Sul Covid non si dimentichino i detenuti. Si salvino i diritti, ma quelli veri di Michele Passione Il Dubbio, 9 gennaio 2021 In un Paese squassato dalla pandemia, con città e Regioni che ogni giorno cambiano colore, nell’attesa che i vaccini vengano finalmente ed efficacemente distribuiti e somministrati si è fatta strada una discussione su obblighi vaccinali, diritto all’obiezione, possibili conseguenze. Per ovvie ragioni, l’attenzione si è concentrata su coloro i quali si trovano più esposti al rischio (operatori sanitari, anziani, degenti vulnerabili, soggettivamente o per condizioni di contesto). Qualcuno si era dimenticato il carcere. La Società della Ragione ha promosso una petizione per promuovere subito la vaccinazione ai detenuti e a coloro che lavorano in carcere. Così, il 17 dicembre, è stata formulata un’interrogazione al presidente Conte e al ministro Bonafede e la Camera ha approvato un ordine del giorno che impegna il Governo a muoversi in questa direzione. La posizione è stata ribadita dalla senatrice Segre e dal prof. Palma, che in una lettera a Repubblica hanno parlato di “un obbligo per lo Stato per il benessere di chi è custodito e di chi in carcere lavora” (per contatto sociale qualificato, potremmo dire). Più sfumata la posizione del sottosegretario Giorgis, costituzionalista, secondo il quale (in sintesi) dentro le carceri valgono gli stessi criteri delle vaccinazioni per i cittadini liberi (che, peraltro, non sono esattamente chiari, come ha di recente ricordato il direttore di Questione Giustizia, Nello Rossi). Da ultimo, dopo che tante altre voci nella comunità dei giuristi si sono espresse sul punto, è intervenuto il dottor Ardita, che ha preso posizione con un intervento pubblicato su Il Domani. Partendo dalla constatazione che il tema si inscrive a tutto tondo tra gli argomenti che definiscono le politiche sociali del nostro Paese, il magistrato ha stigmatizzato la posizione espressa dal sottosegretario, a cagione del fatto che in ambiente penitenziario si impone un welfare rafforzato. Molto opportunamente, il dottor Ardita ci ricorda che non è possibile “rivendicare la parità formale di trattamento tra detenuti e liberi, perché le due categorie non sono sullo stesso piano e, in base al secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, meriterebbero trattamenti diversi”. Sono d’accordo. La terribile situazione che da quasi un anno ci tiene ai margini della vita vera dimostra nei fatti quanto gli articoli 2 e 32 della Costituzione si inverino proprio nelle condizioni di difficoltà estrema, e debbano diventare impegno fattivo di rimozione degli ostacoli e di garanzia dei diritti inviolabili dell’Uomo, non solo di riconoscimento formale. Ma Ardita ritiene che questa posizione (chiara, costituzionale) si spieghi anche (soprattutto, mi pare) “come test di coerenza delle scelte complessive in materia di Covid e carcere” e ci ricorda che “la ragione per decidere di negare la priorità del vaccino a chi sta in carcere potrebbe fondarsi su una valutazione certa del Governo che ritenga non sussistente un maggior pericolo di contagio”, e dunque implicitamente si riconosce che così non è. Ma siccome al magistrato interessa una cosa in particolare, ecco che il pensiero si fa più evidente laddove afferma che “non si comprende perché continuino a favorirsi le detenzioni domiciliari con braccialetto, anche per detenuti pericolosi, proprio sul presupposto di pericolo di Covid”. Questo il punto; niente “provvedimenti eccezionali e indulti”, ma per evitare “quella temuta esplosione incontrollata dell’epidemia che sinora si era prevenuta facendo il ricorso alle detenzioni domiciliari” (di nuovo emerge il riconoscimento del problema) occorre “vaccinare tutti i detenuti presenti e tutti gli operatori penitenziari” Allora diciamolo; tutto intramoenia, così da evitare ogni provvedimento che riduca l’overcrowding. Altro che Costituzione. Che poi chi ha fruito della detenzione domiciliare con braccialetto siano quattro gatti, affatto pericolosi (stante le preclusioni di legge) e che i braccialetti d’oro siano introvabili, questo il dottor Ardita non lo spiega, ma invoca “un carcere della speranza”. Eppure il Procuratore generale della Suprema Corte, dottor Salvi, proprio a partire dalla constatazione dell’insufficiente risposta governativa, ha reiterato la sua circolare dello scorso aprile, per cercare di ridurre il sovraffollamento pandemico. Salvi i diritti; quelli veri. Coronavirus, anche in carcere il 2021 dev’essere l’anno della ripartenza di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2021 In ogni parte del mondo anche in carcere il 2021 dev’essere l’anno della ripartenza - tanto se dividiamo il pianeta per aree geografiche, quanto se lo facciamo per tipologie di luoghi - l’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle è stato segnato da un identico accadimento: lo scoppio della pandemia. Non identiche sono state tuttavia le conseguenze di tale accadimento. Non identica la paura generata, le misure prese, i risultati ottenuti. Ripercorriamo quanto accaduto in Italia lungo il 2020 in una parte di mondo ben specifica: il sistema penitenziario. In quella parte di mondo che sono le carceri italiane, il Covid-19 ha immediatamente e radicalmente stravolto l’aspetto del luogo e della vita interna. L’irruzione della crisi sanitaria ha come prima cosa isolato il sistema carcerario dalla società esterna ancor più di quanto usualmente non sia. Da un giorno all’altro, i famigliari, i docenti delle scuole, i responsabili esterni di attività lavorative interne, i volontari sono stati allontanati dagli istituti di pena, creando uno statico silenzio da trascorrere nell’immobilismo più totale e nell’assenza di notizie provenienti da fuori le mura di cinta. Il 2020 era arrivato mentre il flusso della popolazione carceraria italiana era in costante aumento. All’esplosione della pandemia, alla fine di febbraio, le carceri ospitavano oltre 61.000 persone per 50.000 posti letto ufficiali, per un tasso di affollamento superiore al 120%, che è in realtà superiore poiché non tiene conto dei circa 3.000 posti inutilizzati a causa di manutenzioni. Durante la prima ondata pandemica, i detenuti risultati positivi al virus erano arrivati a un picco massimo di circa 160 persone nei primi giorni di maggio, essendosi mantenuti sempre sopra le 100 unità a partire dalla metà di aprile. Quattro i detenuti morti di coronavirus durante quei mesi. Ben diverso lo scenario della seconda ondata, quando i detenuti positivi sono arrivati a superare le mille unità e focolai si sono sviluppati in vari istituti in giro per il Paese, da Terni a Sulmona, da Tolmezzo a Busto Arsizio ad altri ancora. I detenuti morti per Covid-19 nel corso dell’autunno sono stati 7, cui si va aggiungere la prima recentissima morte, a Rieti, del 2021. Altri decessi drammatici si aggiungono a questi. Da un lato, i 56 suicidi, numeri enormi ai quali il sistema sembra oramai assuefatto; dall’altro, le 14 morti avvenute durante le rivolte penitenziarie di marzo nelle carceri di Modena e di Rieti. Lo scoppio della pandemia aveva generato un’ansia ingestibile in carcere, dove la televisione raccomandava con toni accesi di mantenere il distanziamento sociale mentre le persone si trovavano ammassate l’una sull’altra, senza adeguate spiegazioni su quanto andava accadendo, senza canali di comunicazione con le famiglie e senza rassicurazioni sulla salute dei propri cari. Sulle morti di quei giorni ci aspettiamo che venga fatta rapidamente luce. Se le autopsie hanno parlato di intossicazione da metadone, sappiamo che c’è tuttavia ancora molto da chiarire. In particolare, alla fine dello scorso novembre cinque detenuti trasferiti all’indomani dei fatti da Modena ad Ascoli Piceno hanno inviato un esposto alla Procura raccontando nel dettaglio la rivolta modenese. Parlando del loro compagno (di detenzione e di trasferimento) Salvatore Piscitelli, deceduto a marzo, scrivono che “il detenuto, già brutalmente picchiato alla casa circondariale di Modena, durante la traduzione arrivò ad Ascoli in evidente stato di alterazione da farmici, tanto da non riuscire a camminare (…) Tutti ci chiedevamo come mai non fosse stato disposto l’immediato ricovero”. Piscitelli non sarebbe stato visitato adeguatamente all’arrivo ad Ascoli ed è morto in cella il mattino dopo il trasferimento. Nei giorni successivi alle rivolte, Antigone ha ricevuto varie segnalazioni che parlavano di presunte ritorsioni violente da parte della polizia penitenziaria verso chi aveva preso parte ai disordini (e anche verso qualcuno che non vi aveva preso parte). I nostri avvocati hanno presentato esposti alle competenti procure e anche su questo ci aspettiamo che la magistratura faccia prontamente luce. Il 2021 vedrà ancora tanta fatica, ma sarà l’anno della speranza e della ripartenza. Deve esserlo anche in carcere, affinché l’occasione di questo dramma possa essere servita per imparare dagli errori e avvicinare l’esecuzione della pena al dettato della nostra Costituzione. Si potrà fare con i fondi del Recovery Fund destinati alla giustizia, che andranno usati sapientemente per modernizzare gli istituti e prevedere un adeguato piano di assunzioni di personale civile (direttori, mediatori culturali, educatori). E si potrà fare - si dovrà fare - immediatamente attraverso una campagna vaccinale, che porti, da un lato, alle persone detenute la necessaria informazione sull’indispensabilità del vaccinarsi e, dall’altro, che inserisca chi vive in carcere (personale e detenuti) tra le categorie a rischio da vaccinare in via prioritaria, così come accade per le Rsa. *Coordinatrice Associazione Antigone E l’Italia ancora con la mania di costruire nuove carceri di Emiliano Silvestri Il Riformista, 9 gennaio 2021 Dopo la chiusura della fatiscente Casa circondariale di Savona, si sta valutando dove dovrà sorgere una nuova struttura. Intanto nel mondo si scelgono sempre più le pene alternative e si immaginano alternative alla pena. Che senso ha costruire nuove carceri, istituti dedicati all’espiazione di una pena, quando in tutto il mondo si aboliscono pene di morte, si decidono moratorie delle esecuzioni, si scelgono pene alternative e immaginano alternative alla pena, si commutano condanne, si liberano detenuti? Sembra aver senso in Italia, dove si concepiscono monumentali piani-carcere, opere pubbliche per la espiazione di pene, campi di concentramento dell’odio, della violenza e del dolore in risposta all’odio, alla violenza e al dolore portati del delitto. Entro la fine di gennaio, ad esempio, conosceremo il luogo in cui sarà costruito il carcere destinato a sostituire la Casa circondariale di Savona, chiusa nel gennaio del 2016 per le gravi condizioni di degrado della struttura: un convento edificato nel 1300 e poi trasformato in carcere. Tra pochi giorni, funzionari del ministero verificheranno l’idoneità dei siti proposti dai Comuni di Cairo Montenotte e Cengio, candidati a ospitare la nuova struttura. Siamo ormai all’epilogo di una vicenda che, all’indomani di una interpellanza urgente, presentata nel novembre scorso dalla deputata Sara Foscolo, ha coinvolto i diversi livelli istituzionali e che ha portato - con l’impegno del presidente della Provincia di Savona Olivieri e del deputato ligure Franco Vazio - prima all’esclusione di siti nel Comune di Savona, quindi all’individuazione di quattro aree in val Bormida. Le intenzioni, ovviamente, sono buone: costruire un carcere che non sia semplicemente un luogo con sbarre ma un luogo dove svolgere attività di recupero dei detenuti; un luogo che consenta una sistemazione dignitosa alla polizia penitenziaria e opportunità di lavoro reale per i carcerati; spazi adeguati ad avvocati, magistrati e famiglie dei detenuti. Va scelto un sito che abbia almeno la dimensione di 50.000 metri quadrati. È questo il senso di quanto Franco Vazio, vicepresidente della Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati e portavoce, per l’occasione, degli enti locali liguri, ha comunicato al sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis. Se siano più realistici gli auspici e i propositi del vicepresidente Vazio (che riconosce la necessità di creare infrastrutture) o i timori di quanti sostengono che, in quelle zone non esistano le connessioni - anche fisiche - per mettere in rete con il territorio una struttura adeguata alle ambizioni, lo dirà il tempo. Certo è che - per usare le parole che utilizzò il Presidente Napolitano - “un abisso separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona”. Il Presidente della Repubblica corrispondeva, allora, a un lungo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella; oggi Rita Bernardini (presidente di Nessuno Tocchi Caino - Spes contra Spem) non ha incontrato la stessa sensibilità ed è costretta a riprendere lo sciopero della fame, sospeso dopo 35 giorni in vista dell’incontro che poi aveva fatto ben sperare con il Presidente del Consiglio. Sembra che nulla sia cambiato dalla sentenza Torregiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e che, anzi, la cultura dominante veda il carcere come luogo di concentramento e di vendetta su persone cui nemmeno si riconosce più il diritto alla salute, come temevano i dirigenti del Partito Radicale che in occasione della “prima ondata” avevano denunciato presso tutte le Procure della Repubblica il Ministro della Giustizia Bonafede e il capo del Dap pro tempore per epidemia colposa. In questa situazione è forse opportuno ricordare - come fa il Prof. Tullio Padovani nella prefazione al libro “Il viaggio della speranza” - che “Il carcere non si uniforma affatto (come si racconta mitologicamente) al criterio dell’extrema ratio nel senso che vi si faccia ricorso soltanto in casi estremi, ma a quello dell’estrema marginalità nel senso che con il carcere si stabilisce e si assicura il peggiore trattamento possibile dei criminali”. Un invito a cambiare prospettiva. Forse la situazione straordinaria determinata dalla pandemia, e dai progetti e finanziamenti messi in campo dall’Unione Europea, potrebbero fornire la possibilità di immaginare qualcosa di meglio del diritto penale; di costruire una giustizia che ripara (come sostiene Gherardo Colombo, autore de: Il perdono responsabile). Di cominciare a rinunciare a una giustizia che aggiunge male al male, dolore al dolore, provoca squarci ulteriori alle lacerazioni della società. Bonafede riempie le carceri con 30.000 persone in più di Fabio Amendolara La Verità, 9 gennaio 2021 Dopo aver liberato boss, e nonostante il sovraffollamento, il ministero vuole accelerare le esecuzioni delle sentenze. Il governo che ha scarcerato i boss causa Covid ora vuole riempire le galere, che già scoppiano di detenuti, con i ladri di polli. Tra i 1.050 commi della legge finanziaria ce n’è uno, il 925, che autorizza il ministero della Giustizia ad assumere 1.o8o persone, con scorrimento delle graduatorie esistenti, per velocizzare gli ordini di carcerazione che le oltre 130 Procure della Repubblica e le 26 Procure generali devono emettere a seguito delle sentenze passate in giudicato. Si tratta di oltre 50.000 provvedimenti da emettere, 20.000 dei quali solo in Campania. Numeri che non tengono conto del sovraffollamento carcerario. Al momento le persone detenute sono 52.221 (a gennaio 2020 erano circa 60.000), a fronte di una capienza regolamentare che si aggira attorno ai 47.000. E, così, “al fine di dare attuazione a un programma di interventi, temporaneo ed eccezionale”, è scritto nel comma 925, “finalizzato a eliminare, anche mediante l’uso di strumenti telematici, l’arretrato relativo ai procedimenti di esecuzione delle sentenze penali di condanna, nonché di assicurare la piena efficacia dell’attività di prevenzione e di repressione dei reati”, il ministro Alfonso Bonafede, a partire da giugno potrà cominciare a reclutare coloro che avranno il compito di far scoppiare le carceri. È anche vero che un condannato può essere destinatario di più di un ordine di carcerazione, ma gli esperti stimano che ci sarebbero oltre 30.000 persone che presto verranno raggiunte da un provvedimento di esecuzione penale. Ovviamente a cascata la questione coinvolgerà anche altri organismi della giustizia. Come i Tribunali di sorveglianza, che verranno assaltati. E che, probabilmente, presi dalle istanze per le carcerazioni esecutive, andranno in affanno sul loro lavoro ordinario. La questione non è sfuggita a Salvatore Buzzi, l’ex re delle coop protagonista del Mondo di mezzo ai tempi dell’inchiesta flop Mafia Capitale, che sul suo profilo Facebook ha commentato: “Questa è la risposta di questo governo al sovraffollamento carcerario; un governo sempre pronto ad aumentare le pene e a rendere più difficile l’uscita dal carcere; un governo che non ha fatto propria la proposta dei radicali presentata da Roberto Giachetti di aumentare la liberazione anticipata di 6o giorni l’anno per decongestionare le carceri; infine, un governo che va contro la circolare del procuratore generale della Cassazione che invita i vari procuratori a limitare gli arresti per via del sovraffollamento”. E non sono serviti neppure i 38 giorni di sciopero della fame dell’indomita radicale Rita Bernardini. Così come sembrano essere cadute nel vuoto le parole di Giovanni Mammone, primo presidente della Corte di cassazione, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2019. L’ermellino denunciava la complessa applicazione dell’istituto della messa alla prova in fase di esecuzione penale, uno strumento che, oltre a essere “un mezzo di deflazione del lavoro del giudice”, lo sarebbe anche per “l’attenuazione del sovraffollamento carcerario”. E invece, nascondendolo in coda alla legge finanziaria, si è cercato un escamotage da “tutti dentro”. Secondo le normative comunitarie un detenuto dovrebbe avere a disposizione almeno sette metri quadrati in una cella singola. E sempre l’Europa prevede che un maiale d’allevamento dovrebbe averne almeno sei. La Cassazione di recente ha stabilito che per un detenuto siano sufficienti tre metri quadrati al netto del letto e delle varie suppellettili presenti: armadietto, tavolino e sgabello. Fino a quella sentenza, ha denunciato Buzzi, “il Dap considerava i tre metri quadri come lordi. E quindi ne concedeva ai detenuti sì e no la metà: un metro e mezzo a testa”. Da qui la provocazione: “Applicate ai detenuti italiani le norme per i maiali europei: andrà bene sia per i vostri elettori sia per i nostri diritti”. Economia carceraria, così ai detenuti si dà un’opportunità di Gabriella Cantafio vanityfair.it, 9 gennaio 2021 Nonostante il lavoro penitenziario sia una leva strategica per l’inclusione sociale, al 31 dicembre 2019 soltanto il 30% circa della popolazione detenuta era impiegata in attività lavorative. Così Paolo Strano e Oscar La Rosa hanno fondato “Economia carceraria”, un progetto per promuovere la collaborazione tra cooperative e imprese che investono all’interno delle carceri assumendo persone in esecuzione penale. Fisioterapista da anni, per lavoro varca i cancelli del carcere di Regina Coeli e, nonostante l’iniziale reticenza, scopre un mondo ricco di persone con grandi potenzialità. È quanto accaduto a Paolo Strano che, oltrepassando le sbarre dei pregiudizi, ha intrapreso un percorso inaspettato: nel 2013, a Roma, ha costituito l’associazione Semi di libertà per professionalizzare detenuti e avviarli al lavoro. Per dare una concreta chance di inclusione lavorativa e contrastare le recidive ha poi fondato Vale la pena, un micro birrificio artigianale che ha registrato un successo tale da dar vita anche a un omonimo pub che impiega detenuti ed ex detenuti. Proprio qui, per un’esperienza di volontariato, è giunto Oscar La Rosa, studente di Scienze politiche della Luiss, laureatosi con una tesi sull’impatto dell’economia carceraria. Tra Paolo e Oscar è stata subito condivisione di valori e obiettivi tanto che, nel 2018, hanno organizzato il primo Festival Nazionale dell’Economia Carceraria per promuovere la collaborazione tra cooperative e imprese che investono all’interno delle carceri assumendo persone in esecuzione penale. “In quell’occasione percepimmo che tante realtà erano troppo frammentarie e deboli per affrontare le difficoltà legate alla burocrazia e alla comunicazione. Così abbiamo voluto creare un luogo, o meglio un modo, per offrire ai prodotti realizzati dalle persone detenute il giusto contesto competitivo e di mercato” afferma Paolo raccontando la nascita di Economia Carceraria, un progetto che riunisce tutte le esperienze attive nella creazione di laboratori e simulatori d’impresa con soggetti posti in reclusione. Nonostante il lavoro penitenziario sia una leva strategica per l’inclusione sociale, al 31 dicembre 2019 soltanto il 30% circa della popolazione detenuta era impiegata in attività lavorative. Ma, fortunatamente, in carcere si sviluppano anche eccellenze produttive, come attestano le tredici realtà d’impresa che fanno parte del circuito Economia Carceraria. “In questi due anni abbiamo partecipato a fiere gastronomiche per fare scouting, abbiamo visitato numerose cooperative e associazioni per conoscerle personalmente e certificare il loro impegno sociale” aggiunge Oscar soffermandosi sull’importanza di fare squadra per presentarsi al mercato in modo unito e compatto, condividendo gli stessi valori. Le realtà di Economia Carceraria coinvolgono molti detenuti che con passione ed impegno realizzano in particolar modo prodotti alimentari di alta qualità, come per esempio la Pasta Ucciardone nel carcere di Palermo, il Caffè Galeotto di Rebibbia, il pane e i prodotti da forno Farina nel sacco della casa circondariale di Torino. Sono coinvolte anche le detenute del carcere di Pozzuoli che producono il caffè Lazzarelle e i ragazzi dell’istituto penale minorile di Palermo con i loro biscotti Cotti in fragranza. La detenzione negli istituti penitenziari diventa così un momento di acquisizione di nuove competenze utili ad assicurare, a fine pena, una vita dignitosa e produttiva, abbassando notevolmente il rischio di recidiva. “È molto importante creare un ponte tra dentro e fuori: grazie all’art. 21 dell’ordinamento penitenziario, soggetti in esecuzione penale, giunti a un determinato punto della pena con buona condotta, possono svolgere all’esterno attività formative e lavorative” prosegue Paolo spiegando che, seppur i detenuti siano ancora in carcere, in tal modo li preparano per l’accoglienza nel mondo civile. Sopperendo alle restrizioni dettate dalla pandemia, è stato lanciato anche l’e-commerce di Economia Carceraria per ampliare la distribuzione e la vendita dei prodotti carcerari, incentivando la creazione di nuovi posti di lavoro e la nascita di nuovi progetti che contribuiscono alla crescita del Paese con un business virtuoso e solidale. L’impegno di Paolo e Oscar, infatti, è inarrestabile: Semi di libertà è ormai un hub di progettualità che crea piccole startup sociali, come d’altronde Economia Carceraria. L’ultima arrivata è la cooperativa sociale Corri, con cui promuovono progetti tessili, come i sandali capresi artigianali A piede libero, prodotti da due detenute, un laboratorio di serigrafia per realizzare magliette e un altro di pelletteria Fila dritto con detenuti che creano borse, cinture ed accessori. “Attraverso Economia Carceraria riusciamo a raccontare l’ambiente penitenziario a persone molto distanti da questo mondo tanto stigmatizzato, attraverso la testimonianza delle storie che impreziosiscono ogni singolo prodotto” concludono Paolo e Oscar, fieri di condurre tanti detenuti sulla retta via, disseminata di legalità. “Promozione solo per meriti politici, lasciamo l’Anm”, resa dei conti tra le toghe di Viviana Lanza Il Riformista, 9 gennaio 2021 Questo è un periodo in cui solitamente si tirano le somme dell’anno appena trascorso e si guarda alle possibilità dell’anno appena iniziato. Per il settore Giustizia è stato un anno di cambiamenti, la pandemia ha costretto tutti a rivedere tempi e modalità di lavoro. E tra i magistrati non sono mancate tensioni e fratture per i motivi più vari, basti pensare alle dimissioni di otto toghe, solo nell’ultimo mese, dall’Anm. Dimissioni che hanno imposto alla categoria una riflessione ulteriore sul dissenso di chi ha scelto di andare via e di chi sta meditando di farlo. Tra i dimissionari più critici c’è il Paolo Itri, attualmente in forza al pool antimafia di Napoli e scrittore. La sua scelta di abbandonare l’Ann si fonda su tre motivazioni principali che il pm ha ribadito in un documento inviato alla giunta napoletana dell’Ann riunitasi ieri per discutere proprio delle dimissioni dei colleghi e aprire a un sereno confronto con chi ha scelto di lasciare l’associazione. Alla riunione, che si è svolta in modalità da remoto, alcuni dimissionari hanno preso parte in prima persona, altri hanno inviato una lettera, mentre il magistrato Catello Maresca ha scelto di non intervenire né di persona né scrivendo. Tre, dicevamo, sono tra le principali motivazioni alla base della frattura interna alla magistratura. “La prima - spiega Itri - è quella che desta maggiore sconcerto, soprattutto se consideriamo che tale vicenda riguarda direttamente la categoria dei giudici e dei magistrati, di coloro cioè che più di tutti dovrebbero avere a cuore il rispetto delle norme e delle procedure, uguali per tutti, stabilite secondo le regole dello Stato di diritto”. Il punto è che “nessuna voce si è ancora mai levata dal coro per porre l’accento sul “problema dei problemi”: mi riferisco - spiega Itri - al fatto che le regole stabilite dalle circolari del Csm (sulle nomine dei direttivi, dei semidirettivi, della Cassazione, della Procura generale della Cassazione e della Direzione nazionale antimafia) siano state nella indifferenza generale per così tanto tempo sistematicamente e platealmente disattese, se non impunemente violate”. Come a dire che questo è un dettaglio, un cavillo, rispetto a baluardi come l’indipendenza della magistratura, il valore dell’efficienza, la declamata ricchezza della cultura della giurisdizione garantita dal pluralismo ideale delle correnti, e così via. “Eppure, nonostante tutto - aggiunge il pm Itri - noi rimaniamo fiduciosi, in attesa che sullo squarcio di illegalità aperto dalle vicende palamariane, relative alle nomine dei direttivi, si apra finalmente nel Paese un serio e approfondito dibattito, e che qualcuno magari ne tragga, prima o poi, le dovute conseguenze. Perché l’ignavia, l’ipocrisia e la faccia tosta di chi, anche per dovere istituzionale, dovrebbe prendere provvedimenti, e invece continua a far finta di niente, prima o poi, un giorno, dovranno pure avere fine. Almeno noi ce lo auguriamo”. L’altro motivo riguarda i colleghi, “i paria”, “quelli che per anni e anni hanno fatto domande su domande perché aspiravano a fare il presidente di sezione oppure il giudice in Cassazione; quelli il cui profilo professionale veniva (e viene) sistematicamente giudicato “recessivo” o “subvalente” (ah, come è elegante e rassicurante questo sublime modo espressivo di sancire trombature a destra e a manca quando l’unica vera esigenza era e rimane quella di gonfiare il vuoto spinto dei curricula degli amici e degli amici degli amici). A questi colleghi chi ci pensa? Esiste una qualunque forma di risarcimento per loro?” E infine, c’è il danno ai cittadini in un Paese dove il merito è sempre più spesso ignorato o ridotto a insignificante dettaglio. “In questo contesto - conclude Itri - mi duole dover dire che l’Anm ha perduto l’ennesima occasione per dimostrare di essere diversa da quello che invece è: un’associazione di natura corporativa, legata a i poteri forti e soprattutto vecchia, e perciò incapace di esprimere valori ideali veramente nuovi”. Può la tv pubblica tifare per i pm a processo “trattativa” in corso? di Gian Domenico Caiazza* Il Dubbio, 9 gennaio 2021 Nella puntata di Report sullo “Stato-mafia”, totalmente ignorata, tra l’altro, l’assoluzione di Mannino. La recente puntata della trasmissione “Report”, in onda sulla terza rete del servizio pubblico radiotelevisivo, ha dedicato un ampio e per certi versi drammatico servizio all’annoso tema della cosiddetta “Trattativa” tra lo Stato (latamente e anzi confusamente inteso) e la mafia. Pezzi - diciamo così - delle istituzioni (ah, non più Calogero Mannino, però) avrebbero intavolato con la mafia stragista dei primi anni 90 una inconfessabile trattativa, volta a scambiare il fermo dell’attività stragista mafiosa con benefici penitenziari e forse anche investigativi (latitanze protette eccetera) per i boss di Cosa nostra. Non sono mai riuscito ad appassionarmi a questa storia, come sempre mi accade appena si materializzano in tv sedicenti testimoni di inconfessabili e fino a quel momento inconfessati misteri, travisati nel viso e nella voce. Ho sempre pensato, e penso tutt’ora, che se qualcuno ha qualche gravissimo fatto da raccontare, non lo fa travestito e travisato in favore di telecamera, ma in un ufficio di Procura e poi - soprattutto- in un’aula di Tribunale per essere contro-esaminato dai difensori di coloro che egli accusa, perché né la storia, né tantomeno i processi si fanno sulla base dei soliloqui di chicchessia. Ho poi letto forti e argomentate critiche sul merito di quanto ricostruito in quel servizio, e mi sono parse talmente serie e articolate (a partire dalla evocazione dei drastici e sprezzanti giudizi che di quelle fantasiose ipotesi avevano espresso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) da meritare repliche di equivalente livello, delle quali tuttavia, al momento, non leggo traccia. D’altronde, anche a me sembra utile diffidare di narrazioni secondo le quali chi ha arrestato Totò Riina e disvelato il grande tema degli appalti pubblici in favore della mafia finisce sotterrato da anni di carcere, e la mafia palermitana viene ridotta a manovalanza di Berlusconi e Dell’Utri, i veri strateghi di questa Spectre stragista di non meglio individuata matrice. Ognuno la pensi come crede, ma non è questo lo scandalo, il vero scandalo di quella trasmissione. Perché si dà il caso che la puntata di Report va in onda mentre è in corso a Palermo il processo di appello sulla medesima “trattativa”, a carico di imputati già gravati in primo grado da anni di carcere per un reato - come ci spiegò in modo magistrale il professor Giovanni Fiandaca- di almeno dubbia configurabilità tecnica (e non dimentichiamo che i giudici del rito abbreviato scelto dal coimputato Mannino, definitivamente assolvendolo, hanno invece definito quella accusa ab origine “logicamente incongrua”). Ora, se non si può impedire a una testata privata di fare le inchieste che crede, sostenere tesi colpevoliste a oltranza e magari organizzare campagne di opinione a sostegno di quell’accusa (“logicamente incongrua”, ma ognuno è libero di pensare come crede), questo non può accadere in una trasmissione del servizio pubblico. Non può accadere che chi per legge è tenuto alla “completezza ed imparzialità” della informazione, e riceve uno stipendio finanziato dal canone di abbonamento pagato anche dagli imputati di quel processo, imbastisca una puntata del genere, a dir poco sbilanciata a sostegno della tesi accusatoria, mentre il processo è in corso e una giuria popolare è chiamata a pronunciarsi. Il servizio pubblico non può scegliere, peraltro, di impostare tutto su una tesi precostituita, raccogliendo testimonianze di pentiti di almeno dubbia credibilità, insieme alle opinioni dei magistrati della Procura generale di Palermo e del Csm che ambiscono da quel processo la conferma del proprio controverso lavoro di inquirenti. È semplicemente una vergogna, devo infine aggiungere, che questi giornalisti - non a caso magnificati il giorno successivo dalle colonne del Fatto Quotidiano - oltre a non avvertire la gravissima inopportunità di un simile servizio in pendenza del giudizio penale, non abbiano ritenuto indispensabile dare il medesimo spazio alla prospettazione difensiva e alla ricostruzione critica di una narrazione d’altronde già demolita, in una parte assolutamente essenziale, da una sentenza definitiva di assoluzione. Il servizio pubblico radiotelevisivo dovrebbe solo raccontarli, i processi, non celebrarseli per suo conto, per di più senza la fastidiosa presenza dei difensori, ma in rigorosa ed esclusiva compagnia di pentiti e pubblici ministeri. O mi sbaglio? *Presidente dell’Unione camere penali italiane Il giudice del maxiprocesso: “La trattativa Stato-mafia non è mai esistita” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 9 gennaio 2021 Alfonso Giordano: “Alla storia della cosiddetta Trattativa non credo e nessuno che conosce i fatti può credervi. Se ne era occupato Falcone, che la escludeva completamente: la mafia non accetta suggerimenti e non si presta a cabine di regia congiunte con nessuno”. Alfonso Giordano, classe 1928, è il magistrato siciliano che ha presieduto il maxi processo a Cosa Nostra. Ha accettato di presiederlo quando più di qualcuno, tra i suoi colleghi, adduceva pretesti per declinare: troppe incognite, troppo lavoro e troppi rischi di essere ucciso. E invece il più ampio processo penale della storia è stato concluso dopo un lavoro ciclopico, svolto per il I grado in ventidue mesi serrati: 460 imputati, 200 avvocati, culminato con 19 ergastoli e 4665 anni di pene detentive complessive. Dopo una vita con il peso della scorta addosso, per le minacce continue di Cosa Nostra, ad appena 92 anni può finalmente dedicarsi a se stesso. Meritato riposo? Mica tanto: quando lo raggiungiamo è immerso nella scrittura del secondo libro, dopo quello dedicato alla storia del maxi processo: una ricostruzione della vicenda di Lucrezia Borgia. Vittima di intrighi di potere e delle maldicenze dell’epoca. Parliamo di trame più recenti: lei come giudica la tesi della Trattativa Stato-mafia? Io ho rappresentato lo Stato nel processo più duro contro Cosa Nostra. Il nostro compito era quello di non fare sconti a nessuno, e non ne abbiamo fatti. Diciannove ergastoli comminati insieme e poi confermati in appello e in Cassazione significano che lo Stato con la mafia ci andava giù duro. Alla storia della cosiddetta Trattativa non credo e nessuno che conosce i fatti può credervi. Si era incaricato di smentirla Giovanni Falcone. La aveva considerata una ipotesi inesistente Paolo Borsellino. Allora proviamo a fissare qualche paletto. Perché poi l’ipotizzata Trattativa la colloca dopo la sua sentenza di primo grado, anzi dopo l’assassinio di Salvo Lima, che non sarebbe riuscito a mitigare la sentenza di Cassazione... Sono fantasie, per quanto ne so, come conferma la sentenza di assoluzione di Mannino. Il terzo livello esiste? Anche su questo presunto terzo livello, troppa fantasia. È stato agitato come uno spettro ma ogni volta che si sono svolte indagini accurate, non sono stati trovati riscontri alle ipotesi. Se ne era occupato Falcone, che lo escludeva completamente: la mafia non accetta suggerimenti e non si presta a cabine di regia congiunte con nessuno. Cosa ricorda su questo punto nell’istruttoria del maxi processo? La fecero molto bene Falcone e Borsellino. Conclusero che la mafia era gelosa delle sue cose e che la Commissione, che rappresentava il vertice della Cupola, emetteva le sue sentenze senza dare ascolto né a servizi deviati né a emissari della massoneria, né altri. Ma il dialogo della mafia con la politica c’era... In parte c’è sempre stato. Ma sul piano locale, e i politici che prendevano parte al dialogo con Cosa Nostra sono sempre stati quelli siciliani, con incarichi amministrativi. Non c’erano nei nostri riscontri politici di primo piano nazionale. Lei interrogò personalmente Giulio Andreotti, tra gli altri. Come fu il confronto? Serio, serrato. Lo andai a sentire a Roma. Andreotti mise a disposizione le informazioni che aveva, negando un suo coinvolgimento diretto. Ma aveva capito il ruolo di Salvo Lima e di Vito Ciancimino. A fine interrogatorio ci fece gli auguri di buon lavoro e non interferì mai, in nessun modo, con le indagini. Il maxi processo beneficiò delle ampie rivelazioni di Tommaso Buscetta. Che però sui rapporti con la politica non furono così ampie... È vero, Buscetta non voleva parlare dei rapporti con la politica. Con Falcone accennò al ruolo di Salvo Lima, una volta. Io nel dibattimento lo incalzai ma lui, che pure tirò fuori i nomi di tantissimi mafiosi, non fece nomi di politici. Non so se per paura o per scarse informazioni. Borsellino voleva andare a fondo e stava indagando sul filone mafia-appalti... Sì, Borsellino stava stringendo il cerchio sul filone che riguardava più da vicino il sistema delle complicità tra politica e Cosa Nostra, anche con riferimento ad un sistema di corruzione diffuso. Stava indagando su questo nei giorni subito precedenti all’attentato mortale di via D’Amelio. In quell’occasione scomparve la sua agenda rossa. Ci aiuta a capire che cos’era? Si è favoleggiato moltissimo su quell’oggetto. Io conoscevo l’ordine e l’aggiornamento delle cartelle di indagine di Borsellino, dei suoi uffici con cui mi trovai a lavorare in quegli anni. Non era un uomo che poteva affidare a un quadernetto chissà quali segreti. Aveva una agenda tascabile come la avevamo noialtri; c’erano gli appuntamenti giorno per giorno, gli orari delle riunioni e delle telefonate da fare, e alla fine c’era la rubrica telefonica con i numeri da portarsi dietro, perché parliamo di anni in cui i cellulari non c’erano. Certo è strano che sia sparita, è un mistero chi l’abbia presa e dove sia. Ma escluderei che possa contenere chissà quali rivelazioni. C’è un florilegio di ipotesi, ci sono pentiti che dicono di averne visto girare anche più copie… Noi sui collaboratori di giustizia dobbiamo stare molto attenti. I depistaggi esistono sempre. Chiedo ai colleghi magistrati di mettere sempre il massimo dell’attenzione sull’attendibilità di chi collabora, perché le finalità della collaborazione sono sempre diverse da quelle che noi immaginiamo. Ciascuno ha in mente una propria mappa di convenienze e connivenze, di interessi particolari. E se raccomando attenzione ai magistrati, figuriamoci ai giornalisti. Chi ricostruisce reportage sulla base di dichiarazioni di presunti pentiti inattendibili non fa un servizio alla verità dei fatti. Salvatore Baiardo, il gelataio di Omegna, sostiene che Berlusconi sia venuto in Sicilia quattro volte per incontrare i fratelli Graviano... Mi sembra inverosimile, e non risulta da nessun riscontro, né dalle rivelazioni di Buscetta. Sa cosa penso? Che sia una voce che favorisce i fratelli Graviano, perché li riveste di un’autorevolezza un po’ superiore a quella che avevano. Si vogliono far passare per depositari di segreti che in realtà non esistono. Che ruolo ha avuto Berlusconi rispetto a Cosa Nostra? Per quel che so Berlusconi ha avuto delle minacce da Cosa Nostra, sia dal punto di vista economico, sia da quello fisico. Tramite Dell’Utri, di cui si fidava, accettò di assumere Mangano, un personaggio incaricato da Pippo Calò di tenere Berlusconi sotto protezione. Come è noto abbiamo condannato Calò e Mangano, dopo aver acquisito tantissima documentazione. Agli atti non risulta niente di più su Berlusconi, ma vedo che il suo nome continua a circolare a prescindere. Del maxi processo rimane epico, tra i tanti, il momento del confronto Buscetta-Calò. Come vide reagire Calò alle pesanti accuse che gli venivano rivolte? Calò era bravo a dissimulare, non cambiava mai espressione, anche quando li mettemmo seduti fianco a fianco. Ma quando Buscetta iniziò a parlare degli omicidi commessi personalmente da Calò, lo vidi prima sbiancare all’improvviso, poi irrigidirsi, con gli occhi sgranati. Ero in quel momento a pochi metri davanti a lui. Buscetta gli disse: “Come hai potuto ammazzare La Licata che era tuo amico, con le tue mani?”. Buscetta provò a negare perfino di conoscerlo: “La Licata chi è?”, e Buscetta lo incastrò: “Ma se hai condiviso con lui anche la cella”, e fece cenno a noi magistrati di andare a verificare sui registri carcerari. Fu l’inizio di una lista di omicidi. Calò capì in quel momento di essere finito, gli stava piombando davanti la realtà. Trasecolò. È in questi giorni a Palermo l’appello Stato-mafia, come andrà a finire? Le sentenze del processo a Mannino mettono in chiaro ruoli e dinamiche: non è esistita. Che qualche elemento dello Stato possa aver parlato con qualche elemento della mafia, non lo escludo. Ma non per rispondere a un interesse generale, a un disegno complottistico come quello di cui si legge. Ho conosciuto sul campo il valore di uomini che hanno sfidato la morte centinaia di volte, pur di contrastare Cosa Nostra. E vedere i loro nomi in quel processo mi fa male, mi creda. Il Generale Mario Mori, per esempio? Mori, per esempio, certo. Uno che colpiva con grande decisione la criminalità organizzata, a cui lo Stato dovrebbe gratitudine, piuttosto. Ha avuto interlocuzioni, ha cercato informatori, ha seguito la pista di qualche infiltrato che riferiva? Io ho potuto condannare sulla base delle operazioni che ha portato a termine Mori, se vuole la mia testimonianza è questa. Oggi c’è un processo mediatico che partecipa del processo in aula, magari provando a influenzarlo? C’è una esagerazione, un giustizialismo mediatico. Con una preponderanza sull’interpretazione dei fatti. I fatti andrebbero trattati quali sono, e non come forse sono, o come forse vorremmo che fossero andati. Qui c’è una confusione di ruoli che secondo me è dovuta alla televisione, a un linguaggio poco accurato che mal si concilia con l’attenzione certosina di tutti i dettagli della ricostruzione dei fatti, cosa di cui invece si incarica il processo. Un difetto che si è aggravato nel tempo. A Bologna fu strage di Stato. Il contributo di Cavallini era chiaro anche 38 anni fa di Liana Milella La Repubblica, 9 gennaio 2021 Le motivazioni della sentenza che ha condannato all’ergastolo l’ex Nar: “Pienamente consapevole dei disegni eversivi”. “Il dilemma” se la strage di Bologna sia una strage “comune” o politica “non esiste”, in radice, “perché si è trattato di una strage politica, o, più esattamente di una strage di Stato” e “Gilberto Cavallini è colpevole anche nella sola ipotesi “minimale” del contributo logistico e agevolatore dato dall’ospitalità da lui concessa al duo Mambro-Fioravanti”. Lo scrive la Corte di assise di Bologna motivando la sentenza che un anno fa ha condannato all’ergastolo il quarto Nar per concorso nella Strage di Bologna. Chiedendosi come mai si sia arrivati al rinvio a giudizio di Cavallini per strage solo nel 2017, i giudici sottolineano: che “il contributo agevolatore fosse integrato anche dalla semplice ospitalità concessa all’attentatore” era “di immediata percezione anche per il profano. Ben 38 anni fa”. Che a 37 anni di distanza l’imputazione “sia di nuovo implosa in un’ottica minimalista e spontaneista che riconduce tutto alla dimensione autarchica di 4 amici al bar che volevano cambiare il mondo (con le bombe, ma anche con il solito corteo di coperture e depistaggi) lascia perplessi, anche perché non si sa attraverso quale percorso istruttorio e/o processuale si sia approdati a ciò”, insiste la Corte. Gilberto Cavallini “era tutt’altro che uno spontaneista confinato in una cellula terroristica autonoma. Nonostante la sua maniacale riservatezza il suo nome è comparso in molti scenari, direttamente e/o incidentalmente”, scrive la Corte. “Risulta chiaro che Cavallini, con i suoi ‘collegamenti’, era pienamente consapevole dei disegni eversivi che coinvolgevano il terrorismo e le istituzioni deviate”, sottolinea ancora la Corte. In conclusione di sentenza la Corte indica una serie di denunce per reati commessi nel corso del dibattimento, dalla falsa testimonianza finalizzata a depistare un processo in materia di strage, alla calunnia. Tra le persone per cui la Procura dovrà fare indagini c’è l’altro ex Nar Valerio Fioravanti, per falsa testimonianza e calunnia nei confronti dell’ex pm Claudio Nunziata, dell’allora capitano Giampaolo Ganzer che ha accusato di tentato omicidio ai suoi danni, e dell’allora direttore del Dap Nicolò Amato, peraltro padre dell’attuale procuratore capo di Bologna. Di falsa testimonianza risponderanno anche Luigi Ciavardini e l’ex compagna di Cavallini Flavia Sbrojavacca. Ma anche Elena Venditti, Giovanna Cogolli, Stefano Sparti, Roberto Romano, Pierluigi Scarano, Fabrizio Zani. Il generale Mario Mori di falsa testimonianza e reticenza, così come per Valerio Vinciguerra gli atti erano già stati trasmessi in Procura per valutarne la reticenza. La Corte fa luce anche sul giallo dei resti di Maria Fresu, una delle 85 vittime alla stazione. “Non era possibile la dematerializzazione del corpo di Maria Fresu”, ma un “dato incontestabile c’è: Maria Fresu era lì. Di lei sono stati trovati una borsa, una valigia, una giacchetta, i documenti”. E quanto scrive la Corte d’Assise di Bologna, a proposito dei resti attribuiti per quattro decenni alla 24enne di Montespertoli (Firenze), deceduta nello scoppio insieme alla figlia Angela, la vittima più piccola della strage, e che invece una nuova perizia ha stabilito non appartenere a lei, riscontrando tre profili di Dna diversi. “L’unica spiegazione razionalmente formulabile è che la Fresu, per la sua particolare posizione rispetto all’onda di sovrappressione” rilasciata dalla bomba, “ne sia stata travolta in pieno - sostiene la Corte - e che si stata altresì investita da massicci crolli di strutture, con l’effetto che il suo corpo sia stato smembrato e frammentato in maniera tale da non rendere più assimilabili i suoi resti, che possono essere andati a finire in contenitori residuali, poi dispersi”. Resti umani sono stati infatti ritrovati nell’ex deposito militare dei Prati di Caprara dall’ingegner Danilo Coppe, incaricato della perizia esplosivistica, a 38 anni di distanza, ricordano i giudici. Strage di Viareggio: cade l’aggravante dell’incidente sul lavoro, prescritti gli omicidi colposi di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2021 La Cassazione ha emanato oggi il dispositivo della decisione, si attendono le motivazioni nei prossimi 30 giorni. Sono stati dichiarati prescritti gli omicidi colposi per la strage di Viareggio, nella quale persero la vita 32 persone nel giugno del 2009, a seguito dell’esclusione dell’aggravante della violazione delle norme sulla sicurezza nel lavoro. Lo ha deciso la Corte di cassazione rinviando alla corte d’Appello di Firenze la riapertura dell’appello bis, anche per l’ex Ad di Fs e Rfi, Mauro Moretti. Da rivalutare la responsabilità per il solo reato di disastro ferroviario colposo. Scene di disperazione fra i parenti delle vittime davanti al palazzo dalla Corte di cassazione a Roma. Molti di loro sono scoppiati in lacrime quando hanno ricevuto la notizia del verdetto. “È stato ridimensionato radicalmente il verdetto della Corte d’Appello di Firenze: la Cassazione ha emesso un dispositivo molto complesso ma ad una prima lettura emerge subito che è stato colpito in modo profondo l’impianto delle accuse e delle responsabilità”. Questo il primo commento dell’avvocato Franco Coppi, difensore dell’ex di Fs e Rfi, Mauro Moretti nel processo per la strage di Viareggio, nella quale era stato condannato a 7 anni. “Grande soddisfazione per il verdetto della Cassazione che ha fatto giustizia della sentenza della corte di Appello di Firenze che abbiamo da sempre contestato: ora è stata definitivamente esclusa la condanna di Rfi per la strage di Viareggio”. Questo il commento dell’avv. Carla Manduca che ha difeso la posizione di Rfi insieme a prof. Alfonso Stile. “È stato escluso anche il risarcimento per tutte le 22 associazioni che si erano costituite come parti civile nel processo”, ha aggiunto la legale ricordando che i familiari delle vittime sono stati invece risarciti. Di seguito il dispositivo della Quarta sezione penale della Cassazione, comprende le indicazioni dell’annullamento con rinvio per gli ex ad Mauro Moretti e Michele Elia. “Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Lehmann Joachim, con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio. Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata nei confronti Kriebel Uwe, Brödel Helmut, Schröter Andreas, Linowsky Peter, Kogelheide Rainer, Mayer Roman, Mansbart Johannes, Pizzadini Paolo, Gobbi Frattini Daniele e Soprano Vincenzo, limitatamente al reato di cui all’art. 589 cod. pen., previa esclusione dell’aggravante di cui all’art. 589, co. 2 cod. pen. perché estinto per prescrizione e rinvia per la determinazione del trattamento sanzionatorio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione. Irrevocabile l’affermazione di responsabilità dei menzionati imputati in relazione al residuo reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen”. “Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata nei confronti di Castaldo Mario, relativamente al reato di cui all’art. 589 cod. pen. per essere il medesimo estinto per prescrizione, previa esclusione dell’aggravante di cui all’art. 589, co. 2 cod. pen. Annulla la medesima sentenza agli effetti penali nei confronti del Castaldo, nella posizione di Direttore della Divisione Cargo di Trenitalia s.p.a., relativamente al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen., con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio sul punto. Dichiara irrevocabile l’affermazione di responsabilità del Castaldo in relazione al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen. commesso quale Amministratore delegato di Cargo Chemical s.r.l. e poi di Responsabile della B.U. Industria Chimica e Ambiente di F.S. Logistica s.p.a.” “Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata nei confronti di Maestrini Emilio e Favo Francesco, relativamente al reato di cui all’art. 589 cod. pen. per essere il medesimo estinto per prescrizione, previa esclusione dell’aggravante di cui all’art. 589, co. 2 cod. pen. e, agli effetti civili, con rinvio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, per nuovo giudizio. Annulla la medesima sentenza nei confronti del Maestrini e del Favo relativamente al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen., con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, cui demanda la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità”. “Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata nei confronti di Elia Michele, relativamente al reato di cui all’art. 589 cod. pen. per essere il medesimo estinto per prescrizione, previa esclusione dell’aggravante di cui all’art. 589, co. 2 cod. pen. Annulla la medesima sentenza nei confronti dell’Elia relativamente al reato di cui agli artt. 430 e 449 cod. pen., in relazione ai profili di colpa puntualizzati in motivazione e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, cui demanda la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità”. “Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Moretti Mauro, relativamente all’aggravante di cui all’art. 589, co. 2 cod. pen., aggravante che elimina, e relativamente ai profili di colpa puntualizzati in motivazione, e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze, altra sezione, cui demanda la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità”. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Gatx Rail Austria GmbH, Gatx Rail Germania GmbH, Jungenthal Waggon GmbH, Trenitalia s.p.a., Mercitalia Rail s.r.l., RFI S.p.a., in relazione all’illecito di cui all’art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001, perché il fatto non sussiste. “Annulla senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento alle statuizioni in favore delle seguenti parti civili”, si tratta di circa 22 associazioni, molte sindacali. L’appello bis deciderà invece sulle statuizioni civili per Medicina Democratica e per Dopolavoro ferroviario Viareggio. “Rigetta nel resto i ricorsi degli imputati sopra menzionati e dei responsabili civili. Rigetta il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Firenze. Rigetta i ricorsi delle parti civili, che condanna al pagamento delle spese processuali”. “Condanna gli imputati Kriebel, Brödel, Schröter, Linowsky, Kogelheide, Mayer, Mansbart, Pizzadini, Gobbi Frattini, Soprano e Castaldo, in solido con i responsabili civili - eccezion fatta per RFI s.p.a. e Ferrovie dello Stato Italiane s.p.a. - alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità in favore delle seguenti parti civili”, segue elenco di nove parti civili, tra le quali Cittadinanzattiva e Regione Toscana”. Le spese del giudizio di Cassazione sono a carico degli imputati, dei responsabili civili e delle parti civili che hanno impugnato l’appello. Strage di Viareggio. Le vite spezzate tra regole e diritto di Gian Carlo Caselli La Stampa, 9 gennaio 2021 C’era una volta che fior di Procuratori generali facevano a gara nel presentare gli infortuni sul lavoro come mere fatalità, dovute al destino cinico e baro se non proprio alle tendenze suicide di sprovveduti lavoratori. Oggi il problema della sicurezza sul lavoro è ancora tragico. E fa benissimo il Capo dello Stato a ricordarcelo spesso. Eppure qualcosa è cambiato. I diritti dei cittadini alla sicurezza nei posti di lavoro e alla salute, che erano scatole vuote, hanno cominciato a diventare realtà viventi grazie ad un percorso faticoso, spesso debole e incerto, di maggiore sensibilizzazione sul piano giudiziario. Segnato peraltro da alti e bassi con relative - spesso furiose - polemiche. Come quelle che susciterà la sentenza di ieri sulla “strage di Viareggio”, nella parte che ha dichiarato estinti per prescrizione i gravi reati di omicidio colposo ricollegabili a quel tragico fatto, per i quali vi erano state condanne sia in primo grado che in Appello. Sarà difficile che i familiari delle vittime riescano a liberarsi dalla sensazione che la Cassazione possa essere rimasta chiusa nel perimetro delle “carte”, considerate asetticamente e soppesate con criteri burocratico-formalistici. Senza che esse, proprio in quanto “carte”, abbiano consentito di percepire la realtà concreta di vite spezzate o rovinate, di sofferenza e dolore che segna il caso di Viareggio. Sarà soprattutto difficile accettare che per effetto della prescrizione il calcolo del tempo trascorso diventi una specie di “magia” capace di far sparire le peggiori tragedie, riducendo gli spazi che consentono a diritto, buon senso e giustizia di essere intrecciati e non separati. In ogni caso, va detto che il dispositivo (due cartelle e mezza) è molto articolato e complesso. E mai come in questo caso occorre attendere la motivazione per poter ben valutare la sentenza. Essa, ad esempio, annulla le condanne per omicidio colposo senza rinvio “agli effetti penali”, ma con rinvio ad un nuovo giudizio di Appello “per la determinazione del trattamento sanzionatorio”, ciò che sembra voler dire responsabilità civile. Soprattutto la dichiarazione di estinzione per prescrizione dell’omicidio colposo interviene previa esclusione dell’aggravante dell’inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, ed è su questo specifico delicatissimo punto che la verifica della motivazione dovrà essere particolarmente scrupolosa. Vi è poi il reato di disastro ferroviario colposo, per il quale (in un contesto di affermazione della responsabilità penale) il dispositivo si articola su vari piani, con un intreccio che rimanda di nuovo alla motivazione. Infine, torna d’attualità il problema della prescrizione. Se la nuova legge che ne interrompe il decorso fosse stata applicabile agli omicidi colposi di Viareggio (il che non è, perché in caso di leggi diverse succedutesi nel tempo va applicata quella più favorevole all’imputato) non saremmo qui a parlare di prescrizione. Ognuno può trarne le conseguenze del caso. Caso Cucchi, depistaggi nelle indagini: “Il mio superiore mi chiese di cambiare le note dei piantoni” Corriere della Sera, 9 gennaio 2021 Interrogato in aula il luogotenente della stazione di Tor Sapienza, imputato con altri sette militari. “Il tono era di rimprovero. Il comandante mi disse: troppi dettagli medici, così sembra una excusatio non petita”. La gestione delle prime comunicazioni all’interno dell’Arma sulle condizioni di Stefano Cucchi movimentano il processo in corso sui depistaggi. “Il mio superiore Luciano Soligo mi disse: “Che c’hai i dottori a Tor Sapienza? Le annotazioni dei piantoni Colicchio e Di Sano vanno cambiate, sono troppo particolareggiate, sembra una excusatio non petita. Sembra che sia successo qualcosa, sembra che stiano mettendo le mani avanti”: le parole pronunciate, in aula, del luogotenente dei carabinieri Massimiliano Colombo Labriola, nel processo che lo vede imputato assieme ad altri sette militari dell’Arma per depistaggi alle indagini seguite alla morte di Stefano Cucchi. Labriola, accusato di falso, all’epoca dei fatti era comandante della stazione di Tor Sapienza dove Cucchi fu portato il 16 ottobre del 2009 per trascorrere la notte in cella di sicurezza. Nel corso dell’interrogatorio è tornato sulle annotazioni su quanto avvenuto quella notte, scritte dai due piantoni e da mandare in Procura per l’indagine sulla morte del geometra. Soligo, anch’egli imputato, nell’ottobre del 2009 era comandante della compagnia Montesacro. “Mi chiamò Soligo - ha detto nell’aula bunker di Rebibbia l’imputato - la mattina del 27 ottobre, e mi chiese se avessi letto le annotazioni. Aveva un tono di rimprovero. Mi disse che erano troppo particolareggiate: sembrava avessero steso un referto, con valutazioni medico-legali. Dopo che mi mosse queste contestazioni, io dissi che le avevo già trasmesse alla stazione Appia e lui mi riferì che non erano state inviate all’autorità giudiziaria”. Il 27 ottobre Soligo “venne in stazione e volle vedere Di Sano e Colicchio. Chiese se i detenuti giravano liberamente in caserma o venivano accompagnati. Il riferimento era all’annotazione di Di Sano. Disse che le annotazioni andavano cambiate, ribadendo che erano bozze e non erano state ancora trasmesse all’autorità giudiziaria. Io percepii il fatto di dover cambiare le annotazioni come un ordine. Soligo non specificò come e chi le dovesse apportare le modifiche, io non diedi nessun input perché fossero riviste”. Modena. Caso Piscitelli: discrepanze tra autopsia e i cinque detenuti di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 9 gennaio 2021 I morti della rivolta in carcere. La Procura di Modena indaga sulle divergenze tra la denuncia dei carcerati e l’assenza di segni di violenza riscontrati sul corpo dal medico legale di Ascoli. Emergono forti discrepanze tra la versione dei cinque detenuti che nella loro lettera-esposto alla Procura Generale di Ancona raccontano di pestaggi inflitti a Sasà Piscitelli e il rapporto del medico legale di Ascoli che ha svolto l’autopsia. Lo ha confermato ieri il procuratore di Modena Giuseppe Di Giorgio spiegando che sono in corso gli accertamenti della Procura per capire come mai le due ricostruzioni divergano tanto. L’autopsia, della quale non si conosce ancora nulla, è stata firmata da un medico legale di Ascoli pochi giorni dopo il decesso del detenuto 40enne, tossicodipendente e attore di teatro, avvenuta la mattina del 10 marzo, due giorno dopo la rivolta del carcere di Modena e un giorno dopo il suo trasferimento al carcere di Ascoli. È stato reso noto solamente che i riscontri indicano che Sasà sarebbe morto - come gli altri otto detenuti di Modena - esclusivamente per un’overdose di metadone e benzodiazepine, frutto del saccheggio collettivo dell’infermeria carceraria. Il medico legale non ha riscontrato alcun segno di violenza sul corpo. Questa versione ufficiale contrasta nettamente col racconto non solo dei due detenuti rimasti anonimi che la scorsa estate avevano riferito di un pestaggio durante il trasporto e di gravi maltrattamenti subiti da Sasà al suo arrivo ad Ascoli quando era già in stato comatoso. Ma anche in base alla ricostruzione firmata dai cinque detenuti di Ascoli che sostengono di aver visto Sasà nelle sue ultime ore di vita e di essere a conoscenza diretta dei maltrattamenti inflitti contro di lui al suo arrivo in carcere. Fino alla sua agonia in cella con una sprezzante battuta di chi doveva vigilare: “Sta male? Lasciatelo morire”. Come è infatti avvenuto. E proprio intorno al decesso i magistrati che indagano dovranno chiarire un’altra discrepanza. La versione ufficiale sostiene che Sasà è morto la mattina del 10 marzo in ospedale ad Ascoli. Esiste in proposito un referto. I cinque detenuti sostengono invece che è morto in cella e solo successivamente è stato portato via il corpo. Una versione simile a quella dei due detenuti anonimi riferita a Lorenza Pleuteri e Manuela D’Alessandro, due giornaliste ascoltate dalla Squadra Mobile di Modena. Quello che inizialmente sembrava una svista ora diventa un importante nodo da sciogliere nella ricostruzione dell’accaduto. I cinque, che chiedevano di essere ascoltati dalla Procura Generale di Ancona, sono già stati ascoltati dai due pm modenesi che indagano sui tre filoni di inchiesta legati alla rivolta dell’8 marzo a Sant’Anna, Francesca Graziano e Lucia De Santis. I due magistrati hanno anche l’incarico di ricostruire la complessa dinamica della rivolta e individuare i facinorosi e gli autori delle devastazioni e degli incendi che hanno distrutto due terzi di Sant’Anna. Il secondo filone riguarda i nove morti. Cinque trovati in carcere a rivolta sedata e quattro morti durante i trasferimenti (tra questi Sasà Piscitelli). Un terzo filone di indagine riguarda poi denunce e segnalazioni di pestaggi e maltrattamenti di detenuti estranei alle violenze. Firenze. Torture a Sollicciano, misure cautelari per 9 agenti penitenziari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 gennaio 2021 Tre si trovano agli arresti domiciliari, gli altri sei sono invece interdetti dalla professione per un anno. Un detenuto del carcere di Sollicciano era stato denunciato per aggressione sessuale e resistenza a pubblico ufficiale nei confronti di una ispettrice capo, ma una volta sentito dai magistrati ha raccontato tutt’altra vicenda: in realtà, lui e un altro detenuto avrebbero subito violenze da parte degli agenti penitenziari. Un racconto che sarebbe stato confermato dalle immagini delle telecamere acquisite dal direttore del carcere. A quel punto ne è scaturita una indagine sfociata ieri in nove misure cautelari per gli agenti penitenziari accusati del reato di tortura, mentre la vice ispettrice è tuttora indagata. Tre si trovano agli arresti domiciliari: l’ispettrice Elena Viligiardi coordinatrice del reparto penale, l’assistente Luciano Sarno e l’agente Patrizio Ponzo. Gli altri sei sono invece interdetti dalla professione per un anno. A coordinare le indagini è Christine Von Borries, pm della procura di Firenze. Gli episodi contestati sarebbero avvenuti più volte nel tempo: nel 2018 e nel maggio scorso. I due detenuti oggetto di pestaggio nel carcere di Sollicciano hanno riportato gravi lesioni, come la rottura di un timpano e frattura delle costole. I nove indagati devono rispondere anche di falso ideologico in atto pubblico, perché avrebbero fatto passare gli abusi come resistenze da parte dei detenuti. Sì, perché le indagini della Procura hanno rivelato che la denuncia fatta nei confronti del detenuto marocchino era falsa e che era stato invece picchiato da un gruppo di agenti dopo aver chiesto di telefonare ai parenti in Francia, proprio nell’ufficio dell’ispettrice capo responsabile della sezione penale. Ricoverato per le ferite in ospedale per le fratture di due costole, il detenuto aveva poi messo a verbale che nell’ufficio dove era stato picchiato erano presenti “l’ispettrice con i capelli biondi dietro la scrivania, quattro agenti, oltre all’ispettore e il capoposto. Sono stato colpito con pugni e calci. Una volta caduto a terra sono stato colpito ancora e poi ammanettato”. Avrebbero anche esclamato: “Ecco la fine di chi vuole fare il duro!”. Così, di fronte alle due denunce contrapposte, il direttore del carcere fece acquisire le immagini delle telecamere che hanno confermato il racconto del detenuto. Da lì le indagini hanno ricostruito un altro episodio di violenza, avvenuto nel 2018, quando un detenuto italiano denunciò la rottura di un timpano. Ed è così che la Toscana raggiunge il triste primato relativo a presunti casi di tortura in carcere. Ricordiamo infatti il precedente che riguarda il carcere di San Gimignano: i pestaggi - grazie alla segnalazione dell’associazione Yairaiha Onlus - resi pubblici per la prima volta da Il Dubbio, sarebbero avvenuti l’ 11 ottobre del 2018. Il giudice dell’udienza preliminare di Siena ha recentemente rinviato a giudizio cinque agenti penitenziari in servizio accusati di aver esercitato una inaudita violenza nei confronti del detenuto tunisino Meher. Nello stesso tempo condannato a 4 mesi un medico per omissioni d’atti di ufficio, perché non avrebbe visitato il detenuto quando era seminudo e dolorante in cella di isolamento. Tra le parti civili, oltre ad Antigone e l’associazione Yairaiha, c’è anche il garante nazionale delle persone private della libertà rappresentato dall’avvocato Michele Passione. Gli imputati hanno chiesto il rito abbreviato. La novità è che il 27 gennaio prossimo, in udienza, sarà visionato il video che ha ripreso, in parte, tutto quello che è accaduto. Firenze. Ancora pestaggi in carcere, tre arresti per tortura di Riccardo Chiari Il Manifesto, 9 gennaio 2021 Botte e violenze a due detenuti con fratture alle costole e timpano perforato, indagati dalla procura più di dieci agenti di polizia penitenziaria. Giuseppe Matulli dell’associazione Pantagruel: “È il clima generale del carcere, che è terribile, a portare a situazioni patologiche come queste”. “È il clima generale del carcere, che è terribile, a portare a situazioni patologiche come queste”. Giuseppe Matulli, portavoce dell’associazione di volontariato Pantagruel da molti anni impegnata a sostegno dei diritti dei detenuti, offre una convincente chiave di lettura dell’ennesimo caso di pestaggi e violenze in carcere. Una inchiesta partita da una segnalazione alla magistratura dal comandante del reparto di polizia penitenziaria del carcere fiorentino, e che ha portato all’arresto di tre agenti accusati di tortura e falso ideologico, con altri sei colleghi interdetti dall’incarico per un anno. Le indagini che la pm Christine Von Borries ha affidato al Nucleo investigativo centrale della stessa polizia penitenziaria, fatte anche con intercettazioni ambientali, si sono focalizzate su due pestaggi, nel 2018 e nel 2019, ai danni di un detenuto marocchino e un italiano. Le violenze avvenivano nell’ufficio di un’ispettrice penitenziaria di 50 anni, finita ai domiciliari, che insieme a un capoposto e a un altro agente era a capo, secondo le accuse, di una “squadra” che non lesinava botte ai detenuti. Così nell’aprile 2019 il giovane marocchino, per aver risposto male a un agente, è stato preso a pugni, schiaffi e calci fino a impedirgli di respirare, poi costretto a denudarsi nella stanza di isolamento, infine portato in infermeria, con 20 giorni di prognosi per la frattura di due costole e l’uscita di un’ernia all’altezza dello stomaco. Stesso modus operandi per il detenuto italiano, che nel dicembre 2018 è stato immobilizzato da otto agenti nell’ufficio del capoposto e picchiato fino a perforargli un timpano. Per coprire i pestaggi, nel caso del giovane marocchino l’ispettrice aveva scritto una relazione in cui dichiarava che i colleghi erano stati costretti a intervenire perché lui aveva cercato di aggredirla sessualmente. Mentre gli altri indagati cercavano di giustificare le violenze denunciando falsamente i detenuti per resistenza a pubblico ufficiale. Tutti sono stati sospesi dal servizio, e le indagini vanno avanti, anche grazie alle immagini delle telecamere del circuito interno di Sollicciano, prospettando il coinvolgimento di altri, ulteriori agenti. “Ma lo ripeto - tira le somme Beppe Matulli - anche se tutti i 38mila agenti fossero in gamba, il sistema carcere non potrebbe ugualmente funzionare. Perché l’amministrazione penitenziaria, taglio dopo taglio della spesa pubblica, e alle prese con un sovraffollamento diventato endemico, non è in grado di assicurare la funzione costituzionale del recupero dei detenuti alla vita sociale. Intanto, a pochi chilometri di distanza, andranno a processo con rito abbreviato 10 agenti del carcere di San Gimignano, accusati di concorso in tortura e di lesioni aggravate a un detenuto tunisino. Fatti risalenti al 2018, per i quali altri cinque agenti il 18 maggio prossimo saranno davanti al giudice, nel primo dibattimento nel quale viene contestato il reato di tortura, introdotto nel 2017. Firenze. Oltre 750 reclusi, solo 6 educatori. E manca ancora un direttore stabile di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 9 gennaio 2021 Più reclusi in attesa di giudizio che condannati: “Gestione difficilissima”. “Cinquanta agenti penitenziari in meno per sorvegliare un carcere la cui popolazione carceraria è quasi il doppio di quella regolamentare”. Il garante provinciale dei detenuti, Eros Cruccolini, spiega così una delle maggiori problematiche di Sollicciano. Un istituto che non trova pace e che, da tempo immemore, presenta problematiche strutturali mai risolte. “In tutto il penitenziario ci sono sol sei educatori - continua Cruccolini - questo significa che Sollicciano, come quasi tutti gli istituti italiani tranne Bollate a Milano, ha un’impostazione quasi esclusivamente securitaria ed è completamente trascurato l’aspetto della rieducazione”. Il ministero si è dimenticato questo capitolo di spesa, e gli enti locali e le associazioni di volontariato si trovano spesso “a fare i supplenti dello Stato organizzando quei pochi corsi di formazione e percorsi lavorativi dentro il penitenziario fiorentino”. È pur vero che, pochi mesi fa, il ministero della Giustizia ha annunciato l’investimento di 3 milioni per ristrutturare lo scheletro di un carcere che fa acqua (spesso letteralmente) da tutte le parti, ma è vero allo stesso tempo, aggiunge il garante, “che è inutile abbellire in superficie il carcere se poi i problemi atavici restano indietro anni luce”. E tra i problemi mai risolti c’è sicuramente la mancanza di una guida stabile: Sollicciano ha cambiato cinque direttori in cinque anni, ora il posto lasciato da Fabio Prestopino a fine ottobre è occupato pro tempore dalla direttrice di Solliccianino Antonella Tuoni, il ministro Alfonso Bonafede ha promesso tre mesi fa una procedura rapida per la sostituzione di cui però non si è saputo più nulla. “Non solo manca il direttore, ma in Toscana manca attualmente anche il Provveditore all’amministrazione penitenziaria - spiega l’avvocato Michele Passione, componente del direttivo della Camera Penale di Firenze - E Sollicciano ha già tanti problemi, dalla carenza dell’organico al sovraffollamento permanente (oltre 750 reclusi per 494 posti, ndr), dalla lontananza dalla città alla promiscuità della popolazione carceraria, tra definitivi e indagati, che rende difficilmente programmabile una qualunque attività per i detenuti”. Duro don Vincenzo Russo, cappellano di Sollicciano: “Questo oggi è un luogo colabrodo dove si concentrano tossicodipendenti, detenuti con pesanti disagi psichiatrici, reclusi con reati sessuali alle spalle… una popolazione carceraria estremamente complessa e difficile da gestire”, per cui “ci vorrebbero percorsi specializzati e professionalizzanti che invece mancano”, Don Russo torna sulla necessità di dare una guida stabile al carcere: non è del resto un caso, lascia intendere, “che le torture siano emerse anche grazie all’efficace collaborazione dell’ex direttore Prestopino che aveva dato stabilità”. Discorso simile per l’ex garante regionale Franco Corleone: “Il sovraffollamento è il grande tema ed è in parte dovuto al fatto che quasi metà dei reclusi siano appartenenti alla sezione giudiziaria, che ha preso il sopravvento su quella penale”. Reclusi spesso in transito, stranieri arrestati per piccoli reati, che non hanno, spiega Corleone, alcuna volontà di impegnarsi in un percorso di rieducazione e rendono così instabile il modello carcerario. Corleone torna a proporre di “utilizzare la struttura attualmente adibita per il vestiario degli agenti, accanto a Solliccianino, come mini carcere da 200 posti per detenere i reclusi del giudiziario”. E infine, dice l’ex garante, “bene che il ministero abbia investito fondi per rifare gli impianti strutturali, ma ogni volta è insopportabile la lentezza con la quale viaggiano i lavori”. Pavia. Percosse in carcere sui detenuti I giudici chiedono 4 archiviazioni Il Giorno, 9 gennaio 2021 Cinque le denunce avanzate dai reclusi a Torre del Gallo contro agenti penitenziari dopo la rivolta a inizio lockdown. La Procura di Pavia ha avanzato quattro richieste di archiviazione al Giudice di Pace di Pavia relativamente alle denunce presentate nei mesi scorsi da alcuni detenuti del carcere pavese di Torre del Gallo, che avevano segnalato all’autorità giudiziaria di essere stati percossi da un gruppo di agenti penitenziari. I fatti denunciati si sarebbero svolti a marzo, quando nel carcere, così come in numerose altre case circondariali italiane, era scoppiata una rivolta dei reclusi in seguito alle restrizioni sulle visite nell’ambito dell’emergenza sanitaria per il coronavirus. Erano stati appiccati roghi nel carcere e un gruppo di detenuti si era arroccato sul tetto dell’istituto, scendendo solo dopo lunghe negoziazioni. Le cinque denunce presentate da parte di altrettanti detenuti raccontano di maltrattamenti che sarebbero stati inflitti il giorno seguente all’accaduto. Tra gli episodi contestati, i detenuti hanno segnalato che sarebbero stati costretti a spogliarsi e a eseguire alcuni piegamenti sulle gambe, per poi essere picchiati. I detenuti hanno anche raccontato che alcuni agenti avrebbero tirato loro le vivande della sezione. Ora per quattro segnalazioni è stata chiesta l’archiviazione: “Faremo opposizione alla richiesta di archiviazione per tutti e quattro i miei assistiti, che contestano tutti la stessa dinamica dei fatti - spiega l’avvocato Pierluigi Vittadini che segue i detenuti coinvolti -. In tali opposizioni, le parti offese indicheranno anche chiaramente i nomi delle persone coinvolte negli episodi”. Rovigo. “No al carcere minorile. Con le tende a Roma” di Tommaso Moretto Il Resto del Carlino, 9 gennaio 2021 Chendi, esponente del Pd, accusa il Sindaco: “Disarmante rassegnazione. Il Consiglio comunale si dimetta in massa se il progetto viene realizzato”. Nello Chendi propone le dimissioni in massa dell’intero consiglio comunale. L’oggetto è il carcere minorile regionale, il cui trasferimento da Treviso a Rovigo è in programma da parte del Ministero. Ma il consigliere del gruppo del Pd non ci sta: “Il problema è che con una rassegnazione disarmante il carcere minorile sembra ineluttabile ma Rovigo non ha mai scelto questa opzione e non la vuole - tuona Chendi. Dobbiamo ribadirlo ma andando fino infondo. Sono disposti il sindaco e tutto il consiglio comunale a riparlare di questo problema e ad andare a dire a Roma che se per caso arriva il carcere minorile ci dimettiamo tutti? Tutti, maggioranza e minoranza. Lo facciamo?”. Attualmente il palazzo di Giustizia è dislocato su più sedi ed i contratti d’affitto costano complessivamente 300mila euro l’anno al ministero. È il principale motivo dell’esigenza di trasferimento del palazzo di giustizia che ha la sede principale in via Verdi (palazzo di proprietà comunale sul quale il ministero non paga affitto). La seconda ragione è legata alla qualità degli ambienti interni del palazzo centrale. L’ipotesi di espansione negli ambienti dell’ex carcere, che confina proprio con il tribunale, si scontra proprio con il progetto di trasferire a Rovigo il minorile di Treviso. Dopo la mozione per il no al minorile di febbraio 2020 cos’ha fatto Gaffeo? “È andato a Roma ma io conosco l’ambiente, sono cambiati i partiti ma il metodo è sempre quello. Tu puoi andare a Roma buono e tranquillo o andare là risoluto. Per bloccare il carcere basta una tenda. Non serve mettere la dinamite di notte. Bisogna andare determinati e dire: qui non si costruisce, non si fa. Lui dice che non si poteva fare diversamente. Ma non è vero”. Perché questa battaglia? “Se arriva il carcere minorile in centro è una sconfitta di questa maggioranza, anzi, dell’intero consiglio comunale. Ma ci rendiamo conto di cosa voglia dire per il centro storico? Via il tribunale e arriva un carcere con i minorenni più problematici d’Italia che entrano ed escono in semilibertà?” La partita carcere minorile è stata data per persa da Gaffeo che ormai ragiona su qual è il luogo più adatto per il nuovo tribunale... “Io sono contrario alla rassegnazione. Non si può arrivare a dire che non si può bloccare il carcere minorile perché è stato deciso. Io su questo sono disposto ad andare fino in fondo”. Il 30 dicembre Gaffeo ha presentato due soluzioni per la nuova sede del tribunale. Sul piatto ci due ipotesi, un nuovo palazzo all’Asm o la sede della Provincia di viale della Pace. Cosa ne pensa? “Oggi, gennaio 2021 blocchiamo il carcere, magari coinvolgendo anche il comune di Treviso e la Regione. Cosa ne pensano loro? Di questo voglio parlare. Non di dove mettere il tribunale che per me deve restare dov’è”. Airola (Bn). All’Ipm manca l’acqua calda da settimane: “Gravi condizioni strutturali e organizzative” Il Riformista, 9 gennaio 2021 Quella di oggi è stata una giornata dedicata ai minori per il Garante campano delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello. In visita all’Istituto Penale Minorile di Airola, accompagnato dalla Direttrice Marianna Adanti, ha incontrato i 23 ragazzi attualmente ristrettì, di cui 2 nuovi giunti, presunti autori del pestaggio al rider avvenuto a Napoli nei giorni scorsi. L’incontro avvenuto nel teatro dell’Istituto, ha visto partecipi oltre al Garante, il suo staff, due operatori dell’impresa sociale Less che si occupa da anni di ragazzi svantaggiati. Per l’occasione è stata regalata ad ogni ragazzo una calza della befana e un libro. La giornata si è conclusa presso la comunità Il sole presente sul territorio beneventano, che accoglie 7 minori di cui tre dell’area penale. Anche per loro dolci e libri, sottolineando l’importanza dell’affettività e della cultura. “I ragazzi dell’ipm mi hanno raccontato che ormai non hanno l’acqua calda da settimane, che le loro stanze sono ancora prive di suppellettili, gli stessi materassi versano in condizioni igieniche pietose e pur essendo in pochi riscontrano altresì problemi con la gestione delle videochiamate ai loro familiari”. Queste sono le parole amare di Ciambriello, che già lo scorso 10 agosto scrivendo alle autorità competenti sia regionali che nazionali della Giustizia Minorile denunciava: “gravi condizioni strutturali e organizzative dell’Ipm di Airola”. Il garante Ciambriello conclude cosi: “Nuovamente rinnovo il mio pensiero: gli spazi detentivi devono promuovere dignità e qualità della pena, il trattamento non può essere solo custodia, ma anche accudimento. Mi affligge constatare che nonostante gli sforzi della Direzione, dell’area educativa e delle associazioni che portano avanti dei progetti in istituto, questi spazi continuano ad apparire gravemente trascurati dal punto di vista strutturale e non, a causa anche di costanti conflitti interni”. Napoli. Nuovo carcere di Nola: tra pena, dignità e diritti dei detenuti di Giulia Chiapperini ultimavoce.it, 9 gennaio 2021 Gli elementi che risaltano agli occhi guardando il progetto del nuovo carcere di Nola, in provincia di Napoli, sono questi: disponibilità di celle singole, eliminazione delle sbarre e delle mura perimetrali. Campi sportivi e piscine, teatro e diverse aule e laboratori per le attività ricreative. Tanto verde e un sistema di sorveglianza molto sofisticato. L’art. 27 della Costituzione Italiana nel suo significato di responsabilità penale e funzione rieducativa della pena, sancisce al 3 comma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Due principi fondamentali, quindi: il principio di umanità della pena secondo cui viene posto al legislatore il divieto di porre in essere pene le cui modalità violino il rispetto della persona; ed il principio della finalità rieducativa della pena, secondo cui le pene non devono solo punire il reo ma mirare soprattutto alla sua rieducazione, essendo requisito fondamentale per il suo reinserimento nella società. Come sappiamo, si è proclamato spesso a parole che il carcere è un luogo di rieducazione, di ricostruzione delle condizioni di un ritorno alla normale convivenza sociale. Si è fatto anche qualche passo in questa direzione: pochi passi, ed esitanti, e seguiti spesso da precipitose ritirate. L’Italia viola i diritti dei detenuti tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di tre metri quadrati. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha quindi condannato, diverse volte, il nostro Paese per trattamento inumano e degradante. Donne e uomini, quando hanno la possibilità di parlare con le associazioni umanitarie, raccontano continuamente casi di schiavitù sessuale. Secondo l’organizzazione EveryOne ogni anno nel nostro paese si registrano circa 3.000 casi di stupri dietro le sbarre. Oggi, forse, da Nola, in provincia di Napoli, le cose cambieranno. Qui, il progetto della Tecnicaer, una delle aziende che ha presentato una ipotesi progettuale per la realizzazione del nuovo carcere, è tornato di attualità. Nuovo carcere di Nola: il progetto - Sono almeno tre anni che si parla di quell’area, in località Boscofangone. Secondo le linee d’indirizzo, il modello di riferimento del progetto è quello del carcere norvegese di Halden ad Oslo. Nel progetto di Nola - si legge nella nota dello studio di progettazione che ha concepito la proposta - “forte è la consapevolezza che il percorso di rieducazione e reinserimento nella società civile del detenuto, passi anche attraverso l’umanizzazione dell’ambiente e la flessibilità degli spazi”. Niente più sbarre alle finestre e niente mura perimetrali. Disponibilità di celle singole; campi sportivi e piscina; teatro, aule e laboratori per le attività ricreative e per apprendere un mestiere. Infine, molto verde e un sistema di videosorveglianza sofisticatissimo. La struttura ospiterà fino a circa 1200 detenuti. Si tratta di un’opera impattante per le considerevoli dimensioni. Per questo motivo, una particolare attenzione è stata prestata alla qualità, anche estetica, del complesso nonché alla compatibilità e sostenibilità ambientale. Sono stati selezionati sistemi costruttivi prefabbricati, in grado di ridurre i tempi di realizzazione innalzando la qualità degli elementi edili, e materiali da costruzione con un’alta percentuale di riciclabilità. Inoltre, il nuovo istituto penitenziario è stato progettato con prestazioni energetiche in classe A4, con sostanziale annullamento del fabbisogno energetico. Seguendo il modello Halden, in Norvegia - Rieducare persone che hanno sbagliato. O almeno cercare. Insegnare il rispetto di sé e degli altri. È questo lo scopo delle carceri nei Paesi nordici. A cominciare dalla Norvegia, come ad Halden. Su 30 ettari di una piccola città elegante tra i fiordi del sud della Norvegia, alcuni architetti danesi hanno messo insieme il loro talento professionale. Hanno costruito qualcosa che, se non fosse per il muro che lo circonda, non sarebbe affatto una prigione. Potrebbe essere un ospedale, una scuola o qualunque altro edificio pubblico, fatto di legno, vetro, acciaio e pietra. Le finestre non hanno sbarre, non ci sono torrette di sorveglianza, fili spinati o recinzioni elettriche. Non ci sono neanche telecamere; né nei corridoi, né nelle camere, nelle aule o nei laboratori. Gli agenti non hanno armi. Come ha detto un ex direttore del carcere, “non potrebbero essere più liberi di così. Soltanto se si dessero loro le chiavi delle celle”. Il concetto applicato qui è: la vita in carcere non deve essere diversa da quella fuori dal carcere. L’unica differenza è la mancanza di libertà di movimento. La pena non deve privare il detenuto di ciò di cui ha bisogno. I detenuti vengono preparati alla loro liberazione fin dal loro primo giorno in carcere: essi svolgono attività di vario genere volte alla riacquisizione di un equilibrio prima di tutto umano e predisposto al reinserimento nella società. Qui i detenuti lavorano, o studiano - Qui, i detenuti non possono semplicemente rilassarsi nelle camere di fronte alla TV, anche se hanno tutto ciò di cui hanno bisogno nella loro cella di 12 metri quadrati. Devono scegliere tra il lavoro e la scuola. Possono fare molti corsi, da quelli di creatività a quelli di chimica, fisica e filosofia; scegliere di specializzarsi in uno dei sette corsi di formazione professionale offerti, con il rilascio del titolo di studio alla fine, tra cui carpenteria, meccanica e lavorazione dei metalli. Imparare a suonare uno strumento in uno dei tre studi di registrazione del carcere. Il successo di questo concetto è strettamente legato a come funziona il sistema giustizia. Occorre coinvolgere l’intera comunità. La Risoluzione (la Carta Bianca) approvata nel 2008, secondo cui il sistema della giustizia deve essere incentrato sull’idea di normalità e sulla riabilitazione dei detenuti, è stato sostenuto e firmato da cinque ministri: giustizia, istruzione, cultura, salute e per le autonomie locali. Eppure, come sottolinea il direttore ogni volta, Halden è sempre un carcere. Nuovo carcere di Nola: esistono le condizioni, nel nostro Paese? - Giunti fin qui, una domanda è d’obbligo: esistono nel nostro paese tutte le condizioni per la realizzazione del nuovo carcere di Nola? Le condizioni, cioè, per dare corso ad una nuova stagione progettuale in grado di fornire edifici carcerari rispondenti alle esigenze della gestione penitenziaria più avanzata ed alle istanze costituzionali in materia di esecuzione penale; ma anche rispettosi dei bisogni materiali e psicologici dell’utenza (persone detenute, operatori penitenziari, visitatori ecc.) attraverso soluzioni architettoniche di avanguardia. Come scrive C. Burdese, al momento la risposta, purtroppo, è no. Le condizioni avverse sono rappresentate dalla mancanza di veri strumenti culturali - derivanti dalla teoria e dalla sperimentazione sul campo - in grado di affrontare coerentemente il tema della progettazione carceraria; cui si affianca l’insensibilità politica e della cultura architettonica al tema e lo scoglio burocratico. Lo stato di sovraffollamento cronico delle nostre carceri, tutt’ora presente e ulteriormente aggravato dalle drammatiche circostanze del Coronavirus, la cui soluzione sarebbe riconducibile alla realizzazione pressoché immediata di almeno 10.000 posti letto (singoli), richiederebbe ben altre risposte e tempistiche, ma anche apporti culturali. Nuovo carcere di Nola: una soluzione a lungo termine? - E se Nola rappresentasse una soluzione sul lungo termine? Si possono ridurre le incarcerazioni attraverso pene alternative e una diversa concezione del carcere? Se in Italia si cercano continuamente nuovi spazi per costruire strutture detentive, in molti paesi scandinavi le prigioni chiudono. Prigioni vuote. Sembra un’utopia. Tuttavia, in alcuni paesi democratici dell’Europa del nord tutto questo è già realtà. Salerno. Diritti dei detenuti, Salzano (Radicali) al quinto giorno di sciopero della fame di Enrico Marotta Gazzetta di Salerno, 9 gennaio 2021 Siamo al giorno numero 5 di sciopero della fame per Donato Salzano, segretario radicale dell’Associazione “Maurizio Provenza” di Salerno e militante del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito. Una storia di lotte e di scioperi della fame che da sempre caratterizzano la vita politica di uno degli esponenti pannelliani storici di Salerno e provincia. Sempre in difesa dei più deboli, degli ultimi, degli “scartati” come spesso li definisce il segretario dei radicali salernitani. Donato Salzano da cinque giorni è in sciopero della fame, proprio in questo periodo di Covid e di restrizioni, per mettere al centro del dibattito politico la situazione di disagio e di abbandono assoluto dei detenuti della Casa Circondariale di Salerno. Donato (mi permetterai di darti del tu?!…) è da tempo che ci conosciamo… innanzitutto com’ è il tuo stato di salute a distanza di 5 giorni di sciopero della fame? Beh, certo che si, sarebbe da stupidi darsi del tu in privato e poi del Lei in pubblico, come fanno ipocritamente in tanti, oltretutto ci unisce la condivisione del “cum panis”. Per la salute invece sto benissimo, anche perché cerco di trasferire con amore e fermezza la mia forza a chi deve decidere di rientrare nella legalità, come Satyagraha gandhiano in declinazione panneliana prescrive. Il Covid e la pandemia hanno reso ancora più difficile la vita dei detenuti e delle loro famiglie un po’ in tutte le carceri italiane. In poche battute, come descriveresti la situazione su Salerno della casa Circondariale? Tutto è cambiato in peggio, come dire tutto cambia affinché nulla cambi … Certo che il Covid ha peggiorato la condizione di una detenzione illegale, terribile, presente in tutti gli istituti di pena. La rapida diffusione del virus dovuta spesso al sovraffollamento, quindi alla mancanza di spazi idonei per isolare i positivi, a causa di strutture fatiscenti da decenni, fuori norma e indecentemente contrarie a ogni normativa di salubrità pubblica e sanitaria, che fanno sempre di più le carceri italiane luogo di tortura per una pena fino alla morte. In questo Fuorni non è diversa dalle altre carceri, le restrizioni impediscono qui come altrove le importantissime visite dei familiari e con esse la possibilità di ricevere pacchi di generi alimentari e di prima necessità, aggravando in particolare nella sezione dedicata ai comuni, la già diffusa indigenza alimentare e di assistenza, per di più la direttrice Rita Romano è stata contagiata dal Covid insieme ad un numero imprecisato di detenuti e agenti. Detenuti e detenenti condannati alla stessa infame pena illegale, i primi per più della metà scontano una lunghissima pena preventiva contraria al dettato costituzionale. Immagino che l’amministrazione penitenziaria stia cercando di porre rimedio a questa tragica emergenza, il Ministro della Giustizia, il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica? Per la verità il portale ufficiale del Ministero della Giustizia fornisce dati non veritieri sul sovraffollamento nei singoli istituti di pena, tanto che Rita Bernardini ha dovuto condurre per oltre un mese uno sciopero della fame di dialogo e proposta insieme a miglia e miglia di detenuti e i loro familiari, a militanti e dirigenti del Partito Radicale, appunto per rendere diritto alla Conoscenza, ha fornito all’opinione pubblica e alle istituzioni i dati effettivi sulla disponibilità di posti letto per stanza detentiva per ogni ristretto. Purtroppo il Ministro Bonafede non è pervenuto, neanche dopo la lettera al Presidente della Repubblica Mattarella e il successivo incontro con il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che in seguito ha anche persino prontamente fatto visita al carcere di Regina Coeli. Da allora nulla è cambiato, anzi i contagi aumentano inesorabilmente giorno per giorno senza tregua. L’unico che però ha saputo ergersi a difesa degli ultimi è stato Papa Francesco nell’omelia al Vangelo della messa di Natale, quando ha ricordato che il bambino è venuto a noi quale “scartato” perché chiunque possa essere consapevole che si è vicini a Dio soltanto quando s’incontra il povero, il reietto, il diseredato, il discriminato, il migrante, il detenuto. Quali sono gli obiettivi e le ragioni di questa tua e vostra lotta nonviolenta e a chi rivolgi il dialogo e la proposta politica attraverso il digiuno? L’iniziativa nonviolenta vuole porsi l’obiettivo di dare voce al diritto degli ultimi tra gli ultimi, a cominciare dai ristretti nella Casa Circondariale di Salerno e ricordare alle istituzioni, in primis al Sindaco di Salerno e massima autorità sanitaria in città, di dare seguito alle leggi che loro stessi si sono dati. Visti i precedenti, si eviti ancora una volta di far aspettare fino a Pasqua per avere i buoni spesa di Natale (lockdown di marzo riferito alle domande di aprile: 8 mesi; la riapertura dei termini di luglio: 5 mesi), ovviamente non solo per i liberi in città ma anche per i detenuti residenti alla Casa Circondariale di Salerno, di fatto comunque sempre esclusi dal beneficio. Contemporaneamente in gran parte delle altre amministrazioni della Provincia di Salerno, con in testa l’efficientissimo Sindaco Gianfranco Valiante di Baronissi, con procedimenti e istruttorie celeri hanno distribuito prima e consegnando poi velocemente nelle case degli aventi diritto il secondo ristoro di buoni in tempo per l’arrivo del Natale. Appunto il bis dei “Buoni spesa Covid” relativi al finanziamento per gli aiuti alimentari e di prima necessità del recente “Decreto Ristori Ter” di novembre, trasferiti per tempo dal Governo a tutte le amministrazioni comunali, aventi l’esclusivo scopo della solidarietà alimentare con precisi obblighi di celerità e urgenza, che come suo solito l’amministrazione di Salerno tarda nuovamente a consegnare. Affiancarli con la fermezza e l’amore della nonviolenza e trasferirgli la forza per l’immediato rientro nella legalità, chiedendogli d’interrompere da subito il “vulnus” del diritto e dei diritti sul caso: “Il comune e il natale dei buoni spesa Covid del Decreto Ristori Ter di novembre e le domande purtroppo ancora impedite agli ultimi tra gli ultimi che siano essi ristretti residenti alla Casa circondariale di Salerno o liberi residenti in città a causa della mancata riapertura dei termini del bando degli uffici”. Numerosi i tuoi messaggi e la tua forte critica verso le istituzioni, soprattutto al sindaco di Salerno Vincenzo Napoli verso i quali ti sei spesso rivolto per denunciare la situazione drammatica del carcere di Fuorni? La filosofa ebrea Hannah Arendt ci ricorda da sempre della “Banalità del male” e del suo palesarsi sotto le apparenti vesti delle “persone perbene”. Il Generale burocrate feste natalizie e di fine anno ha già prevalso sulla fame e sete di verità e diritto degli ultimi tra gli ultimi e il resto hanno fatto i “Signori del gettone” di maggioranza e opposizione, al solito da sempre “soci” come “ladri di Pisa”, compresi i sei nuovi e vecchi transfughi fino a ieri “sodali” di tutte le scelte amministrative, soltanto oggi a fine consigliatura divenute improvvisamente discutibili. Tutti costoro al Consiglio Comunale di fine anno evidentemente interessati ad altro non hanno voluto, sentito e inteso adottare l’interrogazione urgente al Sindaco redatta per loro dall’Associazione Radicale Salernitana “Maurizio Provenza”, che pur avrebbe dato la possibilità di una parola definitiva e autorevole al Capo dell’Amministrazione sul caso dei “Buoni spesa Covid di novembre” non ancora distribuiti e soprattutto sul costituito fondo di solidarietà alimentare comunale Covid-19. Il Sindaco Napoli ha risposto ai tuoi numerosi appelli? No! Ho avuto soltanto colloqui interessati con i sensibili Consiglieri Comunali Mimmo Ventura prima e Paola de Roberto poi. Io però non arretro di un millimetro sul punto. Lottiamo per il possibile contro il probabile e come Ernesto Rossi vogliamo metterci al capo della ricostruzione, quali costruttori di ponti e chiediamo per questo al Sindaco di Salerno con l’amore e la fermezza della nonviolenza, di scongiurare quella strage di diritto che è già strage di popoli, gandhianamente cara a Marco Pannella, non tanto quale primo cittadino, ma più propriamente nel ruolo di massima autorità sanitaria in città, nel far visita alla “Comunità Penitenziaria” di Fuorni per sincerarsi appunto delle precauzioni prese e dello stato di diffusione del virus. Speravo, sarebbe stata troppa grazia, ma evidentemente non è stato possibile, entro la loro, nostra e sua Epifania, quella “Manifestazione” festa più importante celebrata dalla cristianità dopo il Natale. In fine mettere la parola conclusiva da subito sul caso: “Comune Natale Buoni spesa Covid Decreto Ristori Ter e ultimi tra gli ultimi che siano essi ristretti o liberi”, così da permettere agli uffici delle politiche sociali di riaprire celermente i termini del bando e far accedere alla domanda a tutti coloro che hanno maturato i requisiti previsti dal decreto ristori ter e dalla delibera della giunta municipale. Sai, Rosario Livatino il “giudice ragazzino” amava spesso ripetere: “non basta essere credenti, ma bisogna essere credibili”. Prima di salutarci, poche battute ai quanti seguono le vicende del carcere di Fuorni e a tutti quelli che vogliono unirsi a te nello sciopero della fame. A chi possono rivolgersi e come contattarti? Caro lettore abbiamo bisogno almeno di un tuo giorno di digiuno. Dai forza alla lotta nonviolenta, unisciti a me e a tanti compagni! Fai quel che devi, accada quel che può! Comunicamelo sulla mia mail personale: donatosalzano@libero.it specificando nome, cognome, città e durata del digiuno. Ai Sindaci che diano la possibilità anche ai loro cittadini ristretti di accedere alla domanda dei “Buoni Spesa Covid” (inviare cartaceo ai direttori delle carceri) e dove è possibile quale massima autorità sanitaria fare visita alle carceri per sincerarsi dello stato di diffusione del virus e delle precauzioni adottate. Ai Vescovi ed i ministri di culto, affinché possano esercitare in queste ore il “sindacato ispettivo” nelle carceri come prescrive per loro la legge, così da portare un conforto spirituale e materiale sempre più negato in questo periodo di restrizioni agli “scartati”. Perugia. Dal carcere ai social, il teatro ai tempi del lockdown di Antonella Barone gnewsonline.it, 9 gennaio 2021 “Voliera”, cortometraggio di Vittoria Corallo realizzato con i detenuti attori e tecnici della casa circondariale di Perugia-Capanne e con studentesse del liceo classico “A. Mariotti”, potrà essere visto da oggi fino a domenica 17 gennaio nella sala virtuale del cinema PostModernissimo. L’opera nasce da un progetto di teatro-carcere che, durante la pandemia, ha dovuto cercare strade alternative alla rappresentazione dal vivo per evitare l’interruzione di un percorso artistico e formativo iniziato, in collaborazione con il TSU - Teatro stabile dell’Umbria, nel 2016. Quando è sopraggiunto il lockdown erano in corso i lavori per portare in scena uno spettacolo liberamente ispirato agli Uccelli di Aristofane, con il coinvolgimento anche di allieve del liceo classico. “Per mesi - racconta la regista e autrice Vittoria Cavallo sulla sua pagina social - ci siamo preparati esplorando alcune delle tematiche che quel testo ci suggeriva. Per esempio il rapporto tra l’individuo e lo spazio in cui vive, il rapporto tra i metri quadrati che abita e la libertà sociale che questi gli concedono”. Le limitazioni portate dall’emergenza Covid, hanno imposto di rivisitare i contenuti del progetto. Il materiale artistico ha trovato, così, espressione in un’opera visuale, che adotta un linguaggio simbolico e trasfigura il carcere nella dimensione spazio-temporale della pandemia. “Volevamo prendere quel poco concesso - prosegue Vittoria Cavallo - e portarlo fino a dove si poteva estendere, anche questo per noi è stato un tentativo di volo”. Voliera rientra nel progetto nazionale Per aspera ad astra - riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza, promosso da ACRI (Associazione delle Fondazioni di origine bancaria), che organizza laboratori e corsi di formazione nei mestieri del teatro in 12 istituti penitenziari e che ha coinvolto, finora, circa 250 detenuti. In Umbria il progetto è stato portato grazie all’adesione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e al contributo artistico - organizzativo del Tsu. La ‘prima’ virtuale di oggi, che si terrà alle ore 19 sulla pagina facebook del PostModernissimo, sarà preceduta da un incontro di presentazione a cui parteciperanno Vittoria Corallo, Daniela Monni del Comitato di Indirizzo della Fondazione Cassa di Risparmio e Nino Marino, Direttore del Tsu. Libri. “Testimoni di violenza”, di Giovanni Starace recensione di Silvia Gusmano L’Osservatore Romano, 9 gennaio 2021 Un viaggio all’interno di uno dei reparti di massima sicurezza del carcere napoletano di Poggioreale attraverso il dialogo con undici detenuti di età diverse. “Un clima di profonda condivisione, di scambio delle parti migliori, più costruttive di sé”. Così Giovanni Starace - già docente di psicologia dinamica e psicologia clinica alla Federico ii di Napoli - descrive l’atmosfera del lavoro fatto per più di un anno con undici detenuti di un reparto di massima sicurezza del carcere di Poggioreale. Undici adulti di età diverse che nel corso di incontri periodici hanno potuto vivere “un modo del tutto inedito di stare insieme” mossi dallo stesso forte bisogno di condivisione. Incontri periodici che hanno dato loro anche la possibilità di mantenere un rapporto con il mondo esterno, un’esigenza primaria, questa, per coloro che vivono reclusi perché “la detenzione oltre a una separazione fisica dalla società, determina anche un isolamento mentale, un allontanamento dalla complessità psicologica della vita sociale a causa del confinamento in dinamiche ristrette tra persone tutte obbligate a vivere la stessa quotidianità”. Il risultato di questo percorso è ora raccontato in “Testimoni di violenza” (Roma, Donzelli, 2020, pagine 168, euro 19), che restituisce al lettore un panorama estremamente poliedrico: la vita quotidiana di persone appartenenti a organizzazioni criminali, le loro relazioni affettive, i rapporti tra la gente comune e la camorra, la vita interna ai clan e le relazioni tra loro. Si tratta di prospettive nuove sull’universo criminale perché questo viene indagato a partire dal mondo interiore dei protagonisti, una dimensione piuttosto inedita. Raccogliendo itinerari biografici, ascoltando racconti schietti, duri e disincantati, e facendoli confrontare tra loro, Starace restituisce una realtà fatta di persone comuni e di individui parzialmente collusi con il mondo criminale, ma anche di soggetti appartenenti a quelle organizzazioni, rovesciando le visioni stereotipate di una camorra descritta come fenomeno totalmente egemone sul contesto assoggettato. Entrando nel cuore della vita dei clan, emerge piuttosto un’analisi lucida e ramificata delle dinamiche interne il cui minimo comun denominatore è dato dalla consapevolezza che tutto ciò che la camorra tocca si degrada. Le relazioni umane si deteriorano, i valori fondamentali della convivenza civile si corrompono delimitando un mondo a parte che alla fine sembra offrire solo due alternative. Il carcere o la morte. Nelle voci degli undici detenuti ci sono racconti sui padri che si sovrappongono a quelli su loro stessi, ora padri; ci sono il degrado ambientale e le spinte distruttive che intossicano un intero tessuto sociale; c’è la violenza, regolatrice ultima dei rapporti tra le persone, “l’humus su cui le relazioni si costruiscono, lo strumento attraverso il quale ne vengono segnate le tappe ma anche l’epilogo” perché è proprio la violenza in tutte le sue possibili forme “l’agente principale che inquina il contesto sociale e lo degrada in profondità”. È pressoché impossibile trasgredire le regole di questo “mondo a parte”, racconta Starace, trattandosi di regole stringenti che non lasciano margini a comportamenti diversi. Allontanarsene è quasi impensabile una volta che il legame viene instaurato. Il libro ritorna spesso su come e quanto ignoranza e scarsa esperienza siano autentiche autostrade per la criminalità. Se i figli dei poveri sono maggiormente alla mercé di chi può risolvere nell’immediato i loro problemi offrendo “una possibile salvezza”, colpisce la consapevolezza di quanto, probabilmente, basterebbe poco per ribaltare completamente le cose. “Paolo aggiunge, ripetendolo più volte, che se uno prendesse una decina di ragazzi che vivono per strada e li portasse a giocare a pallone o al mare d’estate, se avesse la possibilità di prendersene cura, sette di loro si salverebbero mentre questi tre che restano, e che non è riuscito ad aiutare, come li si vede nascere, così è probabile che li si veda morire”. La criminalità, infatti, è abilissima ad “abbabbearli” cioè a circuirli. Allo Stato gli undici detenuti chiedono dunque qualcosa in più e di diverso della semplice creazione di nuovi posti di lavoro. Chiedono, sulla base della loro esperienza (“in un universo in cui le risorse materiali e affettive sono scarse”) di ribaltare le carte all’origine. “Viene reclamata un’attenzione diversa che porti a realizzare un piano organico e straordinario per aiutare i -giovanissimi a uscire da questo stato di necessità che li porta ad aderire alla camorra”. Ci vorrebbe - ripete più volte Roberto - “più carcere nella scuola e più scuola nel carcere”. È vero - nota Starace - negli ultimi anni sono sorte molte iniziative a sostegno dei bambini e degli adolescenti, orientate specialmente all’istruzione e a una socializzazione positiva. “Ma, a loro giudizio, le attività intraprese sono scarse, frammentarie, inadeguate”. Così se il desiderio più grande degli undici detenuti di un reparto di massima sicurezza di Poggioreale è quello di arrivare alla scarcerazione, si tratta però di un desiderio accompagnato da una forte preoccupazione: perché assieme alla speranza, camminano timori, ansia, apprensione e, a volte, pessimismo profondo. Non è solo questione di partenza e di potenziale arrivo; di quel che li ha condotti in carcere e di quel che potranno trovare fuori. C’è anche il problema del tempo stesso della detenzione. Perché se è vero che qualcuno in carcere ha trovato la solidarietà, al contrario di quanto è sempre accaduto nella vita fuori, e se è vero che altri però parlano di “falsa solidarietà, di un accordo dettato da una relazione non scelta ma imposta” resta che quella del carcere - per come è oggi strutturato - è una vita ferma. “Un tempo che non va avanti”. Non è una lettura facile, quella proposta dal libro. Ma è una lettura lucida, e per questo molto utile per cercare di capire qualcosa di questo mondo a parte. Un mondo in cui “la verità dichiarata non è quella vera” e questo “perché la verità è semplicemente un’altra ed è questa: io sono più forte di te”. Il cammino è lungo, va preparato da lontano con cura e intelligenza. Ma è possibile; si può essere anche testimoni di altro. L’esperienza raccontata da Starace lo dimostra. Libri. Oliveri del Castillo, il romanziere-giudice che sottrae il diritto all’abuso dei potenti di Enzo Varricchio Il Dubbio, 9 gennaio 2021 Il secondo romanzo di Roberto Oliveri del Castillo, classe 1965, magistrato napoletano in servizio alla Corte d’appello di Bari, segna un profondo cambiamento di prospettiva dell’autore e una svolta decisiva nella sua poetica. Non più il magistrato che scrive romanzi ambientati nel mondo della giustizia ma il romanziere che trae spunto dal mondo della giustizia quale spaccato della società per narrare la sostanziale decomposizione del suo tessuto istituzionale e morale. A differenza che in “Frammenti di storie semplici” (2014), denuncia in forma di racconto letterario del malaffare in un piccolo ufficio giudiziario di provincia, troppo simile al suo (all’epoca della pubblicazione, il Tribunale penale di Trani) per passare inosservato e non risultare profetico quando il “sistema Trani” è stato scoperchiato con gli arresti eccellenti, in “Indagine su un burattinaio. Il manoscritto del giudice” (Città del Sole edizioni, 2020), Oliveri del Castillo parte nuovamente da una storia di ingiustizia all’interno di una Procura, stavolta della provincia spagnola, ma usa la sua capacità analitica ed esperienza di magistrato per indagare tra le pieghe oscure e grottesche della nostra società e dell’animo umano, individuarne il nocciolo malato con il lucido sarcasmo di uno Sciascia, sputarlo con tutta l’irriverenza e brutalità del Pasolini di Salò/ Sade, usarlo per radicare una pianta nuova di giustizia che non appassisca dinanzi al prepotente di turno, così superando il pessimismo della ragione con l’ottimismo dell’azione di gramsciana memoria. “Indagine su un burattinaio”, a suo modo, è un romanzo storico a lieto fine, ne` l senso che dipinge l’affresco di un’epoca travagliata, superficiale, arrabbiata e corrotta come la nostra, nella quale tuttavia, come per un apparente miracolo, il bene infine trionfa balenando un barlume di speranza in un avvenire migliore. Il racconto parte là dove il primo romanzo era terminato, a segnare una linea di continuità ideale tra le storie narrate. Prima di morire, il giudice protagonista di “Frammenti di storie semplici”, l’uomo che si era schierato contro il potere deviato dei colleghi corrotti, lascia un manoscritto all’amico professore con il compito di pubblicarlo. La pubblicazione del manoscritto è la scaturigine di eventi che svelano il vero volto del potere, “mostruoso, selvaggio, anarchico, incapace di sottostare a regole e misure. Incapace di giustizia ed equità”, strappando le sue maschere perbeniste, leguleie, burocratiche, tracotanti e onnivore. I cattivi hanno nomi caricaturali che paiono rubati ai film di Sergio Leone: El Cabron (il “Fiscal”, cioè il procuratore capo), El Guapo, Lardoso, Gordo detto “Il Padrino”; essi applicano paradossalmente il celebre motto dell’agenzia investigativa Pinkerton, “noi non dormiamo mai”, nel senso che trascorrono l’intera esistenza a combinare crimini e schifezze che per ruolo avrebbero il dovere di prevenire e punire. I loro amici sono potenti e criminali, le loro vittime poveri disgraziati e deboli d’ogni sorta. Ed è proprio entrando nella mente e nel cuore di innocenti ingiustamente perseguitati, incarnati dal giovane migrante algerino Tylimaku (Telemaco, come il figlio di Ulisse dal multifome ingegno, nomen omen), colpevolmente spacciato per terrorista islamico dal clan dei prepotenti, che si genera la resistenza, la non accettazione della barbarie, che non può che rifondarsi proprio su quel diritto tradito, sui diritti umani offesi e vilipesi, l’unico argine allo strapotere del potere. La trama è sintetizzata nella postfazione di un altro magistrato (ed ex senatore della Repubblica), Domenico Gallo: “Il racconto si dipana attraverso una serie di vicende nelle quali trovano posto latifondisti ladroni, vescovi e magistrati accomunati da vizi privati nascosti dalle pubbliche virtù, sgherri, escort, professori che impongono codici di abbigliamento discinti alle stagiste, ai quali fa da contraltare l’umanità recuperata nella comunità di accoglienza guidata da un sacerdote sandinista, fra Kuros, un prete a metà tra Zenone, il protagonista de L’opera al nero di Marguerite Yourcenar, e il vescovo di San Salvador, Oscar Romero, ucciso proprio mentre diceva messa in un ospedale, mentre sollevava l’ostia consacrata. La provincia spagnola, si fa simbolo dei Sud del mondo, un sud fatto di emarginazione, sfruttamento e poteri legali che diventano illegali per bieco arricchimento personale. Dopo una serie di colpi di scena, la macchina della giustizia si mette finalmente in moto, restituisce dignità alle vittime e smaschera i complotti dei potenti. Al fondo c’è questa concezione della centralità della giustizia come unico argine possibile per ‘ imbrigliare il Leviatano’. Una giustizia che si prostituisce ai potenti e che apre ferite spaventose nella carne viva delle vittime del potere. Una giustizia che interviene per risanare le ferite, per riparare i torti, per liberare i deboli dal giogo dei potenti”. Il compito dello scrittore, il suo scopo in tutto questo? È nella citazione di Se questo è un uomo di Levi all’inizio del libro di del Castillo: “Portare testimonianza”. Testimonianza di verità, aggiungerei, perché oggi più che mai, dismessi i panni della fantasia dinanzi a una realtà che troppo spesso la supera, il romanzo può diventare racconto di verità. Cinema. “Forse perché eravamo gli ultimi” di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 9 gennaio 2021 Un cortometraggio girato nell’ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto. Più noti con l’acronimo Opg, ovvero Ospedali psichiatrici giudiziari, un tempo si chiamavano manicomi criminali. Qui venivano rinchiuse le persone considerate socialmente pericolose, tra cui tossicodipendenti, sieropositivi, alcolisti, persone sole e anziani. Erano vere e proprie strutture dove gli ospiti venivano il più delle volte abbandonati a se stessi senza alcuna assistenza sanitaria. Rappresentavano il clou delle contraddizioni del sistema giudiziario italiano e, quando vennero istituiti, furono pensati per soddisfare una duplice esigenza: unire la dimensione terapeutica con quella di sicurezza. Esigenza superata dal fatto che, con gli anni, si è compreso che spesso il detenuto giudicato “normale”, aveva maggiori opportunità di reinserimento nel tessuto sociale rispetto a un ristretto dell’Opg che non aveva altra scelta se non quella di trascorrere il resto della sua vita dietro le sbarre. A raccontare la trasformazione che ha portato queste strutture sicuramente più a misura d’uomo, ci hanno pensato proprio gli ospiti di uno degli ex manicomi criminali, diventato nel 2016 casa circondariale. Siamo a Barcellona Pozzo di Gotto, provincia di Messina, dove i detenuti-attori hanno realizzato un cortometraggio intitolato “Forse perché eravamo gli ultimi”, una pellicola a tema post-apocalittico: in un ex manicomio abbandonato, pochi uomini riescono a sopravvivere alla pandemia. Da questa circostanza, nascono riflessioni sulla necessità di combattere l’alienazione e sul senso stesso dell’umanità. “L’idea - spiega la direttrice Nunziella Di Fazio - è nata nell’ambito di un laboratorio di mediazione artistico-culturale condotto dai nostri tecnici della riabilitazione. Tutta la sceneggiatura e lo sviluppo del cortometraggio si è fondato su un’idea dei ragazzi, che hanno dimostrato grande fantasia e applicazione. Per un detenuto psichiatrico tutto ciò ha una valenza comunicativa perché significa aumentare l’autostima e la consapevolezza della propria autoefficacia”. La direttrice della casa di reclusione siciliana spiega poi le difficoltà incontrate durante le riprese dovute non certo allo scarso coinvolgimento dei protagonisti, quanto al covid-19 e al rispetto delle norme di sicurezza: “Vedendo il film traspare la loro emozione. Certo, la trama ideata appare inizialmente inquietante, ma a mano a mano che la storia si snoda, emerge con forza la (loro) voglia di rinascere. Come? Attraverso il gioco, tornando bambini”. Per Di Fazio, infatti “gli ospiti di questo carcere hanno vite spezzate. È come se la loro esistenza si fosse a un certo punto interrotta e avessero perso quella possibilità di crescere che ciascun essere umano ha. Sta a noi operatori metterli in condizione di farli riprendere da dove il percorso si è interrotto e credo che iniziative come queste aiutino a rimettersi in carreggiata e a compensare questo vuoto”. La direttrice rileva inoltre che “durante il lockdown ci siamo dati come obiettivo quello di continuare le attività riabilitative e trattamentali con il personale interno a disposizione, fra cui il progetto del cortometraggio. Abbiamo quindi proseguito nelle iniziative anche durante il periodo di chiusura, riuscendo in una proficua collaborazione fra l’area sanitaria e quella amministrativa. Facendo squadra si possono ottenere grandi risultati. Papa Francesco ha detto che la persona malata o disabile, proprio a partire dalla sua fragilità, dal suo limite, può diventare testimone dell’incontro. Ecco - prosegue - io credo che questi ragazzi, attraverso la loro idea, sono riusciti a promuovere tale cultura dell’incontro evocata dal Santo Padre. Tanto è vero che gli abbiamo inviato una copia del film perché sono certa che apprezzerà il loro sforzo e il loro impegno. Lui che ha così a cuore i detenuti”. La macchina da presa, dunque, come modello operativo efficace che supera la centralità del carcere come unica forma di pena e afferma l’importanza dello sviluppo di alternative alla detenzione uscendo finalmente dal rincorrere, di volta in volta, l’emergenza che bussa alla porta. Teatro. “La lupa nella gabbia” e le donne in carcere di Darianny Ventura 21secolo.news, 9 gennaio 2021 La lupa nella gabbia uno dei temi meno affrontati, le donne in carcere: secondo recenti dati forniti dall’amministrazione penitenziaria, su un totale di 58.163 detenuti presenti nelle carceri italiane, le donne sono 2.402, cioè il 4,12% della popolazione carceraria. Ma qualcuno si ricorda di quel 4,12%? Sostanzialmente uno dei temi principali riguardano principalmente gli uomini carcerati, La lupa nella gabbia vuole raccontare di tutte quelle donne di cui non si sa molto. L’idea nasce da una piccola realtà napoletana, Delirio Creativo. Andiamo a leggere l’intervista rilasciata al XXI Secolo da Federica Palo e Raffaele Bruno, gli artisti da cui nasce lo spettacolo. L’intervista inizia con le parole di Federica Palo la quale esprime: “Io personalmente faccio e spero di fare ancora il laboratorio di teatro nella sezione femminile del carcere di Salerno. Da questa mia esperienza e dalle testimonianze scritte di testi di detenute che abbiamo incontrato nelle carceri di Pozzuoli, Benevento e Salerno; con il progetto Gli Ultimi Saranno nasce uno spettacolo incentrato sulla condizione femminile in carcere, “La lupa nella gabbia”. Si parla più spesso della carcerazione maschile, mentre quella femminile è un mondo a sé fatto di grande solidarietà femminile, talvolta anche di abusi e di grande malinconia nel momento in cui si va toccare il tema della maternità”. L’attrice salernitana continua: “La cosa peggiore per una donna in carcere è quando viene privata della sua condizione naturale di mamma, per chi ha figli: il tema dei figli è un nella maggior parte dei casi molto doloroso e serve una grande consapevolezza per affrontarlo in maniera tranquilla. L’inconsapevolezza è uno dei motivi principali per cui molte persone vanno a finire in carcere, per quest’ultimi, affrontare i propri fantasmi è davvero difficile. “La lupa nella gabbia” è uno spettacolo che ha come protagonista una donna in stato di detenzione che attraversa vari momenti: quello dell’inconsapevolezza, per l’appunto, che la spinge e commettere un omicidio. La rassegnazione alla vita carceraria in cui il tempo è dilatatissimo, sempre uguale, si ripete scandito dalle stesse cose, e il momento in cui si rende conto che non è solo luogo di abbrutimento, ma può essere anche migliorativo, rispetto alla donna che vuole effettivamente diventare. Degli errori che ha fatto e di come vorrà essere diversa una volta uscita, quindi in realtà il finale è un finale di speranza e positività perché tutti possiamo commettere errori anche molto gravi, ma ognuno ha diritto ad una seconda possibilità. All’interno dello spettacolo ci sono anche dei riferimenti alla condizione carceraria vera e propria in cui le donne vengono trattate come gli uomini, private spesso della loro femminilità… ma tutto è migliorabile. C’è questo raffronto con la lupa perché il lupo è molto materno e simile all’essere umano. “La lupa nella gabbia” si avvale di una collaborazione d’eccezione con le musiche originali e suonate dal vivo del gruppo musicale napoletano - Gatos do mar”. Nell’iniziativa ci sono quindi: con l’arpa, Gianluca Rovinello, con le percussioni, Pasquale Benincasa, con la voce, Annalisa Madonna, come attrice, Federica Palo e con la regia di Raffaele Bruno. “Lo spettacolo nasce con l’esigenza di condividere con l’esterno le voci di dentro. In particolar modo provare a portar fuori il quotidiano, questa è una delle cose rappresentate minormente in queste tematiche. Provare a far nascere nello spettatore un’empatia - umana, aiutando ed accompagnando lo spettatore ad immedesimarsi nel quotidiano, nel piccolo” - ha affermato Raffaele Bruno. A quanto affermato lo spettacolo era già pronto dal 16 novembre 2020, ma a causa della pandemia è stato rimandato. Le date confermate erano tre, si aspetterà un miglioramento della situazione per far partire lo spettacolo. La crisi che scava un solco tra ricchi e poveri di Chiara Saraceno La Stampa, 9 gennaio 2021 È assodato che il Covid 19 sta allargando le disparità sociali. Nel pensare a come programmare la ripresa occorre tenerne conto per evitare che chi è stato maggiormente colpito venga lasciato ai margini con conseguenze irreversibili. Gli effetti della crisi occupazionale dovuta all’emergenza sanitaria si sono, infatti, in prevalenza ripercossi sulle componenti già più vulnerabili del mercato del lavoro (giovani, donne e stranieri), sulle posizioni lavorative meno tutelate e nell’area del Paese che già prima dell’emergenza mostrava le condizioni occupazionali più difficili, il Mezzogiorno. A fronte di un calo complessivo dell’occupazione nel secondo trimestre dell’1, 9%, tra i giovani 15-34 il calo nello stesso periodo era stato del 3, 2 %, per le donne del 2, 2 %, tra gli stranieri di entrambi i sessi e di ogni età del 5, 5 %. La piccola ripresa del terzo trimestre è stata probabilmente vanificata dalle successive chiusure. Si aggiunga la nuova, imprevista, disuguaglianza tra chi ha una occupazione che può essere effettuata a distanza, quindi è più protetta sia dalle restrizioni, sia dal contagio, ed invece chi ha una occupazione che può essere svolta solo in presenza, quindi a rischio sia di contagio sia di perdita di lavoro nel caso di riduzione dell’attività. A parte le professioni sanitarie, questo secondo tipo di occupazioni - nel settore privato - è per lo più a bassa qualifica e bassa remunerazione. I vari e successivi “ristori” hanno compensato solo in parte le perdite economiche di individui e famiglie, oltre a creare, pur nell’allargamento delle forme di protezione, nuove forme di diseguaglianza tra più e meno protetti. Per altro, anche la maggiore protezione offerta a chi può accedere alla cassa integrazione sotto l’ombrello del divieto di licenziamento, non può nascondere il rischio che molti di costoro si troveranno senza lavoro, andando così ad ingrossare l’esercito dei disoccupati, quando il divieto non verrà più prorogato e le aziende più o meno stremate non potranno riassorbirli. Non stupisce che ad agosto, quando si pensava che il peggio fosse alle spalle, poco meno di un quarto (23%) delle famiglie intervistate nell’Indagine speciale sulle famiglie della Banca d’Italia si aspettasse un forte peggioramento delle proprie condizioni economiche, dopo aver toccato il 40% a maggio. Visto come sono andate le cose da ottobre in poi, è altamente probabile che si sia tornati alle percentuali di maggio. Del resto, osservatori come il Banco Alimentare, Caritas, Action AID, Save the children e altri stimano che la povertà assoluta sia raddoppiata, arrivando a sfiorare i tre milioni di famiglie. Ma c’è chi ha invece aumentato la propria ricchezza, in parte a causa del contenimento forzoso dei consumi. Secondo uno studio di Ref del novembre scorso, solo nella prima metà del 2020, i risparmi delle famiglie sono aumentati di ben 42 miliardi di euro. Ma questo accumulo riflette situazioni asimmetriche, fra quanti hanno mantenuto i loro redditi sostanzialmente invariati, e hanno quindi aumentato la loro ricchezza, e quanti invece hanno subito in misura più immediata le conseguenze della crisi, e hanno dovuto usare i propri risparmi per fare fronte alle spese. Le disuguaglianze sono aumentate anche tra bambine/i e adolescenti per cause legate alla loro propria esperienza. Il lockdown di questa primavera, la scuola a singhiozzo di questo primo quadrimestre, la didattica a distanza imposta a tutti gli studenti della scuola secondaria superiore e, in alcune regioni, anche di quella inferiore (in Campania e Puglia anche dal nido in su) hanno prodotto difficoltà per tutti. Ma per le bambine/i e adolescenti in condizione di svantaggio queste rischiano di aggravare situazioni fragili e difficilmente recuperabili. Eppure nulla è stato pensato e organizzato in modo sistematico per contrastare questo esito, né durante la lunga pausa estiva né dopo. Non si può aspettare oltre. Per i giovani e gli adulti senza lavoro o a rischio di perderlo occorre prevedere attività di formazione e consulenza che li indirizzino verso le opportunità che pure ci sono, o che è probabile si aprano. Per sostenere l’occupazione delle donne, cui la pandemia ha ulteriormente ridotto le possibilità di conciliazione lavoro-famiglia, occorre rafforzare radicalmente l’offerta di servizi di cura di qualità e accessibili. Per le bambine/i e adolescenti cui la pandemia rischia di ridurre fortemente le possibilità di sviluppo delle capacità occorre investire nel rafforzamento delle opportunità educative, dal nido in su, in attività di accompagnamento e tutoraggio, e in una didattica capace di farne fiorire le capacità, contrastando le disuguaglianze che si trasformano in destino. I fondi Ue e il welfare che non c’è di Elsa Fornero La Stampa, 9 gennaio 2021 Anche nella variante 2 del Recovery Plan - pur con maggiori risorse per gli investimenti e per la crescita - continua a esserci un grande assente: un nuovo disegno di welfare per i prossimi decenni. Si dirà: poco male, perché con il welfare si “ridistribuisce” ricchezza, e non la si crea. Eppure, un buon sistema di welfare è una premessa necessaria per un buon sistema produttivo: un’architettura pubblica per combattere rischi che il mercato non copre è “produzione” non meno rilevante per il benessere collettivo di quella di automobili, vestiario o servizi culturali Il piano di “rinascita” per cui l’Europa mette a disposizione ingenti risorse non poggia, infatti, solo sulla sostenibilità ma anche sulla resilienza, un termine che, riferito alla società, indica capacità di resistere alle avversità e magari di trasformarle in opportunità. Nella nostra esistenza i rischi cominciano alla nascita e seguono, purtroppo spesso accumulandosi, tutto il percorso della vita; non colpiscono in maniera uniforme e, quando si verificano, comportano perdite sia materiali sia umane. Contro molti rischi gli individui si assicurano volontariamente o per imposizione pubblica. Molti altri, tuttavia, come la pandemia ci dimostra tristemente, hanno carattere collettivo e richiedono una copertura pubblica almeno parziale dei danni materiali, come mostrano i “ristori” ampiamente sperimentati nel 2020. Il sistema di welfare, del quale le pensioni sono solo una parte, deve prevenire e redistribuire i rischi, giacché non sono equamente ripartiti. Comporta grandi benefici generali in tempi lunghi ma nell’immediato sottrae risorse ai consumi per destinarle ad attività dagli incerti vantaggi futuri. Investire nella scienza, a esempio, è stato un modo per prevenire il rischio di pandemie, come mostra la sostanziale riduzione, proprio grazie ai vaccini, della mortalità infantile. Contro il rischio di nascere in una famiglia povera, fragile, emarginata l’unica “assicurazione” è l’intervento pubblico che investa in nidi, scuole dell’infanzia, aiuti le famiglie in difficoltà, ne promuova l’indipendenza economica attraverso il lavoro (non solo “redditi di cittadinanza”), il che richiede istruzione e formazione professionale (oggi “continua” per la rapidità con la quale le conoscenze si rinnovano). La “povertà scolastica” è contrastata con l’obbligo della frequenza ma richiede anche la distribuzione delle risorse didattiche in modo da favorire i più svantaggiati, a cominciare dall’adeguamento degli edifici scolastici, spesso cadenti, delle periferie. Poi ci sono i rischi legati al lavoro, anch’essi ignorati dal mercato e distribuiti in modo diseguale: la precarietà dell’occupazione giovanile, l’esclusione di quelli che né studiano, né lavorano, la disoccupazione, l’inadeguatezza del reddito al mantenimento di una famiglia. In tutto questo il cardine dell’intervento pubblico dev’essere quello della formazione e dell’inclusione e della rimodulazione delle imposte dal lavoro al capitale, dalle donne agli uomini, dai giovani agli anziani, favorendo così i segmenti svantaggiati. Limitarsi ai sussidi, bloccare i licenziamenti con il ricorso indefinito alla cassa integrazione non è buona politica: semplicemente ritarda e aggrava i problemi. Infine, ci sono i rischi dell’età anziana: pensioni troppo basse per contributi non pagati nei periodi di disoccupazione o di cure o per pensionamenti precoci, che paiono atti di generosità politica, ma nascondono il rischio di risorse insufficienti negli anni futuri. Questi rischi colpiscono in particolare le donne, in conseguenza delle discriminazioni sul lavoro e della tradizionale differenza di ruoli tra uomini e donne. Per decenni, lo Stato italiano ha sostanzialmente identificato il welfare con il sistema pensionistico, quasi a compensare ex post ingiustizie e discriminazioni non corrette ex ante nei percorsi educativi e di lavoro. È tempo che la politica italiana si renda conto che un nuovo sistema di welfare è premessa indispensabile per affrontare le grandi trasformazioni in corso, da quelle demografiche e tecnologiche a quelle famigliari e del lavoro. La nostra spesa sociale non è inferiore a quella di altri Paesi europei ma è più concentrata proprio sulle pensioni, un grande ammortizzatore sociale a sostegno di uno stadio della vita che, per dirla con il presidente Mattarella, non è più quello dei “costruttori”. Come possiamo allora costruire una società resiliente? È indispensabile evitare che si finisca, ancora una volta, per destinare nuove risorse alla spesa per pensioni, trascurando gli altri capitoli fondamentali. Solo così potremo aspirare a diventare “resilienti”. Disoccupazione e povertà. La crisi da Covid colpisce di più le donne di Danilo Taino Corriere della Sera, 9 gennaio 2021 A causa della crisi più donne senza lavoro rispetto agli uomini. E con il lockdown sono cresciuti ulteriormente gli Sos ai centri antiviolenza “Ma l’Italia era comunque indietro di 99 anni: il virus l’ha solo rallentata”. “L’impatto delle crisi non è mai gender-neutral - scrivevano qualche settimana fa le Nazioni Unite - e il Covid-19 non fa eccezione”. In effetti, che la pandemia non sia imparziale nell’imporre le sue leggi a donne e uomini è evidente in tutte le regioni italiane: nella violenza domestica, nella cura dei malati, nella gestione dei figli senza scuola, nella perdita del lavoro, soprattutto quello precario e debole a prevalenza femminile. Statistiche definitive ancora non ci sono. Uno studio dell’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica ha comunque misurato che il 52,5 per cento delle donne vive un peggioramento netto delle proprie condizioni di vita, contro un 45,2 per cento degli uomini. Più in generale, la pandemia e i lockdown hanno accentuato situazioni esistenti e accelerato tendenze in essere: per l’Italia, la realtà era già seriamente problematica prima del Covid-19, per quel che riguarda la condizione femminile. Quando in una coppia le cose vanno bene, il confinamento in casa per lunghi periodi può rafforzare il rapporto. Ma quando ci sono tensioni o addirittura relazioni violente, tutto può precipitare. Sulla base delle chiamate al numero verde 1522 del Dipartimento per le Pari Opportunità dedicato alla violenza sulle donne e allo stalking, l’Istat ha calcolato che tra marzo e ottobre di quest’anno le richieste di aiuto sono aumentate del 71,7 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019: un totale di 23.071, delle quali 10.577 hanno riguardato casi violenti. Le chiamate per informazioni ai Centri antiviolenza sono aumentate del 65,7 per cento. Seguendo lo stesso cartamodello, quando le cose funzionano e l’economia tira, le aziende assumono anche donne; quando le cose vanno male, queste sono le prime a perdere il posto di lavoro, un po’ perché stanno in media nella parte meno alta della scala dell’importanza nell’impresa, un po’ per ragioni culturali a causa delle quali si pensa che una donna disoccupata sia più “normale” di un maschio disoccupato. Una ricerca pubblicata a fine ottobre dalla Fondazione studi consulenti del lavoro ha calcolato che tra il secondo trimestre 2019 e il secondo trimestre 2020, cioè comprendendo lo choc di primavera fino a giugno, su 841 mila posti persi il 55,9 per cento fosse occupato da manodopera femminile. Particolarmente colpite sono state le lavoratrici a termine, che in quasi 330mila casi hanno perso l’occupazione, e quelle autonome. Quando finirà il blocco dei licenziamenti, a marzi 2021, le cose peggioreranno. Un disastro, se si tiene conto del fatto che già prima della pandemia in Italia lavorava meno di una donna su due e che il gap tra occupazione maschile e femminile era del 18,9 per cento: la situazione peggiore nella Ue se si esclude Malta. Spesso si fa notare che in termini di differenze salariali tra uomo e donna lo stato delle cose in Italia non è così male: nelle statistiche di Eurostat la differenza media è un po’ sotto al 5 per cento, minore è solo in Romania e in Lussemburgo (la Germania, per dire, è al 20 per cento). “Tuttavia - sottolinea lo stesso ufficio statistico della Ue - un gap basso in certi Paesi non significa automaticamente che le donne in generale siano meglio pagate. Il gap spesso si realizza in Paesi con un più basso tasso di occupazione femminile”. Che è poi la situazione italiana. Valore D, per esempio, sottolinea che più le donne studiano più aumenta il divario salariale: se un maschio laureato guadagna il 32,6 per cento in più di un diplomato, per una laureata il divario è solo del 14,3 per cento. Nonostante la legge Golfo-Mosca del 2011 imponga alle società quotate in Borsa di riservare alle donne almeno un terzo dei posti nei loro organismi di governo, i meccanismi interni di carriera continuano poi a privilegiare gli uomini. Molte imprese promuovono sulla base della cooptazione fondata sulla condivisione di valori invece che sul merito: dal momento che chi coopta è di solito un maschio, è molto probabile che quest’ultimo scelga un suo simile. Il fatto che durante la pandemia il moltiplicarsi di comitati creati dal governo abbia visto la partecipazione scarsissima di donne, ancora meno in posizioni di guida, indica che probabilmente nel 2020 lo stato degli affari del gender-gap non è migliorato, anzi. I campi nei quali esistono differenze di genere sono moltissimi. Fa forse eccezione quello delle laureate, che sono il 22,4 per cento del totale contro il 16,8 per cento degli uomini: ma qui trovano meno ostacoli che in altri campi, vale solo la loro determinazione. L’indice che raccoglie tutto il ritardo italiano è il Global Gender Gap Index realizzato dal World Economic Forum. Dice che nel 2006, quando è stato realizzato per la prima volta, eravamo alla posizione 77 su 153 Paesi: nel 2019 siamo saliti alla posizione 76. Di questo passo, per raggiungere la parità sarebbero serviti 99,5 anni. Se il coronavirus non ci avesse spinto ancora più indietro. Bullismo sul peso, istigazione all’odio fin da bambini di Costanza Rizzacasa d’Orsogna Corriere della Sera, 9 gennaio 2021 Nei primi mesi della pandemia l’odio online tra bambini e adolescenti è aumentato del 70%. Contemporaneamente esplodono i disturbi alimentari. “Domani mio figlio, quinta elementare, cambia scuola. Le prese in giro dei compagni per essere un po’ in carne gliel’avevano resa un posto da odiare. Solare e allegro, aveva iniziato a soffrire di reflusso e di gastrite”. Inizia così, su Twitter, il racconto di una mamma di Roma. “Ho cercato di resistere”, spiega, “non volevo lo vivesse come un fallimento. Ma c’è un limite”. Migliaia le condivisioni. Al netto dei soliti idioti (“Levagli le merendine”), c’è chi rivede il proprio vissuto (“Sento ancora bruciare le ferite”) e chi invece attacca: “Ottimo insegnamento. Davanti alle difficoltà si scappa”. Un problema, quello del bullismo e del cyberbullismo (in particolare sul peso) sempre più allarmante. Secondo l’osservatorio Light, nei primi mesi della pandemia l’odio online tra bambini e adolescenti è aumentato del 70%. Contemporaneamente esplodono i disturbi alimentari. Account social e chat che istigano all’anoressia sono fuori controllo. Nei giorni scorsi, dopo l’aumento di ricoveri per anoressia di bambine tra i 10 e i 12 anni, il ministero della Salute britannico ha lanciato un appello. In Italia, dove di disturbi alimentari soffrono almeno 2,3 milioni di adolescenti e pre-adolescenti si parla di un +30%. E l’età si abbassa sempre di più: le prime manifestazioni anche a otto anni. Ecco perché è fondamentale che insegnanti e genitori si occupino di bullismo. Ma la scuola, come la famiglia, è spesso impreparata. Ancora quest’anno, un testo per le elementari suggeriva la parola “grassa” per definire una bambina (peraltro dal disegno normopeso). Vero, il bullismo esiste da sempre. Ma il mondo è cambiato. Quando noi andavamo a scuola non c’erano i social, le chat. Per risolvere problemi nuovi occorrono nuovi strumenti. Soprattutto, siamo sicuri che il bullismo subito da bambini ci abbia aiutati a crescere? O non ci ha resi, forse, adulti più tristi, più fragili, più cinici e magari incattiviti? Stati Uniti. Bloccare Trump sui social non è una soluzione, e non può funzionare di Beniamino Pagliaro La Repubblica, 9 gennaio 2021 La triste, criminale, pagina dell’assalto al Congresso di Washington sembra aver prodotto, se non altro, un’ondata di approvazione intercontinentale quando Facebook e Twitter hanno deciso di mettere a tacere il presidente uscente Donald J. Trump. Dopo quattro anni di esclamazioni, cospirazioni e bugie twittate dal presidente degli Stati Uniti alle cinque del mattino, abbiamo pensato, con sollievo: gli hanno finalmente tolto il giocattolo! In effetti, nota qualcuno ora, è bastato spegnere il suo profilo social, il palcoscenico per l’attenzione delle folle, per costringerlo a concedere la vittoria a Joe Biden. Tutti l’abbiamo pensato, ma è un pensiero sbagliato, che guarda il singolo caso e non la prospettiva, il metodo. È davvero un problema che a decidere sulla capacità di esprimere un pensiero, giusto o sbagliato, buono o cattivo, siano gli amministratori delegati di società quotate in borsa. Non è una soluzione, e non può funzionare. La crescita dei social media e delle società tech in generale è avvenuta con una rincorsa, travolgente, spesso senza indagare sulle conseguenze. Elon Musk ha twittato un meme richiamando l’effetto domino suggerendo che tutto (Facebook) sia iniziato da un sito per dare i voti alle ragazze carine all’università. Alla fine del domino c’è un personaggio con il cappello da vichingo che prende il controllo del Congresso. Fortunatamente non è davvero andata così. Ma i social media sono una primaria fonte di informazione per gran parte della popolazione americana: molte ricerche sostengono che questo non aiuti gli utenti-cittadini a mettere le informazioni nel giusto contesto. Il confine tra notizia verificata e fake news sembra davvero labile, il confine tra uomo politico e testata giornalistica sembra difficile da riconoscere. Altri studi dicono invece che sarebbe l’innata volontà umana di vedere confermate le proprie idee a farci rinchiudere nelle bolle dei social. La conseguenza indesiderata, comunque, è che i messaggi di odio proliferano, le bugie fanno più scalpore di una noiosa verità. Dunque anche se tutti gli organismi deputati a verificare la correttezza del voto si sono espressi - ha vinto Joe Biden - milioni di americani credono che sia tutto un complotto. Questo è un problema, perché così si mette in dubbio la legittimità della democrazia. Ma la risposta a questo problema non può essere una censura ex-post delle parole di un uomo politico. Oggi pensiamo di essere d’accordo con la decisione di Facebook e Twitter, ma in verità lo siamo perché non consideriamo il contesto e la geografia. Che metodo c’è dietro una decisione del genere? Mark Zuckerberg ha scritto che la decisione serve a evitare “ulteriore violenza”. Ma in verità non sappiamo se questo sia vero, né se Zuckerberg abbia, in questo o in altri futuri casi, gli strumenti per valutare. Arriviamo presto al nodo: chi controlla il controllore? Caso ancora più paradossale, Twitter ha riammesso Trump perché potesse pubblicare il discorso di concessione della vittoria. Una logica meramente editoriale, come se in un giornale, al collaboratore un po’ matto avessimo detto: “Ok, questa volta puoi mandare il pezzo, ma prometti di non sbroccare”. Pensiamo che sia giusto bloccare Trump ma se invece a sovvertire l’ordine costituito sono i giovani di Hong Kong, cosa diremmo? Del resto, delegare la censura a entità statali o para-statali dovrebbe far venire i brividi anche a noi italiani. Quando non si sa bene che fare di fronte a un problema complicato, la classica risposta dei politici è: “Bisogna investire nell’educazione e nella cultura”, e siamo d’accordo, in generale. Ma la casa è in fiamme ora. L’incendio si spegne in primis con le leggi che esistono già. In Italia, per esempio, l’apologia del fascismo è un reato, e lo deve essere anche online. Invece di invocare nuovi censori, dovremmo pretendere politici (e giudici) in grado di far rispettare le leggi. Se Trump sarà rimosso dalla Casa Bianca non sarà per le sue parole, ma per le sue azioni, e per forza di un sistema ordinato di leggi. Quante volte negli scorsi quattro anni dozzine di repubblicani hanno fatto finta di niente, rifiutando l’impeachment, fingendo di non sapere quel che stava succedendo? La risposta va cercata lì. Per preservare la libertà del discorso pubblico, la libertà di dibattere e persino di far cambiare idea a chi la pensa diversamente da noi (ci sfugge spesso, ma sarebbe questo il punto del gioco democratico), serve un metodo, e non delle decisioni una tantum. Per ragioni etiche e tecnologiche abbiamo bisogno di regole condivise, di alzare gli standard minimi della convivenza in rete con profili verificati. Se questo fosse un problema economico, potremmo pensare a un sistema di incentivi, ma con la democrazia è ovviamente più complicato. Bisogna studiare. La metafora della pandemia è efficace: non basteranno da sole le mascherine, non basterà lavare le mani, non basterà il vaccino, ma queste azioni messe in fila possono isolare il virus. Allo stesso modo, le varie misure di educazione all’informazione e rispetto ferreo della legge possono riportare i complottisti a un fisiologico 1%, ovvero a diventare ininfluenti, come quello zio cospirazionista che ci infesta le chat familiari. I personaggi che entrano nel palazzo del potere fanno pena, letteralmente. Non sanno quel che fanno, non sanno che rischiano di sacrificare secoli di lotta per i diritti di tutti. L’unica consolazione è che le istituzioni restano e il resto passa. Stati Uniti. Tre esecuzioni federali in quattro giorni: l’ultimo lascito di Trump di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 gennaio 2021 Il presidente uscente degli Usa Donald Trump verrà ricordato anche come colui che ha rimesso in moto la macabra macchina della morte delle esecuzioni federali. Fino al luglio 2020 l’ultima condanna a morte federale era stata eseguita nel 2013. Poi, in sei mesi, ci sono state 10 esecuzioni. Prima che Trump lasci formalmente la Casa Bianca, per la prima volta dopo 130 anni nel periodo di transizione da una presidenza all’altra potrebbero essercene altre tre nel giro di quattro giorni: Lisa Montgomery il 12 gennaio, Corey Johnson il 14 gennaio e Dustin Higgs il 15 gennaio. Montgomery è l’unica donna nel braccio della morte federale. Nel 2004 ha commesso un delitto orribile, strangolando una donna e asportandone il feto di otto mesi dopo averle praticato un cesareo con un coltello da cucina. L’esecuzione è stata confermata nonostante i più volte verificati problemi psichiatrici della detenuta: disturbo bipolare, disturbo post-traumatico da stress, comportamenti dissociativi e allucinazioni. La vita di Montgomery è stata segnata da livelli di degrado e violenza assoluti: abusi sessuali e stupri a partire da 11 anni ad opera della madre, degli amici di lei, del primo marito e degli amici di lui. Non stupisce che stia attendendo l’esecuzione in una struttura medica penitenziaria per detenuti con malattie mentali. Johnson, membro di una gang dedita a uccisioni seriali, è stato condannato a morte per sette omicidi avvenuti in Virginia, Higgs per il rapimento di tre donne nel Maryland. Entrambi sono nel braccio della morte da oltre 20 anni e, alla data del 6 gennaio, erano risultati positivi al Covid-19. Nelle loro condizioni di salute, argomentano gli avvocati, l’esecuzione costituirebbe una punizione crudele e inusuale, contraria alla Costituzione. Iran. Tre giorni fuori dalla cella per Nasrin Sotoudeh di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 9 gennaio 2021 L’avvocata iraniana per i diritti umani potrà accedere alle cure, ma solo per un tempo limitato. Un calvario di cui non si intravede la fine. Un vero e proprio calvario del quale al momento non si intravede la fine. È questa infatti la sorte che sta vivendo Nasrin Sotoudeh, l’avvocata e attivista per i diritti umani che ormai dal 2018 è costretta ad un continuo stillicidio tra carcerazioni e brevi periodi di libertà. Questa volta ha ottenuto un permesso di soli 3 giorni per uscire dal penitenziario di Qarchak, nei pressi della capitale Teheran, dove si trova rinchiusa in seguito ad una condanna per spionaggio e, secondo i giudici che l’hanno mandata in carcere, per un supposto “tentativo di rovesciare il sistema della Repubblica islamica”. Come durante tutti questi anni di detenzione, il tramite con l’esterno e l’opinione pubblica internazionale è stato il marito Reza Khandan che combatte una battaglia per non far seppellire definitivamente la voce di Nasrin. È stato infatti lui a divulgare la notizia del breve soggiorno al di fuori della prigione attraverso twitter. Un messaggio rilanciato poi da Amnesty International che ha spiegato ancora una volta i motivi della carcerazione e ha lanciato un appello urgente per la sua liberazione definitiva. Nel 2019, dopo l’esito negativo del suo appello, Nasrin è stata condannata a 33 anni di carcere e a 148 frustate per un’unica colpa: aver difeso i diritti delle donne e la loro libertà di scelta, come quella di non voler indossare l’Hijab, in tradizionale velo che copre loro la testa. Per questo aveva pubblicamente difeso una donna che non aveva voluto piegarsi a quest’obbligo. Da qui la formulazione di 7 pesanti capi d’imputazione, dall’aver complottato contro la sicurezza nazionale alle minacce contro il sistema, istigazione alla corruzione e la prostituzione. Ma soprattutto essere comparsa senza velo in un’aula di tribunale. Pesantissima anche la condizione della detenzione. L’avvocata infatti fu rinchiusa nel famigerato carcere di Evin, a Teheran (già impiegato dalla polizia segreta dello Scià Reza Palevi), qui vengono mandati giornalisti iraniani e stranieri, blogger, attivisti, studenti, registi, scrittori. Chiunque abbia in qualche modo espresso la propria critica contro il regime degli Ayatollah. Nonostante Nasrin Sotoudeh avesse 20 giorni di tempo per presentare ricorso contro il verdetto di primo grado, rinunciò a questo diritto come atto di protesta nei confronti di un procedimento che ha giudicato come irregolare e persecutorio, con una decisione già presa a priori. La vicenda, fin dalle sue prime battute, suscitò indignazione internazionale e gli appelli per la liberazione si moltiplicarono. Si mosse anche la diplomazia internazionale ai massimi livelli, a partire dalla Francia. Il 10 aprile 2019 il presidente, Emmanuel Macron, ebbe un colloquio telefonico con il suo omologo iraniano Hassan Rohuani, durante il quale venne sollevato il caso e chiesta la scarcerazione della Sotoudeh. Lo stesso fece il Parlamento Europeo che già nel 2012 l’aveva insignita del premio Sakharov per le sue battaglie in favore dei diritti delle donne e contro la pena di morte. Tutti tentativi che si rivelarono comunque fallimentari, Nasrin infatti continuò a rimanere in carcere da dove però non rinunciò alle sue idee di libertà. Nel settembre dello scorso Un anno fa fu costretta a interrompere uno sciopero della fame iniziato quasi 50 giorni prima per protesta contro le condizioni dei prigionieri politici durante l’epidemia di coronavirus. Uno sforzo che incise profondamente sulla sua salute, tanto da farla ricoverare 5 giorni in ospedale a causa di un’insufficienza cardiaca. Anche in questo caso però la decisione delle autorità giudiziarie fu quella di riportarla in carcere, ma ancora una volta la sorpresa fu amara. Invece che a Evin, Sotoudeh venne trasferita nella prigione di Qarchak, una struttura per sole donne in una fabbrica di polli inutilizzata a sud di Teheran nota per i maltrattamenti sui prigionieri politici e le cattive condizioni igieniche. Sarebbe passato tutto sotto silenzio se non fosse stato ancora una volta per il marito Reza Khandan che riuscì a comunicare: “Tre settimane fa, dopo essere stata ricoverata in ospedale, (Nasrin ndr.) è stata riportata in prigione prima di completare l’intero trattamento. Secondo gli esperti, avrebbe dovuto essere nuovamente trasferita in ospedale per un esame cardiaco urgente e angiografia, ma invece le autorità di Evin l’hanno trasferita nel carcere di Qarchak”. La salute dell’avvocata iraniana poi peggiorò ulteriormente, perché oltre ai problemi cardiaci, alla debilitazione del corpo per malnutrizione si è aggiunta l’infezione da Covid- 19 contratto in cella. Per questo motivo lo scorso 8 novembre era stata rilasciata temporaneamente. I medici che l’hanno in cura avevano chiesto il prolungamento della libertà per cure appropriate, ma ancora una volta senza successo: Nasrin è stata costretta a rientrare in prigione fino alla scarcerazione attuale. Repubblica Democratica del Congo. Dal cuore dell’Africa una lezione di clemenza di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 9 gennaio 2021 C’è chi, come Trump, svuota il braccio della morte a suon di esecuzioni e chi invece sceglie la strada della nonviolenza, come nella Repubblica Democratica del Congo. Vi racconto cosa è accaduto negli ultimi 20 anni. Viviamo un’epoca in cui il braccio della morte va svuotato. C’è chi lo fa come Trump, in modo tanto plateale quanto arcaico e violento, mandando a morte i condannati federali. E chi lo fa invece in modo discreto perché evoluto e nonviolento, con atti di clemenza o di abolizione della pena di morte. È dal più antico dei continenti, l’Africa, che giungono le notizie più moderne per il loro valore umano, civile e politico. L’ultima riguarda una vicenda che come Nessuno Tocchi Caino abbiamo seguito nel tempo e da tempo. Riguarda un Paese nel cuore del continente nero, la Repubblica Democratica del Congo. Il 2 gennaio, il Presidente Félix Tshisekedi ha graziato, tra gli altri, due uomini, il colonnello Eddy Kapend e Georges Leta, ritenuti responsabili dell’assassinio dell’ex Presidente Laurent-Désiré Kabila freddato da tre colpi d’arma da fuoco nel suo ufficio vent’anni fa, il 16 gennaio 2001, per mano di una delle sue guardie del corpo che venne poi subito uccisa. Il figlio Joseph Kabila, che gli successe alla presidenza del Paese quando non era ancora trentenne, si vide rendere giustizia di lì a poco. Nel 2003, un tribunale militare emise una trentina di condanne a morte per l’assassinio del padre. Ci fu una grande mobilitazione internazionale per scongiurare quelle esecuzioni. Decidemmo allora di incontrare il giovane Presidente. L’incontro avvenne nel palazzo presidenziale a Kinshasa il 28 giugno 2003, su una terrazza avvolta da una vegetazione che permetteva appena ai raggi del sole di accarezzarci. Con Aldo Ajello, Emma Bonino e Sergio D’Elia, gli chiedemmo, alla vigilia della formazione del nuovo governo di unità nazionale, un atto di clemenza per quei condannati a morte. Uomini che volevamo anche incontrare, come avevamo incontrato lui. Joseph Kabila, bello, riflessivo e non reattivo e brutale come invece era suo padre, ci promise che non li avrebbe giustiziati e che avrebbe mantenuto una moratoria della pena di morte rimettendo al Parlamento la più generale questione dell’abolizione. Gli regalammo il poster della campagna di Oliviero Toscani “We, on death row”, a sostegno della risoluzione ONU per una moratoria universale delle esecuzioni. Ci permise anche di visitare il carcere di Makala. Ricordo ancora come i condannati per la morte di Laurent Kabila fossero tenuti nella sezione 1, separati da tutti gli altri. Ricordo Eddy Kapend, l’ex aiutante di campo del Presidente ucciso, che ci spiegava attraverso la grata che separava la sezione dal resto del complesso detentivo, come ingiusto fosse stato il processo e di quanti e da quali gravi problemi di salute fossero afflitti là dentro. Joseph Kabila ha governato il suo Paese per 18 anni prima che Tshisekedi vincesse le elezioni nel dicembre 2018. Durante questo tempo, è stato di parola perché ha mantenuto la moratoria delle esecuzioni mentre quell’atto di clemenza che non ha voluto o saputo concedere sembra quasi averlo voluto passare in consegna al suo successore. Tshisekedi ha fatto bene le cose. Il 30 giugno 2020, aveva commutato le condanne a morte in ergastoli. Poi, il 31 dicembre 2020, ha stabilito che i detenuti che a quella data avessero trascorso in carcere 20 anni, venissero liberati. “Il provvedimento interessa quindi Eddy Kapend e alcuni membri del suo gruppo”, ha spiegato Giscard Kusema, addetto stampa presidenziale che ha precisato come la grazia presidenziale sia una misura di portata generale e di carattere non personale. La RDC ci rivolge così un invito accorato alla grazia, alla capacità di costruire un equilibrio che sappia, nel tempo, contemperare e superare la giustizia penale. Coincidenza vuole che, il 2 gennaio, quando Eddy Kapend in RDC torna libero, il Kazakistan si libera definitivamente dalla pena di morte con la firma del Capo dello Stato Kassym-Jomart Tokayev alla legge di ratifica del Secondo Protocollo opzionale al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, che obbliga gli Stati all’abolizione. Anche qui, sempre nel 2003, facemmo una missione a sostegno della moratoria in vista dell’abolizione tanto sul piano interno che internazionale. Eravamo in viaggio per la moratoria Onu delle esecuzioni, in sintonia con i Paesi che ci accoglievano e mossi dal rispetto dello spazio e del tempo altrui, tanto politico quanto culturale, per andare verso l’abolizione e al contempo salvare vite umane. Alla fine dell’anno appena passato, sempre dall’Africa, è giunta la notizia della commutazione in Tanzania, nel giorno dell’indipendenza, di 256 condanne a morte da parte del Presidente John Magufuli. Queste notizie sulle commutazioni in Africa e l’abolizione in Kazakistan sono esiti naturali di un viaggio tanto avventuroso quanto vitale. Sono un’esortazione a riflettere sull’obiettivo del superamento del braccio della morte e anche sul nostro nuovo traguardo del superamento dell’istituto penitenziario in sé. È, quest’ultimo, un messaggio che spedisco oggi, certa che me lo ritroverò domani, frutto di un passato particolarmente ispirato. Stati Uniti. Cannabis terapeutica: in New Mexico anche ai detenuti salute.aduc.it, 9 gennaio 2021 In New Mexico chi è incarcerato o in libertà vigilata non può essere perseguito per aver usato cannabis medica. Il giudice distrettuale Lucy Solimon ha così disposto nel caso di Joe Montaño, un uomo di Albuquerque incarcerato per aver usato cannabis medica mentre scontava una pena di 90 giorni ai domiciliari: la legge statale sulla cannabis medica consente ai pazienti l’accesso alla loro medicina anche se in carcere. La legge sulla cannabis terapeutica del New Mexico - Lynn and Erin Compassionate Use Act - non parla dei pazienti incarcerati. Ma nel 2019, il Parlamento ha stabilito che “chi sconta o è in attesa di una pena ed è privato della libertà personale ha gli stessi diritti previsti nel Lynn and Erin Compassionate Use Act”. Montaño, condannato a tre mesi di reclusione domiciliare per guida in stato di ebbrezza nel 2019, fu incarcerato per ulteriore 30 giorni perché usava cannabis medica. In prigione, quasi perse il suo lavoro, e il sen. Jacob Candelaria presentò una mozione: “Non c’è discrezione nel Medical Cannabis Act”, ha detto in un’intervista al Santa Fe New Mexican. “Sebbene la questione penale possa destare preoccupazioni, ma la legge è chiara: fornire ai detenuti cannabis medica”. La sentenza vale per una persona, ma è un precedente, che potrebbe finire in appello, ma Candelaria, che è anche avvocato, è pronto a dare battaglia. In un’intervista a The Albuquerque Journal, Candelaria ritiene che il carcere dovrebbe anche pagare per queste cure. Duke Rodriguez, Ceo di Ultra Health, azienda di cannabis medica che ha seguito il caso, ha detto al Santa Fe New Mexican che “Questa è una grande vittoria non solo per Montaño, ma per ogni paziente di cannabis medica nel New Mexico e negli Usa”. “Questa sentenza esemplifica lo spirito del Lynn and Erin Compassionate Use Act: la cannabis è una medicina e ogni paziente ha diritto legale di accedere alla propria medicina”.