulla stessa materia si attende, per la fine dell’estate, il pronunciamento definitivo (quello cautelare è dei primi di aprile) della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardo i casi di tre detenuti rimasti nelle carceri italiane ma che avrebbero dovuto essere trasferiti in questo tipo di Residenze istituite, grazie alla riforma operata con le leggi 9/2012 e 81/2014, in sostituzione degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Come si ricorderà, fu la commissione parlamentare di inchiesta sul Ssn istituita nel 2008 e presieduta dall’allora senatore Ignazio Marino ad accendere i riflettori sugli orrori degli Opg e a portarli alla chiusura definitiva nel 2017. Le 32 Rems italiane sono piccole strutture a vocazione riabilitativa e a esclusiva gestione sanitaria, e con la presenza della sola vigilanza esterna, quando si ritiene necessaria, affidata alle Prefetture. In alcune Rems è anche concesso agli internati di uscire e interagire con la popolazione locale. Nel tentativo di mettere fine ai cosiddetti “ergastoli bianchi”, le norme introdotte nel 2014 prescrivono che la permanenza nelle strutture “non può durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso”, calcolata sulla previsione edittale massima. E che “le persone che hanno cessato di essere socialmente pericolose devono essere senza indugio dimesse e prese in carico, sul territorio, dai Dipartimenti di salute mentale”. Purtroppo però, come sappiamo, in molte regioni d’Italia l’efficacia - e a volte l’efficienza - dei Centri di salute mentale è davvero scarsa; il diritto alla cura e all’inclusione sociale non è garantito su tutto il territorio nazionale; il diritto alla salute è rispettato a macchia di leopardo, e la malattia mentale è ancora tabù. E poi, va registrata una certa burocratizzazione dei Centri di salute mentale. Anche per questo il ministro della Sanità Roberto Speranza ha organizzato, a vent’anni dalla prima, la Seconda Conferenza nazionale sulla salute mentale (“Per una salute mentale di comunità”), a Roma i prossimi 25 e 26 giugno. Dall’entrata in vigore della riforma, solo la Regione Campania, in collaborazione con l’Università di Torino, ha istituito un Sistema informativo per il Monitoraggio del superamento degli Opg (Smop) valido, in grado di raccogliere dati e monitorare il processo normativo che formalmente vorrebbe espandere le tutele degli autori di reato affetti da patologie psichiatriche. Secondo questo database, al 30 novembre 2020 i pazienti presenti in totale nelle Rems sono 551 (leggermente in diminuzione nell’anno del Coronavirus: nel 2018 erano 604); in lista d’attesa c’erano 185 persone, di cui il 20% circa in attesa presso gli istituti penitenziari. Sono perlopiù uomini (l’89%) e, mentre in carcere la popolazione straniera è circa un terzo del totale, nelle Rems si ferma ad un piccolo 14%. Perché? Perché è più difficile per un immigrato accedere al percorso di presa in carico da parte dei servizi sanitari, perché mancano i mediatori linguistici e culturali dentro le Rems, perché i posti sono a numero chiuso. Ai 20 letti imposti dalla legge, “fa eccezione solo Castiglione delle Stiviere (Lombardia) che ha trasformato l’Opg in un sistema modulare di Rems, anche con una sezione femminile, e contiene circa 160 persone”, riferisce Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia che ha gestito come Commissario straordinario la chiusura degli Opg. Eppure, spiega Michele Miravalle, professore di Diritto all’Università di Torino che ha contribuito alla ricerca Smop, “nessuna Rems è sovraffollata, mentre in carcere non è nemmeno immaginabile che un direttore si rifiuti di accettare un nuovo detenuto per mancanza di posti”. Secondo Miravalle, quello delle Rems è un sistema che “tutto sommato regge”: “Negli Opg erano internate circa 1200 persone, con picchi di 1500, oggi c’è un rapporto di uno a sette circa tra i malati delle Rems e quelli che sono sul territorio, in libertà vigilata o ricoverati (la maggior parte) in comunità terapeutiche, luoghi del privato sociale con rette giornaliere che viaggiano attorno alle 300 euro”. Poi, aggiunge Miravalle che fa parte anche dell’Osservatorio Antigone, “ci sono circa 700 persone che stanno in carcere e dovrebbero stare invece nelle Rems”. Anche “chi esce dalle Residenze non torna mai alla libertà totale di trattamento, e starà sempre in qualche forma di istituzionalizzazione”, afferma Miravalle. Nel rapporto si legge inoltre che “persone dimissibili (sia in ragione del percorso giuridico che sanitario) in realtà permangano in Rems più del dovuto per mancanza di alternative fuori. Questo, come vedremo, vale ancor di più per i cosiddetti cripto-imputabili, ossia quelle categorie di persone definite dagli operatori come particolarmente “difficili” da gestire, sia dentro che fuori dalla Rems”. Dunque, se al 20 novembre 2020 “la durata media del ricovero in Rems è di 236 giorni, tre anni fa, nel 2017, era di 206 giorni”, mentre, come ricorda Corleone, “sono misure provvisorie quelle riguardanti almeno il 40% dei ricoverati in Rems, e in ogni caso tra i capisaldi della legge 81/2014 c’è la transitorietà del ricovero nelle Residenze”. “Mi ha colpito molto nella piccola struttura femminile di Pontecorvo vedere le sbarre alle finestre e una donna nigeriana chiusa da sola in una cella. Quando ho chiesto il motivo mi hanno spiegato che le porte delle stanze sono generalmente aperte ma se il paziente vuole la chiude. Il problema è che per riaprirla occorre l’intervento esterno di un operatore. Che di solito è occupato, perché sono in pochi. La donna non parla italiano, non c’è traduttore e nessuno la capisce”. A raccontare è Alessandro Capriccioli, consigliere regionale del Lazio di +Europa che a inizio pandemia ha già fatto il giro ispettivo di tutte le Rems e ne ha appena cominciato un altro. E dice: “Non sono luoghi di tortura me neppure di cura perché, esattamente come in carcere, mancano personale, dotazioni e attività adatte al reinserimento sociale”. Per Corleone invece “funzionano”, perché “quella riforma è stata una delle poche che non era a costo zero”. “Statisticamente la popolazione internata è marginale rispetto al quella detenuta”, sottolinea ancora il progetto di ricerca Smop. Motivo per il quale “la sfida, operativa e politica, dovrebbe essere oggi quella di una tendenziale abolizione del “bisogno” di Rems. Da questo punto di vista, quello dei folli-rei, insieme a quello dei minori autori di reato, potrebbero diventare i primi due campi dell’esecuzione penale su cui sperimentare l’assenza di istituzioni totali contenitive”. In questa direzione va la proposta di legge 2939 depositata alla Camera l’11 marzo scorso dal deputato di +Europa Riccardo Magi e ispirata ad una precedente pdl di Corleone, attuale Coordinatore dei Garanti territoriali dei detenuti. Nel testo “si modificano le disposizioni relative al vizio totale e parziale di mente, abrogando l’articolo 88 del codice penale senza modificare la disciplina generale della non imputabilità e quella relativa all’imputabilità dei minori”; “si introduce l’attenuante per la disabilità psicosociale”; “si propone la riconversione delle Rems in strutture ad alta integrazione socio-sanitaria quali articolazioni dei dipartimenti di salute mentale”. “Le norme che si introducono - si legge nella premessa - hanno, inoltre, un effetto anti istituzionale, in quanto nella prassi penitenziaria spesso la cura è utilizzata come strumento di repressione”. E per rendere effettivo e celere l’interessamento del dipartimento di salute mentale, la pdl prevede che il giudice possa chiedere ai servizi di relazionare sulle condizioni di salute dell’imputato e di predisporre un programma individualizzato”. E alla Camera giace anche un’altra pdl firmata dal Celeste D’Arrando (M5S) che prevede l’introduzione sperimentale di un “budget di salute” per la realizzazione di progetti terapeutici riabilitativi individualizzati. Peccato che del Recovery fund solo un miliardo, dei 68, sarebbe stato allocato alla riqualificazione della rete dei servizi per le malattie mentali. Giustizia, un’idea semplice di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 11 giugno 2021 Gli insigni giuristi della Commissione istituita dalla ministra della Giustizia per “elaborare proposte di interventi per la riforma dell’ordinamento giudiziario”, nella Relazione lamentano più volte l’esiguità del tempo avuto a disposizione. C’era da affrontare in due mesi cose come “i profili problematici del funzionamento del Consiglio superiore della magistratura” e “i più generali temi riguardanti l’ordinamento giudiziario nel suo complesso e l’organizzazione degli uffici”. Nientemeno. Capiamo e non invidiamo. Tanta materia, tante esigenze, tanti interessi. Da decenni se ne parla e sono fioccate le proposte. Ciò, peraltro, non agevola: troppe idee, troppe discussioni, troppe polemiche non semplificano ma complicano. È un oceano che, appena ti ci avventuri, minaccia tempesta. Non per mancanza di tempo, ma per limiti di spazio, concentriamoci su un tema solo: le “correnti” che compromettono il buongoverno della magistratura. Attraverso le correnti passano traffici politici e affaristici; si scambiano favori a vantaggio dei propri aderenti e a svantaggio dei magistrati che non hanno, né cercano, la loro protezione; si formano partiti di magistrati ai quali le legittime aspirazioni devono pagare tributi di fedeltà a questa o quella corrente. Solo l’andazzo mediatico, questo sì qualunquista, alimenta l’idea che sia dappertutto così. Però, si comprende che degnissimi magistrati preferiscano starsene per conto proprio e non correre il rischio d’invischiarsi in giri di potere. La Commissione avanza tre proposte circa il Consiglio superiore della magistratura, l’organo cui spetta il governo dell’ordine giudiziario: il sistema di voto per l’elezione dei componenti, il rinnovamento parziale a scadenza biennale e l’aumento del numero dei componenti. Circa l’elezione, la proposta è il “voto singolo trasferibile”. L’elettore vota più candidati, secondo un ordine di preferenza dato da lui stesso. Quando un candidato raggiunge una certa “soglia”, determinata attraverso un rapporto numerico tra i votanti e i posti da coprire, viene eletto e i voti eccedenti si spostano sulle seconde, terze scelte e così via. In Italia non conosciamo applicazioni di questo sistema che, tuttavia, la Commissione ci rassicura dicendo ch’esso è “un paradigma” in uso in Irlanda, dove pare funzionare bene per la formazione della loro Camera dei deputati. Se ne possono intuire certi pregi, per esempio una certa libertà di scelta da parte degli elettori. Ma hanno forse gli irlandesi un Csm da sanare? Non per gli irlandesi ma per tutti e dappertutto, qualunque sistema elettorale che voglia essere in qualche modo e misura rappresentativo, se le correnti (o i partiti) esistono non può fare altro che rispecchiarle più o meno fedelmente. Non si può far finta di incominciare da zero. La loro esistenza è il dato da cui partire e il voto che si trasferisce potrebbe addirittura, invece che indebolirla, rafforzarne la presa. Mobilitando e organizzando il proprio elettorato, non avrebbero difficoltà a impadronirsi, uno dopo l’altro, dei posti a scalare, non molto diversamente da quanto si può fare con altri sistemi elettorali di lista. La Commissione stessa avverte prudentemente che la sua idea risente della fretta con la quale si è dovuta pensarla e dell’assenza delle indispensabili verifiche circa le sue ricadute pratiche. Onde, tra le righe, possiamo scorgere una proposta titubante. Insomma, non più d’una suggestione. L’unica convinzione non è pro, ma contro: contro il sorteggio, caldeggiato da taluno come misura radicale e, al tempo stesso, umiliante per i magistrati. Il sorteggio (a meno di inserirlo in un sistema complesso e misto: sorteggio e elezione variamente combinati) è da escludere non per la curiosa ragione ch’esso “sembra implicare una sorta di contraddittoria sfiducia nell’efficacia delle misure” cui pensa la Commissione, cioè perché essa ha altre preferenze, ma per la semplice ragione che vi si oppone la Costituzione quando dice (art. 104) che la componente “togata” del Csm è eletta da tutti i magistrati ordinari e riconosce loro, così, il diritto e la responsabilità di “autogovernarsi”. La seconda idea importante avanzata dalla Commissione riguarda il rinnovo “modulare” del Consiglio. Ogni due anni, un terzo dei suoi componenti sarebbe sostituito attraverso nuove elezioni parziali. Ciò, si dice, dovrebbe rendere più “fluida” la dialettica tra le parti. Davvero? Forse, ciò comporterebbe che l’ordine giudiziario sarebbe perennemente in stato di elezioni, condizione di costante mobilitazione delle correnti in quanto comitati elettorali. Inoltre, trattandosi di eleggere solo un terzo dei componenti, l’effetto sarebbe contrario a quello voluto: non la fluidità ma il controllo delle correnti più forti e meglio organizzate. Del resto, anche a proposito di questo intricatissimo proposito, molto più difficile da districare di quanto sembri a prima vista, la Commissione avanza a se stessa le sue obiezioni concludendo che, a voler mai percorrere questa impervia strada, si dovrebbe mettere mano alla Costituzione. La terza idea è quella che sembra avere più possibilità d’essere accolta: l’aumento del numero dei componenti il Consiglio. La Costituzione non ne stabilisce il numero, limitandosi a indicare un rapporto: due terzi eletti dai magistrati, un terzo dal Parlamento. Oggi sono ventiquattro, rispettivamente sedici e otto (più due membri di diritto, il presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione, oltre eccezionalmente al Presidente della Repubblica). Rispettando la proporzione, il numero totale sarebbe gonfiabile o sgonfiabile a piacimento (così è stato negli anni). La proposta della Commissione è il gonfiamento: da ventiquattro a trentasei. Scrivo trentasei, senza poterci davvero credere. La proposta nasce dal fatto che, con i numeri attuali, per ragioni tecniche, né il nuovo sistema elettorale né la fluidificazione immaginati sarebbero possibili. Ma c’è l’eventualità che la proposta piaccia in sé: aumentare i posti riscuote normalmente consenso. Guardiamo però alla cosa, per l’appunto, in sé: già oggi il Csm è un organo pletorico. Abbiamo presente che cosa sono le sue sedute? Un’enorme tavola rotonda; dietro, in seconda fila, spesso siedono assistenti e collaboratori che sembrano “commissari”; tutti, più o meno rappresentanti di correnti; tutti, nelle questioni più importanti, militanti per la propria parte. E più si alzano i numeri, più le correnti, contro le quali si dice d’essere in campagna, sono necessarie. Come si fa a organizzare le elezioni e a mettere ordine ai lavori in parlamenti e parlamentini senza strutturare appartenenze, richiedere fedeltà, omologare le posizioni? Occorre organizzazione e l’organizzazione è gerarchia, la gerarchia è subalternità, la subalternità richiede capi e disciplina. I gruppi parlamentari e i gruppi consiliari negli enti locali sono indispensabili. Lo sarebbero anche nel Csm, se lo si concepisse come qualcosa di simile. Ma esso non ha da essere né un parlamentino né un consiglio comunale. Dovrebbe essere un consesso in cui ognuno rappresenta se stesso ed esprime la propria visione del buongoverno della magistratura per la quale ha ottenuto l’adesione dei suoi colleghi. Dire di combatterle, le correnti, e aumentare i numeri dei posti è una contraddizione patente. Una proposta semplice: nove consiglieri, sei eletti dai magistrati, tre dal Parlamento e poi organizzare il lavoro con tutto lo staff di cui il Consiglio dispone. Referendum, così i Radicali pagano dazio a Salvini di Andrea Pugiotto Il Riformista, 11 giugno 2021 1. Fino ad oggi, la storia del referendum abrogativo popolare è stata prima felice, poi dolentissima, infine funesta. Può essere utile ripercorrerla, per ricavarne elementi di giudizio sull’imminente, duplice, tornata referendaria in materia di giustizia e di eutanasia. 2. Costituzionalmente, il voto referendario è la ‘seconda scheda” di cui l’elettore dispone per imporre una decisione erga omnes: l’abrogazione popolare, infatti, cancella una legge votata in Parlamento ma non condivisa dalla maggioranza del corpo elettorale. Di più: approvando quesiti abrogativi di specifiche parti di una legge, l’elettore si fa legislatore, perché l’esito del suo voto sarà una normativa diversa da quella in vigore. Opponendosi a singole decisioni legislative, il referendum apre così una contraddizione dialettica nel circuito democratico rappresentativo, agendo come limite al dominio della maggioranza. 3. A rendere il referendum particolarmente insidioso per le forze parlamentari sono anche altre sue caratteristiche. È promosso da una minoranza, elettorale (500.000 sottoscrittori) o territoriale (5 consigli regionali), iscrivendo cosi nell’agenda politica temi che la maggioranza governativa preferirebbe evitare. F sottratto alle mediazioni parlamentari perché il treno referendario, una volta superate le stazioni del sindacato di legittimità in Cassazione e di ammissibilità alla Consulta, arriva inevitabilmente in stazione. Il solo modo per il Parlamento di interromperne il tragitto è abrogare o modificare la legge oggetto di referendum, anticipando la deliberazione popolare. E ancora. L’iniziativa referendaria è per sua natura trasversale aggrega soggetti di schieramenti opposti e divide forze politiche al proprio interno. Accade anche nel corpo elettorale: chiamato a rispondere in modo binario ad una specifica domanda, l’elettore (se adeguatamente informato) decide in autonomia. Il referendum si rivela così un cuneo capace di far saltare, ad ogni latitudine, le consuete logiche di appartenenza politica. 4. Ecco perché il sistema dei partiti, temendo per il proprio monopolio sulle decisioni legislative, è corso ai ripari, costruendo nel tempo una sorta di convenzione antireferendaria. L’ostracismo si manifesta immediatamente il referendum è introdotto dalla Costituzione del 1948, ma il Parlamento approverà la necessaria legge applicativa nel 1970, con ventidue anni di ritardo. Quella legge costruisce il procedimento referendario come un percorso a ostacoli, introducendovi rigide preclusioni temporali. Tre mesi consecutivi per raccogliere le firme necessarie. Divieto di richieste di referendum nell’ultimo armo di legislatura e nel semestre successivo alle elezioni. Blocco e rinvio del referendum in caso di elezioni anticipate, come accaduto nel 1972, nel 1976, nel 1987 e nel 2008, quando le Camere furono sciolte anticipatamente pur di evitare consultazioni referendarie già convocate. Obbligo di voto in una domenica compresa tra 1115 maggio e il 15 giugno, agevolando così l’abitudine del Governo di collocarlo in date balneari a solleticare l’astensionismo che inficia la consultazione popolare. Infatti - altro ostacolo - il referendum è valido solo “se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto” (art. 75, comma 4, Cosi.): è il cd. quorum strutturale, in assenza del quale la consultazione referendaria è nulla. Pensata dai Costituenti per contrastare l’astensione, tale previsione ha finito, invece, per favorirla ed incentivarla. Accadde nel 2005, in occasione dei quattro referendum in tema di procreazione assistita: dai vertici della CEI al pulpito della parrocchia più sperduta, l’appello al non voto fu plateale e reiterato. Ricorrendo così all’aiuto pagano di Ponzio Pilato, il cardinale Ruini centrò l’obiettivo di far fallire l’appuntamento referendario. La difficoltà a raggiungere il quorum è poi accresciuta dalla presenza di morti e fantasmi nelle liste degli aventi diritto al voto, la cui revisione è solo periodica e spesso sciatta. Elettori defunti o irreperibili (come molti italiani residenti all’estero e iscritti all’apposita anagrafe elettorale) concorrono così a innalzare l’asticella del quorum, alterando l’esito della consultazione accadde nel 1999, quando il referendum abrogativo della quota proporzionale nella legge elettorale della Camera fu invalidato per soli 150.000 voti. Alla convenzione antireferendaria, infine, ha concorso anche la Corte costituzionale quale giudice di ammissibilità dei quesiti abrogativi. A partire dalla sent. n. 16/1978, la sua giurisprudenza si è allontanata da una lettura tassativa dei limiti previsti all’art. 75, comma 2, Cosi., creando una panoplia di ulteriori divieti sempre più sofisticati. Il risultato è un’imprevedibile giurisprudenza referendaria, simile alle sponde di un biliardo più che ad una serie di coerenti precedenti. L’effetto ghigliottina che ne è derivato è stato - a un tempo - causa ed effetto di tornate referendarie bulimiche: il Comitato promotore presentava tanti quesiti proprio perché tanti ne bocciava la Corte costituzionale (e viceversa). 5. Post hoc, propter hoc: con la sola eccezione dei quesiti del 2011 (in tema di acqua pubblica, nucleare, legittimo impedimento), nelle ultime tornate referendarie (1997 1999, 2000, 2003, 2005, 2009, 2016) ha sempre prevalso il non voto. È il quadro clinico di un istituto agonizzante: qualunque referendum, su qualunque materia, da chiunque promosso, rischia di fallire. A smentire la diagnosi ci provano, ora, due iniziative referendarie. L’una, dell’Associazione Luca Coscioni, mira a depenalizzare l’eutanasia di soggetti non vulnerabili, attraverso l’abrogazione parziale dell’alt 579 c.p. L’altra, di Partito Radicale e Lega, promuove sei quesiti sulla giustizia: elezione del CSM, responsabilità diretta dei magistrati, meccanismo per la relativa valutazione professionale, separazione delle carriere, limiti al ricorso alla custodia cautelare, abrogazione della legge Severino. Al netto dei diversi temi, non sono iniziative assimilabili esprimendo approcci differenti allo strumento referendario. 6. L’iniziativa dell’Associazione Coscioni usa il referendum come strumento di decisione diretta e alternativa alla (non) decisione parlamentare. In tema di eutanasia, infatti, il Parlamento è muto. Non discute la proposta di legge popolare depositata già nel 2013. Ha ignorato i due moniti della Consulta a colmare con legge una lacuna incostituzionale. Guarda disinteressato ai processi che si celebrano per il reato di aiuto al suicidio a carico di Mina Welby e Marco Cappato (sempre assolti, finora). Si volta dall’altra parte, davanti ai tanti malati terminali. piegati da sofferenze insopportabili e irreversibili, cui è negato il diritto a morire dignitosamente perché il loro caso non è incapsulabile nella fattispecie ritagliata dalla sent. n. 242/2019 della Corte costituzionale. L’iniziativa del Comitato promotore mira ad aggregare una maggioranza elettorale che non ha voce né ascolto in Parlamento, traducendola in volontà normativa attraverso il referendum quale fonte del diritto. 11 suo problema sarà, innanzitutto, mettere in sicurezza il quesito vincendo la sfida titanica di raccogliere le firme necessarie tra luglio e settembre, contando solo sulle proprie forze. Auguri sinceri. 7. È un problema che il Partito Radicale ha risolto associando alla propria iniziativa la Lega. Pagando però dazio. Innanzitutto nella scelta dei quesiti. Dei 6 depositati, 4 riguardano l’ordinamento giudiziario, t la custodia cautelare, 1 il regime delle cariche elettive e di governo, nessuno il nucleo duro della giustizia: i delitti e le pene. Riproporre il referendum sull’ergastolo (come i Radicali fecero nel 1981 e, mancando le firme necessarie, nel 2013), o formulare quesiti mirati su due leggi massimamente carcerogene (la Bossi-Fini in tema di immigrazione, la Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti) non è un’opzione praticabile, se scegli di promuovere i referendum con Matteo Salvini. Scelta che condiziona anche la dinamica referendaria. La Lega, forza di maggioranza, è chiamata a concorrere alle riforme dell’Esecutivo sulla giustizia. Nelle sue mani l’iniziativa referendaria è negoziabile, perché - come ha detto il leader leghista - “non è contro qualcuno, ma è di stimolo al Governo e al Parlamento”. Novello Fregoli abituato a interpretare tutte le parti in commedia, per lui non è un problema. Lo è invece per i Radicali, la cui storia è sempre stata quella di strenui difensori del quesito prima, del voto abrogativo poi. Sull’idea dello stimolo referendario Pannella, non a caso, ha sempre rovesciato tutto il suo corrosivo sarcasmo. Da ultimo, c’è un problema di affidamento. Non basta accompagnarsi occasionalmente ai Radicali per acquisirne la cultura profondamente garantista. Né basta essere pannelliani per riuscire in ciò che Pannella era maestro: contaminare gli aliti con le proprie idee. E in gioco l’egemonia su questa battaglia referendaria, tra chi l’ha nel proprio DNA politico e chi, invece, vi ha aderito per tatticismo e strumentalmente. Anche da ciò dipenderà la sorte dei sei quesiti sulla giustizia. Il boomerang dei referendum sulla giustizia di Roberto Maroni Il Foglio, 11 giugno 2021 L’11 giugno di 20 anni fa nasceva il secondo governo Berlusconi. Un governo che fece cose importanti, come la riforma del mercato del lavoro nel nome di Marco Biagi, il giuslavorista barbaramente trucidato dalle Br. Un governo che però, purtroppo, non riuscì a portare a termine la riforma più necessaria: quella della giustizia. Troppe le pressioni e le logge massoniche. Fu una grande occasione mancata, che avrebbe evitato ingiustizie aberranti come quelle che hanno colpito di recente alcuni sindaci accusati (e perfino sbattuti in galera) senza avere alcuna colpa. Ecco, l’unico rammarico è che quel governo non sia riuscito a fare una riforma della giustizia in grado di porre fine alle assurdità a cui oggi assistiamo sbigottiti. La giustizia si deve (e si può) riformare: è un dovere morale e istituzionale. Ma come si vincono le fortissime resistenze? La Lega di Salvini ci prova: ha promosso, assieme ai Radicali, l’indizione di sei referendum. È la mossa giusta? Temo di no. Anzi, potrebbe addirittura rivelarsi un boomerang: se non si riuscirà a raccogliere le firme necessarie oppure se non si raggiungerà il quorum del 50 per cento +1 di votanti avrà vinto lo status quo, e allora addio riforma per i prossimi 20 anni. La strada giusta è un’altra: quella che passa dal Parlamento. Ma per fare questo occorre che la classe politica acquisisca la consapevolezza che siamo giunti al limite e abbia la volontà (e il coraggio) di agire. Sarebbe ora. Ma temo che anche stavolta non avverrà. Stay tuned. Magistrati sulla graticola, tra legalità e uso del potere di Piero Colaprico La Repubblica, 11 giugno 2021 Brescia contro Milano. La magistratura italiana si sta facendo del male. Lo fa in nome del principio di legalità. E di che cosa sia o non sia “obbligatorio”. Cosa c’è dietro l’apertura del fascicolo per rifiuto d’atti d’ufficio che vede indagati i giudici De Pasquale e Spadaro, nell’ambito delle indagini sulle presunte corruzioni Eni in Nigeria. L’ultima e inevitabile partita, aperta da Brescia, sta mettendo sulla graticola l’inchiesta più “alta” della procura di Milano: quelle delle presunte (molto presunte, visto che c’è stata l’assoluzione) corruzioni dell’Eni in Nigeria. Ed è l’immediata e sorprendente conseguenza di quanto già accaduto, sempre a Milano, tra il sostituto procuratore Paolo Storari e il procuratore capo Francesco Greco. Se è presto stabilire chi abbia ragione, il meccanismo che s’è innescato è inedito. Storari ha avuto l’incarico di indagare intorno alle parole, opere e omissioni dell’avvocato Piero Amara. Ricordiamo che Amara, già frequentatore di carceri e tribunali, è stato appena riarrestato. Questa volta con l’accusa di aver manipolato le inchieste sull’Ilva di Taranto. Operazione che gli sarebbe riuscita grazie ai buoni uffici di un “amico” magistrato a Taranto, e cioè Carlo Maria Capristo. Comunque la si metta, tra Capristo e Amara emergono rapporti che definire opachi è poco. E che rimandano ai rapporti, anche questi molto opachi, di Luca Palamara con i suoi ex colleghi magistrati e con politici e imprenditori: raccomandazioni, incarichi, favori dentro e fuori il Consiglio superiore della magistratura e negli uffici giudiziari che non la legalità hanno poco a che fare. Leonardo Sciascia parlava del “Contesto”. In un tale contesto, Paolo Storari si ritrova in questi giorni interrogato a Brescia ed è sotto accusa per violazione del segreto d’ufficio. Sostenendo che Greco gli mettesse il bastone nella ruota dell’indagine su Amara, Storari aveva consegnato i suoi verbali, ricchi di riferimenti a processi aggiustati e logge massoniche, al membro del Csm Piercamillo Davigo. È un reato? O era costretto dalle circostanze a reagire così? Per spiegare le sue azioni, Storari viene interrogato più volte. E consegna al procuratore capo di Brescia, Francesco Prete, le molte mail che ha scambiato con i suoi superiori gerarchici. Tra queste, porta a Brescia le prove (prove a suo dire) del fatto che Vincenzo Armanna, ex manager Eni, ha detto il falso ai magistrati milanesi. E Storari - questo dice nell’interrogatorio - non si capacita di una circostanza: sia ai colleghi che hanno messo sotto accusa i vertici dell’azienda energetica, e cioè il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, sia al procuratore capo Greco, non sembra importare che Armanna possa rappresentare la classica “buccia di banana”. Anzi, nessuno a Milano vuol tenere conto di una ricostruzione che, smentendo l’impianto dell’accusa, salva l’Eni: ricostruzione che è nata indagando su Piero Amara, l’indagine che sarebbe stata stoppata. Lo scontro Storari-Greco dunque si allarga. E per la magistratura bresciana diventa “obbligatorio” approfondire: quindi ordina una perquisizione e recupera le mail che si sono scambiati i magistrati Spadaro e De Pasquale. È il contenuto di queste mail che, al di là di come andrà a finire il caso, portano all’apertura del fascicolo per rifiuto d’atti d’ufficio. Rifiuto è uguale a omissione. E mentre degli atti viene avvisato “chi di competenza”, torna a galla un antico dibattito: quali sono i confini del potere d’indagine? Quanto conta il singolo magistrato, soggetto soltanto alla legge, e quanto conta il potere del capo dell’ufficio per impedire o per sostenere un’inchiesta? E Brescia che indaga su Milano questa volta non è un copione già visto, perché l’intero “contesto” è ormai diverso dal passato. C’è una magistratura che s’è indebolita da sola, grazie “ai” Palamara. E mentre si discute in pubblico dei traffici e delle carriere sponsorizzate dai politici, nei ministeri si discute, più seriamente di un tempo, su quale possa essere la riforma della giustizia: una riforma che passa per la magistratura, e che appare sempre più necessaria al Paese. I Pm hanno un potere enorme, no alle porte girevoli di Riccardo Polidoro Il Riformista, 11 giugno 2021 Il dibattito sulle “porte girevoli” ritorna sistematicamente sui media ogni volta che un magistrato decide di sospendere momentaneamente la sua funzione per dedicarsi alla politica. Se ne parla e se ne scrive a Napoli da tempo per la candidatura di Catello Maresca, la discesa in campo del quale è stata “a rallentatore”, anche se le immagini della “moviola” lasciavano pochi dubbi. Da pochi giorni la sua candidatura è stata ufficializzata e, dopo alcune interviste, si è riacceso lo scontro tra i favorevoli e i contrari alle “sliding doors”. Del resto l’aspirante sindaco di Napoli è stato chiaro: dopo la parentesi politica tornerà in magistratura, chiederà il trasferimento a Palermo e catturerà Matteo Messina Denaro, uno dei latitanti più ricercati e pericolosi al mondo. Sull’elezione o meno del magistrato - che ama definirsi “civico” per prendere le distanze dagli stessi partiti della coalizione di centrodestra che dovrebbe sostenerlo, lontananza che sarà irrimediabilmente azzerata in caso di vittoria - sarebbe interessante sentire il parere della Direzione nazionale antimafia e dello stesso procuratore di Palermo: se Maresca verrà eletto dovranno aspettare mentre, in caso di sconfitta del collega candidato sindaco, il loro obiettivo primario sarà finalmente raggiunto. Nell’interesse del Paese sarebbe meglio catturare il latitante che da circa trent’anni è inafferrabile. Sarebbe un grande risultato, ben più importante di un altro pm alla guida della capitale del Mezzogiorno. Inoltre Maresca continuerebbe a fare il suo lavoro, senza cimentarsi in una nuova esperienza piena d’incognite per lui e per la città e potrà non dismettere la toga, quella che ama definire la sua “seconda pelle”. Ed è questo il punto! Perché spogliarsi? Quella del magistrato è un’attività unica al mondo, perché dev’essere dotata di un equilibrio particolare e di totale serenità, in quanto decide della vita delle persone. Può, con le indagini, interferire nei rapporti privati. Può stravolgere percorsi economici e sentimentali. Può privare della libertà e confiscare patrimoni. Un potere immenso, a fronte del quale viene chiesta - come è logico che sia - una trasparenza totale, una certezza nell’affidarsi, rapporti con terze persone cristallini, senza che neppure un minimo dubbio possa esserci sul giudizio che andrà a rendere o nell’attività investigativa da compiere. Tutto questo la politica non potrà mai assicurarlo perché, per sua natura, è fatta di molteplicità di rapporti, di compromessi e di richieste. Ma il magistrato che vogliamo è quello che non deve chiedere mai. Letta scopre lo scandalo dei magistrati candidati di Domenico Cirillo Il Manifesto, 11 giugno 2021 Amministrative. Il segretario del Pd contro la scelta del centrodestra di Maresca a Napoli e Matone (come vice) a Roma: “Hanno accesso a dati sensibili della terra dove si candidano”. Ma il sostituto pg napoletano, in aspettativa da pochi giorni, è praticamente in campagna elettorale dal 2020 e neanche il Csm è riuscito a intervenire “Il centrodestra è molto attento alla giustizia”, dice Enrico Letta e il suo è un attacco: “Hanno candidato due magistrati, a Napoli come sindaco e come vicesindaco a Roma, peccato che siano in funzione nel posto dove si candideranno”. Ora che è ufficiale, il Pd si accorge del problema Catello Maresca, sostituto procuratore generale a Napoli in campagna elettorale praticamente da sette mesi che però solo qualche settimana fa ha chiesto al Csm di poter andare in aspettativa in vista dell’accettazione della candidatura. Del suo caso si era anche occupato il Csm, su segnalazione proprio del procuratore generale di Napoli Luigi Riello. Il Consiglio superiore aveva però concluso - con una votazione a stretta maggioranza - che nessun intervento era necessario, perché la legge non esclude la possibilità che un magistrato in servizio si candidi alla guida del comune nella città dove esercita com’è anche il caso più recente di Simonetta Matone, anche lei sostituta procuratrice generale ma a Roma città dove per il centrodestra correrà come vicesindaca in quota Salvini. Ieri la magistrata ha confermato di aver presentato richiesta al Csm per andare anche lei in aspettativa. Letta definisce “un errore” la candidatura dei magistrati in servizio anche se riconosce che “la legge italiana non lo impedisce”. Ed è “un buco”, sostiene. Anche perché Maresca e Matone “hanno preso decisioni delicatissime e hanno accesso a dati sensibili della terra dove si candidano”. La legge attuale in effetti non impedisce questo comportamento, limitandosi a prevedere che la toga dovrà essere in aspettativa nel momento in cui firmerà la candidatura, quindi anche solo un mese prima del voto amministrativo che nelle città sarà tra il 15 settembre e il 15 ottobre. Sia il Csm, però, che l’Associazione nazionale magistrati (dalla quale Maresca si è dimesso) negli anni hanno raccomandato alle toghe di evitare di candidarsi alla guida delle città dove esercitano. E sul punto in generale dei magistrati in politica - e in particolare dei magistrati che vogliono candidarsi a sindaco nelle città medio grandi - interviene il disegno di legge delega su Csm e ordinamento giudiziario all’esame della camera. Una delle “riforme della giustizia” sotto i riflettori. Che introduce il divieto ai magistrati di candidarsi a sindaci se non hanno cambiato sede da almeno due anni. A Letta hanno replicato sia Meloni - “e non se ne è accorto quando si è candidato Emiliano o de Magistris o Ingroia? È il classico due pesi e due misure della sinistra” - che Salvini - “è curioso che il Pd abbia riempito di magistrati comuni, regioni e parlamento e quando ci sono due uomini di giustizia che fanno una scelta diversa, apriti cielo”. Mettere in carico a Letta o al Pd Ingroia e De Magistris non è corretto, ma va detto che dei quattro soli magistrati in aspettativa per incarico elettivo, in questo momento, due sono del Pd: Emiliano presidente della regione Puglia e Caterina Chinnici europarlamentare, uno di Italia Viva - Cosimo Ferri deputato - e una di Forza Italia, Giusi Bertolozzi deputata anche lei. Csm, Cascini: “Stop al magistrato che insegue solo la carriera” di Liana Milella La Repubblica, 11 giugno 2021 “Così si blocca anche il potere delle correnti”. L’ex pm di Mafia Capitale e consigliere di Area ai sui colleghi dice: “Sono necessari meno generali e più soldati”. E al costituzionalista Luciani replica: “La toga che si candida non può piu tornare in servizio”. Giuseppe Cascini, lei è stato per anni un pubblico ministero importante a Roma, ha indagato anche su Mafia capitale. È stato una toga “rossa”, di Magistratura democratica, poi ha scelto di lasciarla per Area, corrente riformista di sinistra con cui ha corso per il Csm. Una toga che conta, qui dentro. Ha letto l’intervista di Massimo Luciani su Repubblica? Non è affatto tenero né con voi del Csm, né con le toghe. Come gli risponde? “Certo non è un buon periodo per la magistratura. Però sono convinto che questa fase negativa possa essere l’occasione per l’avvio di un processo riformatore serio e condiviso, e mi sembra che le conclusioni della commissione Luciani possano rappresentare una buona base di partenza. Anche se, secondo me, su alcuni aspetti sarebbe necessario qualche intervento più radicale”. Vorrei partire da una sua analisi su questo Csm, il più discusso della storia, stretto com’è tra un Palamara e un Amara, sempre in credito di autorevolezza. Lei come si sente? Non ha mai avuto voglia di farsi da parte? Oppure ha pensato… ma chi me l’ha fatto fare? “Se avessi previsto tutto questo… sarei rimasto dov’ero. Però, scherzi a parte, al netto delle particolari contingenze, in questa fase sono venuti al pettine alcuni nodi di fondo che riguardano l’organizzazione della magistratura e che trovano la loro origine nelle riforme sciagurate del ministro leghista Roberto Castelli, sulle quali è urgente e ormai indifferibile intervenire. Quindi, alla fine, possiamo dire che, seppure traumatiche, queste vicende possono essere l’occasione per mettere mano a un riordino complessivo dell’assetto della magistratura”. Quindi quando Luciani chiede “un grande rinnovamento culturale” delle toghe per rendere credibili le riforme ha ragione? Perché le riforme camminano con le gambe degli uomini, con la loro spina dorsale diritta…e invece se ne vedono troppe di storte… “Sicuramente c’è bisogno di un rinnovamento culturale, e anche etico, che accompagni un processo riformatore. Il problema è sempre lo stesso però, in quale direzione vanno le riforme, perché quelle fatte nel corso degli anni per ridurre gli spazi di autonomia della magistratura, per indebolire il ruolo costituzionale del Csm, insomma le riforme fatte contro la magistratura, non hanno certo contributo a migliorare la situazione. Per esempio, il carrierismo di cui tutti parlano e che è uno dei mali principali, è sempre esistito, ma è esploso proprio con la riforma Castelli. Le correnti hanno sempre avuto un ruolo forte all’interno del Consiglio, ma è stata la legge elettorale di Castelli fatta contro le correnti che ha dato alle oligarchie interne ai gruppi tutto il potere di decidere i componenti del Csm”. “Il diritto è una missione prima che una professione, e per i magistrati deve esserlo in modo particolare” dice Luciani. E nel dirlo disegna una professione in cui, anche senza regole scritte, dovrebbe valere la dirittura morale. Quella di cui parla sempre Mattarella. Lei la vede intorno a lei, qui dentro e tra i suoi colleghi? “La stragrande maggioranza dei magistrati, per fortuna, è fatta da persone serie, che lavorano, con rigore e senza protagonismi. Purtroppo però, comportamenti di singoli che hanno violato le regole deontologiche, soprattutto se non sanzionati con tempestività e rigore, finiscono per gettare discredito su tutta la categoria”. Sanzioni tempestive? Veramente qui la più rapida è stata solo l’espulsione di Palamara…. “Ma io qui non mi riferisco solo al disciplinare, ma alla nostra capacità complessiva di dare una risposta credibile alla crisi che stiamo attraversando” Voglio dire, dottor Cascini, che ogni legge può essere aggirata, ma esiste poi dentro ciascuno di noi la coscienza di quello che non si deve fare, il senso del reato, per intenderci, ma anche quello del comportamento ai limiti. Per esempio, le pare opportuno che un magistrato come Maresca scenda in lizza per fare il sindaco togliendosi la toga di dosso pochi minuti prima? “Sono convinto che regole di correttezza sul piano deontologico debbano essere rispettate dai magistrati a prescindere dall’esistenza di divieti espressi. L’inopportunità di candidature di giudici nel territorio in cui hanno operato è opinione comune di gran parte della magistratura e non dovrebbe essere necessaria una legge che lo proibisca per evitarlo. Però uno dei difetti del nostro Paese è quello di pensare che si possa fare tutto ciò che non è espressamente vietato anche quando è semplicemente sbagliato e inopportuno”. Quindi Maresca ha sbagliato? “Ha sbagliato il Csm a non intervenire tempestivamente su questa situazione”. Cosa avrebbe dovuto fare? “A gennaio avrebbe dovuto aprire una pratica per verificare la compatibilità delle funzioni di magistrato con una campagna elettorale oggettivamente in atto. L’ha fatto tardivamente a maggio ed è arrivata la richiesta di aspettativa del dottor Maresca”. Luciani riapre le porte girevoli per la toga che si candida. E lei? “Per me devono restare chiuse. Il magistrato che diventa un politico non può più rientrare in magistratura”. La riforma Cartabia conterrà regole molto rigide per il futuro Csm, a partire dalle nomine, per evitare, dice Luciani, che fare carriera diventi “una professione nella professione”. Ma è davvero necessaria una norma anche per questo? “La regola principale in questa materia è scritta nella Costituzione e dice che i magistrati sono tutti uguali e si distinguono solo per funzioni. Purtroppo la riforma Castelli del 2006 ha capovolto questo principio e ha insinuato il germe del carrierismo all’interno della magistratura…”. Ricordo sue autorevoli interviste con Giuseppe D’Avanzo proprio in quel periodo. Lei diceva allora quello che dice oggi. Ma oggi non è arrivato il tempo di ammettere che ai suoi colleghi piace tantissimo fare e pianificare la propria carriera? A qualsiasi costo. Autopromozioni. Raccomandazioni. Sgambetti ai colleghi. “Ribadisco che questo per fortuna riguarda una parte della magistratura. Però non ho problemi a riconoscere che le cose stanno così. E anzi, le dirò di più. La degenerazione del correntismo, l’altro grande male di cui tutti parliamo, è figlia proprio di questo. Perché come in tutti i mercati è la domanda che crea l’offerta. Se ci sono tanti posti disponibili, e tanti aspiranti a quei posti, è facile che l’organizzazione del consenso si sviluppi attraverso la soddisfazione di queste aspettative”. Luciani mette una serie di paletti e regole di trasparenza. Le condivide o saranno anche queste aggirabili? E soprattutto, alla fine, non rischiano di creare delle vittime, nel senso di escludere proprio i più meritevoli. Perché se tra i criteri c’è, per esempio, l’anzianità, certo non vinceranno i più bravi. “Molte delle proposte di Luciani sono condivisibili. Alcune meno. Ma complessivamente io non credo che questo intervento risolva il problema. Non basta cambiare i criteri di nomina, perché se si cercano criteri oggettivi, quali appunto l’anzianità, si rischia di ritornare alla gerontocrazia burocratica del passato. Se si accentua la discrezionalità si rischiano invece le degenerazioni a cui abbiamo assistito. E allora dobbiamo affrontare le cause del fenomeno…”. Non mi faccia la storia della magistratura… “Faccio solo tre proposte molto semplici. Drastica riduzione del numero dei posti semidirettivi. Oggi sono circa mille, uno ogni dieci magistrati. Un’assurdità. Un esercito con tanti generali non vincerà mai una guerra. Mille nomine vogliono dire almeno il triplo di domande e spazi di manovra per il Csm enormi, difficoltà nella valutazione. Tremila concorrenti, una parte dei quali, per vincere, si faranno anche raccomandare. Insomma, se ci sono troppe figurine, aumentano le possibilità di fare scambi”. Bene, vuole tagliare i posti di comando? Ma per quelli che restano? “Intanto saranno solo la metà rispetto a oggi. Ma ecco la seconda proposta, temporaneità vera dell’incarico. Se ne conquisti uno, direttivo o semidirettivo, hai l’obbligo di svolgere l’intero mandato per otto anni, prima dei quali non potrai fare altre domande. E dopo si deve fermare per almeno due anni prima di poter fare altre domande, riassaporando il gusto di essere un giudice semplice. In questo modo il risiko delle nomine a cui spesso assistiamo diventerà molto più difficile”. Questi sono escamotage, ma come si fa a scegliere i migliori? “Terza proposta, affidare a una commissione tecnica una preselezione sulla idoneità dei candidati, anche attraverso prove scritte anonime sulla falsariga di quanto già previsto per l’accesso in Cassazione”. E secondo lei questo serve per evitare che il Csm smetta di essere una sorta di ufficio di collocamento com’è adesso? “Quella che propongo sarebbe una strada che riduce fortemente la pressione sul Consiglio in tema di nomine e che sdrammatizza anche dal punto di vista psicologico il tema della carriera. Ma soprattutto restituisce al Csm il suo ruolo costituzionale e istituzionale sui temi della giustizia, sulla questione morale e suoi diritti”. Ci permetta di essere scettici. Alla luce delle carriere che vanno delineandosi anche oggi. Pensi ai concorrenti per Roma, per Milano, ai procuratori che vogliono passare da un ruolo di vertice all’altro. Tutto questo davvero può finire senza il rischio che il corpaccione della magistratura si rivolti contro chi lo propone? “La maggioranza dei magistrati dovrebbe accogliere con favore un’ipotesi come la mia. Che raccoglie le indicazioni tante volte arrivate dal capo dello Stato. Aggiungo che non solo le riforme non bastano da sole perché c’è bisogno di un rinnovamento etico e culturale, ma bisogna intervenire su tutti i piani. E non è certo un caso che lei, nel fare esempi estremi, citi esclusivamente incarichi di vertice nelle procure. È venuto il tempo di affrontare con decisione il tema della struttura gerarchica delle procure e del ruolo dei procuratori della Repubblica. La politica si è illusa di poter controllare la magistratura inquirente attraverso l’accentramento di tutto il potere in capo al dirigente. L’hotel Champagne è solo il precipitato di questo processo”. Tornando al Csm, che mi dice della legge elettorale? Questo voto singolo trasferibile che propone Luciani la convince? “Premesso che il correntismo non si sconfigge attraverso una legge elettorale, ma solo ripristinando l’uguaglianza di tutti i magistrati ed eliminando ogni forma di carrierismo, comunque un intervento sulla legge elettorale è assolutamente necessario. La soluzione di Luciani a me pare buona, perché garantisce attraverso i collegi territoriali una vicinanza degli elettori agli eletti. Assicura la rappresentanza delle minoranze e la possibilità di candidature non di apparato. Quello che non capisco è perché la proposta Luciani preveda il nuovo sistema solo per l’elezione dei giudici lasciando la vecchia legge per i componenti della Cassazione e del pubblico ministero. L’altro difetto è che non assicura in nessun modo una rappresentanza di genere”. Lei come la cambierebbe? “La quota dei pm va cancellata e vanno eletti assieme ai giudici. Il voto trasferibile va utilizzato anche per la Cassazione. Infine bisogna prevedere che ove siano presenti candidature di genere diverso sia obbligatorio esprimere preferenze alternate”. Per Luciani si può cambiare il Csm a Costituzione invariata. Per questo si ferma di fronte alla possibilità di un rinnovo parziale del Csm ogni due anni. Lei lo ritiene possibile? “A me quell’idea non dispiace e potrebbe essere un buon antidoto a certe prassi degenerative. Anche se ci sono alcuni problemi tecnici da risolvere, il principale dei quali è la fase di avvio, per cui sarebbe necessaria la proroga della gran parte dell’attuale Csm. E invece io francamente non vedo l’ora di tornare a occuparmi di mafia e corruzione…”. Csm, Gratteri: “Contro il correntismo la soluzione è il sorteggio” di Errico Novi Il Dubbio, 11 giugno 2021 Il procuratore di Catanzaro scontenta buona parte dei suoi colleghi, proponendo come soluzione alle degenerazioni del correntismo emerse con clamore con il caso Palamara l’unica che non piace proprio alle toghe. “Sulla giustizia, la madre di tutte le riforme è quella del Csm e bisogna partire da lì: e l’unico modo per limitare le correnti è il sorteggio. È necessario fare pulizia all’interno della magistratura, è vero, ma i magistrati non sono marziani ma uomini, anche loro un prodotto della società: non possiamo credere alla favoletta che i magistrati sono tutti onesti”. Nicola Gratteri scontenta buona parte dei suoi colleghi, proponendo come soluzione alle degenerazioni del correntismo emerse con clamore con il caso Palamara l’unica che non piace proprio alle toghe: il sorteggio. Il procuratore di Catanzaro lo ha detto ieri sera, ospite di Lilli Gruber a “Otto e mezzo” su La7. “La riforma Cartabia? Non mi pare - ha aggiunto - una rivoluzione, non mi pare che si stiano centrando problemi e criticità. Io credo che dovremmo anzitutto ottimizzare risorse e i costi. Perché non è possibile, ad esempio, che a solo 65 chilometri da Palermo ci sia un’altra corte di appello, quella di Caltanissetta. O che ci siano 250 magistrati fuori ruolo. O che in uno stato moderno e serio, al problema di sovraffollamento delle carceri si risponda con indulto e amnistia, anziché costruirne di nuovi. Questi sono i problemi più importanti”. “La prescrizione - ha detto poi Gratteri - deve rimanere così com’è fino a quando non si fanno quelle riforme che servono a velocizzare e digitalizzare i processi e a rendere la pena meno conveniente del delinquere”. E poi una stoccata al governo Draghi: “Di concreto non ho visto ancora nulla se non questa commissione per il Sud che serve a spiegarci le “buone prassi”. Già l’impostazione, l’idea stessa di questa commissione è offensiva. Sia perché sono realtà totalmente diverse, sia perché anche al Sud ci sono procure molto efficienti e ci sono veri e propri modelli di efficienza e tecnologia, come l’aula bunker di Lamezia Terme o la nuova sede della procura di Catanzaro”. I sindaci sono bersaglio di indagini e denunce: è tutto vero ma c’è altro... di Antonio Decaro* Il Dubbio, 11 giugno 2021 Dopo la vicenda della sindaca di Crema indagata per il dito pesto di un bambino, interviene il presidente dell’Anci. In Italia sta avvenendo un fenomeno strano. In tanti comuni, piccoli e grandi, i cittadini, le associazioni, i partiti sono alla disperata ricerca di qualcuno che voglia candidarsi a sindaco. Il candidato sindaco, esemplare un tempo molto diffuso, pare sia a rischio estinzione. Però, se consideriamo gli ultimi fatti di cronaca, come quello che ha riguardato la collega sindaca di Crema Stefania Bonaldi, indagata per un incidente che ha visto coinvolto un bambino in un asilo nido comunale, come potremmo biasimare chi, in questi giorni, rifugge anche dall’idea di una possibile candidatura? Io, però, non voglio arrendermi e, da rappresentante di tutti i sindaci italiani, ho pensato di scrivere ai non-candidati. So bene il perché non volete candidarvi. Non volete farlo perché qualsiasi cosa accada nel vostro Comune sarà vostra responsabilità. Ogni volta che proverete a pedonalizzare anche solo un isolato stradale, vi troverete a lottare contro la burocrazia dell’adempimento formale che vi farà perdere tempo, pazienza e buon umore. Non volete candidarvi perché vi hanno detto che ogni firma che metterete in calce a un provvedimento è un potenziale avviso di garanzia per il reato di abuso, così come le firme non messe potrebbero avere lo stesso effetto per il reato di omissione. E si sa, un avviso di garanzia, con la conseguente gogna mediatica, fa perdere la serenità per mesi, spesso anni.Non volete candidarvi perché vi hanno detto che per i cittadini se un ospedale non funziona, se aumentano gli scippi, se la gente getta i rifiuti per strada, se piove, se fa troppo caldo, se la squadra cittadina retrocede è sempre e solo colpa del sindaco. Bene, tutto quello che vi hanno detto è vero. Tragicamente vero. Ma io che faccio il sindaco della mia città da sette anni posso dirvi che a questo racconto a senso unico, manca qualcosa. Qualcosa che non è scritto nel testo unico sugli enti locali, né nei i trattati di politica o di pubblica amministrazione. Manca quello che si prova indossando la fascia tricolore. Quello che si prova quando un bambino, durante la recita di Natale, si avvicinerà per chiedervi di parlare con Babbo Natale per avere una giostrina nel parco sotto casa sua, quando una ragazza si rifugerà nell’ufficio del sindaco per chiedergli di intercedere con i suoi genitori che l’hanno allontanata perché lei ama una donna. Quello che si prova guardando occhi e bocche spalancate dei cittadini nell’ammirare stupiti un teatro restaurato o un museo recuperato. In quei momenti l’orgoglio di indossare quella fascia può farti fare di tutto, anche improvvisarti guida turistica, come ho visto fare una volta al sindaco di Rimini, Andrea Gnassi. Fare il sindaco può farti vivere un’emozione grandissima come quella che ha provato il collega Marco Bucci quando ha inaugurato il nuovo ponte dimostrando che questo Paese è capace di rialzarsi anche dopo una immane tragedia.È quello che si prova quando si fa la cosa più bella del mondo: cambiare in meglio la vita dei cittadini. Nessuno più del sindaco può farlo. Non c’è nulla che dia più soddisfazione. Cara non candidata, caro non candidato, ripensaci. Candidati a fare il mestiere più bello del mondo. E se ti stai chiedendo: “Ma ne vale la pena?”, la risposta è sempre la stessa. Sì, ne vale la pena. Ne vale la pena sempre, perché questo è il nostro Paese, è l’Italia in cui siamo nati e siamo cresciuti, è l’Italia che ha bisogno dei sindaci, è l’Italia che troppe volte si appoggia su di noi e poche volte ci ringrazia, è l’Italia che però noi non possiamo mollare. “Dei remi facemmo ali al folle volo”, così Dante scriveva di Ulisse che incitava i suoi alla conquista del mondo sconosciuto. Questa frase spesso mi ha accompagnato nelle mie scelte. Perché ogni giorno forte è la convinzione che la fatica di remare, contro le difficoltà quotidiane, può trasformarsi nella gioia di volare e di raggiungere un nuovo traguardo, piccolo o grande che sia. Per gli occhi di quel bambino della recita di Natale e per il sorriso di quel nonno in smoking all’inaugurazione del teatro comunale. Ne vale la pena. Sì. In Italia sta avvenendo un fenomeno strano. In tanti comuni, piccoli e grandi, i cittadini, le associazioni, i partiti sono alla disperata ricerca di qualcuno che voglia candidarsi a sindaco. Il candidato sindaco, esemplare un tempo molto diffuso, pare sia a rischio estinzione. Però, se consideriamo gli ultimi fatti di cronaca, come quello che ha riguardato la collega sindaca di Crema Stefania Bonaldi, indagata per un incidente che ha visto coinvolto un bambino in un asilo nido comunale, come potremmo biasimare chi, in questi giorni, rifugge anche dall’idea di una possibile candidatura? Io, però, non voglio arrendermi e, da rappresentante di tutti i sindaci italiani, ho pensato di scrivere ai non-candidati. So bene il perché non volete candidarvi. Non volete farlo perché qualsiasi cosa accada nel vostro Comune sarà vostra responsabilità. Ogni volta che proverete a pedonalizzare anche solo un isolato stradale, vi troverete a lottare contro la burocrazia dell’adempimento formale che vi farà perdere tempo, pazienza e buon umore. Non volete candidarvi perché vi hanno detto che ogni firma che metterete in calce a un provvedimento è un potenziale avviso di garanzia per il reato di abuso, così come le firme non messe potrebbero avere lo stesso effetto per il reato di omissione. E si sa, un avviso di garanzia, con la conseguente gogna mediatica, fa perdere la serenità per mesi, spesso anni. Non volete candidarvi perché vi hanno detto che per i cittadini se un ospedale non funziona, se aumentano gli scippi, se la gente getta i rifiuti per strada, se piove, se fa troppo caldo, se la squadra cittadina retrocede è sempre e solo colpa del sindaco. Bene, tutto quello che vi hanno detto è vero. Tragicamente vero. Ma io che faccio il sindaco della mia città da sette anni posso dirvi che a questo racconto a senso unico, manca qualcosa. Qualcosa che non è scritto nel testo unico sugli enti locali, né nei i trattati di politica o di pubblica amministrazione. Manca quello che si prova indossando la fascia tricolore. Quello che si prova quando un bambino, durante la recita di Natale, si avvicinerà per chiedervi di parlare con Babbo Natale per avere una giostrina nel parco sotto casa sua, quando una ragazza si rifugerà nell’ufficio del sindaco per chiedergli di intercedere con i suoi genitori che l’hanno allontanata perché lei ama una donna. Quello che si prova guardando occhi e bocche spalancate dei cittadini nell’ammirare stupiti un teatro restaurato o un museo recuperato. In quei momenti l’orgoglio di indossare quella fascia può farti fare di tutto, anche improvvisarti guida turistica, come ho visto fare una volta al sindaco di Rimini, Andrea Gnassi. Fare il sindaco può farti vivere un’emozione grandissima come quella che ha provato il collega Marco Bucci quando ha inaugurato il nuovo ponte dimostrando che questo Paese è capace di rialzarsi anche dopo una immane tragedia. È quello che si prova quando si fa la cosa più bella del mondo: cambiare in meglio la vita dei cittadini. Nessuno più del sindaco può farlo. Non c’è nulla che dia più soddisfazione. Cara non candidata, caro non candidato, ripensaci. Candidati a fare il mestiere più bello del mondo. E se ti stai chiedendo: “Ma ne vale la pena?”, la risposta è sempre la stessa. Sì, ne vale la pena. Ne vale la pena sempre, perché questo è il nostro Paese, è l’Italia in cui siamo nati e siamo cresciuti, è l’Italia che ha bisogno dei sindaci, è l’Italia che troppe volte si appoggia su di noi e poche volte ci ringrazia, è l’Italia che però noi non possiamo mollare. “Dei remi facemmo ali al folle volo”, così Dante scriveva di Ulisse che incitava i suoi alla conquista del mondo sconosciuto. Questa frase spesso mi ha accompagnato nelle mie scelte. Perché ogni giorno forte è la convinzione che la fatica di remare, contro le difficoltà quotidiane, può trasformarsi nella gioia di volare e di raggiungere un nuovo traguardo, piccolo o grande che sia. Per gli occhi di quel bambino della recita di Natale e per il sorriso di quel nonno in smoking all’inaugurazione del teatro comunale. Ne vale la pena. Sì. *Presidente ANCI Cybersecurity, sei mesi fa il piano dell’ex premier bloccato. Ma Draghi ha preparato il terreno di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 11 giugno 2021 Per Palazzo Chigi è necessario mettere in sicurezza le riforme del Recovery plan. Con un Consiglio dei ministri pressoché indolore, Palazzo Chigi ha dato il via libera al decreto legge che riforma la governance della cybersicurezza. Appena sei mesi fa ci aveva provato Giuseppe Conte, ma era stato bombardato dalla sua stessa maggioranza. Il Pd era contrario, Luigi di Maio nutriva forti riserve, Carlo Calenda accusava il premier di “giocare allo 007” in piena emergenza Covid e Matteo Renzi invocava lo stralcio della norma spuntata a sorpresa nella manovra economica. Una bufera dentro il perimetro della maggioranza, che costrinse il giurista a rinunciare ai suoi piani. Nulla del genere è successo sul testo di riforma che mette l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale sotto il controllo di Mario Draghi e dell’autorità delegata, Franco Gabrielli. Intanto perché l’Acn sarà pubblica e non privata, come invece sarebbe stata la fondazione di Conte: una struttura che secondo i critici avrebbe invaso i campi della cyberintelligence, sottraendo poteri e funzioni di competenza dei servizi segreti, il Dis e le agenzie Aise e Aisi. Il controllo della fondazione di diritto privato immaginata dall’ex premier sarebbe andato a Gennaro Vecchione, il prefetto che guidava il Dis finché Draghi non ha deciso di sostituirlo con Elisabetta Belloni. Lo schema ora è completamente rovesciato, come d’altronde è anche lo scenario politico. La nuova agenzia è una personalità giuridica di diritto pubblico che non invade il campo della cyberintelligence e non sottrae competenze al ministero dell’Interno o a quello della Difesa. Prova ne sia il fatto che Luciana Lamorgese e Lorenzo Guerini, contrariamente all’era Conte, non hanno sollevato obiezioni riguardo alla nascita di una struttura che sarà una sorta di ministero per la cybersicurezza nazionale. Mercoledì sera, durante la cabina di regia politica a Palazzo Chigi, i partiti si sono detti sostanzialmente d’accordo. Giancarlo Giorgetti era assente per questioni di agenda e non certo, assicurano i suoi, perché il Mise (come altri ministeri) dovrà cedere qualche competenza alla neonata agenzia. Il ministro leghista dello Sviluppo sarebbe “sostanzialmente indifferente” al decreto e un atteggiamento simile avrebbero mostrato i 5 Stelle di rito contiano. L’unica questione sollevata dai partiti riguarda l’arruolamento di 300 tecnici, che entro il 2027 potrebbero diventare 800, molti dei quali altamente qualificati. Stefano Patuanelli durante il Consiglio dei ministri ha voluto sapere come verranno reclutati e dubbi analoghi ha sollevato Renato Brunetta. Se in Cdm è filato (quasi) tutto liscio, è anche perché lo staff di Draghi aveva lavorato al dossier per settimane, preparando il terreno con le forze politiche e con il Copasir. Il resto lo ha fatto l’interlocuzione, tecnica e politica, con il Quirinale, vista anche l’attenzione del presidente Sergio Mattarella al rischio di attacchi informatici da parte di Stati o gruppi criminali. Preoccupazioni che il presidente del Consiglio condivide, tanto da esternare con il suo staff la soddisfazione per la svolta: una riforma che l’ex presidente della Bce giudica “fondamentale”, perché aumenta la resilienza cybernetica del Paese e “protegge” le riforme del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). L’Acn sarà un centro nevralgico di raccordo con Bruxelles, per la messa in sicurezza degli investimenti pubblici e privati connessi con il Recovery. Per dirla con il dem Enrico Borghi, membro del Copasir, “adesso l’Italia ha le carte in regola, in un momento in cui la rivoluzione tecnologica impone un salto di qualità”. Non è un caso allora che Mario Draghi abbia voluto il via libera della sua squadra alla vigilia del G7 che sia apre oggi in Cornovaglia, nel Regno Unito. Anche grazie a questa riforma, il capo dell’esecutivo di unità nazionale può mostrare ai vertici della Ue che le infrastrutture che nasceranno con i miliardi del Recovery saranno messe in sicurezza. Il tema della difesa cibernetica delle infrastrutture sensibili sarà di certo toccato anche domani, quando a margine del G7 il capo del governo italiano avrà il suo primo incontro bilaterale con il presidente americano Joe Biden. Fino ad oggi l’Italia in questo campo si è solo difesa. La scelta del direttore della nuova agenzia spetta al presidente del Consiglio, che ogni anno, dopo aver consultato il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, dovrà redigere la strategia nazionale della sicurezza cyber. In corsa per la direzione dell’Agenzia c’è Roberto Baldoni, il professore di ingegneria informatica e vicedirettore generale del Dis, con delega alla cybersecurity, che ha lavorato al testo del decreto come già alla riforma mancata di Conte. Ma tra i ministri gira anche il nome di Nunzia Ciardi, che proprio Gabrielli scelse per guidare la Polizia Postale. La sola detenzione di armi giocattolo senza tappo rosso di chi incita all’odio razziale non è reato di Simona Gatti Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2021 La norma incrimina espressamente il porto senza giustificato motivo, fuori dalla propria abitazione, di strumenti in metallo riproducenti armi senza occlusione della canna. La semplice detenzione di armi giocattolo senza tappo rosso non costituisce reato. Pertanto, secondo la Cassazione sentenza n. 23091 del 10 giugno, se sono state sequestrate a un soggetto che incitava all’odio razziale attraverso facebook vanno restituite. La vicenda - Durante una perquisizione disposta dal pubblico ministero nell’abitazione dell’imputato indagato per il delitto previsto dall’articolo 604-bis del codice penale, oltre al sequestro di vari cellulari, tablet e hard disk erano state trovate e trattenute molte armi (tirapugni, scacciacani, coltelli) conservate dentro una vetrina del soggiorno. In seguito alla mancata convalida del Pm sul sequestro delle armi, il tribunale di primo grado aveva disposto la loro restituzione con esclusione però di quelle riproducenti pistole prive di tappo rosso, perché soggette a confisca essendone vietata la fabbricazione e il porto non autorizzati. La decisione della Suprema corte - Secondo i supremi giudici trattandosi solo di possesso gli oggetti vanno riconsegnati al legittimo proprietario. La norma infatti (legge 110 del 1975) incrimina espressamente il porto senza giustificato motivo fuori dalla propria abitazione di strumenti in metallo riproducenti armi (cosiddette pistole giocattolo) oppure strumenti di segnalazione acustica che esplodono cartucce a salve (pistole scacciacani) mancanti del tappo rosso occlusivo della canna. In questo caso dunque, visto che le finte armi si trovavano in casa, in un luogo visibile ma chiuso, non può scattare una contravvenzione che giustifichi il loro trattenimento. Umbria. Carceri e organici: arrivano i rinforzi La Nazione, 11 giugno 2021 Perugia “Da tempo lamentavamo una pericolosa carenza di organico nei nostri Penitenziari tra cui quelli di Perugia, Orvieto, Terni e Spoleto, non solo in relazione alla pianta organica ma soprattutto in previsione dei prossimi pensionamenti. Il Governo ci ha dato ragione, cambiando parere sull’Odg di Fratelli d’Italia al Dl Riaperture che prevede un ampliamento e nuove assunzioni per l’organico della polizia penitenziaria. Corpo che lavora tra mille difficoltà e che spesso subisce vessazioni anche all’interno degli stessi istituti penitenziari. Ora però il governo provveda con speditezza alle nuove assunzioni coprendo le carenze nelle carceri umbre, anche utilizzando le graduatorie esistenti”. Così i Parlamentari umbri di FDI, Franco Zaffini e Emanuele Prisco. Vercelli. Un alloggio per detenuti in permesso premio di Francesca Siciliano lasesia.it, 11 giugno 2021 Un’occasione per avviare un percorso di reinserimento sociale. Un alloggio, in comodato d’uso all’associazione Argilla, per accogliere i detenuti in permesso premio. È un progetto del Tavolo carcere e della casa circondariale di Billiemme a cui ha aderito il Comune. Sarà un’occasione per avviare un percorso di reinserimento sociale. La casa è a disposizione per il tempo del permesso premio concesso dal giudice: che varia, ma generalmente va dai 2 ai 4-5 giorni. Mercoledì 9 giugno è stato presentato il progetto, denominato “Casa permessi premio”, nella sede di Argilla all’Oasi delle rose, in via America. “Io ho saputo della necessità di un luogo dove far incontrare i detenuti in permesso premio, che non hanno i famigliari residenti nelle vicinanze, quando c’era ancora Andrea Raineri - ha spiegato Alessandra Pitaro, dirigente del settore Politiche sociali del Comune - Io all’epoca ero ancora funzionario e lui era venuto a parlarmi subito di questa necessità: ci eravamo attivati per cercare un luogo adatto tra quelli a disposizione delle Politiche sociali. Lo abbiamo individuato e provveduto a tutte le operazioni di ristrutturazione. L’alloggio era nuovo quando lo abbiamo consegnato: è stato sistemato appositamente per questa necessità. La volontà del Comune e anche dell’attuale Amministrazione è quello di collaborare e dare suo supporto nell’ambito delle esigenze che nascono nel Tavolo carcere. A fine febbraio la giunta comunale ha approvato il progetto - ha proseguito Pitaro - Ora con Argilla ci stiamo aiutando a vicenda per poter risolvere i problemi collegati alle utenze che sono in fase di evoluzione, ma da luglio l’alloggio sarà completamente utilizzabile”. “Sono stati fatti dei lavori importanti - ha evidenziato Manuel Mellace presidente di Argilla - è tutto nuovo ed è un bell’appartamento”. Argilla si occuperà della gestione e dell’organizzazione dell’attività insieme alle associazioni del Tavolo carcere: “I tavoli sono organismi complessi - ha sottolineato Sara Ghirardi del Centro territoriale per il volontariato, che facilita il tavolo - L’essere tanti e diversi garantisce la sostenibilità nel tempo dei progetti. C’è una rete garantita e che consente di andare avanti promuovendo sia le attività all’interno del carcere che quelle esterne di sensibilizzazione”. I volontari di Argilla e del Tavolo carcere avranno un ruolo importante: “Il passo successivo - ha aggiunto Valeria Climaco responsabile dell’area educativa della casa circondariale - potrà essere quello di prevedere un permesso premio accompagnato da alcune figure di volontariato che sia anche diurno. Laddove c’è un volontario o più che si offrono per far trascorrere alla persona qualche ora all’esterno del carcere se ne potrà parlare - ha proseguito Climaco - I volontari inoltre hanno fatto un corso di formazione; infatti il permesso premio non è uno spazio di libertà totale, ma è perimetrato da alcune norme che il magistrato prescrive”. All’incontro erano presenti il gruppo di lavoro, i rappresentanti delle varie associazioni e della casa circondariale. Camerino (Mc). Carcere, il Dap chiama il sindaco: non chiusura, ma una nuova sede cronachemaceratesi.it, 11 giugno 2021 Il primo cittadino ha incontrato Claudio Rastrelli e il presidente dell’Ordine degli avvocati: “Entrambi ritengono sia fondamentale mantenere la struttura”. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha chiarito la situazione. Carcere di Camerino, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) chiarisce al sindaco Sandro Sborgia che l’intenzione non è quella di chiudere il carcere, ma di non riaprirlo nella struttura che lo ospitava prima del sisma e di trovare una nuova sede. A dirlo è lo stesso Sborgia che questa mattina è stato a Macerata dove ha incontrato il procuratore facente funzioni, Claudio Rastrelli e il presidente dell’Ordine degli avvocati, Maria Cristina Ottavianoni dopo la lettera arrivata ieri dal dipartimento in cui si esponeva l’intenzione di chiudere il carcere. “L’estensore della missiva mi ha chiamato - dice Sborgia - e ha precisato che quando parlava di soppressione intendeva che c’è la necessità di individuare un’altra sede, perché quella che lo ospitava prima del terremoto non garantirebbe situazioni sicure. Il carcere rientra nelle opere della ricostruzione e il comitato per l’edilizia penitenziaria si era già espresso favorevolmente a una nuova struttura, il modello di cui si parla è un nuovo carcere da cento posti a basso impatto di vigilanza”. Il sindaco comunque questa mattina ha incontrato procuratore e presidente dell’Ordine degli avvocati e entrambi “si sono detti d’accordo che è fondamentale mantenere il carcere, che è l’unico in provincia”. Il carcere di Camerino al momento è chiuso perché il palazzo del ‘400 che lo ospitava è rimasto danneggiato dal terremoto. Ora l’obiettivo è arrivare alla costruzione di una nuova struttura. Gorizia. Inaugurato l’ambulatorio dentistico nel carcere. Stop ai disagi in ospedale di Stefano Bizzi Il Piccolo, 11 giugno 2021 La nuova struttura eviterà il trasferimento dei detenuti al San Giovanni di Dio. A regime sarà operativo settimanalmente. Rimane aperto il nodo della ex Pitteri. È un piccolo miracolo: l’ambulatorio di odontostomatologia inaugurato il 10 giugno nel carcere di Gorizia è un piccolo miracolo perché, nonostante la pandemia e, più in particolare, la burocrazia italiana, la struttura è stata realizzata in tempi da record e permetterà di evitare disagi agli utenti dell’ospedale di Gorizia. Fino ad ora, in caso di necessità, i detenuti venivano accompagnati dagli agenti di polizia penitenziaria da via Barzellini al San Giovanni di Dio dove sparigliavano le carte perché le loro visite venivano considerate come urgenze e avevano la precedenza su tutto e su tutti. Questo, oltre a comportare ritardi nelle prestazioni programmate nella giornata e creare malumori tra i pazienti in attesa, aveva costi importanti perché prevedeva spese di trasferta del personale penitenziario, ma impattava anche psicologicamente sugli utenti più fragili dell’ospedale, che si trovavano di fronte a persone ammanettate e scortate. A meno di casi particolari, da ieri tutto questo sarà solo un lontano ricordo per tutti. I lavori per il nuovo ambulatorio sono iniziati nel 2019 e si sono conclusi lo scorso anno, quando ne è stato completato l’allestimento funzionale con attrezzature e dispositivi di moderna concezione. Nella più ampia ristrutturazione del carcere, a individuare i locali più idonei è stato il direttore della casa circondariale Alberto Quagliotto. L’inaugurazione di questa mattina conclude un iter di alcuni anni e s’inserisce nel più ampio progetto regionale dell’odontoiatria pubblica coordinato da Roberto Di Lenarda, direttore della Struttura complessa di Chirurgia maxillo-facciale e odontostomatologia di Asugi oltre che rettore dell’Università di Trieste. La nuova struttura, inaugurata alla presenza del direttore generale di Asugi Antonio Poggiana e del sindaco di Gorizia Rodolfo Ziberna, farà funzionalmente parte dell’Odontostomatologia di Gorizia allo stesso modo del nuovo ambulatorio di Monfalcone. Tra acquisto degli strumenti e allestimento degli ambienti, l’investimento complessivo è stato di circa 90 mila euro. In una prima fase l’ambulatorio sarà operativo un paio di volte al mese, ma a regime l’attività medica avrà cadenza settimanale. Tutto dipenderà dal personale a disposizione della clinica odontostomatologia di Gorizia. “Noi abbiamo un’agenda fitta, ma per tutta una serie di motivi i detenuti avevano la precedenza - spiega Daniele Angerame, direttore della Sosd di Odontostomatologia di Gorizia -. Un ambulatorio interno al carcere quindi era necessario. Inoltre, sposa le linee politiche della regione”. “Si tratta di un investimento che porta vantaggi per tutti”, ha puntualizzato Di Lenarda, evidenziando come la collaborazione tra tutti gli attori in campo sia stata stretta. “Questo ambulatorio segna un salto di qualità nell’assistenza sanitaria ai detenuti - ha aggiunto il direttore Quagliotto. Da un punto di vista edilizio e logistico la struttura di Gorizia ha subito una svolta: solo 4/5 anni fa era fatiscente. È stata rivoltata come un calzino e ora ha celle a norma e servizi adeguati”. Il sindaco Ziberna ha fatto invece il punto sulla cessione della ex scuola Pitteri: “Ne stiamo sollecitando il passaggio perché il carcere ha bisogno di spazi. Il Comune voleva darla gratuitamente allo Stato ma non può farlo. Questo passaggio poteva essere fatto già 2 anni fa”. Infine, il direttore di Asugi Poggiana ha evidenziato: “Con il nuovo ambulatorio “vengono date risposte anche ai bisogni di una popolazione che spesso dimentichiamo”. Castrovillari (Cs). Attraverso l’arte, ritrovare se stesse. Il progetto sociale nel carcere di Paola Chiodi ecodellojonio.it, 11 giugno 2021 Il laboratorio “A casa, ritorno a sè” ed un viaggio attraverso cui le detenute del carcere potranno riscoprirsi e reinserisi nella società, grazie all’intervento delle arti sceniche. Si chiama “A casa, ritorno a sè” ed è il progetto curato dell’associazione Con i miei occhi insieme alla Casa circondariale “Rosetta Sisca” di Castrovillari dedicato alle detenute. Il laboratorio è stato presentato in conferenza stampa nella sala conferenze del carcere di Castrovillari, insieme al direttore del penitenziario, Giuseppe Carrà, l’associazione promotrice e il centro Women’s Studies dell’Università della Calabria. Si tratta di un laboratorio di arti sceniche, finanziato dall’8Xmille della Chiesa Valdese, che si pone lo scopo di ravvivare la creatività delle donne detenute nel carcere di Castrovillari e di stimolarle nella loro femminilità. Un progetto di sperimentazione sociale ed artistica che attraverso l’arte permette alle donne di riscoprire sé stesse e di esprimersi senza condizionamenti. “Questo progetto, partendo dalle detenute, le porta a rivivere - ha detto il direttore Giuseppe Carrà - Iniziando da se stesse, potranno riprendere in mano la propria vita attraverso l’arte per un migliore reinserimento sociale una volta terminata la pena”. Il libro denuncia di Baz Dreisinger sulle carceri nel mondo di Debora Attanasio marieclaire.com, 11 giugno 2021 Incontro con la giornalista del New York Times che svela con un libro la realtà nascosta e surreale dei detenuti. La prigione, il carcere, una dimensione temuta che per fortuna la maggior parte delle persone su questo pianeta non sperimenterà mai, e che coloro che ci sono dentro sperimentano in mille versioni territoriali. L’incubo di finirci senza motivo, per sbaglio, che almeno una volta nella vita assale tutti. Attualmente uno dei pochi riferimenti pop che abbiamo sulla vita in prigione, romanzato e comunque testimonianza di un carcere di minima sicurezza, è una serie come Orange Is The New Black, e anche per questo quando si parla di tutela dei diritti civili diventa difficile immedesimarsi in realtà parallele come quella che in questi mesi stanno vivendo detenuti famosi (e spesso innocenti) come l’avvocata Nasrin Sotoudeh in Iran. Baz Dreisinger è una giornalista criminologa fondatrice di Prison-To-College Pipeline, il programma di istruzione di alto livello all’interno degli istituti carcerari che ha riabilitato migliaia di detenuti, in base al principio per cui una più bassa scolarizzazione pone a rischio maggiore di affiliarsi alla criminalità. Dreisinger scrive articoli per il New York Times, Wall Street Journal, Forbes, Los Angeles Times. Per quest’ultimo ha realizzato una storia di copertina sull’hip-hop e il sistema carcerario e la storia di una star del reggae in prigione in Giamaica. È professoressa, critica culturale, attivista e organizzatrice di comunità, ed è spesso in Italia dove l’abbiamo incontrata per parlare del suo ultimo libro Incarcerazioni di massa, (titolo originale: Incarceration Nations: A Journey to Justice in Prisons Around the World), tradotto e pubblicato da Mimeis/Eterotopie. In questo potente saggio, Baz Dreisinger racconta la sua odissea fra le carceri di tutto il mondo partendo dall’Africa fino all’Europa dove ha incontrato donne e uomini che le hanno permesso, con le loro testimonianze, di fotografare da un intenso e scioccante punto di vista un mondo di cui di solito è negato l’accesso agli “altri”. “Sono cresciuta nel Bronx, a New York, negli anni 80 e 90”, spiega Baz Dreisinger, “figlia della generazione hip-hip e amante della musica e delle comunità caraibiche, da cui sono stata plasmata. Il mio lavoro nelle carceri è una somma di tutte queste cose. Ho prodotto due documentari sull’argomento e ricevo costantemente lettere da detenuti che mi invitano per proiettare nelle carceri i miei documentari e parlare del mio lavoro”. Tutto era iniziato quando Dreisinger aveva un amico in prigione e insegnava al John Jay College of Criminal Justice a New York City. L’aria intorno a lei odorava solo di prigione, ed è diventata la sua vita. “Dopo le prime proiezioni e discussioni nelle carceri, ho iniziato a fare volontariato come educatrice in quei luoghi, quasi 18 anni fa. Mi sono resa conto subito che la risposta della società americana al crimine si riduce all’immagazzinare letteralmente esseri umani frutto del razzismo sistemico e della disuguaglianza, anche quelli più brillanti. Mi è sembrato disumano, dolorosamente ingiusto e sorprendentemente stupido, e ho capito che le prigioni ci rendono solo meno sicuri”. Mentre lavorava nelle carceri statunitensi, prima come volontaria e poi come fondatrice di Prison-to-College Pipeline, al John Jay College of Criminal Justice, Baz Dreisinger viaggiava per il mondo per scrivere articoli di viaggi. “Viaggiando, ho notato che mentre l’opinione pubblica negli Stati Uniti stava iniziando a prestare attenzione alla crisi dell’incarcerazione di massa, il resto del mondo si rifiutava di affrontare il problema”, racconta. “Ho iniziato a scrivere sulle prigioni e anche sulla responsabilità degli Stati Uniti nell’averne forgiato i modelli di riferimento globale”. E così che la giornalista ha cominciato a buttare giù le prime tracce di Incarcerazioni di massa. “Volevo scrivere un libro che ci facesse fermare e ripensare lo scopo stesso delle carceri, a riflettere sulla logica - o, dovrei dire, illogica - di esse. Ho combinato i due concetti, ho viaggiato in nove paesi in tutto il mondo e ho trascorso molto tempo a interagire con i loro sistemi carcerari, di solito come volontaria di qualche ONG locale. Ogni capitolo si concentra su un concetto particolare che volevo che ripensassimo: vendetta e danno, prigioni e capitalismo, prigione e arte, e poi ancora donne e incarcerazione e altro ancora”. Incontrando persone in carcere in qualsiasi parte del mondo Dreisinger pone subito l’attenzione su un fattore comune a tutti i detenuti: “la quasi insondabile resilienza e volontà di sopravvivere nonostante le loro condizioni infernali. Mi colpisce, quando raccontano le loro storie, quanti di loro siano puramente prodotti del loro ambiente: provengono da comunità trascurate dai governi, da condizioni di disuguaglianza strutturale e spesso anche di razzismo. Non hanno necessariamente scelto il crimine: a causa di queste circostanze è il crimine ad aver scelto loro. Per questo non mi piace la parola ‘riabilitazionè; implica che le persone abbiano bisogno di essere riabilitate, ma in realtà non sono mai state ‘abilitatè in primo luogo perché non sono state date loro reali opportunità di lavoro e di istruzione. Parliamo solo di correggere le persone, ma in realtà abbiamo bisogno di correggere una società che produce persone che ricorrono al crimine, la società che consente l’esistenza di disuguaglianza e discriminazioni. Ho visto questa realtà ancora dagli Stati Uniti all’Africa, all’Australia, all’Europa e all’Asia”. Il libro, per Baz Dreisinger, è stato solo l’inizio di un viaggio nel mondo delle carceri globali. Dopo la pubblicazione negli Stati Uniti ho fondato Incarceration Nations Network, una rete globale e un think-tank che supporta, promuove e diffonde gli sforzi innovativi di riforma carceraria in tutto il mondo, con cui ha già visitato le prigioni di almeno 75 paesi. Prima di salutarla le chiediamo un’opinione su un caso che sta particolarmente a cuore all’Italia in questo momento, quello di Patrick Zaki: “Questa storia fa parte di una grande tragedia globale a cui il mondo deve prestare attenzione”, spiega Dreisinger. “Credo anch’io che il suo caso possa essere legato a quello di Giulio Regeni. Chiaramente, Patrick rappresentava una minaccia per l’Egitto ed è incoraggiante vedere gli italiani uniti in sua difesa. Ma la triste realtà è che storie come la sua non sono rare. In tutto il mondo c’è una gran quantità di persone innocenti detenute per anni senza processo e, di solito, perché non possono permettersi un avvocato; sono stata in paesi in cui più del 60% della popolazione carceraria è in attesa di processo e il tempo medio di attesa è di sei anni. In Egitto, dalla pandemia, le autorità hanno trattenuto centinaia, molto probabilmente migliaia, di persone in custodia cautelare senza la pretesa di un controllo giurisdizionale. Per cui, mentre ci concentriamo su una tragedia individuale come quella di Patrick Zaki, è importante tenere sempre a mente il quadro più ampio, in modo da ottenere un cambiamento sistemico e un mondo più giusto dove questi episodi non accadano più”. Gli effetti pericolosi dell’ansia di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 11 giugno 2021 La preoccupazione per la ripartenza non riesce ad andare oltre l’attesa di un magico avvento dei decimali di Pil, senza che si crei una mobilitazione collettiva. Circola una sottile ansia, nell’opinione collettiva italiana, un’ansia che alimenta l’attesa della ripresa dopo la crisi pandemica ed economica degli ultimi mesi; che stimola le speranze che arrivi una svolta decisiva nel nostro sviluppo; che spinge a decifrarne sintomi e dati magari rincorrendo i decimali delle variazioni di Pil; che porta un po’ tutti, governanti ed opinionisti, a incitare i cittadini ad assumere nuove e più accentuate responsabilità. Un clima che richiama tutte le “epopee” degli ultimi decenni, dalla ricostruzione post bellica al superamento delle gravi crisi dei primi anni Duemila; e che arriva anche ad un rilancio potenziale dell’immaginario collettivo, verso un’idea di Italia diversa e migliore. Non si sfugge però alla sensazione che tale volontaristico rilancio non riesca a decollare, non riesca cioè ad innervare coerenti comportamenti di massa, quasi che vinca la consapevolezza che i tempi sono cambiati rispetto ai decenni precedenti, e che l’attuale insieme dei sentimenti collettivi e delle attese non sia riconducibile a una nuova fase di mobilitazione collettiva. Chi, come me, è stato analista e cantore di tutte le grandi epopee dal dopoguerra, avverte chiaramente che il richiamarle come esempi da rivivere oggi è un esercizio sempre meno mobilitante. Gli italiani di oggi sanno di vivere una crisi tutta loro, nei singoli luoghi e nelle singole modalità di lavoro; ed è naturale che nei loro pensieri vincano le componenti del loro necessario impegno soggettivo. Con una specifica realistica sottovalutazione delle esperienze del passato; e con una naturale indifferenza per le chiamate alle armi di tipo collettivo. Forse l’ultimo episodio di emotiva chiamata alle armi l’abbiamo riscontrato nella crisi del 2008-2009, ma era l’espressione di una difesa di massa, non certo una tensione in avanti, di costruzione di nuovi assetti economici e sociali. E non sorprende quindi che la stessa grande discussione di massa sull’epocale “programma europeo di resilienza” non sia riuscita a traguardare un immaginario collettivo in cui far emergere coerenti flussi di valutazioni e comportamenti del nostro corpo sociale; ci siamo limitati alla curiosità per la quantità di risorse disponibili e per le loro ufficiali destinazioni, spesso troppo tecniche e sofisticate (dalla digitalizzazione alla riconversione ecologica) per destare sociali partecipazioni collettive. È quindi comprensibile che l’ansia di ripartenza non riesca ad andare oltre l’attesa di un magico avvento dei decimali di Pil, senza che si crei una mobilitazione collettiva su precisi obiettivi di sviluppo del sistema. Del resto, almeno una cosa la storia di questi decenni la insegna: che le epopee prima si fanno e poi si raccontano, visto che in Italia esse sono frutto non di disegni e messaggi proposti dall’alto, ma degli sforzi quotidiani di milioni di singoli cittadini, attenti a se stessi ed ai propri interessi. Lasciamo quindi che la dinamica oggi in corso, per ora indecifrabile, abbia il suo silenzioso, sommerso svolgimento; poi la potremo raccontare, dandole forma e denominazione. È sempre stato così nelle conclamate epopee del passato, ed è sicuro che anche questa volta qualcuno saprà, in avanzato corso d’opera, far racconto di ciò che sta succedendo. Vaccini. Il Parlamento europeo avverte la Commissione: sospendere i brevetti di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 11 giugno 2021 “Voto storico”. Con 355 voti a favore (263 contro, 71 astenuti), Strasburgo ha votato un testo sui vaccini che chiede la “sospensione temporanea” dei diritti di proprietà intellettuale. Ma von der Leyen insiste: alla Wto la proposta Ue sarà quella sulle licenze. Il Parlamento europeo mette la Commissione con le spalle al muro e manda anche un segnale forte al G7, riunito da oggi in Cornovaglia: con 355 voti a favore (263 contro, 71 astenuti), Strasburgo ha votato nella serata di mercoledì un testo sui vaccini che chiede la “sospensione dei brevetti” che “permetterebbe di rafforzare l’accesso mondiale a vaccini abbordabili”. Il testo approvato è diverso da quello presentato in un primo tempo, in seguito a un accordo tra i gruppi Ppe, S&D, Renew, Verdi e Erc - che non conteneva la richiesta della deroga ai brevetti - perché ha integrato l’emendamento dei Verdi, passato per un solo voto, che lo citava espressamente (a sorpresa, era anche passato qualche settimana fa un emendamento analogo della Gue). Il Parlamento propone quindi di intraprendere il negoziato sulla sospensione temporanea dei brevetti nell’ambito degli accordi Trips alla Wto. Resta il riferimento a una deroga “temporanea”, per non mettere in crisi in modo indeterminato il diritto di proprietà. Il testo degli eurodeputati insiste anche sull’importanza delle licenze volontarie (decise da chi detiene il brevetto, a chi darle e a quali condizioni), sul trasferimento di know how e tecnologie essenziali per aumentare la produzione a lungo termine. C’è una richiesta specifica a Usa e Gran Bretagna, perché mettano fine al blocco dell’export. Joe Biden arriva al G7 con l’impegno di esportare 500mila dosi di vaccini (Pfizer), mentre finora gli Usa si erano limitati a un export di 10 milioni di dosi, al pari della Russia, mentre Londra per il momento è a zero. La Ue è impegnata da tempo nell’export: è il primo produttore mondiale e finora ha esportato circa la metà di quanto prodotto, 329 milioni di dosi. La Commissione prevede per il secondo semestre di quest’anno una produzione di un miliardo di dosi nei 55 siti di produzione europea e la metà sarà esportato. Per vaccinare il 70% della popolazione mondiale - obiettivo della Commissione per quanto riguarda la Ue entro fine estate - sono necessari 11 miliardi di dosi, ma solo una frazione di questa quantità per ora è stata prodotta. La grande maggioranza dei vaccini somministrati finora (1,6 miliardi) lo sono stati nei paesi industrializzati e solo lo 0,3% nei 29 paesi più poveri: l’Europarlamento chiede alla Ue di sostenere la produzione in Africa. Il testo votato insiste anche sull’importanza del meccanismo Covax, di cui la Ue è il primo contributore (100 milioni di dosi) e a cui dovrebbe aderire anche Biden. Nel testo, il Parlamento europeo chiede anche trasparenza sui contratti firmati dalla Commissione per i 27, i cui contenuti sono finora stati rivelati con il contagocce e con molti omissis (per difendere la segretezza degli affari). Ma mentre il Parlamento votava, la Commissione alla Wto ha presentato la proposta europea che non contiene la sospensione dei brevetti e si oppone alla richiesta fatta ad ottobre da Sudafrica e India. La Commissione preferisce il meccanismo delle licenze volontarie e, in caso di fallimento, al massimo quelle obbligatorie ma inquadrate strettamente nel Trips. Bruxelles punta a un accordo multilaterale alla Wto che porti alla fine del blocco all’export. Per Manon Aubry della Gue, è stato “un voto storico”. Per il gruppo S&D, “la sospensione dei brevetti sui vaccini è redditizia economicamente e giusta moralmente”, il voto è “un segnale forte” alla Commissione. Un “grande passo avanti” per i Verdi, mentre a Renew, chi ha votato a favore mette dei paletti: evitare di “appiattirsi sul piano della propaganda”, commenta l’eurodepuatto Marco Zullo, che sostiene la “terza via” alla Wto, incentrata su “facilitazione degli scambi, discipline sulle restrizioni alle esportazioni ed espansione della produzione”. Per il Ppe, “la vera domanda è: come avere più dosi?”. Salute mentale. Il buio dopo il Covid e la città che non cura di Lavinia Nocelli Il Manifesto, 11 giugno 2021 Tra “noi” e “loro”, quel che resta della riforma. L’assistenza fornita dal Servizio sanitario nazionale copre a malapena il 25% dei bisogni psicologici previsti dai Livelli essenziali di assistenza. “A distanza di otto, nove mesi, siamo a 30 casi di suicidio. Quest’estate in poco più di due settimane ne abbiamo avuti 15, di cui 5 solo a Filottrano: persone non monitorate dalla nostra rete, in contesti nuovi. Ne abbiamo riacchiappato qualcuno per un soffio”. Massimo Mari, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Area Vasta 2 di Jesi, si passa nervoso la mano tra i capelli, il volto impastato dietro la stanchezza. “Se mi mancano 19 infermieri, 19 educatori, 11 psicologi e 7 psichiatri”, Come lavori. “Questi sono numeri per la gestione minima delle urgenze, servirebbero…”. Il discorso cade. Il tono è seccato, come quello di qualcuno che ha passato ore a gridare al telefono per sollecitare un’emergenza, lo sguardo appannato dallo stato delle cose. La scrivania dell’ufficio è riempita di appunti e libri, ordinata nel suo essere una cronologica narrazione lavorativa degli ultimi mesi. Ignorato, le richieste d’aiuto non smettono d’arrivare: c’è chi non dorme la notte, chi è bloccato dall’ansia o dalla paura d’incontrare la morte all’angolo della strada. Ecco l’ombra del covid, è la malattia mentale. In Italia quasi il 20% della popolazione soffre di disagi mentali, con l’assistenza fornita dal Ssn che copre a malapena il 25% dei bisogni psicologici previsti dai Livelli essenziali di assistenza, e un budget di spesa media nazionale del 3,6% rispetto le risorse a disposizione. “Le Marche ne spendono il 2,1%, la legge ne prevede almeno il doppio - ammette Mari - Un tempo eravamo la penultima regione, adesso siamo colati a picco”. Fuori le nuvole accerchiano l’ospedale Murri, chiudendo la luce dentro un’ombra nera. La notte fa il resto. Quella della salute mentale è una questione scomoda, istintivamente fastidiosa quando nominata. La discussione con se stessi è un confronto da cui si tende a difendersi, scansare, ma che diluisce nel culturale, sociale e nel politico dove ne fuggono razionalità e afferrabilità, e la paura allontana: questo è lo stigma. Quarantadue anni fa con la Legge n.180/1978, detta anche Legge Basaglia, in Italia venivano chiusi i manicomi, luoghi istituiti per annientare l’individuo. Fu chiamata “la rottura”: si spinse per la territorialità, la vicinanza umana e la condivisione - basi della psicoterapia - a stravolgere le pratiche conosciute. “Oggi c’è una dimensione chimica del manicomio, una progressiva ospedalizzazione del sofferente: più pazienti hai, più farmaci prescrivi”. Diversamente, la costruzione di un’adeguata organizzazione e presenza dei Centri di Salute Mentale è stata definanziata nel tempo in gran parte del territorio italiano, impedendo l’efficenza dello stesso principio basagliano. Il peso rivoluzionario della riforma si è orientato verso la terapia biologica, prendendo il sopravvento spinto dalla facilità del gesto. Il senso comune della malattia mentale è tornato a essere quello di un pregiudizio segregante, limitativo e incurabile: una questione privata. Un evento catastrofico non colpisce il singolo, ma la comunità: così la pandemia. L’elaborazione dei fatti chiede tempo alla mente, ed è conosciuta anche come “disturbo post-traumatico da stress”. L’Aquila dà un pugno allo stomaco quando arrivi. La bellezza che arricchiva la città ancora avvolge l’aria, ma è il trauma del terremoto quello che leggi con gli occhi: il vento muove i fantasmi delle impalcature. “Il manicomio è stato chiuso, ma resta nella testa della gente”, ammonisce serafico il dott. Sirolli, ex direttore del Dipartimento di Salute Mentale aquilano, “lo diciamo non per slogan, ma per dire che è manicomio la comunità terapeutica che ti indica a che ora fare la doccia, pranzare, fare la passeggiata o prendere i farmaci”. Alessandro ed Emanuele Sirolli li incontro sulle macerie del vecchio ospedale psichiatrico, oggi carcassa storica che guarda la città, lì dove nacque “180 amici”, un’associazione a tutela della salute mentale dei cittadini voluta dalla spinta di un gruppo di operatori, locali e familiari sensibili al tema. “La nostra è un’idea di città che cura, di comunità, implementiamo i servizi per favorire la cosa”. Curioso, dico indicando alle spalle lo scheletro urbano, proprio in questa terra dimenticata dalla misericordia. “È terminata una generazione, quella di coloro che si è impegnata a chiudere i manicomi e declinare la cura nel territorio”, dice Alessandro mostrando il piccolo museo allestito con i reperti dell’ex ospedale, i letti con le sbarre e le foto dei direttori che furono. “La nuova non ha queste esperienze, è formata in ambulatorio, dentro i servizi psichiatrici di diagnosi e cura che per l’80-90% sono strutture squisitamente farmacologiche e contenitive”. Cos’ha significato la non completa applicazione della Legge in campo nazionale? Servizi oberati di lavoro, affollamento di pazienti e diffusione della concezione organicista della psichiatria. La questione dei finanziamenti esiste, spiega Emanuele, ma il vero problema è il “loro utilizzo”. “Dobbiamo ragionare su come i Dipartimenti non sono quelli che dovevano essere, cioè un sistema organizzato di servizi che mette al centro la persona e che vive per progettare con lei una ripresa da una situazione di sofferenza”. Ad aver cavalcato l’onda la rottura moderna del metodo, quella conflittualità naturale alla base della salute mentale, fatta di pratiche e formazioni differenti e alimentata dalla scarsa presenza di risposta nel territorio. “C’è una malattia, quindi i sintomi, una sindrome e una terapia farmacologica”, ragionano con freddezza, nessuna “città che cura” là fuori. Il sole perentorio d’agosto entra nello studio, la polvere si solleva quando arrivano i ragazzi del centro. Scosto la mascherina, sorrido, ci presentiamo: noi qui gestiamo una radio, Radio Stella 180, “passa a trovarci giovedì”, mi fa uno di loro. “Parte del problema è nato nel ‘94, quando hanno slegato la cura del sanitario dalla cura del sociale. Prima c’erano unità locali socio-sanitarie, scorporandole non hanno previsto che queste si parlassero: il comune lavora nel sociale e il sanitario nella sanità. Uno svincolo che ha permesso di separare i finanziamenti, con il peso economico che ha riempito più le tasche dei secondi che dei primi. Così il giorno in cui la salute mentale ha assunto il valore di un bene ci siamo offerti al contagio, ed è questo forse il pegno da pagare. Si ragiona sulle rovine della malattia, perché a L’Aquila non riesci a non associare ai detriti quello che ti circonda, anche nelle cose nuove - le vetrine pulite nel corso principale, il bianco che attraversa le strade - c’è qualcosa di frantumato. “Il vero cambiamento potrà avvenire solo quando il sociale irromperà nel sanitario, cambiandone i paradigmi”. E Alessandro, citando il rivoluzionario Rotelli, sa che c’è molto di più da fare - perché non si sa più come intercettare il malessere- a filtrare il disagio, a dialogare per un lavoro di prevenzione. “Tu puoi operare su questo solo se lavori sul sociale, non sul sanitario, altrimenti fai soltanto intervento precoce”. A Collemaggio un animale azzurro di quattro metri di statura, con le gambe irte e di legno sottile, si libera alla vista. Marco Cavallo “i giovani non sanno chi è”, ma fu simbolo della lotta a favore della chiusura dei manicomi e metafora dei pazienti liberi e degni d’indossare i panni di cittadini. Bisogna ripartire da zero dice Emanuele, cercare di arrivare a un ragionamento comune, “non è un lavoro complicato”. Le montagne chiudono la luce sul colle, portano con sé del vento fresco. Arriva la sera, nel silenzio si sentono le ossa degli edifici che scricchiolano doloranti. La rete dei servizi coordinata dal Dipartimento di Napoli Centro si dirama tra i racconti dei quartieri. Antonio quando parla va veloce, velocissimo, come se le parole potessero scappare prima della fine. “Devo, devo, devo”, le voci gli dicono del cibo avvelenato, l’acqua cattiva e la notte troppo lunga per illudere al risveglio. Allora mi spiega che il farmaco in fase iniziale è fondamentale per abbattere queste voci, che però “tu poi sei tramortito”, è come se ti passasse un camion addosso e dovessi rialzarti. “Quanti mesi stai in ospedale?”. Via dei tribunali rimbomba di pettegolezzi, una fiumana di esistenza che condivide l’incertezza dei tempi: De Luca manda l’esercito, De Magistris vuole tutto aperto, i soldi arrivano sempre più risicati a fine mese. “È asciutto pazzo ‘o patrone - urla qualcuno - svende tutto a metà prezzo”. Antonio è ricaduto un giorno - tentenna un po’ quando lo dice -, un passaggio di malessere “transitorio”: “Ci troviamo di fronte a casi di momentaneo scombussolamento acuto, le strutture deputate non sono del tutto preparate ai bisogni emergenti”. E che la riabilitazione sociale, il passaggio da un ambiente protetto a un luogo esterno, deve avvenire in modo graduale. “Ti prendo con mano e a seconda del tuo stato, e del tuo stadio nella malattia, ti presento delle soluzioni idonee per quell’uscita verso l’inclusione piena e funzionale”, dice. Solo che non c’è allo stato attuale questo processo, e quando Antonio fa “Mai mistificare il farmaco” impugna l’aria, perché la fase acuta è dolorosa, claustrofobica, ma necessaria per passare alla successiva, e che pure ci si ferma solo alla prima. Per dare un’idea di cos’è la malattia mentale: nell’inserimento lavorativo “preferiscono l’invalidità fisica a quella psichica”, perché la persona davanti non riconosce una condizione che spaventa, pensa sia difficile da gestire, un costo ulteriore. Così Antonio capovolge i ruoli, perché “l’istinto arriva per salvarti”, e da facilitatore sociale costruisce progetti personalizzati volti a far dialogare i due contesti. Ma è un aspetto carente su cui è necessario fare un po’ di scelte, “una riflessione politica, un upgrade del sistema di cura”, perché manca, anche questo. Esiste un concetto più ampio di guarigione che resta nell’ambito di chi ci lavora: non si condivide ciò che non si vede, ecco la colpa della malattia mentale. “La prima cosa che ti taglia è la creatività”, dice Bianca. Ha le mani delicate e un gesto materno quando si muove. “L’Aquilone” è una struttura organizzata tra laboratori di legatoria, riciclo e ceramica che si trova a Milano, lì dove iniziano a moltiplicarsi i primi sputi di periferia. Fabio, Michele, un ragazzo che si mastica il nome, e Ciro passano a presentarsi, mentre Bianca, che dirige, aiuta a sparecchiare le ultime cose dai tavoli. L’idea alla base di tutte le attività è quella di recuperare oggetti che andrebbero perduti, un po’ quello che accade alle vite dei singoli pazienti. “Tra noi normali e loro è solo un problema di quantità, non di qualità”. La cura va stimolata attraverso lo strumento della creatività, perché l’arte riabilita e ti riporta a un senso di appartenenza col territorio, ma che pure servirebbe una cultura psicologica più diffusa. Entra una luce pacifica che spolvera tutte le cose costruite nel tempo, le rughe dell’impegno, o quelle di chi ha perso qualche anno dietro chiacchiere in testa. Pietro oggi non parla, come ieri e pure il giorno prima. “Quanto fa una quantità?”, chiedo a Bianca, un ciuffo le scivola sullo sguardo. Sorride. Quando la signora Rosaria mi vede viene subito incontro per chiedere “Dottoressa, dottoressa, lei sa quando verrà mio marito?”, trema di spasmi. “La Gabbianella” invece è una struttura residenziale a scopo riabilitativo infilata nel quartiere di Scampia, riparata dagli occhi indiscreti della strada principale, per ospiti d’età diversa. “Dottoressa?”, chiama Rosaria. È di una fragilità tale che quando metto distanza tra me e lei penso di farle un torto, ma freme da circa un anno, da quando qualcosa è successo in casa - “Una lite forse, c’era di mezzo la polizia che seguiva la famiglia” - e quindi continua a scuotere il corpo gracile e farsi più piccola davanti lo sguardo dei presenti. “Dottoressa, mi faccia una foto”, Rosaria è convinta che così la sua famiglia verrà a cercarla, ma nessuno viene a cercarla da 365 giorni. Come descrivi la sensazione che arriva da un grumo di dolore a qualcuno? Perché il problema della salute mentale non è quello che tante volte si vede, ma quello che funziona di più, e che non nasce nei luoghi deputati alla cura, ma in quelli che abitiamo. Azzurro è il colore delle pareti, Gennaro siede e gioca a carte, Maria guarda la televisione, delle ciabatte rosse sono riposte accanto a un letto. Rosaria, salutandomi: “Dottoressa”, quando verrà il marito? Se la malattia mentale non si vede, tanto vale ascoltarla. Quando passi davanti le Vele cerchi di scorgere qualche romanzo televisivo, un’espressione conosciuta del territorio, necessaria a comprendere. Noi vedremo gli effetti psicologici della pandemia tra mesi, anni. Migranti. Quando diventare maggiorenni vuol dire essere abbandonati di Marina Della Croce Il Manifesto, 11 giugno 2021 Un rapporto di Oxfam e altre associazioni denuncia le condizioni dei giovani migranti una volta usciti dal circuito dell’accoglienza. Più di seimila solo in Italia, addirittura 30 mila in Francia e altre decine e decine di migliaia sono sparsi nel resto d’Europa. Sono i minori migranti, bambini e adolescenti arrivati da soli nel nostro continente e che, una volta divenuti maggiorenni, escono dal sistema di accoglienza che ha garantito loro protezione fino a quel momento per ritrovarsi ancora una volta da soli. E con loro quanti l’Europa non sono neanche riusciti a vederla: “Basti pensare a quanto successo negli ultimi mesi nei Balcani e al confine orientale italiano, dove molti minorenni soli sono stati respinti dalla polizia di frontiera e costretti a un viaggio a ritroso verso la Bosnia”, denuncia un rapporto presentato ieri da Oxfam, Greek Council for Refugees, Dutch Council for refugees e Acli Francia. “A quanto avviene sulle isole greche, dove centinaia di minori senza famiglia sono bloccati da mesi in campi profughi senza accesso a servizi e istruzione. E non ultima, alla situazione delle nostre coste, dove, negli ultimi 5 mesi sono sbarcati oltre 2.600 ragazzi soli”. Compiere 18 anni, per molti ragazzi non è un momento di gioia per la maturità raggiunta, ma diventa un motivo di ansia, come testimoniano le parole di A., 20 anni, fuggito dall’Eritrea e oggi residente in Olanda: “Entrare nell’età adulta non è per noi una transizione ma la fine di tutto il sistema di supporto e protezione su cui possiamo fare affidamento”. Dal report emerge chiaramente che nessuno dei 5 paesi presi in esame - Francia, Grecia, Paesi Bassi, Irlanda e Italia - ha adottato politiche sistemiche in grado di sostenere i giovani migranti nel loro percorso di integrazione. “Uno dei capisaldi della legislazione europea è la protezione dei minori a prescindere dal loro status legale, grazie al quale si garantisce una difesa dal rischio di sfruttamento, abusi, abbandono - spiega Giulia Capitani, policy advisor di Oxfam Italia su migrazione e asilo -. Diventare maggiorenni non vuol dire che questi rischi scompaiano dall’oggi al domani. A sparire improvvisamente è ogni forma di protezione, con ragazzi che rischiano in molti casi di ritrovarsi per strada senza nessuno a cui rivolgersi”. La norma prevede che i minori rifugiati arrivati in Europa siano ospitati in strutture adeguate e affidati a tutori per tutte le questioni amministrative e legali. L’accesso a strutture di accoglienza per i neo-maggiorenni varia però da paese a paese: in Irlanda vengono trasferiti in alloggi per adulti caratterizzati da standard molto bassi, in Grecia possono finire in uno dei campi profughi o per strada, in Italia ci sono diverse opzioni ma anche il rischio, più che concreto, di essere messi semplicemente alla porta. Altro muro da affrontare è la burocrazia labirintica in cui questi ragazzi sono costretti a muoversi. Questo sembra valere un po’ ovunque nei paesi considerati, ma è l’Italia a meritare un’analisi a sé stante, proprio a partire a dalla sfida che un diciottenne migrante deve affrontare per ottenere il permesso di soggiorno. Una delle difficoltà più serie per i ragazzi neomaggiorenni in Italia, riguarda l’ottenimento di un permesso di soggiorno: a 18 anni - ricorda il report - il diritto di non essere espulsi decade ed è necessario ottenere un documento che garantisca il diritto a restare. Chi ha fatto richiesta di asilo e diventa maggiorenne mentre è ancora in attesa dell’esito può trovarsi in enorme difficoltà, qualora la sua domanda venga rigettata. A quel punto è infatti preclusa la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno di altro tipo, ad esempio per studio o lavoro, e il rischio di cadere nell’irregolarità è altissimo. Anche per chi ha ottenuto un permesso di soggiorno per minore età, la strada è tutt’altro che in discesa. Diventati maggiorenni, i titolari di questo permesso di soggiorno devono dimostrare il possesso di specifici requisiti per ottenerne la modifica, cioè la conversione in permesso per studio, lavoro o attesa occupazione, e poter quindi restare in Italia regolarmente. Trovare lavoro è infatti complesso per questi giovani, che appena arrivati in Italia devono concentrarsi sull’apprendimento della lingua, e che spesso quindi ritardano l’inizio di percorsi formativi o tirocini che sono, di fatto, l’unico canale per poter essere assunti. La ricerca di una casa è un altro grande problema. Sembrano funzionare le esperienze di “semi-autonomia”, dove ragazzi neomaggiorenni vivono insieme con il sostegno di un peer educator, ma negli altri casi perdere il diritto all’accoglienza è fonte d’ansia, visto anche il carattere fortemente discriminatorio del mercato immobiliare e la necessità di pagarsi un affitto a fronte di lavori spesso saltuari. “Al governo italiano chiediamo di affrontare in modo più organico il passaggio dei minori non accompagnati all’età adulta, garantendo il coordinamento di tutti gli attori coinvolti. - conclude Capitani - E di promuovere in particolare il ruolo dei tutori volontari, previsto dalla Legge Zampa, e dei tutori sociali dopo il compimento della maggiore età. All’Europa, di spingere gli Stati Membri verso politiche strutturate e di mettere a disposizione più fondi per l’integrazione”. Migranti. Caso Saman, intervista all’ambasciatore del Pakistan in Italia di Vincenzo Nigro La Repubblica, 11 giugno 2021 “La violenza è proibita da noi come qui in Italia. E chi sa deve collaborare”. È uno dei diplomatici più apprezzati ed esperti. Deve affrontare la terribile storia di Saman Abbas. “Un possibile atto criminale non è pachistano, italiano, americano o di un’altra nazionalità. È l’atto criminale di chi lo ha commesso”. Jauhar Saleem è l’ambasciatore del Pakistan in Italia. È stato ambasciatore in Germania, è uno dei diplomatici più apprezzati ed esperti nel suo ministero. Si trova a dover affrontare una brutta storia di cronaca nera, quella di Saman Abbas. Una storia che ha colpito, che addolora tutta la comunità pachistana in Italia. “Sono arrivato a Roma un anno fa, in piena pandemia: non ho ancora potuto girare in lungo e largo l’Italia per incontrare le comunità dei 150 mila miei connazionali che vivono nel vostro paese. Ho avuto tanti contatti con loro, molte conferenze video, tante telefonate.... voglio conoscerli...”. Anche in queste ore terribili, in questi giorni in cui in Italia il nome del Pakistan è associato al mistero della scomparsa della giovane Saman Abbas? “Si certo, ancora di più voglio essere vicino ai pachistani in Italia, e per questo ho voluto parlare con voi: per lanciare dei messaggi molto chiari. Il primo è questo: la violenza è proibita dalla legge, dalla morale e dalla religione in Pakistan. Come in Italia. Senza nessun dubbio, senza nessuna incertezza. Da questo deriva che chi sa qualsiasi cosa su questo episodio deve collaborare con le autorità. Deriva che la famiglia deve collaborare. Perché in Pakistan rispettiamo le donne e la legge, e su questo non possono esserci incertezze. Chi usa violenza è contro la legge”. Ambasciatore, si è fatto un’idea di cosa possa essere accaduto alla povera Saman? Crede davvero che sia stato possibile organizzare un ‘delitto d’onorè contro questa ragazza di 18 anni? “Non so molto di più di quello che sapete tutti voi leggendo i giornali, e non voglio commentare nulla di una inchiesta penale in corso. Voglio esprimere però un sentimento che è espressione della comunità della diaspora pachistana in Italia, 150 mila persone che lavorano a Milano, Brescia, Napoli, Roma, in Emilia e ovunque nel vostro paese per il benessere delle loro famiglie e della nazione che le ospita”. Qual è il sentimento dei suoi connazionali in Italia? C’è qualcuno che può comprendere le ragioni di un eventuale omicidio d’onore? “Non c’è nessuno che ha alcuna tolleranza per nessun atto criminale. Un possibile atto criminale non è pachistano, italiano, americano o di un’altra nazionalità. È l’atto criminale di chi lo ha commesso, e se è stato commesso all’interno di una famiglia, di una comunità, ebbene tutta quella famiglia deve collaborare alle indagini, perché la legge dal Pakistan e quella dell’Italia sono chiare”. Abbiamo notato dalle statistiche che in Italia vivono circa 150 mila pachistani, la cittadinanza di una piccola provincia come Siracusa. Quali sono i caratteri di questa vostra presenza in Italia? “I miei connazionali sono in Italia ovunque per offrire al vostro Paese i frutti del loro onesto lavoro e per godere di quanto necessario a far prosperare le famiglie che in Italia hanno scelto di vivere. È gente che lavora, nelle fattorie, nelle fabbriche, una comunità sana e rispettosa”. Ci sono famiglie che culturalmente potrebbero essere vicine a chi ha commesso un possibile omicidio come quello di Saman? “Non si può essere vicini a un potenziale omicidio del genere. In Pakistan coesistono culture, modelli religiosi, comunità etniche e linguiste diverse, anche molto disparate. C’è una enorme parte della nostra popolazione, buona parte di quella delle città, che vorrei dire è antropologicamente e culturalmente più vicina a quelle delle vostre città che a quella di alcune regioni pachistane. Ma la verità è questa: in tutti i paesi ci sono atti criminali. Pensate per fare un esempio lontano da noi, a tutti gli assurdi omicidi compiuti in America da chi imbraccia un fucile automatico. Questo non significa che “gli americani”, gli abitanti di quel paese o di un altro sono tutti criminali di quel tipo”. Certo, un atto criminale non definisce una comunità. Ma eventualmente l’omertà di una famiglia, di una famiglia allargata possono risentire di caratteri negativi presenti in una comunità... “E per questo io dico che la famiglia deve collaborare, chiunque deve collaborare con le autorità. Non si uccide, lo dice la legge e lo dice la religione. Chi uccide è un criminale, non ci sono ambiguità. Ma invito tutti a guardare con rispetto, con vicinanza a questa comunità pachistana in Italia, che nel vostro Paese ha trovato accoglienza e amicizia. L’integrazione ha bisogno di tempo, di molto tempo. Pensiamo al cammino degli italiani negli Stati Uniti, al lungo percorso che li ha portati ad essere una delle comunità più rilevanti di quella nazione. Quanto tempo c’è voluto... I pachistani in Italia sono impegnati in un viaggio, di fratellanza e integrazione. Sarà lungo, ma sarà un successo”. La Ue può e deve ribellarsi alla barbarie di Lukashenko di Frans Timmermans* Corriere della Sera, 11 giugno 2021 È il momento della verità per i valori europei. La fermezza è l’unica risposta possibile al comportamento del dittatore, che ricorda il regime sovietico. Normalmente sarebbero sufficienti due ore di volo da Bruxelles per raggiungere un Paese europeo governato da delinquenti. Dove un’elezione è stata manipolata così evidentemente e senza vergogna che nessun tipo di propaganda di stato ha convinto la popolazione della vittoria del dittatore. Dove centinaia e centinaia di manifestanti pacifici sono arrestati, per poi essere torturati, drogati e minacciati di morte. Dove i suoi capi dirottano con la forza un volo di una compagnia aerea basata nell’Ue, che viaggiava da una capitale europea a un’altra. Mettendo coscientemente a rischio le vite di cittadini europei, solo per mettere le mani su due giovani residenti regolari di uno Stato membro dell’Ue perché hanno avuto l’audacia di schierarsi contro un regime illegittimo e i suoi crimini. La reazione europea a questo scandalo è stata unita, rapida e chiara. Presto seguiranno nuove sanzioni, come è giusto che sia. La risposta a questo livello di barbarie può essere soltanto la fermezza, specialmente se le vite di cittadini europei sono messe direttamente a rischio, così come gli interessi e la sicurezza degli Stati membri. La Lituania è stata finora il Paese più colpito, non solo perché confina con la Bielorussia, ma anche perché nel corso degli anni è diventata un porto sicuro per i suoi cittadini che cercano la libertà. I lituani sono particolarmente sensibili all’oppressione di Lukashenko e dei suoi uomini, perché ricorda così da vicino quello che loro stessi hanno sofferto durante l’occupazione sovietica. Il modo criminale in cui Roman Protasevich e Sofia Sapega sono stati rapiti e la vergognosa confessione falsa estorta al giornalista in diretta televisiva, ricordano i giorni più bui dell’era sovietica, quando il capo del Kgb Juri Andropov aveva perfezionato un sistema repressivo per eliminare i dissidenti. Un sistema di uomini insicuri e impauriti, che sanno che il loro dominio è fragile e non può essere mantenuto senza un totale controllo. Processi-farsa, confessioni false, uso forzato di droghe, totale ostracismo sociale, minacce alla famiglia e ai cari, reclusione in istituti psichiatrici o lavori forzati. Faceva tutto parte del metodo di Andropov, ora seguito fedelmente da Lukashenko. Lo scopo è chiaro: instillare la paura in tutta la società mostrando la distruzione politica, morale e psicologica di chi è abbastanza coraggioso da opporsi al regime. Non è sufficiente rinchiuderli o ucciderli. Devono essere completamente distrutti davanti a tutti, così non possono essere né eroi né martiri. Con diverse centinaia di persone incarcerate, centinaia di migliaia che temono di essere le prossime e milioni che si chiedono quanta miseria debbano ancora sopportare prima che il regime collassi, i bielorussi stanno vivendo un incubo. Il fatto che stia succedendo alle soglie di casa nostra fa infuriare, a maggior ragione perché il regime bielorusso vuole instillare la paura anche in quelle persone che sono fuggite in Ue. Oggi sono nostri vicini, colleghi, studenti nelle nostre università. Molti di loro sono poco più che ventenni. Pensiamo a cosa possa significare vivere in esilio e temere comunque che possano venire a prenderti. L’Ue e i suoi Stati membri hanno ragione a imporre sanzioni. Ma dovremmo fare di più. Dovremmo organizzare un’operazione attiva di condivisione degli oneri con la Lituania e gli altri Paesi confinanti, costruendo e finanziando rapidamente strutture di sostegno psicologico per tutti gli esiliati che ne hanno bisogno. Le università in tutta l’Ue dovrebbero offrire borse di studio completamente pagate per gli studenti bielorussi, le compagnie dovrebbero fornire lavoro o tirocini. Ovunque sia necessario, l’Ue dovrebbe adattare i programmi di sostegno esistenti, come l’Erasmus, per accogliere misure di supporto agli studenti bielorussi. Gli scienziati e gli istituti di ricerca europei dovrebbero intensificare la cooperazione dove possibile. I media indipendenti, tradizionali e nuovi, dovrebbero essere sostenuti e i media europei dovrebbero pensare di prendere sotto la loro ala protettrice i loro colleghi bielorussi. Questo è il momento della verità per tutti noi. Sostenere tutti quelli che combattono l’oppressione è la cosa giusta da fare, perché crediamo che tutti debbano vivere in libertà. È la cosa giusta anche perché sappiamo che se non ci battiamo per quello in cui crediamo, rischiamo di importare l’ingiustizia e l’instabilità che fanno parte dei metodi del dittatore. Se lo facciamo per loro, lo facciamo in definitiva anche per noi stessi e per tutto quello che riteniamo scontato nella nostra Unione. *Vicepresidente esecutivo della Commissione europea Sudan. Caso Zennaro, l’Italia protesta: scontro diplomatico di Giacomo Costa Corriere del Veneto, 11 giugno 2021 L’ambasciatore in Sudan, su input del ministro Di Maio, alza la voce con le massime autorità africane. “Inaccettabili condizioni di reclusione, subito gli arresti domiciliari”. Caso Zennaro, il governo italiano protesta con il Sudan, è scontro diplomatico. Ormai sono passati i settanta giorni, eppure per Marco Zennaro la luce sembra ancora lontana. L’imprenditore veneziano arrestato in Sudan il 1 aprile è stato fatto rimbalzare tra le celle del carcere e quelle del commissariato, la promessa dei domicilari in albergo sembra sempre di più una semplice esca con cui calmare gli animi a Roma e, allora, proprio da Roma ieri si sono levate le voci di protesta del governo e della Farnesina: l’ambasciatore in Sudan Gianlugi Vassallo, su istruzioni del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, si è rivolto alle massime autorità della repubblica africana per lamentare le “incaccettabili condizioni” in cui è rinchiuso il 46enne veneziano. Vassallo ha anche evidenziato “l’esigenza di garantire il pieno rispetto dei diritti umani del detenuto”: “Con l’occasione - specifica la Farnesina - l’ambasciatore ha ricordato alle autorità sudanesi la viva aspettativa da parte italiana di una rapida ed equa soluzione della vicenda giudiziaria e della controversia commerciale che ne è all’origine, che consenta di definire quanto prima la posizione del signor Zennaro”. Il veneziano è accusato di truffa perché, dopo aver concordato la vendita di una partita di trasformatori elettrici con un mediatore locale, si è visto dichiarare quegli stessi strumenti “non conformi” sulla base di analisi di laboratorio che a suo parere sarebbero parziali, in quanto effettuate da una ditta a lui concorrente. Da lì, Zennaro ha passato sessanta giorni in una cella di sicurezza del commissariato di Khartum, chiuso assieme ad altre trenta persone, con un solo bagno, nessun letto e una temperatura che oscillava tra i 45 e i 50 gradi; poi, quando sarebbe dovuto passare ai domiciliari, è stato invece trasferito nel carcere vero e proprio. Una situazione allarmante, ma comunque più “organizzata”; lì il 46enne è stato addirittura aiutato dagli altri carcerati: “Tutti i miei nuovi compagni mi hanno preso in cura - ha raccontato nei giorni scorsi l’imprenditore prigioniero - perché hanno detto che quando mi hanno guardato hanno visto un uomo morto”. È durata poco, comunque: tempo una settimana e, con il pretesto di una nuova interrogazione del procuratore generale, l’imprenditore è stato fatto tornare in quell’incubo che era la cella di sicurezza. Un orizzonte temporale, in questo caso, non c’è: da Khartum non sono arrivati dettagli, di conseguenza la famiglia teme che i tempi della reclusione tornino a dilatarsi all’inverosimile. Già da maggio sarebbe dovuta bastare una firma su un fascio di documenti già preparati per far uscire Zennaro, una firma che per un motivo o per l’altro non è mai arrivata. La paura ora è che si replichi. Ieri ha parlato anche il direttore generale per gli italiani all’estero, Luigi Vignali, già stato in missione a Khartum la scorsa settimana, che ha convocato alla Farnesina l’incaricato d’affari sudanese, per un altro passo di protesta a nome del governo italiano. Stati Uniti. Un libro, un film e 150 prigionieri innocenti rinchiusi a Guantánamo di Marta Serafini Corriere della Sera, 11 giugno 2021 “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni” scriveva Dostoevskij. Questa è una delle storie accadute dopo l’11 settembre: 12 anni in cella da innocente, raccontati dal protagonista, Mohamedou Ould Slahi, aiutato da uno scrittore. Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni” scriveva Dostoevskij. Avanti veloce di quasi due secoli, quando l’11 gennaio del 2002, su ordine di George W. Bush, a Guantánamo arrivarono i primi 20 detenuti vestiti in uniforme arancione, il mondo non immaginava ancora cosa sarebbe potuto capitare lì, tra quelle reti e a pochi metri dalla sabbia bianca e il mare blu di Cuba. “Qui dentro verrà rinchiusa la feccia dell’umanità”, disse l’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush affermando di voler vendicare così le 3 mila vittime dell’11 settembre. In totale 780 detenuti, di cui 150 sono stati riconosciuti poi innocenti, e di cui ne restano ancora 40, tutti musulmani e tutti uomini ormai anziani. Non sono bastati i rapporti, le denunce e i processi. Guantánamo brucia ancora come una ferita. “La mia cella o meglio la scatola, era fredda al punto che tremavo per la maggior parte del tempo. Mi era proibito vedere la luce del giorno; di notte venivo svegliato da un messaggio registrato in cui mi ricordavano che non potevo parlare o guardare gli altri detenuti. Vivevo letteralmente nel terrore. Non ho dormito per 70 giorni consecutivi”. La storia di Mohamedou Ould Slahi inizia alla fine di dicembre 1970, quando un’infermiera che parla solo arabo hassaniyya sbaglia a trascrivere il suo cognome facendo saltare la prima a di Salahi. È il nono di dodici figli di una famiglia povera. Suo padre è un commerciante di cammelli. Ancora adolescente, con i suoi si trasferisce a Nouakchott, la capitale della Mauritania. Lo scrittore ed attivista per i diritti umani Larry Siems ha aiutato Slahi a trasformare le 466 pagine scritte durante la sua detenzione a Guantánamo in un libro. Ed è proprio a Guantánamo Diary, pubblicato in Italia con il titolo 12 anni a Guantanamo (edito da Piemme) cui si ispira The Mauritanian, film in uscita il 3 giugno su Amazon Prime Video. Inoltre Siems è una delle poche persone che davvero conosce Slahi. Chi era Slahi prima di diventare il prigioniero numero 760? “Dopo la morte del padre, Mohamedou diventa il figlio nel quale la famiglia ripone le sue speranze economiche e i suoi sogni. Al liceo aveva vinto una borsa di studio in ingegneria elettronica in Germania. Aveva imparato a memoria il Corano da bambino, e già da adolescente dimostrava ottime doti intellettuali. Si è laureato in ingegneria elettronica in Germania, dove ha vissuto fino alla fine degli anni 90”. Cosa lo porta in Afghanistan e cosa lo avvicina al jihad? “Negli anni Ottanta, lui e un cugino più giovane, un poeta di nome Mahfouz Ould al-Walid, trascorrevano le serate in un caffè, dove il proprietario mostrava video della lotta palestinese e della jihad in Afghanistan. Quando nel 1988, Osama bin Laden annunciò la formazione di Al Qaeda. Walid, che aveva tredici anni, iniziò a leggere gli opuscoli di bin Laden. Lui e Slahi furono colpiti dalla narrativa di Al Qaeda, e nel 1991 Slahi parte per l’Afghanistan per dare un supporto ai mujaheddin contro l’invasione dell’Unione Sovietica. Dopo un anno interrompe qualsiasi legame con Al-Qaeda. E più volte nei suoi interrogatori ha spiegato di essersi arruolato solo per combattere contro l’occupazione, non per supportare l’attività terroristica”. (continua a leggere dopo i link) Nel 1998, poco dopo che Al Qaeda fa esplodere le ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania, Slahi riceve una chiamata da un numero di telefono riconducibile a bin Laden. Poi, e almeno in un’altra occasione, un membro del Consiglio della Shura di Al Qaeda - la sua leadership - trasferisce circa quattromila dollari sul conto bancario di Slahi in Germania... “Sì, dopo l’11 settembre viene messo sotto sorveglianza dall’intelligence canadese per i suoi rapporti di parentela con Mohfouz Ould-Wolid, uno dei portavoce di Al-Qaeda e uno dei gli uomini vicini a Osama bin Laden. Nonostante ciò, il governo canadese non trovò prove per incriminarlo. Per motivi familiari tornò in Mauritania e fu arrestato una prima volta e scagionato per mancanza di prove, ma l’intelligence americana convinta della sua colpevolezza lo arrestò di nuovo trasferendolo in Giordania. Dopo otto mesi di detenzione fu rapito e rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Guantánamo e da lì è iniziato il suo vero calvario. Il governo statunitense lo incolpava di aver partecipato all’organizzazione dell’attentato delle Torri Gemelle e ne erano così convinti che lo stesso Donald Rumsfeld, allora ministro della Difesa, firmò l’ordine con cui autorizzava il suo interrogatorio “rinforzato”“. A Cuba ha subito ogni forma di abuso: waterboarding, privazione del cibo e del sonno, abusi sessuali, minacce di ogni tipo. Pur non essendo mai stato processato Slahi è stato accusato anche di aver reclutato mercenari in Cecenia e di aver organizzato un attentato a Toronto. Pur essendo innocente, è stato considerato uno dei prigionieri più pericolosi per il suo presunto legame con bin Laden. Come è andata a finire? “Nel 2007 fu ordinata la sua scarcerazione per mancanza di prove. Ma è stato liberato solo il 17 ottobre 2016. Dalla sua cella di Camp Echo ha descritto nel dettaglio le torture e le deprivazioni da lui subite, ma ha raccontato anche del rapporto con le guardie, di come alla fine li considerasse degli esseri umani, nonostante tutto quello che gli avevano fatto. In quelle pagine c’è una componente umana e letteraria che mi colpito subito, non c’è solo la cronaca del suo dolore”. Pubblicare quel libro non è stato per nulla semplice, come è andata? “Quando Mohamedou ha consegnato il manoscritto al suo avvocato, come tutto ciò che scrive un prigioniero di Guantánamo, il testo è stato immediatamente considerato classificato, ed è stato rinchiuso in una struttura sicura fuori Washington, accessibile solo ai suoi avvocati con l’obbligo di non divulgazione. È rimasto lì per circa sette anni, mentre il suo team legale, guidato da Nancy Hollander, vera eroina di questa storia, ha portato avanti contenziosi e trattative per costringere il governo a declassificare il manoscritto e a renderlo pubblico. È successo nell’estate del 2012. All’epoca il mio compito era quello di vagliare circa 140 mila pagine di documenti che l’Aclu, l’American Civil Liberties Union, era riuscita a ottenere e rilasciati attraverso il Foia (Freedom of Information Act) sugli abusi sui prigionieri a Guantanamo, in Afghanistan, in Iraq e nei black site della Cia”. Che vita conduce oggi Slahi? È davvero un cittadino libero? “No, non può viaggiare in molti posti, in primis in Europa e negli Stati Uniti. Soffre ancora di terrori notturni. Spesso si sveglia tremando, piangendo e digrignando i denti”. Sul New Yorker, il premio Pulitzer Ben Taub riporta queste parole di Slahi: “In genere se un uomo dice che è arrabbiato, questa affermazione viene interpretata come l’espressione di un’emozione. Ma se io dico che sono arrabbiato viene visto come una minaccia alla sicurezza nazionale”. Davvero Slahi ha perdonato i suoi carcerieri? “Sì, Mohamedou è un uomo pacifico. Nel 2019 Amanda, la sua seconda moglie (è un’avvocata, ndr) ha dato alla luce un figlio. Lo hanno chiamato Ahmed, Slahi ha chiesto a Wood, uno dei suoi carcerieri con cui è diventato amico ed è rimasto in contatto, di essere il padrino. “Ci sono così tanti Ahmed che sarà difficile per loro metterlo nella nofly list”, ha scherzato Slahi”. Medio Oriente. Botte ai palestinesi in carcere, il video di Haaretz diventa virale di Michele Giorgio Il Manifesto, 11 giugno 2021 Israele/Territori occupati. Nel filmato che risale a due anni fa, si vedono le guardie carcerarie trascinare, tra manganellate e calci, i prigionieri palestinesi. Quindici detenuti rimasero feriti. Solo una guardia è stata indagata, non è stato eseguito alcun arresto e il caso è stato chiuso. Nel marzo 2019, nel carcere israeliano di Ketziot, nel Negev, dopo che due guardie erano state accoltellate e ferite da un prigioniero palestinese, 55 detenuti in maggioranza di Hamas furono brutalmente picchiati con manganelli e presi a calci da almeno dieci agenti e lasciati per ore ammanettati e sul pavimento uno sopra l’altro. A rivelarlo è un filmato delle telecamere di sorveglianza diffuso ieri dal quotidiano Haaretz. In un articolo firmato da Josh Breiner, il quotidiano ricorda che le autorità avevano parlato di sommossa che invece le immagini non mostrano. Piuttosto si vedono le guardie carcerarie trascinare, tra manganellate e calci, uno alla volta i prigionieri palestinesi. Quindici detenuti rimasero feriti, due in modo grave. Malgrado ciò solo una guardia carceraria è stata indagata, non è stato eseguito alcun arresto e il caso è stato chiuso. “Questo è uno dei video più scioccanti che abbia mai visto. Dozzine di detenuti sono stati sbattuti a terra dalle guardie e picchiati con manganelli e calci mentre erano indifesi. 15 sono rimasti feriti, due gravemente. E la polizia? Ha chiuso il caso perché i responsabili del crimine sono sconosciuti”, ha commentato Josh Breiner su Twitter. La diffusione del video del pestaggio è coincisa con una nuova giornata di tensione a Gerusalemme Est. Al mattino la polizia ha caricato un raduno di palestinesi in via Salah Eddin a sostegno delle famiglie dei quartieri di Silwan e Sheikh Jarrah minacciate di espulsione dalle case dove vivono da decenni. Al loro posto andranno coloni israeliani, che affermano di essere proprietari delle abitazioni e dei terreni dove sono state costruite. Nel pomeriggio la tensione è risalita quando il deputato di estrema destra Itamar Ben Gvir, sfidando il rinvio della “Marcia delle bandiere” alla prossima settimana, si è recato alla Porta di Damasco, assieme a un manipolo di seguaci, per sventolare la bandiera di Israele nell’anniversario dell’occupazione militare della zona araba di Gerusalemme nel 1967. Le proteste palestinesi sono state immediate, così come l’intervento della polizia che usato il pugno di ferro contro i dimostranti. Le stesse scene si sono viste anche a Sheikh Jarrah mentre da Gaza Abu Odeida, il portavoce delle Brigate Al Qassam, ha fatto sapere che l’ala militare di Hamas segue con attenzione cosa accade a Gerusalemme ed è pronto ad intervenire di nuovo. Lo scorso 10 maggio, dopo l’ingresso massiccio di forze di polizia sulla Spianata della moschea Al Aqsa, Hamas sparò decine di razzi verso Israele e Gerusalemme. Il governo Netanyahu reagì lanciando l’offensiva aerea “Guardiano delle Mura” che ha ucciso circa 260 palestinesi a Gaza e causato gravi distruzioni. I razzi di Hamas e i suoi alleati hanno ucciso nove israeliani e tre lavoratori stranieri. Ieri due agenti dell’intelligence militare palestinese e un presunto membro del Jihad sono stati uccisi a Jenin in Cisgiordania da uomini di una unità speciale israeliana entrata nella città di Jenin. Bahrain. Proteste anti-regime per morte in carcere attivista ansamed.it, 11 giugno 2021 Dissidente sciita morto per Covid in prigione. Una rara protesta popolare a sfondo confessionale si è registrata oggi in Bahrain, nel Golfo, dopo che nei giorni scorsi il ministero degli interni aveva ammesso che un detenuto politico era morto in carcere a causa del Covid. Familiari, amici e seguaci dell’attivista per i diritti umani Hussein Barakat, 48 anni, morto in prigione per il coronavirus, hanno inscenato una protesta nella località di Diya, non lontano dalla capitale Manama. Da settimane i familiari dei detenuti della tristemente nota prigione di Jaw chiedono che i prigionieri vengano rilasciati per evitare che vengano contagiati dal covid, in un paese che sta affrontando una recrudescenza della diffusione del virus. Barakat era stato condannato all’ergastolo nel 2018 con l’accusa di appartenere a una “cellula terroristica”, definizione che il regime sunnita di Manama adotta indicando attivisti della comunità sciita locale. Il Bahrain era stato teatro dieci anni fa, nel contesto delle proteste arabe, di manifestazioni sociali che avevano quasi subito assunto un carattere politico contro il potere dominante, incarnato nella casata sunnita dei Khalifa, appoggiata dall’Arabia Saudita in funzione anti-iraniana.