Le sanzioni sostitutive: modalità alternative a pene detentive brevi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 giugno 2021 Il carcere non deve rappresentare l’unica risposta al reato e che, anzi, per gli effetti desocializzanti che comporta, deve essere evitato quando possibile in favore di pene da eseguirsi nella comunità. Per questo motivo, “se corredate di contenuti sanzionatori positivi, le sanzioni sostitutive possono rivestire il ruolo di vere e proprie pene sostitutive delle pene detentive”. Parliamo di un altro capitolo importante della relazione elaborata dalla Commissione Lattanzi, presentata recentemente in commissione Giustizia dalla ministra Marta Cartabia. Venendo al merito della proposta, la Commissione propone anzitutto di abolire la semidetenzione e la libertà controllata, in quanto sanzioni oggi esistenti solo sulla carta. Il nuovo sistema prevede che entro la soglia di quattro anni la pena detentiva, purché applicata con la sentenza di patteggiamento, possa essere sostituita con nuove misure corrispondenti, nei contenuti, alle misure alternative alla detenzione - detenzione domiciliare, affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà - già oggi applicabili da parte del tribunale di sorveglianza entro lo stesso limite di pena. Di fatto, attraverso il meccanismo di cui all’art. 656, co. 5 c. p. p., il condannato a pena detentiva non superiore a quattro anni può evitare l’ingresso in carcere accedendo a una misura alternativa alla detenzione. Osserva la Commissione Lattanzi, che le misure stesse, incidendo sulla qualità della pena e determinando “lo star fuori dal carcere”, sono sempre più concepite, anche dalla Corte costituzionale come “pene alternative” al carcere, più che come mere modalità alternative di esecuzione della pena detentiva. Di qui l’idea di una loro (ulteriore) applicazione come sanzioni/ pene sostitutive direttamente da parte del giudice di cognizione. Non solo. Nel contesto di un progetto di riforma più ampio, volto a rendere più efficiente il processo penale riducendone i tempi, la Commissione ritiene che la proposta avanzata possa essere opportunamente riservata al rito alternativo del patteggiamento, rappresentandone un forte incentivo. “Attraverso il patteggiamento a pena sostituita con la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova al servizio sociale o la semilibertà - si legge nella relazione - si garantisce all’imputato di uscire dal processo penale presto e con la certezza di non sperimentare il carcere; al tempo stesso si alleggerisce in modo corrispondente il giudizio di sorveglianza”. Entro la soglia massima di tre anni di pena detentiva si propone poi, quale nuova sanzione sostitutiva, il lavoro di pubblica utilità, che è oggi previsto come pena sostitutiva in rapporto solamente a taluni reati, puniti con pena detentiva, previsti dal codice della strada e sugli stupefacenti. La questione è importante, perché si fa anche un ragionamento “di classe”. Per le pene detentive fino a sei mesi, attualmente, c’è la sostituzione in pena pecuniaria. Ebbene, a partite dal 2009, c’è stato l’aumento da 38 a 250 € per ogni giorno di pena detentiva dell’ammontare minimo della quota giornaliera: ciò ha reso irragionevolmente gravosa la misura. Un mese di pena detentiva deve essere sostituito con almeno 7.500 €; sei mesi con almeno 45.000 €. La commissione Lattanzi ricorda, per fare un esempio che inquadra il problema, che nel 2015 ha richiamato l’attenzione dei media una sentenza di condanna a 45 giorni di reclusione, sostituiti con una multa di 11.250 euro, per il furto in un supermercato di una salsiccia dal valore inferiore a 2 euro. Di recente la Corte costituzionale ha sottolineato come l’attuale valore giornaliero minimo della pena pecuniaria sostituita alla pena detentiva renda “eccessivamente onerosa per molti condannati la sostituzione della pena... con il conseguente rischio di trasformare la sostituzione della pena pecuniaria in un privilegio per i soli condannati abbienti”. Quindi, una volta evidenziato anche questo problema, la commissione Lattanzi propone, da una parte innalzare il limite della pena detentiva sostituibile e, nel contempo, di modificare la tipologia delle pene sostitutive in modo tale da valorizzare contenuti sanzionatori sperimentati con successo in altri contesti normativi. “Ciò - sottolinea la commissione - nella consapevolezza che il carcere non deve rappresentare l’unica risposta al reato e che, anzi, per gli effetti desocializzanti che comporta, deve essere evitato quando possibile in favore di pene da eseguirsi nella comunità. Se corredate di contenuti sanzionatori positivi, le sanzioni sostitutive possono rivestire il ruolo di vere e proprie pene sostitutive delle pene detentive”. In sintesi, adottare una riforma delle pene sostitutive, ottiene soluzioni a tre criticità. La prima è la deflazione carceraria. Le altre due sono ripercussioni positive in termini di deflazione processuale, se si valorizzano quelle pene come incentivo ai riti alternativi - procedimento per decreto e patteggiamento, in particolare - il cui ruolo è di primaria importanza in vista della deflazione del carico giudiziario e della riduzione dei tempi medi di durata del processo penale. Più diritto e meno carcere, ma deve cambiare anche la testa dei pm di Massimo Donini Il Riformista, 10 giugno 2021 Una svolta antipopulista. La prima riflessione che sorge spontanea è che nel pianeta Giustizia qualcosa è cambiato dopo le due ultime esperienze governative e con la nascita del Governo Draghi. Saranno i tecnici che hanno fatto la differenza, ma ora si ricomincia a parlare di diritto, a costruire diritto dentro alle leggi, e gli stili gridati e irrazionali del punitivismo giustizialista sembrano così distanti che quasi si stenta a credere che le forze politiche che sostengono l’attuale Consiglio dei Ministri siano le stesse dell’ultimo triennio. Qualcuno si è addirittura proclamato giustizialista pentito. Con il coro compiaciuto della gran parte del giornalismo nazionale, il cui apparente “descrittivismo” ha sostenuto tutte le peggiori stagioni del penalismo etico. In questo momento di svolta, la gravissima crisi della politica, commissariata in questa compagine ministeriale, potrebbe sancire davvero un diverso modo di affrontare il tema della Giustizia, senza ricadere rovinosamente nel passato, non appena sarà finito il mandato (politico, ma non rappresentativo) del suo tutore. E questo l’obiettivo che dovremmo tutti desiderare con forza. Anche alcuni professori e qualche esperto magistrato hanno recuperato un ruolo che era di fatto smarrito. I tecnici ricevono la loro investitura nelle forme dell’aristocrazia sapiente, per lo più sottratta all’agone del dibattito di piazza, e i media ritrovano ora antiche parole per dirlo. Ci vorrebbe Stendhal per raccontarli. Il mandato della Commissione ministeriale per la riforma del processo penale nasce sotto la pressione europea di un finanziamento ingente. Viene presentato come spinta temporale ad agire in ordine a tutti i temi contenuti nel progetto. Ma è ovvio che non sia così. Altrettanto ovvia è la natura politica delle scelte della Commissione. Positivamente politica, ma non neutra, come qualcuno potrebbe voler far credere. Il motivo dominante, il collante di tutte le singole nonne, è quello dei tempi del processo e della sua efficienza. Avere collegato una parte della Riforma della Giustizia penale al Recovery Plan rischia di subordinarla all’economia. Tutti intuiamo il vero e il non detto di questa liaisons dangereuses. Non stiamo parlando del diritto penale commerciale, dell’impresa, delle società, delle assicurazioni, delle banche, etc., ma di quello penale in generale, che si riflette sicuramente anche sul diritto penale dei settori più specifici menzionati, tuttavia assai meno centrali nella risposta punitiva ordinaria dei processi che si celebrano quotidianamente e appesantiscono l’azione giudiziaria. I tecnici lo sanno bene, così come dovrebbero sapere che non basta cambiare le regole per riformare le istituzioni, la mentalità e le consuetudini degli attori del processo, e questa riserva di giudizio, soggetta ad altre variabili indipendenti, dovrà essere ripresa valutando la prognosi realistica della riduzione dei tempi che la Commissione si prefigge. Nonostante tutti questi caveat, i tratti del disegno sono largamente positivi e la Commissione ha svolto in modo eccellente il compito assegnato. Ci sono regole profondamente innovative nel progetto, capaci da sole di trasformare la natura violenta di un processo troppo appiattito sui poteri dell’accusa nel corso delle indagini e fino al rinvio a giudizio: la regola del rinvio a giudizio, per il pm e per il giudice, diventa quella della probabilità della condanna (esclusa quando “gli elementi acquisiti non sono tali da determinare la condanna”). Cambia tutto nei processi con udienza preliminare (che diminuiscono, perché in caso di giudice monocratico la citazione è sempre diretta), ma nella gran massa delle citazioni dirette sarà sempre l’accusa a decidere, e dunque è il suo ruolo che dovrà essere meglio ripensato, perché ha davanti a sé strategie assai differenziate negli esiti già in primo grado. La sospensione del processo con messa alla prova si estende ai reati fino a 10 anni di reclusione (pur se selezionati), si introduce una archiviazione meritata che ne allarga molto gli spazi a forme di contrattazione e a ipotesi riparatorie anticipate. Si riformano tutte le sanzioni sostitutive, sempre più extracarcerarie, potenziando l’effettività, ma anche l’uso, della pena pecuniaria commisurata per tassi e dunque non diseguale sul piano sociale; si allarga l’applicazione di quelle alternative alla detenzione con competenza dello stesso giudice di merito: così responsabilizzando quest’ultimo nella definizione della pena ‘realè; si estendono le ipotesi di estinzione del reato per tenuità del fatto ai reati puniti con pene non superiori nel minimo a 3 anni, ampliando il giudizio sulla esiguità anche alle offese dello stesso giudice di merito: così responsabilizzando quest’ultimo nella definizione della pena ‘realè; si estendono le ipotesi di estinzione del reato per tenuità del fatto ai reati puniti con pene non superiori nel minimo a 3 anni, ampliando il giudizio sulla esiguità anche alle offese tenui per effetto di condotte susseguenti; si allargano molto i casi di giustizia riparativa, che vuole essere, pur nella sua declinazione tradizionale legata ai reati con vittime reali (ma sono moltissimi quelli a vittima indeterminata), un momento di forza del progetto. Eppure, il patteggiamento allargato fino alla metà della pena in concreto, con estensione a pene accessorie e confische, ed eliminazione di effetti extra-penali, potrebbe incentivare il delitto, senza riparare affatto la vittima, in assenza di correttivi o prassi sorvegliate. Si diversificano i criteri di priorità tra una selezione a livello parlamentare e una di competenza degli uffici giudiziari, innescando un meccanismo di possibile (non certa) flessibilizzazione dell’azione penale: se tutto diventasse urgente, tra istanze generali e locali, saremmo punto e a capo, e dunque il problema re sta quello di una vera cultura della discrezionalità. E chiaro che di fronte a queste diverse strategie sanzionatone di sistema anche il pubblico ministero comincia ad avere davanti a sé un ventaglio di ipotesi che lo corresponsabilizzano ben oltre la richiesta di una pena detentiva, come fino a oggi è stato. La sua azione è assai più discrezionale, non tanto per i criteri di priorità allargati, ma per le scelte differenziate “di politica criminale applicata” che la riforma adotta e impone. Sono nuove strategie di diritto sostanziale che non potranno peraltro ridurre il carico processuale in modo rilevante: alcune non sono affatto pensate per questo e non lo devono essere, per non appiattire sul mero utilitarismo la giustizia penale. E l’eterna velocità onnipresente? La futuristica visione del presto e bene nel definire centinaia di migliaia di processi per migliaia di fattispecie? Il Gup selezionerà un po’, ma i grandi numeri passeranno ancora dalla citazione diretta, che ne risulta potenziata. E nei gradi successivi che si vuole incidere: appello con rito camerale, salvo richieste; molte inappellabilità; trasformazione dell’appello in impugnazione a critica vincola la; Cassazione senza difensori, salva richiesta. Certo, il disegno parte dagli effetti, dal blocco processuale in atto, e di fronte all’inflazione, sostanziale prima e processuale poi, si introducono tanti meccanismi acceleratori o di depenalizzazione in concreto. Invece il progetto non parte dal sistema dei reati, che non era nel mandato: neanche un reato viene abolito (depenalizzazione), neppure temporaneamente (amnistia). E l’obbligatorietà dell’azione penale resta solo un po’ temperata. Gli aedi del progetto ci dicono che contano di ridurre di un quarto la durata dei processi penali. E già tanto. Ma tutto questo, se vera la prognosi, non basterà. La riforma della Giustizia penale deve partire dalle cause, non dagli effetti: incidere sul processo come meccanismo normato e sulle sanzioni: significa operare ancora a valle del problema, perché ci sono nodi di diritto sostanziale e di cultura della strategia sanzionatoria e non di solo rito, all’origine del male. Non parliamo, ora, del voler trapiantare in Italy (è l’ipotesi b della riforma della prescrizione) il modello americano della prescrizione dell’azione sostitutiva di fatto di quella sostanziale bloccata al primo grado: un pastiche che non merita neppure il rinvio alla prossima legislatura. La via maestra verso l’obiettivo, osservando le cause, anziché i loro effetti, non è una riforma processual-servente, ma è quella che passa attraverso più depenalizzazioni, più discrezionalità già nell’esercizio dell’azione e una base di partenza alleggerita da un passato che proprio le forze politiche oggi presenti in Parlamento dovrebbero cercare di superare: un provvedimento di amnistia, che ovviamente selezioni le fattispecie politicamente non meritevoli di estinzione (Il Riformista, 23 febbraio 2021). È la base più ragionevole per liberare le udienze orientandole verso un impegno collettivo rinnovato da una pax iustitialis che segua allo scempio delle stagioni del giustizialismo contro il garantismo, e dove il penale non sia più visto come l’inferno dantesco, ma come dev’essere, cioè una strategia differenziata di intervento sociale. Una amnistia una tantum non indebolisce il sistema della prevenzione. Invece, con un patteggiamento al 50%, a regime e senza confisca del profitto da restituire alla vittima il delitto riparato è anche questo - e tante pur giuste alternative al carcere, una bella rapina la si può anche programmare. Ma anche un abuso di mercato. Alla vittima privata non resterebbe che confidare nel perdono della mediazione penale. E questo il tema, di una più ampia strategia di riparazione dell’offesa e della pena agita, che la giustizia riparativa tradizionale affiorante nel progetto non ha ancora adeguatamente tematizzato e rimette ora alla discrezionalità del pm o del giudice. In Italia ci sono 1.784 detenuti all’ergastolo truenumbers.it, 10 giugno 2021 Sono cresciuti senza sosta fino al 2019. Adesso in 203 sono al 41 bis. Fine pena: 31/12/9999. Si fa prima a dire: “Fine pena: mai”. Il senso delle due formule riportate sui certificati di detenzione degli ergastolani è lo stesso: indicare che, salvo eccezioni, per il condannato le porte del carcere sono destinate a non aprirsi mai più. I condannati all’ergastolo in Italia - Ma quante sono le persone che sono all’ergastolo in Italia? Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sono 1.784 (i dati sono aggiornati al 2020). Come si può vedere nel grafico in alto, il numero degli ergastolani (non quello delle condanne) è sempre cresciuto a partire dal 2006 con un solo rallentamento tra il 2012 e il 2014. Che cos’è l’ergastolo ostativo - Negli ultimi mesi si è parlato spesso dell’ergastolo ostativo. Che cos’è? A differenza del comune ergastolo non permette che il detenuto ottenga determinati permessi come, ad esempio, il lavoro esterno, i permessi premio, la liberazione condizionale, la semilibertà e le misure alternative alla detenzione. Questa misura, però, è stata considerata contraria, almeno in alcune sue parti, sia ai principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sia alla Costituzione italiana. Prima la Corte europea dei diritti umani poi la Corte costituzionale, nell’aprile scorso, hanno invitato i legislatori italiani a rivedere la legge. Quando è previsto, per il momento, l’ergastolo ostativo? Solo nel caso di omicidio volontario, aggravato con l’associazione mafiosa, in assenza di collaborazione con la giustizia. Non a caso, tra i detenuti al 41 bis, il regime di carcere duro previsto per i reati di mafia, sono condannati all’ergastolo in 203. Possiamo vedere anche quante sono le sentenze di condanna definitiva all’ergastolo sul totale: sono lo 0,1% (secondo i dati Istat del 2018, gli ultimi disponibili). Proviamo a suddividere le condanne in base alle pene: il 14,8% riceve solo una multa, il 30,9% meno di un anno di reclusione, il 19,7% tra 1 e 2 anni di reclusione, l’11,8% tra i 2 e i 5 anni di reclusione, il 2,1% tra i 5 e i 10 anni e lo 0,6% oltre i 10 anni. I dati si riferiscono al 2020. Fonte Ministero della Giustizia Genitori detenuti e minori al tempo dell’emergenza sanitaria da Covid-19 giuridica.net, 10 giugno 2021 L’Associazione “Cammino - Camera Nazionale degli Avvocati per la persona, le relazioni familiari e i minorenni” - evidenzia le lacune nella giurisprudenza relativa al diritto di un minore di mantenere un rapporto con i propri genitori in situazioni di detenzione. È trascorso oltre un anno dalla proclamazione dello stato di emergenza nazionale (art. 24 del d.lgs n. 1 del 2018) il 31 gennaio 2020 dal Consiglio del Ministri, a cui ha fatto seguito l’emanazione di numerosissimi Dpcm. Sono state introdotte misure volte a limitare gli spostamenti personali e a imporre la permanenza domiciliare, la cui efficacia, inizialmente circoscritta ai soli ambiti territoriali maggiormente interessati, è stata successivamente estesa, a partire dal Dpcm del 9 marzo 2020, all’intero territorio nazionale. Si tratta di un complesso di disposizioni che ha inciso fortemente sia sulla vita personale di ciascun individuo che sulle reazioni familiari, il cui impatto è stato maggiormente sentito in tutte quelle situazioni caratterizzate da particolare vulnerabilità, come i minori e i soggetti privati della libertà personale. Tale criticità è stata da subito al centro di vari interventi, tra cui la richiesta dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza che pone l’attenzione sulla necessità di adottare misure urgenti per un bilanciamento tra l’esigenza di tutela della salute e quella di salvaguardia dei diritti dei minori e degli adolescenti in situazioni di aggravata vulnerabilità. “Sulla stessa scia si è mossa l’Ass. Cammino - Camera Nazionale degli Avvocati per la persona, le relazioni familiari e i minorenni - dice l’Avv. Maddalena Petronelli - che è pervenuta alla stesura di un elenco di indicazioni, un decalogo, relativo alla cura e al sostegno delle persone minori di età nel cui ambito è stata ribadita, tra gli altri, la necessità del rispetto del diritto alla bigenitorialità, essendo fondamentale garantire ai minori, anche nel periodo emergenziale, la possibilità di mantenere una relazione profonda e un rapporto significativo con entrambi i genitori e continuare ad essere da questi cresciuti ed educati. Essendone evidente il rischio di compromissione in danno del genitore non collocatario o, comunque, non convivente con i minori e più in generale il pericolo di violazione dei diritti dei soggetti vulnerabili”. L’evoluzione giurisprudenziale conseguente alla normativa emergenziale dimostra come l’indicazione contenuta nel citato protocollo sia stata quanto mai opportuna per aver contribuito ad orientare il dibattito che ne è scaturito in ordine alla necessità di garantire quel difficile bilanciamento tra interessi contrapposti che ha interessato la gestione del diritto di visita dei minori di genitori separati o divorziati, ma che è rimasta, invece, del tutto inascoltata nella disciplina concernente i rapporti tra genitori detenuti e figli minori, su cui si ritiene di porre l’attenzione. Il tutto nell’ottica di sottolineare ed evidenziare quale la portata e le ripercussioni che l’emergenza sanitaria ha avuto sul piano sociale e in particolare rispetto alle relazioni di tipo familiare. “In questo contesto rilevante appare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, da sempre attento alla tutela dei minori vicini agli ambienti della criminalità organizzata - spiega l’Avv. Petronelli - finalizzata a porre rimedio ad una lacuna normativa e a garantire ai figli di detenuti sottoposti al c.d. “carcere duro”, la possibilità di svolgere i previsti colloqui mediante l’uso di apparecchiature o strumenti telematici, così da rendere effettivo il diritto inviolabile dei fanciulli a mantenere rapporti significativi con entrambi i genitori, richiamato nel decalogo innanzi citato”. Il Tribunale remittente, infatti, dando atto dell’impossibilità di applicazione analogica delle disposizioni di cui dell’art. 4 del d.l. 10 maggio 2020, n. 29, poi confluite nella legge n. 70/2020, riferite ai soli detenuti in regime ordinario, ha sollevato questione di legittimità della citata normativa per contrasto con le disposizioni agli artt. 2, 3, 27 terzo comma, 30, 31 secondo comma, 32 e 117 primo comma Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 Cedu. “In particolare - continua l’Avv. Petronelli - la norma incriminata porrebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra i figli minorenni di detenuti sottoposti al regime ordinario rispetto a quelli sottoposti al regime speciale di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, non ammissibile viste le finalità proprie della detenzione, volte a recidere i legami criminali, ma non anche quelli di natura familiare se non per esigenze di ordine e di sicurezza pubblica, oltre che a giungere ad un’illegittima compressione dei diritti inviolabili del minore a intrattenere rapporti affettivi con il genitore detenuto, indispensabili a garantire un corretto sviluppo della sua personalità e una condizione di benessere psico-fisico”. Si ravvisa inoltre la violazione delle previsioni di cui all’art. 27 Cost., poiché la limitazione imposta dalla norma in esame finisce per tradursi in un trattamento contrario al senso di umanità e alla finalità rieducativa della pena, nonché per contrasto con l’art. 117 Cost, primo comma, in relazione all’art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo e dall’art. 24, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che rispettivamente vietano pene inumane e degradanti e garantiscono il diritto al rispetto della vita familiare. Il coinvolgimento di interessi riferibili a soggetti minori e la necessità di tutelare la posizione degli stessi rispetto a un diritto, quale quello dei colloqui con i genitori, che risponde al preminente interesse dei fanciulli al mantenimento di significativi rapporti affettivi familiari, è stato ritenuto dal Tribunale rimettente l’elemento fondante la propria competenza, trattandosi di una materia attribuita alla cognizione del giudice specializzato in luogo del tribunale di sorveglianza. Tale assunto, tuttavia, non è stato condiviso dalla Consulta che, facendo riferimento alle molteplici disposizioni contenute nell’ordinamento penitenziario, nelle quali viene in rilievo l’interesse dei figli minori dei detenuti, ne ha dedotto la competenza del giudice di sorveglianza, con rigetto della questione sottoposta al suo vaglio. In tal modo, si è lasciata sostanzialmente priva di tutela la posizione specifica dei minori coinvolti in tali situazioni, rispetto alla quale non può che prendersi atto della compromissione del diritto alla bigenitorialità operata dalla normativa emergenziale. Ciò impone, sin d subito, la necessità di una approfondita riflessione per i possibili risvolti negativi che da essa ne potranno derivare, sia con riferimento all’incidenza nella crescita psico-fisica dei minori che per la permanenza di legami familiari già difficili da salvaguardare in situazioni di c.d. normalità, analisi che dovrà necessariamente costituire la base da cui partire in vista della tanto auspicata “ripartenza”. Operatori sociosanitari nelle carceri italiane, è giunto il momento di stabilizzarli assocarenews.it, 10 giugno 2021 Lo chiede Snalv Confsal. È giunto il momento per stabilizzare gli Operatori Socio Sanitari assunti nelle carceri italiane durante la Pandemia Covid. Eroi dimenticati? Stabilizzare gli Operatori Socio Sanitari (Oss) che lavorano nei penitenziari la cui funzione è stata messa in evidenza ancor di più durante la pandemia. È la proposta del sindacato Snalv-Confsal che pubblichiamo con la nota a firma del segretario provinciale Manuel Bonaffini. Nell’occorso dell’emergenza sanitaria nazionale da Corona Virus, che ha, improvvisamente, investito la Nazione e che ha determinato centinaia di migliaia di decessi di Nostri Connazionali, ed alla cui memoria va il nostro deferente pensiero, nel silenzio e nella discrezione più assoluti, una categoria professionale, ovvero quella degli Operatori Socio-Sanitari prestanti le loro funzioni negli Istituti Penitenziari Italiani, si stanno costantemente adoperando, prodigandosi, a fianco della Classe Medica e degli operatori della Polizia Penitenziaria per la tutela della salute di quanti, in questo momento, sono ospiti presso le strutture penitenziarie in argomento. L’Operatore Socio-Sanitario rappresenta una figura professionale in possesso di adeguate conoscenze, che affianca, normalmente, le figure mediche ed infermieristiche necessarie per assicurare la tutela della salute degli ospiti penitenziari, restando a diretto e stretto contatto con pazienti e utenti come d’altra parte, i medici e gli infermieri, anche essi esposti al rischio professionale e sanitario. Con la loro opera, con competenza e capacità, in maniera indefessa, sottoposti a stress psicologico non indifferente, instancabilmente, assicurano la loro assistenza in condizioni difficili e, molte volte, con turnazioni ed impegni orari massacranti. I lavoratori da ultimo citati, stanno, attualmente, in piena emergenza sanitaria, prestando la loro essenziale funzione con assoluta dedizione, impegno, ma senza nessuna certezza sul loro futuro lavorativo, considerato che, il loro impiego, se è pur vero che è stato previsto per far fronte alla fase pandemica sviluppatasi, oggi li vede impegnati in maniera non strutturale, ma attraverso il loro utilizzo con l’impiego a termine prorogato di semestre in semestre. Questa emergenza, però, ne ha sottolineata la loro insostituibile funzione, la loro strategica necessità di essere impiegati ben oltre il previsto termine del 31 luglio 2021, quando, probabilmente, se non certamente, questa esperienza avrà irreversibile fine. La fine di questa esperienza, determinerà, anche, la perdita secca dell’occupazione di centinaia di figure altamente professionalizzate, pronte ad operare in qualunque emergenza, ragione per la quale si chiede alle Onorevoli Autorità, tutte in indirizzo, di voler esaminare la possibilità di rendere strutturale l’utilizzo delle figure in parola, assicurando stabilità di impiego e continuità temporale del loro utilizzo. L’esperienza nata su iniziativa ed intuizione della Protezione Civile Nazionale, attuata dalle AASP territorialmente competenti, ha sostenuto il dispensare cure mediche, in periodo emergenziale, in favore di una categoria di soggetti fragili, in ambienti di lavoro complessi, con una forma intelligente, che potrebbe dare luogo, anche, ad un positivo riassetto organizzativo dell’area e dei servizi sanitari proprio all’interno delle strutture carcerarie. Lo Snalv Confsal chiede, quindi, al Governo Nazionale ed a quello della Regione Siciliana, non dimenticando l’impegno profuso dai lavoratori in argomento, di istituzionalizzare il ruolo degli Operatori Socio-Sanitari carcerari, che hanno dimostrato di saper lavorare moltissime volte con grandi capacità, senza limitazione oraria, assicurando un contributo qualitativo all’assetto delle prestazioni sanitarie dedicate agli ospiti delle strutture. I lavoratori in commento, si ha modo di ritenere, che abbiano inciso in maniera positiva, sulle dinamiche interne delle aree sanitarie carcerarie, fungendo anche da sostegno alle figure professionali degli infermieri, chiamati molte volte, a prestare le funzioni proprie di Oss con il loro conseguente demansionamento. A tal proposito si informa che anche la Segreteria Nazionale della scrivente O.S, in persona della propria Segretaria, Dottoressa Maria Mamone, sta sostenendo, a livello nazionale, la presente iniziativa a difesa dell’occupazione stabile di centinaia di lavoratori interessando, come dalla nota che si allega in copia, interessando i competenti Ministeri della Salute e della Giustizia. Conte blinda Bonafede e la prescrizione. E la riforma del processo penale rischia di slittare di Valerio Valentini Il Foglio, 10 giugno 2021 La versione ufficiale parla di minuzie da correggere, di piccole incognite residuali da definire nel dettaglio. Roba da funzionari, insomma. Solo che in Transtalantico le rassicurazioni di Via Arenula rimbalzano con un tonfo meno rassicurante: anche perché i giorni scorrono, sul calendario, e gli emendamenti del ministero della Giustizia al disegno di legge sulla riforma del processo penale non arrivano. “Segnale che l’intesa politica ancora non è stata trovata”, spiega ai suoi colleghi di partito il leghista Igor Iezzi, salviniano di rango, col tono di chi addita le prevedibili complicazioni a dimostrazione dell’opportunità dell’iniziativa referendaria promossa dal Carroccio. Gli emendamenti in questione, quelli con cui Marta Cartabia indirizzerà i lavori della commissione Giustizia di Montecitorio, dovevano in effetti arrivare a fine maggio; poi s’era spostato il termine alla settimana scorsa, quindi a quella che va declinando ora. E siccome, secondo la tabella di marcia concordata dai capigruppo di maggioranza col ministro Federico D’Incà, entro giugno il disegno di legge dovrebbe essere portato in Aula, il trascorrere dei giorni preoccupa un po’ tutti. A partire forse dalla stessa Cartabia, che pure ha fin qui fatto del troncare e sopire il suo metodo di lavoro preferito. E però anche lei sa quel che il dem Alfredo Bazoli afferma, e cioè che “un minor tempo di discussione presuppone una maggiore condivisione di partenza”. Insomma, serve ormai un accordo blindato. Che però al momento pare difficile su più di un aspetto: e quasi tutte le insidie da superare hanno a che vedere con l’intransigenza del M5s. Perché la sostanza delle proposte che verranno da Via Arenula è già stata anticipata dal dossier elaborato dal gruppo di lavoro presieduto dal prof. Lattanzi. E su nessuna delle tre novità più rilevanti - modifica della prescrizione, inappellabilità delle sentenze di primo grado e indirizzo parlamentare nella definizione della priorità dell’azione penale - le rimostranze dei grillini si vanno placando. Anzi, nei conciliaboli di corridoio alla Camera è emersa, da parte del M5s, la volontà di difendere a oltranza la bontà della riforma che porta il nome di Alfonso Bonafede. E il fatto che martedì sera Giuseppe Conte abbia rivendicato i successi di quella norma, ha dato nuovo ardore alla resistenza grillina. Specie sul punto della prescrizione: rispetto al quale, stando a quel che trapela, Bonafede vorrebbe proporre di ripartire dal “lodo Orlando”, quello che l’attuale ministro del Lavoro propose a poche ore dal tracollo del BisConte, mentre Roberto Fico era ancora in versione esploratore e al Quirinale già s’apprestavano a chiamare Mario Draghi. “È una questione di tempi sfortunati, per Giuseppe”, dice chi gli sta vicino, per spiegare come sarebbe arduo, per il Conte che s’appresta a chiedere il plebiscito alla base di attivisti, presentarsi sul proscenio deturpando uno dei totem del grillismo duro e puro. Solo che le mediazioni proposte in epoca di Bis-Conte periclitante è evidente che non possano essere potabili in questo nuovo quadro politico e con una maggioranza in cui il M5s non ha alcun effettivo potere di veto. “Noi abbiamo presentato le nostre due proposte, sulla prescrizione, e ci sembrano dei buoni punti di caduta per tutti”, spiega Bazoli, come a invitare gli alleati grillini a fare un passo in avanti e a non intestardirsi su una via in cui resterebbero da soli. E non a caso Enrico Letta, nel voler incontrare la Cartabia, ha lanciato un segnale politico preciso: “La totale condivisione dell’operato e dell’agenda dalla ministra”. Il che vale a ribadire, certo, la contrarietà del Nazareno alle scappatoie referendarie; ma serve anche a dire a Conte e Bonafede che no, sulla giustizia, stavolta, non arriverà alcun soccorso rosso. Csm, Luciani: “Si può fare la riforma della Giustizia senza modificare la Costituzione” di Liana Milella La Repubblica, 10 giugno 2021 Il professore di Diritto pubblico chiamato dalla ministra Cartabia a scrivere la riforma: “Una magistratura senza liste per battere le correnti” Professor Massimo Luciani buonasera. Su incarico della Guardasigilli Marta Cartabia, lei ha ridisegnato l’architettura del futuro Csm. Lo si può fare senza toccare la Costituzione? L’ex ministro Flick dice di no. “Non la penso come lui. È vero che anche la nostra commissione ha proposto degli aggiustamenti costituzionali, ma molto si può fare anche a Costituzione invariata. E credo che il nostro lavoro abbia dimostrato proprio questo”. A che interventi pensa? “C’è l’imbarazzo della scelta. Citerei, nell’ordine, il cambio della legge elettorale per i togati, norme stringenti per l’accesso dei magistrati alle cariche politiche, disciplina rigorosa del fuori ruolo, lavoro degli uffici programmato in modo da garantirne l’efficienza...”. Si fermi, sarà una riforma vera o una riformicchia? “Guardi, basta leggere la relazione per capire che non è così, fermo restando che la ministra Cartabia farà le sue valutazioni politiche”. Bisogna ridare prestigio a un organo costituzionale come il Csm, ma al contempo all’intera magistratura dopo i colpi del caso Palamara. L’ha ripetutamente chiesto Mattarella. Bastano ritocchi qua e là? “La sento scettica, ma sta sbagliando. È vero che non s’immagina una riscrittura integrale delle norme, ma si disegna una riforma molto significativa. Però senza un grande rinnovamento culturale della magistratura, degli operatori del diritto, della politica, ma anche dei media, da questa grave crisi non si esce: le leggi aiutano a risolvere i problemi, ma sono le persone che ci riescono”. Senta, i giornalisti hanno fatto la loro parte. Denunciando gli accordi sottobanco privi della moralità istituzionale che dovrebbe essere il dna di una toga. Ma le toghe che hanno fatto? “Guardando dall’esterno, mi pare evidente l’ansia di rinnovamento che serpeggia nell’intero corpo della magistratura, specialmente tra i più giovani. Il diritto è una missione prima che una professione, e per i magistrati dev’esserlo in modo particolare”. Sono scettica, per quello che vedo. Perché, in chiave anti-correnti e anti accordi di partito, ha escluso l’ipotesi di un rinnovo parziale del Csm ogni due anni? A Cartabia l’idea piaceva... “È un’idea meritevole della massima considerazione. C’è però un problema: la sorte del vicepresidente. Si poteva ridurre il suo mandato a due anni? Penso proprio di no, perché il rapporto con il capo dello Stato dev’essere saldo e duraturo. E poi una parte del Consiglio non avrebbe mai potuto esprimere il vicepresidente. Allora abbiamo affidato la scelta del vice al capo dello Stato. Ma serve una riforma costituzionale”. Un Csm dove le interferenze della politica si sentono e dove le correnti la fanno da padrone su nomine, carriere, sanzioni disciplinari. La sua scure dove colpisce? “A parte questi toni così forti, abbiamo proposto nuove regole per formare le commissioni, principi rigorosi per attribuire gli incarichi, in linea con il ddl Bonafede, freni significativi al carrierismo”. Fatta la legge, trovato l’inganno. Lei propone il “voto singolo trasferibile”, ogni toga vota, ma poi conta un numero magico e imprevedibile, il “quoziente” tra il numero dei voti validi e quello dei seggi più uno. Scommetterebbe sull’impenetrabilità del sistema? “Abbiamo immaginato candidature individuali (non di lista!) per favorire chi non è legato alle correnti. Quanto al “quoziente” si tratta di un semplice calcolo matematico che c’è in tutti i sistemi proporzionali che non utilizzano il metodo del cosiddetto divisore, che è una cosa ancora più complicata”. Scommette su questo? “Scommetto che renderà molto più difficile la vita a chi vorrebbe comprimere il pluralismo interno della magistratura. Ma sarebbe un gravissimo errore pensare che esista un sistema elettorale capace di eliminare il potere di forze organizzate”. Ma ha letto il libro di Palamara, il Sistema appunto? Perché non ha scelto il sorteggio? “Un sorteggio puro e semplice sarebbe in frontale contrasto con la Costituzione, che parla esplicitamente di elezione”. E una formula mista? “Per carità. Immaginiamo che si sorteggi prima e si elegga dopo. Lei si figura cosa sarebbe disposto a fare uno sconosciuto baciato dalla sorte per farsi eleggere? Non sarebbe facile preda delle correnti? All’opposto, se si vota e si sorteggia, poi il risultato è ovvio: le correnti condizionano comunque il voto, con in più l’inconveniente che tra gli eletti la sorte magari ci consegna i meno bravi”. Le promozioni. Magistrati che vivono per guadagnarsi un posto negli uffici che contano. Lei prevede criteri obiettivi e trasparenza dei curricula. Potrà bastare? “Abbiamo limitato il carrierismo. L’aspirazione ad avere un incarico direttivo è legittima, ma non deve diventare una professione nella professione”. Tornerà quell’anzianità che umiliò Falcone e consentì ai suoi nemici di fargli una sporca guerra? “Non so cosa decideranno governo e Parlamento. Noi abbiamo immaginato che le istituzioni siano ancora in grado di scegliere i magistrati migliori, senza ricorrere ad automatismi”. A differenza di Bonafede lei riapre le “porte girevoli”, chi si candida può tornare in un incarico collegiale. Ma perché dovrei farmi giudicare da chi ha fatto politica ed è compromesso? “Qui c’è un grande equivoco. Il nostro testo non è affatto meno incisivo del precedente. Tant’è che abbiamo previsto condizioni rigorosissime per l’accesso dei magistrati alla politica, comprese le cariche nei piccoli comuni che prima erano escluse. Nonché l’aspettativa senza assegni”. Però li fate rientrare. “La Costituzione impone di conservare il posto di lavoro a chi è eletto. È una previsione difficilmente superabile. Tuttavia, ammesso che davvero ci sia chi intenderà candidarsi nonostante tutte le limitazioni previste, chi rientrerà potrà fare solo il giudice con altri, in una sede molto lontana dal luogo in cui è stato eletto”. Da quando in qua l’ideologia rispetta i limiti territoriali? “Ma secondo lei è così semplice far prevalere un pregiudizio ideologico quando si sta in un collegio? La vigilanza degli altri sarà attentissima e preverrà i pericoli”. Le riforme sulla giustizia passeranno dopo che i cittadini avranno deciso se firmare o no per i referendum radical-leghisti. Questo non le farà apparire minimaliste soprattutto sulla separazione delle carriere? “La questione non era di nostra competenza. Nondimeno abbiamo confermato il limite dei due passaggi, che non è affatto inefficace”. Anche la prescrizione non ricadeva nei suoi compiti, ma lei come la pensa? “È un istituto di civiltà giuridica, ma come sempre c’è il rischio che se ne abusi. È un problema di delicato bilanciamento tra valori giuridici contrapposti. Possibile mai che in questo Paese si debba ragionare di cose così complesse a furia di slogan e preconcetti, e non di argomenti razionali?”. “La politica ora si ribella ai pm: ma una rivoluzione ha bisogno di leader veri” di Errico Novi Il Dubbio, 10 giugno 2021 Intervista a Fabrizio Cicchitto, ex numero due di Forza Italia, sul caso della sindaca di Crema: “C’è un vaso che trabocca, anche per l’avvocatura: penso alla rivolta delle Camere penali per la rimozione della gip di Verbania”. C’è una differenza strutturale, tra Fabrizio Cicchitto e la gran parte dei politici oggi in carriera. L’ex numero due di Forza Italia, oggi commentatore su diversi giornali, ha una cultura da lasciare disarmati. Le analisi le fa su due basi: la realtà e le categorie del pensiero. Provate a mettervi contro di lui: perdete. Ad esempio, perdete nel vostro slancio ottimistico sulla presunta imminente emancipazione della politica dalla supplenza della magistratura. “Ma io più che pessimista mi dico scettico. Si deve distinguere fra rivolta e rivoluzione: sono cose diverse. I segni di rivolta ci sono, è vero, per la rivoluzione mi sa che c’è da attendere e le spiego perché”. Aspetti, onorevole Cicchitto, partiamo dal caso di Crema, dagli emendamenti sulle pagelle ai giudici: non le sembra che la politica si sia stufata? Sì, certo. È la risposta di chi non ne può più. Guardi, dietro la reazione dei sindaci per l’indagine avviata sulla sindaca di Crema dopo che un bambino si è chiuso le dita nella porta, c’è l’accumularsi di una lunghissima serie di attacchi all’autonomia della politica. Vogliamo mettere insieme quelli principali? Certo... Bene. Concorso esterno in associazione mafiosa: si rende conto che non è un reato codificato come tale ma il combinato disposto fra due fattispecie diverse? Poco più in là troviamo la legge Severino: un affronto al principio della presunzione d’innocenza, della verità processuale stabilita nei tre gradi di giudizio. Mi riferisco naturalmente alla sospensione dalle cariche politiche locali fin dalla condanna in primo grado. All’interno di quella legge c’è un altro capolavoro. A cosa si riferisce? Al traffico di influenze. Ma come si fa? Com’è concepibile un reato del genere? Ma se fosse esistito quando ero in Parlamento, con tutte le lettere di raccomandazione che ho scritto quando c’erano le preferenze, mi avrebbero dato l’ergastolo. Fantastico... Andiamo avanti: la base, naturalmente, è l’abuso d’ufficio: vera licenza di uccidere nella mani dei pm. Il tutto condito da una delle non poche follie autodistruttive realizzate dalla politica in questi trent’anni: l’ultima legge, voluta da Enrico Letta, sul finanziamento pubblico ai partiti, totalmente abolito. Ecco, il quadro è completo. Politica denudata, disarmata. E proprio di fronte a questo c’è la reazione dei sindaci, della politica, gli emendamenti sul Csm: non le basta? Aspetti, è una rivolta di chi proprio non ne può più, che reagisce perché gli hanno tolto tutto, ogni difesa, ogni speranza di azione, e non può perdere nulla. Pensi alle fondazioni: quei temerari che avevano finanziato Renzi si sono visti entrare la guardia di finanza in casa alle 5 di mattina, senza essere neppure indagati. A uno la moglie ha detto, dopo la prima raffica d’insulti: azzardati a dare ancora un soldo a sti politici e ti butto fuori di casa. C’è un vaso che trabocca, anche per l’avvocatura: penso alla rivolta delle Camere penali per la rimozione della gip di Verbania, al di là del merito dell’indagine che dovrà pur dirci com’è che abbiamo avuto 14 morti. E a tutto si aggiunge la crisi iniziata con Palamara, che ha tolto alla magistratura l’aura salvifica. Sì è vero. È stato un po’ come per l’Urss: non è caduta perché un nemico ha sganciato l’arma letale ma per implosione. Si è avviato un processo distruttivo partito dall’interno. Legato peraltro al cambio di alleanze fra le correnti voluto da Palamara: addio al solito patto fra i gruppi di sinistra e di centro per fare spazio a un’alleanza di centrodestra, Unicost con “Mi” anziché con “Md” appunto. Lì hanno pensato di usare l’arma atomica, il trojan. Ma l’arma atomica, seppure per pochi istanti, emana un bagliore che rischiara tutto. Tutte le contraddizioni e le distorsioni interne. Si sono fatti male da soli. Anche perché si sono dimenticati di Machiavelli. Machiavelli? Diceva: al gatto devi sempre lasciare una via d’uscita. Se no si vede perso e ti attacca con gli artigli negli occhi. Ed ecco: Palamara giustamente si è servito di un’autodifesa mediatica e ha portato allo scoperto uno scenario devastante per la magistratura. E di fronte a tutto questo, caro onorevole Cicchitto, come fa a non essere ottimista su una politica che si riappropria del ruolo? Deve tenere presenti due classici del marxismo primonovecentesco. Innanzitutto Rudolf Hilferding, Il capitalismo finanziario: ce n’è troppo, e in condizioni simili vengono schiacciati sia gli imprenditori che la classe operaia, diceva. In altre parole: si fa difficile, per la politica, organizzarsi e riprendere il timone, ma il discorso è lungo. L’altro classico ci aiuta di più: Georgj Plechanov, La funzione della personalità nella storia. In pratica spiegava come ci volessero dei veri leader, delle grandi personalità per trasformare una rivolta in vera e propria rivoluzione. Oggi figure di leader in grado di cavalcare l’onda e restituire alla politica il suo primato non ne vedo. Poi per carità, ci sono i piani di Cartabia, a rischio naufragio, però, per le resistenze dei 5 stelle e di quel partito delle procure mai schiodato dalle stanze del Pd. Ci sta pure la mossa geniale di Salvini. Condivide i referendum? Avranno il mio voto. Guardi, a me Salvini sta sulle scatole, lo dico chiaramente. Ma ha fatto una mossa geniale: ha disarticolato il quadro. Lui e il Partito radicale hanno messo la giustizia, la crisi della magistratura, a referendum. Hanno scatenato il panico nel Pd, pensi a Bettini. E allora? Ci siamo: possiamo tornare alla politica egemone! Gliel’ho detto: ci vogliono grandi personalità. Figure di ben altro spessore. Se no è una rivolta, non la rivoluzione. Strage Mottarone, sulla sostituzione della Gip ora interviene il Csm di Simona Musco Il Dubbio, 10 giugno 2021 Ardita e Di Matteo interpellano il Csm: “Necessario chiarire sulla sostituzione della Gip”. Una pratica per “valutare la correttezza della decisione adottata” dal presidente del Tribunale Luigi Montefusco sono i consiglieri togati Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, seguiti a stretto giro dai colleghi di Magistratura Indipendente, tutti convinti della necessità di fare chiarezza su una vicenda dai contorni sempre più incerti. Donatella Banci Buonamici, presidente di sezione, è infatti colei che, nei giorni scorsi, ha cassato la richiesta di convalida di fermo dei tre indagati per la tragedia della funivia, richiesta avanzata dalla procura guidata da Olimpia Bossi, convinta che il “clamore internazionale della vicenda” costituisse un valido motivo di fuga per Gabriele Tadini, responsabile del funzionamento dell’impianto e reo confesso, per il quale il gip ha disposto i domiciliari, Enrico Perocchio, direttore di esercizio dell’impianto e Luigi Nerini, amministratore unico di Ferrovie del Mottarone, per i quali invece il gip ha disposto la scarcerazione. Banci Buonamici è stata sostituita lo scorso 7 giugno, giorno in cui avrebbe dovuto pronunciarsi sulla richiesta di incidente probatorio avanzata dal legale di Tadini. Al suo posto, ora, è subentrata la giudice Elena Ceriotti, “titolare per tabella del ruolo” ed esonerata a febbraio scorso da Banci Buonamici dalle funzioni di gip per la “grave situazione di sofferenza” del suo ufficio, esonero valido fino al 31 maggio. Dopo quella data, la stessa ha però chiesto un congedo ordinario, conclusosi solo il 7 giugno. La richiesta di incidente probatorio, dunque, era finita in mano a Banci Buonamici, ma secondo il presidente del Tribunale, “in base alle tabelle il giudice assegnatario del procedimento si sarebbe dovuto individuare” in Annalisa Palomba, “contestualmente impegnata in udienza dibattimentale”. Ed in casi del genere, scriveva Banci Buonamici, “le funzioni di gip, dal 1.1.2021, sono state esercitate da questo presidente”, così come stabilito assieme allo stesso Montefusco. Il presidente del Tribunale, interpellato dal Dubbio, preferisce mantenere il silenzio sulla vicenda: “Risponderò dei miei atti nelle sedi competenti”, si è limitato a dire. La richiesta al Csm - I chiarimenti, probabilmente, arriveranno dunque davanti al Csm. “Apprendiamo dalla stampa che nel corso di un procedimento penale pendente presso il Tribunale di Verbania e nel cui ambito sono stati resi provvedimenti sulla libertà personale, il giudice costituito nella funzione di gip sarebbe stato sostituito in corso di procedimento con provvedimento del presidente del Tribunale - si legge nella nota inviata da Ardita e Di Matteo all’ufficio di presidenza, che si riunirà oggi. Chiediamo che della questione venga investita con immediatezza la commissione competente e subito dopo l’assemblea plenaria affinché si intervenga con massima tempestività per valutare la correttezza della decisione adottata e la sua eventuale incidenza sui principi in tema di precostituzione del giudice”. Dello stesso parere Loredana Micciché, Paola Maria Braggion, Antonio d’Amato e Maria Tiziana Balduini, togati di MI, decisi a chiarire quanto la decisione adottata da Montefusco incida “sui fondamentali principi di precostituzione del giudice”. Nel dibattito è intervenuto anche il procuratore generale di Torino Francesco Enrico Saluzzo, che secondo indiscrezioni giornalistiche si sarebbe adoperato “per verificare l’assegnazione del fascicolo”. Questione rilanciata anche dalla Camera penale di Verbania, che ha proclamato una giornata di astensione, calendarizzata il 22 giugno, alla quale hanno già aderito le Camere penali di Novara, Piemonte occidentale e Valle d’Aosta, Vercelli e Alessandria, con la solidarietà dell’Ucpi. “Non ho alcun titolo per intervenire sugli uffici giudicanti e mantengo un “sacro” rispetto nei confronti della magistratura giudicante e dei suoi appartenenti”, ha chiarito Saluzzo, secondo cui è “gravemente offensivo (per non dire oltraggioso) ipotizzare che io o il procuratore della Repubblica, un magistrato tra i più corretti che io abbia conosciuto, abbiamo posto in essere “manovre” occulte, poiché altro non potrebbero essere, per ottenere un risultato illecito. E per cosa? Perché un giudice ha seguito una ricostruzione ed una valutazione diversa rispetto a quella del pubblico ministero? Come se non accadesse ogni giorno nella normale dialettica delle parti nel processo. Sono previsti rimedi processuali appositi e ad essi già fatto ricorso il procuratore della Repubblica di Verbania”. La decisione di Montefusco, ha aggiunto, “riguarda dinamiche interne a quell’ufficio giudicante e la sua aderenza alla organizzazione tabellare (cioè, predeterminata e rigida per dare attuazione ai principi costituzionali del “giudice naturale” e “precostituito”) sarà valutata dal Consiglio giudiziario e dal Csm”. L’unica nota inviata al presidente del Tribunale sarebbe, dunque, quella per acquisire informazioni “in ordine all’esistenza, alla portata e allo “spessore” delle asserite minacce o intimidazioni che sarebbero state rivolte alla dottoressa Buonamici”, in qualità di titolare delle iniziative in materia di sicurezza personale dei magistrati e delle sedi giudiziarie. La denuncia dei penalisti - Per i penalisti di Verbania la questione è solo agli inizi: al momento della sospensione dalle funzioni di gip di Ceriotti, si legge nella nota con la quale martedì hanno annunciato l’astensione dalle udienze, “era stato condiviso con la Camera penale il principio per cui l’assegnatario di fascicoli destinati” alla stessa “li portasse a conclusione”. Tant’è che in nessun altro caso è stato preso un provvedimento simile a quello destinato a Banci Buonamici: “Ad oggi - affermano - non risulta che tutti i procedimenti assegnati ai vari giudici in sostituzione della dottoressa Ceriotti siano alla stessa stati riassegnati e nel provvedimento del presidente del Tribunale non vi è menzione alcuna in merito”. Un precedente insolito che secondo gli avvocati merita un approfondimento anche da parte del ministero della Giustizia, per diramare i dubbi su possibili “insistenze provenienti da una parte del procedimento”, situazione che rischierebbe di rappresentare “un inaccettabile vulnus alla serenità della giurisdizione, di cui deve essere espressione l’assoluta indipendenza del giudice”. Mottarone, Camere penali: rimozione Gip fatto di inaudita gravità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2021 Intanto i consiglieri del Csm Sebastiano Ardita e Nino di Matteo, entrambi Pm, hanno chiesto al Comitato di presidenza di investire “con immediatezza la commissione competente”. Dopo l’adesione di tutte le Camere penali del Piemonte allo stato di agitazione proclamato dagli avvocati di Verbania per il provvedimento di revoca dell’assegnazione del fascicolo relativo alla tragedia della funivia “Mottarone” alla dott.ssa Banci Buonamici, da parte del Presidente del locale Tribunale, scende in campo anche l’Unione nazionale delle Camere penali. Con una delibera adottata nel pomeriggio di martedì, la Giunta esecutiva esprime “incondizionato consenso e sostegno alla iniziativa di denuncia e di protesta” assunta dai colleghi piemontesi e manifesta “piena solidarietà, umana e professionale” alla dott.ssa Banci Buonamici, e “profonda ammirazione per la manifestata sua indipendenza di pensiero e di giudizio”. Inoltre, l’Ucpi rivolge “a tutti gli avvocati italiani l’invito a manifestare in ogni forma, sui social e nelle proprie camere penali, il sostegno ai penalisti di Verbania e del Piemonte Occidentale, ed a convergere numerosi a Verbania il giorno 22 giugno 2021, perché da quel Foro si rilanci con forza la grande battaglia per l’approvazione della legge costituzionale di iniziativa popolare per la separazione delle carriere nella Magistratura”. E la questione arriva anche al Consiglio superiore della magistratura dove, mercoledì mattina, i consiglieri Sebastiano Ardita e Nino di Matteo, entrambi pm, hanno chiesto al Comitato di presidenza di investire “con immediatezza la commissione competente e subito dopo l’assemblea plenaria affinché si intervenga con massima tempestività per valutare la correttezza della decisione adottata e la sua eventuale incidenza sui principi in tema di precostituzione del giudice”. La delibera delle Camere penali - “Un Paese - si legge nella delibera di Giunta - nel quale può accadere ciò che accade a Verbania, e cioè che un Giudice che adotta decisioni sgradite all’Accusa venga bruscamente eliminato dallo scenario processuale, è un Paese che calpesta la Costituzione, con una protervia ed un sentimento di impunità che lascia sbalorditi”. “Invitiamo il Governo, la Ministra Cartabia e tutti i Parlamentari ad acquisire definitiva consapevolezza di questa allarmante emergenza, e dunque a rilanciare il percorso della proposta di legge di iniziativa popolare dell’UCPI, firmata da 75mila cittadini”. Una strada da preferire anche alle “illusorie scorciatoie referendarie” che “propongono poco più che un blando rafforzamento della separazione delle funzioni”, bollato come uno “specchietto per le allodole dei più strenui ed attrezzati oppositori della sola riforma risolutiva, necessaria ed indispensabile: la riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario italiano”. Secondo i penalisti a confermare la “inaudita gravità di questa vicenda”, è proprio la ricostruzione dei fatti che non può essere “dissimulata da implausibili formalismi burocratici”. Se fosse vero infatti, argomentano i penalisti, che la qualità in capo alla dott.ssa Banci Buonamici di Giudice supplente della dott.ssa Ceriotti, originaria destinataria della assegnazione del fascicolo, basti a legittimare quella decisione, “essa avrebbe dovuto allora accompagnarsi, prima e dopo, con decine se non centinaia di altri identici provvedimenti relativi a tutti gli altri fascicoli che, per le medesime ragioni di indisponibilità della dott.ssa Ceriotti, sono stati assegnati ad altri GIP parimenti in funzione di giudici “supplenti”. Non solo invece, proseguono, quella relativa alla tragedia della funivia risulta ad oggi “l’unico fascicolo in riassegnazione, ma è altresì vero che questa decisione, incredibilmente adottata -tramite Cancelleria!- nella fisica imminenza del deposito di una ordinanza di accoglimento di una istanza difensiva di incidente probatorio avversata dalla Procura, risulta inspiegabilmente violativa di un esplicito accordo in precedenza raggiunto tra la Presidenza del Tribunale, la Camera Penale ed il C.O.A. di Verbania”. Con tale accordo si conveniva, proprio a proposito delle necessitate “supplenze” verso la dott.ssa Ceriotti, “che esse avrebbero assunto carattere di definitività”. “I l Re, dunque, è nudo, e se in questo Paese fosse ancora necessario avere conferma della improcrastinabile necessità di operare, da subito, per una riforma costituzionale che separi le carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, la clamorosa vicenda di Verbania ha assolto definitivamente questo compito”. Del resto, conclude la Giunta, non risulta neppure smentita la notizia, ripetutamente diffusa dai media pubblici e privati, di un diretto intervento del Procuratore Generale di Torino sul Presidente del Tribunale di Verbania per la rimozione da quella inchiesta di un Giudice coraggiosamente indipendente dall’Ufficio di Procura come la dott.ssa Banci Bonamici. La guerra è finita. Così è caduta la dottrina Mitterrand di Carlo Bonini, Anais Ginori e Massimo Pisa La Repubblica, 10 giugno 2021 La parabola di Cesare Battisti e i retroscena della cattura degli ex terroristi italiani riparati a Parigi. All’alba del 28 aprile 2021, la magistratura francese dà corso alle richieste di estradizione della magistratura italiana - di fatto rimaste lettera morta per oltre trent’anni - nei confronti di ex appartenenti alle sigle del terrorismo rosso italiano condannati in via definitiva a pene detentive. A Parigi, vengono per questo arrestati Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi (tutti ex militanti della Brigate Rosse), Giorgio Pietrostefani, ex di Lotta Continua condannato come mandante dell’omicidio Calabresi, e Narciso Manenti, dei Nuclei Armati contro il Potere Territoriale. Ventiquattro ore dopo, si costituiscono Luigi Bergamin, ex esponente dei Proletari Armati per il Comunismo, e Raffaele Ventura, ex militante delle Formazioni Combattenti Comuniste. Nei giorni successivi, tutti i fermati verranno rilasciati e avrà inizio presso la “Chambre d’instruction”, la sezione della Corte d’appello competente sulle domande di estradizione, una battaglia giudiziaria che si annuncia complessa e il cui esito definitivo è facile prevedere non arriverà prima di anni. Battezzata “Ombre rosse”, l’operazione decreta la fine della dottrina Mitterrand, chiude una ferita aperta tra Italia e Francia, segna, simbolicamente, l’ultimo atto della storia del Novecento italiano e della sua coda di sangue, con l’attacco della lotta armata, del terrorismo e della violenza diffusa di matrice politica alla nostra democrazia (soltanto tra il 1969 e il 1982, i feriti sono 1.100 feriti e 350 i morti). Indica - come scriverà su Repubblica Ezio Mauro all’indomani degli arresti - l’unica strada possibile in grado di dare una lettura finalmente condivisa dell’insorgenza terroristica, indispensabile per un suo rifiuto. Quella in grado di stabilire, finalmente, che in quegli anni un’ideologia è impazzita nella metà campo della sinistra, portando chi cercava la rivoluzione nel cuore della libera Europa a uccidere persone inermi che pensavano di vivere in pace in un Paese democratico. Non valendo, quale giustificazione o attenuante, le bombe fasciste e le stragi di Stato, perché sia pure nelle sue infedeltà e nelle sue oscurità nel dopoguerra in Italia c’è sempre stata una democrazia, e come tale doveva essere difesa anche da chi era all’opposizione e voleva un cambiamento. L’epilogo parigino, solo apparentemente inatteso, è figlio di un percorso politico-diplomatico tortuoso, affrontato da Roma e Parigi a fari spenti. Che qui ricostruiamo nei suoi snodi cruciali e attraverso le testimonianze inedite di alcuni dei protagonisti. A cominciare dalla resa di Cesare Battisti, l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo, “l’innocente” che si sapeva colpevole, simbolo beffardo e irridente dell’inganno consumato, per quattro lustri, ai danni delle sue vittime e dei Paesi in cui aveva trovato asilo come “perseguitato politico”: la Francia, prima, il Brasile di Lula, poi. La confessione - Forse è davvero cominciato tutto da quella frase. Che non è poi il passaggio più eclatante, quello in cui Cesare Battisti rinnegava, una volta e per sempre la lotta armata e il suo io del 1979. Né quello dedicato alla ricostruzione dei suoi anni di passaggio. Dalle rapine ai Proletari Armati per il Comunismo. Dal carcere di Frosinone all’accogliente comunità di rifugiati a Parigi. E poi al Messico e al Brasile, fino a quel pomeriggio boliviano in cui la sua latitanza terminò. Già, Battisti, insieme al suo legale Davide Steccanella, ci aveva pensato per due mesi. In quel primo pomeriggio del 23 marzo 2019, nel parlatorio del “Soro”, alla periferia di Oristano, il racconto della sua traiettoria da clandestino in armi aveva avuto un improvviso inciso. Battisti si era preso una pausa. Poi, d’un fiato: “Faccio presente che ho avuto la possibilità di leggere le sentenze emesse nei miei confronti da quando sono detenuto qui a Massama ed in via di sintesi posso dire che i fatti che mi riguardano ricostruiti nelle sentenze stesse ed i nominativi dei responsabili corrispondono al vero”. Lo volle ribadire, parlando dell’esecuzione di Antonio Santoro, maresciallo al carcere di Udine, freddato a quattro settimane dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Fani: “Confermo che la ricostruzione della sentenza è esatta”. Il muro era caduto. Due volte. Lo Stato che lo aveva condannato era uno Stato giusto. Battisti l’imprendibile, Battisti il negazionista (“Io ho sempre professato la mia innocenza e ciascuno è stato libero di interpretare questa mia proclamazione come meglio ha creduto”, ebbe a ribadire in quel drammatico interrogatorio), lasciava il posto a Battisti il vinto. “Così lo vidi - ribadisce oggi Alberto Nobili, procuratore aggiunto dell’Antiterrorismo milanese, il magistrato che raccolse le sue ammissioni - e mi colpì il fatto che all’inizio non trovava nemmeno la voce per dirlo, dopo due mesi di isolamento. Mi resta impressa un’altra frase: quando mi disse che aveva contribuito a uccidere il Sessantotto. Io ero studente, c’ero in quei cortei dove si chiedeva la fine del Vietnam, la riforma della scuola e dell’università. E c’ero quando cominciarono ad arrivare questi incappucciati con le pistole, che quei cortei fecero degenerare. All’epoca pensavamo a infiltrati fascisti”. Invece erano i compagni con le P38. Come testimoniò Battisti: “La lotta armata è stata un movimento disastroso che ha stroncato una rivoluzione culturale e sociale che aveva preso avvio nel 1968 con prospettive sicuramente positive per il Paese ma che proprio la lotta armata contribuì a stroncare. Chiedo scusa pur non potendo rinnegare che in quell’epoca per me e per tutti gli altri che aderirono alla lotta armata si trattava di una guerra giusta”. Allora. Fino agli omicidi. “Parlare oggi di lotta armata per me è qualcosa privo di senso”. Chiediamo a Nobili se il riconoscimento postumo di Battisti a quello Stato che lo aveva condannato ha contribuito a incrinare un altro muro, quello della dottrina Mitterrand e dell’area di consenso intorno ai fuoriusciti. “Credo soprattutto a questa seconda ipotesi, al fatto culturale, a chi aveva sostenuto la sua innocenza e alla mancanza di correttezza delle procedure”. Lo chiediamo anche a Maurizio Romanelli, che per anni ha diretto l’Antiterrorismo col dossier Battisti sulla sua scrivania e che adesso coordina l’Ufficio esecuzione penale, che ha in carico il fascicolo su Luigi Bergamin, la sua prescrizione appesa alla dichiarazione di “delinquenza abituale”. “Io non credo che ci siano dirette conseguenze tra le dichiarazioni del 2019 e la situazione attuale, che dipende piuttosto dalla capacità di Italia e Francia di sedersi a un tavolo e risolvere una situazione molto delicata. Ma le conferme che Battisti diede furono di grandissima utilità. Portarono un elemento di chiarezza sulla bontà del nostro sistema legale: non che ce ne fosse bisogno, di certo male non fecero”. E davvero ebbero impatto sulla rete dei suoi sostenitori, spiazzati - ne presero nota gli investigatori della Digos, in un procedimento poi archiviato - da quella assunzione di responsabilità, da quella frase lanciata verso i parenti delle sue vittime attraverso un verbale: “Io non posso che chiedere scusa ai famigliari delle persone che ho ucciso o alle quali ho fatto del male”. La rabbia - Quello del marzo 2019 era lo stesso Cesare Battisti che, dal 2 giugno scorso, ha formalizzato il suo sciopero della fame e delle terapie all’interno del carcere di Rossano Calabro, dove oggi è detenuto, in un “Appello alla giustizia” che rivolge invettive veementi contro il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e invita alla mobilitazione i compagni a Parigi: “La questione dei rifugiati in Francia è una farsa, così come è reale l’intenzione dello Stato di negarmi i diritti stabiliti fino alla fine. L’Italia ha mentito garantendo un trattamento umano a clemenza. Lo provano le condizioni della prigionia di Cesare Battisti. L’opposto di quello che dovrebbero aspettarsi veramente i rifugiati che, dalla Francia, arrivano in Italia”. Cos’è successo dunque nel frattempo? Lo chiediamo all’avvocato Steccanella, che degli anni Settanta è anche profondo conoscitore e divulgatore, come testimonia il suo ultimo volume “Milano e la violenza politica 1962-1986”. “È successo che Battisti, dal settembre del 2020, è l’unico detenuto non terrorista islamico nella casa di reclusione di Corigliano-Rossano. In isolamento, di fatto, in quello che definiamo “antro Isis”, dopo esserlo stato per diciassette mesi a Oristano. E questo perché il ministero lo ha classificato AS2, il secondo grado dell’alta sorveglianza, nonostante l’ordinanza della Corte di Appello di Milano del 17 maggio 2019. Guardi”. Parla carte alla mano, Steccanella. Quel provvedimento porta la firma del presidente Giovanna Ichino, “che, ironia della sorte, era stata giovane estensore della sentenza di condanna al processo contro i Pac”. Il dito indica una frase: “non risulta applicabile il regime ostativo di cui all’art. 4 bis”. Più avanti si parla di “benefici penitenziari” e di “progressione trattamentale”: tradotto, un trasferimento a Rebibbia per avvicinarsi ai familiari, e in regime ordinario vista la pacifica non pericolosità attuale e l’autodafè messo per iscritto in Sardegna. “Ho fatto ricorsi all’Ufficio di sorveglianza di Cosenza - insiste l’avvocato - e me li hanno respinti. Ho scritto al Dap per chiedere gli atti, senza risposta. Lo scorso 12 maggio mi sono rivolto al ministro Cartabia”. Torniamo a leggere, con gli occhi sul passaggio conclusivo: “Mi sono permesso di segnalarLe la situazione del mio assistito anche in vista della possibile consegna all’Italia di condannati residenti all’estero che presero parte a quel periodo e che rischierebbero di subire in età avanzata il medesimo trattamento carcerario che fino ad oggi l’Italia ha riservato a Battisti”. Il 14 gennaio 2019 alle 11.30 Cesare Battisti atterrava a Ciampino su un Falcon 900 del Governo italiano. L’areo era partito dalla Bolivia. Battisti era stato arrestato due giorni prima dall’Interpol e subito estradato in Italia. L’ex terrorista, senza manette, è stato preso in consegna dal Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria e portato a Rebibbia. Immagini di Giuseppe Fiasconaro e Fabio Falanga Il garbo del suggerimento scritto lascia il posto all’amarezza a voce: “Io spero che questa vicenda serva da monito ai francesi. Che non ci restituiscano ottantenni a cui questo Stato non garantisce una detenzione legittima”. Chiediamo a Steccanella se Battisti è oggi pentito delle ammissioni del 2019. “No, perché quella non fu una strategia. Allora pensò, pensammo di rivolgerci a uno Stato che non faceva sconti ma rispettava i diritti. Che ci si potesse fidare. Forse, quello pentito sono io, nel vederlo sepolto come un criminale nazista o un boss mafioso al 41 bis”. Gli appelli dell’ex leader dei Pac (da “Guantanamo Calabro”), messi per iscritto e pubblicati sul blog d’area Carmilla online sono usciti dal recinto delle letture per addetti ai lavori per approdare al terreno della discussione pubblica. Su cui non possono che intrecciarsi le indignate reazioni di Maurizio Campagna e Alberto Torregiani - fratello dell’agente Digos Andrea e figlio dell’orefice Pierluigi - e la loro incrollabile ostilità alle richieste dell’ex terrorista. In Procura a Milano nessuno lo ammette esplicitamente, ma sarebbe altamente gradito un abbassarsi dei toni. Nell’interesse dello stesso Battisti (nessuno, né all’Antiterrorismo né altrove, lo ritiene più capace di nuocere), la cui voce viene però ritenuta dal Dap ancora potenzialmente capace di fare proseliti. E per non danneggiare le procedure di estradizione di Petrella, Pietrostefani, Tornaghi e gli altri. Con la posizione di Luigi Bergamin che rimane appesa al proverbiale filo. Anzi due. Il Tribunale di Sorveglianza, che dovrà discutere il ricorso dell’avvocato Giovanni Ceola contro la dichiarazione di “delinquenza abituale” a quattro decenni dagli ultimi reati commessi. E la Cassazione, dove il pm Adriana Blasco ha presentato a sua volta ricorso contro l’interpretazione sulla prescrizione. Due partite delicatissime e in punta di giurisprudenza, che potrebbero trascinare l’esito delle altre posizioni. Lo studio di Rue Lacepede - “Ho difeso Battisti una prima volta, nel 1991, riuscendo a bloccare l’estradizione, e poi la seconda volta nel 2004 fino a quando ha deciso di scappare dalla Francia e cambiare avvocato”. Nel suo studio parigino, Irène Terrel, sessantenne di piccola corporatura, con un caschetto castano e l’aria della studiosa più che della passionaria, ha in bella mostra l’enciclopedia di Fortunato Bartolomeo De Felice, editore illuminato della fine dell’Ottocento, presentato come “un Diderot italiano”. È un antenato di suo marito, Jean-Jacques De Felice, avvocato famoso per aver difeso una sorta di internazionale degli insorti. Dai combattenti algerini del Fln (Front de libération nationale), all’etnia kanak in Nuova Caledonia. I primi italiani vennero a trovare la coppia De Felice-Terrel alla fine degli anni Settanta dopo che si erano occupati dell’affaire Hypérion, la scuola di lingue accusata di essere una “centrale francese” in grado di tirare le fila della lotta armata contro lo Stato italiano. Da allora decine di “rifugiati” sono passati dallo studio di rue Lacépède, palazzo moderno e un po’ decrepito nel quinto arrondissement, diventato, come confida Terrel, “punto riferimento non solo giuridico ma anche umano” per chi aveva deciso di scappare dall’Italia. Dal 2008, quando De Felice è morto, è rimasta solo lei in prima linea, Irène. Con molti dei suoi clienti è ormai amica e sembra aver sviluppato quasi un istinto materno per la determinazione con cui vuole proteggerli. “Quello che sta succedendo è un delirio, una vendetta assurda”, ripete più volte, spiegando che “l’esilio” dei suoi assistiti - sette dei dieci estradandi - non è mai stato una “passeggiata di salute”. La Francia ha regalato loro la possibilità di una seconda vita, certo, ma insiste sulla loro “precarietà”, sul timore di qualche tranello che potesse far precipitare la loro normalità. A parte qualche eccezione, di cui Battisti è la più vistosa, la maggior parte dei latitanti si è imposto silenzio e anonimato. Una strategia che Terrel continua a seguire. Inutile chiederle di parlare con i suoi clienti. Si è convinta che qualunque cosa dicano verrebbe usata contro di loro e che finché resterà aperto il fronte giudiziario non saranno “liberi di esprimersi”. A Parigi, Battisti aveva un lavoro come portiere in un immobile, prendeva i diritti dei suoi romanzi gialli, alcuni pubblicati con la prestigiosa “Gallimard”. Nel braccio di ferro con la giustizia italiana che ne chiedeva l’estradizione era rappresentato appunto dalla coppia De Felice-Terrel. Poi, la romanziera Fred Vargas ne ha sposato la causa, decidendo di ingaggiare a sue spese un altro avvocato e ribaltando la linea difensiva: non più rifugiato politico ma vittima di un errore giudiziario. Vargas ha pubblicato un pamphlet, “La vérité su Cesare Battisti”, nella quale fa una ricostruzione, a tratti farneticante, delle procedure giudiziarie italiane. Né ha cambiato idea dopo l’arresto in Bolivia e l’ammissione di colpa. “Le sue dichiarazioni non rimettono in discussione i risultati delle mie ricerche. Avete il diritto di considerarmi un’imbecille, un’ingenua, ma mi ero estremamente documentata”. E questo perché nel suo entourage alcuni sono convinti che la confessione sia stata estorta con chissà quali mezzi. È un fatto che il caso Battisti sia ormai motivo di imbarazzo tra quelli che un tempo si mobilitavano in piazza cantando “Bella Ciao”. Terrel di Battisti non vuole più parlare. “Ha deciso di essere cavaliere solitario, quindi non mi esprimerò più su di lui”. La dottrina Mitterrand tradita da Mitterrand - Irène Terrel continua a difendere quello che secondo lei era il senso originale del patto stipulato tra lo Stato francese e decine di italiani che avevano preso parte alla lotta armata. Quando François Mitterrand, dopo un colloquio con l’allora premier Bettino Craxi, annunciò nel 1985 che la Francia non avrebbe estradato gli ex terroristi italiani, fece una precisazione che all’epoca pareva importante: “Tranne quelli che hanno commesso crimini di sangue”. Doveva essere quello, il criterio. Ma il machiavellico presidente socialista, che voleva accontentare militanti della gauche molto attivi nella difesa dei compagni italiens, poco dopo modificò la sua posizione durante un raduno della “Ligue des Droits de l’Homme”. In modo più tranchant: “Non li estraderemo, punto”. È accaduto così che la protezione francese per i latitanti si sia allargata e ristretta negli anni. Una coperta tirata da troppe parti. Al magistrato Louis Joinet, incaricato di seguire le regolarizzazioni, Mitterrand aveva spiegato il suo intento. “Non dobbiamo capire solo come si entra nel terrorismo, ma come se ne esce. È questa la vera domanda politica che ci dobbiamo porre”. La risposta ha provocato una scia di incomprensioni e rancori che si sono trascinati fino ai nostri giorni. Al di là dell’ambiguità di una dottrina basata solo su dichiarazioni dell’allora capo di Stato, l’avvocata Terrel ricorda concreti “effetti giuridici”. I latitanti italiani condannati per reati di terrorismo in Italia hanno ottenuto permessi di soggiorno presso le Prefetture, sempre rinnovati, e poi diventati permanenti. In due occasioni, prosegue l’avvocata, le autorità francesi hanno proceduto ad aggiustamenti normativi per permettere che non venissero fermati i rifugiati: prima togliendo i loro nomi dagli archivi delle persone ricercate durante la creazione dello spazio Schengen e poi con la postilla che non prevede di applicare il Mandato di arresto europeo per i reati commessi prima del 1993. Non è mai stato uno scudo totale. Nel tempo, quasi un centinaio di latitanti italiani è stato fermato Oltralpe nell’ambito delle procedure di estradizione. L’ultimo era stato Ventura, tre anni fa. Per alcuni ci sono stati pareri favorevoli, poi bloccati a livello governativo. Altri, hanno invece ottenuto in passato vittorie sul piano giudiziario. Terrel invoca il principio del ne bis in idem. “Il potere politico si permette oggi di chiedere a dei giudici di modificare le loro sentenze già pronunciate che, fra l’altro, hanno acquisito la forza del passato in giudicato”. Nelle udienze che si terranno presso la chambre d’instruction, la sezione della Corte d’appello che deve esaminare le nuove domande di estradizione, verrà sollevato anche il problema delle condanne in contumacia. Secondo la legge francese, le persone hanno diritto a un nuovo processo. Mentre in Italia le sentenze sono definitive, anche se andrebbe ricordato che gli imputati si sono volontariamente sottratti ai processi, a volte minacciando avvocati e magistrati. Un altro punto che la difesa vuole sollevare è l’ipotesi di violazione della vita privata e famigliare sulla base di articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Insomma, la battaglia giudiziaria spazierà dal piano tecnico a quello più storico-politico. E sarà comunque lunga. Si parla di anni, con vari gradi di ricorso fino al Consiglio di Stato. Terrel è convinta che alla fine non se ne farà niente, e insiste sul fatto che solo i crimini dell’umanità non conoscono prescrizione. Vuole anche far venire in tribunale avvocati italiani per spiegare come funzionano le regole di detenzione in Italia che, a suo dire, sarebbero più dure che in Francia. E proprio il caso di Battisti - il suo sciopero della fame nel carcere calabrese in cui è detenuto, il suo “appello per la giustizia” - potrebbe tornare utile alla difesa, per appoggiare la sua tesi di uno Stato solo in cerca di “vendetta”. Ma per comporre le tessere di questa storia, e in qualche modo provare a intuirne anche l’approdo giudiziario, conviene spostarsi di quartiere e bussare a un’altra porta. Il poliziotto in Rue de Varenne - Nella villa settecentesca del settimo arrondissement che Mussolini ottenne in cambio della concessione di Palazzo Farnese, la nostra rappresentanza diplomatica ha custodito per decenni un voluminoso archivio di sentenze e carte bollate, reperti dell’archeologia politica del Secolo breve. Gli ambasciatori che hanno abitato la dimora di rue de Varenne in stile neoclassico, con un delizioso teatrino rococò siciliano, hanno attraversato momenti di speranza, e di disillusione. Per molto tempo è stato, anche, un gioco delle parti. Nel gergo diplomatico francese la questione degli ex terroristi protetti dalla dottrina Mitterrand appartiene alla categoria degli “agenti irritanti”, contenziosi di difficile soluzione. Che avvelenano le relazioni bilaterali. E, come tali, da evitare. Nicola Falvella è già a Parigi da cinque anni quando riceve da Roma l’ordine di riprendere in mano i dossier. Il responsabile dell’ufficio dell’Esperto per sicurezza dell’ambasciata è cresciuto nella memoria dei caduti del terrorismo e si è formato nella Digos di Roma, allora guidata da Franco Gabrielli, futuro capo della Polizia e oggi sottosegretario per la Sicurezza nazionale, e del suo allora vice Lamberto Giannini, l’attuale capo della Polizia. Falvella è il poliziotto che nell’ottobre 2003 ha arrestato Roberto Morandi. “Mi dichiaro prigioniero politico” aveva detto l’esponente delle Nuove Brigate Rosse, interrompendo la lettura dell’ordinanza d’arresto. E, a Parigi, è il terminale del direttore della Polizia criminale Vittorio Rizzi. Anche se di tutt’altra matrice, sempre di attentati si occupa nel suo lavoro di collegamento con le autorità francesi. Nel 2015 è cominciata la stagione del terrorismo islamico, nella quale sono coinvolte anche vittime italiane, giovani espatriati come Valeria Solesin o Antonio Megalizzi. Falvella deve far ripartire procedure sepolte da quasi vent’anni, dal periodo in cui si era accesa la battaglia intorno all’estradizione di Battisti, scappato un attimo prima che le autorità giudiziarie francesi si pronunciassero favorevolmente. Una volta ottenuto l’asilo politico dal Brasile, l’ex esponente dei Pac ha sostenuto di essere stato aiutato nella fuga dai servizi segreti francesi, che gli avrebbero fornito un passaporto falso. La versione che ne fornisce Dominique Perben è diversa. “Avevamo deciso di voltare pagina, senza nessuna ambiguità” ricorda l’allora Guardasigilli venuto dal partito neogollista che aveva già dato il via libera all’estradizione lampo di Paolo Persichetti, l’unico latitante mai rinviato dalla Francia, chiesto dalle autorità italiane nella falsa pista di un suo coinvolgimento nel delitto Biagi firmato dalle nuove Br. Qualche tempo dopo, sempre Perben avvia la procedura per Battisti. Purtroppo l’autorità giudiziaria concesse la libertà vigilata - ricorda - e lui ne approfittò per scappare. In Brasile sulle orme di Cesare Battisti, latitante in fuga in un Paese immenso - Dove è fuggito Cesare Battisti dopo la firma del decreto di estradizione in Italia firmato dal presidente brasiliano Michel Temer del 14 dicembre 2018? Le indagini sono partite da Cananeia, l’isola brasiliana a 250 chilometri da San Paolo che ha ospitato il latitante condannato in Italia per quattro omicidi compiuti negli anni Settanta. Risalgono a quel periodo gli ultimi aggiornamenti sui dossier dei latitanti. “Sul principio - prosegue l’ex ministro francese - eravamo d’accordo nell’accogliere le domande, siamo sempre stati disponibili a lavorare insieme”. Ma le altre procedure non andarono avanti. “C’erano spesso irregolarità giuridiche - conclude Perben - oppure non eravamo sicuri che alcune persone si trovassero effettivamente ancora in Francia”. Tra ostacoli reali o pretestuosi, sono passati anni. Quando anche Nicolas Sarkozy, il presidente di destra che pure odiava l’eredità del Sessantotto, decide di bloccare l’estradizione di Marina Petrella, cade una pietra tombale. Almeno questo è il messaggio. È Carla Bruni Sarkozy che porta la notizia all’ex brigatista nel frattempo ricoverata in gravi condizioni all’ospedale psichiatrico Sainte-Anne, accompagnata dalla sorella, l’attrice Valeria che ha perorato la causa. “Ho un messaggio da parte di mio marito: lei non sarà estradata” annuncia la première dame. La consegna all’Italia non viene effettuata in forza della clausola umanitaria contenuta nella convenzione europea del 1957. Nel film La seconda volta di Mimmo Calopresti, Bruni Tedeschi ha interpretato Elisa, un’ex brigatista in semilibertà che affronta un professore universitario al quale ha sparato dodici anni prima. “Dicevate: colpirne uno per educarne cento. Avete colpito me. Dove sono i cento che avete educato?” le chiede l’uomo, interpretato da Nanni Moretti. “Io non ci ho pensato più, non ci voglio più pensare” risponde Elisa. Si riparte da zero - Dopo il caso Petrella, tanti a Roma si convincono che il contenzioso non sarà mai risolto. Cambiano altri quattro premier a Palazzo Chigi, non se ne sente più parlare. E invece si riparte da zero. Anzi, da quattordici. Tanti sono i nomi nella lista che il ministero di via Arenula manda nel febbraio 2019. Ci sono già Giovanni Alimonti, Luigi Bergamin, Roberta Cappelli, Enzo Calvitti, Maurizio Di Marzio, Giorgio Pietrostefani, Sergio Tornaghi, Raffaele Ventura. L’elenco è in parte già superato, la lista comincia a restringersi. Paola Filippi e Enrico Villimburgo vengono dichiarati deceduti. Altri fascicoli vengono scartati perché prescritti o con rilievi tecnici che rendono improcedibile l’estradizione, che è il motivo per cui si salvano Ermenegildo Marinelli e Paolo Ceriani Sebregondi. Al loro arrivo in place Vendôme, la sede del ministero della Giustizia, i tecnici italiani hanno una prima sorpresa. Confrontando la lista con i francesi, vedono una nota a margine che correda ogni fascicolo. “Prescription”, “prescription”, “prescription...”. Prescrizione. Ad eccezione dei quattro condannati all’ergastolo, infatti, tutti gli altri latitanti vedono la loro pena già estinta. Quantomeno secondo quanto previsto dall’ordinamento francese. C’è dunque un’unica strada percorribile per l’Italia: ratificare la convenzione di Dublino che prevede che, in materia di prescrizione, si applichi la legge penale del paese richiedente. Per paradosso, l’Italia non aveva mai fatto proprio nel suo ordinamento quell’accordo europeo del 1996 per una preoccupazione garantista, nel timore cioè di dover accettare domande da paesi dove l’estinzione della pena non fosse in linea con la propria cultura giuridica. La crisi Di Maio - Gilet gialli - “Il vento del cambiamento ha valicato le Alpi”. Nel mezzo delle discussioni bilaterali sugli ex terroristi rossi, si presenta a Parigi Luigi Di Maio per partecipare a un incontro clandestino con dei gilet gialli. La sortita del vicepremier pentastellato provoca una crisi diplomatica che spinge la Francia a richiamare per qualche giorno l’ambasciatore a Roma, Christian Masset. La nostra ambasciatrice, Teresa Castaldo, lavora per ricucire lo strappo dietro le quinte. E alla fine risulta decisivo l’intervento del presidente Sergio Mattarella, in visita ad Amboise, la città della Loira dove è morto Leonardo da Vinci. Il capo dello Stato rinnova a Macron la sollecitazione a “trovare un accordo su una questione delicata come quella delle estradizioni”, ricordando che la “ricerca di giustizia per le vittime è un principio irrinunciabile”. Dopo aver ratificato la convenzione di Dublino, che entra in vigore in autunno, il 2020 sembra dunque l’anno della svolta. La strana caccia - A gennaio 2020, parte da Roma un corriere per portare a Parigi i fascicoli che riguardano gli estradandi. Tutti i documenti sono protocollati, comprese le sentenze di merito. Alcune di oltre mille pagine, come quella del processo Moro Ter. Il nostro ministero di Giustizia ha ufficializzato la lista definitiva. Dieci nomi. Sul piano formale, l’allora Guardasigilli francese Nicole Belloubet continua a promettere al suo collega e omologo Alfonso Bonafede di volere esaminare “caso per caso”. Nei fatti, tutto va a rilento. La crisi nei rapporti bilaterali provocata da Di Maio, per quanto rientrata, ha lasciato degli strascichi e i rapporti tra Macron e Giuseppe Conte si sono raffreddati. Per altro, anche la pandemia non aiuta. Il “Bureau d’entraide penale internationale” manda diverse richieste di integrazione sui dossier ricevuti, in una fitta corrispondenza tra Parigi e Roma che va avanti fino all’estate. All’ambasciata italiana è la magistrata di collegamento, la piemontese Roberta Collidà, a interfacciarsi con i colleghi francesi. In parallelo, il responsabile dell’ufficio sicurezza dell’ambasciata Falvella lavora con il maggiore dei carabinieri Valentino Nevosi e il commissario di polizia Caterina Baglivi per localizzare i dieci italiani. Sono cittadini ormai perfettamente integrati nella società francese, anche se nelle “red notice”, gli avvisi di ricerca dell’Interpol, i loro nomi compaiono con l’avvertenza: “Violento, Pericoloso”. È una strana caccia. Se è vero infatti che molti lavorano, versano i contributi, hanno figli a scuola, sono da anni regolarizzati con permessi di soggiorno rilasciati dalle Prefetture, è altrettanto vero che non è così facile ricostruire indirizzi, abitudini, rete di contatti. Le autorità francesi hanno infatti apposto sui “red notice” Interpol la sigla “Ivp”, indicateur validité permanent, che nel gergo tecnico è il caveat formale che impedisce qualsiasi accertamento della polizia giudiziaria su quei rifugiati. Già, sono esistenze opache, inafferrabili, quelle che incrocia questa strana caccia. Parlando con i colleghi della Sous-direction anti-terroriste (Sdat), il servizio dell’antiterrorismo francese, Falvella descrive un’indagine che insegue delle ombre, dal colore politico un tempo definito. “Ombres Rouges”. Nasce così il nome dell’operazione. A settembre 2020, Falvella sente di essere finalmente a una svolta. Ha lavorato nella massima discrezione come gli ha insegnato l’allora capo della polizia Franco Gabrielli: “I funzionari dell’antiterrorismo non sono uomini da prima pagina”. I dieci fascicoli sono stati dichiarati ricevibili dai tecnici francesi del ministero. È stata svolta un’attività informativa che ha integrato i fascicoli dei latitanti, sin lì corredati solo da vecchie foto segnaletiche in bianco e nero, di immagini che consentono di dare un volto a quelle ombre. Uomini e donne sorpresi nella loro quotidianità. Affacciati alla finestra di buon mattino, come nel caso di Pietrostefani. In bicicletta durante la spesa. Incanutiti. In qualche caso, segnati dalla malattia. Vinti dal tempo prima ancora che dalla storia. E privi di ogni residua epica rivoluzionaria. Il momento propizio per far scattare l’operazione, è fissato in coincidenza con la visita di Stato di Mattarella in Francia prevista a inizio ottobre del 2020. Ma la seconda ondata del Covid che travolge l’Europa e la decisione di spostare il viaggio del capo dello Stato impongono un nuovo rinvio. L’operazione Ombre Rosse svanisce di nuovo. Torna ad essere una chimera. E qualcuno comincia a pensare davvero che quella partita forse non si chiuderà mai. Come ormai sappiamo, resta davvero da percorrere solo l’ultimo miglio. “Anni di sogni e di piombo” - Seduto al bistrot du Marché, Alessandro Stella rievoca con nostalgia un’epoca intrisa di sangue. “Années de rêves et de plomb” (éditions Agone), “Anni di sogni e di piombo”, il memoir dell’ex militante di Autonomia operaia, ha rotto la legge del silenzio che tanti fuoriusciti dalla lotta armata si sono imposti in cambio della protezione Oltralpe. “Per me è più facile perché non ho sparato a nessuno”, ammette Stella, una faccia da vecchio rocker, sorseggiando un bicchiere di vino davanti al mercato di Montreuil, banlieue in corso di gentrificazione. Il libro è un omaggio ai tre “compagni” veneti morti nel 1979 mentre stavano preparando una bomba. Le vittime non sono solo da una parte. Anche noi abbiamo pagato un prezzo, argomenta Stella, condannato in contumacia a sei anni di carcere per associazione sovversiva e banda armata. Era il 1986 e lui già da qualche anno si trova in Francia, dopo essersi lasciato alle spalle l’Italia che fa i conti con una delle sue stagioni più buie e la “disaggregazione del movimento rivoluzionario”, tra pentiti, dissociati e quella che lui definisce “feroce repressione” dello Stato. Stella ha pensato a un certo punto di entrare nelle Brigate Rosse, ma si è poi reso conto che non ci credeva più, che ogni scelta, anche quella estrema, sembrava ormai inutile. Dopo un breve passaggio in Messico ha preso in parola il governo socialista francese che promette di accogliere i fuoriusciti dalla lotta armata. Gli agenti che lo fermano al suo arrivo rimangono basiti quando spiega che ha intenzione di chiedere asilo politico. Sembrava incongruo, scrive nel suo libro, che un cittadino della comunità europea potesse presentare tale domanda. La promessa viene mantenuta. Dopo una settimana, Stella è libero. Il suo dossier giudiziario finisce in fondo a un cassetto. Un’amnistia in contumacia, la definisce nel suo memoir. L’esponente del gruppo di Thiene ha fatto da apripista. Decine di altri seguono il suo esempio. A un certo punto, la piccola comunità di fuoriusciti dalla lotta armata sale fino a seicento persone, anche se un conteggio ufficiale non è mai stato fornito. I primi anni ci si deve arrangiare. Stella fa corsi di italiano, lavora come manovale nei cantieri come tanti altri “compagni” che alla fine riescono a costruirsi quelle vite piccolo-borghesi che un tempo disprezzavano. Calvitti è diventato psicoterapeuta. Ventura fa il documentarista televisivo, abita anche lui a Montreuil e ha trascorso le estati a Bonifacio, guardando dal mare l’Italia. Stella riprende gli studi e passa il concorso come ricercatore universitario al Cnrs, il Centro nazionale di ricerca. La sua prima tesi storica la dedica alla rivolta dei Ciompi che, spiega, gli ha permesso di fare una sorta di “autoanalisi”. Sposato con una francese, ha tre figli. Non ha mai nascosto il suo passato, né si è pentito. “Dichiararsi innocente come ha provato a fare Battisti è una cazzata”. A sessantacinque anni milita ancora per l’assunzione di una “responsabilità collettiva” dei reati commessi in quegli anni. Nella primavera Duemila, quando è stata dichiarata estinta la sua pena, è tornato a casa, nel vicentino, in tempo per salutare un’ultima volta suo padre che stava morendo. “Come tanti immigrati mi sono sentito uno straniero”, racconta Stella, descrivendo un paese dove secondo lui la storia degli Anni di Piombo è raccontata solo “dai vincitori” e le lotte sociali sono diventate archeologia. Anche se poi è costretto ad ammettere che pure la Francia è cambiata, “nella lotta contro il terrorismo islamico sono state approvate leggi repressive, le forze dell’ordine organizzano retate di gruppo”. Mostra una cicatrice sulla gamba. Una scheggia di granata della polizia che l’ha colpito durante una manifestazione dei gilet gialli. Nell’autunno 2018 ha aderito subito al movimento che ha attaccato l’Arco di Trionfo e minacciava di espugnare l’Eliseo. “Ho avuto l’impressione di rivivere i miei anni giovanili”. Una contestazione poliforme senza alcuna struttura ideologica. “Credete forse ci fossero i militanti che negli anni Settanta leggevano davvero i libri di Toni Negri?”, domanda polemico. Non ha una buona opinione del filosofo di Padova, uno dei primi a riparare in Francia, tuttora residente a Parigi. Negri, dice Stella, si è tenuto sempre in disparte dalla “compagneria”. Non si vedeva negli anni Ottanta quando venivano organizzate estenuanti assemblee tra i “rifugiati” per discutere dei massimi sistemi ma anche, più prosaicamente, se sottoporsi a una schedatura volontaria, come chiedevano le autorità francesi che non hanno fatto differenza tra innocenti, colpevoli, irriducibili, dissociati, tra chi rivendica e chi rinnega, ma per anni hanno organizzato una stretta sorveglianza, non si sa mai. Place des Amendiers - Una volta si potevano comprare i souvenir “aria di Parigi”. E in place des Amendiers, nel ventesimo arrondissement, si può venire oggi per respirare quel che resta degli Anni di Piombo. In un contesto surreale, in piedi sul palco, una signora parla di migliaia di prigionieri politici, di torture, del codice Rocco, di quando Cossiga aveva definito il conflitto degli anni ‘70 “una guerra civile a bassa intensità”. E il fatto che il comitato che lotta contro le nuove estradizioni abbia il Picconatore tra i maître-à-penser è solo uno dei tanti paradossi. Stella è stato uno dei promotori del raduno organizzato domenica 6 giugno a Belleville. E si era mobilitato per lanciare un appello pubblicato su “Libération”. Anche se questa volta la gauche, o quel che ne resta, secondo lui ha “tradito”, non si è mobilitata come in passato. Si canta “Le Temps des Cerises”, la canzone della Comune di Parigi, rivolta di cui si celebra il centocinquantesimo anniversario. Viene rievocato il messaggio di Victor Hugo ai deputati che dovevano votare in favore di un’amnistia per chi aveva commesso massacri durante l’insurrezione. “Soyez grands, soyez forts”. Qualcuno cita di nuovo le parole di pietà pronunciate dalla vedova Calabresi, dimenticando che il figlio Mario, venuto due anni fa a Parigi per incontrare Pietrostefani malato, ha anche chiesto agli ex terroristi di ammettere le loro colpe, di partecipare alla costruzione di una verità storica su quegli anni. Un rappresentante del quartiere ricorda che Petrella lavora da dieci anni in un’associazione. Durante il primo lockdown, spiega, l’ex brigatista è andata a cercare gli anziani strada per strada. “Senza di lei molti sarebbero morti”. Il sindaco di un comune banlieue che l’ha conosciuta elogia la sua umanità e sottolinea che tre presidenti, quindici ministri e ventiquattro governi non hanno mai rinnegato la protezione per gli “esuli” italiani. Una narrazione che continua da quarant’anni identica a se stessa. E in cui continua ad essere regolarmente assente anche solo un pensiero per le vittime del terrorismo politico, le uniche fino in fondo innocenti in questa storia. Epilogo - È la fine del marzo di quest’anno e nella “compagneria” è scattato l’allarme. Tra avvocati e sostenitori dei “rifugiati” italiani gira voce che Macron sarebbe pronto a dare il via libera alle estradizioni chieste dall’Italia. Il 20 aprile, un collettivo di intellettuali firma un appello su Le Monde. “Riaffermare la Dottrina Mitterrand sugli esuli politici - si legge nel titolo - non significa dare all’Italia lezioni in materia di giustizia”. Una frase che però viene contraddetta quando i firmatari scrivono che gli ex terroristi (non vengono mai chiamati così ma sempre “esuli”) furono accolti perché, in certi casi, le condizioni del funzionamento della giustizia italiana, dettate dalla necessità di una risposta urgente alle derive terroristiche della contestazione sociale, lasciavano paradossalmente temere che non tutte le garanzie di equità fossero rispettate. I promotori dell’appello non spendono parole per le vittime del terrorismo, insistono sul fatto che è tempo di voltare pagina. “La guerra è finita”. È successo che qualche giorno prima - l’8 aprile - i due ministri della Giustizia si siano parlati. E che gli astri sembrino finalmente allineati. A place Vendôme è arrivato il nuovo Guardasigilli Éric Dupond-Moretti, diventato avvocato nel ricordo del nonno, un minatore marchigiano ucciso senza che la famiglia abbia mai ottenuto giustizia. Non è a lui che bisogna spiegare come la democrazia italiana ha combattuto il terrorismo interno, uno dei suoi film preferiti è “Avvocato!” dedicato al presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino Fulvio Croce assassinato dalle Brigate Rosse per aver accettato la difesa d’ufficio dei suoi capi storici. In via Arenula è stata nominata a febbraio l’ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia che parla perfettamente francese e cita a memoria i lavori sulla giustizia riparativa di Paul Ricoeur, il filosofo con cui Macron ha lavorato da giovane. “Qualunque processo di riconciliazione personale e sociale, individuale e storica - spiega Cartabia - non può non partire dal riconoscimento di ciò che è accaduto, in forma pubblica e - come direbbe Ricoeur - attraverso ‘una parola di giustizia’“. Cartabia e Dupond-Moretti si sarebbero dovuti incontrare di persona a Parigi ma il rimbalzo della pandemia - siamo alla terza ondata - li costringe a fare una riunione in video. La ministra ricorda la lista presentata un anno prima, con alcune posizioni che rischiano di cadere in prescrizione. L’intesa tra i due ministri tecnici è immediata, manca il vaglio politico. La nota diffusa il pomeriggio del 21 aprile da Palazzo Chigi è appositamente evasiva. “Al centro dei colloqui vi sono state la lotta alla pandemia, le prospettive economiche europee, la situazione in Libia e le relazioni bilaterali”. A margine, come non viene menzionato, Draghi e Macron parlano delle richieste di estradizione. Il premier non ha dovuto convincere il leader francese, già stato sensibilizzato in passato dal Quirinale, e a cui preme rafforzare subito le relazioni con il nuovo governo di Roma. Il giorno seguente l’Eliseo sblocca la procedura, trasferita dal Guardasigilli alla procuratrice generale della Corte d’Appello, Clarisse Taron. La magistrata a sua volta trasferisce gli ordini di arresto all’antiterrorismo francese. Che però deve occuparsi di altro. “Allah Akbar”. Una funzionaria di polizia viene uccisa all’arma bianca davanti a un commissariato di Rambouillet, sud-ovest di Parigi. Gli agenti della Sdat effettuano una serie di perquisizioni per rintracciare eventuali complici dell’aggressore. L’operazione “Ombre Rosse” viene rimandata. Ancora, e ancora. Cinque giorni dopo la telefonata tra Draghi e Macron, si apre un’opportunità per gli agenti che hanno il quartier generale a Levallois Perret, a nord della capitale. Si decide di chiudere. Resta poco tempo per fare le ultime verifiche sulle localizzazioni tra Parigi, la sua banlieue e Bordeaux, dove risiede Tornaghi. Mercoledì 28 aprile, si riunisce il consiglio dei ministri all’Eliseo. Il governo presenta una nuova legge contro il terrorismo, ennesimo cambio normativo da quando, sei anni fa, il Paese ha scoperto di avere una minaccia interna. È l’alba quando gli agenti della Sdat bussano alla porta di dieci “ombre rosse”. Qualcuno è stato avvertito, nessuno rimane sorpreso. La piccola comunità di fuoriusciti italiani può ancora contare su una rete di persone interne alle istituzioni francesi che non si sono dimenticate del patto degli anni Ottanta e continuano ad aiutarle dietro le quinte. Tre non si fanno trovare: Di Marzio, Ventura e Bergamin. Gli ultimi due si consegnano qualche ora dopo, convinti dagli avvocati della difesa che hanno chiesto la libertà vigilata per tutti. Di Marzio ha appositamente lasciato nei giorni precedenti il suo cellulare nell’appartamento del nono arrondissement dove si trova la moglie. Un modo per depistare gli investigatori. Scommette di riuscire a nascondersi per arrivare alla prescrizione prevista il 10 maggio. E ci riesce. Negli archivi di polizia italiana, il nome dell’ex brigatista è legato al tentato sequestro del vicecapo della Digos della capitale Nicola Simone il giorno della Befana del 1982. Ferito al viso, Simone aveva risposto al fuoco. Tra i rifugiati a Parigi quell’agguato è contestato oltre anche a Alimonti, a Petrella e Cappelli. Il vicequestore Simone, diventato poi prefetto, è morto tre mesi fa ad Avezzano, dopo aver osservato per decenni i suoi ex aggressori protetti dalla Francia. Il destino ha voluto che a farli arrestare abbia contribuito un altro Nicola. Falvella. La guerra, forse, è davvero finita. Carcere, punito il boss che sta troppo in doccia per mostrare la gerarchia mafiosa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2021 Il capo clan lasciando gli altri detenuti in coda faceva pesare la sua leadership. La sanzione: 10 giorni di esclusione dalle attività comuni. Confermata la sanzione disciplinare a carico del detenuto che resta 25 minuti sotto la doccia, lasciando gli altri carcerati in attesa del loro turno, per dimostrare il suo alto grado nella gerarchia mafiosa. Tra le mura di un carcere sono tanti i modi per imporre la propria leadership sul gruppo, compresa una doccia a oltranza, malgrado i solleciti ad uscire dell’agente di custodia. Prove di forza che la Cassazione (sentenza 22381) considera tanto inaccettabili da avallare la scelta di applicare al capo clan la sanzione disciplinare di 10 giorni di esclusione dalle attività comuni. Il ruolo di capo clan - Per la Suprema corte, a fronte di un tempo per lavarsi stimato in circa 10 minuti, i 25 impiegati dal ricorrente erano la spia di un comportamento inaccettabile, perché irriguardoso nei confronti dell’intera comunità penitenziaria e in contrasto con i principi sul corretto vivere civile. Ad avviso dei giudici di legittimità era chiaro lo scopo di porsi, attraverso l’abuso, al di sopra delle regole penitenziarie e dei diritti degli altri detenuti. Nella sanzione pesa anche lo spreco dell’acqua: da evitare come l’affermazione del ruolo di vertice del clan. Competizioni automobilistiche non autorizzate, la Cassazione chiarisce la pena in caso di morte di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2021 La sentenza n. 22768 depositata oggi fa il punto sulla disciplina da applicare. La Cassazione ha confermato la condanna emessa dalla Corte di appello di Venezia nei confronti di un automobilista rumeno per la morte dello sfidante, uscito di strada e finito contro un platano, durante una gara non autorizzata per chi fosse arrivato prima ad un bar della zona, nell’area del trevigiano. Con la sentenza n. 22768 depositata oggi la Quinta sezione penale ha dunque dichiarato inammissibile il ricorso contro la condanna a due anni di reclusione, ritenuta la continuazione, con la pena accessoria della revoca della patente di guida e il risarcimento del danno in favore della parte civile. La condanna nei confronti dell’imputato, è stata emessa, ai sensi dell’articolo 9 del Codice della strada (che vieta le competizioni), dell’art. 586 cod. pen. (Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto) e dell’art. 189, comma 1 e 7 Cds (Omissione di soccorso) “per aver gareggiato in velocità con altro veicolo, nonché per aver cagionato la morte dell’altro automobilista il quale, nell’effettuare una manovra di sorpasso, perdendo il controllo, usciva di strada alla propria destra collidendo contro un platano e riportando lesioni letali, il tutto senza prestare assistenza ed allontanandosi dal luogo del sinistro, senza allertare i soccorsi”. Per la Suprema corte dunque la qualificazione della condotta operata prima del Gip e poi dal giudice di secondo grado è corretta. Secondo la giurisprudenza di legittimità, spiega la sentenza, è configurabile una gara di velocità, vietata dall’art. 9-ter C.d.S. quando due o più conducenti di veicoli, senza preventivo accordo e per effetto di una tacita e reciproca volontà di voler competere l’uno con l’altro, pongono in essere una contesa, consistente nel tentativo di superarsi, ingaggiando una competizione da cui deriva un vicendevole condizionamento delle modalità di guida (n. 52876/2016). “È noto, poi (n. 10669/2019) - prosegue la Corte - che, in tema di circolazione stradale, in caso di violazione del divieto di gareggiare in velocità a cui consegua la morte di una o più persone, è configurabile il delitto di cui all’art. 9-ter, comma 2, C.d.S. e non anche il reato di omicidio stradale di cui all’art. 589-bis cod. pen., difettandone gli elementi costitutivi, atteso che, in tal caso, la morte non è determinata da una condotta colposa bensì dolosa, alla quale si accompagna la sola prevedibilità dell’evento”. “Questa Corte di legittimità - continua la decisione -, infatti, ha chiarito che nel caso in cui, nel contesto della gara, la morte sia dipesa da violazioni cautelari diverse dal gareggiare e sia presente anche la colpa, l’imputato potrà rispondere dell’omicidio colposo ex art 589-bis cod. pen. (oltre che del reato di cui al comma 1 dell’art. 9-ter C.d.S.), mentre, qualora la morte sia derivata tanto dal gareggiare che da altre violazioni cautelari e ciascuna sia assistita dal correlativo elemento soggettivo, avrà luogo il concorso materiale dei reati”. Quanto poi al mancato riconoscimento della speciale attenuante di cui all’art. 589-bis, comma 7, cod. pen. (prevista nell’omicidio stradale qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole”), il Collegio osserva che proprio la natura speciale della attenuante, ne giustifica la non applicabilità al diverso delitto di cui all’art. 586 cod. pen, “per il quale il ricorrente ha riportato condanna”. In via generale, infatti, ricapitola la Cassazione, va osservato che l’art. 586 cod. per, non prevede, per ogni categoria di omicidio e lesioni colpose, l’automatica applicazione dell’art. 589 e 590, ma solo che, qualora l’evento effettivamente cagionato sia sussumibile in tali disposizioni, le relative pene siano aumentate. Quando, invece, i fatti sono sussumibili nella fattispecie speciale di cui all’art. 589-bis cod. pen., l’aumento di pena previsto dall’art. 586 non si applica, perché esso trova applicazione solo in relazione ai reati di cui agli artt. 589 e 590 cod. pen. (sez. 3, n. 25538 del 14/02/2019). Le disposizioni di cui all’art. 589-bis cod. pen., dunque, sono speciali rispetto alle fattispecie richiamate dall’art. 586 cod. pen., in quanto le condotte di cui agli artt. 589 e 590 cod. pen. sono poste in essere dall’agente con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale. Ebbene, conclude la Cassazione, proprio di tale particolarità non si può non tener conto nella applicazione dell’art. 586 cod. pen., secondo cui “quando un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano disposizioni dell’articolo 83 cod. pen., ma le pene stabilite negli articoli 569 e 590 sono aumentate”. Si tratta di una particolare applicazione dell’aberratio delicti di cui all’art. 83 cod. pen., sicché, quando si è in presenza di condotte speciali tenute dall’agente trovano applicazione le disposizioni di cui agli artt. 589-bis e 590-bis cod. pen., in luogo degli aumenti di cui all’art. 586 cod. pen.. Diffamazione, va provato dolo se l’amministratore comunica il pignoramento di un condomino di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2021 La volontà di offendere l’onore altrui non è insita nell’attribuzione di un fatto “negativo” ma rilevante per gli interessi di coloro cui è comunicato. La comunicazione ad altri della qualità di debitore pignorato di una persona ha o meno valenza dispregiativa in sé? Soprattutto se tale attribuzione non è corredata da altre affermazioni offensive? E, in particolare sussiste un dovere dell’amministratore condominiale di rendere nota tale condizione agli altri condomini? Sono questi gli interrogativi a cui deve rispondere il giudice di merito al fine di accertare il dolo, anche eventuale, di diffamare dell’autore della diffusione di tale notizia. Come dice la Cassazione, con la sentenza n. 22777/2021, non è sufficiente affermare che la condizione di pignorato sia coperta da un naturale diritto di riservatezza del debitore per cui renderla nota a terzi ha automaticamente un intento diffamatorio in quanto è condizione che muove disapprovazione o spregio sociale. La Cassazione ha rinviato al giudice di merito la causa perché nel condannare l’amministratore condominiale - che aveva affisso negli spazi comuni un cartello che riferiva dell’avvenuto pignoramento contro uno dei condomini - aveva mancato di accertare l’intento diffamatorio, anche solo nella forma del dolo eventuale sufficiente comunque a far sorgere la responsabilità penale. In particolare il ricorso accolto dai giudici di legittimità puntava il dito sulla mancata considerazione dei doveri dell’amministratore verso tutti i condomini, che sicuramente avevano interesse a sapere che uno di loro fosse incapiente e perciò non in grado di adempiere agli oneri comuni facendoli ricadere sugli altri. Da cui l’interesse del condominio ad apprendere la notizia di dissesto economico di un inquilino non poteva essere messa in discussione. E il ricorrente non aveva altro che adempiuto a un proprio dovere di corretta informazione dei comproprietari amministrati. Infine, nel caso concreto il giudice dovrà accertare la circostanza affermata dall’amministratore secondo cui il condomino che si riteneva diffamato aveva lui avanzato richiesta di essere dispensato dagli oneri condominiali o di poter pagare in qualità di affittuario. Il che renderebbe ancor meno offensiva la condivisione con tutti i condomini. San Gimignano, (Si). Torture in carcere, il Ministero della Giustizia sarà parte civile gonews.it, 10 giugno 2021 Il Collegio del tribunale ha accolto la richiesta del Ministero della Giustizia di essere parte civile al processo, con rito ordinario, a Siena che vede imputati con l’accusa di tortura nei confronti di un detenuto cinque agenti della polizia penitenziaria del carcere di San Gimignano. La richiesta era stata presentata nelle scorse settimane dall’avvocatura di Stato. I cinque agenti erano stati rinviati a giudizio nel novembre 2020 con l’accusa di tortura e anche di lesioni aggravate, falso ideologico, minacce aggravate e abuso di potere nei confronti di un detenuto tunisino durante un trasferimento coatto di cella nel 2018. Altri 10 agenti sono invece stati condannati lo scorso febbraio in primo grado con rito abbreviato con pene dai 2 anni e 3 mesi ai 2 anni e 8 mesi. La prossima udienza è fissata per il 13 luglio. Ascoli. Carcere di Marino del Tronto, i detenuti protestano e rifiutano i pasti di Luigi Miozzi Gazzetta di Ascoli, 10 giugno 2021 Alcuni detenuti del carcere di Marino del Tronto hanno messo in atto una manifestazione di protesta pacifica per rivendicare i propri diritti. I carcerati rinchiusi nella sezione di alta sicurezza della casa circondariale di Ascoli, secondo quanto si apprende, si sarebbero astenuti ieri mattina dal ritirare la colazione e avrebbero consegnato una lettera al direttore del carcere e al comandante della Penitenziaria nella quale avrebbero manifestato il loro dissenso e avanzato le loro richieste. Una iniziativa avvenuta in un clima tranquillo, senza alcuna tensione. Alcuni detenuti sarebbero anche andati a parlare con il comandante facente funzioni degli agenti della penitenziaria al quale sarebbe stata ribadita, tra le altre cose, la necessità di un’area educativa adeguata, il montaggio di alcune zanzariere e di reti di protezione sopra le aree in cui ai detenuti è consentito il passeggio. Temi che probabilmente verranno messi sul tavolo insieme a quelli segnalati dagli agenti della polizia penitenziaria nel corso dell’incontro che si terrà la prossima settimana con i vertici regionali del Dap. I “baschi azzurri” lamentato la situazione di difficoltà in cui si trovano ad operare gli agenti e chiedono un decisivo impegno dei vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del ministero della giustizia per ottenere più tutele e garanzie per il personale. Negli ultimi tempi, infatti, sono diventate sempre più frequenti le aggressioni da parte dei detenuti nei confronti degli agenti in servizio all’interno del carcere di Marino del Tronto. Sassari. La pandemia non ha fermato il Pup didattica, lavoro e altri 4 laureati La Nuova Sardegna, 10 giugno 2021 Dopo un anno di didattica completamente a distanza, a causa della pandemia da Covid-19, il Polo Universitario Penitenziario (Pup) dell’Università di Sassari tira le somme e si rilancia per un futuro sempre più inclusivo grazie al miglioramento dei servizi e all’incremento della rete di partenariato istituzionale. Il bilancio ha il segno più: non solo è rimasto costante il numero di 60 studenti detenuti iscritti ai corsi dell’Ateneo di Sassari, ma dopo le due lauree già effettuate lo scorso anno (in piena pandemia), proprio in questo periodo si celebrano quattro lauree - una in Scienze dell’Educazione nel carcere di Alghero, tre in Lettere negli istituti di Tempio Pausania e Cuneo e uno studente in esecuzione penale esterna -e altre due saranno effettuate tra luglio e settembre: una in Economia e Management nell’istituto penitenziario di Alghero e una in Scienze dei Servizi Giuridici a Tempio-Nuchis. “É stato un anno molto impegnativo - commenta il delegato rettorale Emmanuele Farris, da sei anni coordinatore del progetto - che ci ha visti ogni giorno, dal 9 marzo 2020, cercare di fare il possibile per garantire il diritto allo studio delle persone private della libertà. Questa esperienza ci ha insegnato molto, ha dato a tutte le istituzioni coinvolte la spinta motivazionale per collaborare ancora più strettamente e dotarci di strumenti sempre più tecnologici, che non vanno considerati un lusso ma supporti fondamentali per portare la didattica universitaria in modo capillare a tutti gli istituti penitenziari regionali”. E così il Pup dell’Uniss ha trovato l’energia di portare avanti un progetto pilota nazionale per l’informatizzazione delle aule didattiche penitenziarie (insieme al Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria) tessendo una fitta rete di collaborazioni istituzionali. Questo sforzo sinergico è stato premiato anche dall’ottenimento di finanziamenti dedicati, per due anni consecutivi (2020 e 2021), dalla Fondazione di Sardegna, pari appunto a 32.000 euro, insieme alle risorse che l’Ersu mette a disposizione per l’acquisto dei testi. Ma il premio più bello e importante è la fiducia che gli studenti. Il numero di studenti detenuti iscritti all’Università di Sassari si è mantenuto costante rispetto all’anno precedente - 60 unità - e anzi è aumentata la percentuale di persone detenute che studiano all’Università: rispetto a una media nazionale dell’1,4% e a quella regionale del 3,1%, dove opera il Pup in media studia all’Università il 5,7% dei detenuti con eccellenze a Tempio (15%) e Alghero (11%). Il rettore Gavino Mariotti non nasconde la sua soddisfazione: “Risultati eccezionali che ci spingono a fare sempre di più e sempre meglio”. San Marino. All’Università criminologi e designer si interrogano su come migliorare le carceri unirsm.sm, 10 giugno 2021 Sabato 12 giugno un seminario insieme ad accademici ed esperti per ripensare le istituzioni penitenziarie. Quale può essere il contributo dato dal Design per rendere le carceri realtà migliori in termini di spazi, architettura e percorso dei detenuti? Questa una delle principali domande al centro del prossimo seminario dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino, durante il quale il master in Criminologia e Psichiatria Forense ospiterà alcuni rappresentanti del corso di laurea triennale in Design per una serie di interventi che affronteranno la tematica da molteplici punti di vista. L’appuntamento si svolgerà sia online che in presenza dalle ore 9 alle 18:30 di sabato 12 giugno, con pausa fra le 13 e le 14, nella sede dell’Ex Tribunale, in via Salita alla Rocca 44, nel centro storico del Titano. “L’istituzione penitenziaria, pur sancendo la separazione momentanea di un individuo dalla società, vuole oggi pensarsi come momento di risarcimento di quell’originaria frattura”, spiega Luca Morganti, architetto e collaboratore dell’Ateneo sammarinese. “In questa prospettiva, il Design dovrà riconquistare la vocazione sociale che troppo spesso dimentica. Il progetto sociale che, in anni passati, ci aveva illuso circa una migliore qualità della vita, con il tempo si è infatti dissolto nelle secche del mercato, lasciando non solo un vuoto nelle nostre esistenze, ma anche abbandonando una sua intrinseca caratteristica. Se nell’ambito della ricerca il Design tornasse a farsi carico delle potenzialità sociali che lo contraddistinguono come l’esponente più immediato del nostro “essere nel mondo”, allora sarebbe possibile accarezzare l’idea di un superamento delle forme concentrazionarie di ogni tipo”. Curato da Morganti insieme a Karen Venturini, docente dell’Ateneo sammarinese, il seminario vedrà la partecipazione di accademici ed esperti come Ferdinando Zanzottera, professore del Politecnico di Milano, Ernesto Venturini, delegato dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità per la psichiatria in Brasile, Riccardo Varini, direttore del corso di laurea triennale in Design dell’Università di San Marino, Massimo Renno, presidente dell’Associazione Botteghe del Mondo per il commercio equo e solidale, i designer Raffaella Brunzin e Tommaso Monaldi. Per richiedere informazioni su modalità e quote di partecipazione è possibile contattare l’indirizzo email genni.muccioli@unirsm.sm. Alessandria. I collaboratori di giustizia decorano la cappella del carcere di Roberta Barbi L’Osservatore Romano, 10 giugno 2021 Decidere di abbellire le mura spoglie della cappella di sezione, per dimenticare almeno quando si prega di trovarsi in un carcere: è quello che ha fatto un gruppo di collaboratori di giustizia della casa di reclusione San Michele di Alessandria, partecipanti al laboratorio Tecniche di decorazione e stucco proposto dalla Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri. Ma quello che hanno ottenuto alla fine del corso è stato più di una chiesetta accogliente e finemente decorata; è stato un percorso interiore importante che ha attraversato varie tappe: dalla rilettura della Bibbia (indispensabile per realizzare i dipinti) a quella della propria vita, sempre sostenuti dalle braccia forti, dalle orecchie attente e dai sorrisi larghi di fra Beppe Giunti, francescano dei minori conventuali del convento Madonna della Guardia di Torino. Difficile definire chi sia per loro fra Beppe: non è il cappellano, questo è certo, e non è neppure un insegnante, anche se con lui i detenuti - quasi tutti per reati legati alla camorra - di scuola parlano moltissimo: “Forse perché hanno sempre creduto di non averne bisogno, ahimè, ma il sentimento che associano di più alla parola scuola è nostalgia - racconta - mi dicono sempre: fra Beppe, se non aggiustate la scuola, la camorra vincerà sempre; la camorra ha paura della scuola…”. D’altronde lo diceva già Victor Hugo: “Chi apre la porta di una scuola, chiude una prigione”. E per loro scuola non significa solo lo studio della lezione, ma scoprire il valore di imparare, riuscire a stare con gli altri in modo diverso, conoscere finalmente una bellezza capace di aprire il cuore. Forse potremmo dire che fra Beppe per i detenuti è il punto d’unione tra la Parola letta e l’immagine da ritrarre: un esegeta insomma. Ride di questa definizione: “Uno dei ragazzi ha preso il compito talmente a cuore che è riuscito a realizzare dietro al crocifisso sull’altare un’opera con riferimento alle Sette Chiese dell’Apocalisse, un lavoro di alta teologia e di alta esegesi! Un altro detenuto, invece, colpito dalla stazione della via crucis che stava preparando, in cui Gesù cade sotto il peso della croce, ha mormorato: come me che sono caduto sotto al peso del peccato per 30 anni, ma poi mi sono rialzato”. Allora forse fra Beppe è una guida spirituale verso una fede rinnovata? “L’espressione “percorso di fede” fa parte del nostro linguaggio - spiega ancora - loro sono abituati alla lingua della strada, ed è attraverso questa che io comunico con loro, perciò direi più correttamente che quella che hanno raggiunto è un’umanità ritrovata, hanno capito che Dio non t’impicca al tuo passato, ma ti prende la mano se tu gliela tendi”. Sicuramente questo francescano è qualcuno che il volto di Cristo in carcere lo vede tutti i giorni nei lineamenti dei reclusi, duramente scolpiti dalla vita: “Una volta uno mi ha regalato un quadro che aveva fatto e rappresentava Gesù con la corona di spine e il viso sporco di sangue - ricorda - loro sono questo: soffrono come Gesù, ma per i propri peccati, e risorgono nel momento in cui si pentono e iniziano a collaborare con la giustizia. Le ferite, però, si vedono ancora, perché non smettono di fare i conti con il passato. Spesso e volentieri, infatti, restano folgorati dal passo del Vangelo in cui Gesù promette al buon ladrone che presto saranno insieme in Paradiso”. Magari fra Beppe è un educatore, come ce ne sono pochi… fuochino: “Credo molto nel significato di educare nel senso di far emergere qualcosa che si ha dentro, e poi ricordo che l’articolo 27 della nostra Costituzione precisa che questo è il fine della pena, non è una vendetta sociale!”, aggiunge. Proviamo a immedesimarci un attimo. Una figura così non sembra quella di un padre? “Mi viene in mente una storia - prosegue con un filo di voce - quella di un detenuto che mi chiedeva come poteva pregare il Signore chiamandolo Padre Nostro quando lui, con tutti gli assassinii che aveva commesso, di figli senza padre ne aveva lasciati tanti”. Finalmente è chiaro. Fra Beppe per i suoi detenuti è un fratello e loro per lui sono i “fratelli briganti”, come li chiamava il Poverello di Assisi. Ed è così che, tra i pennelli e i colori di una semplice cappella carceraria, può affacciarsi per l’uomo la possibilità di riconciliarsi, che non vuol dire dimenticare, bensì andare avanti. E risorgere. Come Gesù, che guarda caso è nostro fratello. “Abolire il carcere”. La proposta del Movimento No Prison di Maurizio Ermisino retisolidali.it, 10 giugno 2021 Il libro “Perché abolire il carcere. Le ragioni di No Prison”, di Livio Ferrari e Giuseppe Mosconi, spiega perché e come il carcere si può abolire. Abolire il carcere si può? O è pura utopia? Il Movimento No Prison, nato nel 2014, continua la sua attività di sensibilizzazione attraverso un nuovo libro: “Perché abolire il carcere. Le ragioni di No Prison” (Apogeo Editore), di Livio Ferrari e Giuseppe Mosconi. Oggi sembra non possa esserci alternativa al carcere, mentre, secondo il movimento No Prison, è necessario progettare la sua abolizione e sostituzione con forme diverse di gestione degli illeciti (ne avevamo parlato qui). L’abolizione della prigione non è un’utopia. “No Prison è un’idea nata nel 2012”, ci ha raccontato Livio Ferrari, giornalista e scrittore, fondatore e portavoce del movimento. “Nove anni fa diversi di noi, i cosiddetti “esperti del carcere”, furono coinvolti in un incontro del gruppo Abele. Ci confrontammo per una serie di proposte e di possibili politiche riguardanti il mondo del carcere. A me, come a Massimo Pavarini, venne una nausea grande. Dopo 30 anni di attività, sentire sempre i soliti discorsi, le solite cose che non vanno, le solite toppe da mettere, non andava giù. Sono discorsi che in casa sua uno non fa: se hai un frigo rotto o lo ripari o lo cambi. Il mio intervento a quel summit fu l’unico che non rientrò negli atti, era troppo dissacrante…”. “Dopo mesi in cui mi bolliva dentro un grande fastidio, chiamai Massimo. Venne a trovarmi a Rovigo e iniziammo a costruire il manifesto No Prison. Nel 2014 lo presentammo a Firenze. Nel 2015 uscì il mio libro “No Prison, il fallimento del carcere”, in cui ho scritto tutto quello che ritenevo dovesse essere scritto, per dire che è un sistema che non funziona. Ho visitato 40 istituti in tutta Italia e ho viste le condizioni in cui vivono i detenuti”. Il carcere nasce per tenere i poveri ai margini - La povertà, per chi è ristretto nelle carceri italiane, è l’elemento caratterizzante della distanza che li separa dal resto della società. Ed è una delle cose di cui tenere conto quando parliamo della prigione. “Il carcere nasce verso la fine del 1500 per i poveri, non per i reati”, spiega Ferrari. “Nasce per tenere ai margini della società i poveri. Nel 1700 a Napoli fu costruito il Real Albergo dei Poveri che diventò una prigione: prendevano tutti quelli che facevano accattonaggio e piccoli furti e li mettevano lì. Il carcere nasce per togliere dalla società le persone che davano fastidio”. E così continua ad esistere, nel totale disinteresse o, nel peggiore dei casi, dell’odio nei confronti di chi è detenuto da parte dei liberi che non hanno nessuna voglia di approfondire la questione. “La vendetta fa parte della nostra storia umana”, riflette Ferrari. “Ci fu qualcuno, dicono che fosse Dio, che quando Caino uccise Abele disse “chiunque tocchi Caino se la dovrà vedere con me”. Restituire il danno alle vittime e dignità alla persona - No Prison allora vuole provare ad andare oltre a questo sistema. “È un’idea semplice”, spiega Livio Ferrari. “Qualsiasi soggetto che ha compiuto un reato, indipendentemente dal reato, se non è pericoloso, non ha nessun senso che venga privato della libertà. Intendiamo non pericoloso nel senso che non può fare del male”. “Io non dico che deve essere immediatamente libero”, precisa Ferrari. “Ma dopo un lasso di tempo può tornare in libertà. Se lasci una persona per tanti anni a pagare con il carcere lo sollevi dalle responsabilità. Ma una persona, che abbia fatto del male o meno, deve avere responsabilità. Allora quella condanna la metti in atto in libertà, in modo che possa restituire il danno alle vittime. E dignità alla persona”. Ma come si fa, in pratica, a restituire il danno arrecato? “Ci sono due percorsi sui quali confrontarci”, spiega Ferrari. “Se è un danno materiale la restituzione può avvenire attraverso il lavoro, le attività. Se però è un danno umano, uno ha ucciso e non può restituire la vita, ci può essere un percorso di restituzione alla società”. Carceri: fatte per l’afflittività - La prigione umilia, annulla, stigmatizza e impone il dolore, la sofferenza, è crudeltà, crea la mancanza di responsabilità verso il proprio comportamento e aumenta la pericolosità di tutti coloro che vi transitano. È importante allora che si pensi a una sua sostituzione con forme diverse di gestione degli illeciti. “Le carceri che abbiamo noi sono luoghi disumani, che non sono stati fatti per la rieducazione ma per l’afflittività”, spiega Livio Ferrari. “Hai fatto del male e ti restituisco un momento in cui devi star male a tua volta”. La conformazione delle carceri, in qualche modo, è paradossale. “La cosa emblematica è che le carceri sono molto grandi, ci sono corridoi lunghissimi, spazi mostruosi e i luoghi dove vivono le persone sono buchi di tre metri” riflette. “Dobbiamo tenere conto che ci sono quei soggetti per i quali non è possibile tornare in libertà. Ci sono soggetti che non vogliono cambiare e sono pericolosi. O hanno problemi di natura psichiatrica, come i serial killer, che se tornano in libertà riproducono le dinamiche che li hanno portati a delinquere. Queste persone non possono vivere dentro un buco tutta la vita: è disumano. Bisogna ripensare completamente gli spazi della non libertà: devono dare la possibilità di vivere come e in altri posti e di muoversi. E il tempo che i detenuti trascorrono in carcere deve venire usato per aiutare le persone a riscattarsi e in modo che possano dare dei benefici restitutori alla libertà”. “E nel momento in cui un soggetto non è pericoloso rientra in casa sua, entra in un programma sociale con una serie di attività si restituzione del danno attraverso il lavoro e altre cose indicate dal programma” continua. Ma, chiediamo a Ferrari, in questi anni il Movimento No Prison ha suscitato polemiche, ha avuto oppositori, c’è stata una parte della popolazione che si è dimostrata contraria a questa idea. “C’è un gran silenzio”, risponde con rimpianto Ferrari. “A noi sarebbe molto piaciuto che qualcuno avesse fatto presente la sua contrarietà, e il motivo di tale contrarierà. Invece non ho avuto nessun tipo di critica. Il massimo delle critiche che ho avuto è stato sentirmi dire che sono un utopista, un sognatore, e che un po’ di utopia fa bene alla società”. “Anche i sindacati della polizia penitenziaria - e da anni scrivo cose pesanti su questo corpo - hanno recensito bene il mio libro, e mi hanno invitato a confrontami con loro, perché hanno molte cose da raccontare”. Ma Ferrari è anche molto deluso dal mondo dell’informazione. “Sui grossi media non riusciamo ad arrivare”, racconta. “Anche se inviti a una presentazione un giornalista di un famoso giornale italiano, viene a moderare un dibattito e poi gli proponi “facciamo un articolo per il tuo giornale”, poi dice di no”. Ma c’è un altro ambito dove le istanze del Movimento No Prison non vengono ascoltate. “Un mondo che abbiamo cercato e non abbiamo trovato, è l’attuale mondo politico” ci svela Ferrari. “Alcune compagini politiche che non ci sono più, avevano dimostrato una certa attenzione. I politici di oggi ci guardano i marziani. Vorremmo coinvolgere questi mondi, uscire dalla carboneria in cui siamo costretti”. Le manifestazioni organizzate a Venezia e Roma nel 2018 e nel 2019 in collaborazione con le Camere penali delle città avevano avuto un buon seguito. “Dal mondo dell’avvocatura e della magistratura c’è stata grande disponibilità”, racconta. “I mondi che evitano di confrontarsi con noi sono quelli dei politici. Vorremmo avere la possibilità di far conoscere questa proposta. Se la società sarà matura, per accoglierla come è successo con i manicomi quarant’anni fa, speriamo che si arrivi in tempi non biblici a questo. Noi non demordiamo. In fondo sono idee di pace e conciliazione”. Noi, il Covid e la rivoluzione dell’infosfera di Luciano Floridi La Repubblica, 10 giugno 2021 Viviamo un momento epocale: la trasformazione di un mondo analogico in uno computerizzato. La riflessione del filosofo dell’informazione. A volte dimentichiamo che la vita senza il contributo positivo della politica, della scienza e della tecnologia diventa presto “solitaria, povera, cattiva, brutale e breve”, per usare la famosa frase del Leviatano di Thomas Hobbes. La crisi del Covid-19 ci ha tragicamente ricordato che la natura può essere spietata. Solo la buona volontà e l’ingegno possono salvaguardare e migliorare la vita di miliardi di persone. Oggi, gran parte di questo sforzo è esercitato nel realizzare una rivoluzione epocale: la trasformazione di un mondo esclusivamente analogico in uno sempre più digitale. Gli effetti sono visibili ovunque: questa è la prima pandemia durante la quale un nuovo habitat, l’infosfera, ha aiutato a superare i pericoli della biosfera. Da tempo viviamo onlife (sia online che offline), ma la pandemia ha reso l’esperienza onlife una realtà comune e irreversibile. Tra i fattori cruciali in questa rivoluzione epocale ci sono l’enorme potenza di calcolo sempre meno costosa, una connettività sempre più pervasiva, colossali quantità di dati in costante crescita, e infine l’intelligenza artificiale, sempre più efficace. Con una definizione classica, l’IA è l’ingegnerizzazione di artefatti che possono fare cose che richiederebbero intelligenza se dovessimo farle noi. Questo significa che non è un matrimonio tra computazione e intelligenza, ma un divorzio senza precedenti tra agency e intelligenza, cioè tra la capacità di completare compiti o risolvere problemi con successo in vista di un obiettivo e qualsiasi necessità di essere intelligenti nel farlo. Per giocare a scacchi anche solo applicando le regole devo essere intelligente, ma il mio cellulare mi batte pur essendo stupido come un tostapane. Questo divorzio è diventato possibile solo recentemente, grazie ai fattori già menzionati - rete, calcolo e dati - ai quali si aggiungono strumenti statistici sempre più sofisticati, e la trasformazione dei nostri habitat in luoghi sempre più compatibili con l’IA. Più viviamo nell’infosfera e onlife, più condividiamo le nostre realtà quotidiane con agenti artificiali che possono svolgere bene un numero crescente di compiti. Il limite dell’AI è solo nell’ingegnosità umana. Oggi l’IA può aiutarci a conoscere, comprendere, prevedere e risolvere di più e meglio le numerose sfide che stanno diventando così pressanti: il cambiamento climatico, l’ingiustizia sociale, la povertà globale, e l’aggiornamento delle democrazie liberali. La gestione efficace dei dati e dei processi da parte dell’IA può accelerare il circolo virtuoso tra innovazione, modelli business, imprenditoria di maggior successo, scienza più avanzata, e politiche anche legislative più lungimiranti. C’è un “ma”: l’ingegnosità umana senza buona volontà può essere pericolosa. Se la rivoluzione digitale non è controllata e guidata in modo etico e sostenibile, può esacerbare i problemi sociali, dal pregiudizio alla discriminazione; erodere l’autonomia e la responsabilità umane; e ingigantire i problemi del passato, dalla distribuzione ingiusta dei costi e dei benefici allo sviluppo di una cultura della mera distrazione. La stessa IA rischia di trasformarsi dall’essere parte della soluzione a essere parte del problema. Quindi buone normative internazionali, a partire dall’Unione Europea, sono essenziali per garantire che rimanga una potente forza per il bene. Precedenti rivoluzioni nella creazione di ricchezza, come quella agricola e industriale, hanno portato a trasformazioni macroscopiche nelle nostre strutture ambientali, sociali e politiche, spesso senza molta lungimiranza e con profonde implicazioni concettuali ed etiche. La rivoluzione digitale non è meno profonda. In considerazione di questo importante cambiamento storico, il compito è quello di formulare un quadro etico e politico che possa trattare l’infosfera come il nostro nuovo ambiente. E la filosofia come design concettuale (conceptual design) può contribuire a tale aggiornamento di prospettiva. Galileo suggeriva che la natura fosse come un libro, scritto con simboli matematici, da leggere attraverso la scienza. Oggi non sembra più una metafora, in un mondo che è sempre più fatto di 0 e 1. Le tecnologie digitali hanno sempre più successo al suo interno perché, come i pesci nel mare, sono i veri nativi dell’infosfera. Loro svolgono meglio di noi un numero crescente di compiti perché noi siamo organismi analogici che cercano di adattarsi a un habitat sempre più digitale, come sommozzatori. Così, gli agenti artificiali, siano essi soft (app, webot, algoritmi, software di tutti i tipi) o hard (robot, auto senza conducente, orologi intelligenti e gadget di tutti i tipi) stanno sostituendo gli agenti umani in aree che si pensava fossero impraticabili per qualsiasi tecnologia solo alcuni anni fa: catalogare immagini, tradurre documenti, interpretare radiografie, estrarre nuove informazioni da enormi masse di dati, scrivere articoli di giornale, e molte altre cose. È impossibile prevedere quanti lavori spariranno o saranno radicalmente trasformati, ma ovunque le persone oggi lavorano come vecchie interfacce - ad esempio tra un GPS e un’auto, tra due documenti in lingue diverse, tra alcuni ingredienti e un piatto, tra i sintomi e la malattia corrispondente - quel lavoro è a rischio. Allo stesso tempo, stanno emergendo nuovi lavori perché sono necessarie nuove interfacce, tra i servizi forniti dai computer, tra i siti web, tra le applicazioni di IA, tra i risultati dell’IA e così via. La legislazione giocherà un ruolo influente anche nel determinare quali lavori dovranno restare “umani”. Resta da sottolineare che molti compiti che scompariranno non elimineranno i lavori corrispondenti: ora che ho un robot tagliaerba ho più tempo per curare le rose. E molte attività saranno solo ricollocate sulle nostre spalle, basti pensare alle casse automatiche che ci permettono di scansionare le merci al supermercato. La rivoluzione digitale ci farà sicuramente svolgere più compiti in futuro. Non è chiaro come andrà a finire tutto questo, ma una cosa è certa: non sta arrivando alcun Terminator e gli scenari fantascientifici sono distrazioni irresponsabili. Dopo le quattro rivoluzioni comportate da Copernico, Darwin, Freud e Turing, non siamo più al centro dell’universo, del regno animale, della sfera mentale e dell’infosfera. Come si sarebbe detto al liceo, siamo un hapax legomenon nel libro della natura di Galileo. Con una metafora più digitale e contemporanea, siamo un bellissimo glitch nel grande software dell’universo, non l’app di maggior successo. Un glitch che dovrà essere sempre più responsabile nei confronti della storia che scrive, e della natura di cui deve prendersi cura. Covid e vaccini. C’è una trappola nei negoziati sulla deroga ai brevetti di Francesca De Benedetti Il Domani, 10 giugno 2021 Alla WTO il fronte per la sospensione dei brevetti sui vaccini è così ampio che anche Bruxelles ha dovuto acconsentire ad avviare i negoziati su un testo. Ma ha congegnato una trappola: bisognerà negoziare anche la proposta Ue, che “dettaglieremo meglio”. Alla World Trade Organization il numero e il peso dei paesi che sostengono la sospensione dei brevetti sui vaccini è ormai così ampio che pure gli ostinati contrari hanno dovuto cedere. Il presidente del consiglio Trips della Wto, riunitosi per discutere del tema negli scorsi due giorni, ha preso atto del passo in avanti: “Anche se persistono punti di vista divergenti - ha detto Dagfinn Sorli - non ho sentito nessun paese obiettare al fatto che la discussione deve passare a un livello più avanzato”. Significa che adesso non ci si limita a scambiare punti di vista. Ora si negozia su un testo. Anzi, su due. Ed è questa la trappola preparata dall’Unione europea, che da quando a ottobre 2020 India e Sudafrica hanno chiesto di sospendere alcune tutele su proprietà intellettuale e segreti industriali, ha sempre difeso la posizione di Big Pharma. Ora che tutti, compresi Stati Uniti e Cina, sono disposti a negoziare sulla proposta rivista di India e Sudafrica, anche Bruxelles ieri si è arresa all’isolamento internazionale. Si entra nel vivo dei negoziati. Ma la Commissione europea ha in serbo una strategia per boicottarli. Nel frattempo all’europarlamento passa - per un voto - un emendamento che chiede all’Ue di negoziare per la deroga. Il sabotaggio dell’Ue - L’Ue è arrivata al consiglio Trips ormai isolata. I paesi a basso reddito, dove solo lo 0,1 per cento ha ricevuto le due dosi di vaccino, sono arrivati a Ginevra invece galvanizzati. Con Pechino e Washington pronte a valutare il “Trips waiver”, la deroga, il sud globale si è preso la sua rivincita. Su 48 delegazioni, ben 30 hanno voluto prendere la parola. “Qualcosa di inedito, di solito succede solo alle ministeriali” dice Monica Di Sisto di Fairwatch, che da decenni monitora quel che succede alla Wto. Il vero game changer è stata l’apertura di Washington. “Prima di Biden eravamo abituati a vedere gli Stati Uniti piantare gli stivali sul tavolo e bloccare i negoziati. Nel 1999 ho visto saltare Seattle per le loro forzature sul dossier agricolo. Adesso sta succedendo il contrario: la Casa Bianca, sbloccando il waiver, ha riorientato il suo approccio alla Wto: costruisce alleanze”. È Bruxelles ora a piantare “gli stivali sul tavolo”. In che modo? Non potendo più frenare i negoziati sulla proposta India-Sudafrica, alla quale si oppone ormai in compagnia solo di Regno Unito, Svizzera e Corea, l’Ue impone però di negoziare anche sulla sua proposta. Presentata il 4 giugno, difende la proprietà intellettuale, chiede meno ostacoli all’export e partnership volontarie con le aziende; contempla le licenze obbligatorie, che sono già possibili oggi e che portano i singoli paesi a confrontarsi con Big Pharma. Gli scenari e il piano Biden - I negoziati entrano nel vivo il 17 giugno, Dagfinn Sorli deve presentare lo stato dell’arte davanti al consiglio generale del 21 e 22 luglio. La proposta Ue è un intralcio alla messa a segno della deroga, tantopiù che ora Bruxelles dice che vuole “dettagliarla”. Gli scenari possibili sono almeno tre. Il sud globale, visto il sostegno massiccio alla proposta di deroga, può ottenerla, magari circostanziandone meglio ambiti e durata. Ma può anche succedere, considerando che la Wto si muove per consenso unanime, che l’Ue riesca effettivamente ad affossare il waiver, tra veti e dilazioni. Il terzo scenario, plausibile, è che si arrivi a una mediazione. Quanto sarà ambiziosa dipende molto dalla tenuta di Washington. E a giudicare dalle parole espresse nelle ultime ore, pare che gli Stati Uniti non siano impermeabili alla posizione europea. Al consiglio Trips, gli Stati Uniti hanno detto che l’attuale versione della proposta di India e Sudafrica “non è cambiata a sufficienza”, hanno invitato al “compromesso” e sperano che “altre proposte e idee arrivino sul tavolo”. Dicono pure che bisogna “focalizzarsi sui punti che possono avere un consenso generale più rapido” e ringraziano l’Ue per la sua proposta. Joe Biden si è appena imbarcato su un aereo diretto verso l’Europa e ha detto: “Annuncerò un piano per le vaccinazioni globali”. È anche una traccia per un compromesso. Per un voto - Oggi gli eurodeputati hanno votato su una risoluzione congiunta che - per spinta di popolari, conservatori e liberali - è arrivata in aula senza riferimenti alla deroga. Sinistra, Verdi e socialdemocratici hanno provato a reintrodurla tramite una pioggia di emendamenti, che hanno sostenuto reciprocamente. Per un solo voto, è stato approvato l’emendamento 9 dei Verdi, che chiede un sostegno attivo ai negoziati per una deroga Trips (cioè il waiver). Così come c’era chi anche in altri gruppi era pronto a sostenere un emendamento socialdemocratico, quello verde passato per un voto ha incassato l’appoggio di alcuni battitori liberi, tra cui i polacchi di Pis. Una volta approvato l’emendamento green, è integrato nella risoluzione congiunta. Dalla quale a questo punto i popolari si sfilano. Domattina sapremo gli esiti del voto, la risoluzione è appena a un pugno di voti. Arriva lo scontro finale sulla legge Zan. L’incognita è Italia viva di Daniela Preziosi Il Domani, 10 giugno 2021 In commissione giustizia la sfilata delle argomentazioni fantasiose contro la legge: c’è anche chi spiega che “lo stile di vita lgbt è incompatibile con lo sviluppo sostenibile”. Pd e M5S torneranno alla carica. O una data certa, o subito in aula. Dove si rischia lo scapicollo. “Le audizioni hanno mostrato che non ci sono spazi di mediazione. Se non ci sono le condizioni per andare avanti in commissione dovremo passare al voto dell’aula, dove ciascuno si assumerà le proprie responsabilità”. Franco Mirabelli è il capogruppo Pd in commissione giustizia, è conosciuto per essere un uomo paziente e un gran mediatore. Ma ormai anche lui si è convinto non c’è modo di velocizzare l’andamento lento innescato dal presidente leghista Andrea Ostellari sulla legge contro l’omotransfobia. Le audizioni, con in ritmo di un appuntamento a settimana, sono state architettate come una sfilata di no al testo. Con le motivazioni più fantasiose. E a prescindere dal testo. Martedì scorso c’è stato chi ha sostenuto che “lo stile di vita Lgbt è incompatibile con lo sviluppo sostenibile”, chi ha lamentato che ci sono troppi gay nei programmi tv, chi ha - in quella sede - proposto sacre alleanze “delle culture sul concetto di sanità mentale, per fare clamorose iniziative comuni” e spingere il paese “in una direzione sana sul terreno dell’affettività”. Ma ormai siamo alla battaglia finale. Il problema non è il circo Barnum delle audizioni. Nel frattempo il renziano Davide Faraone ha proposto un tavolo per trovare una mediazione con le destre e modificare il ddl. La ministra della Famiglia Elena Bonetti, che alla Camera era grande sponsor della legge, stavolta si è messa nella scia. Il messaggio “in chiaro” agli alleati dell’ex maggioranza giallorossa sembra di buon senso: meglio cambiare il testo che affossarlo. Ma è altrettanto chiaro che gli spazi di mediazione sono finti: Lega e FI solo di recente hanno presentato una proposta di legge antiomofobia (prima firmataria la senatrice Licia Ronzulli), fino a poche settimane fa sostenevano la loro posizione storica: non c’è bisogno di una legge. Posizione che riecheggia ancora nelle audizioni. Dentro Italia viva fioriscono dubbi. Nella riunione di deputati e senatori l’ex ministra Maria Elena Boschi avrebbe avanzato perplessità sulla proposta del tavolo. Ieri Ivan Scalfarotto, sottosegretario all’Interno e attivista dei diritti, ha ammesso sul manifesto che il tavolo non serve a nulla: “È un grave errore trattare con la destra sul ddl Zan. Lega e FdI vogliono solo affossarla”. Scalfarotto se la prende con la senatrice Monica Cirinnà che per prima ha detto quello che ormai sanno tutti: Iv ha cambiato posizione. Eppure alla legge ha lavorato la responsabile giustizia Lucia Annibali. E la discriminante contro “l’abilismo” - l’incitazione all’odio contro le persone con disabilità - porta la firma di un’altra autorevole renziana, Lisa Noja. Scalfarotto nega ogni illazione: “I voti di Iv fin qui sono stati determinanti e ci saranno”. Ma il gesto “di buona volontà di Faraone non porterà ad alcun risultato. La destra vuole solo perdere tempo. Su temi come questo, le unioni civili, l’aborto, la spaccatura è insanabile: o stai da una parte o dall’altra”. E però al Senato circola un’altra versione. Matteo Renzi - e Iv che però non è compatta, abbiamo visto - non vuole concedere a Enrico Letta quella che sarebbe un’indubbia vittoria politica: il sì a una legge per la quale si è speso molto, l’unica possibile delle sue campagne identitarie. Ancora di più Renzi vuole polverizzare lo schema dell’alleanza giallorossa, da cui il suo partito ormai si smarca sistematicamente. La battagli contro l’omofobia finirebbe dunque impallinata da esigenze tutte politiche. “Dialoghiamo? Ma certo”, non si oppone Monica Cirinnà, madre delle unioni civili e madrina delle battaglie arcobaleno. Ma a queste condizioni: “Per noi ci sono tre punti irrinunciabili: l’identità di genere tra le aggravanti, perché non si possono lasciare i più fragili senza protezione dall’odio; il coinvolgimento delle scuole nell’educazione contro le discriminazioni e la previsione di punire l’istigazione ai crimini d’odio con parole che ledono la dignità dei cittadini. Italia viva pensa che si possa trattare su questo? Strano: ricordo che la definizione “identità di genere” è stata inserita nella legge proprio grazie alla ministra Bonetti, con cui l’articolo uno è stato concordato parola per parola”. Oggi si riunirà di nuovo la commissione giustizia. Pd e M5s chiederanno a Ostellari di stabilire tempi certi per la fine delle audizioni e per il passaggio del testo in aula. Richiesta finale. Altrimenti la battaglia approderà alla capigruppo. E si apriranno ufficialmente le ostilità con tutti i mezzi offerti dai regolamenti parlamentari. Con il rischio però dello scapicollo finale: in aula la legge dovrà affrontare una serie di emendamenti a voto segreto. Segreto fino a un certo punto, in realtà. In teoria i numeri per respingere gli assalti ci sono: ma a condizione che tutta l’ex maggioranza giallorossa resti compatta. Alessandro Zan, primo firmatario del testo, cerca di abbassare i toni. Non vuole credere che Renzi arrivi fino a rompere il fronte comune: “Piuttosto pensiamo a parlare con tutti i senatori, uno per uno, anche dell’opposizione. Lavorerò per questo fino all’ultimo minuto”. Canali per i migranti, il Pd respinge la Meloni che ha dichiarato: “Noi sulla linea Harris” di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 10 giugno 2021 La leader di FdI plaude alla vice di Biden. Letta: “Specula, come gli Usa anche il governo lavora sugli accessi legali”. Ad avvelenare i pozzi democratici ci prova un mattino Giorgia Meloni: “Le parole di Kamala Harris contro l’immigrazione illegale dimostrano che nel mondo tutti si preoccupano di difendere i propri confini, tranne la sinistra italiana, che continua a tenere spalancati i porti. Blocco navale subito!”. Ti aspetti che il centrosinistra insorga. Che ripeta a memoria le parole di Alexandria Ocasio-Cortez, sinistra della sinistra Usa, la prima a schierarsi contro la vice di Biden. E invece no: più scavi, più scopri che il Pd sta con Kamala. Con lei e con l’istituzione di canali regolari per chi cerca asilo o vuole migrare alla ricerca di un lavoro. Quei canali massacrati in Italia dalla filosofia della Bossi-Fini. “Giorgia, tu speculi - reagisce dunque Enrico Letta, che in passato con Mare Nostrum salvò migliaia di vite - Draghi ha ottenuto di discutere al prossimo Consiglio Ue di come gestire meglio il problema migratorio. Siamo in sintonia con il governo”. Niente, il giochino “butta dalla torre la Harris” a sinistra non funziona. Piace un po’ a tutti, la vicepresidente Usa. A Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, reduce da un vertice sul Sahel: “Condivido che vanno riaperti i flussi regolari e che va combattuto efficacemente il traffico di esseri umani”. A Giuseppe Conte, che sta per posizionarsi più a destra di Enrico Letta: l’ex presidente del Consiglio, fanno sapere, è sempre stato “per la legalità” e per i “rimpatri degli irregolari”, dunque si differenzierà dal Pd. Ma Harris piace anche a chi, a sinistra, ha sempre scelto la battaglia per le organizzazioni non governative. “Non facciamo i provinciali - sorride Matteo Orfini - Kamala ha chiuso con l’era Trump e con i muri. Ha riaperto ai flussi regolari, dunque è ovvio che contrasta quelli irregolari”. Ecco, se esiste una linea di frattura, è meglio semmai guardare in casa. A Roma, più che a Washington. “La risoluzione del Pd che sosterrà la battaglia di Draghi in Europa segna un cambio di passo - premette sempre Orfini - Il problema, però, è che il governo è ancora pienamente dentro le azioni della filiera che va da Gentiloni (e Minniti) al Conte uno e due. Iniziamo a cancellare il fermo amministrativo delle navi delle Ong, tanto per cominciare, ed evitiamo di rifinanziare le missioni della Guardia costiera libica”. È qui che a sinistra qualcosa si inceppa. Perché invece la segreteria del Partito democratico punta molto sul testo che presenterà in Parlamento per dare una scossa all’Europa (e un po’ anche all’esecutivo). “Kamala è stata molto pragmatica - dice Enrico Borghi, che quel testo lo sta scrivendo - Il rischio della posizione della Ocasio-Cortez è che enfatizzi la tesi opposta, quella dei fan del muro di Trump”. E invece la proposta dem tiene assieme tutto, a sentirlo: salvataggi in mare e chiusura dei campi in Libia, canali per l’immigrazione regolare e rimpatri assistiti. “Io pure sto con la Harris - dice Lia Quartapelle - la linea giusta è dire no all’immigrazione irregolare e sì ai flussi regolari. Gli Stati Uniti hanno regole che li consentono, noi no. Quella è la strada giusta”. Poi, certo, se sbirci fuori dal centrosinistra vai a sbattere sul blocco navale della Meloni, oppure contro l’ossessivo repertorio anti migranti di Salvini. E i distinguo, nel campo progressista, diventano dettagli, esercizi di filosofia. Tocca comunque a Erasmo Palazzotto, un passato in Sinistra italiana e un presente da indipendente di sinistra, schierarsi (solitario) con Ocasio-Cortez. E chiedere a Draghi una svolta che per adesso gli sembra lontana: “Vedo un cambio di passo nel Pd di Letta, non ancora nel governo. Io penso che la gente in mare vada salvata, poi discutiamo del resto. I respingimenti sono illegali, anche perché la Guardia costiera libica riporta i migranti nei campi di concentramento. Ripristiniamo le modalità di accesso legale nel nostro Paese. E smettiamola con l’idea che in questo mondo i confini non valgono per le merci e i capitali, ma soltanto per gli esseri umani” Migranti. Saman Abbas e le altre, nella terra di mezzo di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 10 giugno 2021 Troppo occidentali per l’Islam ma non abbastanza per l’Italia. Ragazze in cerca di una nuova identità. Il ruolo delle famiglie e il nodo dei diritti. La terra di mezzo delle ragazze musulmane è racchiusa tra due paletti di confine: ciò che è halal, puro e giusto per l’Islam, e ciò che è haram, il suo contrario. “Ma noi spesso veniamo respinte da entrambe le parti, siamo troppo halal per gli haram e troppo haram per gli halal: per certe femministe siamo troppo radicalizzate e per alcuni delle nostre comunità d’origine troppo emancipate”, sospira Marwa Mahmoud. Giovane consigliera comunale del Pd a Reggio Emilia, è ormai famosa per aver bacchettato il proprio partito, “disattento” sul destino di Saman Abbas: così ora la invitano ovunque in tv, le amiche hanno tentato (invano) di truccarla “all’occidentale” per la serata dalla Gruber, dove se l’è vista con la Santanché e con l’abbraccio avvelenato di chi la loda per avere dato il fatto suo a una sinistra incapace di parlare con coraggio di Islam. Rischia l’apostasia politica per eccesso di sincerità. Perché è una terra immensa da attraversare, questa di un’identità perduta e un’altra non ancora conquistata davvero. Assai più vasta degli ottanta ettari di campagna della Bassa lungo via Colombo, qui a Novellara, dove il sonar prova a strappare alla sua sepoltura infame il corpo di Saman. È una terra dove ci si può smarrire facilmente, com’è successo alla ragazzina che si taggava “ItalianGirl” ed è stata punita dalla famiglia pakistana per avere rifiutato un matrimonio combinato in madrepatria; o ci si può riscoprire nuovi e diversi, come è capitato a Marwa, che è donna fatta, madre single, politica e comunicatrice smaliziata, e ha messo il velo “identitario” solo per scelta, all’università. La differenza sta forse nel punto di partenza, i genitori: magari in un padre. Quello di Marwa, un saldatore venuto dall’Egitto, vedeva nella figlia “il riscatto sociale” e ha fatto il tifo per lei. Quello di Saman, un bracciante immigrato da Lahore, temeva che una figlia piena di sogni fosse il disonore della casa e l’ha consegnata al suo boia, lo zio giovane e violento. Il confine tra un matrimonio combinato e uno forzato - Iqra Ghaffar dice che, sì, “la famiglia conta moltissimo”. Diciannove anni, splendidi capelli corvini sciolti sulle spalle, sta facendo la maturità, si prepara per l’università in Germania e si vede “manager nel marketing”. Anche i suoi vengono da Lahore, anche suo padre lavorava nei campi, ma lei, col suo sorriso di libertà, testimonia un percorso diverso. È ironica il giusto: “Quando s’è saputa la storia di Saman, mi è capitato di ammalarmi, per due giorni non sono andata a scuola. Beh, la prof di italiano mi ha mandato un file audio con l’avvertenza: “Ascoltalo da sola!”. Mi diceva: “Sono preoccupata, va tutto bene? Conosci quella ragazza?”. Io so che l’ha fatto per affetto, ma mi sono sentita un po’... giudicata”. Iqra ha messo il velo qualche anno fa, solo per farsi accettare “dalla compagnia di amici pakistani”, poi l’ha tolto, assecondata dai genitori. E tuttavia le usanze (e le contraddizioni) si sentono anche in casa sua. Il fratello Mohsin, 25 anni, ha fatto un matrimonio combinato con la sua Ayesha: “Sì, le famiglie si sono trovate d’accordo prima. Ma loro si sono piaciuti e sono felicissimi! Lui è qui, lei in Pakistan, a dicembre fanno lo shadi, la cerimonia, e lei lo raggiunge. Io ho chiesto a mamma: e se mi piacesse un ragazzo non pakistano? Lei mi ha risposto: basta che piaccia a te. I miei sono molto religiosi. Ma pensano che la religione non possa essere una scusa per imporci qualcosa”.Il confine tra un matrimonio combinato e uno forzato è tuttavia piuttosto labile. Alessandra Davide, che con l’associazione Trame di Terre ha scoperto 33 matrimoni forzati in Emilia-Romagna e un centinaio di episodi simili in tutt’Italia in una decina d’anni, spiega come “molto spesso il matrimonio combinato diventa forzato se ci si oppone: e il matrimonio forzato è una violazione dei diritti umani”. Su 33 casi, 30 volte la vittima è una lei. La sindaca di Novellara: “Su Facebook i commenti sono atroci” - Atif Nazir, operaio di Juyrat e mediatore culturale nella comunità della Bassa, è “scioccato” dal dramma di Saman ma pensa che “se gli sposi acconsentono non è poi sbagliatissimo” il matrimonio combinato. Lui ha fatto una piccola rivolta alla rovescia. Si è innamorato di una ragazza conosciuta a una festa in Pakistan e quando è tornato in Italia ha detto al padre: se non mi fai sposare quella, me ne sposo una di qui; il babbo ha infine ceduto. In certi contesti, l’obbedienza sconfina nella soggezione. Per le ragazze, nella sottomissione. I confini sono più vaghi nelle comunità più separate. A Novellara i pakistani sono il gruppo più secluso, nonostante il lavoro di rammendo della sindaca Pd Elena Carletti e di Erica Tacchini, che da quasi vent’anni vi si dedica (l’ultima iniziativa interculturale è il centro Rosa dei Venti). “La coesione mi preoccupa, ho smesso di leggere i commenti Facebook perché sono atroci”, ammette la sindaca. Aprire ambienti chiusi non è facile: molti immigrati, buoni per il duro lavoro nei campi, sono venuti da aree del Pakistan dove l’alfabetizzazione è bassissima. La strada del recupero è in salita. Una ragazza ora sotto protezione, una Saman che s’è salvata, ha spiegato ai carabinieri un meccanismo tipico: “Quando i miei mi toglievano da scuola chiudendomi in casa, dicevano a tutti che ero da una zia a Roma: chi poteva controllare?”. Così, gratta gratta, quasi tutte conoscono (conoscevano...) una vicina sparita, una compagna che ha lasciato la classe e chissà dov’è. Ma ne parlano a fatica, con imbarazzo: sempre col retropensiero che si sfoci in un processo alla loro religione. Lo ius culturae che manca - Martedì sera, al flashmob di Pegognago, tra cento candele per Saman, hanno letto i nomi di tutte le donne uccise in Italia da inizio anno, con un non detto piuttosto chiaro: anche voi italiani ci ammazzate, questo femminicidio non è diverso. Ihsane Ait-Yahia ha 28 anni, è arrivata dal Marocco che ne aveva 6. Provoca: “Matrimoni combinati? Ma perché, voi non li fate in tv a Uomini e Donne?”. Azzarda equivalenze scivolose tra gli attacchi islamisti dell’11 settembre e i bombardamenti americani in Afghanistan. Poi, s’intuisce che dietro il rancore palese c’è la delusione segreta per una cittadinanza che ancora non riesce a ottenere, nonostante il percorso di studi e il lavoro in un ufficio legale. È quello l’approdo fantasma nella grande traversata delle islamiche d’Italia: lo ius culturae che manca. La scuola può fare molto. Muskan, 13 anni, terza media, mi dice che se avesse un problema coi suoi, andrebbe dritta dal suo prof di matematica: “Lui mi aiuterebbe”. Si fida. Se fra dieci anni non l’avremo ancora accolta come un’italiana vera, abbandoneremo anche lei nella terra di mezzo. Le vite cancellate dei turchi nemici di Erdogan in Italia (e dei loro figli) di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 10 giugno 2021 Passaporti cancellati all’improvviso, neonati senza cittadinanza, titoli di studio revocati. È successo in Italia ai cittadini turchi che fanno parte di Hizmet, il movimento che fa capo a Fethullah Gülen, il predicatore islamico considerato da Ankara l’ideatore del colpo di Stato fallito il 15 luglio 2016. “Mia figlia è nata tre giorni prima del golpe - racconta Ahmet - quando sono andata al consolato si sono rifiutati di registrarla. Mi hanno detto che ero un terrorista. Così la bambina è diventata apolide (priva di una cittadinanza, ndr). Noi avevamo il permesso di soggiorno a tempo indeterminato ma lei non aveva nulla”. Ahmet ha 39 anni ed è in Italia dal 2010. Per anni ha lavorato per l’associazione interculturale Alba di Milano, una delle realtà nel nostro Paese che si ispirano ai principi dell’Hizmet, che in italiano vuole dire “servizio”. Le altre sono: l’istituto Tevere a Roma e l’associazione Milad a Modena e Venezia. La “comunità gulenista” nel Belpaese conta poche centinaia di persone che vivono una situazione difficile. “Mio padre è morto due anni fa e io non ho potuto salutarlo - dice Ahmet -, mia madre piange tutti i giorni perché vorrebbe rivedermi. Noi ora abbiamo chiesto asilo politico in Italia nonostante avessimo il permesso di soggiorno perché non potevamo lasciare la bambina senza documenti”. Oggi Hizmet per la Turchia è il Fethullahç? Terör Örgütü (FETÖ), ovvero il Gruppo terroristico dei seguaci di Fetullah. Chiunque ne faccia parte è automaticamente un nemico dello Stato. “La sera del golpe - dice Banu che ha 35 anni e ora vive nel Nord Italia - quando Erdogan ha invitato il popolo turco a scendere in piazza, qui a Modena hanno provato a bruciare la sede della nostra associazione. Ci hanno persino minacciato di morte. A quel punto abbiamo dovuto lasciare la città”. Banu si è laureata all’università di Milano e ha incontrato lì suo marito. La coppia ha avuto un figlio nel 2013 e uno nel 2018. “Per il primo non ci sono stati problemi - racconta, nella voce un filo di rassegnazione - ma con il secondo è stato un inferno. Al consolato di Milano ci hanno mandato via e non hanno voluto nemmeno darci una carta che dicesse perché. I nostri passaporti sono stati cancellati. È stato così anche per tutti i nostri amici”. Banu e il marito sono in Italia da quasi dieci anni e potrebbero chiedere la cittadinanza ma devono rinunciare a questo sogno per mettere a posto la situazione del figlio. “Siamo andati alla questura di Varese e abbiamo fatto richiesta di asilo politico, oggi abbiamo anche un documento di viaggio”. È ancora nel limbo Ince, 32 anni, laureata in matematica e sposata dal 2013 con un turco che ha incontrato in Italia. La coppia, entrambi membri di Alba, ha avuto il secondo figlio nel settembre del 2019 ed ha cercato in tutti i modi di convincere il consolato turco di Milano a registrare il bambino. “Ci siamo presentati anche con l’avvocato - dice - ma sono stati irremovibili. Hanno detto che eravamo stati denunciati in Turchia”. Qui, però, complica le cose anche la burocrazia italiana. “Nostro figlio è ancora apolide perché in questura hanno accettato la nostra domanda di asilo solo il 5 marzo scorso - spiega ancora la donna -. Il mio passaporto e quello del nostro bambino più grande sono scaduti, quello di mio marito lo sarà tra poco. Noi abbiamo fatto di tutto per rispettare le procedure ma ci trattano come se avessimo fatto qualcosa di male”. Cigdem, invece, insegnava in una scuola gulenista in Turchia nel 2016. Dopo il golpe le hanno annullato la laurea, i suoi colleghi sono finiti in carcere e lei è riuscita fuggire in Italia: “Per 25 anni ho cercato di aiutare l’umanità istruendo dei ragazzi - dice oggi - ora non possiedo più nulla”. Per il professor Paolo Branca, islamista alla Cattolica di Milano, “è spiacevole che sul nostro territorio possano accadere queste cose senza che nessuno ne parli, come è incredibile che venga cancellata una laurea, neanche Hitler l’ha mai fatto”. All’ambasciata turca a Roma si limitano a ricordare che “le procedure di registrazione all’anagrafe dei figli dei nostri cittadini vengono eseguite senza alcuna restrizione” a meno che i documenti siano incompleti. Allora ci vuole tempo. Ma non è questo il caso. Congo. “Attanasio non è stato protetto”: indagato funzionario dell’Onu di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 10 giugno 2021 L’inchiesta sull’agguato mortale in Congo nel quale, oltre all’ambasciatore, vennero uccisi il carabiniere italiano di scorta e l’autista. Il responsabile dell’area di Goma sentito dai pm. Quella strada, la N2 che parte da Goma e taglia la provincia congolese di Kivu da sud a nord, era già macchiata di sangue. Negli ultimi tre anni era stata il teatro di almeno venti conflitti a fuoco tra milizie criminali e le guardie del parco. Eppure, il convoglio su cui il 22 febbraio scorso viaggiavano l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo per la missione organizzata dal Programma alimentare mondiale (Pam) delle Nazioni Unite non aveva una scorta armata. Di più: i giubbotti antiproiettile e i caschi protettivi erano stati lasciati nel portabagagli. L’assalto a colpi di fucile dei banditi sbucati all’improvviso (“sei-sette uomini”, secondo la ricostruzione degli ispettori Onu consegnata alla procura di Roma) è avvenuto con una facilità inaccettabile. Quando tutto questo è stato contestato all’uomo che avrebbe dovuto garantire la sicurezza del convoglio, un funzionario congolese del Pam responsabile dell’area di Goma che martedì si è seduto davanti al pm Sergio Colaiocco, quell’uomo ha balbettato. Entrato come testimone, M.R. è uscito dal Palazzo di giustizia indagato per omicidio colposo. Nella storia della strage in cui hanno perso la vita Attanasio, Iacovacci e Milambo, dunque, c’è un primo accusato. Di negligenza, sostanzialmente. Ma forse la definizione è riduttiva, non inquadra bene ciò che gli inquirenti - aiutati dai carabinieri del Ros e dalle evidenze raccolte dall’Onu - hanno accertato. Andiamo con ordine. Il Security Policy Manual delle Nazioni Unite prevede che, in caso di missioni su territori ostili, il responsabile in loco chieda il nulla osta con almeno cinque giorni di anticipo. È il tempo che serve agli uffici di New York per valutare la pericolosità dello spostamento, determinare le regole di ingaggio e rilasciare la Security Clearance. Il funzionario congolese, collega dell’italiano Rocco Leone che ha il ruolo di vicedirettore Pam Congo, se ne è ricordato solo la sera prima della partenza da Goma. Invece di annullare la missione, M.R.ha trovato il modo di farsi dare l’ok omettendo che a bordo dei veicoli l’indomani ci sarebbero stati due italiani A New York la sera del 20 febbraio è arrivata, in ritardo, una richiesta di nulla osta con l’indicazione di sette nomi di funzionari Pam. Non c’erano quelli di Attanasio e Iacovacci. Se avessero segnalato la presenza di due ospiti esterni al Pam, infatti, la pratica sarebbe passata immediatamente ai referenti di Monusco, la missione di peacekeeping per la stabilizzazione del Congo. Monusco, come è prassi in situazioni analoghe, avrebbe programmato un incontro preparatorio e l’accompagnamento con la scorta. Per i pm romani, i due italiani non sono stati identificati apposta. I loro nomi sono stati comunicati via radio solo dopo la partenza da Goma. Si tratta di capire se il pasticcio sia dovuto alla negligenza di M.R. oppure se sia stato una precisa strategia per lasciare la carovana alla mercé dei miliziani. Sulla ricostruzione dell’agguato c’è uniformità tra Procura di Roma e ispettori Onu, tranne che per un particolare di non poco conto: la classificazione “verde” della strada. Secondo New York, il basso rischio era giustificato dal fatto che “non ci sono stati incidenti per più di un anno”. In realtà, come detto, di sparatorie ce ne sono state venti, anche se non hanno coinvolto veicoli diplomatici. Nel report delle Nazioni Unite, si legge: “Dopo l’agguato, a 2 km dal luogo dell’incidente, il fuoco dei ranger del parco divenne più intenso e M.R. disse di sdraiarsi a terra. Il fuoco continuò per 10 minuti. Secondo M.R., il carabiniere si è inginocchiato e ha cercato di allontanare l’ambasciatore. Sono stati sparati dei colpi e sembra che l’ambasciatore abbia ricevuto un colpo alla schiena, mentre il carabiniere è stato colpito al braccio e alla schiena. Entrambi sono caduti a terra. Sono rimasti in questa posizione e mentre i Park Rangers avanzavano, temendo che potessero scambiarli per assalitori, M.R. gridò “Per favore non sparate, siamo del personale della Pam”. L’ambasciatore è morto per sei ferite d’arma da fuoco. I guardiaparco sono stati sorpresi quando M.R. ha menzionato l’ambasciatore”. Stati Uniti. Il piano “silenzioso” di Biden per chiudere Guantanamo di Massimo Basile La Repubblica, 10 giugno 2021 In occasione dell’anniversario degli attacchi alle Torri Gemelle, il presidente americano avrebbe scelto una strategia diversa da Obama: ottenere dal Congresso il via libera per svuotare gradualmente la prigione, trasferendo gli ultimi detenuti. Chiudere il campo di prigionia di Guantanamo per i vent’anni dall’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. È l’obiettivo a cui starebbe lavorando, “silenziosamente”, Joe Biden. Rispetto a Barack Obama, che aveva provato inutilmente a chiudere il carcere con un ordine esecutivo, il presidente degli Stati Uniti avrebbe scelto una strategia diversa, più di basso profilo: vuole ottenere dal Congresso il via libera per svuotare gradualmente la prigione, trasferendo gli ultimi detenuti, meno di quaranta, rimasti in questi anni. Svuotare Guantanamo, anziché chiuderlo ufficialmente. La notizia, riportata dall’agenzia Reuters e da Nbc, segnerebbe una svolta nella storia dell’icona della “guerra al terrorismo” ma anche luogo di torture, morti misteriose e detenzioni senza motivo. Il carcere venne inaugurato sotto la presidenza di George W. Bush nel 2002, come risposta all’attacco dell’11 settembre. Il campo di prigionia si trova nella base navale americana di Guantanamo, nella baia all’estremo sud dell’isola di Cuba. Al massimo della sua capienza, ha ospitato ottocento detenuti, sospettati di essere legati al terrorismo islamico o combattenti in Afghanistan. In realtà, come poi emerse nel 2011 con le rivelazioni di Wikileaks, furono decine le violazioni dei diritti civili: più di 150 persone, tra afgani e pakistani, molti agricoltori, autisti e cuochi, vennero tenuti per mesi in carcere senza un vero capo d’accusa. Il più giovane fu un ragazzino di 14 anni, con problemi mentali, il più anziano, un uomo di 89. Un cameram di Al Jazeera, Sami al-Hajj, venne tenuto prigioniero dal 2002 al 2008 perché rivelasse come il network avesse ottenuto i video del capo di Al Qaeda, Osama bin Laden. Il cameraman sarebbe stato picchiato e abusato sessualmente. Mohammed al-Qahtani, un saudita ritenuto legato ai dirottatori dell’11 settembre, venne sottoposto a uno specifico programma di torture che consisteva in venti ore di interrogatorio al giorno, portato avanti per mesi. Un tunisino era stato tra i primi a entrare a Guantanamo, l’11 gennaio 2002, accusato di legami con i vertici di Al Qaeda, ma dopo oltre dieci anni di detenzione emerse che le accuse erano state estorte sotto tortura o frutto del racconto di detenuti che avevano mentito in cambio di migliori condizioni. Sia George W. Bush sia Obama ne avevano chiesto il rilascio, ma Donald Trump si è opposto. Lo stesso Obama aveva firmato, due giorni dopo il suo ingresso alla Casa Bianca, un ordine con cui decretava la chiusura di Guantanamo, ma trovò l’opposizione del Congresso. Anche molti rappresentanti democratici votarono contro il finanziamento del trasferimento dei detenuti in altre prigioni. Nel frattempo il numero dei detenuti si è ridotto, passando da 245 a 41. Nel maggio 2018 un detenuto è stato trasferito, mentre altri due lo saranno nelle prossime settimane. Altri diciannove potrebbero essere spostati in altre carceri, o rimandati nei Paesi di provenienza. Ne resterebbero meno di una ventina, di cui una dozzina sospettati di aver fatto parte dell’organizzazione dell’11 settembre. Quelli rappresentano lo scoglio legale più difficile da superare. Biden vorrebbe ottenere dal Congresso il via libera al loro trasferimento nelle super carceri federali, tra cui quella di Florence, Colorado, ma vuole procedere con una linea di “basso profilo” per non pregiudicarsi l’appoggio del Congresso su altri temi in agenda. Amnesty International ha chiesto da tempo la chiusura di Guantanamo. Il segretario di Stato Antony Blinken ha rivelato alla commissione Affari esteri della Camera che il suo dipartimento si sta occupando del caso. Serve tempo e prudenza, spiega l’entourage del presidente. L’ideale sarebbe arrivare a una soluzione entro l’11 settembre, per i vent’anni dall’attacco terroristico. Quelli dovrebbero essere anche i giorni del ritiro degli oltre duemila soldati americani rimasti in Afghanistan. Nicaragua. Il presidente ex guerrigliero Ortega pensa alla rielezione e fa arrestare gli avversari di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 10 giugno 2021 Ieri altri quattro candidati fermati, la scorsa settimana due: accuse dal riciclaggio all’incitazione all’ingerenza estera. Continua la brutale repressione dell’ex combattente sandinista. L’Amministrazione Biden lo ha definito ora “dittatore”, ma per Washington il suo governo è utile per contenere la pressione migratoria. Deciso a presentarsi per la quarta volta alle presidenziali del prossimo novembre, Daniel Ortega si libera dei potenziali avversari e li fa arrestare. Una settimana fa era accaduto con Cristiana Chamorro e Arturo Cruz, due candidati dell’opposizione. Sono stati accusati di riciclaggio di denaro. Ieri è toccato ad altri quattro esponenti del dissenso, anche loro candidati alla corsa per il rinnovo della carica di presidente del Nicaragua: il docente universitario Félix Maradiaga, l’ex viceministro dell’Industria, Juan Sebastián Chamorro García, nipote di Violeta Barrios Chamorro, l’unica ad aver scalzato l’ex guerrigliero durante una pausa della sua lunga permanenza al potere. E ancora la dirigente Violeta Granera e l’ex vicepresidente dell’Unione Industriali José Adán Aguerri. Lo scrivono il sito della BBC America Latina e l’edizione America del País. I quattro sono stati fermati e poi trattenuti con l’accusa di “aver incitato all’ingerenza straniera negli affari interni”. Un delitto grave, alla stregua di terrorismo, previsto nella nuova legge appena approvata dal Parlamento, chiamata di Difesa dei Diritti del Popolo, l’Indipendenza, la Sovranità e l’Autodeterminazione per la Pace. Granera è stato messo agli arresti a casa; gli altri tre sono stati trasferiti nella sede della Direzione Assistenza Giudiziaria (DAJ), a Managua, denunciato da tutte le ong come un centro di tortura. José Adán Aguerri è dirigente di Alianza Cívica, il gruppo di opposizione nato durante le proteste del 2018 quando decine di migliaia di giovani scesero in piazza chiedendo libertà e il cambio di un regime che dura ininterrottamente da 14 anni. Violeta Granera è una nota attivista nicaraguense e tra le voci più critiche nei confronti di Daniel Ortega. L’ex guerrigliero del Fronte Sandinista di Liberazione non è nuovo a questi giri di vite. Assediato anche dalle mamme dei ragazzi scesi in piazza, molti uccisi e feriti altri chiusi per mesi in celle buie e sottoposti a torture, Daniel Ortega conserva il suo potere con il pugno di ferro. Dispone brutali repressioni nei confronti di ogni dissenso, chiude giornali d’autorità, spedisce in carcere i giornalisti fastidiosi, accetta dopo molte resistenze le visite della Commissione Diritti Umani della Organizzazione degli Stati Americani e dell’Onu, ma poi respinge, perché di parte, le loro conclusioni e condanne. Agisce sulla Giustizia, che controlla, e influenza il Parlamento nel quale il suo partito possiede la maggioranza. Condivide il potere con la moglie Rosario Murillo, anche lei ex guerrigliera, con cui ha combattuto il dittatore Anastacio Somoza. Ma il tempo e l’abitudine al comando li ha trasformati entrambi in qualcosa di peggiore del loro vecchio nemico. Gli Usa, a differenza di altri Stati nella regione, si sono sempre mostrati teneri nei loro confronti. Questione di interesse e di comodità: sono gli unici che garantiscono un freno al flusso di migranti. Solo ieri, davanti alla nuova stretta, l’Amministrazione Biden ha definito Ortega un “dittatore”. Anche gli Stati Uniti sanno che di fronte a una sconfitta dell’ex guerrigliero i suoi misfatti finirebbero davanti ai Tribunali internazionali. Una prospettiva che atterrisce Daniel Ortega e che preoccupa la Casa Bianca. Arabia Saudita. Imminente l’esecuzione di un giovane oppositore politico Il Dubbio, 10 giugno 2021 È “imminente” in Arabia Saudita l’esecuzione di Mustafa al-Darwish, giovane condannato per aver partecipato a delle manifestazioni antigovernative nel regno del Golfo. Lo riporta l’organizzazione umanitaria Amnesty International, secondo la quale al- Darwish sarebbe stato minorenne all’epoca degli incidenti. Al- Darwish, che ora ha 26 anni, era stato arrestato nel 2015 per aver partecipato a disordini scoppiati tra il 2011 e il 2012 (principalmente blocchi stradali), mobilitazioni spontanee contro la dittatura teocratica che finirono in brutali cariche di polizia e centinaia di arresti. Dopo la cattura al- Darwish è stato tenuto in isolamento per sei mesi senza poter consultare un avvocato difensore fino all’inizio del processo avvenuto due anni dopo l’arresto. Un tribunale lo ha condannato a morte nel marzo del 2018 per “attività violente contro le autorità” e la sentenza è già applicabile. Potrebbe essere eseguita già nei prossimi giorni. “Il tempo per salvargli la vita sta finendo rapidamente”, ha riferito il vice direttore di Amnesty per il Medio Oriente, Lynn Maalouf, che ha assicurato che al- Darwish è stato condannato nel corso di un processo del tutto illegale, basato su una “confessione ottenuta attraverso la tortura”. Un’esecuzione che farebbe tornare ulteriormente indietro il lento e complicato processo di modernizzazione delle istituzioni saudite, tra le più liberticide del pianeta. “Procedere con questa esecuzione minerebbe i recenti progressi dell’Arabia Saudita sulla pena capitale. Nel 2020 le condanne a morte sono state ridotte dell’ 85%” ha aggiunto Maalouf in una nota. Amnesty considera la pena di morte “un’abominevole violazione del diritto alla vita in ogni circostanza” e ricorda che il diritto internazionale vieta rigorosamente l’uccisione di condannati che potrebbero essere stati minorenni al momento del crimine. Non è certo, infatti, se al- Daruish avesse 17 o 18 anni al momento dell’arresto. “Invece di giustiziare Mustafa al Darwish - ha concluso Maalouf - le autorità dovrebbero immediatamente ribaltare la sua condanna e ordinare che sia processato di nuovo con le dovute garanzie”. Nel nuovo Afghanistan si aspettano tempi peggiori di Giuliano Battiston Il Manifesto, 10 giugno 2021 Missione incompiuta. Ondata di omicidi mirati che nessuno rivendica. E i Talebani dopo la “pace” hanno intensificato l’offensiva. L’accordo chiuso dall’inviato di Trump confermato da Biden mostra tutti i suoi limiti. “Ci aspettiamo giorni peggiori”. Timur Hakimyar, direttore della Foundation for Culture and Civil Society e nostro abituale interlocutore a Kabul, prevede tempi bui. Per Najia Ayoubi “sono tempi confusi, opachi, in cui non è chiaro chi faccia cosa”. Ayoubi è la direttrice di The Killid Radio, rete di radio indipendenti con sedi in 8 province. Dice di sentirsi in pericolo. “È la prima volta in vent’anni che mi sento veramente minacciata. Me e i miei colleghi”. Giornalisti e giornaliste, attivisti, membri della società civile, giudici, funzionari governativi. Sono tanti gli omicidi mirati degli ultimi mesi. Una strategia deliberata che serve a indebolire il governo, a minacciare le voci libere, a mandare segnali. Ma senza paternità. “Nessuno rivendica. Le responsabilità non sono chiare. Non conosciamo chi siano davvero i nostri nemici, ci sono zone oscure”, ci dice Ayoubi nel suo ufficio, nel quartiere di Karte-e-Seh. Parla di “duecento giornaliste che hanno abbandonato il lavoro” in 6 mesi, elenca una ventina di radio che hanno chiuso i battenti, racconta di minacce anonime ricevute da colleghe e colleghi sui propri telefoni. I testi recitano più o meno così: “Con la scusa del giornalismo fate le spie per gli stranieri. Vi veniamo a trovare presto”. Messaggi espliciti. Mittenti sconosciuti. Sono tempi incerti, ripete Timur Hakimyar. Come altri, sostiene che il Paese sia in una fase nuova, di transizione. Di assestamento di poteri, interni ed esterni. Conta il ritiro delle truppe straniere, in corso da tempo, che ha innescato nuove dinamiche. Il processo di pace tra Talebani e governo di Kabul è in stallo, anche se proprio nelle ultime ore le due delegazioni sono tornate a incontrarsi. Secondo le dichiarazioni ufficiali, entrambi gli attori vogliono accelerare il percorso negoziale. Ma siamo solo all’inizio. Si vedranno nei prossimi giorni gli effetti degli ultimi tentativi di Zalmay Khalilzad, l’inviato scelto da Donald Trump, confermato da Joe Biden. Ha appena concluso quattro giorni fitti fitti di incontri, qui a Kabul. Su di lui qui girano storie di segno opposto. Si dice che sia un arrivista pronto all’Arg, il palazzo presidenziale. Ma anche un ingenuo che si è fatto gabbare dai Talebani. È lui ad aver costruito il percorso diplomatico che ha condotto all’accordo di Doha del febbraio 2020. Nel testo sottoscritto allora da Washington e Talebani questi ultimi si impegnavano genericamente a sedersi al tavolo negoziale con Kabul e a considerare il cessate il fuoco. Hanno invece intensificato l’offensiva militare. “I Talebani hanno sempre detto di combattere contro i soldati stranieri. Ora che gli internazionali non ci sono più, continuano comunque a combattere. Perché?”, chiede Hakimyar. Di fronte alla loro intransigenza, si fanno più forti le convinzioni sui Talebani manovrati da Islamabad. Sono spiegazioni parziali, scorciatoie. La mappa dei poteri, delle autorità, delle responsabilità, è più complessa. Quel che appare nitida è la schizofrenia tra dichiarazioni ufficiali e fatti. I Talebani rassicurano a parole. Ma picchiano duro sul campo di battaglia. “Quando si entra in un processo diplomatico, prima si accetta una tregua, poi si discute”, nota polemicamente Najiba Ayoubi. “Ma se continui a scegliere sempre lo strumento della guerra, se la violenza cresce proprio mentre si dialoga, non si va da nessuna parte”. Rafforzati dall’accordo con gli americani, fieri di aver cacciato le forze di occupazione, i Talebani esercitano la leva militare per ottenere vantaggi al tavolo diplomatico. “Ma arrivare al potere uccidendo civili, diventare presidenti di un Paese di bare, non è una buona idea”, dice Ayoubi. Per Hamikyar occorre guardarsi “dai trucchi dei Talebani”, abili a manovrare. Altri ricordano che se sono così forti è perché è debole il governo, la cui scarsa legittimità fornisce spazi enormi per gli studenti coranici. L’accordo tra i due fronti è lontano. Una firma non basterà, spiega Najiba Ayoubi. “Fermare un pezzo di carta non produrrà la pace. C’è il processo politico, certo, ma c’è anche la pace sociale. Qui c’è una società in guerra da 40 anni. Negli ultimi 20, sia il governo sia i Talebani hanno ucciso civili. Le famiglie delle vittime chiedono giustizia. Se non si affronta questo nodo, il conflitto riprenderà sempre di nuovo”.