Covid-19: subito il vaccino nelle carceri Ristretti Orizzonti, 7 gennaio 2021 Basta discriminazioni: vacciniamo subito i detenuti e le detenute e chi lavora in carcere! La Società della Ragione Onlus ha lanciato questa petizione e l’ha diretta a Roberto Speranza, Ministro della Salute, e a Domenico Arcuri, Commissario Straordinario per l’emergenza Covid-19. Siamo tutti reclusi in questo anno di pandemia, ma c’è chi è più prigioniero di altri, più esposto a rischi, più abbandonato di tutti. In questi mesi i detenuti stanno vivendo la più dura delle carcerazioni, impediti in gran parte delle attività e dei contatti con l’esterno, finanche con i familiari che, quando va bene, possono vedere di persona, una volta al mese e separati da una barriera di plexiglas. Unico conforto: il telefono. Il tutto per misure di prevenzione giustificate dal fatto che le carceri sono comunità chiuse, in cui convivono centinaia, se non migliaia di persone, in spazi insufficienti e con scarse condizioni igieniche; in cui è impensabile seguire le indicazioni di prevenzione e distanziamento fisico. Se le persone sono rinchiuse, il carcere è però un “luogo aperto”, purtroppo anche al contagio, dove ogni giorno entrano ed escono molti addetti. Appare drammaticamente evidente che le prigioni rappresentano uno dei posti a più alto rischio di rapida diffusione del virus in caso di contagio. Anche all’esterno. Non a caso il Comitato Nazionale per la Bioetica (nel parere “Covid-19: salute pubblica, libertà individuale, responsabilità sociale”, maggio 2020), definisce le carceri come “situazione particolarmente critica”, anche perché “critiche sono le condizioni di partenza” e inserisce le persone rinchiuse tra i “gruppi più vulnerabili” al contagio, assieme agli anziani confinati nelle RSA. Ma se le carceri sono come le RSA e i detenuti rappresentano un gruppo “ad alta vulnerabilità bio-psico-sociale”, come mai non sono stati inseriti tra le categorie prioritarie della campagna vaccinale contro il Covid-19, a differenza degli ospiti delle RSA? Se negli istituti di pena l’età media è più bassa, le condizioni igienico-sanitarie sono certamente peggiori, e vi è ampia diffusione di patologie pregresse? Anche a loro va garantito loro il diritto alle pari opportunità nella tutela della salute, oltre ogni timore di reazioni forcaiole. Nonostante i dati ci dicono che solo l’asintomaticità sta, per il momento, limitando il numero delle vittime, davanti alla ricerca del consenso, neppure l’appello dell’Unione Camere Penali, l’interrogazione della senatrice a vita Liliana Segre o il richiamo del portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, Anastasia, sembrano bastare. Eppure nelle circa 200 carceri italiane vivono e lavorano più di 100.000 persone; oltre a detenuti e detenute, anche operatori di polizia penitenziaria, personale socio-sanitario, amministrativo e di direzione. Persone non solo quotidianamente a rischio personale, ma anche potenziali diffusori del virus al di fuori. Cosa puoi fare tu Chiediamo al ministro della Salute e al Commissario straordinario per l’emergenza Covid, di rispettare le indicazioni fornite dal Comitato Nazionale per la Bioetica. Chiediamo che i detenuti, gli operatori penitenziari e tutti coloro che svolgono attività lavorative ed educative in carcere, vengano inseriti tra le categorie prioritarie nella vaccinazione contro il Covid 19, al pari degli altri ospiti e degli altri operatori di comunità chiuse. Unisciti a noi per mettere fine a questa palese discriminazione nei confronti di soggetti ugualmente vulnerabili, la cui salute è totalmente nelle mani delle istituzioni che li custodiscono. È ora di porre rimedio verso una “dimenticanza”, che rischia di apparire agli occhi di detenuti e delle loro famiglie solo come una pena aggiuntiva. Firma ora la petizione: https://www.change.org/p/ministro-della-salute-subito-il-vaccino-covid19-nelle-carceri Carceri, il premier non ha fatto nulla. Rita Bernardini riprende il digiuno di Angela Stella Il Riformista, 7 gennaio 2021 La leader radicale aveva sospeso lo sciopero della fame dopo averlo incontrato, ma Conte si è fidato di Bonafede. Situazione esplosiva. alla mezzanotte di oggi Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, ha ripreso lo sciopero della fame per tornare a richiamare con più forza l’attenzione sulle carceri. Aveva interrotto gli altri 35 giorni di digiuno prima di Natale perché il Presidente del Consiglio Conte aveva deciso di incontrarla per discutere delle eventuali ulteriori misure per svuotare le carceri, soprattutto in questo periodo di pandemia. [incontro era stato definito “ottimo” dalla Bernardini e lasciava ben sperare in un passo in più rispetto a quanto previsto nei vari dl Ristori: “Pensavo che da quell’incontro - ci dice la radicale - si potesse solo andare avanti. E invece ci è stato un blocco totale”, cristallizzato nelle parole del Premio nel suo discorso di fine anno in cui ha detto che “nel complesso, per fortuna, la situazione è sotto controllo per la pandemia”. Per Rita Bernardini “è chiaro che Conte si sia accontentato delle rassicurazioni che gli ha trasmesso Bonafede”. Il problema all’origine di tutto risiede, secondo l’esponente radicale, nel fatto che “non sono mai entrati in carcere, non ne conoscono profondamente la realtà. Non basta visitare qualche reparto di Regina Coeli per qualche ora. Io non credo che il 23 dicembre Conte e la delegazione che lo ha accompagnato abbiano visitato la sezione dove ci sono i letti a castello a tre piani, o dove manca spesso l’acqua calda perché si rompono gli scaldabagni. Noi quando entriamo in carcere giriamo dappertutto. Loro invece non si rendono conto di nulla”. Dunque da poche ore Rita Bernardini è in digiuno, non senza un grande sforzo: “Prima di Natale ero fiduciosa perché effettivamente quell’incontro con Conte mi era sembrato importante nei contenuti. Ora dobbiamo lottare ancora più fermamente”. Accanto a lei, in un digiuno a staffetta, ci sono migliaia di detenuti: “Quelli di cui abbiamo le sottoscrizioni all’iniziativa nonviolenta sono circa quattromila. Ma sappiamo che sono molti di più: non ci sono arrivate le firme dal carcere Pagliarelli di Palermo però la direttrice dell’istituto mi ha detto che quasi tutti i reclusi hanno fatto lo sciopero della fame. Stessa cosa nel carcere romano di Rebibbia”. Probabilmente molti altri detenuti vorrebbero prendere parte all’iniziativa però, ci dice Bernardini, “credo che quella nota del Nucleo Investigativo Centrale in cui si chiedeva al personale di “controllare la corrispondenza per rinvenire i moduli predisposti per la partecipazione alla protesta” ne abbia scoraggiati tanti. Proprio poco fa mi è arrivato un messaggio vocale della moglie di un detenuto in cui mi diceva che il marito vorrebbe digiunare ma ha paura di possibili ritorsioni. Ciò è davvero sconcertante”. Su questa nota del Nic avevamo tentato di conoscere più dettagli, già prima di Natale: avremmo voluto sapere ad esempio se era solo una iniziativa del reparto di Saluzzo. A tal fine ci siamo rivolti all’ufficio stampa del Ministero della Giustizia e al portavoce di Bonafede ma non abbiamo ricevuta alcun feedback. Se per noi è evidentemente complesso interloquire con chi dovrebbe assolvere il proprio compito di relazioni con la stampa, speriamo invece che Rita Bernardini sia più fortunata nel suo intento: “Conte ha detto che i “problemi più complessivi vanno inquadrati nel confronto con le forze politiche, qualsiasi intervento sistemico non può che passare da una sintesi politica”. Io vorrei quindi capire con chi si può aprire un dialogo. Vorrei incontrare anche Matteo Salvini e Giorgia Meloni”. Intanto due giorni fa proprio il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia aveva reso nota la seguente notizia: “È morto nell’ospedale di Rieti, dopo due settimane di ricovero, un detenuto di 66 anni, affetto da Covid: il primo nel 2021, il primo dall’inizio della pandemia nel Lazio, il tredicesimo (in Italia) di questa seconda ondata In carcere, come nelle Rsa, continuano ad accendersi e spegnersi focolai Covid. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: nelle carceri, come nelle Rsa, bisognerebbe provvedere alle vaccinazioni in via prioritaria”. Il vaccino non è unica emergenza degli istituti penitenziari di Viviana Lanza Il Riformista, 7 gennaio 2021 In questi mesi il tema del piano vaccinale contro la pandemia da Covid-19 è argomento centrale. Ma il mondo del carcere sembra essere stato finora escluso dall’attenzione politica, nonostante a livello nazionale rappresenti una popolazione di circa 100mila persone, fra detenuti e personale che lavora all’interno degli istituti di pena. Nelle ultime settimane c’è stata una sollecitazione da parte dei Radicali, dell’Unione Camere Penali Italiane, e a Napoli da parte dei garanti dei detenuti, degli avvocati della Camera penale e della Onlus Carcere possibile. Con la delibera del 18 dicembre anche l’Ordine degli avvocati di Napoli, quindi l’organismo che rappresenta l’intera avvocatura napoletana, ha deciso di farsi promotore di un’iniziativa per la tutela del diritto alla salute di tutti, anche di chi è in cella. E alla Presidenza del Consiglio dei ministri, ai Ministeri di Salute e Giustizia e al Garante nazionale delle persone sottoposte a misure restrittive della liberà personale è stata avanzata una richiesta in tal senso. “Il Foro napoletano, condividendo la scelta di somministrare il vaccino alle categorie di soggetti più esposti a rischi, chiede alle istituzioni di tener conto della drammatica situazione delle carceri italiane dove la sovrappopolazione rende impossibile il rispetto del distanziamento”. “La delibera in questione - spiega il vicepresidente dell’Ordine degli avvocati napoletani, Gabriele Esposito - rappresenta ancora una volta il ruolo fondamentale che l’avvocato svolge nel sociale esprimendo vicinanza alle categorie più deboli e bisognose di assistenza e, soprattutto, nei confronti di coloro che non possiedono strumenti per difendersi adeguatamente dalla pandemia ma che, anzi, per le condizioni in cui vivono risultano obbligatoriamente esposti a maggiori rischi”. Attualmente si è solo prevista la priorità per gli agenti penitenziari in quanto lavoratori che operano in uno dei settori essenziali, ma non c’è un piano vaccinale per le carceri. Eppure in carcere i rischi sono alti. Pensiamo alle celle, quelle che in alcuni casi arrivano a ospitare anche dieci detenuti: come si fa a parlare di distanziamento? Pensiamo agli spazi riservati alla cosiddetta ora d’aria: come si fa a garantire il rispetto di tutte le misure di prevenzione? Il sovraffollamento pesa come un macigno su questa emergenza. Enormi sono stati gli sforzi compiuti da chi lavora all’interno delle carceri, in questi mesi, per contenere i contagi. Le amministrazioni penitenziarie hanno riconosciuto anche l’impegno dei detenuti stessi a rispettare le regole anti-Covid, seppure con tutti i limiti logistici e di mezzi che c’erano. Ma i rischi, dicevamo, restano alti. E allora perché nel piano di vaccinazione non si è considerato fra le priorità anche il mondo del carcere? L’interrogativo resta con il punto di domanda. Il deputato Riccardo Magi ha sollecitato il Governo a considerare tale priorità, gli avvocati penalisti napoletani hanno posto la questione paragonando gli istituiti di pena alle Rsa, luoghi cioè dove è impossibile mantenere il distanziamento fisico e dove la popolazione ospitata è in larga parte affetta da varie e gravi patologie. L’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione camere penali italiane, ha analizzato, proprio dalle colonne di questo giornale, le motivazioni alla base della richiesta di un piano vaccinale anche per i detenuti e per tutti coloro che lavorano negli istituti di pena. Il mondo del carcere non è un mondo chiuso all’esterno: basti pensare soltanto a tutti coloro che per lavoro entrano ed escono ogni giorno dalle strutture penitenziarie, non è un luogo dove la pandemia è l’unica emergenza da gestire, perché il sovraffollamento, le carenze igieniche e sanitarie, le criticità legate all’edilizia penitenziaria e alla penuria di risorse sono problemi da sempre. Prevenzione e lotta all’affollamento: così tuteliamo i detenuti di Andrea Giorgis* Il Riformista, 7 gennaio 2021 Caro Riformista, ho letto l’articolo pubblicato sul suo giornale a firma del responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane (Ucpi), l’avvocato Riccardo Polidoro, e la ringrazio dello spazio che mi concede per ulteriormente sottolineare come io non pensi affatto che vi sia tempo da perdere prima di vaccinare i detenuti e tutti coloro che operano all’interno delle strutture penitenziarie, anzi. L’appello avanzato dalla senatrice Liliana Segre e dal garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, come ho risposto su Repubblica, merita seria attenzione. Innanzitutto evitando che si consumi “qualsiasi forma di discriminazione” in danno dei detenuti: il che significa, in primo luogo, non attribuire alcun rilievo, quando sono in gioco diritti fondamentali come la salute, al fatto di essere stati considerati colpevoli di condotte illegali o comunque di essere sottoposti a misure restrittive della libertà. Non subire discriminazioni ed essere “trattati, in linea di principio, come i cittadini liberi”, in secondo luogo - come ho cercato di dire - significa altresì considerare “le specifiche e concrete condizioni di vita e la necessità di evitare focolai in contesti di comunità nei quali risulti particolarmente difficile predisporre le misure di prevenzione”. Non so se i soci di un circolo di vela o burraco sperimentino “specifiche e concrete condizioni di vita” che li rendono più fragili rispetto alla diffusione del virus o se sperimentino “contesti di comunità in cui risulta difficile predisporre le misure di prevenzione”. So però che i detenuti vivono una condizione che richiede particolare attenzione, proprio per garantire loro un trattamento non discriminatorio. E so che occorre proseguire con ancora maggiore determinazione nel ridurre il sovraffollamento, nel potenziare il ricorso alle misure alternative e, in attesa delle vaccinazioni, nel predisporre tutte le misure di prevenzione sanitaria possibili (triage, tamponi, distanziamento precauzionale e così via). Anche perché ridurre i rischi di diffusione dei contagi negli istituti penitenziari tutela la salute di tutti: della polizia penitenziaria, del personale amministrativo, dei detenuti e anche dei cittadini liberi, avendo ogni contagio ripercussioni sull’intero sistema sanitario. Vorrei infine cogliere l’occasione per ringraziare la senatrice Liliana Segre e il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma anche per i toni e per le parole con le quali hanno aperto il loro appello, sottolineando, da un lato, la difficoltà di decidere le priorità nell’accesso a un bene così prezioso e, al momento, scarso come è il vaccino e, dall’altro, l’opportunità di guardare all’azione del Governo - e in particolare alle decisioni del Ministro della Salute - “con rispetto, senza accavallare pressioni e senza la pretesa di avere la parola decisiva”. *Sottosegretario alla Giustizia Carceri, sciopero senza buonsenso di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2021 Astensione a staffetta dal cibo. Chi sta proponendo questa forma di protesta non tiene conto delle cifre reali: non c’è nessun sovraffollamento e perciò alcun motivo di scarcerazioni o amnistie. Quando sento parlare di sciopero della fame, il pensiero corre a persone disposte a mettere a rischio la propria vita per difendere, in modo non violento, principi che ritengono fondamentali. Il Mahatma Ghandi scelse la non violenza come metodo di lotta politica contro il dominio britannico in India, in coerenza con il suo insegnamento secondo il quale occhio per occhio rende tutto il mondo cieco. Altri, appartenenti a organizzazioni che avevano fatto uso della violenza (come l’I.R.A.), ricorsero allo sciopero della fame da detenuti, chiedendo lo status di prigionieri di guerra. L’atteggiamento britannico fu molto diverso: nel caso di Ghandi, le autorità non volevano rischiare che morisse in carcere; alcuni detenuti irlandesi, a fronte dell’intransigenza inglese, a partire da Bobby Sands morirono in carcere. In entrambi i casi, si trattava di cose terribilmente serie. Non credo che lo sciopero della fame a staffetta possa essere paragonato a quelle tragedie del XX secolo e neppure credo che i valori in gioco siano paragonabili. Come ci informa il Riformista del 2 dicembre 2020, nel caso dello sciopero della fame a staffetta, si protesta contro il sovraffollamento delle carceri, nel momento in cui il numero dei detenuti in Italia è il più basso da molti anni. In un’intervista, Sandro Veronesi spiega (ed è il titolo del pezzo) che il governo è troppo debole per far votare un’amnistia, “ma liberarli si può”. Premetto che sono d’accordo sul fatto che la civiltà di un Paese si misura anche da come vengono trattati i detenuti, ma sembra che la soluzione proposta sia quella di “liberarli”. Quasi tutte le opinioni sono rispettabili, ma si dovrebbe pur tener conto dei dati di fatto e della coerenza. Cominciamo dai fatti: secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 dicembre 2020 nelle carceri italiane erano detenuti 53.364 uomini e 2.255 donne per un totale di 55.619 unità, a fronte di una capienza regolamentare di 50.562 posti. Una nota ricorda però che i posti sono calcolati sulla base del criterio di 9 mq per il primo detenuto più 5 mq per gli altri (lo stesso per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni civili; una superficie più elevata della media europea). La popolazione italiana al 1° gennaio 2020 era di 60.317.000 persone, quindi la proporzione di detenuti sulla popolazione è di 92,2 ogni centomila persone. Nel Consiglio d’Europa (organizzazione più ampia dell’Unione europea, che conta 47 Stati) la media è di 123,7 ogni 100 mila abitanti. Quindi l’Italia non ha più detenuti di altri Paesi, ad esempio in Francia sono 103,5; in Gran Bretagna 142,4; in Spagna 126,7 sempre ogni 100.000 abitanti (fonte: Euronews). Eppure, ragionando come se il numero di detenuti fosse una variabile indipendente, non si chiede (ammesso che il sovraffollamento ci sia e a tacere del fatto che in Italia esistono organizzazioni criminali di particolare virulenza, oltre a un elevato numero di detenuti stranieri che non si riescono a rimpatriare) l’aumento dei posti-carcere, ma di liberare i detenuti. Trovando altri modi se, essendo il governo debole (ma si dovrebbe parlare di maggioranza in Parlamento), non si può approvare un’amnistia. Qui veniamo alla mancanza di coerenza. Quando fu approvato il codice di procedura penale oggi vigente, coloro che avevano perplessità su una normativa che rendendo in generale non utilizzabili gli elementi acquisiti nella fase delle indagini e imponendo la reiterazione delle prove in dibattimento, avrebbe determinato, nell’ipotesi migliore, la triplicazione della durata dei processi. La risposta dei sostenitori del codice fu che ci sarebbero stati pochi dibattimenti in quanto la maggior parte dei procedimenti sarebbero stati definiti con patteggiamento o rito abbreviato. Citavano l’esempio degli Stati Uniti d’America dove solo il 4% dei procedimenti viene celebrato con il rito che si era voluto copiare. L’ovvia obiezione fu che in uno Stato dove, in cinquant’anni, c’erano stati 35 provvedimenti di amnistia e indulto, non si vedeva perché qualcuno dovesse patteggiare o chiedere il giudizio abbreviato, quando bastava aspettare per evitare ogni pena. Fu cambiata la Costituzione e introdotta una maggioranza qualificata per varare provvedimenti di clemenza (tuttavia alcuni provvedimenti di amnistia e indulto furono approvati). I riti alternativi tuttavia non sono decollati. La percentuale di processi dibattimentali che si celebrarono con rito ordinario coprì nel 2008 il 90,6% dei casi mentre il 9,4% si svolsero con riti alternativi: 5,4% con rito abbreviato, 4% con patteggiamento (Fonte Astrid-online.it, ricerca dell’Unione Camere Penali ed Eurispes). La ragione è che, alla luce della durata dei processi (conseguente al nuovo rito), da un lato la prescrizione ha sostituito l’amnistia (infatti i sostenitori dell’amnistia protestano anche contro la modifica della prescrizione) e che vi è la possibilità di differire l’esecuzione della pena a tempi migliori con impugnazioni in percentuali sconosciute in altri Stati. Quando si copia qualcosa da altri sistemi, bisognerebbe valutare il contesto in cui quegli istituti sono inseriti: di fronte alla straordinaria (rispetto ai nostri parametri) severità dei giudici statunitensi e del loro ordinamento processuale, ben si comprende perché pochissimi scelgano di andare a processo con giuria. Per fare un esempio, Bernard Madoff, che realizzò una serie di truffe, negli Usa fu condannato a 150 anni di carcere, che sta scontando; in Italia, dato il numero di vittime da esaminare, avrebbe certamente beneficiato della prescrizione. C’è chi sostiene che la pena non svolge in realtà alcuna effettiva deterrenza, per cui si potrebbe anche abolire il carcere, ma chiediamoci come mai, invece, la pena detentiva sia applicata in tutto il mondo. In ogni caso, la valutazione va effettuata per tipi di reato e di autori degli stessi: i colletti bianchi sono attenti al calcolo costi/benefici (ce ne sono pochissimi in carcere: 230 in Italia, 7.555 in Germania). Più in generale, in un mondo dove le frontiere sono sempre più facilmente transitabili, il tasso di repressione concreta applicato in uno Stato non può essere troppo diverso da quello applicato in altri Stati, perché se è molto più alto si esporta criminalità, se è molto più basso si importa criminalità. Mi sembra puro buon senso. Potrei iniziare uno sciopero della fame a staffetta per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul buon senso. Il grande libro della dietrologia. Servizi deviati, stragi Cosa nostra e politica di Paolo Delgado Il Dubbio, 7 gennaio 2021 Non è un morbo solo italiano ma è nella penisola che il contagio ha raggiunto la espansione, non risparmiando né il colto né l’inclita, e soprattutto un livello di pervasività inaudito, che abbraccia uno dopo l’altro tutti gli aspetti della storia repubblicana, ormai neppure più recente. S’intende l’abitudine diffusa a sospettare trame oscure dietro ogni fatto saliente, specialmente se tragico, della nostra storia, a ipotizzare connessioni oscure, subodorare fili invisibili impugnati da registi occulti, a scovare una logica nascosta ma inesorabile che tiene insieme fatti ed episodi disparati. Una trama. Un complotto. Un ordine nel quale “tutto si tiene”. La discutibile puntata di Report nella quale venivano cucite insieme ipotesi e “rivelazioni” sino a formare un armonioso pur se fantasioso ordito è l’ultimo episodio, in ordine di tempo, di una serie enciclopedica, infinita, che si arricchisce ogni giorno di più. È il grande libro della dietrologia, la cui missione è sempre la stessa: dimostrare che quel che si vede è sempre falso, il disordine, la caoticità, persino le scelte, sono il paravento dietro il quale si celano le manovre astute e gelide di qualche cupola perversa. A questa piovra non sfugge nulla: terrorismo, criminalità organizzata, politica, affarismo, servizi segreti. Tutti collegati da fili invisibili ma saldissimi. La dietrologia ha i suoi capisaldi, i capitoli che tornano puntualmente in ballo. Il sequestro Moro. La strage di Bologna, con annessi e connessi. La P2. La trattativa Stato- mafia. Su questo telaio ci si può poi sbizzarrire sino ad abbracciare l’intero corso della Repubblica. La sconfitta del Pci negli anni ‘ 70, provocata dalla manina che guidò il sequestro Moro. La svolta degli anni ‘ 80, indirizzata dalle trame dell’immancabile Licio, “il Venerabile”. La vittoria di Berlusconi, sullo sfondo della quale si stagliano sinistre le cosche. La genealogia di quella che si configura ormai come pisocosi, delirio nel quale il “mi sa tanto” sostituisce i fatti, il sospetto s’impone come verità, è più complessa e va rintracciata in diversi affluenti. L’origine probabilmente è una pietra miliare in sé meritoria. Subito dopo la strage del 12 dicembre 1969 a Milano, con gli inquirenti decisi a battere una sola pista, quella anarchica, un gruppo di avvocati e militanti diede alle stampe, in tempi record, un libretto destinato a restare a propria volta nella storia: La strage di Stato. Frutto di una contro-indagine giocoforza sbrigativa aveva il merito di denunciare le falsificazioni dell’inchiesta ufficiale e di indicare una pista che si sarebbe poi dimostrata fondata, quella del neofascismo e delle collusioni di quell’ambiente con i servizi segreti. Il risultato fu però diffondere una interpretazione sostanzialmente falsa, nella quale lo Stato, agli occhi di molti, figurava direttamente come organizzatore e mandante. L’intellettuale forse più esemplare dell’epoca, Pier Paolo Pasolini, coronò la tendenza con un articolo ancora oggi sempre citato e quasi sempre a sproposito “Io so”. L’articolo mirava in realtà a difendere i neofascisti dalla strage del 1974 a Brescia, organizzata, come quella di 5 anni prima a Milano, sempre dallo Stato, stavolta per bastonare una destra estrema già adoperata in precedenza contro la sinistra. Nel merito, il famoso pezzo di PPP non coglieva nel segno, essendo la matrice della strage di piazza della Loggia invece effettivamente di estrema destra. Ma soprattutto sdoganava un metodo: la sostituzione della realtà dimostrata con le proprie “intuizioni”, i sospetti, le paranoie. “Io so anche se non ho le prove” è ancora oggi il motto di un’intera e folta scuola. Nel 1979 il giudice di Padova Guido Calogero ipotizzò una trama circoscritta al terrorismo di estrema sinistra ma pur sempre diabolica, secondo la quale tutte le diverse sigle della lotta armata di sinistra, ma anche le organizzazioni apparentemente legali come Autonomia, rispondevano in realtà a un’unica centrale. Una cupola che le dirigeva tutte, al vertice della quale era assiso Toni Negri. Il teorema era ridicolo e rovinò in breve tempo (anche se gli imputati rimasero per anni in carcere con imputazioni via via cangianti). Ma l’immagine del “grande vecchio” restò incisa a fondo nell’immaginario degli italiani, non limitata però alla guerriglia rossa ma ampliata fino a ipotizzare un puparo capace di ordire trame a tutto campo, senza risparmiare neppure gli interstizi della storia patria. Era un’immagine sinistra e spettrale, ancora senza volto. I connotati del burattinaio arrivarono però a stretto giro, quando, il 17 marzo 1981, le forze dell’ordine sequestrarono a Castiglion Fibocchi gli elenchi degli iscritti a una loggia massonica segreta, la P2, guidata da venerabile maestro Licio Gelli. C’era di tutto e di più. Affaristi, politici, soprattutto dirigenti dei servizi segreti. Impossibile immaginare qualcosa che si prestasse meglio alla leggenda di una piovra i cui tentacoli arrivavano ovunque e si annidavano dietro ogni mistero, vero o presunto. Uno in particolare: il sequestro Moro, modello di ogni dietrologia, sagra delle supposizioni, delle illazioni, delle calunnie. Inutili le testimonianze, le sentenze, le prove. Per la vasta massa degli italiani il sequestro Moro resterà sempre una manovra ordita dai pupazzi di Gelli in combutta con i servizi segreti a stelle e strisce per impedire la democratica marcia del Pci verso il governo. Un complotto di quelli che determinano il corso dell’intera storia di un Paese. Impareggiabile. Rifinito, cesellato, ampliato a dismisura il modello fissato in quei pochi anni non è poi cambiato nella sostanza. Ma ogni narrazione ha bisogno dei suoi personaggi di nomi e cognomi intorno ai quali cucire la leggenda nera. È un gruppo corposo ma non foltissimo, nel quale spiccano probabilmente tre nomi. Mario Moretti, l’uomo che guidava le Br nei 55 giorni del sequestro Moro è forse la figura più calunniata d’Italia. Non solo non esiste il pur minimo indizio che autorizzi a sospettare un ruolo diverso da quello che lui stesso ha sempre riconosciuto ma il solo fatto che sia in carcere da quasi 40 anni, unico tra i partecipanti all’agguato di via Fani e alla gestione del sequestro che ancora debba tornare in cella la notte, dovrebbe sgombrare il campo da ogni dubbio. Il problema è che senza attribuire un ruolo diretto nel complotto a Moretti diventa impossibile ipotizzare qualsiasi regia torbida della vicenda. Di fronte a tanta superiore necessità la realtà deve rassegnarsi al passo indietro. Il secondo nome è Valerio Fioravanti. Il tentativo di farne “il killer della P2” era all’origine della prima ricostruzione della strage di Bologna. Assassino di Pecorelli, di Piersanti Mattarella, stragista in conto terzi. Il fatto che non abbia mai neppure visto da lontano Gelli e che, a differenza, di altri militanti dei Nar fosse contrario alle commistioni con la criminalità impallidisce di fronte all’obbligo di farne il perno di una strategia complessa, della Bologna sarebbe stato solo il tassello più sanguinoso. Solo che Fioravanti è stato condannato sì per Bologna, con una sentenza tanto discutibile quanto effettivamente discussa, ma è stato assolto per gli altri omicidi. Di qui la necessità di azzardare ogni equilibrismo pur di ricollegarlo all’assassinio di Mattarella. Su Gelli non c’è bisogno di diffondersi. Dalla liberazione di Valerio Borghese al golpe tentato dallo stesso, dal sequestro Moro alla strage di Bologna non c’è un crimine circondato dalle tenebre che non porti la sua firma, alla faccia delle sentenze. Diabolik gli spiccia casa. Bisogna intendersi. Trame oscure nella storia italiana ce ne sono state davvero, dall’assassinio di Mattei a quelli di Sindona e Calvi. La pretesa titanica della misteriologia è però un’altra: da un lato estendere le trame a ogni vicenda, dall’altro e soprattutto, collegarle tutte fra loro in una gigantesca cattedrale delle manovre oscure. In fondo era quello che faceva già il vero testo base di ogni dietrologia: I protocolli dei savi di Sion. I 20 anni da pm di Nicola Gratteri: blitz, arresti e show… e poi tutti assolti di Tiziana Maiolo Il Riformista, 7 gennaio 2021 Domani la corte d’appello di Catanzaro deciderà in camera di consiglio sulla clamorosa ricusazione che la Dda presieduta da Nicola Gratteri ha avanzato nei confronti del magistrato Tiziana Macrì, che dovrebbe presiedere il prossimo 13 gennaio la prima udienza del Maxi “Rinascita Scott”. Dalla decisione uscirà anche un verdetto in senso lato “politico” sul potere del magistrato più popolare d’Italia. Di cui ricostruiamo, attraverso tante sentenze che sconfessano le sua inchieste, un po’ di storia. Dalla retata di Platì del 2003 fino a “Rinascita Scott” e “Imponimento” del 2019-2020. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri agisce sempre in grande, fin da quando era ancora un semplice sostituto. Luminosa scenografia e tante, tante manette. Poi la montagna si sgretola, e tanti giudici, quello delle indagini preliminari, quelli del riesame, infine la cassazione, bocciano le speranze di colui che volle diventare il Falcone di Calabria. Di fallimento in fallimento, fino alla totale assoluzione, di Mario Oliverio, l’ex presidente della Regione Calabria che Gratteri voleva arrestare, che fu spedito al confino e indagato per due anni, che perse il suo incarico per niente, perché il fatto non sussiste, ha stabilito il giudice. E la formula più ampia di assoluzione prevista dal codice. Cioè chi aveva avanzato l’accusa aveva preso lucciole per lanterne, aveva visto un reato dove non c’era neanche il fatto. Le buone abitudini, il dottor Gratteri le aveva imparate da piccolo. Erano le tre del mattino del 12 novembre 2003 a Platì, quando l’intero paesino della Locride fu svegliato dall’arrivo di centinaia di uomini in divisa i quali, in diretta televisiva, assaltarono, perquisirono a arrestarono 150 persone accusate di associazione mafiosa. Tra di loro c’erano due ex sindaci, dodici ex assessori comunali, due ex segretari comunali, due tecnici, il comandante della polizia municipale e un vigile urbano. La richiesta portava la firma di un certo dottor Nicola Gratteri, sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria. Il quale riteneva con questa operazione, che sarà chiamata “Marine”, di aver distrutto il clan della famiglia Barbaro la quale, agendo da egemone sul territorio, avrebbe acquisito il monopolio totale sugli appalti pubblici. Con la complicità di una bella fetta della popolazione di un paese di tremila persone e delle istituzioni locali. I reati, dal voto di scambio all’estorsione, al falso e all’abuso d’ufficio, erano tenuti insieme dall’associazione di stampo mafioso. Fu il suo primo blitz scenografico in quel territorio. E anche il suo primo scivolone nella zona. Dopo undici anni che cosa resterà di quella montagna di accuse? Solo un risultato politico, perché il paese di Platì resterà sempre più abbandonato ai commissari governativi e sempre più impossibilitato a essere amministrato. Per una radicata presenza mafiosa che i blitz scenografici possono solo rafforzare. Se qualcuno ha la curiosità di sapere la fine della storia, eccola: nessuno condannato per mafia, tutti assolti tranne otto (di cui cinque per reati di lieve entità). Otto su centocinquanta, chiaro? Si potrà pensare che possa capitare di sbagliare (ma giocando con la vita e la libertà dei cittadini?), anche se va ricordato che quando sbagliamo noi che siamo senza toga, veniamo processati, e se per caso siamo recidivi scattano le aggravanti. Che aggravante vogliamo contestare a chi ripete sempre lo stesso “errore” giudiziario? Perché, se la notte di Platì era stata una sorta di prima esibizione del sostituto Gratteri nella sua veste di sostituto procuratore di Reggio, la sua azione non era stata da meno, negli anni novanta, quando aveva rivestito lo stesso ruolo a Locri. Indimenticabile, purtroppo, l’operazione Stilaro. Quando partì un’indagine nei confronti di 102 persone e in una gelida notte di febbraio furono portati in carcere 62 cittadini di Camini (40 indagati a piede libero), piccolo centro jonico. Finirono in manette il sindaco professor Giuseppe Romeo, persona stimatissima da tutti, l’intera giunta e gran parte del consiglio comunale. Tutti mafiosi? A quanto pare no, visto che risultarono tutti estranei a qualunque contiguità con la ‘ndrangheta. “Sappia la società civile - aveva detto in conferenza stampa il responsabile provinciale della Dda - che non ci fermeremo davanti a nessun santuario…”. Il “santuario” era fatto di persone per bene, che furono trascinate in ceppi nel cuore della notte davanti ai bambini in lacrime e un intero paese che assisteva sgomento. Tutti assolti all’udienza preliminare, meno di un anno dopo gli arresti. Tutta la storia giudiziaria della Locride nei primi anni novanta è punteggiata dalle inchieste-bufala, cui si accompagnano arresti in diretta televisiva e spumeggianti conferenze stampa in cui ogni capitombolo del procuratore è trasformato in successo. Voglio dimostrarvi, disse una volta il dottor Gratteri in un’intervista, che io sono capace anche di far scattare le manette ai polsi di cinquecento persone in una sola volta. Lo ha anche fatto, nei confronti di amministratori e funzionari dei comuni della Locride. Tutti assolti. Come nelle inchieste “Circolo Formato”, “Ionica agrumi” e “Asl Siderno”. Lo stile è l’uomo, disse qualcuno. E quello che è servito quasi da esercitazione di un sostituto procuratore, ha la stessa impronta del presente e delle inchieste avviate, con la stessa scenografia, dal capo della procura antimafia di Catanzaro. E alla stessa maniera in gran parte fallite. Nicola Gratteri è nominato all’alta carica il 21 aprile del 2016, ma il suo impegno maggiore lo vedrà protagonista soprattutto tra il 2018 e il 2019. È in questi anni che ogni blitz, ogni inchiesta è sempre la più importante, quella decisiva e definitiva per l’azzeramento della ‘ndrangheta in Calabria. Nel 2018 è l’operazione “Stige”, che vedrà all’alba del 9 gennaio più di mille carabinieri impegnati nella provincia di Crotone a mettere le manette ai polsi di 170 persone. Naturalmente si tratta della “più grande operazione degli ultimi 23 anni”. Anche se il primo risultato, nel processo abbreviato, non darà risultati brillanti. L’accusa porta a casa 66 condanne, ma anche 38 assoluzioni. Si attende la sentenza, dopo le richieste del pm (che ha già chiesto altre 18 assoluzioni), per gli altri imputati che vengono giudicati con il rito ordinario. Il 2019 è l’anno del grande blitz del 19 dicembre, “la più grande operazione dopo quella che ha portato al maxiprocesso di Palermo”. Ci risiamo con le conferenze stampa-show. Si chiama “Rinascita Scott”, parte con una richiesta di 334 ordini di cattura, poi decimata dal gip, dal riesame e dalla cassazione, quindi l’inchiesta viene “rabboccata” con il blitz dal nome “Imponimento”, che porta a casa altri 158 indagati, di cui 75 subito in manette. E alla fine il procuratore Gratteri riuscirà a portare a termine solo in parte il proprio sogno di far celebrare il suo Maxi, che vedrà giudicati nell’aula della tensostruttura regalata dalla Regione Calabria 355 imputati, mentre altri ottantanove saranno davanti al gup per il processo abbreviato il 27 dello stesso mese. Nel frattempo sono state però notti insonni per le ambizioni del procuratore. Vogliamo ricordare per esempio l’inchiesta “Nemea”, un ramo cadetto di “Rinascita Scott” sulla mafia nel vibonese, in cui con la sentenza dell’ottobre scorso, su 15 imputati, 8 sono stati assolti e gli altri 7 hanno avuto le pena dimezzate? Oppure della sentenza clamorosa sull’inchiesta “Borderland” con 20 rinviati a giudizio di cui 13 assolti, tra i quali spicca il nome di Francesco Greco, ex vicesindaco di Cropani, messo agli arresti domiciliari nel 2016 e dichiarato innocente ben quattro anni dopo “perché il fatto non sussiste”? Si arriva quindi a tempi più recenti, con la decisione del tribunale del riesame di annullare la misura cautelare nei confronti dell’ex presidente del consiglio regionale calabrese Domenico Tallini, messo ai domiciliari come indagato nell’inchiesta “Farmabusiness”. E poi l’assoluzione nei confronti di Mario Oliveiro e il non luogo a procedere per Nicola Adamo e Enza Bruno Bossio nell’inchiesta “Lande desolate”. È solo un breve riassunto, probabilmente lacunoso. Cui andrebbero aggiunte considerazioni politiche e anche i comportamenti e le reazioni dei diversi partiti rispetto alle operazioni di certi pubblici ministeri. E anche, perché no, l’atteggiamento degli altri magistrati, a partire dalla gravità del trasferimento del procuratore Otello Lupacchini, e del Csm nei confronti di questa “anomalia” calabrese. Per esempio, nessuno ha ridire sul fatto che la Dda di Catanzaro presieduta dal dotto Gratteri, abbia chiesto la ricusazione del presidente Tiziana Macrì che dovrebbe condurre il processo “Rinascita Scott” del prossimo 13 gennaio? La decisione sarà presa dalla corte d’appello di Catanzaro in camera di consiglio proprio domani 8 gennaio. I giudici onorari protestano di nuovo ma il Dem Mirabelli annuncia un decreto di Liana Milella La Repubblica, 7 gennaio 2021 Oggi flash mob a piazzale Clodio e sciopero già proclamato dal 19 al 22 gennaio. Le toghe di pace chiedono un inquadramento stabile, ma Mirabelli dice: “Esiste un oggettivo problema di costituzionalità, per cui non sono comparabili i ruoli di magistrato onorario con quello di magistrato ordinario”. “Un decreto legge per i giudici onorari”. Che il governo farebbe subito, proprio mentre ripartono le proteste dell’intera categoria. La conferma arriva a Repubblica da Franco Mirabelli, vice capogruppo del Pd al Senato e capogruppo in commissione Giustizia, che dall’inizio della legislatura ha lavorato su questa magistratura che, pur contando 5mila persone, vive da sempre nella precarietà. Alla domanda se un’eventuale crisi dovesse fermare la volontà di fare il decreto Mirabelli risponde: “Continuo a pensare che non ci siano alternative a questa maggioranza e che sarebbe irresponsabile aprire una crisi di governo in questo momento”. Dunque non crede né alla crisi, né al voto anticipato? “Non accade in nessuna parte al mondo che si apra una crisi in piena pandemia perché la politica ha come responsabilità principale quella di garantire la soluzione dei problemi che il Covid ha portato con sé. E oggi sono quelli di tutelare la salute dei cittadini, mandare avanti il piano vaccinale e costruire le condizioni per la ripartenza. Solo una maggioranza politica può fare un percorso di questo genere e solo dentro questa alleanza di governo si può costruire una prospettiva anch’essa politica che concluda la legislatura”. E il voto? “Continuo a non voler credere a una crisi di governo, e quindi dell’intera legislatura”. E allora torniamo ai giudici onorari e alla loro agitazione. Stamattina saranno a piazzale Clodio, ma preannunciano nuovi scioperi della fame, e dal 19 al 22 gennaio si fermeranno in tutta Italia. Si considerano vittime di “vent’anni di imbarazzanti silenzi, proroghe attendiste e norme inadeguate”. Ce l’hanno con una politica che non dà risposte... “E invece noi abbiamo proposto al governo di fare al più presto un decreto con le norme discusse e condivise finora al Senato, che possa consentire di mettere subito più soldi per le indennità e i riconoscimenti ai magistrati onorari. Vogliamo garantire misure che diventino subito operative prima che ad agosto entri in vigore la riforma Orlando (e cioè il decreto legislativo del 13 luglio 2017, ndr.). Sia il ministro della Giustizia Bonafede che i sottosegretari Giorgis e Ferraresi ci hanno dato una disponibilità che potrebbe concretizzarsi in tempi brevissimi”. Ammetterà però che stiamo parlando di 5mila persone che vivono una situazione di lavoro davvero anomala. Si occupano di giustizia, affrontano e decidono sulle controvereste degli altri, ma sono a tutti gli effetti dei precari della giustizia... “Penso che la situazione della magistratura onoraria sia davvero di grande precarietà e che ci sia bisogno di una riforma complessiva che definisca bene ruoli, funzioni e anche l’opportunità o meno di proseguire su questa strada. La riforma Orlando ha il merito di aver posto una questione fondamentale: quella del magistrato onorario non può essere una professione e quindi chi entra in servizio dopo il decreto non può avere incarichi per più di otto anni e non può lavorare per più di due giorni alla settimana. È evidente, e questo gli va riconosciuto, che la magistratura onoraria ha svolto in questi anni una funzione importante di fronte alle carenze di personale e al numero insufficiente dei magistrati ordinari, e di fronte anche a una mole di lavoro da sbrigare che si è accumulata negli anni”. Che via avete scelto? Cosa ci sarà nel decreto? “La politica, nei prossimi mesi e nei prossimi anni, deve riconsiderare tutta la questione. Ma adesso c’è un problema immediato da risolvere. I magistrati che hanno lavorato prima della riforma Orlando mettono sul tavolo dei problemi a cui bisogna dare una risposta. Questo abbiamo tentato di fare al Senato giungendo alla stesura di un testo unificato, condiviso dalla maggioranza, frutto del lavoro delle colleghe Valeria Valente ed Elvira Evangelista, che dà risposte ad alcuni problemi”. Ma quella riforma è ferma da mesi... “Il testo si è bloccato in commissione perché la presidente del Senato Elisabetta Casellati ha scelto di bloccare tutti i provvedimenti che non riguardassero il Covid. Adesso però c’è un’evidente urgenza di dare risposte subito. E il percorso tradizionale sarebbe troppo lungo per dare certezze ai magistrati onorari rispetto alla prospettiva di chiudere la loro attività a 70 anni. Risposte che riguardano anche la questione economica”. In concreto il decreto cosa prevedrà? “Per i magistrati onorari sarà possibile lavorare per tre giorni alla settimana. Viene fissata un’indennità più alta rispetto a quella stabilita nel 2017. Nella legge sono previsti fino a 38mila euro all’anno, più una quota di 98 euro per ogni udienza sostenuta. In sede di decreto, credo che si debba ragionare anche di un aumento dell’investimento per consentire ai magistrati onorari e ai giudici di pace di potersi costruire un percorso previdenziale e un’assicurazione sanitaria. Per loro ci sarà comunque la proroga dell’incarico per altri quattro quadrienni, prevedendo però che possano lavorare fino a 70 anni, mentre quelli che hanno cominciato a lavorare dopo la legge Orlando potranno restare in servizio fino a 65 anni”. Però la sentenza della Corte del Lussemburgo, che i giudici civili stanno applicando a seguito di singoli ricorsi, stabilisce una sostanziale parificazione, dal punto di vista economico, di magistrati che, pur non avendo fatto il concorso, trattano il 60% della giustizia in Italia... “Già la riforma Orlando serve a chiarire che i magistrati ordinari e i giudici onorari non sono la stessa cosa e non svolgono la stessa funzione. Adesso dobbiamo affrontare una frase di transizione, cercando di garantire nel miglior modo possibile i diritti di chi ha reso un servizio al funzionamento della giustizia in questi anni. Però c’è un principio costituzionale che non può essere messo in discussione: i magistrati fanno il loro lavoro superando un esame di abilitazione e facendo un concorso. Qui sta la differenza, per cui le due figure non possono essere uguali. Tenendo conto che questa situazione è evidentemente anomala e che si è prodotta nel tempo per la grande mole di lavoro che deve affrontare la giustizia italiana”. Ma ha letto la sentenza di Napoli? Il giudice civile Giovanna Picciotti il 26 novembre ha scritto che questi giudici hanno diritto “a un trattamento economico e normativo equivalente a quello assicurato ai lavoratori comparabili che svolgono funzioni analoghe alle dipendenze del Ministero”. E allora? Il ministero dovrà pur rispettare una sentenza come questa... “Io credo che ci sia un oggettivo problema di costituzionalità, per cui non sono comparabili i ruoli di magistrato onorario con quello di magistrato ordinario. Non nego però che esista il problema di migliorare il trattamento economico e la vita lavorativa di questi magistrati”. E cioè cosa propone? “In sede di conversione del decreto si potranno affrontare altri temi, come quelli organizzativi e di ruolo, nonché il riconoscimento della maternità”. Eppure guardi che il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, il magistrato che ha diretto l’ufficio legislativo di via Arenula, parla di”5mila giudici onorari e di pace che hanno ricevuto un trattamento inaccettabile”. Aggiunge che a loro “sono state date responsabilità sempre maggiori ma è mancato il pieno riconoscimento dei loro diritti che, al contrario, sono stati mortificati”. E allora? “Lui dice una cosa seria e giusta, cioè che hanno svolto un ruolo importante e rischiano di essere trattati in modo non adeguato al contributo che hanno garantito. Per questo, in attesa di una riforma più ampia, penso sia giusto fare un decreto che soddisfi meglio le esigenze che vengono da quel mondo”. Ma ha sentito il presidente della Consulta Giancarlo Coraggio? La Corte ha riconosciuto il loro diritto alla piena copertura delle eventuali spese legali e Coraggio ha detto che “la funzione è la stessa, giudicare è la stessa cosa, sia che si giudichi di materie che hanno un maggior o minore impatto economico”. Non le pare che si debba prevedere un ruolo meno precario di questa categoria? “Siamo di fronte a una transizione in cui dobbiamo garantire il più possibile chi ha svolto questo ruolo per molti anni in passato e che continua a svolgerlo. La riforma Orlando già riduce l’impiego e l’impegno della magistratura onoraria...” Ma loro non vogliono questo... “A questo punto serve una riforma più complessiva. Dobbiamo assumere più magistrati ordinari avendo meno bisogno del supporto degli onorari. Ma serve una transizione che garantisca chi ha lavorato in questi anni, mentre chi lo farà in futuro dovrà farlo con un impegno più limitato”. “Ecco perché denunciamo l’Italia”. Le accuse dei Regeni al governo di Giuliano Foschini La Repubblica, 7 gennaio 2021 I genitori di Giulio depositano l’esposto: “La vendita delle navi all’Egitto viola la legge”. La vendita delle due fregate militari al governo egiziano è “avvenuta in palese violazione della legge”. Perché vendere armi a Paesi che si sono macchiati di “gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dagli organi delle Nazioni Unite o dall’Unione europea” è vietato dalla legge 185 del 1990. Per questo i genitori di Giulio Regeni, Paola e Claudio, insieme con il loro avvocato Alessandra Ballerini, hanno depositato alla procura di Roma un esposto contro il governo italiano. Un atto forte, annunciato nei giorni scorsi e ora formalizzato davanti ai magistrati che indagano sulla morte del figlio. E che, nel silenzio della politica, “costringe” ancora una volta “Giulio a fare cose”, per citare un’espressione cara ai genitori del ricercatore italiano. Un atto - quello dell’esposto - che apre una frattura importante tra la famiglia Regeni e il nostro esecutivo: dopo aver visto un figlio sequestrato, torturato e ucciso da apparati di uno Stato estero, così almeno sostiene la procura di Roma, sono costretti, da cittadini, a “difendersi” dal governo italiano. La denuncia è stata presentata, infatti, nell’ambito del procedimento penale aperto dalla procura di Roma sull’assassinio di Giulio. Tutto si muove attorno alla decisione del governo di vendere le due fregate Fremm, realizzate in Italia, al governo egiziano. La prima delle quali è stata consegnata il 23 dicembre scorso ai cantieri del Muggiano a La Spezia. La legge 185/90, fa notare l’avvocato Ballerini, prevede nel primo articolo il divieto di esportazioni di armi verso Paesi che violano le convenzioni internazionali in tema di diritti umani. La famiglia Regeni è convinta che l’Egitto sia tra quei Paesi. E lo è sulla base di una serie di documenti: le tre risoluzioni del Parlamento europeo - tra il 2018 e il dicembre del 2020 - che hanno dato atto di come il governo egiziano abbia “intensificato la repressione nei confronti dei difensori di diritti umani”. Nel rapporto del 2017 contro la tortura delle Nazioni Unite si dice invece che la “tortura in Egitto è sistematica e spesso effettuata per ottenere una confessione o punire i dissidenti politici. E ha luogo in stazioni di polizia, strutture della Sicurezza dello Stato”. Non a caso ad agosto del 2019 l’Onu ha annullato la conferenza contro la tortura che avrebbe dovuto svolgersi proprio al Cairo. La questione riguarda l’Italia ma evidentemente tocca anche l’Europa: il ministro Luigi Di Maio porterà, a fine gennaio, il dossier Regeni sul tavolo dell’incontro tra i ministri degli Esteri europei chiedendo sanzioni per l’Egitto di Sisi. Resta però l’enorme tema del rapporto tra il governo italiano e quello egiziano. Il 29 dicembre scorso l’ufficio della procura generale del Cairo ha attaccato duramente i magistrati italiani e la loro indagine che porterà, nelle prossime settimane, all’imputazione per quattro agenti della National security, il servizio segreto civile egiziano, accusati dell’omicidio e delle torture su Giulio. “Indagini scorrette” ha scritto il procuratore generale Hamada Al Sawi mentre nelle trasmissioni televisive più vicine al governo è partita un’offensiva contro l’Italia e contro l’inchiesta condotta sui presunti assassini di Giulio. Tutto questo mentre l’ambasciatore italiano al Cairo. Giampaolo Cantini, continua i suoi incontri istituzionali con i vertici del governo egiziano. La famiglia Regeni ha chiesto il richiamo dell’ambasciatore per consultazioni. Il governo ha sempre sostenuto che invece sia necessario tenerlo al Cairo per “ottenere la verità” e che “in ogni incontro c’è il caso Regeni come priorità”. Non ce n’è traccia però nel report dell’incontro del 4 con il ministro delle Finanze egiziano, Mohamed Maait, “il ministro - si legge in una nota ufficiale del governo - ha auspicato uno sviluppo della cooperazione bilaterale con l’Italia”. Detenuto per mafia: sì ai domiciliari per accudire il figlio autistico a casa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 gennaio 2021 Il tribunale ha respinto i domiciliari a un detenuto accusato di mafia per accudire il figlio infraseienne autistico. Scatta quindi il ricorso con atto a firma dell’Avvocato difensore Pantaleo Cannoletta: la Cassazione l’accoglie e rigetta l’ordinanza del tribunale chiedendo una nuova valutazione, perché teoricamente ci sarebbero tutti gli estremi per concedere i domiciliari. E questo nonostante ci sia la presenza della madre. Il motivo? Lei risulta chiaramente impossibilitata a dare assistenza al minore, ma soprattutto viene preso in considerazione un principio indissolubile: la considerazione del “rischio in concreto derivante per il bambino dal deficit assistenziale, sotto il profilo della irreversibile compromissione del processo evolutivo- educativo, dovuta alla mancata, valida ed efficace presenza di entrambi i genitori”. È la sentenza della Corte di Cassazione n. 36884 che, oltre al rispetto dei principi enunciati, ha inteso dare continuità alle passate aperture su tale linea interpretativa, laddove era stato affermato il principio, secondo cui la situazione di assoluta impossibilità della madre può essere desunta anche dalle precarie condizioni di salute della donna e dalla necessità di provvedere alle necessità di altro figlio minorenne portatore di grave malattia. Ovvero - si legge nella sentenza della Corte - laddove “era stato affermato che il divieto di custodia cautelare in carcere nei confronti dell’imputato, padre di prole di età inferiore a sei anni, opera anche nel caso in cui i minori possano essere affidati a congiunti disponibili o a strutture pubbliche, in quanto ad essi il legislatore non riconosce alcuna funzione sostitutiva, considerato che la formazione del bambino può essere gravemente pregiudicata dall’assenza di una figura genitoriale, la cui infungibilità deve, pertanto, fin dove possibile, essere assicurata, trovando fondamento nella garanzia che l’art. 31 Cost. accorda all’infanzia”. Nella fattispecie in esame, la Corte parte dalla premessa che risulta indiscussa la gravità delle condizioni del figlio dell’indagato, involgenti una patologia dello spettro autistico con comportamento oppositivo autolesionistico, eteroaggressività e linguaggio assente (utilizza esclusivamente la parola mamma in maniera indifferenziata). D’altronde, nel ricorso, l’avvocato ha sottolineato che il bambino è affetto da “disturbo dello spettro autistico con compromissione intellettiva e del linguaggio associata a disregolazione emotiva e atteggiamento oppositivo, con disturbi del sonno, assenza di linguaggio, eteroaggressività, tendenza all’autolesionismo e a mettere in atto condizioni pericolose che rendono impossibile a una donna sola di prestargli assistenza”. Anche per la Cassazione, quindi, tale patologia è talmente grave da rendere necessaria la compresenza di entrambi i genitori in casa, tanto più che nello stesso nucleo vive altra minore, figlia della coppia, di sette anni. Per questo motivo, secondo la Corte, occorre, alla luce del principio già ribadito, tener conto di tale situazione. Ecco perché ha accolto il ricorso del detenuto in custodia cautelare per reati legati al 416 bis. Secondo la Cassazione, il Tribunale del riesame, nel valutare l’assoluta impossibilità della madre ad occuparsi della prole, “non avrebbe dovuto considerare solo la condizione della stessa, ma anche tener conto delle condizioni di salute del minore infraseienne, P. A., e verificare, in concreto, la sussistenza o meno per lo stesso di un ‘ deficit’ assistenziale, sotto il profilo della irreversibile compromissione del processo evolutivo- educativo per la mancata, valida ed efficace presenza di entrambi i genitori”. Carcere, rischio Covid: non va notificata alla vittima la richiesta di domiciliari di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2021 Per la Cassazione, sentenza n. 165 del 5 gennaio 2021, le esigenze di giustizia non possono che essere recessive rispetto alla salute del detenuto. La richiesta di sostituzione del regime carcerario per motivi di salute - nel caso il rischio Covid per detenuto ultrasettantenne - non deve essere notificata anche alla parte offesa, nello specifico oggetto di estorsione aggravata dal metodo mafioso. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 165 depositata il 5 gennaio 2021. Accolto dunque il ricorso di un uomo contro la decisione del Tribunale del Riesame di Palermo confermativa di quella del Gip che aveva ritenuta l’istanza inammissibile proprio per violazione della previsione contenuta nei commi 2 bis e 3 dell’articolo 299 del Cpp. Nel ricorso l’imputato ha contestato la sussistenza dell’obbligo di informazione della persona offesa, in quanto specificamente connesso alla presentazione di istanze di revoca o di sostituzione delle misure cautelari per assenza o attenuazione delle esigenze cautelari. Mentre nel caso di specie l’istanza difensiva era stata formulata ai sensi dell’art. 275 co. 4 c.p.p., “per far valere una situazione di incompatibilità con il regime intramurario, dovuta all’età e alle condizioni di salute del detenuto”. E la Suprema corte gli ha dato ragione con una decisione di ampio respiro che richiama i principi costituzionali sulla tutela del diritto alla salute e le recenti pronunce della Corte Edu, anche sul caso Provenzano, relativamente ai trattamenti inumani e degradanti. La Corte ricorda che la norma è volta a evitare che “la persona offesa, già vittima di un reato, possa tornare a divenire oggetto delle violenze da parte dell’autore del reato”. “La disciplina - prosegue la decisione - si inserisce nell’ambito di una stagione di tutela di soggetti vulnerabili, inaugurata a livello internazionale e dell’Unione europea, che, specie dall’approvazione del Trattato di Lisbona, ha portato, anche nel nostro ordinamento, alla progressiva ammissione della vittima sul palcoscenico processuale “. Ciò detto, prosegue, non si è davanti a una richiesta di modifica/sostituzione della misura cautelare in corso, ma alla prospettazione di una situazione di incompatibilità per età e per ragioni di salute col regime carcerario in considerazione del maggior rischio di contrazione del covid-19. Per la Corte va dunque verificata l’applicabilità della norma sulla comunicazione alla vittima anche in questi casi. Per prima cosa i giudici rilevano che l’obbligo di informativa “non ha un carattere generalizzato” essendo espressamente previsto solo in caso di istanza di parte (non dunque quando l’iniziativa sia d’ufficio). Né ve n’è traccia nella lettera dell’articolo 274, comma 4bis del Cpp, per i casi di revoca o sostituzione della misura per ragioni di salute. Quanto a una possibile applicazione in via interpretativa, la Cassazione richiama la costante giurisprudenza che ha ritenuto applicabile l’articolo 32 della Costituzione sulla tutela della salute anche ai cittadini costretti. “Emblematico” dell’orientamento della Corte costituzionale in ordine alla preminenza del diritto alla salute, è la recente pronuncia con la quale, estendendo l’applicabilità della detenzione domiciliare “in deroga” ai casi di grave infermità psichica sopravvenuta in corso di detenzione, “emerge l’apertura del Giudice delle Leggi verso il riconoscimento della prevalenza del diritto alla salute della persona nel bilanciamento con il principio di ordine e sicurezza pubblica” (Corte Cost. n. 99 del 2019). Così come, anche nella più recente giurisprudenza della Corte Edu il diritto alla salute “è stato oggetto di una maggiore attenzione e crescente severità nella verifica di compatibilità delle condizioni di detenzione con il rispetto della dignità umana”. Dopo la sentenza Mouisel (Corte Edu, 14 novembre 2002, Mouise v. France, ric. n. 67263/01), che ha inaugurato tale filone, l’obbligo, relativo al trattamento dei detenuti malati, ricorda la Cassazione, ha trovato una più analitica declinazione in un’importante sentenza del 2010, con la quale la Corte ha chiarito che esso si specifica in tre “obligations particuliéres”: verificare che il detenuto sia in condizioni di salute tali da poter scontare la pena, somministrargli le cure mediche necessarie e adattare, ove necessario, le condizioni generali di detenzione al suo particolare stato di salute (Corte EDU, 9 settembre 2010, Xiros v. Greece, ric. n, 1033/07, S 73). In questo senso la prima obbligazione deriva dal principio, proprio dello Stato di diritto, secondo cui la “capacità di subire una detenzione è presupposto indefettibile per l’esecuzione della stessa”. Un ulteriore aspetto è stato sottolineato con la sentenza nel “caso Provenzano c/ Italy, n. 55080/2013), in cui la Cedu, nel riscontrare una violazione dell’art. 3 Cedu rispetto all’ultimo decreto di proroga del regime 41-bis, stante il deterioramento delle condizioni cognitive del recluso, ha considerato dirimente l’effettiva condizione psico-fisica del detenuto ai fini della determinazione della sua pericolosità. In definitiva, le esigenze di giustizia “non possono che essere recessive rispetto alla salute del detenuto”. E l’opera di bilanciamento “deve farsi ancora più accurata rispetto alla carcerazione preventiva”. Del resto, il rischio di recidiva personale, considerato che è tale rischio che genera il diritto della vittima a partecipare al procedimento incidentale sulla libertà e a rappresentare le proprie ragioni attraverso il deposito di memorie, così come la pericolosità sociale, “deve ritenersi quantomeno fortemente scemato in presenza di condizioni di salute fragili riscontrate nel detenuto”. Napoli. “In cella con sintomi: a Secondigliano non si fanno i tamponi per Covid” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 gennaio 2021 La denuncia dell’associazione Yairaiha Onlus. Secondo gli ultimi dati del Dap, al carcere napoletano di Secondigliano risultano 16 detenuti contagiati, dei quali 4 ricoverati in ospedale. Ma, secondo le testimonianze raccolte dall’associazione Yairaiha Onlus, nel reparto Ionio S3 e della sezione S2 1° e 2° piano, ne risulterebbero molti di più con sintomi simili a quelli provocati dal nuovo coronavirus. “Nel reparto S2 - si legge nella missiva dell’associazione indirizzata alle autorità - sembra che quasi tutti i detenuti presentino diversi sintomi da Covid 19 trattati unicamente con tachipirina e con l’isolamento”. Dal reparto Ionio S3, Yairaiha Onlus ha ricevuto una segnalazione di un recluso (omettiamo il nome per privacy), già risultato positivo al covid nel carcere di Tolmezzo durante la prima ondata, e che da circa due mesi è assegnato al carcere di Secondigliano. Ha riferito di condividere la cella con un altro detenuto che da diversi giorni presenterebbe chiari sintomi da Covid 19 ma, si legge sempre nella missiva, “fino ad oggi, non è stato neanche sottoposto a tampone e teme che un nuovo contagio possa avere esiti nefasti”. Sì, perché il recluso è un soggetto a rischio complicazioni per via delle già riferite patologie pregresse. “Riteniamo - denuncia l’associazione Yairaiha Onlus - che la situazione venutasi a creare nei reparti S2 e S3 di Secondigliano sia allarmante e affatto sotto controllo: la mancanza, e forse l’impossibilità, di interventi immediati, l’impossibilità di mantenere il distanziamento sociale e di adottare tutte le accortezze richieste dalla pervasività del virus, rischia di generare un focolaio difficilmente gestibile”. Nel frattempo c’è Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania, che lancia l’allarme: “Mi auguro che la politica non neghi l’evidenza delle cose, e cioè che bisogna provvedere ai vaccini in via prioritaria nelle Rsa e nelle carceri, partendo dagli operatori penitenziari, operatori sanitari e detenuti, per questi ultimi su base volontaria”. Il garante regionale sottolinea che “lo Stato non può mettere una persona in carcere e poi esporlo al Covid. È una questione di diritto e di buon senso. Mi auguro altresì che alla campagna di vaccinazioni degli Istituti penitenziari segua un attento studio epidemiologico delle realtà penitenziarie”. E conclude: “Nelle carceri vi sono persone affette da diverse patologie, tra le quali malattie croniche a causa delle quali vi sarebbe un rischio maggiore in caso di contagio da Covid 19 rispetto agli altri”. Palermo. Una nuova vita dopo 40 anni in cella. “Aiuto i ragazzi di Brancaccio a salvarsi” di Claudia Brunetto La Repubblica, 7 gennaio 2021 Stefano Taormina, condannato all’ergastolo per una rapina finita in omicidio, ha ottenuto la liberazione condizionale. Ha lavorato per quasi un decennio al centro Padre Nostro. “Dedico la libertà a don Pino Puglisi: è sempre qui con me”. L’immagine di padre Pino Puglisi è sempre nel suo portafoglio. Non l’ha mai conosciuto, ma il suo messaggio gli è arrivato forte e chiaro nei nove anni in cui si è dato da fare come volontario in mezzo a bambini e ragazzi del centro di accoglienza Padre Nostro, a Brancaccio. Per Stefano Taormina, 64 anni, 40 dei quali passati in carcere, condannato all’ergastolo per omicidio dopo una rapina finita in tragedia, all’inizio di dicembre è arrivata la libertà condizionale. Per uno che nel suo destino aveva scritto “fine pena mai”, l’unica parola che conta è “libertà”. “Sono libero - dice Taormina - e ancora non ci credo. L’avvocato continuava a ripetermi “sei libero”, ma io non capivo. Anche perché in passato me l’avevano negata diverse volte. Provo una gioia immensa. Una nuova vita che inizia. La dedico anche a padre Puglisi che è sempre con me”. A salvarlo è stata la condotta virtuosa dentro e fuori dal carcere, ma anche una lunga lista di encomi ricevuti nel tempo in tutta Italia. “Mi sono diplomato come ebanista, ho fatto decine di corsi. Mi sono appassionato alla pittura, dipingo anche il volto di padre Pino Puglisi e ho esposto i miei quadri, ma non mi viene mai bene come vorrei, come me lo immagino. E poi nei nove anni al centro ho dato il massimo. Mi sono occupato dei campetti sportivi, ne sono stato custode e manutentore, ma quello che mi ha gratificato di più è stato il rapporto con i ragazzi. Alcuni li ho incontrati a cinque anni e oggi sono adolescenti”, dice Taormina. E a modo suo li ha educati, forte della sua storia. “Gli ho detto che a inseguire i soldi facili si sbaglia e si rischia grosso, come è successo a me, gli ho detto che la forza e la sopraffazione non sono gli unici modi per rapportarsi agli altri. Gli ho detto di non perdersi in strada e di cercarsi un vero lavoro”, racconta. A Brancaccio è nato e cresciuto, così come i suoi due figli, i tre nipoti e gli altrettanti pronipoti. Il quartiere lo conosce a memoria, fiuta e scruta ogni cosa, riconosce l’illegalità anche quando è ben nascosta. I ragazzi stessi lo fermano, conoscono la sua storia. Per loro è un esempio. “Se vedo due ragazzi in motorino uscire di zona, già mi preoccupo - dice Taormina - temo si spostino per qualche colpo. Quando li fermo per strada, gli chiedo dove hanno preso il motorino che guidano e gli faccio un sacco di raccomandazioni. A Brancaccio perdersi è un attimo. La mia vita lo dimostra”. Brancaccio, però, gli ha anche offerto la possibilità di riscattarsi. E adesso gli ha dato un vero lavoro nella casa di riposo per anziani “Il giardino dei racconti”, dove fa il cuoco e si occupa della manutenzione. “Nel mio percorso durissimo che mi ha costretto a rinunciare a tutto, alla vita, a mia moglie lasciata sola a 16 anni, ai miei figli che non ho visto crescere, ho incontrato anche tante persone che hanno creduto in me, che mi hanno dato fiducia. È anche grazie a loro che ho raggiunto questo traguardo. La vita in carcere è stata durissima, ma ho dimostrato di meritarmi anche altro”. Dai primi di dicembre la sua vita è fatta di lavoro, di affetti, del centro Padre nostro e anche delle rigide regole da seguire ogni giorno. “Ci abbiamo creduto fortemente - dice Giuseppe Inguaggiato, il suo avvocato - La libertà condizionale di Taormina è il risultato del contributo di tutti. Ciascuno ha fatto la sua parte, partendo da un punto certo: lo straordinario impegno di quest’uomo che ha commosso tutti noi”. La libertà condizionale ha una serie di vincoli: anzitutto l’obbligo di presentarsi in questura tre volte alla settimana e il divieto di uscire di casa dalle 21,30 alle 7 del mattino. “Ma non devo tornare più in carcere”, dice Taormina. Dopo cinque anni senza sbagliare mai, lo aspetta l’estinzione della pena. Un fatto più che eccezionale. “Un miracolo - dice Taormina - Adesso l’unica cosa che mi manca per sentirmi libero davvero dentro di me, nel mio cuore, è poter chiedere perdono ai familiari della persona che non c’è più per causa mia. Soffro maledettamente, ho avuto anche un infarto per il dolore. Penso sempre a quello che ho fatto e mi pesa non essere riuscito, in tutti questi anni, a raggiungere i suoi familiari, anche se ci ho provato tante volte. Spero di farcela in questa nuova vita, attraverso l’assistente sociale che mi segue”. Per il centro Padre Nostro, Stefano Taormina è “l’ennesimo frutto di padre Pino Puglisi”. “Per nove anni è diventato il perno di tante nostre attività - dice Maurizio Artale, presidente del “Padre Nostro” - il centro è stato creato per questo, per seguire le persone singolarmente in un percorso di rinascita, per provare a concedere loro un’altra possibilità, nonostante tutto”. Avellino. Ingerisce 19 ovuli di hashish, detenuto in gravi condizioni di Monica De Benedetto Il Mattino, 7 gennaio 2021 Ha ingerito diciannove ovuli contenenti hashish, due è riuscito a espellerli, due gli sono rimasti nell’intestino e quindici nello stomaco. Gli ovuli, evidentemente, non erano ben sigillati ed ha rischiato di morire. L’uomo, un 40enne napoletano, detenuto della Casa circondariale di Ariano Irpino, ora si trova ricoverato in prognosi riservata a Giugliano dopo esser stato operato presso l’ospedale Frangipane del comune in provincia di Avellino. Il 40enne era rientrato in carcere in seguito a un permesso premio per Capodanno e aveva pensato bene di fare “scorta” per sé e per gli altri detenuti forse anche per “festeggiare” l’Epifania, ma nella serata di martedì si è sentito male, probabilmente per la rottura di uno o più ovuli. Immediatamente soccorso dall’equipe medica dell’istituto e dagli agenti di polizia penitenziaria, è stato portato d’urgenza presso il nosocomio arianese, dove, valutata la gravità della situazione, i sanitari hanno predisposto la sala operatoria per il delicato intervento chirurgico che gli ha salvato la vita. È stato poi necessario il trasferimento al San Giuliano dell’Asl Napoli 2 poiché la terapia intensiva di Ariano è riservata ai malati di Covid. Le sue condizioni sono serie ma non dovrebbe più essere in pericolo di vita. Certo ha rischiato molto, sia per l’occlusione intestinale, che per il rischio overdose. È stato, naturalmente, aperto un fascicolo d’inchiesta da parte della Procura di Benevento con le indagini da parte della Polizia penitenziaria. E si riapre il dibattito sulle norme che prevedono il reinserimento sociale dei detenuti. In questo caso quello che doveva essere un detenuto modello tanto da meritare il premio di tornare a casa per le feste, ha ceduto nuovamente alla tentazione di delinquere, prestandosi quale corriere della droga; al vaglio degli inquirenti anche l’ipotesi che sia stato costretto ad ingerire le capsule con l’hashish per rifornire gli altri reclusi. Sulla questione intervengono i sindacati: “Purtroppo - affermano Vincenzo Palmieri e Luigi Castaldo, segretari dell’Osapp - nonostante i benefici previsti e concessi per legge dai magistrati di sorveglianza di turno, molti detenuti non hanno remore a perpetrare reati, anche rischiando la propria vita. E ciò deve indurci a una riflessione, affinché si possano apportare le dovute modifiche legislative, deterrenti per questi incresciosi fenomeni che destabilizzano l’ordine e la sicurezza dei penitenziari”. Firenze. Svolta sulla casa per madri detenute di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 7 gennaio 2021 L’Icam nascerà in una palazzina in via Fanfani e permetterà ai figli di non crescere in carcere. Dalla Regione 350 mila euro, a marzo via ai lavori. Funaro: “Finalmente siamo alla realizzazione”. A un anno dalle rassicurazioni del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, si torna a parlare della casa per le madri detenute, ma stavolta la decisione sembra ufficiale e definitiva. I loro figli potranno crescere fuori dalle celle del carcere di Sollicciano. L’istituto a custodia attenuata per le madri detenute (Icam) dovrebbe aprire a Firenze entro marzo 2022 nella palazzina della Madonnina del Grappa in via Fanfani, a Rifredi, dopo almeno un decennio di intoppi burocratici. A dare una svolta per la nascita del progetto voluto dal Comune, i 350 mila euro aggiuntivi stanziati dalla Regione. “L’obiettivo principale resta la realizzazione degli Icam su tutto il territorio nazionale, quindi anche a Firenze” ha confermato qualche mese fa Bonafede. La struttura, circa 400 metri quadrati e per 900 mila euro di investimenti, si sviluppa su due piani e potrà ospitare otto mamme con i rispettivi figli in quattro stanze. Previste altre stanze per gli operatori sociali e per gli agenti penitenziari, oltre ad uno spazio ludoteca per i bambini e uno spazio di formazione per le recluse. I lavori dovrebbero cominciare a marzo per terminare entro dodici mesi. “Finalmente siamo arrivati alla realizzazione di una struttura importante per la città - commenta l’assessore alle politiche sociali Sara Funaro - È un segno di civiltà far vivere ai bambini la dimensione dello spazio casalingo familiare, lontano da un contesto di reclusione, si tratta di un progetto a tutela del bambino affinché possa vivere e crescere in una situazione di normalità”. Lo scorso dicembre, la realizzazione della struttura era stata approvata dalla Commissione politiche sociali di Palazzo Vecchio e presto verrà portata in Consiglio comunale ma non ci sono ostacoli. Un progetto, quello dell’Icam, inseguito da anni e mai realizzato. Tanti, nel corso degli anni, i politici che ne hanno rivendicato l’utilità. Nel 2013 fu l’ex ministro della giustizia Annamaria Cancellieri, in visita a Sollicciano, a garantire, entro un anno, l’inaugurazione della struttura. “L’Icam è ormai in fase di realizzazione”. Parole d’orgoglio anche dall’ex sindaco Renzi: “Siamo stati i primi in Italia ad aver fatto l’Icam”. La struttura in via Fanfani c’era, ma senza un segno di vita, solo quelli dell’incuria. Stavolta pare quella buona. A gestire i lavori di ristrutturazione sarà la Società della Salute. “Voglio ringraziare la Società della Salute, il Comune, la Regione e il ministero per un progetto sociale importante a lungo inseguito, che farà sì che sempre meno bambini debbano crescere negli ambienti carcerari” dice don Vincenzo Russo, cappellano di Sollicciano e coordinatore della Madonnina del Grappa. Treviso. Vivere in un carcere minorile al tempo del Covid di Roberto Grigoletto oggitreviso.it, 7 gennaio 2021 “Si patisce più che fuori la solitudine e l’isolamento”. Il racconto di quest’anno nelle parole di don Otello Bisetto, cappellano dell’istituto penale minorile. Un “senso di carcere”, proprio nel “senso” di avere un assaggio di come si possa vivere in prigione, lo abbiamo provato tutti nei mesi del primo lockdown, quello tra marzo e maggio. Si potrebbe pensare, per questo, che chi sta dentro sia attrezzato per quarantene e isolamento. E qui ci si sbaglia: la pandemia si è abbattuta sugli istituti penali con effetti ancor più deleteri dal punto di vista psicologico. Sui detenuti più giovani, soprattutto. Don Otello Bisetto è il cappellano dell’istituto penali minorenni di Treviso. Lo abbiamo incontrato oggi, nel giorno dell’Epifania, l’ultima festa del periodo natalizio. Don Otello, tre anni di carcere (si fa pare dire), mesi di pandemia compresi: come li ha vissuti? I ragazzi che arrivano in nell’Istituto penale minorile spesso hanno storie e vissuti diversi, origini e culture differenti, e non è facile per loro abituarsi al “regime” di un Istituto penitenziario. La mia presenza ha in qualche modo questo scopo: incontrare i ragazzi e parlare con loro; instaurare delle relazioni che favoriscano, per quanto possibile, un migliore inserimento dei ragazzi in un ambiente dove ci sono delle “limitazioni”. Di cosa parla più spesso con loro? Parlare con loro è offrire una motivazione per “ricominciare”, per trovare le energie affinché si impegnino nelle proposte di attività scolastiche ed extrascolastiche che puntualmente vengono organizzate nell’istituto minorile. Prima del Covid-19, venivano svolte molte iniziative con la partecipazione di molti gruppi di giovani che erano coinvolti nelle attività. Davano ai giovani detenuti una occasione di scambio e di svago, ma soprattutto gli stimoli giusti per ritrovare la strada per un reinserimento nella collettività. Con l’arrivo del virus che cosa è cambiato? È giunto alla vigilia del Carnevale 2020, proprio nel momento in cui stavamo preparando la festa con alcuni gruppi. Lo scompiglio è stato notevole. Di colpo si sono dovute adottare delle misure per impedire al virus di entrare in carcere. Un isolamento nell’isolamento, possiamo definirlo così? Nella prima fase del lockdown, a marzo e aprile), la scelta più importante è stata quella di limitare al massimo i contatti con l’esterno, impedendo l’accesso non soltanto ai volontari per le varie attività di animazione e integrazione, ma pure ai famigliari per i colloqui. Anche la scuola all’interno del carcere è stata sospesa, dico bene? La didattica garantita dagli insegnanti è stata interrotta come pure alcune attività dei laboratori che consentivano ai ragazzi di essere impegnati durante la giornata. Fortunatamente il minorile ha fatto in modo che fossero garantiti la didattica a distanza e i colloqui con i familiari. Qual è stata la reazione dei giovani detenuti? È stato un cambiamento che li ha destabilizzati. È il contatto con le persone ciò di cui hanno più bisogno. Osservandoli in questi mesi devo riconoscere che è stato veramente difficile per loro doversi accontentare dei pochi scambi che erano consentiti: il prof di educazione fisica, l’operatore del laboratorio artistico, la mediatrice culturale. Un distacco ancora più grande dal mondo… Ogni volta mi chiedevano quando sarebbero tornati i gruppi animatori delle attività ludico-ricreative; quando avrebbero potuto giocare ancora a calcio o anche incontrare le scolaresche del progetto “Voci”. E cosa rispondeva? Non è stato sempre facile far capire loro la situazione generata dal Covid-19. Certamente la Pandemia ha fatto sentire in modo più deciso la sensazione di solitudine e separazione dal mondo e per i minori e giovani in carcere è stata una sofferenza che spesso hanno tentato di mascherare. Come hanno affrontato i mesi del lockdown? Si sono in qualche modo rassegnati ad accettare questa situazione anche se, qualche volta, la tensione era palpabile per la stanchezza di dover vivere in questa condizione di “isolamento”. Grazie alla presenza di tante persone preparate (gli educatori, il medico, la psicologa, la Polizia Penitenziaria) il clima è sempre rimasto abbastanza tranquillo. La parte più difficile? Non è sempre facile far capire loro che il “tutto e subito” è solamente nella finzione dei videogiochi e dei film e che nella realtà le cose funzionano diversamente: pazienza! È un ambiente impegnativo il carcere minorile, i giovani sono spesso cresciuti in ambienti “difficili” e hanno una storia personale ingarbugliata. Non deve essere facile l’approccio... Cerco di offrire occasioni, anche se piccole, di dialogo di ascolto e di scambio. Il vissuto che si portano dietro fa assumere loro un atteggiamento arrogante e indifferente ma spesso si tratta di una “corazza” della quale si sono rivestiti per “proteggersi” e che non è sempre facile scalfire. Cosa patiscono più di tutto? Di sentirsi “normali” cioè capaci di vivere come delle persone che possono combinare qualcosa di buono e di bello per loro stessi e per la società che, in quanto detenuti, vedono come ostile e nemica. Noi tentiamo di “rappacificarli” con il mondo esterno. E fuori dal carcere: cosa avverte nel comune sentire nei confronti dei detenuti negli istituti di pena? Constato che la “società civile” ha bisogno di un cambio di mentalità riguardo al mondo carcerario. Durante questo tempo di pandemia ho visto anche dei giovani trasformarsi, diventare responsabili, accettare di compiere un percorso di “riparazione” profondo per affrontare meglio e seriamente il loro vissuto e preparare un avvenire. Dico sempre ai detenuti: “prima o poi fuori da qui ci dovete andare, perciò preparatevi a quel momento meglio che potete!”. La ascoltano? Alcuni ascoltano, ad altri sembra non interessi granché… certamente non mi stancherò di far presente che per me sono comunque persone (delle quali di fatto nemmeno conosco i reati commessi) e che una opportunità di “riscatto” non si deve negare a nessuno. Sta a ciascuno di loro mettersi in gioco. Se la desiderano, una mano da parte mia ci sarà sempre, per ripartire. Rovigo. Carcere minorile, città non attrezzata per quest’attività di Gianni Nonnato Il Resto del Carlino, 7 gennaio 2021 Per il carcere minorile a Rovigo ormai vi è un unico diffuso sentimento: rassegnazione. Anche il Comune capoluogo sta ragionando, ormai, sulla ricerca di sedi alternative a via Verdi per la Cittadella della Giustizia. Gli addetti ai lavori anche. Non ho certezze circa le conseguenze positive di un carcere minorile in centro città. Quello che mi preoccupa è l’assenza di strumenti, strutture e competenze per gestire le attività connesse ad una istituzione molto particolare che già a Treviso sta esprimendo problematiche molto complesse. Sono cose che potremo valutare nel tempo. Ciò che possiamo fare oggi è individuare le responsabilità di una scelta che crea conseguenze pianificatorie ad una città che era impreparata a tale scelta paracadutata a Rovigo. Anche noi dovevamo ben sapere che un semplice Odg, benché unitario, e non corroborato da azioni e manifestazioni pubbliche, non avrebbe prodotto che un salvacondotto per l’anima di molti, ma nessun risultato concreto. Non ci resta che cercare i responsabili di una simile scelta. È diffusa l’opinione che Bergamin e la Lega regionale, compreso Zaia, guarda caso di Treviso, avessero espresso un primo parere favorevole alle dirigenze ministeriali. Ma oggi Bergamin è sparito dai radar e la Lega sul tema non si esprime. Non possiamo sottacere l’impegno solo formale del Ministro Boccia interessato già nella primavera scorsa e per tempo, ma non possiamo, per correttezza, sottacere nemmeno la rassegnazione “ante litteram” della politica attuale. Se qualcuno sa individuarne altre sarebbe opportuno le partecipasse a tutti. Ancora una volta gli stessi elementi: le scelte e le manovre di pochi; il silenzio e il disinteresse di molti Rimini. “Babbo natale in carcere”, il progetto per i figli dei detenuti affidati all’Uepe altarimini.it, 7 gennaio 2021 L’iniziativa quest’anno non si è potuta svolgere in carcere, ma i partecipanti hanno cercato di rendere lo stesso il giorno speciale. Lunedì per alcuni bambini è stata una giornata di vera festa, nonostante il contorno e la distanza da una delle figure più importanti, quella del loro papà. Grazie al progetto “Babbo natale in carcere” i papà in affidamento all’Uepe hanno ricevuto un dono speciale grazie alla collaborazione di alcune associazioni di volontariato. L’iniziativa si è svolta nel ristorante “Come stai?” sede dell’associazione Team Bòta, e fa parte di un progetto che tradizionalmente viene fatto nel periodo natalizio per allietare le feste dei figli delle persone recluse nella casa circondariale Casetti di Rimini, la quale ospita l’iniziativa nella ludoteca. In quel giorno speciale i bambini hanno la possibilità di passare, con i propri papà, una giornata spensierata. In questa occasione e nell’impossibilità di stare vicini ai loro papà, babbo natale ha consegnato i doni in un’altra location dove sono giunte molte famiglie, anche da lontano. La giornata stata resa possibile grazie a Team Bòta, ai volontari dell’associazione Papillon e alla generosità delle famiglie riminesi che hanno donato tempo e giochi. Gloria Lisi, vice sindaca di Rimini e presente all’iniziativa, è da sempre molto attenta alla ricostruzione delle relazioni familiari e sociali necessarie per il reinserimento dei detenuti. “Sostenere le famiglie delle persone detenute, in particolare quando siano presenti minori, partendo dal presupposto che l’uomo non è mai riconducibile solo al suo errore ed è dalla famiglia che parte la motivazione al cambiamento e al recupero. Questo diminuisce realmente il rischio delle ricadute e ci aiuta a costruire ponti tra il detenuto e la società civile”. Il progetto, finanziato da risorse comunali e regionali, è sostenuto dal piano di zona per la salute e benessere Sociale che promuove il percorso area Carcere, a cui aderiscono vari enti del terzo settore: Caritas Rimini, Centro per le famiglie del Comune di Rimini, le cooperative Millepiedi e Centofiori, ApG23 Arcobaleno ed Enaip. Gli interventi si realizzano grazie alla collaborazione dell’amministrazione penitenziaria e l’area Educativa della casa circondariale. Milano. La bellezza non va mai in prigione di Ilaria Sesana La Repubblica, 7 gennaio 2021 La Triennale di Milano e il carcere di San Vittore distano poco più di un chilometro l’una dall’altro. Non potrebbero esistere in città due luoghi più “lontani” e diversi: da un lato uno dei cardini della cultura milanese e italiana, dall’altro un luogo circondato da alte mura e sbarre di ferro, che tanti milanesi preferiscono, semplicemente, ignorare. Eppure, da due anni a questa parte, tra la Triennale e il carcere è iniziato un fitto dialogo. Nel 2018 è stato realizzato il progetto “ti Porto in prigione”, che comprendeva una mostra fotografica, incontri e dibattiti. Nel 2019 è stata la volta di “PosSession”, che ha messo in dialogo fotografia e teatro riflettendo sulla detenzione femminile e sulla pratica dell’arte come strumento di recupero. Il 2021 si apre con una nuova sfida: il concorso di idee “San Vittore, spazio alla bellezza” rivolto a progettisti, architetti, designer, urbanisti e ingegneri con l’obiettivo di promuovere una nuova concezione della casa circondariale attraverso la riprogettazione di alcuni spazi per cambiarne la percezione e migliorarne la funzionalità. “San Vittore - si legge nel testo del bando - vuole delineare una nuova concezione di casa circondariale che trasmetta gli ideali e i valori di recupero e reinserimento di cui è detentore e che inneschi un nuovo pensiero positivo a partire dalla bellezza degli spazi che lo ospitano”. Tra gli architetti, i designer, gli urbanisti e gli ingegneri che avranno presentato la propria candidatura entro il 18 gennaio verranno selezionati sei gruppi, composti per almeno il 50 per cento da professionisti under 40. A ciascun gruppo verrà affidato uno spazio tra quelli identificati nel bando: il giardino, l’area colloqui, le celle maschili e quelle femminili, i cortili di passeggio, l’area mensa del personale. Parallelamente, Fondazione Maimeri, Shifton e l’associazione Amici della Nave hanno avviato una ricerca basata su interviste qualitative a chi “vive” il carcere (detenuti, agenti, operatori, volontari), che permetterà di individuare i bisogni della casa circondariale, servirà a esplorare possibili nuovi esigenze e immaginare le funzionalità da destinare agli spazi da riprogettare. “Il presupposto di questa iniziativa è che la bellezza è uno strumento fondamentale per trasformare i destini delle persone -spiega Lorenza Baroncelli, direttore artistico di Triennale Milano e referente del progetto. Nessuno di noi pensa di far diventare San Vittore un albergo a cinque stelle. Partiamo della bellezza di un posto sano e ben progettato, della quotidianità degna e dignitosa che è un diritto di tutti”. L’iniziativa “San Vittore, spazio alla bellezza” si propone di generare dei processi virtuosi di coinvolgimento e collaborazione reciproca tra carcere e città: “Noi siamo dietro alte mura, ma non siamo una città a parte “, spiega il direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano che, con questo progetto, mira a valorizzare il ruolo della casa circondariale, cambiando la percezione che il territorio ha della struttura: “La Casa circondariale può e vuole diventare un riferimento di eccellenza in grado di trasformare la reclusione in un’opportunità di crescita grazie all’apertura verso l’esterno e a un cambiamento guidato da un pensiero complessivo sulla consapevolezza che la bellezza possa suscitare spontanee sensazioni piacevoli, provocare suggestioni ed emozioni positive e generare un senso di riflessione costruttiva”. Ma davvero volete tornare alla “normalità”? di Lea Melandri Il Riformista, 7 gennaio 2021 Raramente un passaggio d’anno si è caricato di tanti interrogativi, sospiri di sollievo e aspettative, come quello che ci siamo appena lasciati alle spalle, tra il 2020 e il 2021. E non poteva essere altrimenti. La pandemia è caduta all’improvviso su un mondo già in affanno, per le crisi che lo attraversano da tempo, che vanno dall’economia, alla povertà crescente, al rapporto con l’ambiente, i fenomeni migratori, le differenze tra i sessi e le culture diverse. Si può dire che ha scavato dentro piaghe già scoperte, allarmi e previsioni tristemente profetici, costringendo “l’anima mundi”, per usare un termine platonico comprensivo di tutto l’esistente, a una sorta di autocoscienza. Sul tempo sospeso del “confinamento” - il presente ininterrotto di giornate sempre uguali -, è come se fossero precipitati all’improvviso i disastri del passato, le sue “vergogne nascoste” (Arundhati Roy), e, contemporaneamente, nuove inedite prospettive per il futuro. Non poteva che uscirne un rimescolamento di piani tradizionalmente separati e un pieno di contraddizioni, di spinte conservative e aperture al cambiamento. Il primo a cadere, nel momento in cui la presenza è diventata di per se stessa rischio di contagio, è stato il confine tra privato e pubblico: porte che si sono chiuse a protezione di interni di famiglia e, al medesimo tempo spalancate per far entrare attività lavorative svolte fino a quel momento all’esterno. Mai, come in questa singolare osmosi e abbinamento, è parso così evidente che cosa significa il “doppio lavoro” delle donne, così intollerabile il peso di dover sostenere la continuità della vita, come loro destino “naturale” e al medesimo tempo far parte di un sistema economico creato a uso e consumo di una comunità storica di soli uomini, secondo logiche che prescindono dalle radici biologiche degli umani. Per un altro verso, si è dovuto prendere atto che la cura - dei corpi, degli affetti, delle relazioni -, che si svolga nelle case o nei servizi sociali rivolti alla persona, non è quel “dono d’amore” che nasce spontaneo dalla “natura” femminile - ma un compito e una responsabilità lavorativa di soggetti differenti, quelli che negli ospedali hanno assistito i malati, rischiando le loro vite, e quelli che hanno continuato nei supermercati e nelle strade deserte ad assicurare che il cibo arrivasse a chi stava dentro le case. La modificazione dei confini che ha separato il cittadino dalla persona, presa nella sua interezza, non è di oggi. L’uscita dai dualismi che hanno contrapposto femminile e maschile, natura e storia, individuo e società, sentimenti e ragione, e la ricerca di nessi che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro, è stata il portato più originale della rivoluzione antiautoritaria e femminista degli anni Settanta, ma sembra che solo oggi quelle che chiamavamo allora le “problematiche del corpo” siano arrivate al cuore della politica. Esperienze universali dell’umano, confinate nel privato e nell’ordine della natura, come la dipendenza, la malattia, l’invecchiamento, la morte, escono allo scoperto e mostrano, fuori da coperture ideologiche, i segni che la storia, l’ordine sociale, economico in cui viviamo vi ha impresso sopra. Che le vite contassero meno della produttività e del denaro, che la vecchiaia, soprattutto se prolungata, fosse un carico mal tollerato per la spesa pubblica, oltre che per le famiglie, in assenza di servizi sociali, è una verità che già sapevamo, ma sono state le bare accatastate in attesa di cremazione, le sistemazioni improvvisate dei pazienti in terapia intensiva, il racconto di chi si è trovato in condizioni estreme senza il conforto di un amico e o di un parente, a sottrarre la morte “all’impensato”, a quel terrore senza nome con cui si è tentato di cancellarla. La consapevolezza della nostra fragilità, del bisogno che abbiamo gli uni degli altri, della solidarietà come valore prioritario per una società più umana, cambierà il nostro modo di vivere? C’è qualcosa, che nella sua contraddittorietà, lo fa sperare, ed è l’esperienza di una solitudine che si è venuta a trovare per la prima volta sostenuta da un eccezionale accomunamento: soli, ma in un ritiro che ci proiettava paradossalmente nel mondo, ripiegati su noi stessi, sulle nostre paure, sull’attenzione ai più lievi sintomi di contagio, e proprio per questo nella condizione di scoprire somiglianze e differenze rispetto agli altri umani. Costretti a misurare gli spazi delle abitazioni, in caso di quarantena, le risorse economiche per le cure necessarie, la sostenibilità di conflitti già esistenti all’interno delle coppie e delle famiglie, la possibilità o meno di sottrarsi a lavori esposti al rischio di contagio, si può pensare che le disuguaglianze sociali abbiano preso una visibilità nuova, difficile da mascherare ideologicamente e da far tornare in ombra. Ci sarà chi vorrà tornare a una “normalità” comunque rassicurante, anche se all’origine della pandemia stessa, ma non sarà facile distogliere gli occhi dai disastri di un modello di civiltà e di sviluppo, capitalista e patriarcale, di cui non siamo stati, come nella maggior parte dei casi soltanto “testimoni”, ma partecipi nella quotidianità delle nostre vite, delle nostre insicurezze e dei nostri desideri. Quei ragazzi dimenticati nell’inverno della pandemia di Walter Veltroni Corriere della Sera, 7 gennaio 2021 Il distanziamento sociale e il rischio per i giovani di smarrirsi proprio nel tempo decisivo della vita. “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita”. La famosa frase scritta da Paul Nizan in “Aden Arabia” oggi forse può essere applicata, diminuendo l’età definita, ai ragazzi italiani, e non solo, risucchiati nel gorgo di questa infinita pandemia. Nessuno ne parla. Nel profondo dell’animo - Nessuno sembra occuparsi di quello che sta accadendo nel profondo dell’animo degli adolescenti. Conosco molti amici che hanno figli di quell’età e leggo le analisi che varie università, in tutto il mondo, stanno facendo per capire quanto e come questa inedita condizione pesi oggi e potrà pesare domani sulla esperienza di chi oggi è più giovane. Giustamente ci si occupa, mai abbastanza, di chi è anziano. E i primi a farlo, con le loro ansie, sono spesso i nipoti. Ma chi si sta incaricando di capire com’è la percezione della vita in ragazzi che, nel momento decisivo della loro esperienza umana, si trovano espropriati, per ragioni oggettive, di ogni relazione, ogni forma di intrattenimento e di svago? E quanto pesa l’assenza dalla dimensione scolastica che è certo apprendimento ma anche scambio, condivisione, definizione di uno spazio proprio, il primo autonomo dalla famiglia, in cui ciascuno mostra se stesso ed è messo alla prova? Gli insegnanti si fanno in quattro e dal francobollo di uno schermo devono insegnare gli ablativi, la trigonometria, il Rinascimento a ragazzi di cui non possono percepire lo stato d’animo, con cui non hanno quella relazione psicologica che l’insegnamento frontale consente. Scoperta quotidiana - Perdere la pienezza dei quattordici o quindici anni, quando il mondo è una scoperta quotidiana delle sue possibilità e delle sue insidie, non è come vivere quest’esperienza a cinquant’anni. I ragazzi si sono incupiti, chiusi, molti hanno peggiorato i loro risultati scolastici, la maggioranza trascorre il tempo appesa allo schermo di un telefono che costituisce l’aggancio al mondo esterno, in questo inverno cupo e solitario. Secondo un’inchiesta promossa da Save the Children e realizzata da Ipsos i ragazzi dicono che nel 28% dei casi un loro compagno di classe ha abbandonato gli studi. E aggiunge: “Quasi quattro studenti su dieci dichiarano di avere avuto ripercussioni negative sulla capacità di studiare (37%). Stanchezza (31%), incertezza (17%) e preoccupazione (17%) sono i principali stati d’animo che hanno dichiarato di vivere gli adolescenti in questo periodo, ma anche disorientamento, apatia, tristezza e solitudine”. Mondo virtuale - Senza scuola, parchi, sport, incontri con gli amici, cinema, concerti, cosa resta se non la dimensione apparentemente infinita, l’unica senza confini e divieti, del mondo virtuale? Quello spazio non è irreale, anche quella è realtà. Le parole, i video, i giochi sono parte di un mondo dilatato, doppio. E questa duplicità oggi costituisce un salvagente per i ragazzi. Cosa sarebbero stati questi mesi senza la possibilità di scrivere agli amici, di giocare a distanza con loro, di coltivare le passioni? Non ci dobbiamo ripetere qui le distorsioni del mondo virtuale, i rischi racchiusi nei meccanismi di semplificazione estrema, nella manipolazione della realtà, nella concentrazione di enormi poteri in poche mani. Ma è parte del mondo contemporaneo. E c’è da augurarsi che presto le democrazie si decideranno a definire regole sapienti per evitare i rischi di oligopolio e che nelle scuole, dopo aver insegnato tre volte gli etruschi, si aiuterà un ragazzo a capire e utilizzare coscientemente tecnologie di conoscenza e relazione che oggi sono tanta parte della sua vita. E a metter tutti in condizione di farlo, visto che ancora oggi quasi un milione di ragazzi non ha né tablet né pc. Confinati in casa - Non ci si spaventi dunque se i ragazzi, confinati in casa, si affacciano sul mondo attraverso lo schermo di un telefono o di un computer. Lo fanno per non sentirsi soli. E quando lo fanno, credo sia giusto che i genitori non li colpevolizzino ma li comprendano e li rispettino. I ragazzi italiani non sanno se e quando torneranno a scuola. I banchi con le rotelle sembrano ora delle installazioni di arte contemporanea, nelle aule chiuse. Nel decidere se, come, quando le scuole riapriranno, si consideri anche il punto di vista dei ragazzi che non hanno rappresentanza, non siedono a nessun tavolo. Questo rafforza in me l’idea che la democrazia del duemila oltre alle forme di rappresentanza politico istituzionale dovrebbe alimentarsi di meccanismi di democrazia diffusa e di sussidiarietà. È possibile che mai nessun giovane abbia potuto dire la sua in tutti questi mesi di vertici, verifiche, seminari a Villa Madama? Arcobaleno - Vorrei che in questo frenetico e spesso surreale arcobaleno di giornate, regioni, orari si tenesse conto che esistono delle anime fragili. E che ci si ricordasse, in questo che non è un Paese per giovani, che in questo momento nelle case di milioni di italiani c’è una ragazza o un ragazzo che sta annaspando nel tempo decisivo della vita e c’è il rischio che si smarrisca. Per un ragazzo il “distanziamento sociale” è una pena più grave che per un adulto. Ricordarsene sempre. In un mondo adulto che è andato in confusione su tutto: vaccini, tamponi, terapie, governi, regole... l’unica cosa su cui tutti si sono sempre uniti è stata randellare i giovani se una sera uscivano, perfino essendo consentito, per vedere amici o semplicemente prendere un aperitivo. La peste e la stampa - In un piccolo libro curato da Sabrina Minuzzi per Marsilio e intitolato “La peste e la stampa” si riporta il racconto scritto nel 1576 dal notaio Rocco Benedetti di Venezia dopo la tremenda epidemia che colpì il nord d’Italia. Si dice: “Gli Signori prohibirno che nissuno, per undeci giorni, potesse andare in casa d’altri, né donne né putti uscir dalle sue contrade... Il negozio fra mercanti si levò in tutto, nella piazza li merciari e quasi tutti gl’altri artigiani serorno le loro botteghe... Parimente le piazze erano sgombre di genti e per la via si caminava senza ch’alcuno urtasse altro, non s’udivano più suoni né canti né altri dilettevoli intrattenimenti per le strade e canali...”. Quasi cinquecento anni dopo la immensa potenza della scienza e della tecnologia, che pure riuscirà a immunizzarci, ci consegna, di fronte alla pandemia, un paesaggio urbano e abitudini di vita non diverse da quelle descritte dal notaio Benedetti. Tanto più chi decide oggi deve avere nell’orizzonte delle sue motivazioni anche quello che gli algoritmi non registrano. Anche quello che sta accadendo nel cuore delle persone, tutte. E dei più fragili. Che non sono solo gli anziani. Ma anche i ragazzi, soli e ignorati, di questa Italia spaventata. Serie tv su San Patrignano, una occasione per fare il punto sulle droghe di Riccardo De Facci* Il Manifesto, 7 gennaio 2021 La realizzazione della serie tv su una delle comunità per tossicodipendenti più controverse del panorama italiano è l’occasione per fare il punto sulle politiche sulle droghe in Italia. La terribile vicenda di San Patrignano, infatti, va inquadrata in primo luogo nella situazione che si venne a creare negli anni Ottanta, quando una società spaventata e incapace di affrontare la diffusione dell’eroina decise di dare una delega amplissima ad alcune delle nascenti comunità. Fino al punto di avallare, facendone talvolta un simbolo per alcune parti politiche, un approccio che prevedeva l’espulsione e l’isolamento delle persone dalla comunità di appartenenza, a qualunque costo, in virtù di un mandato quasi onnipotente che ha lasciato spazi larghissimi - fino ai fatti gravissimi riportati nella serie - a chi si proponeva come unico salvatore. La “droga” era il mostro che giustificava tutto. Proprio questa concezione del fenomeno droghe e del modo per affrontarlo sarà poi cavalcata da chi voleva imporre anche in Italia, per ragioni politiche, una “guerra alla droga” che, inevitabilmente, portò a una repressione mirata verso i consumatori di sostanze, riempiendone le carceri. Si è accettato il ricatto di chi diceva che non c’era altro modo per “uscire dalla droga” se non la costrizione, la punizione, fino purtroppo a giustificare azioni di violenza inaudita. La campagna “Educare, non punire” che portò al referendum del ‘93, nacque proprio per contestare l’approccio repressivo della legge Jervolino-Vassalli, ispirato anche dal fondatore di San Patrignano. La campagna aveva l’obiettivo di rifiutare il condizionamento violento delle persone e il carcere come mezzo prioritario di induzione al cambiamento. Altri approcci erano possibili, come negli anni è stato dimostrato in modo inequivocabile dalla moltitudine di comunità e servizi di vario tipo, non solo del Cnca, che non hanno mai usato la violenza, fisica e psicologica, per sostenere le persone con problemi di dipendenza e accompagnarle con successo al cambiamento e al reinserimento nella società. Anche nella cura delle dipendenze, il fine non giustifica i mezzi. *Presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) Andrea Muccioli: “Sanpa era una guerra e anche mio padre sbagliò” di Fabio Cutri Corriere della Sera, 7 gennaio 2021 Il figlio del fondatore Vincenzo: “Lì c’erano ragazzi abbandonati dallo Stato”. “Il docu Netflix pura e semplice fiction. Crea ombre intorno alla figura del protagonista: ci riesce bene ma falsifica storia e modello”. Ho visto un ragazzo puntare un coltellaccio in pancia a mio babbo, avevo 16 anni. E sì, in quel periodo lui di schiaffoni ne ha dati non pochi. Sapevo anche dei ragazzi incatenati perché non fuggissero. Certo che la violenza c’era a San Patrignano, stiamo parlando di una guerra. Una guerra che però è stata vinta con la forza dell’amore”. Andrea Muccioli, figlio e per 18 anni successore di Vincenzo, è uno dei protagonisti di SanPa, il documentario di Netflix che racconta le origini della celebre comunità di recupero riminese. “Beh, non lo definirei proprio un documentario. È pura e semplice fiction. Cerca l’effetto “pulp” creando più ombre possibili intorno alla figura del protagonista. Ci riesce benissimo, ma ne falsifica la storia, il pensiero e il modello”. Racconta dei fatti, ripercorre i processi, ci sono le testimonianze. “Racconta alcuni fatti. In questi giorni sono subissato di telefonate di ex ospiti e dei loro genitori che mi dicono che quella non è la realtà che hanno vissuto. Mio padre in 17 anni ha accolto 8 mila persone. La Procura di Rimini raccolse le testimonianze di 200 persone: sono il 2,5%. La storia di San Patrignano non può essere guardata solo da questa prospettiva”. Quindi lei pensa che i metodi coercitivi usati in quegli anni siano incidenti di percorso? “Non lo penso. Credo anzi che siano stati errori gravissimi. Ma quando parliamo di San Patrignano non parliamo della Caritas, con tutto il rispetto. Parliamo di un percorso drammatico di accoglienza di giovani, i tossicodipendenti degli anni ‘80, che distruggevano le loro famiglie ed erano abbandonati dallo Stato. Venivano da contesti violenti e sarebbe stato inimmaginabile gestirli con la violenza. Perché la violenza la conoscevano e la esercitavano meglio di te. Come si fa a pensare di poter tenere insieme non dico mille persone, ma anche solo dieci con la forza? Scherziamo? Ecco, a proposito di fatti: la riprova di quello che dico sono le centinaia di bambini che i tribunali di tutta Italia ci diedero in affidamento”. I critici di Vincenzo Muccioli descrivono un padre padrone che ha costruito un metodo terapeutico incentrato sul suo carisma... “Lui per primo si definiva un padre, e a volte questa cosa gli è sfuggita di mano. È vero. Lo ripeto, gli ho visto mollare ceffoni. Ma attenzione: non ha mai autorizzato nessun altro a farlo. “Un fratello non alza mai le mani su un suo fratello” diceva. Lui voleva essere una figura forte di riferimento perché i ragazzi riacquistassero la fiducia e il rispetto in se stessi”. Qual è stato il suo errore? “Voler salvare tutti. L’accoglienza incondizionata ha un prezzo alto da pagare. Lui questo non lo accettava e così facendo a volte ha dato ai ragazzi una responsabilità più grande di quella che erano in grado di gestire. “Metto un letto a castello in più e ci arrangiamo” diceva di fronte alle centinaia di persone accampate fuori dal cancello. Ha aperto troppo rispetto alle nostre capacità organizzative. Il risultato è che ha delegato anche persone impreparate a gestire ragazzi in difficoltà”. Nel ‘93 si scoprì che un ospite, trovato cadavere in una discarica napoletana, era stato ucciso di botte dentro San Patrignano e poi trasportato in Campania. Suo padre prima affermò di non averne mai saputo nulla, poi cambiò versione. A lei cosa disse in quei giorni? “Alla notizia che Roberto Maranzano era morto in comunità reagì dicendo che una cosa del genere non era possibile, e io gli credetti. Quando venne fuori che sei mesi dopo il delitto, nell’89, lui era stato informato, fu come se mi fosse scoppiata una bomba in faccia”. Perché suo padre non denunciò subito? “Era in corso il processo per le catene, dal quale fu poi assolto. Credo temesse che su San Patrignano si abbattesse un colpo letale”. Come furono quei mesi? “Estenuanti. Arrivai a scontrarmi duramente con lui, perché ritenevo sbagliato aprire San Patrignano alla stampa. Eravamo sotto attacco e dentro la comunità c’erano giornalisti ovunque, sempre. La pressione era troppa, ma mio padre era convinto di poter gestire tutto a suo favore grazie al potere mediatico che aveva. Alla fine si ammalò, e la depressione lo ha strangolato. “Devo morire io perché San Patrignano continui a vivere” mi confessò”. Walter Delogu, suo autista e guardia del corpo, il grande accusatore, quello che lo registrò di nascosto mentre Muccioli parlava di eliminare persone scomode, racconta che lo stesso Muccioli gli aveva promesso centinaia di milioni in regalo ma non mantenne l’impegno. Perché dare cifre simili a un autista? “Delogu non aveva altre capacità che guidare la macchina. L’errore più grosso fu quello di dargli una pistola, la stessa che aveva addosso quando venne a chiedere soldi a mia madre. È stato condannato per estorsione. Il denaro? Mio padre di promesse ne ha fatte tante, lo avrebbe aiutato a farsi una vita fuori, ma forse la sua idea era di farlo gradualmente. La registrazione? Chiacchiere da bar, il babbo era fatto così, eccedeva spesso nel linguaggio”. Si racconta che a molti ospiti non fu comunicato che fossero sieropositivi. Una cosa taciuta dai vertici anche per anni. “Improvvisamente scoprimmo che in una comunità di 2 mila persone, 3 su 4 erano sieropositivi. Se lo avessimo detto a tutti nello stesso momento sarebbe stato il caos. Abbiamo scelto di comunicarlo uno ad uno, prendendo tempo. A distanza di anni? Ovviamente no. Io, per inciso, giocavo tutti i giorni a basket con ragazzi che sapevo essere sieropositivi”. Dopo la morte di suo padre, nel 1995 lei prese in mano le redini della comunità… “Non lo avrei voluto. Furono la comunità e i suoi finanziatori a scegliermi. Ribadii le regole stabilite da Vincenzo Muccioli: uno, mai ricevere soldi né dalle famiglie né dallo Stato; due, nessun finanziatore esterno deve intervenire nella gestione della comunità e dei ragazzi”. Moratti compresi? “Certo. La prima cosa che feci fu andare da Gian Marco e Letizia e restituire il miliardo di lire che loro avevano dato a mio padre per assicurare ai suoi figli un futuro dopo San Patrignano, dal momento che si era spogliato di tutti i suoi beni e noi non possedevamo nulla”. Un gesto generoso da parte loro. “Mio padre li chiamava i Dallas, erano molto amici. Dall’82 in poi hanno fatto tanto per San Patrignano, e lo hanno frequentato assiduamente: come ospiti però, mai come volontari con i ragazzi né come fondatori”. Nel 2011 cosa è successo? “È venuta meno la fiducia reciproca. Io non ero d’accordo con le loro scelte politiche e finanziarie, i Moratti volevano prendere il controllo della comunità. Così mi hanno destituito. Il messaggio alla comunità fu: se resta lui, chiudiamo i rubinetti. Mi sono ritrovato a dover ripartire da zero con una famiglia sulle spalle. Oggi faccio il consulente per il terzo settore e l’enogastronomia. Non ho rimpianti”. L’amarezza più grande legata a Sanpa? “Il giorno in cui mia mamma e io andammo a prendere le spoglie di mio padre per portarle via da lì. Un’amarezza? Un dolore enorme”. Chi era Vincenzo Muccioli? “Una montagna di uomo, con due mani grandi e degli abbracci che ti inghiottivano. Considerava tutti i ragazzi che soffrivano parte della sua famiglia, li chiamava i miei figli. Io ero uno di loro. Oggi (ieri, ndr) avrebbe compiuto 87 anni”. Le contraddizioni dell’Italia sulle riammissioni dei migranti di Annalisa Cuzzocrea e Fabio Tonacci La Repubblica, 7 gennaio 2021 Nei moduli fatti firmare alla frontiera con la Slovenia scompare la richiesta di asilo. Tutta l’ambiguità del Viminale a proposito di quanto sta accadendo sul confine italo-sloveno è contenuta in due righe sgrammaticate del modulo di riammissione. Quel pezzo di carta che hanno fatto firmare ad Osman nella caserma di polizia del valico Fernetti (Trieste) prima di essere riportato in Slovenia e spacciato - sostiene il 22enne pachistano nell’intervista a Repubblica del 5 gennaio - per una domanda di asilo. Ufficialmente la posizione del ministero dell’Interno è questa: le riammissioni per chi viene rintracciato entro i dieci chilometri dalla frontiera o entro le 24 ore dall’ingresso si possono fare anche nei confronti dei richiedenti asilo. Nel modulo da compilare con le generalità dopo l’attraversamento irregolare e da mostrare alle autorità slovene, però, si legge: “I cittadini (spazio vuoto) che non risulta nella richiesta in quanto richiedente asilo in (spazio vuoto) hanno reso dichiarazioni spontanee...”. Perché quest’ansia di attestare una circostanza non per forza vera, ossia che quella persona o quelle persone da rimandare indietro abbiano già depositato la domanda di protezione internazionale altrove? L’accordo del 1996: no riammissioni per i rifugiati - La storia è intricata, nasce da accordi risalenti al 1996 quando la Slovenia non era neanche nell’Unione e la rotta balcanica non esisteva, si presta a interpretazioni giuridiche non univoche, va sbrogliata. Partendo dai fatti. Quest’anno i numeri delle riammissioni nei settori triestino e goriziano sono esplosi. Nel secondo semestre del 2019 non superavano le cento unità. Lo scorso maggio, su precisa direttiva del Viminale e su spinta del governatore leghista Massimiliano Fedriga, hanno cominciato ad aumentare fino a superare quota 1.300 nell’arco del 2020. E questo nonostante sia ormai documentata la prassi del cosiddetto respingimento a catena: i poliziotti sloveni consegnano i migranti riammessi dall’Italia ai croati, i croati li riportano - spesso con violenze e soprusi - nei boschi della Bosnia. Ossia fuori dal perimetro dell’Unione. Eppure l’accordo del 1996 prevede che l’obbligo di riammissione non sussista per “i cittadini di stati terzi ai quali la parte contraente (quindi Italia o Slovenia, ndr) ha riconosciuto lo status di rifugiato in applicazione della convenzione di Ginevra”. La questione, dunque, si complica ancor di più. Cosa dicono le associazioni pro-migranti - Dice Gianfranco Schiavone, presidente del triestino Consorzio italiano di solidarietà: “Il riconoscimento dello status di rifugiato è un diritto soggettivo che lo straniero chiede appunto di accertare. Quindi il divieto di riammissione vale anche per i richiedenti. Aggiungo che le normative italiana ed europea prevedono che in nessun caso possano essere respinte o riammesse delle persone verso uno Stato dove possono subire trattamenti inumani o essere sottoposti al respingimento a catena”. Dello stesso avviso il deputato di +Europa Riccardo Magi: “Il governo italiano ha una grave responsabilità: contribuisce attraverso le riammissioni informali in Slovenia a realizzare questa violazione sistematica dei diritti umani e del diritto europeo”. Un’altra anomalia - Lo scorso luglio il ministero dell’Interno, per bocca del sottosegretario Achille Variati e rispondendo a un’interrogazione parlamentare di Magi, ha ribadito che le riammissioni informali “si applicano anche qualora sia manifestata l’intenzione di richiedere protezione internazionale, ad eccezione delle categorie vulnerabili (come donne e bambini, ndr) e dei soggetti che risultino registrati nel sistema Eurodac avendo già presentato richiesta di protezione internazionale in altri Paesi membri”. Ecco un’altra anomalia: l’accordo del 1996, dice il Viminale, non si applica a chi ha presentato la domanda altrove, poi nel famoso modulo si specifica che si è riammessi in Slovenia proprio per quel motivo. Il modulo è stato reso pubblico grazie all’accesso agli atti fatto dal deputato del Pd Matteo Orfini, che al ministero ha richiesto la copia anche del protocollo operativo siglato tra le polizie italiana e slovena e della direttiva del Governo del maggio scorso. “Poca trasparenza, pronto a un esposto in procura” - Ma il Gabinetto del ministro ha opposto ragioni di riservatezza, sostenendo che si tratti di documenti non ostensibili. “Trovo già allucinante dover fare un accesso agli atti al mio governo - dice il deputato - ma trovo ancor più allucinante che su una vicenda così palesemente illegittima e illegale il ministero risponda negando la trasparenza. Spero, e mi permetto di dire esigo, che la ministra Lamorgese e il Capo della polizia chiariscano quanto sta accadendo e rendano trasparenti gli atti che hanno secretato. Qualora questo non dovesse avvenire immediatamente non solo farò ricorso avvalendomi degli strumenti del sindacato ispettivo, ma non escludo un esposto in procura”. E nel merito della questione, Orfini rincara: “C’è un elemento incredibilmente grave: che l’Europa, considerandosi fortezza, chiuda i suoi accessi con un meccanismo che produce abusi, violenze, torture e barbarie come quelle riportate da Repubblica. Chiudendo le frontiere si attuano respingimenti illegali. Chi viene respinto subisce una sorte simile a chi tenta di attraversare il Mediterraneo”. Stati Uniti. “Biden è presidente”, e gli ultrà di Trump assaltano Capitol Hill di Paolo Mastrolilli La Stampa, 7 gennaio 2021 L’era di Trump finisce nella vergogna, con l’assalto al Congresso, il sangue, l’insurrezione nelle strade di Washington, e il coprifuoco nella capitale di quella che era un tempo la democrazia di riferimento per il mondo libero. Alle undici di mattina il presidente parla alla manifestazione dei suoi sostenitori, dicendo che non concederà mai la sconfitta. Quindi chiede al vice Pence di violare la Costituzione, assegnando a lui la vittoria, durante la sessione in cui il Congresso doveva solo certificare il successo di Joe Biden il 3 novembre. Poco dopo Pence si rifiuta di obbedire, scrivendo ai parlamentari che non ha il potere di ignorare la volontà degli elettori. A quel punto però è tardi. Troppo a lungo la leadership repubblicana ha abbassato la testa, diventando complice degli abusi di Trump. Così ha lasciato via libera a lui, e agli estremisti più esagitati che lo appoggiano dall’inizio, da Charlottesville. Questi fanatici allora iniziano a marciare verso Capitol Hill, assalendo il Congresso. La polizia non è pronta a una insurrezione e non riesce a fermarli. I manifestanti entrano nell’edificio più sacro della democrazia americana, costringendo i parlamentari ad interrompere la sessione che doveva certificare la vittoria di Biden. Lo stesso Pence viene scortato al sicuro, mentre deputati e senatori ricevono l’ordine di rifugiarsi nelle stanze del Parlamento. I leader del Congresso vengono portati in una base militare. Fuori si sentono le esplosioni dei lacrimogeni, usati dalla polizia per fermare l’insurrezione, mentre all’interno gli agenti sono costretti a puntare le pistole contro gli assalitori per impedire che attacchino i parlamentari. Una ragazza viene ferita in petto, e morirà - riferisce la Nbc - poche ore più tardi. La Fox News in serata dice che era una manifestante pro Trump. Aveva una bandiera pro Trump e dopo essere stata colpita è caduta a terra. Non è ancora stato chiarito chi abbia sparato. Trump è rimasto a lungo chiuso nell’Ufficio Ovale, e invece di chiedere ai propri sostenitori di fermarsi, si è limitato ad un messaggio via Twitter per dare sostegno alla polizia. Il social network più tardi bloccherà i suoi retweet. Poi Trump mobilita la Guardia Nazionale. Le manifestazioni si estendono in molte città del Paese. Trump non indietreggia, nel tardo pomeriggio manda un messaggio poco conciliante. “Queste sono il genere di cose che succedono quando una sacra vittoria elettorale a valanga viene strappata in modo così sgarbato e maligno da grandi patrioti che sono stati trattati male e ingiustamente per così tanto tempo”. Poi la “concessione” e l’invito ai suoi sostenitori “ad andare a casa in amore e in pace, ma ricordate questo giorno per sempre!”. La giornata politica del resto è cominciata con la definitiva disfatta del presidente, quando i ballottaggi per i due seggi senatoriali della Georgia si sono conclusi con la vittoria dei democratici Warnock e Ossoff. Dunque Trump ha perso Casa Bianca e Senato: un totale fallimento politico. Ma a Donald interessa solo sé stesso, anche se ciò significa sfruttare i propri sostenitori, per infangare la storia degli Usa, fomentando un’insurrezione. Si capisce parlando con loro in strada. “Ma perché perdi tempo con i giornalisti? Tanto li impiccheremo tutti”. Urla un ragazzo che dice di chiamarsi Diggermore, e interviene per troncare la conversazione con un gruppo di ragazzi in mimetica. Impugna una bandiera con la scritta SOG. Nel gergo militare significa Special Operations Group, quindi il loro mito è il famigerato reparto segreto che conduceva operazioni clandestine in Vietnam. Sono venuti all’Ellipse, davanti alla Casa Bianca, per la manifestazione in cui Trump annuncia che “non ci arrenderemo”. La conversazione con i SOG era cominciata così: perché siete qui? “Difendere l’America”. Non credete che Biden abbia vinto le elezioni? “Se ti dicessi che non hai le scarpe ai piedi, mi crederesti?”. Ma ci sono state circa 60 cause nei tribunali, e neanche i giudici nominati dal presidente gli hanno dato ragione. Perché non accettate i verdetti? “Sono falsi. E tu faresti meglio a indagare sulla verità, invece di bere le menzogne”. E se il Congresso confermerà la vittoria di Biden voi lo riconoscerete? “Mai, perché non ha vinto”. E cosa farete? “Quello che molti altri patrioti hanno fatto prima di noi nella storia del nostro paese”. La guerra civile? A questo punto interviene Diggermore, che suggerisce di risolvere la questione impiccando i giornalisti all’obelisco dell’Ellipse. A pochi metri di distanza c’è un signore che mostra un cartello con su scritto “Italy Did It”. Ma cosa c’entra l’Italia? Dice di chiamarsi Bob Both, e spiega: “Il governo italiano ha manipolato le macchine della compagnia Dominion per contare i voti, in modo da rubare le elezioni e far vincere Biden”. E lei come lo sa? “L’ho sentito stamattina dall’avvocatessa di Trump Sydney Powell”. E quindi viene qui con un cartello per dire che Roma ha imbrogliato Trump: “Perché no? Il presidente ha vinto, ogni mezzo è giustificato per difenderlo”. Passa un gruppo con la bandiera “WWG1WGA”, Where We Go One We Go All, il motto dei seguaci di QAnon. Loro sono certi che Hillary Clinton beve il sangue dei bambini per ottenere l’eterna giovinezza, e quindi non accettano il suo amico Biden come presidente. Vicino c’è un altro uomo in mimetica, che dice di chiamarsi Will e di essere venuto dalla North Carolina, col gruppo dei Three Percenters. Questi estremisti sostengono che durante la rivoluzione per l’indipendenza da Londra solo il 3% degli americani impugnò le armi, e loro ne sono gli eredi. Gli chiedo come reagirà, se il Congresso certificherà la sconfitta di Trump, e la risposta è netta: “È meglio se non lo sai”. Quando Trump sale sul palco, fomenta i fanatici: “Non ci arrenderemo mai. Non concederemo mai la vittoria a Biden. Avremmo un presidente illegittimo, non possiamo permetterlo. Non si ammette la sconfitta quando è un furto”. Quindi scarica la pressione sul vice Pence: “Ho parlato con Mike. Se farà la cosa giustizia, vinceremo le elezioni. Deve solo rimandare il voto agli Stati, che vogliono ricertificarlo”. In caso contrario, invita gli estremisti a riprendersi l’America. Pochi minuti dopo Pence lo delude, chiarendo che non ha intenzione di violare la Costituzione. L’era politica di Trump finisce qui. La lotta dei sostenitori irriducibili però continua, e sentite le parole di Donald, si sentono in diritto di scatenare la rivolta, assalire il Congresso, versare il sangue. Quando scende la sera e il coprifuoco cala su Washington, il segretario di Stato, Mike Pompeo, definisce inaccettabile l’assalto al Campidoglio, mentre Nancy Pelosi convoca per la serata una plenaria fuori dal Congresso. E il manipolo di repubblicani che contesta la vittoria di Biden si raduna in privato per decidere il da farsi, se continuare o meno l’ostruzione. Ma sarebbe un grave errore, liquidare questa tragedia come la follia di tipi come Diggermore o Both. Oltre 70 milioni di americani hanno votato per Trump, e il Gop è complice. Se ora Biden e i repubblicani responsabili non riusciranno a separare i fanatici dalle persone normali, rischieranno di ritrovarsi presto davanti incubi anche peggiori. Stati Uniti. Assalto al Congresso: 4 morti, ipotesi rimozione per Trump di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 7 gennaio 2021 Washington, la cronaca della giornata più buia della storia recente degli Stati Uniti. Il presidente uscente fomenta i suoi sostenitori e scoppia il caos. Il vice Pence e diversi senatori repubblicani scaricano il tycoon. L’America è sotto choc. La giornata più nera si chiude con un’altra notizia drammatica. Negli scontri del 6 gennaio a Capitol Hill sono morte quattro persone, mentre i feriti sono 13. Una delle vittime è stata identificata in serata. Si chiama Ashli Babbitt, una supporter trumpiana di San Diego, in California. Lo ha confermato sua suocera. Babbitt era una veterana dell’Us. Air Force: 14 di servizio. Era arrivata a Washington da sola, senza il marito. Secondo i media americani Ashli sarebbe stata colpita da uno degli agenti della polizia di Capitol Hill, mentre centinaia di militanti irrompevano nell’edificio del Congresso. A Washington la tensione resta alta. Dalla Casa Bianca arrivano altre indiscrezioni clamorose: alcuni ministri del governo Trump starebbero discutendo se ricorrere al 25°emendamento per rimuovere il presidente in carica e affidare il Paese al suo vice, Mike Pence. La procedura è complicata e richiede il consenso dello stesso Pence, più il via libera dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Ma la discussione in corso è sicuramente il segnale di quanto l’allarme sia diffuso anche nell’Amministrazione. Le immagini di ieri hanno scosso anche i collaboratori più stretti che cominciano a pensare se non abbia davvero ragione il tabloid conservatore New York Post: Trump è diventato il Re Lear di Mar-a-Lago. Il 25°emendamento prevede la rimozione del presidente qualora “non sia in grado di adempiere ai suoi doveri”. Lo stesso Trump, però, potrebbe contestare la mossa e l’iniziativa potrebbe estinguersi senza risultato. Pence, comunque, ieri ha condannato con nettezza le violenze del pomeriggio. Trump rimarrà in carica fino alle ore 12 del 20 gennaio. Due settimane. Dopo ciò che si è visto ieri un periodo sufficiente perché possa ancora fare danni seri. Altri, invece, stanno pensando a dimettersi sulla scia del vice Consigliere per la sicurezza Matt Pottinger, figura chiave per le relazioni con la Cina. Nelle prossime ore potrebbe lasciare l’incarico anche il Consigliere per la Sicurezza, Robert O’Brien. Sarebbero i nomi più in vista di una fuga in massa. Si assottiglia anche la falange parlamentare che ha fatto da sponda al tentativo trumpiano di delegittimare la vittoria di Joe Biden. Ieri sera, intorno alle 21, il Congresso ha ripreso la ratifica dei voti inviati dai 50 Stati. Ebbene solo 6 senatori sui 14 iniziali hanno confermato le obiezioni ai risultati nell’Arizona, lo Stato che i parlamentari avevano cominciato a esaminare, prima dell’irruzione dei manifestanti. Il Congresso ha respinto anche la seconda contestazione repubblicana sui voti del collegio elettorale, quella riguardante la Pennsylvania. Il Congresso ha proclamato Joe Biden e Kamala Harris presidente e vicepresidente degli Stati Uniti al termine della seduta del Congresso a camere riunite per certificare i voti del collegio elettorale, vinto dal ticket dem con 306 voti contro i 232 di quello repubblicano. Il parlamento ha respinto alcune contestazione avanzate da esponenti repubblicani dopo che la seduta era stata interrotta per l’assalto dei manifestanti pro Trump a Capitol Hill. Biden e Harris giureranno il 20 gennaio. Resistono con Trump i senatori Ted Cruz (Texas) e Josh Hawley (Missouri). Ma altri big del partito, che pure negli ultimi mesi hanno appoggiato senza riserve il presidente, si sono dissociati in modo netto. Il leader del gruppo, Mitch McConnell, aveva già riconosciuto il successo di Biden, mentre ieri sera il senatore repubblicano Lindsey Graham ha scaricato Trump con un breve discorso irridente. Alla ratifica dell’elezione di Biden Trump ha replicato affermando che “anche se sono totalmente in disaccordo con i risultati delle elezioni, e i fatti mi danno ragione, ci sarà comunque una transizione ordinata il 20 gennaio”. Sottolineando che “è la fine del più grande mandato della storia presidenziale, ma è solo l’inizio della nostra lotta per rendere l’America di nuovo grande”. Nel frattempo le forze dell’ordine hanno ripreso il controllo della capitale. Gli agenti hanno arrestato 52 militanti, ma il numero è destinato ad aumentare. Nella notte abbiamo percorso le strade di Washington: vuote, presidiate in modo massiccio da circa 1500 militari della Guardia Nazionale e dalle pattuglie della polizia. Senza esagerare è lo scenario di una città sotto assedio. Neanche la scorsa primavera, dopo i disordini seguiti alle manifestazioni di Black Lives Matter, erano state adottate misure così rigide. La sindaca Muriel Bowser ha dichiarato il coprifuoco, a partire dalle 18. Il problema è che la reazione degli agenti e dei militari è stata troppo lenta. Ieri mattina il perimetro del Campidoglio era protetto solo da una fila di basse transenne e da un esile cordone di agenti. Il Parlamento è rimasto in balia degli “invasori” per diverse ore. Si è scoperto più tardi che Donald Trump non ha assunto alcuna iniziativa. È stato il Pentagono a mandare i rinforzi, dopo aver ottenuto il via libera da Mike Pence. La polemica crescerà in modo aspro nelle prossime ore. Gran Bretagna. Assange, negata la libertà su cauzione per il fondatore di WikiLeaks di Marta Serafini Corriere della Sera, 7 gennaio 2021 L’australiano resterà in carcere a Londra, dopo che i giudici britannici hanno negato l’estradizione negli Stati Uniti. Il premier australiano: non chiederò a Trump la grazia. “Festeggeremo quando Julian tornerà a casa”, aveva detto Stella Morris, la compagna di Assange, dopo che due giorni fa la corte di Londra ha negato l’estradizione agli Stati Uniti. Una speranza per l’australiano braccato dalla giustizia di Washington. Ma oggi la Corte distrettuale di Westminster ha rigettato la richiesta dei legali del fondatore di WikiLeaks di concedergli la libertà su cauzione. All’udienza ha partecipato lo stesso Assange trasferito dal carcere di massima sicurezza di Belmarsh dove è detenuto, e poi apparso in aula in abito scuro con il volto coperto da una mascherina bianca. I legali dell’accusa hanno sottolineato come Assange abbia le “risorse” per fuggire, citando anche l’offerta di asilo politico avanzata dal Messico subito dopo il rifiuto di richiesta di estradizione da parte della giudice britannica Vanessa Baraitser. D’altro canto i legali del fondatore di WikiLeaks hanno sottolineato come i suoi problemi psichiatrici e le sue condizioni di salute - sulla base dei quali è stata negata la richiesta di estradizione - uniti al rischio di contrarre il Covid in prigione richiedano il rilascio del loro assistito. Immediatamente sono partite le proteste delle organizzazioni per i diritti umani. “La decisione di rifiutare la richiesta di libertà su cauzione a Julian Assange rende la sua detenzione in corso arbitraria e aggrava il fatto che ha sopportato condizioni punitive nella detenzione di massima sicurezza nella prigione di Belmarsh per più di un anno”, ha dichiarato Nils MuiPtnieks, direttore per l’Europa di Amnesty International, aggiungendo: “Invece di tornare finalmente a casa con i suoi cari e dormire nel suo letto per la prima volta in quasi dieci anni, sarà ricacciato nella sua cella d’isolamento in una prigione di massima sicurezza”. La palla dunque resta ancora nelle mani della giustizia britannica che dovrà esprimersi sul ricorso presentato da Washington al rifiuto di richiesta di estradizione. L’accusa per Assange negli Stati Uniti è basata sull’Espionage Act e ha a che fare con la pubblicazione nel 2010 sulla piattaforma WikiLeaks di centinaia di migliaia di documenti riservati che hanno svelato crimini di guerra commessi dalle forze statunitensi in Afghanistan e in Iraq. Per questi crimini - se processato negli Stati Uniti - Assange rischia 175 anni di carcere. Julian Assange è stato arrestato dalla polizia britannica nell’aprile 2019 dopo aver trascorso sette anni in isolamento presso l’ambasciata ecuadoriana a Londra, dove si era rifugiato mentre era libero su cauzione. Già all’epoca temeva l’estradizione negli Stati Uniti o in Svezia, dove era stato oggetto di accuse di stupro poi ritirate. Intanto il primo ministro conservatore australiano Scott Morrison ha fatto sapere che non si appellerà al presidente uscente Usa Donald Trump perché accordi la grazia ad Assange. La ministra degli Esteri Maris Payne ha dichiarato in particolare che l’Australia “non è parte della causa e continuerà a rispettare il procedimento legale in corso, inclusa la considerazione da parte del sistema giuridico del Regno Unito di istanze di scarcerazione o di appelli”. Ha aggiunto che il governo ha presentato 19 offerte di assistenza consolare ad Assange, rimaste senza risposta. L’autorevole giurista Geoffrey Robertson, ha difeso Assange senza successo contro procedimenti di estradizione nel 2010, ha chiesto al governo australiano di far sentire il suo peso dietro la campagna diretta a ottenere che il Dipartimento di Giustizia Usa rinunci al suo appello contro la decisione della giudice britannica Vanessa Baraitser. Kazakhstan. La pena di morte abolita anche grazie al dialogo con l’Italia di Antonio Stango* La Repubblica, 7 gennaio 2021 Con una tempistica tale da fare iniziare almeno con una buona notizia un anno che si preannuncia difficile, il 2 gennaio il Kazakhstan ha formalmente abolito la pena di morte. Lo ha fatto attraverso la firma del Capo dello Stato Kassym-Jomart Tokayev alla legge di ratifica del Secondo Protocollo opzionale al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, che obbliga gli Stati parte all’abolizione e che il Kazakhstan aveva firmato all’Onu nel settembre scorso. Vi resta in vigore (come era stato per molti anni anche per l’Italia) soltanto una teorica applicazione della pena di morte in tempo di guerra, per crimini estremamente gravi di natura militare. Non tutti sanno che nell’incoraggiare, attraverso il dialogo, il più grande Paese dell’Asia centrale a lasciarsi definitivamente alle spalle quel retaggio dell’epoca sovietica - pur mentre non pochi altri ne permangono - ha avuto un ruolo di primo piano l’Italia, sia con le sue istituzioni che attraverso organizzazioni non governative. Già nel 2003 ebbi l’onore di partecipare a una missione in Kazakhstan di “Nessuno tocchi Caino”, sostenuta dal governo italiano, per promuovere la conferma della moratoria delle esecuzioni che era stata da poco adottata e il voto favorevole di quello Stato alla Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu per una moratoria universale. L’anno dopo fu introdotto nel codice penale del Kazakhstan, come alternativa alla pena capitale, l’ergastolo. Nel 2006 tenemmo ad Almaty un seminario dal titolo “Il Kazakhstan dalla moratoria all’abolizione della pena di morte”, con il contributo della Commissione dell’Unione Europea e della rappresentanza tedesca nel Paese, tenendo anche diversi incontri ad alto livello in proposito; intanto anche la Comunità di Sant’Egidio si attivava nel dialogo con l’obiettivo dell’abolizione. L’anno dopo, ancora ad Almaty riuscimmo ad organizzare una tavola rotonda molto partecipata fra Ong locali e internazionali e autorità governative sul tema, coinvolgendo il presidente della Commissione presidenziale per i diritti umani, un membro del Consiglio Costituzionale, i ministeri degli Esteri e della Giustizia, la competente Commissione parlamentare e con un intervento dell’ambasciatore d’Italia in Kazakhstan, Bruno Antonio Pasquino (oggi ambasciatore in Iraq). Il dialogo su questo è poi sempre proseguito negli anni. L’Italia ha anche raccomandato al Kazakhstan di mantenere la moratoria sulle esecuzioni e di valutare la possibilità dell’abolizione nell’ambito del processo di revisione periodica universale al Consiglio per Diritti Umani delle Nazioni Unite - organo sempre più indebolito dalla presenza di Stati a regime autoritario, ma che ancora può offrire alcune occasioni di evoluzione per il rispetto dei principi fondamentali del Diritto internazionale. Fra gli organismi più attivi nel proporre l’abolizione è anche il Consiglio d’Europa, al quale il Kazakhstan ha chiesto da anni uno status di osservatore per il quale sarebbero però necessari molti altri passi avanti nel campo dei diritti civili e politici. Su questo il Kazakhstan è inoltre teoricamente impegnato dall’Accordo di partenariato rafforzato con l’Unione Europea, che in due articoli fa riferimento allo Stato di diritto e al rispetto dei diritti umani; ma non sembra che i progressi siano rilevanti, mentre anzi negli ultimi due anni la repressione politica è sembrata piuttosto intensificarsi. Sono infatti numerose, come la Fidu ha documentato in diversi rapporti, le segnalazioni di casi di tortura nelle carceri, di persecuzioni per motivi politici, di divieti arbitrari di manifestazioni pubbliche, di limitazioni ingiustificabili alla libertà di associazione e di espressione; cosa della quale - accanto a valutazioni positive - ha espresso consapevolezza in dicembre il viceministro degli Esteri Marina Sereni rispondendo a un’interrogazione parlamentare di Emma Bonino. Rimane dunque la necessità di proseguire in un dialogo costruttivo, ma chiedendo al Kazakhstan atti concreti. Una prima occasione sarebbe il 10 gennaio, con le elezioni - purtroppo ancora molto guidate dall’alto - per il Majilis (la Camera bassa del Parlamento), che pure non ha molti poteri. Le seguiremo, avendo ben presente anche quanto accaduto e continua ad accadere in Bielorussia. Trent’anni dopo l’ottenimento dell’indipendenza, il Paese che infine (a differenza della Bielorussia stessa) si è emancipato dalla pena di morte dovrebbe ormai essere maturo anche per vivere una democrazia effettiva, superando la lunga fase della costruzione di strutture formali. *Presidente della Federazione Italiana Diritti Umani Siria. Torture e prigionia a un passo dall’Italia di Khaled Abo Ahmad Shallah informareonline.com, 7 gennaio 2021 Viaggio nelle carceri della Siria, con testimonianze esclusive di ex detenuti e delle loro famiglie. I detenuti non hanno nessuno tranne noi e noi non abbiamo nessuno tranne i detenuti. Spero che il mondo guardi alle condizioni dei detenuti e li rilasci dalle prigioni del regime spregevole di Bashar Al-Assad. Quando una persona entra in prigione è perché ha un’accusa valida che lo porterà in cella. In Siria, invece, finisci dietro le sbarre quando chiedi libertà, dignità e di vivere in sicurezza. A causa di semplici parole, o frasi, si entra in prigione a vita in questo paese sottoposto al regime criminale di Bashar Al-Assad. I crimini del regime sono innumerevoli e nel territorio siriano sono presenti diverse prigioni, che noi chiamiamo comunemente “macelli umani”. Il nome è dettato dal fatto che nelle carceri il regime commette gli atti più atroci: tortura a morte, mutilazione dei deceduti e barbari omicidi. Nel marzo del 2011 c’è stato l’avvio delle proteste nel nostro Paese, con diverse manifestazioni in tante città siriane. La scintilla della “rivoluzione siriana” è arrivata dalla città di Daraa, quando molti bambini hanno scritto frasi di protesta sui muri della loro scuola. Il regime ha arrestato due di quei bambini: Hamza Al-Khatib e Muawiya Sayasna. Hamza è stato arrestato da un posto di controllo di sicurezza siriano nei pressi delle abitazioni di Saida a Horan, il 29 aprile 2011. Dopo un po’ da quel giorno, il suo corpo venne consegnato alla famiglia con segni di tortura e proiettili, precisamente una pallottola al braccio destro, una al sinistro e un terzo al petto. Il suo collo era rotto e il suo corpo era mutilato: gli erano stati tagliati i genitali. Muawiya Sayasna subì 45 giorni di detenzione, con interrogatori brutali in cui gli sono state rotte le dita ed è stato torturato con scosse elettriche, come lui stesso ha dichiarato a un’agenzia di stampa il 13 marzo 2018. Questa è solo una piccola premessa prima di iniziare il nostro viaggio tra le carceri del regime di Assad; un viaggio fatto di testimonianze esclusive da parte di familiari di prigionieri e di ex detenuti del regime. Iniziamo con una testimonianza che ho difficoltà a raccontare giornalisticamente, ma ci provo. Mio padre è stato arrestato dal regime quattro anni fa, nei pressi del confine siriano-libanese nella zona di Daddousah. È stato il giorno più difficile della mia vita, ho provato confusione, oppressione, tristezza e dolore quando l’autista del bus, su cui era mio padre, mi ha avvisato dell’improvviso arresto. Per capire realmente il mio dolore bisogna immergersi nel contesto: le carceri del regime di Assad non conoscono né misericordia né perdono per nessuno, sono esperti nella tortura fregandosene se hanno davanti uomini, donne o bambini. Mio padre è stato detenuto per quasi un mese ed è stato rilasciato solo perché non avevano un briciolo di motivo per arrestarlo, dato che avevano confuso il suo nome con quello di suo cugino (dissidente del regime). Mentre era in prigione ha assistito alle più gravi torture. Nonostante la sua vecchiaia, gli effetti delle percosse erano ben evidenti sul suo corpo, sulla schiena, sulle gambe e, inoltre, appena uscito non era in grado di camminare bene. “Sentivo le urla dei prigionieri e le torture - ha affermato mio padre - sentivamo le guardie parlare tra di loro dicendo che per noi sarebbe finita, che eravamo destinati a morire e parlavano di come i corpi sarebbero stati caricati in auto e trasportati da qualche parte. Non ci hanno fornito cibo e acqua per diversi giorni. Ci lasciavano andare in bagno per pochissimo tempo, una volta al giorno, e dopo quei pochi minuti saresti stato costretto a tornare in cella indipendentemente se avessi finito o meno. Pregavo affinché uscissi il prima possibile da lì, anche morto”. Una situazione drammatica ben inquadrata dai dati dello Snhr, la Rete siriana per i diritti umani, fondata nel giugno 2011. Quest’ultima è un’organizzazione indipendente non governativa e senza scopo di lucro, fonte primaria per le Nazioni Unite e per organi come Il Ministero degli Esteri tedesco su tutte le statistiche relative al bilancio delle vittime in Siria. Il SNHR riporta 14.298 morti accertati a causa delle torture imposte dai vari soggetti che animano il conflitto siriano (Forze del regime, gruppi islamici terroristi, forze democratiche siriane, fazioni di opposizione armata e forze politiche non identificate). Secondo questo report il 98,83% delle vittime è stato torturato dalle forze del regime di Assad. Questa enorme banca dati sui metodi di tortura effettuati nelle carceri siriane è a disposizione di tutti e la si può trovare sul sito del SNHR, dobbiamo pensare che quest’ultimo ha verificato l’uso di ben 72 metodi di tortura all’interno delle celle del regime. Continuiamo il nostro viaggio non solo tra le testimonianze di coloro che hanno subìto direttamente gli orrori delle torture, ma andando ad ascoltare le famiglie dei prigionieri, lasciate senza alcuna notizia dei loro cari. “Sono Abdul Majeed, il padre del giovane Muhammad Abd al-Majid al-Omar, nato nel governatorato di Idlib. Mio figlio Muhammad ha completato il servizio militare con l’esercito del regime prima dell’inizio del conflitto in Siria, non è sposato e non ha mai avuto problemi con nessuno. Era solito andare in Libano per lavorare, ma l’ultima volta mi aveva detto di voler andare a trovare suo fratello ad Aleppo”. Dopo aver constatato la volontà del figlio di volersi recare da suo fratello, Abdul gli ribadisce che non è sicuro tornare nelle zone controllate dalle forze del regime, ma Muhammad non era d’accordo, rassicurandolo di aver già passato decine di posti di blocco nel tragitto dal Libano alla Siria. “Mio figlio è stato arrestato in uno dei posti di controllo verso Aleppo. Gli hanno preso la sua carta d’identità, che era già rotta, l’hanno riempito di insulti e di percosse per poi gettarlo nell’auto diretta in prigione”. Abdul afferma, inoltre, che un ufficiale del posto di controllo l’ha rassicurato dell’imminente liberazione di suo figlio, dato che non vi era alcun serio motivo per arrestarlo, se non un documento d’identità rotto. “Durante la sua prigionia ci sono stati degli scontri in questa zona, così il checkpoint è stato spostato e i prigionieri arrestati in quest’area sono stati trasferiti in un’altra prigione. Ho chiesto ovunque, ma nessuno sa nulla di lui”. Da quattro anni Abdul non chiede più di suo figlio e vi chiedo di soffermarvi sulle prossime parole, per chiederci insieme cos’è la vita poco distanti dall’Italia. “Una persona mi ha detto che mio figlio Muhammad era nella prigione di Sednaya - afferma Abdul - altra gente mi ha proposto di pagare per la sua liberazione, ma io non pago finché non sono sicuro che libereranno mio figlio, finché non sarò in contatto con lui. Chiedono un importo che va dai 10mila ai 15mila dollari. Non ci sono notizie su dove si trovi e non possiamo appellarci ad alcun tribunale essendo in una zona liberata”. Fino a quando Abdul riceve una foto di un cadavere torturato su un lettino, una foto di forte impatto che evitiamo di pubblicare per non urtare la sensibilità di nessuno. “Poco tempo fa mio nipote mi ha inviato una foto che mi ha lasciato estremamente turbato… il ragazzo nella foto sembra proprio mio figlio Muhammad - afferma con immensa tristezza Abdul - Lo hanno confermato anche i miei fratelli, c’è tanta somiglianza… penso che all’80% sia lui quel cadavere. Da quando mio figlio è stato arrestato gli auguro la morte, nelle prigioni verrebbe unicamente torturato, al loro interno nessuno conosce pietà o umanità”. E ora passiamo alla testimonianza di Ghassan Maroun Al-Saleh, dal villaggio di Al-Tamanah, a sud di Idlib. Ghassan è stato arrestato all’età di sedici anni, nel 2016, e ha deciso di condividere in esclusiva con noi la sua storia nell’inferno delle prigioni del regime. “Sono stato arrestato mentre andavo nella città di Morek, per lavorare con altri giovani. I soldati al posto di blocco mi hanno tirato giù dall’auto su cui ero seduto, hanno preso la mia carta d’identità e mi hanno arrestato. Ho subìto percosse, insulti e torture durante la mia prigionia. All’interno di ogni cella ci sono circa venti persone, all’interno di uno spazio di 1,5 m² a testa. Quando i carcerieri entrano ed escono dalla cella ci insultano, ci torturano e ci tolgono tutti i vestiti; per i pasti ci davano una pagnotta di pane ogni quattro persone”. Abbiamo chiesto a Ghassan di raccontarci degli abusi subìti durante la reclusione: “Ogni detenuto ha il tipo di tortura che deve scontare, a me sono state tagliate le unghie con un attrezzo affilato, mi hanno impiccato e mi hanno legato a delle catene. Come puoi vedere, i segni delle torture e delle percosse sono ancora sul mio corpo. Nella prigione non c’è distinzione tra un bambino e un ragazzo, o tra un anziano e una donna, la tortura investe tutti. Ci mettevano davanti una foto di Bashar al-Assad e costringevano a inchinarci per venerarlo. Anche io mi inchinavo, lo facevo solo per fermare il dolore e le torture. Ho visto diversi detenuti morire a causa delle torture”. Ghassan ha pensato spesso di essere ormai condannato a morte, una convinzione motivata da chi conosce le carceri siriane e sa quanto sia difficile lasciarle in vita. Ma Ghassan ci è riuscito grazie alla sua famiglia che ha pagato una sostanziosa somma per la sua liberazione (più di 5mila dollari), intermediando con funzionari e shabiha, questi ultimi sono una “milizia civile” a base settaria che agisce a sostegno di Bašš?r al-Asad senza alcun titolo di ufficialità: “Quando una delle guardie mi ha avvisato che sarei stato liberato il giorno successivo, ero convinto che mi stessero prendendo in giro, così ho vissuto il mio ultimo giorno in prigione come l’ultimo della mia vita. Ero convinto dovessi morire e mi chiedevo che torture mi sarebbero aspettate. Quando urlarono il mio nome quel giorno, fui condotto in tribunale dove il giudice sentenziò il mio rilascio. Mia madre e mio padre mi aspettavano pieni di lacrime. La mia mamma sembrava aver partorito di nuovo suo figlio”. Ma Ghassan non tornò lo stesso prima: “Uscito dal carcere il mio peso non superava i 45kg ed ero molto malato. Ho affrontato un lungo periodo di cure ma, ancora oggi, mentre dormo, sento urlare i detenuti e mi sale la sensazione di una prossima tortura. Il mio messaggio al mondo è di guardare i detenuti e le loro condizioni all’interno della prigione e di sforzarsi di fare pressione su Bashar Al-Assad per farli uscire dalle prigioni”. La vera domanda che mi perseguita ogni giorno è: che tipo di guardie ci sono in queste prigioni? Qual è la loro religione e qual è il loro credo? Che tipo di sangue scorre nelle loro vene? Appartengono davvero a questo pianeta? Quali creature criminali non sanno altro che vedere il sangue e la padronanza della tortura, dell’abuso, dello scavare gli occhi, bruciare e uccidere? Come possono questi criminali conformarsi alle persone nella loro vita normale? Come entrano nelle loro case e incontrano le loro famiglie e figli? Questi criminali saranno davvero ritenuti responsabili e quando? Turchia. Unsal in isolamento: “Vogliono farlo morire” di Simona Musco Il Dubbio, 7 gennaio 2021 Aytaç Ünsal, l’avvocato turco che ha affrontato lo sciopero della fame a fianco alla collega Ebru Timtik, morta dopo 238 giorni di digiuno, è ancora in carcere, nonostante il suo arresto non sia stato convalidato da nessun tribunale. Un arresto voluto e ottenuto dal ministro dell’interno turco Suleyman Solyu, lo stesso che aveva minacciato di far arrestare chiunque esponesse la foto di Ebru dopo la sua morte. L’accusa, respinta con fermezza dall’Ufficio legale del popolo, è quella di aver tentato la fuga, per sottrarsi alla giustizia turca. Un’accusa infondata, in quanto ad Ünsal, scarcerato proprio per le sue condizioni di salute, non era stato vietato lasciare la città. L’avvocato è stato arrestato davanti alle telecamere, torturato e sbattuto in isolamento, dove sarebbe dovuto rimanere solo 48 ore. Ma dal 10 dicembre 2020 non è mai uscito. Per lui si è mobilitata la comunità internazionale, che sta tentando di fare pressioni sul governo di Recep Tayyip Erdogan per ottenere il suo rilascio. Le sue condizioni di salute sono infatti critiche: provato dal lungo digiuno, l’avvocato ha problemi alle terminazioni nervose e difficoltà a deambulare. E attualmente gli vengono negate le cure di cui ha bisogno. “Vogliono uccidere Aytaç impedendogli di curarlo e tenendolo in isolamento - denuncia l’Ufficio legale del popolo -. Non lo permetteremo”. Ünsal, che lottava assieme alla collega per il diritto a un processo equo, è stato rilasciato, con il rinvio dell’esecuzione della sua condanna, in quanto la sua salute non è compatibile con le condizioni carcerarie. Si trovava in prigione dal 12 settembre 2018, con l’accusa di far parte del Fronte dell’Esercito di liberazione popolare rivoluzionario, il Dhkp, riconosciuto come organizzazione terroristica dalla Turchia, dagli Stati Uniti e dall’Ue. È stato accusato di “aver comunicato i messaggi dell’organizzazione ai membri catturati e di agire come corriere” e condannato a 10 anni e sei mesi da un tribunale di Istanbul il 20 marzo 2017. Il caso si basava sulla testimonianza di un testimone anonimo che è stato utilizzato dall’accusa in diversi casi, senza possibilità di contraddittorio. Il nuovo arresto, dunque, rappresenta per i suoi colleghi un tentativo di ripristinare l’esecuzione della condanna in maniera illegale. “Ünsal è tenuto in isolamento nella sezione terrorismo del carcere di Edirne da un mese. La vitamina B1, che è obbligatoria per il suo trattamento, non gli viene somministrata - spiega ancora l’Ufficio legale. Poiché il suo trattamento non può essere portato avanti, continua a perdere peso e sul suo corpo compaiono lividi. L’infiammazione delle estremità nervose dovuta al digiuno progredisce rapidamente perché non viene curata. Il diritto alla vita di Aytaç è seriamente minacciato”. Per i suoi colleghi, la detenzione di Ünsal sarebbe una “vendetta politica”, con lo scopo esplicito di ucciderlo. Da qui l’appello a tutti gli avvocati del mondo di chiedere la sua libertà, affinché possa essere curato. Il governo turco è stato accusato di intimidazioni agli avvocati che rappresentano clienti associati a gruppi dissidenti. A settembre, i relatori dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa hanno espresso preoccupazione per la situazione degli avvocati in Turchia. “Gli avvocati non dovrebbero essere criminalizzati per aver esercitato la loro professione o condannati con accuse dubbie”, hanno detto Alexandra Louis, relatrice generale dell’Assemblea, e Thomas Hammarberg e John Howell, i due correlatori per il monitoraggio della Turchia. In un rapporto del 2018, l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha evidenziato “un modello di persecuzione degli avvocati che rappresentano individui accusati di reati di terrorismo, essendo associati alla causa dei loro clienti (o presunta causa) durante lo svolgimento delle loro funzioni e conseguentemente perseguiti per lo stesso reato o per il correlato attribuito al proprio cliente”. Hong Kong. “Sovversione”, arrestate 53 persone di Serena Console Il Manifesto, 7 gennaio 2021 La legge sulla sicurezza nazionale colpisce ancora. L’azione di forza del governo di Hong Kong è un malcelato tentativo di eliminare l’intero campo dell’opposizione nell’ex colonia britannica, come già fatto con gli arresti nelle scorse settimane. L’ennesimo attacco al fronte democratico di Hong Kong è stato inflitto nella giornata di ieri con il maxi arresto di 53 persone, tra attivisti di primo piano ed ex deputati dell’opposizione, accusate di aver violato la legge sulla sicurezza nazionale. Si tratta della più grande retata sotto l’ombrello della norma entrata in vigore lo scorso 30 giugno: più di mille agenti di polizia hanno perquisito 72 luoghi diversi e notificato ordini di consegna di materiale utile alle indagini a tre società mediatiche ed editoriali, tra cui l’Apple Daily di Jimmy Lai, e un’azienda di sondaggi elettorali. Gli arrestati devono rispondere del reato di “sovversione dei poteri dello Stato”, in base all’articolo 22 della legge sulla sicurezza, per aver organizzato lo scorso luglio le primarie per scegliere i candidati pro democratici da presentare alle elezioni del Consiglio legislativo, previste lo scorso 6 settembre, ma rimandate a causa della pandemia di Covid-19. Molti, però, hanno visto nel posticipo del voto il tentativo di evitare una perdita imbarazzante per il fronte filo cinese. I democratici già vantavano una posizione di forza ottenuta con le elezioni distrettuali di novembre 2019, ma volevano consolidare la tenuta del gruppo attraverso uno schema utile a non disperdere i voti necessari per ottenere la maggioranza dei 70 seggi del parlamento della città. Per le primarie è stata adottata la strategia “35plus”, con cui i democratici hanno presentato candidati unitari al fine di conquistare i 35 seggi per la maggioranza. L’ideatore del sistema è Benny Tai, giurista e co-fondatore di Occupy, il movimento protagonista della rivolta degli ombrelli del 2014. Tai, qualche mese prima delle primarie, aveva presentato il suo programma sul quotidiano Apple Daily, incoraggiando la popolazione di Hong Kong al voto, per non perdere l’occasione di paralizzare il governo locale. L’invito è stato accolto da oltre 600 mila cittadini, che hanno appoggiato i candidati a sfidare un sistema elettorale favorevole per l’establishment filo cinese. L’obiettivo, che ha poi spinto le autorità governative al maxi arresto, era quello di bloccare nel 2021 il budget del governo di Hong Kong guidato dalla chief executive Carrie Lam, costringendola alle dimissioni. Ma come sostiene su Facebook l’attivista autoesiliato a Londra Nathan Law, il cui nome figura nella lunga lista degli indagati, “il veto sul budget è previsto dalla Basic Law - la costituzione di Hong Kong - e non si può sostenere che tutti i parlamentari pro democratici avrebbero agito contro il governo”. L’azione di forza del governo di Hong Kong è un malcelato tentativo di eliminare l’intero campo dell’opposizione nell’ex colonia britannica, come già fatto con gli arresti nelle scorse settimane. Sono diverse le personalità di spicco finite nel mirino dell’autorità locale: oltre a Benny Tai, c’è anche l’avvocato statunitense John Clancey, il primo straniero arrestato per la legge sulla sicurezza. Clancey ha avuto un ruolo operativo nell’organizzazione delle primarie per conto del gruppo “Power for Democracy”, di cui è tesoriere. Il governo di Pechino plaude e sostiene l’intervento della polizia di Hong Kong, mentre le autorità dell’ex colonia britannica considerano l’intervento necessario per frenare il piano “malvagio” che avrebbe paralizzato il governo di Hong Kong. Contro Pechino arrivano le accuse di violazione dei diritti umani dal Regno unito e persino dall’amministrazione Biden. Con una flebile voce, invece, si è esposta l’Unione europea, che recentemente ha siglato con la Cina l’accordo di investimento bilaterale, mettendo al palo proprio i diritti umani.