I mali del carcere, le cure possibili di Franco Corleone centroriformastato.it, 8 gennaio 2021 La pandemia ha fatto emergere in maniera più evidente le condizioni terribili dei detenuti. Servono una ristrutturazione dei luoghi e degli strumenti di politica criminale, orientate al divieto di pene inumane e alla finalità rieducativa del diritto punitivo. È tempo di bilanci e di propositi, sempre buoni nelle intenzioni, per le istituzioni, per la vita sociale oltre che per le singole persone. Il carcere può essere un buon luogo di osservazione per far emergere contraddizioni e incapacità, in un punto delicato del funzionamento della giustizia e del diritto. Parto dalla questione di estrema attualità e che ha suscitato una interessante discussione, quella della campagna di vaccinazione e la scelta delle categorie ritenute più vulnerabili e a cui dare priorità. Sono stati inseriti gli ospiti delle residenze per gli anziani non solo perché soggetti fragili, ma perché sono tra quelli che hanno pagato un prezzo doloroso di morti nella prima fase del contagio. Ha stupito invece l’assenza tra le categorie con priorità, delle detenute e dei detenuti, che hanno un numero rilevante di contagi (oltre 800), assieme agli agenti di polizia penitenziaria (oltre 1000), anche se per una congiunzione astrale fortunata si è tradotto in un numero limitato di decessi. Da dieci mesi queste persone sono condannate all’isolamento, alla cancellazione degli incontri con i familiari e dei colloqui con i volontari. Le attività sono state sospese e la vita, costretta in celle piccole e abitate da troppi corpi, si dipana in un clima di paura continuo. Altro che distanziamento di sicurezza e misure igieniche per evitare il contagio! Per non parlare dei bagni o dei cessi a vista e delle docce usate promiscuamente, che sono una caratteristica di quella struttura chiusa, di afflizione e contro la dignità. È evidente che siamo di fronte a una palese discriminazione; invece di domandarsi o confessare la ragione di fondo di una tale scelta, si teorizza come il massimo della disponibilità, la convinzione che il mondo delle carceri vada trattato come il mondo di fuori, adottando gli stessi criteri, fondati o arbitrari, stabiliti da un decreto del ministro della Salute. Prima gli ultraottantenni, che in carcere per altro non dovrebbero stare, poi i soggetti con gravi patologie (anch’essi dovrebbero godere di misure alternative), infine la massa della detenzione sociale. I reclusi nelle sezioni del 41bis saranno probabilmente gli ultimi a essere vaccinati, se le dosi saranno sufficienti. Manca totalmente l’attenzione alla specificità del luogo, una istituzione totale, che secondo l’insegnamento di don Milani dovrebbe sconsigliare di fare parti uguali fra diseguali. Ma soprattutto è assente l’obbligo morale e giuridico di rispettare il diritto alla salute di persone che sono nella piena disponibilità dello Stato e sotto un controllo che non può essere arbitrario. Esiste anche la dimensione di sanità pubblica che va tutelata rispetto all’uscita dal carcere di soggetti con infezioni e patologie. D’altronde, non si possono trattenere le persone oltre il limite della pena scontata o della carcerazione preventiva per eseguire il vaccino secondo un calendario casuale. La spiegazione di questa deformazione concettuale è semplice, è legata alla diffusa pretesa di legalità, di uguaglianza, di giustizia contro i privilegi. Soprattutto per la paura di fare una scelta che possa essere additata dai forcaioli di turno come un trattamento di favore verso i delinquenti. Così, senza accorgersene, si mettono sotto i piedi i principi della Costituzione. La crisi del carcere però non nasce dalla pandemia, ha le radici nell’applicazione timida e parziale della riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975 e nel ridimensionamento della legge Gozzini per rispondere alla emergenza degli attentati mafiosi. Si dovette aspettare il 2000 per approvare il Regolamento penitenziario, elaborato da Sandro Margara negli anni in cui io ero sottosegretario alla Giustizia; dopo venti anni si deve constatare che molte delle indicazioni previste per garantire i diritti fondamentali sono lettera morta. L’organizzazione e gli spazi per il lavoro, lo studio, le attività culturali sono limitati se non inesistenti in molti, troppi, dei 186 istituti penitenziari dove i corpi si trovano ammassati, senza senso e senza prospettive; questa condizione spiega il numero dei suicidi e soprattutto il numero enorme di atti di autolesionismo. Una realtà delle notti carcerarie tenuta coperta dal rumore delle televisioni e dalla diffusione di farmaci per sopire la difficile sopravvivenza. L’altro elemento che ha determinato la bulimia del carcere e ha cambiato la sua composizione sociale sono state le leggi criminogene: prima la legge antidroga Iervolino-Vassalli del 1990 e poi le leggi contro l’immigrazione e gli stranieri, tossici e clandestini individuati come i nemici perfetti. Il Dpr 309/90 prevedeva pene severissime per un reato senza vittime. Sono ormai undici anni che la Società della Ragione, con molte altre associazioni impegnate su questo fronte, pubblica nel Libro Bianco ad hoc i dati impressionanti del peso sulla giustizia e sul carcere della legislazione proibizionista che si aggira intorno al 50% degli ingressi e delle presenze: 21.000 soggetti pari al 35% per violazione dell’art. 73 della legge punitiva per detenzione o piccolo spaccio e oltre 16.000 pari al 28%, consumatori di sostanze stupefacenti e classificati come tossicodipendenti. Va ricordato che quella legge fu aggravata nella concezione ideologica (“la droga è unica e senza differenze tra leggere e pesanti”) e quindi nella repressione, dalla legge cosiddetta Fini-Giovanardi che fu cancellata da una sentenza della Corte costituzionale nel 2014. Sarebbe facile vincere la scommessa che, senza quell’intervento di giustizia e di condanna di un atto incostituzionale del Parlamento, la legge sarebbe ancora in vigore per l’impotenza e la mancanza di coraggio delle forze politiche. Inevitabile il cosiddetto sovraffollamento, un superlativo utile a far capire l’insopportabilità della situazione che ha provocato la condanna dell’Italia della Cedu, la Corte europea dei diritti umani, per violazione dell’art. 3 della Convenzione, per trattamenti disumani e degradanti. Questo marchio d’infamia, intollerabile per il paese di Cesare Beccaria, fu affrontato con misure per ridurre di un poco le presenze, con norme di limitazione delle conseguenze dei danni subiti dai detenuti attraverso indennizzi risibili e con la misurazione asfittica dello spazio vitale della cella. Fu stabilito anche lo stato d’emergenza delle carceri da parte del ministro Angelino Alfano e fu nominato un commissario per l’edilizia penitenziaria; per fortuna il piano di costruzione di nuove carceri fece una misera fine, contestato anche dalla Corte dei conti. Sarebbe invece stato indispensabile, e lo è tuttora, un grande piano di ristrutturazione degli edifici, sulla base di progetti di una architettura fondata sui criteri della bellezza. Il messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, l’unico del suo mandato, sulla contraddizione insopportabile del carcere non provocò una discussione decente e fu anzi frettolosamente archiviato. Nessuna discussione ulteriore per una svolta impegnativa. Così ci si è trascinati nel dominio incontrastato della ordinaria amministrazione, con la sola preoccupazione di cancellare dal dizionario della politica la parola discontinuità. Purtroppo per i gestori del potere burocratico, è piombata dal cielo o dalle viscere della terra una vera emergenza, la pandemia da Covid-19. Nel marzo 2020, una gestione scriteriata degli effetti che essa avrebbe potuto comportare nelle carceri provocò numerose rivolte facendoci tornare indietro di decenni e rappresentò una vera Caporetto della amministrazione penitenziaria. Nel carcere di Modena successe il finimondo e la protesta si risolse in tragedia. La morte di tredici detenuti è stata rapidamente archiviata come un dettaglio marginale, sull’altare di una ricostruzione fantastica di una rivolta pilotata dalla mafia per ottenere l’amnistia. Pochi hanno voluto prendere coscienza della realtà del carcere, ridotto a luogo di emarginazione e di marginalità, come emergeva in modo lampante dall’assalto all’infermeria invece che all’armeria. L’immagine di detenuti che si attaccano al flacone di metadone è davvero allucinante e disperante. Grazie alla tenacia del Comitato che insiste a chiedere precise informazioni su che cosa sia accaduto in quelle ore e nelle modalità dei trasferimenti in carceri lontani dal luogo del delitto e grazie a un racconto di Enrico Deaglio forse qualche brandello di verità potrà emergere soprattutto per la denuncia di alcuni detenuti in relazione alla morte di Salvatore Piscitelli, una delle tredici vittime. Questo è un caso non di malasanità, ma di un comportamento doloso e subalterno del servizio sanitario pubblico che si sarebbe sottratto al dovere di effettuare visite mediche alla partenza e all’arrivo per garantire il diritto alla vita, alla salute e a certificare la presenza o l’assenza di lesioni o segni di percosse. I casi di Sassari e di Bolzaneto, rispettivamente nel 2000 e 2001, bruciano ancora come esempi di organizzazione di violenza italica e di macelleria messicana. Come rimangono non archiviabili le morti di Cucchi, Aldrovandi e molti altri, colpiti da stigma e considerati cose, non persone. Molti si sono affannati a immaginare soluzioni ragionevoli per far diminuire il numero dei detenuti, nel tentativo di far coincidere la capienza regolamentare con la presenza reale, dalle proposte dei Garanti a quelle di Magistratura democratica, ma nei fatti si è solo inscenato un balletto su detenzioni domiciliari accompagnate dalla sorveglianza dei braccialetti, dall’ipotesi di aumentare i giorni di liberazione anticipata e di concedere licenze premio per chi è già in misura alternativa. Intanto gli arresti hanno cominciato a risalire e quindi si cerca di svuotare il mare con un cucchiaino. Mi convinco sempre di più che proprio in un momento di crisi, anzi nel fuoco della crisi, si dovrebbe manifestare la capacità di disegnare un quadro di riforme profonde. Per il carcere l’agenda è scritta da anni. Una grande riforma, per un carcere dei diritti. Si dovrebbe cominciare dalla riscrittura di una politica intelligente e ragionevole sulle droghe, decriminalizzando il consumo di tutte le sostanze e legalizzando la cannabis; all’opposto, in Parlamento si è impegnati a sventare il pericolo che venga approvata una norma che cancella la previsione dei fatti di lieve entità, il che farebbe aumentare ancora di più il numero dei detenuti per un semplice spinello; il paradosso è che l’idea non è solo di Salvini ma era anche della ministra Lamorgese, che poco prima del Covid minacciava un decreto legge in quella stessa direzione che provocherebbe l’arresto immediato di migliaia di giovani, oltretutto considerato che già i due terzi degli accusati di questa fattispecie vanno in galera, abusivamente, come dichiarato in una recente audizione alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati da Antonino Maggiore, direttore centrale per i servizi antidroga presso il Ministero dell’Interno. Scelte di decriminalizzazione e di legalizzazione porterebbero, invece, la popolazione detenuta a diminuire di almeno 20.000 persone e il carcere, come extrema ratio, potrebbe così essere limitato ai reati gravi contro la persona e l’ambiente, a quelli finanziari ed economici e di criminalità organizzata, permettendo di giocare sul serio la sfida dell’art. 27 della Costituzione. Proprio in questo momento, reso ancor più delicato dalla pandemia, va posto come priorità il riconoscimento del diritto all’affettività e alla sessualità delle persone recluse. L’approvazione della legge relativa, che è in discussione alla Commissione Giustizia del Senato, con Monica Cirinnà relatrice, renderebbe chiaro che le restrizioni in atto in questo periodo sono una parentesi eccezionale. Sarebbe evidente che le barriere di plexiglas di protezione dal contagio non vogliono indicare un ritorno alla cupa stagione della afflizione dei banconi, contestati dalle recluse di San Vittore nel 1981 con il memorabile “salto del bancone” per abbracciare i propri compagni. Un altro tema, come si usa dire divisivo, non dovrebbe essere trascurato: quello dell’ergastolo e del suo superamento, facendo propri l’insegnamento di Aldo Moro e il monito di Papa Francesco che non ha avuto timore di affermare che “l’ergastolo è il problema, non la soluzione”. Nessuno ricorda che il 30 aprile 1998 il Senato con 107 voti favorevoli, 51 contrari, 8 astenuti approvò il disegno di legge per l’abolizione della pena senza fine; è davvero inimmaginabile che il Parlamento attuale almeno discuta dell’ergastolo ostativo? Pochi anni fa è stata compiuta una vera rivoluzione, con la chiusura degli Opg, i vecchi manicomi giudiziari, completando così il disegno riformatore della legge 180 del 1978; sarebbe decisivo per respingere pericolose nostalgie, completare la riforma abolendo il muro dell’imputabilità e il doppio binario del Codice Rocco. Infine, andrebbe sollecitata la discussione della proposta a prima firma del deputato Riccardo Magi di modifica dell’art. 79 della Costituzione, con lo scopo preciso e puntuale di restituire potere e responsabilità al Parlamento in materia di amnistia e indulto, riscrivendo un rinnovato statuto degli strumenti di politica criminale, proponendone una rilettura costituzionalmente orientata al divieto di pene inumane e alla finalità rieducativa del diritto punitivo. Un programma minimo e ambizioso insieme. Sono consapevole della chiusura del Parlamento e del silenzio della politica. Ma questa crisi rischia di distruggere la democrazia e il diritto e allora, come spesso nella storia, di fronte a quel silenzio bisogna lavorare affinché le riforme vengano imposte dal basso, dai movimenti e dall’interno stesso della società, favorendo il protagonismo e la soggettività di chi vive nel carcere. Caro Davigo, sulle carceri sovraffollate attento alle fake e ai veri dati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 gennaio 2021 L’ex magistrato ha riesumato la fake news dell’amministrazione penitenziaria precedente quando parlava di “sovraffollamento virtuale”. Salutiamo calorosamente anche noi l’inizio di collaborazione dell’ex magistrato Piercamillo Davigo con il Fatto Quotidiano. Il suo esordio è sulla questione carceraria, ma è giusto fargli presente che - senza accorgersene - ha di fatto riesumato la vecchia fake news dell’amministrazione penitenziaria precedente quando parlava di “sovraffollamento virtuale” e che addirittura avanzassero posti in cella. Nell’epoca dei movimenti tipo QAnon dove la teoria del complotto si alimenta anche delle fake news dei giornali, la responsabilità di riportare correttamente le notizie si fa sempre più pressante. D’altronde, lo stesso direttore del Fatto Quotidiano, fino a qualche tempo fa negava il sovraffollamento e addirittura pubblicò un editoriale sostenendo l’esistenza di ulteriori posti disponibili. Ora però bisogna dargli assolutamente atto che, per replicare a Saviano, ha ritrattato ammettendo che “non c’è dubbio” sul fatto che “le strutture siano affollate e in parte fatiscenti”. Possibile che Travaglio non abbia avvertito Davigo? Allora ci permettiamo di farlo noi. Davigo scrive: “Cominciamo dai fatti: secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 dicembre 2020 nelle carceri italiane erano detenuti 53.364 uomini e 2.255 donne per un totale di 55.619 unità, a fronte di una capienza regolamentare di 50.562 posti”. Poi aggiunge: “Una nota ricorda però che i posti sono calcolati sulla base del criterio di 9 mq per il primo detenuto più 5 mq per gli altri (lo stesso per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni civili; una superficie più elevata della media europea)”. Ebbene sì, cominciamo dai fatti. La capienza regolamentare che riporta il Dap è quello che effettivamente risulta sulla carta, ma - come ha recentemente ribadito il garante nazionale Mauro Palma - i posti effettivamente disponibili si aggirano attorno ai 47.000. Ed ecco il primo sbaglio di Davigo. Il dato, invece, dimostra che il sovraffollamento persiste. Un problema già in una situazione normale, figuriamoci ai tempi odierni di pandemia dove risulta difficile prevedere l’isolamento dei detenuti che devono essere poste in quarantena o in isolamento precauzionale. Questo è un fatto, e non è colpa di Davigo se ha sbagliato a snocciolare i dati: che ne poteva sapere visto che non riguarda il suo campo? È facilissimo prendere abbagli quando non si conosce a fondo il complesso sistema penitenziario. Ora passiamo al calcolo dei posti sulla base dei 9 mq come sottolinea Davigo. Detta così sembra che effettivamente il sovraffollamento sia dovuto dal fatto che i detenuti stanno troppo larghi in cella. Allora altro che costruire nuove carceri come Davigo suggerisce più avanti nel suo articolo! Visto che lo spazio accettabile per il detenuto è di 4 mq, teoricamente avanzerebbe tanto di quello spazio nelle celle che potrebbero metterci tutti quei detenuti in eccesso. Qualcosa non torna, quindi cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Il parametro dei 9 mq è solo sulla carta. Non si può fare un discorso puramente geometrico, perché in questo modo astrattamente potremmo mettere diversi detenuti in una unica cella e ciò non è possibile farlo concretamente, a meno che non si abbattano le mura per fare un enorme camerone. Per capire meglio, bisogna comprendere che lo spazio disponibile di tre metri quadrati per ogni persona è la soglia minima al di sotto della quale scatta la violazione del diritto umano (è accaduto con la sentenza Torreggiani) e non la si può considerare uno standard. In Italia, il parametro di riferimento è di 9 metri quadrati che vale per il primo arrivato in una cella, più 5 metri per ogni nuovo detenuto e in celle che prevedono al massimo 4 posti. Questo parametro, che per altro è quello di abitabilità delle abitazioni civili, è chiaramente eccessivo. Basterebbe applicare il parametro della Commissione Europea per la prevenzione della tortura: 7 metri quadrati, più 4 per ogni nuovo detenuto in una cella. Anzi, ultimamente si calcola che 6 metri quadrati, più 4 quindi, e quindi in 14 metri quadrati ci possono vivere 4 persone. Ma bisogna appunto essere molto rigidi e controllare lo standard: non si può dire che abbiamo un parametro così alto di 9 mq, ma poi non lo si rispetta. Senza contare che anche dentro uno stesso carcere convivono tipologie di sezioni che presentano punte maggiori di sovraffollamento tra di loro. Anche questo è un fatto che però l’ex magistrato evidentemente non conosce. C’è una complessità di situazioni che devono essere considerate. Ma Davigo, giustamente, non si fossilizza troppo sul dato effettivo del sovraffollamento. Ammesso che ci sia, dice, non si capacita sul fatto del perché non si chiede l’aumento dei posti disponibili, anziché di “liberare” i detenuti. Anche qui, in soldoni, rispolvera l’antico slogan reazionario “Costruiamo nuove carceri!”. Eppure, dal dopoguerra in poi, i numeri degli istituti sono aumentati, con il risultato di essere riempiti nuovamente tutti. Motivo per il quale, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) disse all’Italia che costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non è la strada giusta, perché “gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”. Viceversa, “gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. Davigo forse non sa che c’è un numero consistente di detenuti senza fissa dimora o che non hanno la possibilità e strumenti per accedere ai benefici. A questo si aggiunge il fattore culturale: si tende a criminalizzare le misure alternative e la magistratura tende a darle di meno. Ma a Davigo interessa un po’ prendersela con chi ha intrapreso lo sciopero della fame per chiedere misure deflattive più incisive. Non fa il nome, ma è Rita Bernardini del Partito Radicale e i giuristi che la sostengono. Il senso del suo discorso è: ma mica è come Gandhi che aveva motivi seri per digiunare! Eppure parliamo di vite umane a rischio, solo in questa seconda ondata sono morte già una decina, perfino alcuni al 41 bis. Non solo. A causa della mancanza di spazi, non è stata possibile una gestione sanitaria da evitare grossi focolai com’è accaduto recentemente a Tolmezzo. E poi ci sono i problemi irrisolti di sempre: suicidi, disagi psichici, incompatibilità con il carcere. Non sono motivi seri per digiunare? Ma non interessa, Davigo ha voluto invece riflettere sul “buon senso”. Quale? Applicare la repressione come fanno tutti gli Stati del mondo. A parte che sarebbe bello analizzare caso per caso gli altri Paesi, il buon senso dovrebbe essere il dubbio, interrogarsi sul crescente ricorso alla detenzione come strumento di gestione delle molte contraddizioni che abitano le nostre società. Magari riflettere sull’uso smodato del ricorso in carcere. Il susseguirsi di leggi più repressive, di “spazza-corrotti” che allargano la preclusione dei benefici penitenziari ad altri tipi di reato. Una bulimia carcero-centrica che poi a forza di tirare la corda, si arriva al punto che scoppia la rabbia, si scatenano le rivolte, ne conseguono le 14 morti e presunti pestaggi come reazione. Oltre al fatto che i tribunali si intasano. Chiaro che non reggerà il sistema. A quel punto lo stesso Davigo stesso, da persona corretta, reclamerà sulle pagine de Il Fatto l’urgenza di un’amnistia. Numeri primi di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 8 gennaio 2021 Un caloroso benvenuto a Piercamillo Davigo, da ieri collaboratore de “il Fatto Quotidiano”. Terminata (?) la corsa di una straordinaria carriera, l’organo delle Procure si fregia ora del suo cavallo di razza. Come si sa, il titolo del pezzo non è mai di chi lo scrive, e dunque il nostro eroe non risponde del cappello che gli han messo sulla testa, “Tutte le bugie sulle carceri sovraffollate”. Ma siccome il Consigliere è uno preciso, un numero primo, e gli piace scherzare, per darci una mano dà i numeri a sostegno della sua tesi. Prima di questo, però, ci fornisce un paio di esempi di proteste non violente come metodo di lotta politica, accomunando le pere con le mele (il Mahatma e Bobby Sands). Ironizzando un po’ (il tratto distintivo del suo dire è da sempre questa divertita tendenza a schernire l’altro da sé, le identità politico-culturali di chi non la pensa come lui), gigioneggia su chi fa pratica non violenta per tentare di conferire maggior dignità alla vita intramoenia, “per tutelare quei principi che ritengono fondamentali”. Loro. Il nostro, che pure si dice “d’accordo sul fatto che la civiltà di un Paese si misura anche da come vengono trattati i detenuti”, sostiene però che si debba “tener conto dei dati di fatto e della coerenza”; così, si parte dai numeri, e qui l’ex Dottor Sottile le spara grosse. Poiché di notte tutti i gatti sono bigi, si tace sul fatto che la capienza regolamentare indicata computa numeri fantasmi (a migliaia si contano i posti solo sulla carta, e non realmente fruibili, per varie ragioni che qui non è possibile rammentare per questioni di spazio). L’analisi prosegue informandoci di una nota del ministero della Giustizia, secondo la quale i fortunati detenuti nostrani avrebbero a disposizione 9 mq più 5, parametro utilizzato per calcolare la capienza regolamentare e mutuato in base a quello per conferire l’abitabilità delle civili abitazioni. Come afferma l’ex membro del Csm “quasi tutte le opinioni sono rispettabili”; peccato che il richiamo alla nota (vera) sia tradito nei fatti, che Davigo ignora (del resto, ha passato la vita a mandare la gente in galera, a sostenere che fuori non ci sono innocenti, ma colpevoli che l’han fatta franca, e via dicendo). Una certa idea di giustizia non gli ha suggerito di andare a buttare un occhio nelle celle italiane, dove scoprirebbe che le cose sono un po’ diverse da come le immagina e le racconta. Così, “ammesso che il sovraffollamento ci sia” (l’ipotesi, denegata, andrebbe spiegata a chi in cella fa i turni per alzarsi in piedi), ragionando come se fossimo in un Paese normale (dove invece si legge sui mezzi pubblici “è severamente vietato”, ché ci vuole l’avverbio) dovremmo dire che chi si occupa di custodire corpi dovrebbe farlo rispettando le regole, le stesse che invoca il nostro eroe. Fossero veri i numeri che ci ricorda, ma non lo sono, ci sarebbero comunque cinquemila persone in più della regola. Provate voi a dire a un vigile che vi fermi mentre guidate con cinque passeggeri a bordo (se la vostra auto non è un Van) che tutto va bene, che in realtà l’auto tollera una maggior presenza. Lo so, è un artificio retorico che (forse) piacerà al Consigliere, ma così magari facciamo che ci capiamo; in un’epoca dove si batton le mani a chi le spara più grosse, ci verrà perdonata questa semplificazione. La realtà, quella vera, è che il carcere non è solo roba da catasto, non dovrebbe. L’etica della pena non contempla (non dovrebbe) i celloni da dieci persone con un cesso alla turca, il freddo, il caldo, le chiavi che sbattono, i tagli, le urla, le medicine, il sangue. Ma Davigo invoca la coerenza, e qui (di nuovo) rivela il suo pensiero inquisitorio. Si legge (di solito il tratto di penna è lucido e caustico, mentre qui si ha una sorta di paratassi dadaista) che “quando fu approvato il codice di procedura penale oggi vigente, coloro che avevano perplessità su una normativa che rendendo in generale non utilizzabili gli elementi acquisiti nella fase delle indagini e imponendo la reiterazione delle prove in dibattimento avrebbe determinato, nell’ipotesi migliore, la triplicazione della durata dei processi” Tra la “non dispersione delle prove” (sent.n.255/’92) e la faticosa comprensione del pensiero sopra citato, emerge tuttavia abbastanza chiaramente che l’ex tante cose non ha esattamente a cuore il Giusto processo. Si chiude il sipario con un nuovo paragone, che rende l’idea; è agli Stati Uniti d’America che si deve guardare, posto che “il tasso di repressione concreta applicato in uno Stato non può essere troppo diverso da quello applicato in altri Stati”. Dice proprio così, “tasso di repressione”. Ma non si parlava di pene? La Costituzione, Consigliere; la Costituzione. Infine un consiglio, non richiesto; non inizi “uno sciopero della fame a staffetta per richiamare l’opinione pubblica sul buon senso”. Oggi che ha molto più tempo libero, anche se lo trovava anche prima, si faccia invitare di nuovo in tv, che le piace tantissimo. Poi, con qualcuno che fa sempre sì con la testa, viene ancora meglio. Buon anno. *Avvocato Covid nelle carceri, riprende lo sciopero della fame di Rita Bernardini di Caterina Ganci livesicilia.it, 8 gennaio 2021 “Il presidente del Consiglio mi era sembrato sensibile al problema. Mi aveva detto che era tutto sotto controllo ma per le riforme occorreva l’intervento del Ministro della Giustizia e delle forze politiche”. Dopo aver atteso qualcosa in più da parte del Governo, rispetto al Decreto Ristori, Rita Bernardini dalla mezzanotte di oggi ha ripreso lo sciopero della fame per chiedere misure urgenti per svuotare le carceri in un momento di emergenza sanitaria. Dopo 36 giorni, l’esponente del Partito Radicale, aveva sospeso il digiuno prima di Natale, per l’incontro programmato con Giuseppe Conte. A lei dal 10 novembre scorso si erano uniti a staffetta circa 4.000 detenuti, docenti di diritto penale, personaggi del mondo della cultura come Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano. “Solo chi non frequenta le carceri può dire che è tutto sotto controllo - commenta Bernardini - se Conte si riferisce al Covid e ai contagi al momento in Italia ci sono 800 detenuti positivi e 600 agenti di polizia penitenziaria. Non è tutto sotto controllo, soprattutto per quanto riguarda i diritti umani. Da quell’incontro - aggiunge - pensavo si potesse solo andare avanti, invece ci è stato un blocco totale”. Il 22 dicembre la presidente di ‘Nessuno Tocchi Caino’ ha esposto le sue ragioni al Premier, a Palazzo Chigi, quindi dell’urgenza di ridurre la popolazione carceraria e dell’amnistia. In quell’occasione Bernardini ha mostrato lo schema che contiene istituto per istituto penitenziario, i dati del sovraffollamento, tenendo presente le stanze detentive, cioè le celle e i posti inagibili. A Palermo, per esempio, nella Casa Circondariale Pagliarelli la capienza regolamentare è di 1.182 posti sono presenti 1.231 detenuti e 28 stanze detentive sono inagibili. Infatti, durante la prima fase, i detenuti avevano aderito allo sciopero della fame. Diversamente, all’Ucciardone non c’è una situazione di sovraffollamento. La priorità è quella riguardante la necessità di una deflazione della popolazione detenuta. “Il sovraffollamento persiste, i diritti umani fondamentali sono violati da un anno si è aggiunto il rischio Covid”, dice l’esponente radicale che prosegue con l’azione non violenta. “L’iniziativa conta di aprire un dialogo con tutti, con tutte le forze politiche anche con quelle distanti da me come Salvini e Meloni. Le cose si possano risolvere rispettando le leggi e i diritti fondamentali essenziali. Voglio che in Italia ci sia una pena che corrisponda alla legge, alla Costituzione e al nostro ordinamento penitenziario”. La riduzione dell’applicazione della custodia cautelare in carcere, la liberazione anticipata speciale e la questione che riguarda l’amnistia e l’indulto, queste tra le cose che andrebbero fatte per la storica esponente dei radicali. Polidoro: “Prima di rieducare i reclusi, dovremmo educare chi sta fuori al rispetto dei diritti” di Errico Novi Il Dubbio, 8 gennaio 2021 Riccardo Polidoro, responsabile Osservatorio carcere dell’Unione Camere penali: Davigo quasi ridicolizza quell’allarme sovraffollamento per il quale Rita Bernardini mette a rischio la propria vita. Riccardo Polidoro, responsabile Osservatorio carcere dell’Unione Camere penali: Davigo quasi ridicolizza quell’allarme sovraffollamento per il quale Rita Bernardini mette a rischio la propria vita. Ma non è che Davigo andrebbe ringraziato, visto che le sue considerazioni confermano come la visione del carcere sia basata, quasi sempre, sulla mancata conoscenza di quella realtà? Non so che esperienza concreta abbia Davigo del carcere, se abbia mai visitato istituti con indice altissimo di sovraffollamento, se abbia visto le vergognose e direi drammatiche condizioni della maggior parte delle camere di pernottamento dei detenuti nel nostro Paese. Se ha mai detto o scritto, perché certamente lo sa, che in quelle stanze, comunemente definite celle, i detenuti dovrebbero solo dormire, passando il resto della giornata in attività cosiddette rieducative, come è previsto dalla nostra Costituzione. Leggere quanto riportato nel suo articolo non mi ha meravigliato, conoscendo altre sue dichiarazioni, come quella sulla presunzione di “colpevolezza” anziché di innocenza degli indagati o addirittura dei cittadini, anch’essa a mio avviso contraria ai principi costituzionali. Il suo articolo è offensivo non solo verso Rita Bernardini e tutti coloro che stanno praticando lo sciopero della fame a staffetta, e l’Osservatorio carcere Ucpi è tra questi, ma anche verso chi da sempre, e oggi più che mai, si preoccupa della salute dei detenuti. I detenuti possono essere privati della libertà, ma devono scontare la pena, secondo quanto previsto dalla legge e preservando la loro dignità. Tutto questo non avviene nella maggior parte degli istituti di pena del nostro Paese. Davigo ha citato quasi come un lusso l’obbligo di prevedere 9 metri quadri per ogni detenuto... Sui 9 metri quadri poi c’è da chiarire che questo parametro, indicato dal ministero della Giustizia, non può essere applicato al carcere, perché è un valore che interessa le private abitazioni per il requisito di abitabilità. Come si può pensare che la stanza dove vivono più persone, spesso 22 ore al giorno, possa essere paragonata a un appartamento? Voglio ricordare che per la Corte europea dei Diritti dell’Uomo lo spazio vitale è quello di tre metri quadri. Lo ha stabilito con la sentenza Sulejmanovic e lo ha confermato con la Torreggiani, con cui ha condannato l’Italia per sovraffollamento delle carceri, stabilendo il limite fra la detenzione umana e quella degradante. Il tema della reale conoscenza della realtà carceraria è caro all’Ucpi e a lei in particolare. Anni fa organizzò a Napoli la simulazione di una cella, per aiutare i cittadini a capire: come andò quell’esperienza? Fu bellissima. Portammo, devo dire con la collaborazione del Garante dei detenuti e del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria, un prefabbricato, identico a una stanza di pernottamento, nel cosiddetto salotto di Napoli, cioè Piazza dei Martiri. Nella stanza c’era una clessidra e le persone restavano rinchiuse per un minuto. L’iniziativa prese appunto il nome “Detenuto per un minuto” ed ebbe grande successo, c’era la fila per entrare. Avemmo la sensazione che, finalmente, le pene del carcere, quelle non previste dalla legge, ma inflitte contro di essa, arrivavano all’opinione pubblica. Ecco, quello che davvero manca è un carcere trasparente, per far conoscere a tutti quello che avviene dentro le mura. Mi chiedo sempre perché il cittadino si preoccupi che gli ospedali e le scuole funzionino ma ignora o dimentica le condizioni delle carceri, che pure rispondono a un’esigenza collettiva, che non deve essere solo quella di punire, ma anche di rieducare come previsto dalla nostra Costituzione. Ha visto dei passi in avanti, nella consapevolezza collettiva sul carcere, grazie alle battaglie condotte in questi anni dall’avvocatura? Passi in avanti ce ne sono stati. Ragionerei al contrario, però: cosa sarebbe ora il carcere senza le battaglie dell’avvocatura, dei Radicali, delle associazioni. Senza i volontari che quotidianamente si occupano di quelle poche attività che si svolgono in carcere. Gli interventi della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, della Corte costituzionale, sono dovuti alle battaglie di coloro che credono nei valori della Costituzione e non intendono tradirla. Gli Stati generali dell’esecuzione penale, le commissioni ministeriali per la riforma dell’Ordinamento penitenziario, sono stati passi importanti. Ma il loro cammino è stato bruscamente interrotto da una politica cieca e interessata solo al consenso popolare, di cittadini che, spiace dirlo, sono distratti da una voluta diseducazione di massa. Credo che prima di rieducare i detenuti, secondo quanto prevede la Costituzione, vadano educate le persone. Torniamo a Davigo: la sua analisi pare una semplificazione liquidatoria. Dietro ci può essere anche un rifiuto della realtà? Certe tesi derivano anche dal timore che immergersi troppo nel dato reale ce ne farebbe scoprire la complessità? Il carcere è un mondo certamente complesso. Ma ripeto, non più della scuola o della sanità. Il problema non è Davigo. Certo, va evidenziato come di questa complessità si occupi poco la magistratura associata, che interviene raramente sul tema. La preoccupazione è che abbiamo una Carta che è del 1948, un Ordinamento penitenziario del 1975, eppure le loro norme non trovano concreta applicazione nell’esecuzione delle pene. In proposito vorrei ricordare che la Costituzione si riferisce alle “pene” per i condannati: ciò sta a significare che il carcere non è l’unica pena che può essere scontata, ma ve ne sono anche altre, tra cui le stesse misure alternative, che sono esse stesse delle pene e alle quali andrebbe mutato il nome da misure a “pene alternative”. Sarebbe utile a chiarire meglio il concetto a chi, in maniera impropria, cita il principio di certezza della pena: non sta a significare che questa certezza debba essere solo il carcere. Perché non ci si rende conto che, in tempo di Covid, il sovraffollamento è un’offesa al principio di umanità, un’assurda illegalità compiuta dallo Stato? I detenuti, come tutte le persone che entrano ed escono dal carcere per ragioni di lavoro, gli stessi familiari, dovrebbero essere tra le categorie privilegiate rispetto ai tempi del vaccino. Andrebbe garantita la priorità che viene indicata giustamente per medici, personale sanitario e anziani in case di riposo. Non si tratta di tutelare solo loro, ma tutto il Paese, in quanto il carcere è un luogo in cui il virus si propaga, viste le già precarie condizioni igieniche e di promiscuità, e può poi uscire all’esterno. Come Osservatorio Ucpi abbiamo continuamente notizie di contagi, tra detenuti e personale dell’Amministrazione penitenziaria. Mi lasci dire che mai come in questo momento storico, e mi riferisco a quanto di grave è accaduto a Washington al Capitol Hill, i principi costituzionali devono essere il faro per illuminare la democrazia di un Paese. E ciò vale anche per il carcere. Musacchio: “Vaccinare subito i detenuti e gli operatori penitenziari” nuovatlantide.org, 8 gennaio 2021 Intervista a Vincenzo Musacchio, giurista, più volte professore di diritto penale e criminologia in varie Università italiane ed estere. Discepolo di Giuliano Vassalli, allievo e amico di Antonino Caponnetto. Il Governo attraverso il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis ha dichiarato che i detenuti saranno vaccinati con gli stessi criteri dei cittadini liberi. Cosa ne pensa? Ritengo sia una scelta non condivisibile, non in linea con il principio di umanizzazione della pena che dovrebbe accompagnare le scelte di salute in ambiente penitenziario. Al contempo stesso la ritengo anche una scelta di politica criminale imprudente che mette sullo stesso piano detenuti e liberi senza valutare se il virus si propaghi più facilmente in ambiente carcerario. Lei cosa proporrebbe? Di vaccinare tutti i reclusi presenti, tutti gli operatori penitenziari e di vaccinare in ingresso i nuovi arrivati e tenerli divisi dalla restante popolazione detenuta fino a che il vaccino non abbia piena efficacia. Ritengo sia percorribile anche la strada della temporanea conversione delle pene minori in detenzione domiciliare. Laddove non esista un domicilio, si potrebbe individuare qualcuno (enti o persone) che si possa assumere la responsabilità della quarantena. Non parliamo poi dello scandalo della mancanza dei braccialetti elettronici che, di fatto, non permette l’uscita di persone per le quali vi sarebbe la concessione da parte del giudice degli arresti domiciliari in luogo della custodia cautelare in carcere. Credo che il Ministero della Giustizia debba anche predisporre un immediato piano di emergenza per la vaccinazione delle oltre centomila persone che vivono e lavorano negli istituti di detenzione. Da cittadino mi auguro che questo impegno sia già stato adempiuto. Le carceri italiane restano un problema irrisolto sia per l’eccessivo affollamento sia l’inadeguatezza delle strutture, lei cosa ne pensa? La risposta è già nella domanda. Siamo lo Stato membro dell’Unione europea (a parità di popolazione) con più persone in carcere senza processo: 19.565 (Fonte Istat 2018 ultimo dato utile). A parte la vergogna di avere così tanti detenuti in attesa di giudizio, sarebbe anche il caso di domandarsi quanto costa avere in carcere quasi ventimila persone, parte delle quali usciranno o per decorrenza dei termini o perché innocenti. Quello dei costi della carcerazione preventiva è un tema che, forse per la sua inciviltà di fronte al tema dei diritti della persona, è poco affrontato. Diamo un dato: l’Italia spende per loro oltre cinquecento milioni di euro l’anno, una cifra che può essere considerata come parte dei costi economici della lentezza della giustizia. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, al 29 febbraio 2020, in Italia i detenuti erano 61.230, a fronte di una capienza a norma delle carceri pari a 50.930 posti. Credo che basterebbe un uso meno automatico della carcerazione preventiva per cominciare a svuotare in parte le carceri e porre rimedio all’attuale sovraffollamento carcerario, a maggior ragione oggi in tempo di pandemia da Covid-19. Su questi temi in Parlamento purtroppo non si discute più. Cosa si potrebbe fare per risolvere questi problemi? Una possibile risoluzione dei problemi da lei posti la propose il mio maestro Giuliano Vassalli circa trent’anni fa e fu poi ripresa più volte negli anni successivi ma mai attuata: la cd. “lista d’attesa”. In sostanza, si dovrebbe stabilire con legge che qualora tu Stato non possa garantire uno spazio sufficiente in carcere per l’imputato in attesa di giudizio aspetti per rinchiuderlo fino a quando questo spazio non l’avrai. La norma si dovrebbe applicare ovviamente per i reati meno gravi in conformità a una serie di requisiti tassativi, ricordandoci che siamo sempre di fronte a non colpevoli sino alla condanna definitiva, come recita testualmente l’articolo 27 della Costituzione. Occorrerebbe naturalmente investire anche sulle strutture delle carceri e su una nuova e più adeguata edilizia penitenziaria adeguata ai tempi moderni. Il 2020 per molti è stato l’anno nero delle carceri lei che ne pensa? Penso che con lo scandalo della circolare “scarcera mafiosi”, duemila positivi tra detenuti e personale e le rivolte carcerarie in varie parti d’Italia non si possa dire che sia stato un buon anno. Cosa pensa di quella circolare “sfortunata”? Un errore. Sulle rivolte? Erano organizzate? Io credo di sì e mi auguro che presto le indagini in corso facciano luce su ciascuna rivolta e sulle regie esterne. Da non dimenticare le morti avvenute tra i detenuti e in particolare quelle delle carceri di Modena e di Rieti. Che cosa pensa dell’opportunità di concedere amnistia e indulto? Sono contrario. Sono favorevole invece alla depenalizzazione di molti reati inutili, facendo in modo che si vada in galera di meno e solo quando c’è una reale pericolosità sociale. Sono stato sempre contrario alla custodia cautelare in carcere e favorevole alle pene alternative e domiciliari in tutti i casi ove sia possibile. Occorrono nuove carceri, più dignitose e rieducative. I cittadini tuttavia devono sapere che lo Stato punisce chi va punito. Tolleranza zero per mafie, terrorismo, corruzione ed evasione fiscale. Tocchiamo un altro tasto dolente: il 41 bis. Qual è il suo giudizio? È un circuito penale speciale che ha come obiettivo quello di impedire ai boss i contatti esterni con la criminalità organizzata. Sacrosanto e direi indispensabile nella lotta alle mafie assieme alla confisca dei beni. Il 41-bis non viola la Costituzione, ovviamente, lo Stato ha il compito di garantire il rispetto dei fondamentali diritti umani ai detenuti che sono sottoposti a questo trattamento che non è certo ascrivibile ad alcuna forma di tortura. A dimostrare l’infondatezza di tale degenerazione da più parti sollevata vi è la possibilità di interrompere il regime del 41 bis, mediante la collaborazione con la giustizia. Un’ultima questione, lei è un penalista, ritiene che sia arrivato il momento di avere un nuovo codice penale? Veda ho sempre pensato che quando fu varato il nuovo codice di procedura penale si sarebbe dovuto emanare anche un nuovo codice penale per affiancarlo. Io sono per le riforme globali e non a compartimenti stagni. Oggi purtroppo latita il dialogo fra la politica e il mondo giudiziario. Manca soprattutto una classe dirigente predisposta e le condizioni politiche e istituzionali: l’instabilità governativa e la conflittualità tra i partiti purtroppo non fanno ben sperare per una imminente riforma del codice penale che se ben congegnata avrebbe incidenza anche sui problemi che affliggono le carceri italiane. Innocenti, paga lo Stato. Ma serve l’assoluzione piena e definitiva di Dario Ferrara Italia Oggi, 8 gennaio 2021 Sarà lo Stato a pagare le spese legali agli imputati innocenti. Questa la novità introdotta dalla manovra economica 2021 in tema di giustizia: la legge 178/20 è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 322/2020 e le relative disposizioni sono contenute nei commi 1015-1022 dell’unico articolo. Soltanto gli imputati assolti con sentenza piena e definitiva possono ottenere il rimborso a valere sul fondo ad hoc costituito presso il ministero della Giustizia con una dotazione di 8 milioni l’anno: sarà un decreto di Via Arenula a definire i criteri per l’erogazione delle provvidenze, tenendo conto del numero dei gradi di giudizio che l’interessato è stato costretto ad affrontare e della durata complessiva del processo. Formula e dispositivo - È fissato a 10.500 euro il massimo delle spese legali rimborsabili all’imputato assolto ex articolo 530 cpp in modo irrevocabile. Non basta dunque un generico proscioglimento ma serve una sentenza pronunciata con una delle seguenti formule: il fatto non sussiste; l’imputato non ha commesso il fatto; il fatto non costituisce reato; il fatto non è previsto dalla legge come reato. Quest’ultima formula, tuttavia, può non essere sufficiente: comprende infatti la depenalizzazione dei fatti oggetto d’imputazione, che invece è esclusa dal beneficio come l’estinzione del reato per amnistia o prescrizione e l’assoluzione parziale, vale a dire da uno o alcuni capi d’imputazione ma con condanna per altri. Insomma: ai fini della rifusione degli esborsi per la difesa conta anche il dispositivo della pronuncia. Beneficio esentasse - Il rimborso non concorre alla formazione del reddito e sarà ottenuto in tre quote annuali di pari importo, a partire dall’anno successivo alla definitiva assoluzione. Come documenti servono: la fattura del difensore, con l’indicazione dell’avvenuto pagamento; il parere di congruità dei compensi indicati nella parcella, emesso dal Consiglio dell’Ordine forense competente; la copia della sentenza liberatoria, con l’attestazione di irrevocabilità della cancelleria. Retroattività esclusa - Il decreto attuativo dovrà essere adottato entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge di bilancio 2021, avvenuta il primo gennaio. E sarà interessante verificare i criteri di rimborso indicati perché l’eventuale raccordo a principi internazionali, ad esempio la giurisprudenza Cedu, potrebbe incidere in modo sensibile sulla determinazione dell’ammontare; il tutto mentre le risorse sono comunque limitate. Senza dimenticare che spesso i processi penali si concludono in Cassazione: il parametro del numero di giudizi cui è stato sottoposto l’imputato assolto può risultare di per sé poco significativo. Il beneficio si applica soltanto alle assoluzioni divenute definitive nel 2021. Diritti perfetti - I criteri per l’erogazione dei rimborsi assumono particolare rilievo in quanto è determinato in 8 milioni di euro per ogni anno lo stanziamento a disposizione del ministero della Giustizia: il limite di spesa non è superabile. A tal fine la disposizione istituisce, nello stato di previsione del dicastero di via Arenula, a partire dal 2021, un fondo ad hoc “per il rimborso delle spese legali agli imputati assolti”, con la dotazione della cifra indicata. Dai tecnici parlamentari arriva tuttavia un rilievo sulla norma che investe diritti soggettivi “perfetti”: risulta difficile modulare l’onere unitario entro il tetto dei 10 mila euro e sarebbe stato forse opportuno acquisire dati, a partire dal numero dei casi di assoluzione piena registrati negli ultimi dieci anni. I flop impuniti dei pm che anche Canzio definì un’assurdità di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 8 gennaio 2021 Fu l’ex vertice della Cassazione a denunciare al Csm il paradosso delle valutazioni top per tutte le toghe. Le ultime vicende giudiziarie, con il crollo di diversi “teoremi dell’accusa”, hanno fatto tornare d’attualità la responsabilità “professionale” dei magistrati. Il tema, in particolare, è stato rilanciato questa settimana dall’Unione Camere penali con un invito al neo presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, a partecipare al dibattito civile, politico e accademico per “restituire forza, credibilità e autorevolezza all’esercizio della giurisdizione nel nostro Paese. La credibilità della giurisdizione è vulnerata”, secondo i penalisti, “agli occhi dei cittadini dal sempre più frequente spettacolo di indagini che prima travolgono vite private e pubbliche, carriere politiche, equilibri democratici di governi nazionali e locali, per non dire di attività economiche e imprenditoriali, e che poi, a distanza di anni e ormai inutilmente, vengono riconosciute da giudici seri e indipendenti come del tutto infondate, senza che nessuno sia chiamato a renderne conto in alcun modo”, sottolinea la nota dell’Ucpi. Come esempio, appunto, viene citata la recente assoluzione dell’ex presidente della Regione Calabria Mario Oliverio per la “riconosciuta insussistenza di quei fatti di reato la cui contestazione aveva però già irreversibilmente causato non solo la fine di una carriera politica, ma soprattutto - come in molti altri casi analoghi- la indebita alterazione delle dinamiche elettorali e dunque democratiche di una intera comunità territoriale”. Fatta questa premessa i penalisti ricordano allora “l’urgente necessità di mettere mano con determinazione al tema della responsabilità, e anzi ad oggi della irresponsabilità, del magistrato nell’ordinamento giudiziario italiano”. Un dato merita di essere ricordato. Ed è quello relativo proprio alle valutazioni di professionalità dei magistrati. Le ultime statistiche disponibili, quelle del 2016, raccontano che il 99,30 percento delle toghe ha conseguito una valutazione positiva. L’anno prima, nel 2015, la percentuale era stata di circa il 99,60 percento. Solo lo 0,20 percento aveva avuto un giudizio negativo. In pratica solo quelli sotto procedimento disciplinare. Numeri che avevano sollevato forti perplessità da parte dell’allora presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio: “Io vado dicendo da moltissimo tempo che in un’organizzazione complessa, un potere dello Stato con migliaia e migliaia di magistrati, dove le valutazioni di professionalità sono positive per il 99.7 per cento, si evidenzia un deficit delle circolari in materia di valutazione di professionalità”, disse Canzio intervenendo al plenum del Csm nella scorsa consiliatura. Non esiste infatti, ad oggi, alcun rapporto fra la valutazione di professionalità e i risultati dell’attività giudiziaria. Al punto che, proseguono i penalisti, non possono non essere segnalate le “inarrestabili carriere” e le “imperturbabili celebrazioni e autocelebrazioni mediatiche di magistrati che annoverano, come le implacabili statistiche raccontano senza appello, un numero di fallimenti delle proprie inchieste che sancirebbe esiti certamente pregiudizievoli in qualsivoglia altra attività professionale”. Di contro, sono “quotidianamente sanzionate dagli stessi giudici - come è giusto che sia carriere professionali di medici per interventi errati, di ingegneri per ponti mal costruiti, di avvocati per patrocini infedeli, di imprenditori per patrimoni dissipati. Un inaudito privilegio professionale, impensabile per ogni altro comune cittadino”, che per ora alcuna delle riforme all’esame del Parlamento, incluso il ddl sul Csm, prevede di eliminare. Non è, ovviamente, il caso di generalizzare. I penalisti si riferiscono ai procedimenti che fin dall’inizio presentano “profili di ‘accanimento investigativo’ o di ‘ incongruità logica’ che lo stesso giudice, di merito o di legittimità, abbia ritenuto doveroso evidenziare e stigmatizzare nel giudizio assolutorio, quando non addirittura già nella fase cautelare”. L’appello si conclude con un richiamo alla politica “ridotta a una funzione ancillare non della magistratura, ma di alcune Procure e anzi di alcuni procuratori della Repubblica, intimorita e resa imbelle dal ricatto politico- mediatico che iscrive tra i favoreggiatori della criminalità comune e politica chiunque ponga il problema della responsabilità del magistrato”. Una politica che non “può ostinarsi a non comprendere come una democrazia nella quale dei tre poteri su cui essa si fonda, uno e solo uno è irresponsabile, sia destinata alla rovina”. Sulla sfida lanciata dall’Ucpi il solo segnale finora registrato è nelle parole di Enrico Costa, il deputato di Azione che ha proposto il tema subito dopo il sì della Camera al rimborso delle spese legali agli assolti: “Ora va affrontato il nodo dei pm che vedono sistematicamente fallire le loro indagini”. Ma su questo, non sembrano esserci per ora, al di fuori dell’avvocatura, antenne sensibili. Appello dei penalisti ad Anm e Bonafede: “I magistrati che sbagliano vanno giudicati” di Paolo Comi Il Riformista, 8 gennaio 2021 Pubblichiamo il documento della giunta dell’Unione delle camere penali italiane sul tema della responsabilità professionale del magistrato. L’ennesima assoluzione di un uomo politico -come nel recentissimo caso dell’ex Presidente della Regione Calabria Oliverio - per riconosciuta insussistenza di quei fatti di reato la cui contestazione aveva però già irreversibilmente causato non solo la fine di una carriera politica, ma soprattutto - come in molti altri casi analoghi - la indebita alterazione delle dinamiche elettorali e dunque democratiche di una intera comunità territoriale, pone in modo non più eludibile la urgente necessità di mettere mano con determinazione al tema della responsabilità, ed anzi ad oggi della irresponsabilità, del magistrato nell’ordinamento giudiziario italiano. È giunta l’ora di affrancare il tema della responsabilità del magistrato dall’inaccettabile ricatto - culturale, politico, mediatico - di chi addebita ai suoi propugnatori, tra cui da sempre ed in prima linea l’Unione delle Camere Penali Italiane, l’indegno proposito di condizionare l’esercizio della giurisdizione e l’indipendenza della magistratura. È vero l’esatto contrario. La credibilità della giurisdizione è vulnerata agli occhi dei cittadini esattamente dal sempre più frequente spettacolo di indagini che prima travolgono vite private e pubbliche, carriere politiche, equilibri democratici di governi nazionali e locali, per non dire di attività economiche ed imprenditoriali, e poi, a distanza di anni ed ormai inutilmente, vengono riconosciute da giudici seri ed indipendenti come del tutto infondate, senza che nessuno sia chiamato a renderne conto in alcun modo. Ed anzi, siamo tutti chiamati ad assistere, attoniti, alle inarrestabili carriere ed alle imperturbabili celebrazioni ed autocelebrazioni mediatiche di magistrati che annoverano, come le implacabili statistiche raccontano senza appello, un numero di fallimenti delle proprie inchieste che sancirebbero esiti certamente pregiudizievoli in qualsivoglia altra attività professionale. È del tutto ovvio che il tema non si pone ogni qual volta un’accusa venga smentita da una assoluzione, la qual cosa rientra, salvo non sia abituale o statisticamente preponderante nel singolo curriculum professionale, nella normale dialettica processuale e nella fisiologica fallibilità del giudizio umano, non interrogando perciò la qualità professionale di alcuno; ma si pone con riguardo a quelle indagini - ed ai provvedimenti giurisdizionali che le hanno acriticamente assecondate - che siano connotate ab origine da quei profili di “accanimento investigativo” o di “incongruità logica” che lo stesso giudice, di merito o di legittimità, abbia ritenuto doveroso evidenziare e stigmatizzare nel giudizio assolutorio, quando non addirittura già nella fase cautelare. Solo chi vive fuori dal mondo, o peggio ancora rivendica con arroganza la propria impunità, può non comprendere le devastanti conseguenze per la credibilità della giurisdizione agli occhi di una pubblica opinione che assiste a questo esercizio di una funzione non responsabile dei propri atti, nello stesso momento in cui vede quotidianamente sanzionate dagli stessi giudici - come è giusto che sia - carriere professionali di medici per interventi errati, di ingegneri per ponti mal costruiti, di avvocati per patrocini infedeli, di imprenditori per patrimoni dissipati. Solo una politica ridotta ad una funzione ancillare non della magistratura, ma di alcune Procure ed anzi di alcuni Procuratori della Repubblica, intimorita e resa imbelle dal ricatto politico-mediatico che iscrive tra i favoreggiatori della criminalità comune e politica chiunque ponga il problema della responsabilità del magistrato, può ostinarsi a non comprendere come una democrazia nella quale dei tre poteri su cui essa si fonda, uno e solo uno è irresponsabile, è destinata alla rovina. Ma se il tema della responsabilità civile del magistrato, con i suoi indubbi profili di complessità e delicatezza, deve certamente essere rilanciato nel dibattito politico ed accademico, ciò che si può e si deve fare subito per restituire credibilità e autorevolezza alla giurisdizione è riproporre con forza, già oggi in sede di progetto di riforma dell’ordinamento Giudiziario, il tema della responsabilità professionale del magistrato. Occorre infatti porre immediatamente rimedio a questo scandalo nostrano, non a caso unico al mondo, per il quale la carriera dei magistrati italiani progredisce automaticamente (il 99% delle c.d. “valutazioni di professionalità” sono positive), del tutto a prescindere da una valutazione di merito delle attività in concreto svolte dal singolo magistrato; uno scandalo imposto addirittura in nome della difesa della indipendenza della magistratura, qui declinata non come valore costituzionale da tutti noi condiviso e difeso, ma come inammissibile ed arrogante privilegio di impunità. Ed all’interno del tema della responsabilità del magistrato deve essere finalmente affrontato lo specifico problema di quella del Pubblico Ministero e della sua valutazione rispetto alla carriera: la solenne e reiterata bocciatura da parte dei giudici di teoremi accusatori non può più essere spacciata per fisiologia processuale, quando essa avvenga con gravi censure all’attività investigativa e si riproponga nel tempo. Chiediamo al nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati dott. Santalucia se egli non reputi sia giunto il momento di aprire con coraggio ed umiltà questa riflessione all’interno della magistratura associata; chiediamo al Ministro di Giustizia on. Bonafede se vi sia una plausibile ragione per la quale egli abbia ritenuto, e con lui la maggioranza di Governo, che questo inaudito privilegio professionale, impensabile per ogni altro comune cittadino, debba rimanere intatto e dunque estraneo alla indispensabile riforma dell’ordinamento Giudiziario, pur indicata come una assoluta priorità. L’Unione delle Camere Penali Italiane intende rilanciare con forza il dibattito civile, politico ed accademico sul tema della responsabilità, innanzitutto professionale, del magistrato, nella profonda convinzione che una simile riforma, al pari di quella della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante, trovi la sua unica ragione ispiratrice nella esigenza, ormai indifferibile, di restituire forza, credibilità e autorevolezza all’esercizio della giurisdizione nel nostro Paese. “Abbiamo un governo di dilettanti. Nel Recovery, la giustizia è trattata come Cenerentola” di Alessandra Ricciardi Italia Oggi, 8 gennaio 2021 Un governo di dilettanti”, attacca Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, protagonista di indagini storiche, da quelle sulle Brigate Rosse in Veneto a Tangentopoli, oggi editorialista. Mentre a Roma si litiga sul Conte ter (“sarebbe il colmo dell’assurdo”), a Bruxelles attendono il piano di riforme per i 209 miliardi del Recovery plan italiano: giustizia e pubblica amministrazione, i principali dossier. “La giustizia nella bozza di riforme ancora una volta è stata trattata da Cenerentola... Eppure la mala giustizia ci costa 2 punti di Pil l’anno”, spiega Nordio, che ha coordinato uno studio per la Ambrosetti House. La nuova prescrizione annunciata dal governo? “Doveva essere accompagnata da una riforma più globale volta alla riduzione dei tempi dei processi. Non se ne è fatto nulla”. La digitalizzazione dei fascicoli e delle notifiche? “È ancora in alto mare, ma anche una volta che dovesse essere legge avrebbe lo stesso effetto di un’aspirina per curare il Covid”. Quello che manca è un progetto complessivo, dice Nordio: revisione delle procedure e radicale depenalizzazione di molti reati. A partire dall’abuso di ufficio. Domanda. A ormai quasi un anno dallo scoppio dell’epidemia, il Covid che effetti ha avuto sulla gestione della giustizia? Partiamo da quella penale. Risposta. Come negli ospedali, non ha prodotto un blocco, ma un forte rallentamento. Le cause urgenti si celebrano ancora, detenuti e arrestati hanno sempre la precedenza. I dirigenti degli uffici sono in genere molto bravi, anche se da magistrati devono trasformarsi in manager, perché la gestione della sicurezza è una loro responsabilità. D. E su quella civile? R. La giustizia civile richiede meno immediatezza, le parti possono comunicare a distanza con il giudice e tra di loro, e in questo la telematica attenua le difficoltà determinate dall’isolamento. Ma purtroppo la giustizia civile era giù così fragile e malaticcia, che questa epidemia rischia di affossarla definitivamente. Abbiamo un organico vecchio, sottodimensionato rispetto al nuovo contenzioso e nemmeno del tutto coperto. D. La carenza di organico non è colpa solo di questo governo. O no? R. La carenza di organico ha molti padri: la carenza di risorse, che ha sempre visto la giustizia sacrificata nei bilanci, e solo oggi comprendiamo che è un motore essenziale per l’economia; poi la farraginosità burocratica, che rende eterne le procedure dei concorsi, cosicché se un aspirante magistrato inoltra oggi la domanda, e supera le prove, otterrà la toga fra tre o quattro anni; infine la stessa magistratura, restìa ad aumentare il numero dei togati. D. Perché? R. Per la ragion pura di non ridurre l’alta professionalità dei suoi componenti, che in effetti devono superare una durissima selezione. E per la ragion pratica che un’immissione cospicua di avvocati diluirebbe il corporativo potere correntizio, che lo scandalo Palamara ha messo in luce, anche se era conosciuto da tutti. Ma la colpa principale risiede nell’inerzia governativa e parlamentare. L’esempio più indecoroso è il seguente: una gran parte di processi, anche importanti, sia civili che penali, è oggi gestita dai Got, cioè dai giudici onorari presso i tribunali. D. Chi sono i Got? R. Sono avvocati bravi e preparati che devono, in pratica, rinunciare alla professione, perché non possono esercitare nello stesso foro dove svolgono funzioni giurisdizionali. Ebbene, questi ausiliari dei giudici di carriera, insostituibili per la tenuta del sistema, vengono pagati in modo irrisorio, e solo quando fanno udienza. Non hanno garanzie di stabilità né di trattamento previdenziale, anche se vengono per molti anni riconfermati nella carica, con una procedura che non sarebbe consentita a un privato imprenditore. Una recente sentenza del tribunale di Vicenza ha riconosciuto il loro diritto a una retribuzione corrispondente a quella dei togati. In effetti lo Stato li sfrutta con un trattamento indegno, che sta giustamente suscitando proteste. Se questi Got smettessero di lavorare, la giustizia collasserebbe definitivamente. Ecco, questa è un’urgenza da affrontare subito. D. Che fine hanno fatto le riforme annunciate dal governo Conte, dalla prescrizione alla digitalizzazione delle notifiche? R. Qui il discorso è amaro. La funesta mini riforma della prescrizione doveva essere accompagnata da una più globale volta alla riduzione dei tempi dei processi. Non se ne è fatto nulla. Esiste un progetto in discussione in parlamento che prevede alcune buone novità, come la digitalizzazione dei fascicoli e delle notifiche, e alcuni limiti alle impugnazioni. Ma a parte che è ancora in alto mare, ha lo stesso effetto di un’aspirina per curare il Covid. Non è certo la completa revisione della procedura e neppure la radicale depenalizzazione, che costituirebbero le uniche medicine per rendere la giustizia penale più efficiente. D. Quanto ci costa la malagiustizia? R. Qui distinguiamo. La formulazione di reati evanescenti, come l’abuso di ufficio e il traffico di influenze ci costa enormemente perché paralizza l’attività amministrativa. Ormai nessuno firma più nulla per timore di finire indagato, con le spese e le conseguenze note a tutti, anche in caso di assoluzione. Quanto alla corruzione, essa riduce e scoraggia gli investimenti, diminuisce le entrate statali e aumenta le disuguaglianze nella popolazione, perché inceppa i meccanismi di redistribuzione e di welfare. Ma i danni maggiori derivano dal crisi della giustizia civile, perché impatta sui costi delle imprese, sull’allocazione e sul costo del credito, e più in generale sulla certezza dei rapporti contrattuali. Uno studio della Ambrosetti House, che ho avuto l’onore di coordinare con altri tecnici, quantifica la perdita in circa il due per cento del Pil. Decine di miliardi di euro l’anno. D. Dove metterebbe le mani? R. Il processo penale è ormai un’arlecchinata, perché è stato modificato così tanto da renderlo incompatibile con la sua struttura originaria. Ne occorre uno nuovo, possibilmente coerente con il sistema accusatorio che aveva ispirato il codice Vassalli del 1988. Per la giustizia civile, dopo mille tentativi falliti, il rimedio è semplice: copiamo i sistemi che funzionano, magari quello tedesco. Non c’è nulla da vergognarsi, anche loro hanno copiato, a suo tempo, il diritto romano. D. Tra le riforme che il governo deve presentare per accedere ai 209 miliardi del Recovery plan c’è appunto la giustizia. Da ex magistrato e da giurista, qual è il disegno che si delinea nelle bozze di Recovery? R. Tragico. La giustizia ancora una volta è stata trattata da Cenerentola. Ma anche la sanità è stata trascurata. Basti vedere che l’originario stanziamento era ridicolo Ora pare aumentato, ma è sempre poco rispetto ai dissennati sussidi a pioggia sperperati a fini di consenso elettorale. D. Il governo è alla vigilia di un rimpasto, che dovrebbe immettere maggiori competenze, secondo una versione, nuove poltrone, secondo l’altra. Basterà per andare avanti? R. Un rimpasto, un Conte ter, sarebbe il colmo dell’assurdo. Già questo governo è un’anomalia, perché il suo Presidente si vanta di smentire e disfare quello che aveva fatto quando guidava quello precedente. Hegel direbbe che prima c’era la tesi, e ora l’antitesi. Se la sintesi dialettica dovesse essere il Conte ter, vorrei ricordare che Marx diceva che bisogna far camminare sulle gambe l’uomo che Hegel fa camminare sulla testa. Ma purtroppo qui non si tratta delle astrazioni speculative dell’idealismo, ma della sorte dell’Italia, o almeno degli aiuti che ci vengono dall’Europa. Lei mi chiedeva se basterà per andare avanti. No, sarebbe un pasticcio. D. Qual è la colpa più grave di questo esecutivo? R. Il dilettantismo. Faccio l’esempio della scuola. Le regioni vanno in ordine sparso sul quando aprire e chiudere la scuola perché è mancata e manca del tutto una visione generale del governo, che si è baloccato con i banchi a rotelle quando, in primavera, avrebbe già dovuto capire che la scuola era una enorme fonte di contagio, non tanto nelle aule quanto nei trasporti, dove manca ogni forma di distanziamento e di controllo. È stata una negligenza imperdonabile, una delle tante. Ora si fanno riunioni ministeriali nottetempo per decidere se prorogare o no la chiusura di qualche giorno. Davanti a un simile dilettantismo programmatico è ovvio che alcune regioni, come il Veneto, abbiano deciso di chiudere fino a febbraio. D. Una crisi di governo in piena emergenza economica e sanitaria? R. Non è vero che una crisi di governo, o addirittura l’appello alle urne, sia incompatibile con un’emergenza. Al contrario, è proprio nell’emergenza che se un governo rivela la sua inadeguatezza va cambiato. Così fece la Francia in piena guerra chiamando alla sua guida Clemenceau nel novembre del 1917, come la Gran Bretagna volle Churchill al posto di Chamberlain nel 1940. A proposito di quest’ultimo, mi vengono in mente le parole indirizzategli da Leo Amery dopo il disastro della Norvegia: “Troppo a lungo avete occupato quel posto per quel poco di bene che avete fatto. Andatevene, e sia finita con voi. In nome di Dio, andatevene”. Chissà se in Parlamento qualcuno si alza e ha il coraggio di dirlo a Conte. Pinocchio e la giustizia italiana di Dimitri Buffa L’Opinione, 8 gennaio 2021 Anni orsono sentendo un paio di lezioni di linguistica e di letteratura italiana di Luca Serianni all’Università incentrate sulla fiaba di Pinocchio mi venne in mente che quella favola terribile se non feroce - lo diceva lo stesso Serianni - in realtà ha sempre ben rappresentato la mentalità italiana in materia di giustizia e dintorni. La giustizia come nemesi - se non come vendetta - il carcere come punizione deterrente senza alcun intento rieducativo, il paradosso dell’errore giudiziario come pena accessoria per chi deviava dalla retta via. A questo si può aggiungere una ricca dose di paternalismo, di sarcasmo sugli emarginati - simboleggiati dai burattini nella fattispecie - e un cinico fatalismo a proposito delle disgrazie della vita. Aggiungendo una bella istigazione al senso di colpa per avere avuto magari solo la tentazione di fare qualcosa di trasgressivo o, peggio ancora, per l’aver voluto divertirsi. Uno potrebbe dire che la fiaba nacque da esigenze culturali elementari di contrastare l’enorme tasso di abbandono scolastico dell’epoca. Ma questa è una foglia di fico. Beh, a pensarci bene l’Italia deve gran parte degli attuali e ormai insostenibili problemi della sua giustizia penale - ma anche civile e amministrativa - a questa mentalità da fiaba di Collodi con cui sono stati formati culturalmente gran parte dei giudici e dei pubblici ministeri del Bel paese per lo meno dall’epoca risorgimentale agli anni Settanta dello scorso secolo. “Se uno va in galera qualcosa lo avrà fatto”. È il motto di questa educazione, chiamiamola così. Chissenefrega se la Costituzione dice che si deve tendere a rieducare il reo. D’altronde la Costituzione prevedrebbe anche l’istituto dell’amnistia e dell’indulto e tutti sanno come è stato neutralizzato l’articolo relativo. Enzo Tortora fu uno dei primi a farne le spese in tempi in cui lo strapotere giudiziario era di là da venire di questa mentalità che oggi chiamiamo “manettara”. Va detto che se il caso Tortora fosse avvenuto negli anni Novanta o dopo il Duemila - al netto dei Radicali e di Marco Pannella - si sarebbe trovata una maniera di condannarlo. O, se preferite, di fotterlo. Ma allargando il campo dalla giustizia e dalle carceri alla sanità - e anche alla scuola - l’esempio della gestione punitiva e colpevolizzante verso il cittadino della attuale pandemia da Covid-19 sembra avere qualcosa a che fare con la mentalità di Collodi. La scuola come punizione per i ragazzi esuberanti che si vogliono divertire nella vita. La malattia come castigo divino. L’invito alla delazione contro chi “non rispetta le regole” come rimedio ai mali sociali. Tutto è perfettamente incarnato in questa notissima “fiaba per bambini”. E quel che non troviamo di diseducativo - o di falsamente educativo - nella lettura semantica di Pinocchio, è tutto contenuto in un altro libro per ragazzi ritenuto per decenni molto formativo. È il libro “Cuore” di Edmondo De Amicis. Un baluardo del pensiero dell’Italia a cavallo della unificazione e della post-unificazione. In “Cuore” molto semplicemente - stavolta all’interno del mondo della scuola - vengono segnati in maniera quasi apodittica i confini tra il bene e il male. Identificato in questo terribile Franti che sembrerebbe un bullo dell’epoca laddove oggi qualcuno lo metterebbe più nella categoria umana della psicolabilità violenta. I diversi, i “pazzi”, quelli strani o strambi nell’Italia di Collodi e di De Amicis erano tendenzialmente rinchiusi nei manicomi oltre che nelle patrie galere e in ogni caso sempre puniti. Ma anche oggi dove il “politically correct” è diventata una mentalità ossessiva e altrettanto inefficace per l’educazione di quanto non lo fosse il punizionismo e il senso di colpa, sotto sotto la gente coltiva gli stessi biechi sentimenti di fine Ottocento. L’urlo “in galera” rivolto a politici o a sfortunati protagonisti della cronaca nera e giudiziaria, condito con la spietatezza ruffiana con cui certi uomini politici e certi magistrati precisano che “in galera si deve marcire”, anticipa la condanna processuale con quella moralistica e mediatica. Alle persone che deviano va distrutta la vita. Non devono più avere o coltivare ambizioni. Né tentare di rifarsi una vita. Tanto meno con successo. Questa sfumatura ad esempio si è colta nel trattamento processuale riservato a Salvatore Buzzi nel noto processo “Mafia Capitale”: sgonfiatosi come un palloncino dopo il primo grado. Non importa se la società potrebbe guadagnarci di più a recuperarle certe persone. “Devono morire”, come nei cori allo stadio. Ci sono pure giornalisti che vanno per la maggiore da anni - e che si vantano di essere i discendenti spirituali di Indro Montanelli - che si vantano di “non avere mai stretto la mano a un pregiudicato”. Come se uno che in passato abbia sbagliato e magari anche pagato e scontato una pena non potesse, anzi non dovesse, mai più per editto divino essere o diventare una persona perbene e neanche utile al lavoro. E men che meno semplicemente presa sul serio nel proprio eventuale ravvedimento. La “damnatio memoriae” in vita è diventata una scorciatoia per fare fuori l’avversario politico o un concorrente nel mondo del lavoro. Finché un sano pragmatismo liberale non si sostituirà a questa mentalità, a ben vedere molto meschina e pericolosa, in Italia votare per i partiti di sinistra o per quelli di destra, o per quelli dell’antipolitica, sarà sempre un falso problema. Come scegliere la modalità di esecuzione di una condanna a morte. In questo caso della democrazia liberale. Csm, il Consiglio di Stato come il Tar: “Davigo si rivolga al giudice ordinario” di Liana Milella La Repubblica, 8 gennaio 2021 Secondo la giustizia amministrativa, l’ex pm di Mani pulite deve essere giudicato dalla magistratura ordinaria rispetto alla sua decadenza dal Consiglio superiore della votata a maggioranza. “Si rivolga al giudice ordinario e non a quello amministrativo”. Dopo il Tar, adesso anche il Consiglio di Stato si lava le mani sul caso Davigo e sulla sua cacciata dal Csm il 19 ottobre scorso per aver raggiunto l’età della pensione. Esattamente come il Tar del Lazio, la quinta sezione del Consiglio di Stato - il presidente Carlo Saltelli, il consigliere estensore della sentenza Giovanni Grasso, i colleghi Raffaele Prosperi, Angela Rotondano, Elena Quadri - decide di non entrare nel merito della questione che ha provocato una profonda spaccatura nel Csm sul caso dell’ex pm di Mani pulite, dal 2018 eletto nell’organo di autogoverno dei giudici come consigliere più votato con 2.522 consensi di altrettanti colleghi e che si era presentato nella corrente, da lui stesso fondata, Autonomia e indipendenza. Tutti colleghi che - al momento del voto - non avevano assolutamente neppure preso in considerazione il fatto che Davigo, il 20 ottobre di quest’anno, avrebbe compiuto 70 anni, e quindi automaticamente sarebbe divenuto una toga in pensione. Secondo la maggioranza dei consiglieri del Csm, Davigo era anche una toga che di conseguenza doveva lasciare il Consiglio. E così infatti è andata quel lunedì di ottobre in cui 13 consiglieri hanno votato per il suo allontanamento, mentre 6 si sono espressi a favore della sua permanenza in Consiglio, e 5 si sono astenuti. Contro Davigo hanno pesato i voti del vice presidente David Ermini, dei due vertici della Cassazione Pietro Curzio e Giovanni Salvi, del consigliere eletto nella sua corrente Nino Di Matteo. Immediato il ricorso di Davigo al Tar, già il giorno dopo, difeso dal costituzionalista Massimo Luciani. Ma proprio il Tar prima non ha concesso la sospensiva della decisione. Poi si è pronunciato come oggi ha fatto il Consiglio di Stato. Con considerazioni praticamente identiche. Ma sopratutto, in entrambi i casi, la giustizia amministrativa non è entrata nel merito della decisione. Cioè - per capirci - non ha stabilito se un magistrato, una volta raggiunta l’età pensionabile e pur facendo parte del Csm perché eletto dai suoi colleghi, possa continuare a farne parte, oppure debba lasciare l’incarico. Ben altra è la strada seguita da Tar e Consiglio di Stato. Come si può evincere da queste considerazioni che chiudono le poche pagine del provvedimento: “Il giudice della giurisdizione ha costantemente affermato che il diritto all’elettorato passivo costituisce un diritto soggettivo perfetto, che non è sottratto alla giurisdizione ordinaria per il solo fatto che sia stato dedotto in giudizio mercé l’impugnazione di un apparente provvedimento amministrativo”. In sostanza, in parole semplici, il Consiglio di Stato afferma che la questione riguarda il diritto elettorale passivo e quindi un diritto soggettivo pieno, che è materia del giudice ordinario. E su questo principio non ha nessun effetto il fatto che la decadenza di Davigo sia stata decisa con un provvedimento amministrativo come quello preso a ottobre dal Csm. Quindi Davigo - per usare un linguaggio sportivo - non ha perso questa partita. Poiché quelli che aveva scelto come suoi giudici - il Tar prima, il Consiglio di Stato poi - hanno stabilito che la questione non è di loro competenza. Davigo dovrà rivolgersi al giudice ordinario e porre di nuovo il problema se, da magistrato in pensione, poteva restare al Csm oppure doveva andarsene. Davigo ovviamente era convinto di poter restare richiamandosi alla Costituzione che parla di una durata di 4 anni del Csm. Mentre i vertici della Cassazione ed Ermini, nonché la destra del Csm, hanno ritenuto che il pensionamento facesse cadere anche il suo diritto di essere un componente togato, in quanto aveva perso la toga. Ma a questo punto la partita continua. E quelle di Tar e Consiglio di Stato non rappresentano un sì o un no a Davigo e alla questione giuridica che ha posto, ma semplicemente un “noi non siamo competenti a decidere”. “Io, avvocato, intercettato mentre parlavo col mio assistito” di Simona Musco Il Dubbio, 8 gennaio 2021 Captazioni selvagge, arriva il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Un ricorso alla Cedu contro le intercettazioni selvagge delle conversazioni tra avvocato e assistito. È quanto ha deciso di fare l’avvocato Nicola Canestrini, del foro di Rovereto, che ha manifestato una lesione del diritto di difesa. Canestrini, come diversi altri colleghi, ha ritrovato nei brogliacci allegati alle informative contenute nei fascicoli di indagine alcune intercettazioni intrattenute con il proprio cliente. “Si trattava di una persona detenuta che si trovava a 200 chilometri dal mio ufficio spiega al Dubbio -, potevamo solo telefonarci per metterci d’accordo sulle strategie difensive. Era il momento di decidere se ricorrere o meno al Riesame. Leggendo i brogliacci ho trovato trascritte nel fascicolo le nostre telefonate”. Canestrini è chiaro: “Quanto prescritto dall’articolo 103 del codice di procedura penale è solo apparente e illusorio, in quanto il diritto di riservatezza non viene tutelato. La Cassazione, infatti, sostiene che tale articolo non preveda un divieto assoluto di intercettazione ex ante, ma implichi una verifica postuma del rispetto dei limiti”. Insomma, secondo la Suprema Corte, dal momento che l’avvocato non gode di alcuna immunità, è possibile intercettarlo per verificare se sussistano o meno indizi di reità e solo sulla base di tale valutazione è possibile stabilire se le conversazioni siano utilizzabili. Ciò nonostante la norma stabilisca il divieto di intercettazione. “Quello che non va bene è lo stratagemma delle intercettazioni a strascico - contesta Canestrin. È ovvio che se c’è un indizio di reità io debba essere intercettato, il problema è che così si aggira completamente la finalità della norma. Il meccanismo della verifica postuma consente di far conoscere al pm la strategia difensiva”. Per Canestrini non è la prima volta: sono almeno tre le occasioni in cui si è ritrovato a dover leggere i brogliacci delle conversazioni con i propri assistiti. Motivo per cui ha fatto ricorso alla Cedu, evidenziando, “che la tutela della riservatezza delle comunicazioni fra difensore e cliente si pone come elemento fondamentale del diritto di difesa, tutelato all’articolo 24 della Costituzione italiana, come, peraltro, anche riconosciuto dalla Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che la tutela del segreto professionale è garanzia del libero dispiegamento dell’attività difensiva e del segreto professionale”. Nel ricorso alla Cedu, Canestrini contesta il meccanismo della verifica postuma del rispetto dei limiti legali, “la cui violazione comporta l’inutilizzabilità delle risultanze dell’ascolto e la distruzione della relativa documentazione: ciò perché è del tutto evidente che la suddetta verifica postuma consente di ascoltare la conversazione fra cliente ed avvocato, consentendo - proprio perché postuma - alla polizia giudiziaria ed al pubblico ministero di apprendere ad esempio notizie sulla strategia difensiva”. Proprio in relazione alle intercettazioni, la Corte europea ha stabilito che le stesse “devono necessariamente essere previste da norme nazionali che indichino in modo chiaro lo scopo e il livello di discrezione delle autorità nazionali nello svolgimento delle intercettazioni per poter essere considerate lecite, quindi, non solo l’ingerenza nella corrispondenza deve essere prevista dalla legge ma quest’ultima dev’essere particolarmente precisa nella descrizione della facoltà di violazione dei diritti della difesa, la quale non può degenerare in abusi di potere o applicazioni arbitrarie”. Per tale motivo, in assenza di una norma chiara e precisa che disciplini la possibilità di intercettare telefonicamente clienti e assistiti, e ancor di più nel caso in cui l’ordinamento nazionale preveda il divieto di intercettazione, come avviene nell’ordinamento italiano, per Canestrini è necessario ravvisare “una chiara violazione” della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nel caso denunciato dal legale, “la violazione del segreto professionale ha inciso sul diritto alla riservatezza della corrispondenza fra avvocato e suo assistito in un periodo particolarmente delicato come quello in cui l’indagato è appena stato assoggettato ad una misura cautelare, ha appena saputo della indagine in corso ed ha quindi l’impellente necessità di confrontarsi con il proprio difensore per discutere della strategia difensiva. La violazione risulta ancora più grave conclude - in considerazione della distanza che intercorreva fra cliente e avvocato, i quali vivono a più di 142 km di distanza e sono quindi obbligati a comunicare, per la maggior parte, in via telefonica”. Il pentito Emanuele Mancuso: “Salvate mia figlia dalla ‘Ndrangheta” di Alessia Candito La Repubblica, 8 gennaio 2021 Salvate mia figlia dalla ‘Ndrangheta. Allontanatela da quel sistema criminale che la tiene ostaggio e la usa come merce di scambio. Dopo essersi inutilmente rivolto al Tribunale per i minorenni di Catanzaro, chiede aiuto con una lettera aperta Emanuele Mancuso, rampollo di ‘Ndrangheta e figlio di boss, che per primo nella storia del suo casato ha deciso di collaborare con la giustizia. È il figlio di Luni Mancuso “L’ingegnere” uno dei capi storici del clan. È stato la prima crepa in quasi un secolo di omertà. E lo sta pagando. “Intendo manifestare il mio stato di frustrazione e preoccupazione per le sorti di mia figlia, di soli 30 mesi di vita, poiché, nonostante le notorie vicende legate alle pressioni da me subite per la scelta intrapresa, ella, seppur sottoposta allo speciale programma di protezione, nella realtà dei fatti, grazie alla disponibilità della madre, Chimirri Nensy Vera, mantiene contatti con gli ambienti ‘ndranghetistici” si legge nella sua lettera appello. Tre cartelle fitte di dati, circostanze, lucide preoccupazioni, un fiume di parole che sono richiesta di aiuto e denuncia insieme, ma anche il resoconto fedele di una battaglia che da quasi due anni porta avanti in silenzio. “Non voleva mettere ulteriormente a rischio la bambina” spiega il suo legale, Antonia Nicolini. Ma adesso che il gioco sporco della famiglia è divenuto pubblico grazie alle dichiarazioni del pentito Antonio Cossidente, Mancuso ha deciso di parlare. Al pm di Catanzaro Annamaria Frustaci, il vecchio collaboratore ha raccontato la disperazione del giovane pentito nella prima fase della sua collaborazione, quando le donne di famiglia ai colloqui non facevano che ripetergli che se non avesse chiuso la bocca la figlia non l’avrebbe vista più. “Loro buttavano avanti la bambina per farlo ritornare sui suoi passi, cioè giocavano sui sentimenti” mette a verbale Cossidente, che di Mancuso era compagno di cella ed è diventato spalla, tanto da raccoglierne anche le confidenze che hanno permesso di iniziare a fare luce sulla sparizione e l’omicidio di Maria Chindamo. Dichiarazioni depositate agli atti e che hanno reso noto a tutti il gioco di forza messo in piedi dal clan usando “una bambina di 30 mesi”. Per questo Emanuele Mancuso ha deciso di raccontare tutto. Ai media scrive con la rabbia di un padre che deve necessariamente stare lontano, con la disperazione di un figlio, nipote uomo, di ‘Ndrangheta che sa per averla vissuta la claustrofobica storia che la sua piccola rischia di rivivere. “Ho deciso di collaborare con la giustizia proprio in prossimità della sua nascita - si legge nella lettera - anche con la speranza di offrirle un futuro diverso, lontano dal contesto sociale e criminale di mia appartenenza”. Aveva chiesto e ottenuto che lei e la madre venissero ammesse al programma di protezione e avessero la possibilità di una vita diversa, al riparo da ritorsioni del clan ma anche “lontano da pregiudizi e da nette imposizioni dovute solo al ‘maledetto cognome’ portato”. Ma la sua compagna ha detto no. “La mia scelta non è stata condivisa dalla Chimirri Nensy Vera la quale ha prontamente rifiutato la collocazione in località protetta e l’ammissione allo speciale programma di protezione rimanendo, invece, legata alla famiglia Mancuso, condividendone lo stesso tetto insieme alla bambina” si legge nella lettera. Un paradosso - racconta - a cui insieme alla procura per i minorenni di Catanzaro ha tentato di porre rimedio fin dai primi mesi del 2019, chiedendo l’immediato allontanamento della bambina dalla Calabria. “Il Tribunale per i minorenni, inspiegabilmente, per ben tre volte, ha provveduto a rigettare tale richiesta lasciando la minore sul territorio vibonese, incurante del grave pericolo che incombeva, seppur conscio del fatto che pendeva e pende, sulla mia testa, una taglia, di circa un milione di euro, messa da Luigi Mancuso”. Con un provvedimento “discutibile” - scrive il pentito - “incomprensibilmente, con il predetto decreto il Tribunale per i Minorenni ha, nella realtà dei fatti, ‘incaricato la madre’ di occuparsi della crescita e dell’educazione della bambina, indifferente al fatto che, ella, non si sia mai dissociata dalle logiche ‘ndranghetistiche”. In più, aggiunge, nonostante l’inizio di un serio percorso di collaborazione “ha provveduto, con il medesimo decreto, a limitare anche la mia responsabilità genitoriale per i miei precedenti penali. Pari all’essere assurdo!”. Una decisione poi ribaltata dalla Corte d’appello ma che non cambia la sostanza - spiega il pentito - perché la bambina “continua a vivere con la madre, legata, senza ombra di dubbio, alla cosca Mancuso”. Il giovane pentito non lo dice per sentito dire o per mero sospetto. Lo sa. E intercettazioni e informative depositate agli atti di diversi processi lo confermano. L’ex compagna, da cui è tanto distante da chiamarla solo per cognome - “la Chimirri” scrive per riferirsi a lei - è “collegata, tutt’oggi alla cosca” ed è “difesa e assistita da un noto avvocato del Foro di Palmi, Carmelo Naso”, pagato dagli stessi Mancuso. Lo dicono - riferisce il pentito - le intercettazioni in cui si sente il legale informare passo passo del procedimento riguardante l’affidamento della bambina “Del Vecchio Rosaria Rita, rappresentante la famiglia Mancuso, la quale si occupa anche del pagamento delle spese legali”. Lo confermano anche messaggi, foto e dati trovati sul cellulare di Luni Mancuso, il padre del pentito, al momento dell’arresto. “Emerge un quadro sconvolgente - si legge nella lettera di Mancuso - cioè l’interessamento della cosca alle sorti della mia bambina, con ingerenze nel procedimento pendente presso il Tribunale per i Minorenni, nonché il forte legame e la ‘messa a disposizione’ della Chimirri Nensy Vera che, in tutta tranquillità e serenità, interloquisce e si incontra con latitanti e soggetti irreperibili del calibro di Mancuso Giuseppe Salvatore e Mancuso Pantaleone, alias “L’ingegnere”. Il padre di Emanuele Mancuso, diventato quasi il suo peggior nemico. È lui - sottolinea il giovane nella lettera - che alla nuora preoccupata per le iniziative legali dell’ex compagno riguardo l’affidamento della bambina dice “Stai tranquilla, io farò di tutto. Non ti preoccupare, stai tranquilla. Deve passare sul mio cadavere”. Ma è solo una delle conversazioni che riguardano la piccola ed Emanuele Mancuso sa per certo - perché conosce il linguaggio di suo padre, perché sa come parla un boss - che il significato di quelle rassicurazioni è uno solo: “la bambina è in mano alla ‘ndrangheta e usata come merce di scambio”. E usa il grassetto il pentito per sottolineare quelle parole che anche su uno schermo sembrano urlate. “Non posso accettare più questa situazione e chiedo, a gran voce, un intervento risolutivo per strappare, definitivamente, la mia bambina dalle mani della ‘ndrangheta”. Un appello, una richiesta d’aiuto per quella figlia che da anni riesce a vedere solo di rado “in quanto la madre ha sempre cercato di impedirne i contatti, operando continue vessazioni nei miei confronti e soprattutto con l’indifferenza di un Tribunale per i Minorenni che è rimasto inerte alle mie continue e numerose segnalazioni”. Un’unica istanza: “chiedo solo giustizia”. Lazio. Sovraffollamento e Covid-19 nelle carceri regione.lazio.it, 8 gennaio 2021 Tasso di affollamento sui posti effettivamente disponibili: 123 per cento. 67 i positivi al coronavirus al 30 dicembre. Focolai a Rebibbia e Regina Coeli. Muore un detenuto a Rieti. Rispetto al 30 novembre il numero dei detenuti presenti a fine anno negli Istituti di pena dal Lazio è cresciuto di sei unità, passando da 5.810 a 5.816, con un tasso di affollamento sui posti effettivamente disponibili del 123 per cento. I casi Covid passano dai 41 rilevati al primo dicembre ai 67 del 30 dicembre. a Regina Coeli si era sviluppato un focolaio con 47 casi. Nei giorni successivi si è registrato un nuovo focolaio a Rebibbia che ha coinvolto circa venti detenuti. Nell’ospedale di Rieti, dopo due settimane di ricovero, è morto un detenuto di 66 anni, affetto da Covid: il primo nel 2021, il primo dall’inizio della pandemia nel Lazio, il tredicesimo (in Italia) di questa seconda ondata. Se dal punto di vista delle presenze la situazione è sostanzialmente immutata, sembrerebbe, in base alle schede di trasparenza dei singoli istituti recentemente aggiornate dal ministero di Giustizia, che sia cresciuta la disponibilità effettiva di posti rispetto ai mesi precedenti: erano 4.565 nella precedente rilevazione mentre alla data del 4 gennaio risultano 4.730. La situazione rimane comunque estremamente critica e preoccupante e non sembra essere sostanzialmente cambiata, nonostante l’entrata in vigore il 28 ottobre del decreto-legge 137/2020 (il cd. “decreto Ristori”), contenente licenze premio straordinarie per i semiliberi, durata straordinaria dei permessi per i lavoranti all’esterno e il rinnovo di misure per incentivare la detenzione domiciliare dei detenuti a fine pena. A fine dicembre il tasso di affollamento complessivo negli istituti di pena del Lazio calcolato sulla base della capienza regolamentare dichiarata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sarebbe del 113% mentre in tutta Italia, dove, peraltro, si è registrata una riduzione del numero di detenuti tra novembre e dicembre da 54.368 a 53.364, è del 106%. Va inoltre considerato che rispetto ai dati delle capienze “regolamentari” e nonostante i lievi miglioramenti riportati nelle schede di trasparenza, in parecchi istituti di pena della nostra regione i posti effettivamente disponibili sono decisamente più ridotti a causa dello stato di degrado di alcuni reparti, di lavori di ristrutturazione e di adeguamento degli edifici in corso e di altre misure di sicurezza. Analizzando la situazione dei singoli istituti sulla base delle valutazioni delle schede di trasparenza disponibili sul sito del ministero della Giustizia, il tasso di affollamento complessivo del Lazio sale al 123% e in sei Istituti di pena della regione risulta superiore al 130%. Desta particolare preoccupazione la situazione negli istituti di Latina, Civitavecchia e Regina Coeli. In quest’ultimo istituto si è anche registrata una notevole impennata delle persone contagiate da Covid-19 nelle ultime settimane dell’anno. Come più volte ribadito si ritiene quanto mai necessario che vengano adottate tutte le possibili misure per consentire a chi ne ha i requisiti di scontare la pena detentiva al di fuori delle mura carcerarie, in considerazione anche sia del numero significativo di persone che devono scontare pene inferiori ai due anni sia della notevole percentuale di detenuti in attesa di primo giudizio, del 17,4% del totale dei detenuti presenti in regione, che risulta da due anni costantemente superiore a quella che si riscontra a livello nazionale. Lazio. Il Garante dei detenuti: “Nelle carceri, come nelle Rsa, vaccinazioni in via prioritaria” di Marco Barzelli frosinonetoday.it, 8 gennaio 2021 Stefano Anastasìa, nella sua missiva inviata all’assessore regionale alla Sanità, ricorda i focolai registrati negli ultimi mesi a Rebibbia femminile, Frosinone, Regina Coeli e Rebibbia Nuovo Complesso. Il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, ha scritto all’assessore regionale alla Sanità Alessio D’Amato per far presente che “nelle carceri, come nelle Rsa - si appella - bisognerebbe provvedere alle vaccinazioni in via prioritaria”. Un’iniziativa la sua sostenuta immediatamente dai consiglieri regionali Marta Bonafoni (Lista Civica Zingaretti), Alessandro Capriccioli (+Europa Radicali) e Paolo Ciani (Demos - Democrazia Solidale). Nella sua lettera, nella quale è stata richiesta un’attivazione di D’Amato in sede di Conferenza delle Regioni e nei rapporti con il Ministro della Salute Speranza e il Commissario alla Sanità Arcuri, lo stesso Anastasìa ricorda i focolai registrati negli ultimi mesi a Rebibbia femminile, Frosinone, Regina Coeli e Rebibbia Nuovo complesso. Malgrado gli appelli rivolti in tal senso dalla Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà, i detenuti verranno vaccinati nella terza fase della campagna nazionale. Nello specifico dopo personale sanitario, ospiti e operatori delle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa), anziani, alcune specifiche categorie e lavoratori dei servizi essenziali. Proprio oggi, giovedì 7 gennaio, D’Amato ha ribadito invece che il calendario del piano regionale, dopo sanitari pubblici e Rsa, prevede la somministrazione del vaccino agli ultraottantenni a febbraio e, a partire da aprile, a tutti gli over 60. “L’obiettivo - ha dichiarato l’assessore - è quello di aver immunizzato un milione e seicentomila persone per giugno. L’ordine è chiaro: primale fasce d’età più avanzate, poi le persone fragili, poi in base all’anagrafe, in ordine decrescente”. L’appello del Garante dei detenuti del Lazio - “Questa programmazione del Piano nazionale - scrive Anastasìa nella missiva inviata a D’Amato - non tiene adeguatamente conto delle condizioni di rischio e di vulnerabilità alla diffusione del virus nelle comunità chiuse e, in particolare, negli istituti penitenziari, contrassegnati da condizioni igieniche precarie e un sovraffollamento che impediscono il dovuto rispetto delle ordinarie misure di prevenzione raccomandate alla generalità della popolazione”. “Nell’espletamento della campagna vaccinale nel Lazio - chiede allora il Garante dei detenuti - sia data la giusta priorità alle persone private della libertà e, laddove per disposizione nazionale non fosse possibile altrimenti, sia garantita la immediata vaccinazione delle persone detenute ultra ottantenni e sin dall’inizio della seconda fase della campagna vaccinale la tempestiva vaccinazione degli ultra sessantenni e delle persone detenute di ogni età affette da comorbidità severa, immunodeficienza o fragilità”. Vicenza. Carcere, positivo al Covid quasi un detenuto su 10 di Benedetta Centin Corriere del Veneto, 8 gennaio 2021 Ventotto positivi ieri mattina, 33 nel pomeriggio dopo il tampone molecolare. Sono i detenuti (su 390) contagiati dal coronavirus e isolati in una sezione del carcere “Filippo del Papa”. Il bilancio è quello reso noto ieri dal direttore reggente della struttura, Fabrizio Cacciabue, che spiega anche come “al momento solo due presentano sintomi più gravi e vengono sottoposti ad apposita terapia nella casa circondariale”. Se invece le condizioni si complicassero potrebbe essere disposto per i due il trasferimento in ospedale. Lo stesso Cacciabue assicura “il rispetto dei protocolli previsti anche per il personale che opera con tutti i dispositivi di protezione individuale previsti e forniti dall’amministrazione”. Gli agenti di polizia penitenziaria operano infatti con camici monouso, copri-scarpe, guanti, visiera e ogni presidio necessario per evitare contagi. “Operiamo con tutte le accortezze come in ospedale, non c’è preoccupazione per la gestione di questi detenuti che sono stati confinati fa sapere il comandante della penitenziaria al San Pio X, Giuseppe Testa - la situazione tra qualche settimana verrà superata”. Ad oggi sono due gli agenti positivi al tampone ma per mansione “non sono a contatto con i detenuti e risulta che abbiano contratto il virus fuori dal carcere, quando erano in ferie” fa sapere ancora Testa. Non possono quindi aggiungersi ai positivi registrati fino a ieri pomeriggio nella struttura di reclusione e cioè 33. Cinque di questi in particolare - gli ultimi risultati positivi al tampone molecolare - erano tra i 19 che avevano avuto contatti ravvicinati con i primi 28 contagiati ma ciò nonostante erano risultati negativi. Per precauzione, così come ha spiegato Cacciabue, tutti i quarantasette detenuti sono stati isolati dalla restante popolazione carceraria in una sezione del penitenziario, e a loro volta divisi tra quelli positivi e non. Erano quindi stati avviati i protocolli sanitari tra il personale di sorveglianza, mantenendo un continuo contatto con l’azienda sanitaria locale. S.M. Capua Vetere. “Fate luce sulla morte di Renato Russo”, la richiesta di Carcere Possibile di Francesca Sabella Il Riformista, 8 gennaio 2021 “In merito alla tragica morte di Renato Russo, detenuto cardiopatico dell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, riteniamo indispensabile che tutte le istituzioni competenti operino con la doverosa sinergia al fine di fare chiarezza sulla morte di un uomo avvenuta tra le mura di in istituto di pena dello Stato”. L’appello a fare luce sulla morte del detenuto 54enne arriva dalla Onlus Carcere Possibile, l’associazione che si occupa della tutela dei diritti delle persone in cella. Renato Russo aveva 54 anni, era finito dietro le sbarre del carcere di Santa Maria Capua Vetere per due rapine messe a segno nel 2019 e gli restavano da scontare ancora due anni di reclusione. Soffriva di problemi cardiaci: a maggio e a luglio aveva avuto due infarti, motivo per il quale era stato ricoverato presso le strutture ospedaliere e poi ricondotto in carcere. Più volte i suoi problemi di salute erano finiti nero su bianco sulla scrivania del magistrato competente che per due volte aveva deciso di non concedergli la possibilità di scontare la pena a casa. Per il pm, nonostante l’aggravarsi delle sue condizioni fisiche e la minaccia del Covid che dilagava nelle carceri campane, Russo doveva continuare a vivere dietro le sbarre. Il 30 dicembre l’ultima video-telefonata ai familiari; poi, nella notte di San Silvestro, l’ultimo attacco cardiaco che non gli ha lasciato scampo nonostante i soccorsi prestati dal personale penitenziario e dal 118. Russo è morto nell’infermeria del carcere sammaritano. Secondo l’associazione Carcere Possibile sono ancora troppe le ombre sul decesso del 54enne la cui salma, nel frattempo, è stata sottoposta all’autopsia che dovrebbe contribuire a chiarire le dinamiche della vicenda. La Onlus ora chiede espressamente a tutte le istituzioni competenti di fare chiarezza e di accertare le cause dell’ennesimo dramma consumatosi all’interno di un carcere. “Dinanzi al doloroso rinnovarsi di eventi che purtroppo involgono la perdita della vita - si legge ancora nella nota diffusa dal Carcere Possibile - appare inadeguata la replica, agitata con diffuse parole in mera difesa della categoria, alle pur vibrate ma doverose richieste di accertamento dei fatti da parte di chi ha il dovere di vigilare sui diritti dei più deboli”. Il riferimento è alla polemica divampata tra l’Associazione nazionale magistrati (Anm) e garanti dei detenuti che hanno diffuso la notizia della morte di Russo sui loro canali social. “Chi ha sbagliato deve pagare il suo debito ma non a prezzo della vita - aveva scritto il garante regionale Samuele Ciambriello - Quando la politica, ora pavida e cinica, riprenderà in mano i suoi poteri e i sui doveri?”. Immediata la replica dell’Anm: “La dichiarazione getta una inaccettabile ombra di iniquità sull’operato dei magistrati perché essa non è suffragata da alcuna analisi o elemento a sostegno di quanto prospettato e non tiene conto del costante senso di responsabilità che essi adoperano nel tutelare la salute dei detenuti”. I magistrati avevano criticato anche l’eco social delle dichiarazioni di Ciambriello per via dei commenti postati da alcuni internauti. “Commenti - sono parole della giunta dell’Anm - altamente diffamatori da parte di altri utenti nei confronti dei magistrati”. Ora, però, è il momento di mettere da parte qualsiasi tipo di lite e ricordare che non si può morire di carcere in carcere: “Bisogna collaborare affinché la verità sulla morte di Renato Russo - conclude il Carcere Possibile - costituisca, oggi, l’unico comune obiettivo da perseguire, anche al fine di scongiurare il ripetersi di altri simili eventi”. Modena. Rivolta al Sant’Anna. “Carcere, per Piscitelli overdose confermata” di Emanuela Zanasi Il Resto del Carlino, 8 gennaio 2021 La procura spiega che dall’autopsia non sono risultati segni di violenza. Nessun segno di percosse sul corpo di Salvatore Piscitelli. L’esame autoptico conferma la morte per overdose per il detenuto 40enne originario di Saronno, tra le vittime della violenta rivolta scoppiata lo scorso 8 marzo all’interno del carcere Sant’Anna. Il fascicolo per omicidio colposo aperto a Modena verrà presto trasferito alla procura di Ascoli Piceno per competenza territoriale. È infatti nel carcere del comune marchigiano dove era stato trasferito nelle ore concitate della rivolta che Sasà ha trovato la morte. Sul decesso, ha ribadito ieri il procuratore Giuseppe Di Giorgio, ci sono ancora diversi punti da chiarire, alcune incongruenze tra le testimonianze depositate in procura e l’esito dell’autopsia. Testimonianze contenute in un esposto firmato da cinque detenuti presenti nel carcere modenese quella tragica giornata e sentiti poco prima di Natale in procura a Modena come persone informate sui fatti. Racconti che, se dovessero trovare conferma, dipingerebbero uno scenario sconvolgente. “Emetteva versi lancinanti: è stato chiesto più volte l’intervento di un medico ma non è stato fatto nulla - hanno dichiarato nell’esposto - quella mattina la risposta è stata: ‘Fatelo morire’. Verso le 10, 10.20 dopo diversi solleciti furono avvisati gli agenti che Salvatore era nel letto, freddo. Piscitelli era morto. Eppure hanno scritto che è deceduto in ospedale”. Ma le procure di Modena ed Ascoli vogliono andare a fondo nella questione, dissipare una volta per tutte la nebbia intorno alla morte di Piscitelli sulla quale gravano ipotesi pesantissime quali le percosse, circostanza però questa che verrebbe scalzata dall’esito dell’autopsia, o una sottovalutazione delle sue condizioni fisiche. Unico punto fermo per la procura l’esito dell’esame autoptico effettuato sul corpo di Piscitelli che, come per gli altri decessi, ‘parlerebbe’ di morte conseguente ad un’overdose. Overdose dovuta a quell’ingestione massiccia di metadone dopo che i detenuti, nel corso della rivolta, saccheggiarono la farmacia del Sant’Anna. A seguito di quella tragica giornata trovarono la morte nove detenuti, cinque all’interno del carcere modenese e quattro durante e dopo il trasferimento in altri penitenziari. Napoli. “Gli avvocati non sono complici dei loro clienti. Basta con le banalizzazioni” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 gennaio 2021 Il diritto di difesa è sempre di più sotto attacco, come vi raccontiamo spesso dalle colonne di questo giornale. Ieri abbiamo scritto di una conversazione tra avvocato e indagato intercettata e addirittura trascritta. Oggi, invece, è la volta degli avvocati accusati di difendere imputati di gravi reati, come se a difendere un mafioso si diventasse mafiosi. La storia parte da un fatto gravissimo: Gianni Lanciato, un rider napoletano di 52 anni che aveva perso il lavoro come macellaio in un supermercato, è stato assalito, picchiato e derubato da sei ragazzi mentre in sella allo scooter della figlia consegnava cibo per guadagnare qualche manciata di euro. Alcuni degli aggressori, quattro minorenni, sono stati già fermati dalle forze dell’ordine. Il Consigliere regionale di Europa Verde, Francesco Emilio Borrelli, che da tempo si spende a favore delle tutele dei rider, ha condiviso un video su Facebook, in cui tra l’altro ha tacciato gli avvocati di connivenza con i criminali. Il video è stato rimosso ma la testata Stylo24. it ha riportato uno stralcio delle dichiarazioni: “Noi siamo un’altra Napoli, ma c’è un pezzo della nostra popolazione, anche colletti bianchi e gente altolocata, fior fiore di avvocati penalisti che si sono arricchiti grazie al fatto che sono diventati esperti nel difendere, sostenere e muoversi a favore dei camorristi”. Immediata è arrivata la reazione della Camera Penale di Napoli che in un lungo comunicato della Giunta ha espresso “profondo sconcerto per i rozzi ed incolti concetti espressi dal Consigliere Borrelli. Utilizziamo non a caso la parola “sconcerto”, poiché nei circa 30 minuti di girato il consigliere riesce a polverizzare quasi tutti i principi costituzionali su cui si fonda la nostra Repubblica”. A partire da quello del diritto di difesa: “La funzione dell’avvocato è quella di difendere i singoli soggetti imputati - si legge sempre nella nota - e non i fenomeni criminali. È quella di far rispettare le leggi, quella di tutelare il singolo imputato - innocente o colpevole che sia - dalla forza di un apparato statale mastodontico che finirebbe per stritolarlo in assenza del corretto esercizio della difesa”. In altri termini, “compito del penalista è quello di porsi quale strenuo difensore della Carta Costituzionale nel momento di maggior frizione tra i diritti dell’individuo e gli interessi dello Stato. È un ruolo di cui siamo fieri e rispetto al quale non abbiamo intenzione di cedere neppure di un millimetro”, conclude il comunicato. La dura reazione nasce dal fatto che per l’ennesima volta, non solo a Napoli, gli avvocati vengano accusati di difendere presunti pericolosi criminali, additati come nemici della società, e vengano fatti coincidere con il presunto reato commesso dai loro clienti: “Questa sorta di erronea ed intollerabile equiparazione - ci dice l’avvocato Marco Campora, neo eletto Presidente dei penalisti napoletani è frutto probabilmente di una concezione giustizialista e populista che noi ovviamente respingiamo fortemente. Noi ci appelliamo ad un senso di responsabilità politica, perché la politica deve cessare di cercare facili consensi e dovrebbe comprendere che il garantismo è un principio cardine della democrazia e sorregge gli equilibri sociali a partire dal rispetto della dignità dei cittadini”. Per il presidente Campora, l’anticorpo a fenomeni quali il populismo giudiziario e il panpenalismo “è sicuramente una rivoluzione culturale: bisogna capire che la richiesta di aumento delle pene e di ulteriori ipotesi di reato non risolve il problema; in termini di repressione le forze dell’ordine e la magistratura napoletana negli ultimi vent’anni hanno fatto tantissimo. Ciò che è mancato è proprio una attività di prevenzione insieme, ad esempio, a investimenti di politiche giovanili. E non bisogna scordarsi della scolarizzazione”. Al momento nessuna scusa, nessuna reazione da parte di Borrelli alla reazione della Camera Penale: “Ci auguriamo che le scuse arrivino a stretto giro. Le scuse dovrebbero essere rivolte non solo alla nostra categoria, ma a tutte quelle che sono state offese in maniera così generica in quel video in cui il consigliere fa un distinguo tra la ‘città buona’ e la ‘città cattiva’”. Il problema, per l’avvocato Campora, è quindi “sociologico e politico: troppo semplice scagliarsi contro una serie di categorie segnate dalla bassa scolarizzazione, dalla povertà, dalla mancanza di prospettive e associarle alla criminalità senza prendere atto delle inadempienze da parte della politica che non è stata in grado di attuare una serie di principi costituzionali, tra cui quello dell’articolo 3”. Padova. Polemiche per il permesso premio ad Alberto Savi di Ivan Grozny Compasso padovaoggi.it, 8 gennaio 2021 Dal carcere: “Lo prevede la Costituzione. Nessun uomo è il suo reato”. Savi sta scontando l’ergastolo a Padova. Rossella Favero della Cooperativa Altracittà: “Dopo venticinque anni non solo ha fatto un percorso personale, che ha scelto, seguito da persone esperte e competenti, ma ha pure fatto un percorso carcerario”. Polemiche per un nuovo permesso premio concesso per Natale ad Alberto Savi, fratello minore di Roberto e Fabio, i tre della tristemente famosa “Banda della Uno Bianca”. Savi sta scontando l’ergastolo a Padova, detenuto presso il carcere Due Palazzi. “Sono anni che va in permesso, non è mica la prima volta. Ormai è diventata una cosa normale, lui ha fatto più di venticinque anni di carcere e può usufruire di questi benefici. Poi lui è una persona molto discreta che agisce in modo da non finire nelle cronache, poi però ci finisce senza motivo”. Rossella Favero è la responsabile del progetto ‘AbitareRistretti’, della Cooperativa Altracittà. L’abbiamo contattata per sentire che ne pensa del can can che ha scatenato questa notizia, lei che Alberto Savi lo conosce molto bene. Per i familiari delle vittime ogni volta che si parla di permessi ai Savi è una ferita che si riapre. “Dopo venticinque anni non solo ha fatto un percorso personale, che ha scelto, seguito da persone esperte e competenti, ma ha pure fatto un percorso carcerario. La persona, lo dobbiamo ricordare sempre, non è il suo reato. Io molto laicamente credo nel buono delle persone e sono certa che si può lavorare attorno a questo. E lo dico confortata dalla legge”. Uno Bianca - Negli anni tra il 1987 al 1994 quelli della Uno Bianca, capeggiata dal maggiore dei fratelli Savi, Roberto, compiono più di 100 rapine e almeno 24 omicidi. Tra le loro vittime anche i tre carabinieri che svolgevano il loro servizio di pattuglia. Vennero trucidati dalla banda: uccisi sotto il fuoco pesante delle mitragliette, rimasero sul terreno Andrea Moneta, Mauro Mitilini, Otello Stefanini. Era 4 gennaio del 1991, trent’anni fa. “È evidente - evidenzia Rossella Favero - che quando cade questo anniversario siamo consapevoli di cosa rappresenti questa data”. La vicenda giudiziaria della banda della Uno bianca è stata chiusa dalle sentenze definitive che hanno condannato i tre fratelli Savi e gli altri componenti, Marino Occhipinti all’ergastolo e Gugliotta a 18 anni. Vallicelli patteggiò 3 anni e 8 mesi. Dolore - E col dolore delle vittime come si fa, chiediamo a Rossella Favero: “I familiari delle vittime hanno diritto al rispetto ed è il primo sentimento che abbiamo quando parliamo di persone che hanno commesso dei reati. Il primo pensiero non può che andare sempre a loro. Ma la Costituzione prevede, all’articolo 27, la rieducazione, la possibilità per il condannato di fare un percorso nuovo. Sulla base della legge si agisce, poi è chiaro che ci possono essere dei punti di vista diversi”. Rossella Favero usa spesso il termine sobrio quando parla di Alberto Savi e non possiamo non farlo notare visto che le azioni della Uno Bianca erano di quanto più efferato si è visto negli ultimi trent’anni nel nostro Paese: “Alberto Savi non si vuole mettere in mostra, non rivendica nulla di strano, infatti non ha mai fatto nulla di eclatante da quando è detenuto. Quando dico che Alberto Savi è una persona sobria lo dico in questo senso, il suo è un atteggiamento di sobrietà proprio per il rispetto per le vittime che ha procurato. Alberto al contrario di altri, come ad esempio i fratelli, non fa nulla per attirare l’attenzione su di sé. È consapevole, molto consapevole del dolore che ha procurato. Se lo porterà dentro per sempre. Sobrio in questo senso”. Fratelli Savi - Ha ancora rapporti con i due fratelli, i veri leader della banda? “Lui non ha più, da anni, nessun rapporto con i fratelli. Questo lo posso dire con certezza. Ci sono però cose delle cose private, i percorsi di presa di coscienza che sono riservati. Quindi non posso certo dire molto di più”. L’ex poliziotto dal 2017 può usufruire di permessi, regolarmente, mentre gli altri due Savi, i capi del gruppo, Fabio e Roberto, anch’essi ex poliziotti, sono in carcere a Bollate (Milano) e attualmente non godono di nessun beneficio. “Alberto ha prima lavorato per qualche anno al call center della cooperativa Giotto, poi è entrato nel laboratorio di digitalizzazione. Ha seguito molta formazione in questo campo, ma ora, a causa del Covid sta lavorando come operaio perché molti laboratori sono fermi. È fondamentale il rispetto per le vittime, ma l’uomo non è il suo reato, e vale anche per chi ha commesso atti terribili. Noi lavoriamo per far emergere cosa c’è di positivo nelle persone. Ovviamente la persona ci deve mettere la sua volontà e la sua coscienza. Tutte le cooperative sociali che operano all’interno del carcere hanno questo intento, infatti andiamo molto d’accordo ed è facile cooperare”. Media e Covid - Ultimamente si è parlato di carcere di Padova solo per i suoi “detenuti eccellenti”, prima Donato Bilancio e ora appunto Alberto Savi: “La stampa generalmente quando parla dei detenuti si scorda il contesto. Faccio un esempio, qualche settimana fa qualche giornale ha scritto che Alberto, come Donato Bilancia che poi è morto, era positivo al covid. Alberto era semplicemente in isolamento, ma non è mai stato positivo al Covid. Mi è spiaciuto perché si è persa l’occasione di parlare di come il carcere ha reagito al Covid e di questo invece ci sarebbe eccome da discutere. Io sono arrabbiata su come si sta gestendo in carcere questa emergenza. Magari ne parliamo un’altra volta”. Lo prendiamo come un impegno anche se insistiamo sul fatto che certe figure hanno un richiamo diverso: “È chiaro che ci sono dei detenuti su cui si concentra l’attenzione dei media. Bisogna distinguere tra la morbosità e la ricerca della verità”. Nessun manovratore o complotto - Lei che idea si è fatta della vicenda? Si è parlato di depistaggi e di tante strane cose in questi anni: “Io non sono un’esperta dei reati della Uno Bianca ma la mia impressione è che chi pensa a complotti dietro a questa vicenda, sbaglia. I motivi probabilmente sono meno complessi di quanto si pensi, ed è per questo secondo me è ancora più terribile quanto avvenuto. La vicenda della Uno Bianca, l’ho sempre detto ad Alberto, è una di quelle storie con cui si fa fatica a fare pace, proprio per l’efferatezza insensata. Questo mi viene da dire ma non mi faccia aggiungere altro”. Salerno. “Aiuti a detenuti e famiglie: ora intervenga il Comune” La Città di Salerno, 8 gennaio 2021 Continua il digiuno “di dialogo e proposta” di Donato Salzano, militante del Partito Radicale. L’iniziativa è legata ai ristori e sostegni al reddito previsti dal decreto del Governo e le iniziative intraprese dal Comune in favore delle famiglie n salernitane che vivono in difficoltà economiche a causa della crisi economica provocata dal Covid. Ebbene, secondo Salzano, queste iniziative avrebbero completamente ignorato ed escluso da ogni benefit la popolazione carceraria di Fuorni e tanti salernitani “a causa della manca riapertura dei termini” delle domande di adesione. “Ci preoccupa tantissimo il Covid che si sta diffondendo oramai velocemente soprattutto nelle comunità Penitenziarie e nella nostra di Fuorni - sottolinea Salzano in una sua nota - Tanto che, nonostante Rita Bernardini abbia condotto per oltre un mese uno sciopero della fame di dialogo e proposta insieme a miglia e miglia di detenuti e i loro familiari, ai militanti del Partito Radicale, purtroppo da allora nulla è cambiato, neanche dopo la lettera al Presidente della Repubblica e l’incontro con il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che in seguito ha anche prontamente fatto visita al carcere di Regina Coeli”. “Siamo certi per di più - aggiunge il militante radicale - che in questo momento terribile, i detenuti a Fuorni e le loro famiglie residenti non siano neanche stati ristorati con i buoni spesa di cui pur avrebbero tanto bisogno, come la manna dal cielo in questo periodo di restrizioni da Covid (da tempo non possono ricevere più né pacchi e né visite dei familiari)”. Da qui lo sciopero del digiuno per chiedere che anche i consiglieri comunali di facciano carico del problema chiamando in causa l’Amministrazione e il sindaco Napoli. Alessandria. La rieducazione del detenuto e l’economia circolare ilpiccolo.net, 8 gennaio 2021 Andrea Ferrari, di Ises: “Impiegare i detenuti restituisce loro dignità e autonomia”. Idee in Fuga è una cooperativa sociale attiva nell’istituto penitenziario Cantiello e Gaeta di Alessandria per creare lavoro per i detenuti, sostenere diverse realtà sociali del territorio e sviluppa idee a favore del terzo settore promuovendone la sostenibilità. Fuga di Sapori è la prima bottega solidale in un carcere italiano: espone e vende produzioni di Economia Carceraria. Il progetto è nato per promuovere i prodotti di economia carceraria e dare vita a nuove collaborazioni con realtà che producono in diverse carceri italiane e fare emergere quanto di buono viene prodotto. “Il punto di partenza è stato il progetto Social Wood - dice Andrea Ferrari, presidente di Associazione Ises - che ha permesso di creare all’interno della casa circondariale “Cantiello e Gaeta” un laboratorio artigianale di falegnameria per la produzione di mobili e accessori di arredamento realizzati principalmente con materiali riciclati, per poi specializzarsi in packaging in legno per aziende vinicole e birricole attente al made in Italy sociale. Il laboratorio artigianale coinvolge e impiega i detenuti restituendo loro dignità e autonomia, il tutto nel pieno rispetto dell’ambiente”. Il progetto raccoglie due importanti sfide della società moderna: la rieducazione del detenuto, come sancito dall’articolo 27 della Costituzione, e i principi di economia circolare. Social Wood è stato l’incipit di un progetto più ambizioso e strutturato che ha portato alla creazione della cooperativa sociale Idee in Fuga. Molta attenzione è data alla sostenibilità e al lavoro in rete con altri enti del terzo settore: “Crediamo infatti che i progetti sociali debbano autosostenersi e sviluppare profonde sinergie tra tutti gli enti che operano con spirito sociale e di solidarietà. Grazie a questa vision, sono nate collaborazioni importanti con cooperative operanti nelle varie carceri italiane. I frutti di tali collaborazioni sono disponibili nella prima bottega in carcere d’Italia, ovvero un luogo dove tutte le produzioni sociali, a partire dalle produzioni di economia carceraria, trovano spazio, visibilità e promozione”. “Sono molte le collaborazioni tra Idee in Fuga e i vari Istituti italiani - aggiunge Dolores Forgione di Idee in Fuga -, - produzioni di Pozzuoli, Palermo, Mantova, Siracusa, Sant’Angelo dei Lombardi, Busto Arsizio, Aosta, Sondrio, Venezia e naturalmente i mobili di Social Wood diventano espositori: il miglior modo per creare un connubio tra le migliori produzioni sociali d’Italia”. Tutti i fondi raccolti grazie alle vendite vengono impiegati per acquistare nuovi attrezzi per la falegnameria, la formazione e il lavoro dei detenuti, offrendo loro una concreta possibilità di reinserimento lavorativo a fine pena, ma dando spazio ai vari progetti promuoviamo direttamente le attività sociali dei nostri partner, creando quindi un effetto moltiplicatore in tutta Italia, partendo da Alessandria. Bologna. Il problema dei “bambini detenuti”: seminario di approfondimento di Sonia Basso cronacabianca.eu, 8 gennaio 2021 Sono dieci le madri che nel 2020 hanno scontato periodi di detenzione in strutture carcerarie della regione con al seguito i propri bambini. Quello dei bambini costretti a “vivere” assieme alla mamma periodi più o meno lunghi della loro vita “dietro le sbarre” è un problema ancora irrisolto. Il tema verrà approfondito in un seminario online in programma il prossimo 13 gennaio (dalle ore 14.30). Nel 2020 in regione ci sono stati casi di “bambini detenuti” anche per oltre 30 giorni, mentre nel 2019 si è arrivati anche a 10 mesi. Diventa quindi fondamentale ricercare soluzioni alternative e centrale è l’apporto delle case famiglia per fornire un contributo al benessere delle bambine e dei bambini e cancellare questa distorsione del sistema. L’evento sarà online su piattaforma Teams, per l’iscrizione si deve inviare una mail all’indirizzo di posta elettronica formazione.garantedetenuti@ovile.coop. Al webinar parteciperanno la presidente dell’Assemblea legislativa regionale, Emma Petitti, la garante regionale dell’infanzia e dell’adolescenza, Clede Maria Garavini, il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale, Marcello Marighelli, e il provveditore dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e delle Marche, Gloria Manzelli. In collegamento anche Antonio Pappalardo del Centro giustizia minorile di Bologna, il garante piemontese delle persone detenute, Bruno Mellano, la docente di diritto processuale penale dell’Università di Torino, Giulia Mantovani, e il segretario generale della cassa delle ammende (ministero della Giustizia), Sonia Specchia. Al termine del seminario le riflessioni della vicepresidente della Regione Emilia-Romagna, anche assessora al Contrasto delle diseguaglianze, Elly Schlein. Sempre dalla parte del torto, in nome della vera giustizia di Andrea Pugiotto Il Riformista, 8 gennaio 2021 Cento anni fa nasceva Leonardo Sciascia: le sue idee, il suo stile, il suo lascito. La sua parola è cristallina, setacciata da inutili eccessi. Persegue un ideale di semplicità inteso come complessità risolta. Eretico come Pasolini, sempre controcorrente, inseguì nei suoi scritti e in politica la volontà di ricondurre la società sulla retta via del diritto. Osteggiato per questo dalla sinistra storica, proseguì la sua battaglia nei radicali. Il tempo gli ha dato ragione. 1. Cent’anni fa, oggi, nasceva Leonardo Sciascia. Pare ancora di vederlo: “Piccolo, fragile, tenebroso, la fronte ampia e il viso pallido perennemente avvolti dal fumo delle sigarette, Sciascia parlava poco, preferiva soprattutto ascoltare. Aveva il passo incerto e portava il bastone, a segnalare il vezzo di un precoce, compiaciuto, invecchiamento. Quando Nisticò [il direttore de L’Ora di Palermo], fulminato da una sua osservazione, gli chiedeva un pezzo, non rispondeva subito: ci pensava e si presentava la mattina dopo, tirando fuori dalla tasca della giacca due fogli piegati in quattro. “Spero possa andare bene”, diceva (Marcello Sorgi, Le sconfitte non contano, Rizzali, 2013). Impossibile ripercorrerne le opere e i giorni nello spazio di un articolo di giornale. Meglio optare per una chiave narrativa: Gioacchino Criaco ne ha parlato muovendo dalla sua sicilianità (Il Riformista, 5 gennaio), Valter Vecellio attraverso coinvolgenti testimonianze (II Riformista, 6 e 7 gennaio); qui interessa la relazione profonda, quasi fusionale, tra il tema della legalità e la scrittura sciasciana. 2. Parto dalla sua cifra stilistica: la parola di Sciascia è cristallina, setacciata da inutili eccessi, cesellata fino al dettaglio. d’ispirazione volterriana: “Questo modello di scrittore, chiaro, svelto, conciso, intelligente, sintetico, ironico: ecco tutto ciò che per me rappresenta la chiave della scrittura e del vero mestiere” (cosi nell’intervista di Marcelle Padovani, La Sicilia come metafore Mondadori, 1979). Le sue pagine hanno una struttura sintattica modernissima a vocazione cinematografica. trasposte spesso in celluloide: Porte Aperte di Gianni Aurelio, Il giorno della civetta di Damiano Damiani, A ciascuno il suo e Todo modo di Elio Petri, Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi (tratto da II contesto), Il Consiglio d’Egitto e Una storia semplice per la regia di Emidio Greco. A riassumere la scrittura di Sciascia basta una parola: semplicità, intesa come complessità risolta. Non a caso, “Le cose sono sempre semplici” ripete il protagonista di Candido. Non a caso, Una storia semplice è il titolo del suo ultimo romanzo. 3. Non è solo un fatto stilistico: in Sciascia, forma e sostanza sono consorti. Lo rivela un inciso de La strego e il capitano, dove rende omaggio al Manzoni della Colonna infame, “alla quale mai ci stancheremo di rimandare il lettore, e per tante ragioni: che sono poi quelle per cui scriviamo e per come scriviamo”. Questo è il punto: per Sciascia conta non solo cosa dici, ma come lo dici. Nominare appropriatamente le cose, infatti, significa generarle, rendendole intellegibili, in una rinnovata mimesi laica della biblica Genesi. Sta qui, in questa capacità creativa, la responsabilità etica dello scrivere. Dovrebbe valere a maggior ragione per il linguaggio giuridico, massimamente prescrittivo. Eppure non accade spesso. In tema di delitti e castighi, c’è però una norma costituzionale che sembra scritta da Sciascia: è l’art. 27, 4° comma, riformulato nel 2007, a tenore del quale “non è ammessa la pena di morte”. Riforma epocale, come ho già argomentato su queste pagine (Il Riformista, 2 gennaio), che fa finalmente dell’Italia un Paese incondizionatamente abolizionista. Sciascia redivivo l’avrebbe certamente apprezzata, convinto com’era che “la pena di morte non ha niente a che fare con la legge: è un consacrarsi al delitto, un consacrare il delitto” (Il cavaliere e la morte). Cosi come per il giudice a latere protagonista di Porte aperte, “è un principio di tale forza, quello contro la pena di morte, che si può essere certi di essere nel giusto anche se si resta soli a sostenerlo”. 4. Diceva di sé Leonardo Sciascia: “Io non ho il senso dell’opportunità”. Un’autentica anomalia in un Paese dov’è invece sviluppatissimo, fino all’opportunismo. La sua ereticità (com’è accaduto anche a Pier Paolo Pasolini) ne ha fatto uno degli intellettuali più divisivi in vita, salvo poi - post mortem - essere trasversalmente e universalmente apprezzato. Eppure, ripensando allo Sciascia polemista, spesso la ragione stava dalla sua parte. Vale per la tesi - esposta ne “Il giorno della civetta”, pubblicato nel 1961 - secondo cui per scoprire le connivenze mafiose è necessario per gli inquirenti seguire l’odore dei soldi, indagando il tenore di vita dei sospetti: “Sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso”. Vale anche per le principali ipotesi de L’affaire Moro: la tesi dell’autenticità delle lettere di Aldo Moro, dichiarate “false” con tombale sicurezza anche dai suoi amici. Quanto alle ipotesi investigative formulate da Sciascia, l’incredibile ritrovamento del memoriale di Moro avvenuto nel 1990 farà scrivere ad Adriano Sofri (L’ombra di Moro, Sellerio, 1991) che “naturalmente, le nuove puntate superano le immaginazioni più romanzesche, e davanti al pannello scoperchiato di via Monte Nevoso sembra di vedere, appena più appoggiato a un suo bel bastone dal pomo d’argento, Leonardo Sciascia che non aveva resistito, neanche da lì, alla deliziata tentazione di un sopralluogo”. Infine, pensando agli effetti di sistema prodotti dall’assassinio dello statista democristiano, come non definire profetica la citazione di Elias Canetti posta in esergo al libro: “La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto “al momento giusto”. 5. Dalla parte del torto non era Sciascia neppure quando fumò per il Corriere della Sera, il 10 gennaio 1987, l’articolo sui professionisti dell’antimafia. Esecrato come un attacco al sindaco di Palermo Orlando e al procuratore di Marsala Borsellino, era invece una preveggente denuncia di quel moralismo giustizialista che, oggi, è all’ordine del giorno: gli indignali di professione che fanno della lotta in nome delle vittime la cifra della propria carriera; l’unanimismo anti-mafioso - costi costituzionalmente quel che costi - che espelle il dissenso ed esenta da ogni critica razionale; l’affermazione - scriveva Sciascia - di una “cultura delle manette” alimentata dalla “cultura dell’indiscrezione” che salda insieme uffici giudiziari e testate giornalistiche. Eppure, nella polemica che ne segui, Sciascia fu appellato come un “quaquaraquà”, dispregiativo che il capo cosca don Mariano usa nel dialogo con il capitano Bellodi sulle cinque categorie in cui classificare l’umanità (Il giorno della civetta). Detto altrimenti, gli alfieri della retorica dell’antimafia adoperarono un appellativo mafioso contro chi anti-mafioso lo era da sempre, e ben prima di loro. Ora come allora, è la regola nella meschina polemica politico-giudiziaria italiana, dove non conta l’argomentazione ma solo la delegittimazione dell’interlocutore. 6. Non è vero, infatti, che il fine giustifica i mezzi, neppure nella lotta alla criminalità organizzata. Lo aveva ben chiaro Sciascia, che della legalità faceva una religione laica, contrapponendola al “sentire mafioso: cioè di un modo di realizzare la giustizia, di amministrarla, al di fuori delle leggi e degli organi dello Stato” (Il giorno della civetta). Ben sapendo - come il capitano Bellodi - che è inutile, oltre che pericoloso, vagheggiare una sospensione di diritti costituzionali: “Sorse, improvvisa, la collera. Il capitano senti l’angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti”. Per difenderci dal “diritto di inquisire” (Candido) abbiamo solo la Costituzione come freno al potere. Quando, invece, l’eccezione si fa regola in nome dell’emergenza, e l’emergenza si fa quotidiana, è allora che i mezzi straordinari prefigurano fini dissimulati. E allora - come suggerisce il sostituto Vice, protagonista de “Il cavaliere e la morte” - che “si può sospettare che esista una segreta carta costituzionale che al primo articolo reciti: a sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini”. 7. La presa di distanza dalla sinistra storica e l’impegno parlamentare tra le fila dei Radicali disorientò molti dei suoi amici, ai quali Sciascia rispose lapidarie “Contraddissi e mi contraddissi”. Invero, autenticamente radicali erano molte delle sue convinzioni: l’immutabilità dell’eterno fascismo italiano, l’angoscia provocata dalla macchina giudiziaria se guidata fuori dalle regole dello Stato di diritto, l’avversione al potere che “è sempre altrove”, il culto per la memoria collettiva. C’è una bella fotografia, scattata nel momento in cui Marco Pannella dice a Sciascia, nella sua casa palermitana, che i Radicali non hanno più il colpo in canna per sparare sulla dinamite che hanno accumulato: la sua candidatura può essere quel colpo. Sciascia si prende qualche minuto per decidere, fuma una sigaretta in silenzio, poi risponde parafrasando il Vangelo: “Hai bussato perché sapevi che era già aperto” (Valter Vecellio, Leonardo Sciascia. La politica, il coraggio della solitudine, Ponte Sisto, 2019). Capolista alla Camera ed al Parlamento europeo nelle elezioni del 1979, verrà eletto ad entrambi (anche con il mio voto), optando poi per Montecitorio. Sarà un’esperienza feconda: Sciascia, infatti, ha lasciato tracce profonde negli atti parlamentari (ben selezionati da Lanfranco Palazzolo, Leonardo Sciascia deputato radicale, 1979-1983, Kaos Edizioni, 2004). Impressiona la cifra di tale materiale. Come ricorda Marco Boato, all’epoca deputato radicale come Sciascia: “Nell’Aula della Camera parlò pochissimo, e sempre con interventi di pochi minuti, che leggeva con voce lenta e roca, dopo averli preparati con scrittura minuta e minuziosa su pochi foglietti. Lui sembrava voler passare alla storia come il recordman della brevità, dell’icasticità di parole brevi e quasi scolpite sulla pietra. Appena aveva terminato di parlare, lo pregavo di lasciarmi quei pochi foglietti appena letti nel silenzio più assoluto, caso rarissimo nella vita quotidiana della Camera” (Andrea Camilleri, Un onorevole siciliano, Bompiani, 2009). Finivano pubblicati, quei foglietti, come editoriali di Lotta continua. 8. Da tutti questi punti di vista, il confronto con il presente è davvero mortificante e demoralizzante. Leonardo Sciascia ha avuto una centralità nello spazio pubblico oggi impossibile, semplicemente perché intellettuali di pari levatura non esistono più. Anche in tale assenza risiede una delle cause del declino del Paese, perché - come ebbe a dire Marco Pannella, congedandosi dalla vita - “quando te ne vai, bisogna vedere quanti sono coloro che fanno della tua mancanza una presenza”, per poi proseguire. “Schiavi delle milizie”, di Alpha Kaba di Domenico Quirico La Stampa, 8 gennaio 2021 Il racconto della fuga dalla Guinea attraverso l’inferno dei lager libici. Attenti! Se pensate di leggere questo libro come una autobiografia o un saggio, l’ennesimo, sulla Migrazione e sulle mestizie della Libia, rischiate di farvi male, di deglutire inutili lacrime amare. Le pagine di “Schiavi delle milizie” sono pericolose, scottano come carboni ardenti. Dovete sfogliarle stringendo i pugni, esigendo, furibondi, giustizia. Perché state strofinando un documento di accusa, le pagine di un verbale che prima o poi verrà brandito nei tribunali, quelli veri con i giudici gli avvocati le pene. Che dovranno essere tremende come i peccati da castigare. I romanzi sulla migrazione, i saggi sociologici sui migranti, le raccolte di interviste: uffa, che inutile segatura! In queste 142 pagine pubblicate da Quarup si scoperchiano le porcherie e le ipocrisie di un delitto politico, quello che hanno commesso in deliberato e perdurante concorso con la Unione europea i governi italiani che dal 2017 hanno affidato il controllo dei migranti alle milizie criminali che si ammucchiano nella Libia del dopo Gheddafi. Insomma quella che ci imboccano come la riuscita strategia italica per risolvere il problema della immigrazione. Attenzione: i criminali non sono i piccoli sgherri, i sanguinari bravacci armati di Kalashnikov e bastone che Alpha Kaba, l’autore, e i suoi compagni di sventura, purtroppo, hanno incontrato a Tripoli e dintorni. Quella è sudicia manovalanza. Parliamo degli altri. Dei registi, dei burattinai; delle anguste menzogne di chi ci assicurava che in Libia, grazie a noi, si prendevano cura dei migranti, tenendoli lontani dalla nostra vista inquieta. E in cambio di questa gran trovata chiedevano applausi e consenso elettorale. Vedete: i migranti non arrivano più, era così facile, eureka! Un abbraccione tra destra e sinistra perché la xenofobia non ha etichette ideologiche. Per questo non abbiamo bisogno di letteratura, abbiamo bisogno di prove. E Kaba, implacabile, ce le squaderna. Con la meticolosità a cui hanno diritto solo le vittime. Il libro si dovrà leggere a voce alta quando alla sbarra ci saranno ministri degli interni, presidenti del consiglio, il ciarpame dei Servizi. Ci sono le loro facce e firme sotto gli accordi e le cospicue mance alle canaglie tripoline, come ricorda Nello Scavo nella prefazione: il via libera e i trenta denari versati per sequestrare, torturare, rendere schiavi esseri umani, creare con i disprezzati “negri”‘ un libico gulag a basso costo. Il baratto criminale, questo si deve punire. Ci avete resi complici, tutti noi, di ognuno di quei delitti che Kaba racconta. Non ve lo possiamo perdonare. Dire giustizia è pronunciare una tale parola dirompente che si sussulta sempre sentendola ripetere. Quando si accantona un codice, la morale perde di assolutezza. Attendevamo Kaba, la sua scrittura semplice e densa con impazienza: prove a carico, documentate testimonianze personali, in prima persona, di chi ha subito le torture, può sollevare la camicia e mostrare alla Corte, una ad una, le piaghe delle bastonate dei colpi di fucile delle frustate delle violenze sessuali. Oh, ci proveranno, i loro avvocati, a dire che sono le solite invenzioni dei giornal-fantasisti, episodi non provati e non documentabili, accuse strumentali di altre parrocchie politiche. Ma con Kaba non funziona: questi sono fatti, luoghi, date, nomi. Un migrante come Alpha Kaba è un uomo che avanza senza meta e senza calcolo verso un fato ignoto. Il suo modello perfetto è il figliol prodigo quando si diresse verso la casa del padre. Una delle qualità più notevoli delle parole “migranti” e “migrazione” sta nella loro ampiezza semantica. Deve contenere i siriani sopravvissuti a Assad e al califfato e gli afgani che non amano le aspre virtù talebane, i relitti del jihad e della desertificazione, e chi fugge da città di sudiciume, luoghi che si decompongono, monumenti alla morte, allo squallore, al vuoto. E coloro come Alpha Kaba, che lavorava come giornalista in una piccola radio di una città senza storia della Guinea Konakry. Non è un oppositore, non sogna rivoluzioni, fa quieta cronaca di un po’ di tutto, sport, vita studentesca. Un giorno deve fuggire perché gli sgherri di Alpha Condé, il presidente, gli danno la caccia: ha semplicemente raccontato, in una diretta, che in piazza la gente ha fischiato il Benamato, la Guida, il Supremo. Ecco: uno dei mille modi con cui si diventa migranti. Si fugge con un piccolo zaino, senza piani, senza una meta. Con solo il numero di telefono di persone che forse lo potranno aiutare nel viaggio, in Algeria e in Mali. E che non risponderanno mai. La migrazione di quest’uomo diventa una metafora della vita e non solo della vita. Anche lui come Peter Pan potrà dire: “Morire sarà una grandissima avventura”. Kaba è sopravvissuto. Con il barcone è arrivato a Messina. Ora è in Francia, fa il magazziniere, vive di stenti. La moglie e i genitori intanto sono morti. Dice che è stato fortunato. Lui ha diritto ad avere giustizia. Noi abbiamo diritto ad avere giustizia. Stati Uniti. Fine del trumpismo, l’abisso evitato di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 8 gennaio 2021 L’America non è guarita, ma dovrebbe aver capito che la medicina non è la follia clinica di QAnon o le battute aberranti di Rudy Giuliani, e davanti a Capitol Hill il partito repubblicano ha visto l’abisso, e farà quasi certamente un passo indietro. Sconcerto, preoccupazione, disgusto. Perfino sollievo, alla fine. Sorpresa, no. L’assalto al Congresso degli Stati Uniti d’America non deve stupirci. Un’azione simile - assurda e provocatoria - maturava da quattro anni: da quando Donald Trump è alla Casa Bianca, dove ha fatto di tutto per dividere la nazione che avrebbe dovuto unire. Non gli è bastato. Da due mesi il presidente nega la sconfitta elettorale, ripetendo pericolose falsità. Ha citato, evocato, corteggiato i fanatici e incitato i violenti. Che, alla fine, hanno risposto. Gente che si arrampica sui muri, sfonda le finestre, spacca insegne e cartelli, si sdraia nel seggio della speaker della Camera, si porta via un leggìo come souvenir. Gente con le armi, con i caschi, con le maschere, con le corna e le pellicce, con magliette che inneggiano ad Auschwitz. Immagini che sembrano uscire da una serie televisiva distopica, ma non devono ingannare. A Washington DC è andata in onda la realtà: abbiamo assistito a un tentativo di colpo di Stato. Goffo e improbabile, forse. Ma resta un assalto alle istituzioni democratiche. Chi minimizza, diventa complice. C’è qualcosa di sacrilego, nella vicenda di cui siamo stati testimoni. E si aggiunge al numero dei morti, dei feriti, degli arresti, dei danni. Gli Stati Uniti d’America - nazione giovane, democrazia vecchia - vivono di simboli e di rituali: dal giorno del Ringraziamento al dollaro verde, dalla Casa Bianca al Congresso sulla collina. L’assalto cui abbiamo assistito è uno sfregio a questa idea di convivenza. Uno sfregio e un imbarazzo planetario: è orribile diventare lo zimbello del mondo, dopo esserne stati a lungo l’ideale. Sarebbe affascinante conoscere i commenti al Cremlino e nella Città Proibita di Pechino, mentre andavano in onda le immagini dalla capitale degli Stati Uniti d’America. C’è solo una consolazione in quanto è accaduto, ed è questa. L’epilogo shakespeariano dell’avventura presidenziale di Donald Trump - il Re Lear di Mar-a-Lago, ha scritto qualcuno - rappresenta la fine di un esperimento: quello del populismo aggressivo, condito di negazionismo e ossessioni, cullato dagli algoritmi dei social. I titani digitali non hanno aspettato di sapere se verrà invocato il XXV Emendamento, che consente di sostituire il presidente se “impossibilitato a esercitare i poteri e i doveri del suo ufficio” (unable to discharge the powers and duties of his office): hanno bloccato gli account Twitter, Facebook e Instagram di Donald Trump, per impedirgli di fare altri danni. Il presidente uscente è imperdonabile. Ma senza l’assalto al Congresso - state certi - qualcuno avrebbe provato a trovargli attenuanti. Lo stesso Trump avrebbe provato a usare la base dei sostenitori irriducibili per costruirsi un trampolino per tornare nel 2024, direttamente o per interposta figliola. Avrebbe raccolto fondi, creato un canale televisivo personale, sabotato la nuova amministrazione in ogni modo e in ogni momento. Proverà a farlo comunque? Certo. Ma quanti saranno disposti a dargli retta? Il partito repubblicano, davanti a Capitol Hill, ha visto l’abisso, e farà quasi certamente un passo indietro. Questo non significa che l’America sia guarita. Ma dovrebbe aver capito che la medicina non è la follia clinica di QAnon o le battute aberranti di Rudy Giuliani, ormai l’ombra della persona che era. Donald Trump ha chiamato “patrioti” i sovversivi e vincente se stesso, sconfitto nelle urne e dalla storia. A questo punto tutto appare chiaro, anzi cristallino: impossibile non capire chi è l’uomo e qual era il suo progetto. È finito il tempo delle giustificazioni, delle attenuanti, dei distinguo. Possiamo - anzi, dobbiamo - cercare di capire il disagio di chi si sente escluso, negli Usa e non solo. Ma guai ad accettare che il disagio autorizzi un colpo di Stato. Il trumpismo, con ogni probabilità, è finito il 6 gennaio 2021. Lo spettacolo di Donald Trump riserverà ancora qualche esibizione, nei giorni che mancano all’insediamento del successore Joe Biden e dopo aver lasciato la Casa Bianca. Ma i propositi, i metodi e i comportamenti del 45° presidente sono morti davanti alle colonne bianche del Congresso, in un pomeriggio di gennaio. Per l’America è tempo di guardare avanti. Stati Uniti. Anni di modifiche genetiche, sull’odio è nata una nazione di Roberto Zanini Il Manifesto, 8 gennaio 2021 Il mob trumpista è l’ultima tappa di un percorso, dal “consigliori” di Bush al Tea Party. E i Dem non si sono accorti di nulla, battezzando ogni fenomeno come un malessere passeggero. Sono profonde, le radici dell’odio. Perché di odio si parla, e da molto tempo. Sulla scalinata di Capitol Hill fumano le macerie di quella che una volta si chiamava politica. Invece di recitare la liturgia di una nascita, i parlamentari americani hanno celebrato un funerale. Modificare geneticamente la democrazia americana ha richiesto anni e sforzi. Anni in cui il conflitto pubblico è diventato scontro privato, l’avversario un nemico, lo scopo della battaglia non più la sconfitta di un’idea ma di un essere umano. La sua cancellazione, la sua delegittimazione. A costo di demolire, con l’uomo, anche l’istituzione che rappresenta. Donald Trump e il suo mob - termine poco traducibile che indica la folla eccitata e violenta - sono il prodotto di questi sforzi. Nel marzo del 2011 un costruttore apparentemente pieno di soldi, star di un popolare reality show, su Fox News mise la faccia a queste parole: “Lui non ha un certificato di nascita. Può darsi che ne abbia uno ma c’è qualcosa sopra, forse il fatto che è musulmano, non saprei”. Lui era Barack Obama, 44esimo presidente degli Stati uniti. E Donald Trump si era appena iscritto ai birther, termine spregiativo che definiva i partecipanti alla prima moderna campagna di odio politico americano: i credenti alla nascita di Obama in Kenya, cosa che lo avrebbe reso ineleggibile. Circolava da anni, questa panzana. Sembrava niente. Forse era il primo passo di tutto. Certo, odiatori professionisti si erano già presentati. Ancora oggi nominare Roosevelt nel profondo Sud è un modo sicuro di farsi cacciare di casa. E negli anni 90 i Clinton avevano scatenato lampi dello stesso eccesso: il piccolo balsero Elian Gonzalez restituito all’odiata Cuba, il suicidio del consulente finanziario di famiglia, l’investitura di Hillary a responsabile della riforma sanitaria - la (mala)femmina intrigante che suborna il marito… Ma erano ancora ingigantimenti, trattati da giornali e tv non ancora travolti dai social media e dalla loro inaudita capacità di produrre fake news. Poi arrivò il Tea Party. Nato nel 2009 per tenere il governo alla larga dall’economia e per evadere in santa pace le tasse, il flessibile movimento capital-conservatore in qualche anno portò il conflitto al limite dell’odio puro. E con i Tea Parties si aggiunsero alla partita due rivoluzionari misconosciuti, i fratelli David e Charles Koch. A capo di un conglomerato da 100 miliardi di dollari l’anno, i Koch misero un’inesauribile fortuna al servizio della loro destra: controllo limitato delle corporations, ovvio, guerra alle limitazioni ambientali (grazie a loro il climate change è diventato un’opinione), ricorso continuo alla tensione. Con mezzo miliardo di dollari il Tea Party riconquistò il Congresso nel 2010 e i repubblicani riconquistarono il Senato nel 2014. Ma soprattutto i Koch trasformarono il finanziamento della politica in un opaco groviglio, e a un livello da cui non sarebbe più sceso. Anche George W. Bush e Dick Cheney avevano terrorizzato gli Stati uniti con inesistenti armi di distruzione di massa, ma il loro non era ancora lo stato di tensione permanente in cui vive oggi la politica americana. E il genio del male si chiamava Karl Rove, il consigliori che fece vincere Bush jr intasando i seggi di referendum di destra (contro aborto, marijuana, immigrazione…) per attirare i conservatori renitenti - sciocchezze rispetto all’eversione manifesta di oggi. Il partito democratico non si è accorto di nulla, salvando banchieri falliti e aggravando le diseguaglianze, celebrando la vittoria di Obama e un po’ di sanità pubblica ma battezzando ogni fenomeno come malessere passeggero. Invece era la nascita di una nazione. Arruolatosi tra i birther, Trump scopre la delegittimazione e non si fermerà più. La prima volta nemmeno corre, appoggerà Mitt Romney. La seconda volta scopre che più grosse le spara, più consensi raccoglie. L’essenziale è avere un grosso network alle spalle - e Fox coopera con entusiasmo. Consumarsi le dita su Twitter è il tocco finale. Qualche mese prima di novembre comincia a parlare di brogli: lo slittamento della politica a esercizio di delegittimazione si è compiuto. Certo, c’è da delegittimare un’elezione… Il mob che ha travolto il Campidoglio arriva da qui. Nessun “sacro teppismo di eletta tradizione risorgimentale”, per usare le parole di Pasolini. Per un intero anno il dipartimento della Homeland security proverà a convincere Trump a indagare sul terrorismo interno e sulle milizie Proud Boys, Bogaloo, Three Percenters e le altre: inutile, il fatto è che erano già suoi. La chiamata alle armi dei mobster è stata fatta martedì mattina ma i preparativi erano apertamente in corso. Se Reddit chiude un forum, se ne apre un altro chiamato TheDonald in cui l’ordine è “Storm the Capitol”. In chat su Telegram, sul sito di Parler, su ogni nicchia di ultradestra la truppa trumpista si è data appuntamento, ha raccomandato “equipaggiamento (“carabina, fucile a pompa, coltelli e quante più munizioni”), ha indicato nemici (“appendiamo Pence”), cioè chiunque abbia tradito Trump o l’America, che è lo stesso. Lunedì la polizia di Washington aveva arrestato il leader 31enne dei Proud Boys, Enrique Tarrio, ma i suoi sodali hanno salito la scalinata indisturbati. Contro di loro 340 soldati della Guardia nazionale, dei 2.700 effettivi. Per affrontare gli incendiari antipatriottici di Black Lives Matter, in giugno Trump aveva voluto a Washington 5mila soldati, che avevano efficientemente gassato e manganellato a più non posso quando il presidente volle farsi qualche foto davanti a una chiesa, Bibbia in mano. Mentre il Campidoglio veniva invaso, deputati e senatori si sono buttati sotto i banchi e poi sono fuggiti tutti. Nel 1981, quando il colonnello Tejero entrò sparando alle Cortes spagnole, in tre rimasero fermi ai loro posti. Adolfo Suarez era un vecchio democristiano, Santiago Carrillo un vecchio comunista, Gutierrez Mellado un vecchio generale. In qualche caso i politici si delegittimano da soli. Gran Bretagna, i Lord contro l’uso dei bambini come spie di Enrico Franceschini La Repubblica, 8 gennaio 2021 All’esame dei Comuni una legge che regolamenta e allarga l’utilizzo di minorenni in operazioni “coperte” contro prostituzione, traffico di droga e gang giovanili. I membri della Camea alta hanno già annunciato opposizione, insieme a molte ong per la protezione dei diritti dell’infanzia. Bambini usati come spie. Non è un gioco di società ispirato dai film di James Bond. È una legge in discussione al Parlamento britannico, che permette a una ventina di agenzie governative di utilizzare minorenni come informatori per combattere traffico di droga, abusi sessuali e gang giovanili. Un’iniziativa contro cui combattono da anni le associazioni per la difesa dei diritti umani dell’infanzia, ma che per ora continua ad andare avanti. La pratica di ricorrere a ragazzi di 16 anni o anche più giovani per infiltrare organizzazioni criminali è in realtà già in uso in Gran Bretagna. Ma il Covert Intelligence Bill, come si chiama il provvedimento all’esame della Camera dei Comuni, la regolamenta ulteriormente allargandone l’uso a varie branche delle forze dell’ordine e delle agenzie di antiterrorismo. La nuova legislazione si occupa di tutte le attività “sotto copertura”, dunque basate su infiltrati, informatori e spie. E in tale ambito la guida pubblicata nei giorni scorsi dal governo, come scrive stamane il Daily Telegraph, conferma che l’utilizzo di persone al di sotto dei 18 anni verrebbe considerato legale per operazioni di questo tipo. La Camera dei Lord ha già annunciato una strenua opposizione alla risoluzione, che anche se approvata dalla Camera bassa porterà perciò a un “ping-pong” legislativo, come si dice in gergo, alla ricerca di un compromesso. I deputati dei Comuni hanno l’ultima parola, ma su una materia delicata come l’arruolamento di adolescenti nel ruolo di agenti segreti è probabile che non sarà facile aggirare il parere negativo dei Lord, tra i quali il governo non ha la maggioranza. In un ricorso all’Alta Corte di Giustizia lo scorso anno, l’associazione Just for Kids Law ha rivelato il caso di una ragazza di 17 anni reclutata dalla polizia per spiare un uomo che la abusava sessualmente e la costringeva a prostituirsi. “La giustificazione data dalle autorità è che bambini o comunque minorenni hanno più possibilità di essere testimoni di un crimine e dunque, grazie a un’azione sotto copertura, possono aiutare la forza pubblica a raccogliere prove per un’incriminazione”, spiega Caoilfhionn Gallagger, l’avvocato che ha rappresentato Just for Kids Law nel giudizio. “Ma costringere un giovane a svolgere un compito clandestino in prossimità di gravi crimini è in antitesi con l’esigenza di proteggere la sicurezza dei minori”. Il rischio di diventare bersaglio di violenze, se scoperti, è infatti altissimo, affermano i difensori dei diritti umani, citando esempi in cui bambini o adolescenti di ambo i sessi sono stati perseguitati da racket della prostituzione, trafficanti di droga o gang giovanili perché sospettati di lavorare come spie per la polizia. Secondo cifre rivelate da una commissione d’inchiesta parlamentare, in Inghilterra dal 2015 ad oggi sono stati reclutati 17 bambini da agenzie di intelligence per operazioni sotto copertura. I poteri invocati per il loro utilizzo esistono da due decenni, ma sono venuti alla luce soltanto nel 2019 quando la commissione intelligence della Camera dei Lord ha dato l’allarme. I legali di Just for Kids sostengono che l’esistente legge sui diritti umani e la Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia proibiscono ogni pratica di questo genere. In Bosnia la frontiera del diritto di Alessandra Briganti Il Manifesto, 8 gennaio 2021 Le migliaia di disperati bloccati al confine con la Croazia hanno perso la libertà di movimento, un principio fondamentale per l’Europa che oggi viene negato ai più poveri. “Non ho mai visto nessuno morire di febbre o di dolori alla schiena”. Quelle parole rimbombano ancora nella testa di Mohammed. Una pugnalata da chi pensava fosse lì ad aiutarlo. “Ho pianto quella notte” racconta con il filo di voce che gli è rimasta. Mohammed, 30 anni, pakistano, si è ammalato pochi giorni dopo l’incendio che il 23 dicembre scorso ha devastato il campo profughi di Lipa, lasciando all’addiaccio quasi un migliaio di persone. “Ho la febbre da dieci giorni, ho implorato che mi dessero delle medicine. Quel giorno non riuscivo nemmeno a respirare, avevo freddo”. Tutto quello che Mohammed è riuscito ad ottenere è stata una risposta sprezzante e delle pillole di ibuprofene mandate giù a stomaco vuoto. “Non mangiavo da tre giorni, l’ultima volta che ho fatto una doccia è stato 15 giorni fa, l’ultima volta che ho cambiato i vestiti è stato 15 giorni fa, l’ultima volta che ho parlato con la mia famiglia è stato 15 giorni fa”. Quindici giorni: un lasso di tempo interminabile per i dannati di Lipa che hanno perso il poco che avevano nell’incendio divampato nella tendopoli. E mentre il mondo brindava con speranza all’arrivo del nuovo anno, la speranza dei migranti di trovare un po’ di sollievo alla loro sofferenza è svanita completamente dopo l’ennesimo braccio di ferro tra Ue, organizzazioni umanitarie e autorità bosniache. “Si sgombera il campo”, era stato annunciato sul finire dell’anno. I profughi erano già pronti a lasciarsi alle spalle l’incubo di quei giorni, ma gli autobus arrivati lì per portarli in un’ex caserma di Bradina, villaggio di Konjic a sud di Sarajevo, non sono mai partiti. Sarajevo non è riuscita a superare l’opposizione delle autorità locali e dei residenti di Bradina accorsi davanti alla struttura militare per manifestare contro l’arrivo di ospiti indesiderati. E così i migranti sono ripiombati nell’incubo. La Bosnia ha fatto l’ennesimo, vano tentativo di riportare i migranti a Bihac, cittadina al confine con la Croazia dove l’Agenzia dell’Onu per le Migrazioni (Oim) gestiva fino al settembre scorso un centro di accoglienza allestito nell’ex fabbrica di Bira. Il sindaco di Bihac Suhret Fazlic, sceso in piazza con i residenti a protestare, però si è opposto. Il peso dell’emergenza è ricaduto interamente sulla città, ha ripetuto Fazlic, ma i soldi per la gestione della crisi non sono mai arrivati, né quelli dell’Europa né quelli del governo. Così Sarajevo si è arresa e ha mandato dei militari sul posto per allestire delle tende sulle rovine del campo, impastate di fango e ghiaccio, dove continuano a sciamare corpi sfigurati dal freddo e dalle torture inflitte dalla polizia croata ai confini. “Non ci sono materassi, né letti, al campo non c’è acqua, né elettricità”, continua Mohammed. “Ho paura, non so cosa ne sarà di noi. Siamo soli, lontani dalle nostre famiglie. È vero, siamo poveri, ma la povertà non è una colpa”. Nei giorni scorsi l’Ue ha stanziato 3.5 milioni di euro per far fronte alla catastrofe umanitaria che coinvolge oltre agli sfollati di Lipa, anche altri duemila migranti rimasti fuori dai centri d’accoglienza in Bosnia. Soldi che si aggiungono agli 88 milioni di euro che dal 2018 l’Europa ha donato principalmente all’Oim per gestire la crisi dei migranti in Bosnia. “Una situazione inaccettabile” ha tuonato l’Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri Josep Borrell che in un lungo post ha denunciato l’inezia delle autorità bosniache e ha lamentato la violazione dei diritti umani dei migranti da parte della Bosnia. “L’Europa ha solo spostato il problema dei migranti alle sue frontiere - commenta la scrittrice bosniaca Elvira Mujcic - ma se migliaia di persone si trovano oggi in queste condizioni è perché l’Ue quelle frontiere le ha chiuse. È un film già visto: l’Europa ha messo sotto il tappeto le proprie responsabilità durante la guerra in Bosnia che pure avveniva sul suolo europeo, e lo fa anche oggi: decidere di fermare il flusso non è qualcosa che può avvenire in maniera indolore”. Non vuole trovare giustificazioni a decisioni che non hanno alibi Mujcic, ma il contesto è importante per capire in che misura vadano ripartite le responsabilità della tragedia in corso: “In tante aree del Paese - prosegue la scrittrice - ci sono infrastrutture segnate dal logorio del tempo o perché costruite dopo la seconda guerra mondiale o perché distrutte dalla guerra degli anni Novanta. In alcuni quartieri della capitale manca l’allacciamento idrico e la rete fognaria. Senza parlare poi del fatto che la Bosnia stessa conta migliaia di sfollati interni che da 25 anni aspettano di avere una casa”. Solo nel cantone di Sarajevo gli sfollati del conflitto sono tra gli 8 e i 9mila, quasi lo stesso numero dei migranti in transito sul territorio bosniaco. “L’emergenza dei migranti - prosegue Mujcic - si aggiunge all’altra emergenza in cui si è voluto mantenere il Paese dalla fine della guerra. Gli stessi bosniaci hanno iniziato a emigrare in Europa davanti all’immobilismo di un dopoguerra che non passa mai”. La questione, prosegue la scrittrice e autrice tra l’altro di “Consigli per essere un bravo immigrato”, non sono le risorse stanziate dall’Ue, ma il riconoscimento di un diritto, quello alla libertà di movimento, che viene negato a chi proviene da Paesi poveri: “Il mondo capitalista non guarda ai diritti dell’uomo, tutt’al più guarda ai cittadini e li divide in cittadini di serie A e di serie B, in expat e migranti economici. Noi stessi siamo portati a fare questa differenza, a strutturare il nostro rapporto con l’Altro in una logica di subordinazione. Persino la solidarietà è qualcosa che viene concessa e la parola concedere è essa stessa fuorviante: tu non concedi nulla che hai tolto. L’Europa non riconosce il diritto a muoversi di persone che vengono da determinate aree del mondo e si fa passare questo riconoscimento per una concessione. Qui nasce la follia, qui nasce quella narrazione dell’Altro che vuole un migrante non abbastanza migrante se ha un telefonino o non è abbastanza magro. E quelle persone che premono alle frontiere in mezzo al fango e alle torture stanno lì a ricordarci una cosa: non c’è diritto negato che non possa essere riconquistato”. Etiopia. Rapporto sulla strage di civili in Oromia: “la polizia stava a guardare” di Fabrizio Floris Il Manifesto, 8 gennaio 2021 Rapporto choc sulle violenze esplose lo scorso giugno dopo la morte del cantante Hachalu Hundessa: vittime selezionate su base etnica. Guerra nel Tigray, nervi tesi con Egitto e Sudan mentre si torna a trattare sulla diga della discordia. La Commissione etiope per i diritti umani (Ehrc) ha pubblicato un report sulle violenze esplose nella regione dell’Oromia in Etiopia tra il 29 giugno e il 2 luglio 2020 a seguito dell’uccisione del cantante Hachalu Hundessa. Complessivamente risultano essere state uccise 123 persone e oltre 500 sono rimaste ferite. Nello specifico, tuttavia, 35 persone risultano essere state uccise e 306 ferite dai manifestanti, 76 uccise e 190 ferite dalle forze dell’ordine. Oltre 900 edifici e proprietà sono state incediate e 6400 persone hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Nelle 40 località in cui è stata condotta l’indagine ha documentato che si muovevano “gruppi organizzati per uccidere, ferire e distruggere proprietà: un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile”. Non “semplici violenze”, secondo la Commissione, ma crimini contro l’umanità. Le vittime sarebbero state selezionate sulla base dell’appartenenza etnica (in questo caso Amhara). La Commissione dice che in diverse località le autorità locali non hanno risposto alle ripetute richieste di aiuto delle vittime. Secondo le testimonianze raccolte, in alcuni casi la polizia sarebbe rimasta a guardare: “Non sembrava che avessimo un governo” ha denunciato una vittima. Nelle località di Guna Woreda, Negele City, Arsi Negele e Dodola le forze di sicurezza sarebbero entrare negli ospedali per impedire alle vittime di ottenere assistenza medica. In alcuni casi gli stessi medici, in particolare a Wolisso, si sarebero rifiutati di curare i feriti. Il presidente della Commissione Daniel Bekele ha concluso che “è importante avviare una strategia nazionale per prevenire questo tipo di crimini, mirata ad affrontare le cause profonde del problema”. Per quanto riguarda il Tigray l’esercito etiope ha annunciato la cattura di diversi capi militari del Tigray People’s Liberation Front (Tplf), tra cui spicca il colonnello Yemane Gebremichael, sospettato del massacro di Mai-Kadra. L’emittente del Tplf, Dimtsi Woyanen, riferisce di successi militari tigrini, tra cui un’imboscata tesa all’esercito etiope nella zona di Zongi, con l’uccisione di 124 soldati e 114 prigionieri. Dal lato sudanese, dove vi erano stati scontri violenti sul confine tra i rispettivi eserciti che avevano portato alla morte di 4 militari, l’esercito di Karthoum ha annunciato di aver ripreso il controllo di oltre l’80% del territorio sudanese occupato dalle milizie etiopi, sottolineando che “il confronto delle settimane precedenti non sarebbe avvenuto con milizie, ma con militari etiopi”. Il generale Mohamed Ahmed Sabir, vice capo dell’autorità di intelligence, ha dichiarato che le forze del suo Paese non hanno intenzioni ostili nei confronti dell’Etiopia: “Ci stiamo muovendo con senso di responsabilità”. Il ministro degli esteri etiope Demeke Mekonnen ha dichiarato che l’Etiopia proteggerà la sua sovranità. Sulla tensione lungo il confine Sudan/Etiopia pesa l’accusa, non dimostrata, nei confronti dell’Egitto, di lavorare attivamente per provocare uno scontro tra Khartoum e Addis Abeba. Il portavoce del ministero degli Esteri etiope Dina Mufti si è riferito ad un Paese terzo senza nominarlo che, a suo avviso, cercava instabilità nella regione contesa. Questo ha provocato la convocazione al Cairo dell’ambasciatore etiope per chiarimenti. Tuttavia riprendono i negoziati tra Egitto, Etiopia e Sudan presso l’Unione africana sulla Grande diga della rinascita etiope e gli effetti sulla distribuzione delle acque del Nilo nei tre Paesi. Le tensioni in Etiopia hanno anche un riflesso nel Sud Sudan perché l’Etiopia è a capo del meccanismo di monitoraggio e verifica del cessate il fuoco e dell’accordo di sicurezza transitorio nel Paese (Ctsamm) e la crisi interna starebbe minando la sua capacità di impegnarsi in Sud Sudan.