Vaccinare i detenuti deve diventare una priorità di Monica Cirinnà* Il Domani, 6 gennaio 2021 Ritengo che la vaccinazione delle detenute, dei detenuti, degli operatori carcerari, degli agenti di polizia penitenziaria e di tutti coloro che nelle carceri entrano per motivi di lavoro, di difesa, di affetto, debba rientrare nella scala delle priorità. L’universo carcerario è stato colpito in modo severo dall’emergenza sanitaria, e non solo per quel che riguarda la tutela della salute di chi è sottoposto a restrizioni della libertà. A essersi impoverita è la concreta condizione di vita delle detenute e dei detenuti. Alla strutturale carenza di spazi adeguati - che rende impossibile l’osservanza delle necessarie misure di distanziamento - si sono infatti sommate ulteriori criticità: penso alla restrizione del regime delle visite, ma anche alla sospensione di tutte le attività di supporto ai detenuti, dalla formazione, al sostegno psicologico, alle forme consentite di lavoro dentro e fuori il carcere. Infrastrutture “immateriali” necessarie e fondamentali a garantire l’umanità della pena e il reinserimento sociale del reo: obiettivi, è utile ricordarlo visto che troppo poco se ne parla, imposti dall’articolo 27 della Costituzione. Per questo, mentre si avvia la campagna vaccinale, non è accettabile nessuna sottovalutazione frutto di una superficiale ed errata equiparazione tra detenuti e cittadini liberi. Il Comitato nazionale per la Bioetica, nel parere dello scorso 28 maggio, definisce infatti quella delle carceri come “situazione particolarmente critica”, anche perché “critiche sono le condizioni di partenza” e inserisce i detenuti tra i “gruppi più vulnerabili” al contagio, insieme agli anziani confinati nelle Rsa. Anche Liliana Segre e Mauro Palma, nel loro appello di qualche giorno fa, hanno giustamente sottolineato che “la protezione deve essere più rapida laddove la vulnerabilità è maggiore” e che questo principio vale anche e soprattutto per le carceri. Sono d’accordo con questa posizione, e ritengo che la vaccinazione delle detenute, dei detenuti, degli operatori carcerari, degli agenti di polizia penitenziaria e di tutti coloro che nelle carceri entrano per motivi di lavoro, di difesa, di affetto, debba rientrare nella scala delle priorità. Unisco dunque la mia voce a quella della collega Segre e di Mauro Palma - ma anche a quella di chi, come i Radicali, sta invocando attenzione su questo tema con lo sciopero della fame - e mi rivolgo al ministro della Salute. Non dimentichiamo le carceri. Non è possibile, infatti, pensare che possa essere l’isolamento fisico dei detenuti a contenere il rischio di contagi: non solo perché in carcere non può essere garantito il distanziamento, a causa del sovraffollamento, ma anche perché un rafforzamento delle condizioni di isolamento ha effetti collaterali pesanti sulla concreta condizione di vita - e sulla tenuta psicologica - dei detenuti. E anche perché gli enormi problemi in materia di tutela della salute in carcere rendono davvero drammatica la prospettiva di focolai nella popolazione carceraria. Ma il punto non è soltanto questo. Portare il vaccino in carcere consentirebbe di riprendere il corso “normale” della vita carceraria, con un impatto fondamentale sulla tutela della dignità delle detenute e dei detenuti: si potrebbe tornare verso un fisiologico regime di visite, e soprattutto potrebbero riprendere tutte quelle attività che rendono la vita in carcere non solo più sopportabile, ma anche coerente con il dettato costituzionale. Vi è infine una questione politica nel senso più alto, quello dei principi che devono guidare la nostra azione: l’umanità di uno stato si misura sul modo in cui vengono trattate le persone affidate alla custodia delle istituzioni. Troppe volte abbiamo sentito parlare dei detenuti come di non-persone, destinate a “marcire” in galera: marcire, come l’immondizia, come scarti o rifiuti. Troppe volte abbiamo rinviato riforme essenziali per ripristinare, nel nostro paese, una solida cultura delle garanzie: dalla presunzione di innocenza - messa a rischio troppe volte dalla carcerazione preventiva - alla ragionevole durata dei processi, o ancora alla piena attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, ivi compresa l’approvazione del disegno di legge sulla tutela dell’affettività in carcere, di cui sono relatrice. L’agenda della maggioranza e del Governo in materia di giustizia e carceri resta aperta e largamente inattuata: è necessaria una spinta ulteriore e forte, anche in relazione all’impiego dei fondi del piano Next generation Ue, che dovranno riguardare anche questo ambito. Sono in gioco non soltanto la competitività, ma anche lo stesso profilo civile del nostro paese. *Senatrice Pd Il vaccino in carcere. Una firma contro la discriminazione di Sarah Grieco Il Manifesto, 6 gennaio 2021 Nonostante i dati ci dicano che solo l’asintomaticità sta, per il momento, limitando il numero delle vittime, neppure l’appello della senatrice a vita Liliana Segre e di Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà ha rotto il muro della resistenza legato al ricatto del consenso. Siamo tutti reclusi in questo anno di pandemia, ma c’è chi è più prigioniero di altri, più esposto ai rischi, più abbandonato. In questi mesi i detenuti stanno vivendo la più dura delle carcerazioni, impediti in gran parte delle attività e dei contatti con l’esterno, finanche con i familiari che possono vedere di persona, una volta al mese e separati da una barriera di plexiglas. Unico conforto: il telefono. Il tutto per misure di prevenzione giustificate dal fatto che le carceri sono comunità chiuse, in cui convivono centinaia, se non migliaia di persone, in spazi insufficienti e con scarse condizioni igieniche; in cui è impensabile seguire le indicazioni di prevenzione e distanziamento fisico. Se le persone sono rinchiuse, il carcere è però un “luogo aperto”, purtroppo anche al contagio, dove ogni giorno entrano ed escono molti addetti. Appare drammaticamente evidente che le prigioni rappresentano uno dei posti a più alto rischio di rapida diffusione del virus in caso di contagio. Non a caso il Comitato Nazionale per la Bioetica, nel Parere dello scorso 28 maggio, definisce le carceri come “situazione particolarmente critica”, anche perché “critiche sono le condizioni di partenza” e inserisce le persone rinchiuse tra i “gruppi più vulnerabili” al contagio, assieme agli anziani confinati nelle RSA. Ma se le carceri sono come le RSA e i detenuti rappresentano un gruppo “ad alta vulnerabilità bio-psico-sociale”, come mai non sono stati inseriti tra le categorie prioritarie della campagna vaccinale contro il Covid-19, a differenza degli ospiti delle RSA? Se negli istituti di pena l’età media è più bassa e le condizioni igienico-sanitarie certamente peggiori, la diffusione delle patologie pregresse non è certamente importante? Non va garantito loro il diritto alle pari opportunità nella tutela della salute o, forse, il timore di reazioni forcaiole è più forte? Nonostante i dati ci dicano che solo l’asintomaticità sta, per il momento, limitando il numero delle vittime, neppure l’appello della senatrice a vita Liliana Segre e di Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà ha rotto il muro della resistenza legato al ricatto del consenso. Eppure nelle circa 200 carceri italiane vivono e lavorano più di 100.000 persone; oltre a detenuti e detenute, anche operatori di polizia penitenziaria, personale socio-sanitario, amministrativo e di direzione. Persone quotidianamente a rischio personale, ma anche potenziali diffusori del virus. Per tutte queste ragioni, la Società della Ragione ha lanciato una petizione (www.change.org/vaccinonellecarceri) rivolta al Ministro della Salute e al Commissario straordinario per l’emergenza Covid, per il rispetto delle indicazioni fornite dal CNB. Si chiede che i detenuti, gli operatori penitenziari e tutti coloro che svolgono attività lavorative ed educative in carcere, vengano inseriti tra le categorie prioritarie nella vaccinazione contro il Covid 19, al pari degli altri ospiti e degli altri operatori di comunità chiuse. Occorre mettere fine a questa palese discriminazione nei confronti di soggetti ugualmente vulnerabili, la cui salute è totalmente nelle mani delle istituzioni che, seppur a titolo diverso, li custodiscono. Anche le Regioni, ognuna nell’ambito di operatività stabilito dal Piano Nazionale, potrebbero svolgere un ruolo importante. Qualora residuassero le dosi di vaccino assegnate nella fase uno (per mancanza di richiesta, ad esempio), si potrebbe individuare autonomamente target di popolazione ulteriore da vaccinare con priorità, proprio come i detenuti e quanti lavorano negli istituti di pena. È ora di porre rimedio verso una “dimenticanza”, che rischia di apparire agli occhi dei detenuti e delle loro famiglie solo come una pena aggiuntiva. Covid, un’altra vittima nelle carceri. Rita Bernardini riprende lo sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 gennaio 2021 Secondo gli ultimi dati pubblicati al 31 dicembre del 2020, risultano 53.364 detenuti su una capienza regolamentare di 50.562 posti. Ovviamente non vengono tenuti in conto i posti inagibili, quindi il sovraffollamento è nella realtà ben superiore. Altro dato che emerge è il calo di 1004 detenuti rispetto al mese precedente. Un calo, però, leggerissimo. È la dimostrazione che le misure deflattive del decreto Ristori risultano del tutto insufficienti. Come ha detto il Garante Nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma in una recente intervista a Redattore sociale, “sempre troppe le persone per quanto la capienza regolamentare ne preveda e la cautela obbligatoria per fronteggiare eventuali focolai di contagio ne richieda. I posti regolamentari e realmente disponibili sono attorno ai 47.000 e questo dato è già di per sé eloquente anche in situazione normale, ancor di più nella situazione in cui stiamo vivendo”. Il contagio, seppur diminuito, ma con nuovi focolai nel contempo, rimane una emergenza in carcere. Emergenza che è destinata ad amplificarsi con la temuta terza ondata. E potrebbe essere ancora più devastante, secondo le opinioni di diversi virologi. D’altronde, anche il 2021 si inaugura con l’ennesimo recluso morto per Covid. È deceduto nell’ospedale di Rieti, dopo due settimane di ricovero, un detenuto di 66 anni, il primo nel 2021, il primo dall’inizio della pandemia nel Lazio, il tredicesimo (in Italia) di questa seconda ondata. A darne notizia è il garante regionale Stefano Anastasìa. “In carcere - denuncia amaramente il garante -, come nelle Rsa, continuano ad accendersi e spegnersi focolai Covid. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: nelle carceri, come nelle Rsa, bisognerebbe provvedere alle vaccinazioni in via prioritaria”. A proposito del vaccino, ricordiamo che il governo ha recentemente accolto l’ordine del giorno del deputato Riccardo Magi di + Europa. Un po’ modificato, ma comunque impegna il governo a fare una valutazione circa la predisposizione del piano vaccinale nei confronti della popolazione penitenziaria. Per questo, a sua volta, ora il deputato Magi si impegnerà a fare pressione al governo affinché ci sia un seguito. Nel mentre c’è urgenza di ricorrere ad ulteriori misure deflattive. Questo per garantire distanza fisica e isolamento sanitario. Inizialmente è sembrato che il premier Conte abbia recepito il problema, questo grazie al confronto avuto con Rita Bernardini del Partito Radicale e della presidenza di Nessuno Tocchi Caino. Grazie a quell’incontro, l’esponente radicale ha interrotto il suo sciopero della fame, durato 35 giorni. Niente da fare. Spiazzando i suoi interlocutori, durante la conferenza di fine anno, Conte ha dichiarato che in carcere è tutto sotto controllo. Una doccia fredda soprattutto per tutti quei familiari dei detenuti che hanno i propri cari con patologie fisiche gravi e dove il nuovo coronavirus può risultare letale. Senza la messa in pratica del protocollo sanitario, tutto diventa più rischioso nelle carceri. Non a caso il tasso del contagio è maggiore rispetto a chi vive al di là delle sbarre. A questo punto Rita Bernardini annuncia di riprendere lo sciopero della fame a partire da mezzanotte. Cosa chiede? La liberazione anticipata speciale, passare dai previsti attuali 45 giorni a 75 per tutti quei detenuti che abbiano dimostrato, attraverso la buona condotta intramuraria, di avere intrapreso e di seguire un percorso trattamentale; per tutta la durata dell’emergenza, blocco dell’esecutività delle sentenze passate in giudicato a meno che la Procura valuti che - come ha proposto il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi - il condannato possa mettere in pericolo la vita o l’incolumità delle persone e allargare la platea dei beneficiari della detenzione domiciliare speciale prevista nel decreto Ristori a coloro che devono espiare una pena, anche se costituente parte residua di maggior pena, non superiore a 24 mesi, e soprattutto senza esclusioni derivanti dal titolo di reato. Alta Sicurezza e processi sulle rivolte. Le vite sospese dei detenuti di Luigi Romano e Riccardo Rosa napolimonitor.it, 6 gennaio 2021 Mario S. sta scontando un ergastolo dal 1983, quando è entrato in prigione venticinquenne. Quattro anni prima suo padre era stato ucciso in Calabria per una vendetta trasversale. Mario aveva quindi lasciato il suo lavoro e aveva iniziato la caccia agli assassini, che ha poi a sua volta ucciso in meno di due anni. In quello stesso periodo è diventato un uomo importante tra i clan del Tirreno cosentino, finché non è stato arrestato, processato e condannato. Venticinque anni dopo, alla soglia dei cinquanta, Mario si era guadagnato la semilibertà per poter lavorare all’esterno del carcere, dove ritornava solo per la notte. Sei anni dopo la misura gli è stata revocata: Mario era stato rinviato a giudizio con l’accusa di aver ricostruito il vecchio clan calabrese. In seguito al procedimento è stato recluso in regime di alta sorveglianza nel carcere di Parma. Nel 2017 Mario è stato assolto in appello con formula piena. I pm non hanno fatto ricorso. A questo punto i legali hanno chiesto al Tribunale di sorveglianza di ripristinare i benefici che si era guadagnato, ma il giudice, pur prendendo atto dell’assoluzione, ha respinto la richiesta perché il detenuto avrebbe dovuto ricominciare un percorso per dimostrare la sua affidabilità. Le relazioni redatte dal carcere parlano di un “comportamento corretto, assenza di sanzioni, manifesta cortesia, disponibilità e interesse, relazioni rispettose, rapporti assidui con i tre figli, due dei quali affetti da handicap”. Eppure Mario, che oggi ha quasi settant’anni, ha passato tutta la sua vita in galera e si trova in una sezione di alta sicurezza per un reato dal quale è stato assolto. I circuiti di alta sicurezza nascono all’inizio degli anni Novanta, quando il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comincia la progettazione dei cosiddetti “binari differenziati” - ancora oggi l’unico orizzonte del potere penitenziario - stabiliti a seconda del reato per cui l’imputato è giudicato o condannato, e della sua pericolosità. L’architettura è semplice da escogitare, non bisogna far altro che raccogliere l’esperienza di campo della repressione dell’eversione rossa (i “circuiti dei camosci”, così venivano chiamate le prigioni speciali dei sovversivi): in accordo con i meccanismi di premialità che reggono la “rinegoziazione” dei benefici, quei gironi infernali - diversificati in As1, As2, As3, regime 41-bis op. - rappresentano infatti la massima espressione dell’internamento. La corsa per i benefici, in questo scenario, diventa una perdita di tempo, dal momento che, come nel caso di Mario, sembra mancare sempre qualcosa per ottenerli. Fa parte del gioco, non è una disfunzione burocratica, perché l’obiettivo non dichiarato del “controllo premiale” è quello di prendere tempo (tra équipe di valutazione, osservazioni della personalità, visite psichiatriche, indagini familiari, udienze nei tribunali, ecc.) costruendo una dimensione astratta di attesa e desiderio in cui il soggetto si disgrega, ricomponendo e decomponendo le proprie speranze. L’inferno di prove da superare, interrogatori, attese, provocazioni e minacce - orizzonte comune e quotidiano per tanti ristretti - è il vortice in cui si muovono da mesi anche i ventidue detenuti che dal 18 gennaio cominceranno le udienze del processo per la rivolta al carcere di Milano Opera dello scorso 8 marzo. Le accuse ai loro danni sono incendio, danneggiamenti, resistenza a pubblico ufficiale, con aggravanti che potrebbero portare a pene fino ai quindici anni. Le accuse, in alcuni casi, sono però fondate solo su una “auto-denuncia” attraverso cui molti detenuti ammisero, nelle ore successive alle sommosse, di aver partecipato ai fatti. Nel corso dei mesi i familiari hanno riferito che su molti accusati furono fatte forti pressioni dalle autorità penitenziarie per indurli a firmare il documento. Se la storia processuale di quei giorni è ancora tutta da scrivere, l’impressione è che gli eventi che si sono susseguiti prima, durante e dopo le rivolte, in decine di carceri in tutta Italia, avranno un destino molto diverso gli uni dagli altri, e i procedimenti si trasformeranno in processi in tempi più o meno lunghi, a seconda del lavoro e delle letture da parte delle procure e dei pubblici ministeri. Accanto ai processi nei confronti dei detenuti, ci sono infatti anche quelli ai danni degli agenti di polizia (non solo penitenziaria) che entrarono nei reparti di diverse carceri compiendo blitz punitivi, pestaggi, violenze ai danni dei detenuti. Un elaborato percorso di indagini ha avuto come oggetto in questi nove mesi una tra le più volente irruzioni di poliziotti nelle celle, la “mattanza” del carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. Le accuse della procura non sono ancora note perché le indagini non sono chiuse, ma le ipotesi di reato denunciate dall’associazione Antigone sono pesanti: tortura, omissioni di referto, falsificazione delle cartelle cliniche, abuso di autorità. Per quanto riguarda le altre inchieste, non si riescono ad avere notizie precise su quanto accade a Milano e Modena, dove si sono registrati nove dei tredici decessi. Da mesi si parla di due inchieste di cui però non hanno notizie neppure gli avvocati di fiducia dei detenuti che hanno presentato gli esposti. Quello scritto dai cinque trasferiti da Modena ad Ascoli Piceno racconta nel dettaglio le violenze subite al termine della rivolta, durante il trasferimento, e una volta giunti nel nuovo penitenziario, quando il loro compagno Salvatore Piscicelli trovò la morte in cella, dopo essere stato a lungo percosso e visitato solo sommariamente in infermeria. Una situazione simile riguarda anche il carcere di Foggia, all’interno del quale si sono verificati eventi che ricordano in maniera inquietante quelli di Santa Maria Capua Vetere: violenze e pestaggi a freddo, a rivolte ampiamente terminate, denunciate dai detenuti solo una volta liberati, tramite un esposto presentato con il supporto dell’associazione Yairaiha. Da questo punto di vista è molto importante mantenere alta l’attenzione, perché le valutazioni degli inquirenti (numero di indagati e reati contestati) oltre a marcare una linea politica, saranno fondamentali per misurare la concretezza degli eventuali processi. Alcuni dei detenuti coinvolti nelle rivolte furono trasferiti con grande fretta, subito dopo i fatti, nel carcere di Vigevano, un penitenziario che difficilmente raggiunge gli onori delle cronache, anche a causa della presenza di molti detenuti di origine straniera, i cui familiari fanno ancora più fatica a trovare voce. Le denunce raccolte da Napoli Monitor raccontano però di rapporti molto tesi tra detenuti e personale penitenziario, di casi di Covid che la direzione avrebbe provato a occultare, di ritorsioni rispetto alle proteste dei detenuti. La scorsa settimana un giovane tunisino ha tentato di impiccarsi; un grave atto di autolesionismo, in segno di protesta per la gestione quotidiana del carcere, è stato denunciato dai familiari di un altro ristretto; a fine novembre una prigioniera, che qualche giorno prima aveva incendiato il materasso della propria cella, ha avuto una “colluttazione” (così viene definita nelle veline) con un gruppo di agenti, successivamente a una visita in infermeria e alla somministrazione di psicofarmaci. Mentre i sindacati di polizia, però, si esprimono su eventi e situazioni come queste solo per chiedere un aumento delle misure repressive nei penitenziari (nei loro comunicati è una costante la domanda d’uso delle pistole elettriche), il ministro della giustizia Bonafede continua a evitare di esprimersi sulle condizioni strutturali e sulla gestione autoritaria del quotidiano detentivo. Il 31 dicembre scorso il ministro ha visitato il carcere di Poggioreale, con un’inutile passerella che ha lasciato alla popolazione carceraria e agli operatori penitenziari solo un vuoto retorico. Sebbene l’istituto napoletano sia l’emblema dei fallimenti degli ultimi quarant’anni anni, Bonafede non ha ritenuto opportuno spendere nemmeno una parola sul contesto normativo, profittando del fatto che le richieste di modifica del sistema si perdono allo stato in inutili tecnicismi, nella riproduzione ideologica di vecchie battaglie, nelle futili istanze etico-religiose. Tutti tentativi che difficilmente si radicano negli strati sociali e che non trovano forza in un movimento generale di trasformazione, assente da tempo. Quello che abbiamo davanti è insomma un quadro poco rassicurante, tanto più se si considera che l’insieme dei procedimenti a carico della polizia penitenziaria, il numero raddoppiato dei suicidi nel 2020, le morti e le brutalità nella gestione di episodi come quelli di marzo, restituiscono l’immagine di un sistema punitivo attraversato da enormi conflitti. Gli apparati istituzionali sono ormai privi di strumenti di assorbimento, perché le strutture disciplinanti previste dalla riforma del 1975 di fatto non servono più a nulla. Serve ossigeno. Il dramma delle carceri: facciamo luce di Marianna Donadio e Mariasole Fusco informareonline.com, 6 gennaio 2021 “Anche noi siamo molto preoccupati da questo coronavirus. Anche noi tra gli ‘ultimi’ della società siamo angosciati per i nostri cari che sono al di fuori di queste mura, come loro lo sono per noi. Le condizioni in cui ci troviamo a vivere sono difficili, in alcuni casi impossibili. […] Ci dovrebbe essere tolta la libertà, non la dignità, il diritto alla salute, il diritto a vivere”. Era questo l’appello che lanciavano a marzo i detenuti della casa di reclusione Due Palazzi di Padova, rivolto come tanti altri ad uno Stato che temevano li avrebbe dimenticati e abbandonati. Ad oggi possiamo affermare con certezza che ogni loro dubbio è stato confermato. L’emergenza Covid-19 ha dimostrato ancora una volta che le carceri sono terra di nessuno, la zona grigia in cui perdono valore i diritti inalienabili dell’individuo e anche le più banali misure sanitarie preventive si rivelano inesistenti. Basterebbe fermarsi ad un’analisi superficiale dei numeri legati al sovraffollamento per rendere chiaro che nessuna delle norme per il contenimento dei contagi, applicate all’esterno, può essere messa in atto nelle strutture carcerarie di oggi. Secondo gli ultimi dati resi noti dal Ministero della Giustizia, infatti, al 30 novembre 2020 i detenuti presenti nelle carceri italiane, nonostante quanto disposto dal Decreto Ristori, sono 54.368 a fronte di una capienza regolamentare di 50.568, ai quali vanno sottratti più di 3.000 posti non disponibili. Solo a Napoli, nell’istituto di Poggioreale, i reclusi superano di quasi un terzo il numero previsto. “Io guardo la televisione e sento dire che per Natale non potrete essere in più di sei in famiglia. Io sono in una cella con 9 detenuti, come mi devo sentire? Non vale anche per noi il distanziamento?” - scrive un internato di Poggioreale a Pietro Ioia, garante cittadino per i diritti delle persone private della libertà personale. Ioia, ex detenuto, dal momento del rilascio ha dedicato tutto il suo impegno alla denuncia delle inumane condizioni di vita in carcere e delle violenze ormai all’ordine del giorno, di cui abbiamo avuto riscontro nelle rivolte di marzo, scatenatesi a seguito dell’esplodere della pandemia. “La violenza nelle carceri esiste, è sempre esistita ed esisterà sempre. Fino a due settimane fa c’erano proteste ogni giorno, ora la situazione è più sotto controllo da quando il numero dei positivi si è abbassato da più di cento a dodici. Dove ci sono più persone e dunque il distanziamento non è consentito, come a Secondigliano, c’è paura e c’è tensione” - ci racconta il garante. Il quadro che ci descrive è quello di un abbandono totale, del quale i detenuti risentono anche dal punto di vista psicologico. Nella struttura difatti non c’è stata alcuna igienizzazione e l’unica misura di sicurezza applicata resta l’isolamento. “Per portare finalmente queste realtà invisibili agli occhi delle Istituzioni bisogna dare voce a chi non ha voce” - afferma ancora Ioia. I difetti del sistema carcerario su cui la pandemia sta accendendo i riflettori, infatti, non sono una novità per chi li sperimenta da sempre sulla propria pelle, ma semplici conseguenze di problematiche preesistenti che già rendevano le carceri delle discariche sociali. A raccontarci quali sono queste difficoltà ataviche è Emanuela Belcuore, garante dei diritti dei detenuti di Caserta, che si occupa degli istituti di Arienzo, Carinola, Aversa e Santa Maria Capua Vetere. Per quanto riguarda quest’ultimo, uno degli elementi che rende impossibile la convivenza con il virus è l’assenza di acqua potabile, condizione indispensabile per garantire anche il più essenziale livello di igiene. A questo si aggiunge la totale assenza di prodotti igienizzanti e di dispositivi di protezione individuale. “La sezione preposta per i detenuti Covid non è ben isolata- ci dice la garante, sottolineando il forte rischio di contagio - e la polizia penitenziaria entra in cella senza guanti, senza tute, senza mascherine”. Ad aggravare il tutto contribuisce la difficoltà dei detenuti con patologie croniche a ricevere visite mediche specialistiche a causa dei forti rallentamenti provocati da un sistema sanitario ormai al collasso. Uno dei reclusi del Santa Maria Capua Vetere, affetto da HIV, ci racconta la Belcuore, è riuscito ad ottenere una visita solo dopo un’attesa di più di tre mesi. “La politica spesso viene in carcere per fare la sua sfilata, ma quello che rimane sono solo belle parole. Il detenuto - conclude poi - c’è, esiste, è tra di noi, non è un problema così lontano come i benpensanti credono”. A risvegliare le coscienze, lanciando una campagna di sensibilizzazione e tracciando il quadro delle precarie condizioni in cui il sistema carcerario versa, è l’associazione Antigone, che dagli anni ‘80 si fa promotrice della salvaguardia dei diritti dei detenuti. L’iniziativa, a cui hanno aderito organizzazioni di carattere umanitario come Amnesty International o CNVG, è volta a sollecitare l’intervento del governo, nella speranza di ottenere soluzioni adeguate all’emergenza sanitaria scoppiata all’interno delle carceri. Tra le principali proposte emergono in prima linea misure volte alla riduzione del sovraffollamento, le cui percentuali hanno raggiunto, come abbiamo visto, numeri esorbitanti, con una media del 110% e picchi di più del 170% in alcune regioni. Non c’è quindi da stupirsi se un qualsiasi tentativo di contenimento dei contagi, attraverso le necessarie distanze di sicurezza, si sia rivelato inattuabile. Antigone si schiera dunque a favore di un ampliamento dei provvedimenti comunemente denominati svuota-carceri, in modo che consentano a una più larga fetta della popolazione carceraria di scontare l’ultimo periodo della propria pena in detenzione domiciliare. Le misure finora stabilite dalle Istituzioni, riassunte all’interno del Decreto Ristori del 30 ottobre, comprendono ancora una cerchia troppo ristretta di beneficiari. Il decreto infatti stabilisce licenze e permessi premio di durata straordinaria, ma riservate esclusivamente a coloro che hanno già goduto in precedenza di permessi di uscita ordinari. Dispone inoltre la possibilità di un trasferimento agli arresti domiciliari per tutti i reclusi a cui restano da scontare 18 mesi di pena o meno. Ad essere esclusi da ogni beneficio sono, invece, i detenuti soggetti all’articolo 4bis e 41bis dell’ordinamento penitenziario. I punti presentati da Antigone mirano ad un’applicazione più estesa della liberazione anticipata per buona condotta e ad un ampliamento fino a residui pena di 36 mesi delle disposizioni attuali riguardanti la detenzione domiciliare. Si richiede poi l’estensione di quest’ultima senza limiti di pena a coloro che soffrono di patologie pregresse e che, come ci segnala Dario Stefano Dell’Aquila, componente di Antigone Campania, rappresentano quasi un terzo della popolazione penitenziaria. Al contempo, per far fronte alla crescente tensione psicologica, innescata anche dall’impossibilità di ricevere visite da parte dei propri cari, sono state lanciate proposte volte a ridurre la condizione di isolamento del detenuto dal mondo esterno. Tra queste troviamo la dotazione di uno smartphone ogni cento detenuti che consenta loro di entrare più facilmente in contatto telefonico con i propri familiari, l’acquisto di PC e l’attivazione di reti wi-fi, che permettano di portare avanti telematicamente parte delle attività formative e culturali svolte prima dell’insorgere della pandemia. Infine, per la prevenzione del contagio, viene richiesta allo Stato un’assunzione straordinaria ed immediata di personale sanitario, in modo da garantire un’adeguata assistenza ai reclusi. Queste proposte sono la dimostrazione concreta che, se sul dramma delle carceri si soffermasse la reale attenzione delle Istituzioni, si potrebbe intervenire per lenire almeno in parte le ferite forse insanabili dovute ad anni di malagestione. È necessario che la nostra società ascolti finalmente la voce degli ultimi, dando spazio all’interno del dibattito politico nazionale alla situazione di chi purtroppo vive l’isolamento in condizioni di gran lunga più critiche delle nostre, pur meritandolo. Il mostro in prima pagina. Il fragile diritto alla riservatezza nel procedimento penale di Claudio Paterniti Martello antigoneonlus.medium.com, 6 gennaio 2021 Molto spesso giornali e programmi televisivi, quando si occupano di processi o indagini in corso, diffondono nomi e immagini delle persone coinvolte senza preoccuparsi del loro diritto alla riservatezza. Per di più buona parte delle volte presentano le ipotesi investigative come se fossero verità accertate. Per quanto negli anni siano state introdotte diverse norme a protezione della privacy di indagati e imputati la realtà fatica ad adattarvisi. Perché? La questione è complessa e ha a che fare con diritti costituzionalmente garantiti in conflitto tra loro. Da un lato il diritto di cronaca e informazione (art. 21 della Costituzione) assieme al diritto di conoscere le modalità con cui è gestita la giustizia (art. 101 Cost.), anche al fine di modificarne le regole; dall’altro il diritto all’identità, all’immagine, alla privacy (artt. 2 e 3 Cost.) e alla presunzione di innocenza (art. 27 Cost.). Quasi sempre a prevalere è il primo paniere di diritti. A risentirne sono le garanzie per le persone coinvolte, ma anche la serenità di giudizio del Magistrato, la sua effettiva imparzialità e la necessaria riservatezza delle indagini. L’interesse della stampa non riguarda in genere tutte le fasi di un procedimento penale. Per lo più si concentra sulle indagini preliminari, il momento degli arresti e degli avvisi di garanzia. Si tratta solo della fase iniziale di procedimenti spesso lunghi e complessi, ma spesso i suoi risultati sono percepiti come l’esito di un accertamento dei fatti, che invece avviene nel corso del processo. Una ricerca condotta pochi anni fa dell’Unione delle Camere Penali su un campione di più di 7000 articoli di stampa mostrava come in oltre il 60% dei casi prevalesse un approccio colpevolista alle vicende giudiziarie (o che recepiva in maniera acritica le ipotesi dell’accusa). È poi noto che molte conferenze stampa nelle Procure o negli uffici di Polizia avvengano con sullo sfondo le immagini delle persone arrestate. La Corte di Cassazione già nel 1984 (sentenza 5259) individuò 3 criteri che è necessari rispettare per esercitare in maniera legittima il diritto di cronaca: la verità dell’informazione, la continenza della forma espositiva e la sua pertinenza, cioè il suo interesse pubblico. Altri limiti sono stati stabiliti nel tempo dai numerosi codici deontologici che regolano l’attività dei giornalisti (i quali sono riassunti nel Testo Unico dei doveri del giornalista del 2016). Norme e sentenze sono di stampo garantista. Ma la prassi no. Tra i motivi di questo scarto c’è una probabile inadeguatezza di alcune sanzioni, ma anche un problema culturale e deontologico che riguarda tanto i giornalisti quanto i magistrati e gli altri operatori della giustizia. Ne è un esempio quanto avvenuto con le immagini dei minori coinvolti in procedimenti penali, che fino ad alcuni anni fa erano spesso presenti su giornali e in televisione e oggi non lo sono più. Le sanzioni comminate dell’Ordine dei Giornalisti e dal CSM sono molto rare. Di recente il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) si è preoccupato di porre limiti chiari alla comunicazione di Giudici e Pubblici Ministeri, che in alcuni casi contribuisce a porre le basi per i cosiddetti processi mediatici. Lo ha fatto emanando delle linee guida che tra le altre cose prevedono l’individuazione di Magistrati responsabili per le comunicazioni con i media, oltre alla creazione di uffici stampa di Tribunali e Procure - uffici che però, a causa della mancanza di mezzi, spesso non vedono la luce. Il sistema giudiziario fatica da tempo a garantire il segreto istruttorio nella fase iniziale del procedimento penale, cioè a garantire che gli atti non verranno diffusi illegalmente (e dunque che non verranno pubblicati sulla stampa). La Corte di Cassazione, con la sentenza 173/2000, ha conclamato l’incapacità sistemica a garantire tale segreto per gli gli atti del fascicolo del Pubblico Ministero (PM) e del Giudice per le indagini preliminari (GIP). Si tratta di un reato, ma nella pratica i responsabili non vengono quasi mai individuati. Il sistema è assuefatto alla pratica della fuga illegale di notizie. Non è l’unica norma inapplicata. Il divieto di diffusione delle immagini che ritraggono persone in stato di arresto o nel corso della traduzione in carcere, ad esempio, per quanto previsto da diverse norme, non sempre viene rispettato dalle autorità giudiziarie e dalle Forze di Polizia. E ancora: dati sensibili come il nome, la nazionalità, l’età e la professione delle persone coinvolte, che dovrebbero essere citati solo quando l’interesse pubblico lo richiede, sono spesso diffusi in maniera ingiustificata nel corso delle conferenze stampa o assieme ai video pubblicati autonomamente dalle Forze di Polizia, senza che vi siano esigenze di giustizia o polizia dietro. Le sanzioni disciplinari per queste violazioni sono praticamente inesistenti. Un altro problema annoso è quello della pubblicazione sulla stampa di elementi penalmente irrilevanti, solitamente di intercettazioni telefoniche o ambientali che spesso riguardano anche persone estranee al procedimento, o interessate in modo del tutto marginale. A volte per una cosa può essere penalmente irrilevante ma di interesse pubblico. È l’interesse pubblico il criterio che presiede alla pubblicazione di un atto o del contenuto di un atto processuale, ed è valutato autonomamente dal giornalista. Che però dovrebbe sempre rispettare il limite della continenza, e ciò non avviene. La disponibilità di elementi penalmente irrilevanti (e spesso senza interesse pubblico) in vari casi è conseguenza della cattiva prassi, in uso tra molti magistrati, di inserirli nei provvedimenti di custodia cautelare, che possono essere pubblicati, almeno nel contenuto. Questo proprio al fine di dare loro rilevanza mediatica. Il meccanismo attuale fa sì che i giornalisti si trovino spesso in una relazione di dipendenza dalle autorità giudiziarie, che sono la loro fonte privilegiata. Le norme consentono l’accesso diretto agli atti non più coperti da segreto istruttorio - dunque senza passare da un magistrato - ma sono applicate in maniera arbitraria e parziale, e dunque ineffettiva. Nella prassi le informazioni passano da canali informali. La fuga di notizia è il modo in cui di norma i media vengono a conoscenza dei procedimenti penali. Il fatto che da quel magistrato dipenda la disponibilità di notizie fa sì che un suo provvedimento venga criticato con più difficoltà. Molti atti non potrebbero essere pubblicati, ma lo sono lo stesso. Le sanzioni per violazione del divieto di pubblicazione sono molto tenui, ma un loro inasprimento o la creazione di nuovi reati non pare essere una soluzione desiderabile né tanto mento percorribile, in quanto ostacolerebbe la libertà di stampa, ponendosi in contrasto con una consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani (Cedu). È piuttosto necessario apportare dei cambiamenti culturali. Fino a qualche anno fa foto e nomi di minori venivano pubblicati con regolarità. Oggi per fortuna questo non accade più, e non si tratta della conseguenza di qualche nuovo reato. Una svolta culturale avrebbe poi come ovvia conseguenza un maggiore rigore da parte dell’Ordine dei giornalisti. Da più parti è stata avanzata la proposta di rendere effettive le sanzioni reputazionali per i giornalisti che violano i limiti di liceità. Luigi Ferrarella, noto e stimato cronista giudiziario del Corriere della Sera, ha proposto la pubblicazione obbligatoria e in uno spazio in evidenza di condanne penali, sentenze di risarcimenti civili, sanzioni disciplinari e provvedimenti del Garante della privacy conseguenti a un trattamento illecito della notizia. Le pronunce potrebbero essere incluse in una pagina apposita a cui rimanderebbe un pop-up lampeggiante in evidenza sulla home page dei quotidiani. La svolta culturale dovrebbe riguardare anche gli operatori della giustizia, chiaramente. I quali hanno approcci e capacità comunicative differenti. Contrariamente agi uffici giudiziari, ad esempio, le Forze di Polizia dispongono di siti internet e canali social gestiti in maniera professionale ma con toni spesso autocelebrativi e poco rispettosi della presunzione di innocenza e del diritto alla riservatezza. La diffusione di dati sensibili è la norma, com’è la norma l’assenza di condizionali nel presentare le ipotesi accusatorie. I processi mediatici paralleli ai processi veri e propri non riguardano solo le personalità note del mondo politico o imprenditoriale. A fare le spese di una sovraesposizione mediatica sono anche le persone sprovviste di mezzi, specie su scala locale. Sono state avanzate proposte di rimedi compensativi per chi è danneggiato dal processo mediatico, sul modello di quanto avviene per l’ingiusta detenzione o per la durata irragionevole del processo. Nella riflessione degli operatori giuridici è stata ipotizzata la presa in conto dell’attenuante per le persone condannate, a compensazione di una sorta di violazione del principio ne bis in idem (secondo cui non si può essere processati due volte per lo stesso fatto), che l’esistenza di un processo mediatico violerebbe in parte. Per i prosciolti si è ipotizzata una maggiore forza della sanzione reputazionale, con obbligo di pubblicazione delle sentenze e una compensazione monetaria. Sono proposte volte soprattutto a fare emergere il problema, di difficile (e in alcuni casi non desiderabile) realizzazione. Un ragionamento sulla sovraesposizione mediatica delle persone coinvolte in procedimenti penali merita infine la presa in conto del diritto all’oblio per chi subisce un processo (che riguarda i procedimenti penali conclusi). Molte persone una volta scontata la pena detentiva faticano a trovare lavoro perché il processo e la condanna restano indicizzate sui motori di ricerca. In molti casi c’è un interesse pubblico a ciò. In altri la questione è più dubbia. La Corte di Cassazione ha individuato nel tempo trascorso dai fatti e nell’attualità dell’interesse pubblico alla diffusione della notizia i criteri in base ai quali stabilire se la persistenza della notizia ha ragion d’essere o se deve essere de-indicizzata. In tutti i casi si tratta di problemi che meritano riflessioni collettive e la ricerca di soluzioni in grado di garantire più di quanto non accada oggi i diritti delle persone indagate, imputate e in alcuni casi anche condannate. Trattativa stato-mafia: vent’anni di panzane di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 gennaio 2021 Le ricostruzioni si rincorrono e alimentano leggende senza lo straccio di una prova. Gli ultimi servizi sulle stragi mafiose hanno fatto il giro dei social ma di novità e di cose verificate ce ne sono ben poche. Per riassumere la puntata di Report sulla trattativa stato mafia e le stragi, può essere utile una citazione messa a epigrafe del libro “Complotto!” scritto a quattro mani dal compianto Massimo Bordin e Massimo Teodori. Si tratta quella di Mordecai Richler: “Il mio problema con i teorici della cospirazione è che, se gli dai un dito di porcherie accertate, loro si prendono tutto un braccio di fantasie. O peggio”. Sì, perché ogni evento tragico di questo Paese, ed è un fatto, può essere però preso per comporre un mosaico a proprio piacimento. Così si possono unire i puntini e dire che tutte le stragi che hanno attraversato questo nostro strano Paese siano mosse da una unica regia. Quindi, come fa intendere Report, la strage di Bologna e quelle siciliane di Capaci e Via D’Amelio appartengono ad un unico piano eversivo. Vale la pena ricordare cosa disse, in una intervista su radio radicale a cura di Sergio Scandura, l’ex magistrato ed ex parlamentare di Rifondazione comunista Giuseppe Di Lello: “Ho già in passato espresso delle perplessità enormi per la ricostruzione secondo me un po’ giornalistica di questo pezzo della storia d’Italia che accomuna soggetti molto diversi tra di loro e mescola due epoche storiche distinte”. Di Lello non è un personaggio qualsiasi. È un pezzo pregiato della storia dell’antimafia. Ha fatto parte del pool antimafia dal primissimo momento. Il Pool lo fondò Rocco Chinnici, nei primi anni ottanta, e chiamò con sé quattro giovani magistrati quarantenni: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Peppino Di Lello. Quest’ultimo è stato uno dei protagonisti del celeberrimo maxiprocesso alla mafia ed è restato fino alla fine nel pool, cioè fino a che non lo smantellarono. Ma ritorniamo al mosaico composto da Report. Ogni tassello affrontato mostra però alcune lacune. Sicuramente per distrazione. Partiamo dallo scoop sull’agenda rossa. Anche perché è l’unico, il resto è stato tutto già affrontato dalle motivazioni relative alla sentenza di primo grado sulla trattativa stato mafia. Sì, perché nelle stesse pagine , si auto-certifica anche la peculiarità dell’attività ricognitiva svolta, definendola espressamente “ardua e pressoché titanica” dal momento che ha riguardato non i singoli fatti contestati agli imputati, ma un insieme amplissimo di “vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni sessanta e i giorni nostri”, passando dai tentativi di golpe dei primi anni settanta, al sequestro Moro, sino al terrorismo brigatista e alla P2, oltre, ovviamente, alle stragi mafiose. Esattamente quello che ha riportato Report. Nulla, appunto, di esclusivo. Però sull’agenda rossa di Borsellino sì. Report ha intervistato Salvatore Baiardo, l’uomo che ha coperto la latitanza dei fratelli Graviano, potente famiglia mafiosa accusata anche della strage di via D’Amelio. In sostanza dice che ci sono più copie dell’agenda sottratta dall’ auto in fiamme del giudice Borsellino, finite a diverse persone. Non solo a Matteo Messina Denaro e i Graviano stessi, ma anche ad altri soggetti. Stupefacente. Un uomo che faceva il gelataio ad Omegna (località dove appunto latitava Graviano), ha custodito per tutti questi anni un segreto di tale portata. Ma è una persona attendibile? Non possiamo giudicarlo noi. Ma per rispetto della cronaca, dobbiamo ricordare che Baiardo, condannato per favoreggiamento ai Graviano, nel 94 aveva raccontato molte cose alla Dia di Firenze che stava indagando sulla strage di Via dei Georgofili. Il risultato di allora? Nessun riscontro alle sue affermazioni che non hanno portato a delle certezze giudiziarie. Non solo. Baiardo ha sostenuto che, il giorno dell’attentato in Via D’Amelio, Graviano fosse con lui, nella sua gelateria di Omegna, e che, appresa la notizia, si sarebbero diretti verso casa per vedere il telegiornale. Parliamo di un personaggio, appunto, ambiguo. Report l’avrebbe dovuto dire. Magari evocando cosa disse Vincenzo Amato, giornalista de La Stampa scelto da Baiardo in quanto suo conoscente, per rilasciargli le sue dichiarazioni: “La mia personale impressione su Salvatore Baiardo è, al di là delle vicende accertate, questa: che lui “venda” un po’ di fumo per cercare di ritagliarsi un qualche spazio. Non mi sembra del tutto credibile. Lui effettivamente è stato arrestato e si è fatto in carcere dal ‘95 al ‘99 effettivamente per questi rapporti con i Graviano. È anche noto alle forze dell’ordine locali perché ha avuto una serie di, diciamo di vicende, di guai giudiziari; tra l’altro per piccole truffe anche da mille euro, da cifre di questo genere”. Ecco, stando alle parole del giornalista Amato, parliamo di uno che avrebbe millantato per truffare persone. Anche l’intervista a Gioacchino Genchi è interessante. Ha parlato della sparizione di alcuni file dal computer di Falcone. Ebbene, appare strano che al giornalista di Report non abbia specificato i nomi dei file. Sì, perché c’è una lunga intervista di giugno scorso che Genchi ha rilasciato al giornale on line Ilsicilia.it, dove disse testuali parole: “C’era un file nascosto, denominato “Orlando.bak”, un file di backup per il quale mancava il file “Orlando.doc”. Era sparito. Qualcuno lo ha cancellato, probabilmente perché dava fastidio. Il file “Orlando.bak” conteneva tracce degli appunti di Falcone per difendersi al Csm dalle accuse dell’allora sindaco Orlando”. Invece a Report questo passaggio non compare. Possibile che Genchi non glielo abbia riferito? Sicuramente sarebbe stato un altro tassello interessante, anche se difficoltoso per comporre il mosaico che ne è uscito fuori. Anche la famosa frase di Borsellino riportata a conclusione dal conduttore di Report, sarebbe diventato un altro tassello anomalo se fosse stata riportata nella sua interezza. Perché? Manca il riferimento ai magistrati. Allora la diciamo noi. Nel verbale di assunzione di informazioni del 18 agosto 2009, davanti al Pubblico Ministero presso il tribunale di Caltanissetta, la signora Agnese Piraino Borsellino ha dichiarato: “Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo”. Paolo Borsellino, in tale occasione, non fece nessun nome alla moglie, la quale però ha soggiunto: “comunque non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora Procuratore Giammanco”. Sarebbe stato un tassello difficile da farlo incastrare nel mosaico ricostruito da Report. Così come sarebbe stato ancora più “anomalo” rendere pubblici in TV i verbali che Il Dubbio, dopo 28 anni, ha pubblicato per la prima volta dove si parla dell’ultima riunione in procura alla quale partecipò Borsellino: emerge che ci fu tensione e avanzò rilievi sulla conduzione del procedimento mafia appalti, facendosi portavoce delle lamentele dei Ros Mori e De Donno. Parliamo del 14 luglio. Il giorno dopo qualcuno andò da Borsellino a parlar male del carabiniere dei Ros. Cinque giorni dopo la strage. “Del nido di vipere si continua a non parlare”, esclama polemicamente su Facebook l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino. “Nido di vipere” è un’altra espressione di Paolo Borsellino, riferendosi alla procura di Palermo di allora. La giustizia europea viaggia a carriere separate. L’anomalia italiana di Davide Varì Il Dubbio, 6 gennaio 2021 L’Italia è l’unico Paese, fra le democrazie consolidate, in cui le due funzioni sono affidate allo stesso corpo di magistrati indipendenti. Di regola, nei regimi democratici pm e giudice appartengono ad organizzazioni diverse. Solo in Francia si ha un ordinamento simile a quello italiano, ma Oltralpe il pm è comunque sottoposto alle direttive del ministro della Giustizia. Il sistema giudiziario italiano, per la prima volta dall’entrata in vigore della Costituzione, dovrà confrontarsi con un pm fortemente gerarchizzato e di nomina politica. Stiamo parlando della Procura europea (EPPO), prevista con il Trattato di Lisbona del 2007, la cui attività dovrebbe andare a regime già nelle prossime settimane. La scorsa settimana avevamo raccontato del dibattito al Csm sulla votazione del parere sullo schema di ddl approvato al riguardo dal Consiglio dei ministri lo scorso ottobre. Un dibattito, con molte voci critiche, che si allargato in questi giorni agli operatori del diritto. L’Italia è l’unico Paese, fra le democrazie consolidate, in cui le due funzioni sono affidate allo stesso corpo di magistrati indipendenti. Di regola, nei regimi democratici pm e giudice appartengono ad organizzazioni diverse. Solo in Francia si ha un ordinamento simile a quello italiano, ma Oltralpe il pm è comunque sottoposto alle direttive del ministro della Giustizia. Il tema principale riguarda, essenzialmente, le modalità di nomina del procuratore europeo, da parte del Consiglio e del Parlamento europeo, e dei procuratori europei, da parte della Commissione europea. Come “garantire”, allora, l’autonomia e l’indipendenza di un pm di nomina politica? In primo luogo, secondo quanto stabilito dal Regolamento, il personale della Procura europea agisce nell’interesse dell’intera Unione e non sollecita né accetta istruzioni da altre istanze esterne. Ciò assicura che le istituzioni, gli organi o gli organismi dell’Unione e gli Stati membri rispettino l’indipendenza della Procura europea e non cerchino di influenzarla nell’esercizio delle sue funzioni. Poi, la Procura europea sarà strutturalmente indipendente, in quanto non sarà integrata in un’altra istituzione o in un altro servizio dell’Unione. Ed infine, la nomina del procuratore capo europeo avrà luogo a seguito di un invito generale a presentare candidature e sarà effettuata dal Parlamento europeo e dal Consiglio. Una commissione composta da membri emeriti della Corte di giustizia dell’Unione europea, delle Corti supreme, delle Procure nazionali e/ o avvocati di chiara fama contribuirà a selezionare una rosa di candidati. Il mandato è limitato a sette anni e non è rinnovabile. In questo modo si è voluto evitare che l’operato del procuratore capo europeo sia dettato da considerazioni legate a un’eventuale rielezione. Il procuratore capo europeo può essere sollevato dall’incarico soltanto con decisione della Corte di giustizia, su richiesta del Parlamento europeo, del Consiglio o della Commissione. Infine, per quanto riguarda i procuratori europei delegati, il Regolamento garantisce che i procuratori nazionali nominati alla Procura europea siano completamente indipendenti dalle Procure nazionali. Le attribuzioni, come è stato ricordato, sono molto specifiche. Attualmente, solo le Autorità nazionali possono svolgere indagini penali e perseguire le frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione, ma le loro competenze si arrestano ai confini nazionali. I reati a danno del bilancio dell’UE sono complessi: il buon esito delle indagini presuppone una conoscenza profonda del quadro giuridico e amministrativo del caso. Ottenere una cooperazione efficace tra gli Stati membri non è mai facile: i sistemi penali sono diversi, non è chiara quale sia la legge applicabile, le procedure di assistenza giudiziaria sono lunghe, sorgono problemi linguistici, mancano le risorse e variano le priorità. La sfida, dunque, sarà quelle di far convivere le Procure italiane con la Procura europea. Quest’ultima agirà senza dover ricorrere agli strumenti tradizionali di diritto dell’UE per avviare una cooperazione tra le Autorità giudiziarie dei diversi Stati membri. La Procura europea riunirà, poi, esperienze e competenze in un organismo unico per tutti gli Stati membri partecipanti, intervenendo rapidamente a livello transfrontaliero senza le lungaggini delle procedure di cooperazione giudiziaria e consentendo di instaurare una politica comune in materia di azione penale. In pratica si punta a mettere fine all’attuale approccio frammentario nelle indagini per le frodi relative ai fondi dell’UE e nei complessi casi di frode all’IVA transfrontaliere che comportano un danno superiore ai 10 milioni di euro. “L’antimafia perde credibilità perché si erge a tribunale morale” di Simona Musco Il Dubbio, 6 gennaio 2021 Parla Lorenzo Diana, vittima di malagiustizia. “Sa qual è il problema? Che questa antimafia, che con quella di Falcone e Borsellino non c’entra nulla, si erge a tribunale morale. E chi fa politica ha una sorta di peccato originale da espiare, anche se non ha commesso alcun reato”. Cinque anni e mezzo fa la vita di Lorenzo Diana venne stravolta. Per nulla, scopre dopo tanto tempo, ma quello che era prima ormai non c’è più. Perché dal 3 luglio 2015, giorno in cui gli vennero notificati due distinti avvisi di garanzia per concorso esterno e abuso d’ufficio, tutto il suo impegno contro la camorra è stato messo in discussione. Quelle accuse, oggi, si sono rivelate infondate. E nonostante nessun ulteriore atto di indagine sia stato compiuto da allora ad oggi, ci sono voluti comunque anni prima di mettere la parola fine ad una brutta storia di malagiustizia. Diana, ex senatore del Pds, ex segretario della Commissione antimafia, a maggio del 2019 ha visto archiviare la prima delle accuse a suo carico, quella per concorso esterno. Mentre ha dovuto attendere fino a dicembre scorso affinché il gip Marco Giordano archiviasse, su richiesta del pm Catello Maresca, lo stesso che lo ha indagato, l’ultima delle due indagini aperte sul suo conto. Si tratta di un presunto abuso d’ufficio nella nomina di un avvocato, che, da presidente del Centro agroalimentare di Napoli, Diana aveva dovuto nominare per difendere la società in giudizio contro un la Cesap, “appartenente ad un noto camorrista tuttora detenuto”. Quel 3 luglio Diana viene costretto a lasciare la sua casa, a causa del divieto di dimora firmato dal gip, annullato 18 giorni dopo dallo stesso senza nemmeno passare dal Riesame. E viene pure interdetto dai pubblici uffici. “Fui mandato via come un pericoloso criminale”, racconta oggi al Dubbio ripercorrendo cinque anni di battaglia, questa volta contro lo Stato che ha sempre creduto di rappresentare. I clan lo volevano morto. Ci hanno provato con una bomba, poi con le minacce, con una lettera del boss Francesco Schiavone “Sandokan” spedita direttamente dal carcere. Ma nulla è stato efficace come l’azione giudiziaria che, suo malgrado, lo ha travolto. “Partiamo dalle intercettazioni: erano inutilizzabili, perché autorizzate per accuse di 416 bis e non per il reato che veniva contestato a me spiega Diana -. Difficile capire cosa c’entrasse la Dda con il reato di abuso d’ufficio: fatto sta che i pm fecero un unico comunicato, nel quale mi definirono come una personalità trasgressiva, disposta senza remore a commettere reati, solo formalmente incensurato. Non sono ancora riuscito a capire cosa significhi, giuridicamente, “solo formalmente incensurato”. Ad un certo punto l’indagine si sposta effettivamente dalla Dda al settore pubblica amministrazione, ma assieme a Maresca, che terminato il periodo in antimafia cambia settore. E così l’indagine, di fatto, rimane sempre e solo nelle sue mani. Il fascicolo, in compenso, rimane tale e quale a com’era 5 anni e mezzo fa. Nessun’altra attività inquirente viene svolta. Ma la richiesta di archiviazione arriva soltanto nel 2020. “Perché ci sono voluti tutti questi anni, dal momento che è stato il pm a chiedere l’archiviazione?”, si chiede oggi Diana. Il clamore è micidiale: per mesi e mesi viene sbattuto sui giornali, trattato come un mostro, il falso paladino dell’anticamorra connivente con i clan. “E le accuse, di tanto in tanto, venivano rilanciate da pseudo pentiti e altri detenuti che erano stati arrestati grazie alle mie denunce”, spiega. Gli interrogativi sono molti. Ad esempio che fine abbia fatto la presunzione di innocenza. “Ho subito una gogna mediatica, in un processo pubblico che mi ha massacrato e ha danneggiato la mia immagine - sottolinea -. Sono stato allontanato dalla mia funzione di presidente del mercato di Napoli, che avevo portato risollevato, salvando 140 posti di lavoro: tutto perso. È una ferita che mi brucia ancora. Ho speso la vita intera a lottare contro la Camorra, con seri rischi, al punto che lo Stato mi ha scortato per 21 anni”. Per cinque anni e mezzo la sua è stata una vita sospesa, da un punto di vista privato, sociale e istituzionale. Senza contare i problemi economici. “Il gip revocò il divieto di dimora dopo 18 giorni. La stessa misura che aveva firmato. Serviva giusto a sparare la notizia: mi contestavano la nomina di un avvocato senza avviso pubblico, ma per legge si tratta di un incarico fiduciario. E sa qual è la cosa buffa? Durante l’interrogatorio di garanzia il giudice mi disse candidamente: mi spieghi come si nomina un avvocato, perché io mica sono esperto. Eppure, per questo, ho dovuto subire due misure cautelari”. Ma a Diana fa anche male l’uso di un linguaggio da tribunale morale. Un linguaggio che lo spinge a rivalutare l’antimafia. “C’è una presunzione di pezzi della magistratura nei confronti di una società che ritengono persa, corrotta e degenerata e tanto più nei confronti della politica, che ritengono irrimediabilmente compromessa e criminogena”, aggiunge. Un anno e mezzo dopo l’avvio dell’inchiesta gli viene revocata la scorta. Lo stesso Stato che lo riteneva in pericolo, dunque, decide che può diventare un bersaglio mobile perché sospettato di aver commesso dei reati. “Non contesto mai il principio di controllo di legge esercitato dai pm, ma l’approssimazione con cui si è proceduto - continua -. Si poteva constatare subito che le accuse erano infondate, invece sono stato esposto e delegittimato nei confronti di un clan che mi ha avuto sempre nel mirino. Dall’altra parte, così facendo i pm hanno trasmesso il messaggio che non vale la pena di impegnarsi nella lotta contro la camorra, perché puoi ritrovarti contro lo stesso Stato che tu cerchi di sostenere. In quel territorio è passato per anni il principio che tutti, anche i paladini anticamorra, sono in un modo o nell’altro collusi. Per cui tutti collusi, nessun colluso”. Diana parla di un vero e proprio “virus”, una mentalità autoritaria “che fa ritenere a pm e polizia giudiziaria che siano essi stessi lo Stato e pertanto autorizzati a muoversi anche al di sopra della legge”. A cui si associa la gogna mediatica, con una sentenza comminata ancor prima di arrivare in aula. “È come se gli stessi pm non si fidassero del processo giudiziario e pertanto si affidassero a quello mediatico per isolare e distruggere una persona - racconta. E così diventa una condanna anticipata. Chi ripagherà i cittadini che capiteranno in una tale bolgia?”. L’unica soluzione è eliminare la spettacolarizzazione, evitare i clamori non risolutivi, seguiti poi da un incredibile silenzio. “I territori vengono presentati continuamente come liberati, per poi accorgersi che così non è - conclude. L’antimafia deve liberarsi dalla convinzione di essere tribunale morale e tenere come stella di riferimento solo lo Stato di diritto. Alcuni pm fanno cattivo servizio alla Giustizia, gettando discredito e sfiducia. Ed è per questo che oggi voglio aderire a tutte le associazioni che lottano per la riforma della giustizia e debellare il virus dell’autoritarismo”. La politica nel Sud, dove le toghe levano e mettono di Marco Demarco Corriere della Sera, 6 gennaio 2021 Bassolino e Oliverio riabilitati dalla giustizia che li ha trattenuti per anni sotto processo, e intanto a sindaco di Napoli sta per candidarsi il magistrato Catello Maresca e a governatore della Calabria l’ex pm Luigi de Magistris. Dopo Bassolino in Campania, 19 processi 19 assoluzioni, ecco ora Oliverio in Calabria, appena assolto perché il fatto non sussiste. Due ex governatori meridionali del Pd, entrambi abbandonati dal partito, riabilitati dalla stessa giustizia che li ha trattenuti per anni sotto processo: ma verrebbe quasi da dire in ostaggio. Anche in questi due casi si confermano sia l’aspetto devastante dell’azione inquisitoria sia quello riparatore, se i giudici assolvono. Dunque, il sistema giudiziario ne esce teoricamente salvo, perché risultano rafforzate tanto la funzione interna della dialettica giudiziaria quanto l’idea esterna di una magistratura capace di autocorreggersi. Ma nel concreto non ci sono solo gli alti prezzi pagati individualmente o quelli generali di cui si parla da tempo. C’è anche uno specifico problema spazio-temporale. Quando tutto si concentra, come in questo caso nel Mezzogiorno, le conseguenze sulla classe dirigente rischiano infatti di risultare insanabili. Solo ora, dopo un decennio, Bassolino prova a rimettersi in gioco, mentre Oliverio non ha potuto partecipare alle ultime regionali poi vinte dal centrodestra. La questione è di ordine culturale, prima che politica. La conferma un paradosso. Quello di una magistratura - intesa come apparato formativo - che proprio in queste aree del Paese si pone come “soluzione” al problema della classe dirigente. Da un lato la seleziona, dall’altro la sostituisce proponendo sé stessa in alternativa. Come se non ci fossero altre scuole di formazione o altri ambiti professionali a cui attingere. È ciò che sta per accadere. In Campania, con la più che ventilata candidatura a sindaco di Napoli di Catello Maresca, attuale sostituto procuratore generale, e in Calabria con quella a governatore di Luigi de Magistris, che pur essendosi dimesso da tempo non ha mai smesso di sentirsi un pm. Il solo fatto che siano in campo dimostra quanto asfittico può rivelarsi uno scenario dominato da sole toghe. Messa alla prova solo per reati di minore allarme sociale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2021 L’assenza di abitualità e la riparazione del danno, come l’adeguatezza del programma elaborato non bastano se il reato è considerato grave. L’assenza di abitualità nel reato, la sua riparazione e l’adeguatezza del programma elaborato non bastano per ottenere la messa alla prova, se il crimine non rientra tra quelli di minore allarme sociale. La Cassazione (sentenza 37696/20) ha accolto il ricorso del Pm contro l’ordinanza del Gip che aveva sospeso il procedimento penale a carico di un imputato, inserito nel racket criminale delle scommesse, accusato di aver minacciato con una pistola due funzionari dell’agenzia delle Dogane e dei Monopoli di Stato, che ispezionavano una sala giochi. Ad avviso del giudice per indagini preliminari c’erano gli estremi per sospendere il procedimento e accogliere l’istanza dimessa alla prova, perché sulla carta era tutto in regola. L’istanza era stata tempestiva, compreso il reato contestato, mancava l’elemento dell’abitualità presunta dalla legge, nel reato e anche nelle contravvenzioni. Non si poteva neppure affermare la professionalità e la tendenza a delinquere. Conclusioni che la Cassazione bolla come mere formule di stile, dando peso ad altri elementi. Dalle informative della polizia giudiziaria della Direzione distrettuale antimafia emergeva che l’imputato era inserito in un contesto criminale, ed era noto negli ambienti malavitosi. Mentre il Pm ricorrente aveva messo l’accento sulla gravità del reato commesso, trascurata dal Gip in favore di parametri neutri. I giudici di legittimità, nell’accogliere la tesi della pubblica accusa ricordano le finalità dell’istituto della messa alla prova, introdotto dalla legge 67/14 con l’inserimento degli articoli 168-bis e 168-quater del Codice penale. Ispirata alla probation inglese, la messa alla prova ha l’obiettivo di offrire ai condannati per reati di minore allarme sociale un percorso di reinserimento alternativo e, al tempo stesso, di deflazionare i procedimenti penali, grazie all’estinzione del reato in caso di percorso con esito positivo. Alla base del sì alla misura ci sono dunque il reinserimento e lo scarso allarme sociale: due elementi che vanno verificati, al di là dell’esistenza degli astratti presupposti normativi per riconoscere il trattamento di favore. Nello specifico la minaccia con un’arma da fuoco rivolta a due pubblici ufficiali in servizio, per farli desistere dal loro dovere, non si può considerare di ridotto allarme sociale. Né c’erano effettive esigenze di reinserimento sodale dell’imputato che, dalle informative di polizia, risultava già molto ben inserito in contesti sociali deviati. Concessi i domiciliari al padre mafioso per assistere il figlio autistico dirittoegiustizia.it, 6 gennaio 2021 Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 36884/20; depositata il 21 dicembre. La Corte di Cassazione si esprime in merito al diniego relativo alla richiesta dell’imputato di sostituire la misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari al fine di assistere il figlio infraseienne affetto da un grave disturbo dello spettro autistico, nonostante la presenza della madre. In particolare, afferma che nella valutazione relativa alla “assoluta impossibilità” della madre ad occuparsi del figlio minore deve porsi al centro l’integrità psico-fisica del piccolo da accudire in relazione alla necessaria assistenza da parte di entrambi i genitori. È adottabile il figlio di genitori che siano entrambi detenuti brocardi.it, 6 gennaio 2021 La detenzione di entrambi i genitori integra uno stato di abbandono idoneo a giustificare l’adottabilità del figlio. La Sesta Sezione Civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 319/2020, si è pronunciata in merito alla possibilità o meno di considerare adottabile, in quanto in stato di abbandono, il figlio di genitori che risultino essere entrambi detenuti. La questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte era nata dalla decisione, presa dalla Corte d’Appello di Genova, di dichiarare adottabile il figlio di una coppia di detenuti. Di fronte a tale pronuncia, il padre del bambino decideva di ricorrere in Cassazione, eccependo, innanzitutto, una violazione degli articoli 10, 11 e 12 della legge sull’adozione, l. n. 184/1983, considerato che non era stato dato avviso dell’apertura del procedimento, né erano stati convocati i parenti entro il quarto grado, con particolare riferimento ai bisnonni paterni e al nonno materno del minore. Il ricorrente lamentava, inoltre, una violazione degli articoli 1 e 8 della legge sull’adozione, degli articoli 7 e 9 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, nonché dell’art. 8 della Cedu. La Suprema Corte ha, tuttavia, rigettato il ricorso, giudicando infondati i motivi di doglianza proposti. Gli Ermellini hanno, innanzitutto, osservato come la giurisprudenza di legittimità, in tema di procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore, abbia già più volte precisato come la Legge sull’adozione “prevede che parti necessarie e formali dell’intero procedimento di adottabilità e, quindi, litisconsorti necessari pure nel giudizio di appello, quand’anche in primo grado non si siano costituiti, sono i soli genitori, ove esistenti, talché quando i genitori siano esistenti e siano stati sentiti dal Tribunale per i Minorenni, il coinvolgimento o la mancata audizione dei parenti entro il quarto grado - che non abbiano avuto rapporti significativi con il minore, né si siano attivati per dare il loro sostegno - è priva di conseguenze sulla legittimità del procedimento” (cfr. Cass. Civ., n. 16280/2014; Cass. Civ., n. 15755/2013). La stessa Cassazione, con un orientamento ritenuto condivisibile anche in relazione al caso in esame, ha, altresì, stabilito che la convocazione dei parenti entro il quarto grado è richiesta dalla norma “in mancanza” dei genitori, e sempre che detti familiari abbiano mantenuto “rapporti significativi con il minore”, il che impone una valutazione della loro pregressa condotta in funzione del soddisfacimento del diritto del minore ad essere allevato nell’ambito della propria famiglia (cfr. Cass. Civ., n. 26879/2018; Cass. Civ., n. 15369/2015). Quanto, poi, all’accertamento dello stato di abbandono del minore, gli Ermellini hanno sottolineato come costituisca, ormai, un principio generale in materia, quello per cui la prioritaria esigenza del figlio di vivere nell’ambito della propria famiglia di origine, può essere sacrificata in presenza di un pregiudizio grave e non transeunte, al fine di garantirgli un equilibrato ed armonioso sviluppo della sua personalità, quando la famiglia di origine non sia in grado di garantirgli la necessaria assistenza e stabilità affettiva. Le gravi carenze morali e materiali integranti lo stato di abbandono non devono, poi, dipendere da cause di forza maggiore transitorie, poiché l’adozione, recidendo ogni legame con la famiglia d’origine, costituisce una misura eccezionale a cui è possibile ricorrere solo quando si siano dimostrate impraticabili le altre misure, anche di carattere assistenziale, volte a favorire il ricongiungimento con i genitori biologici (Cass. Civ., n. 13435/2017; Cass. Civ., n. 7391/2016). Peraltro, la giurisprudenza della Suprema Corte ha già più volte precisato che la condizione di abbandono del minore può essere dimostrata anche dallo stato di detenzione al quale il genitore sia temporaneamente assoggettato, trattandosi di una circostanza che, essendo imputabile alla condotta criminosa posta in essere dal genitore nella consapevolezza della possibile condanna e carcerazione, non integra gli estremi della causa di forza maggiore di carattere transitorio individuata, dall’art. 8 della legge sull’adozione, quale causa di giustificazione della mancata assistenza (cfr. Cass. Civ., n. 1431/2018; Cass. Civ., n. 26624/2017). La Cassazione, dunque, non ha potuto far altro che dimostrarsi concorde con i giudici di merito, sottolineando come, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la sentenza impugnata abbia, in realtà, applicato correttamente i summenzionati principi di diritto, avendo attribuito una valenza fondamentale, ai fini della decisione, sia allo stato di carcerazione di entrambi i genitori del minore, per reati contro il patrimonio e contro la persona, connessi, peraltro, all’uso di stupefacenti, sia al fatto che, nel novembre 2016, fosse stato emanato un provvedimento di decadenza dalla responsabilità genitoriale nei confronti del ricorrente. Bullismo sanzionabile come violenza privata se minacce e prepotenze creano soggezione Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2021 Il bene tutelato è la libertà psichica, compromesso dalla coercizione della volontà non sanzionata con altre fattispecie specifiche. Non è la violenza o la minaccia, bensì la coercizione, il fatto costitutivo del bullismo. Il reato di violenza privata, infatti, scatta per il ragazzo bullo che con diverse azioni pone la vittima, cioè un proprio coetaneo, in una condizione di soggezione psichica in conseguenza dell’atto violento che non si esaurisca in sé. Così la Corte di cassazione penale, con la sentenza n. 163/2020, ha respinto il motivo di ricorso che contestava la configurabilità del reato ex articolo 610 del Codice penale, a fronte di simulazioni di atti sessuali davanti ad altri compagni di scuola, di calci, di sputi in faccia e di sottrazione di materiale scolastico appartenente alla medesima vittima. Il ricorrente, minorenne all’epoca dei fatti, sosteneva che le condotte violente e prevaricatrici si sarebbero esaurite nel loro stesso compimento, ossia senza determinare quel patema d’animo che tipicamente si ingenera nelle vittime di bullismo. La Cassazione, invece, ha respinto l’affermazione della coincidenza tra le condotte violente e minacciose e l’evento del reato quale conseguenza istantanea e priva di risvolti successivi. La compressione della libertà psichica del compagno di scuola, costretto a subire prevaricazioni o messo alla berlina pubblicamente, è sufficiente all’imputabilità per violenza privata dell’autore delle condotte che il giudice accerta abbiano determinato tale effetto lesivo dell’autodeterminazione della vittima. Rieti. Morto detenuto affetto da Covid, è il primo del 2021 Il Messaggero, 6 gennaio 2021 È morto nell’ospedale di Rieti, dopo due settimane di ricovero, un detenuto di 66 anni, affetto da Covid: il primo nel 2021, il primo dall’inizio della pandemia nel Lazio, il tredicesimo in Italia di questa seconda ondata. In carcere, come nelle Rsa, continuano ad accendersi e spegnersi focolai Covid. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: nelle carceri, come nelle Rsa, bisognerebbe provvedere alle vaccinazioni in via prioritaria”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, il quale proprio ieri aveva inviato una lettera all’assessore regionale alla Sanità, Alessio D’Amato, per chiedere all’assessore di rappresentare, in sede di Conferenza delle Regioni e nelle relazioni istituzionali con il ministro della Salute e con il Commissario straordinario di governo all’emergenza Covid, la necessità di anticipare le vaccinazioni nelle carceri. “Nella programmazione nazionale la somministrazione del vaccino ai detenuti e al personale in servizio presso gli istituti penitenziari avverrà solo nella terza fase della campagna vaccinale, dopo il personale sanitario, gli ospiti e gli operatori delle strutture socio-sanitarie, gli anziani, alcune specifiche categorie, i lavoratori dei servizi essenziali – aggiunge. Ciò nonostante gli appelli rivolti al governo dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, e l’auspicio della senatrice Liliana Segre e del Garante nazionale, Mauro Palma. Questa programmazione del Piano nazionale - si legge nella lettera di Anastasìa a D’Amato - non tiene adeguatamente conto delle condizioni di rischio e di vulnerabilità alla diffusione del virus nelle comunità chiuse e, in particolare, negli istituti penitenziari, contrassegnati da condizioni igieniche precarie e un sovraffollamento che impediscono il dovuto rispetto delle ordinarie misure di prevenzione raccomandate alla generalità della popolazione”. Nella sua lettera, Anastasìa ricorda i casi di Covid-19 nel Lazio, a Rebibbia femminile, a Frosinone, a Regina Coeli e a Rebibbia Nuovo complesso, e chiede a D’Amato che “nell’espletamento della campagna vaccinale nel Lazio sia data la giusta priorità alle persone private della libertà e, laddove per disposizione nazionale non fosse possibile altrimenti, sia garantita la immediata vaccinazione delle persone detenute ultra ottantenni e sin dall’inizio della seconda fase della campagna vaccinale la tempestiva vaccinazione degli ultra sessantenni e delle persone detenute di ogni età affette da comorbilità severa, immunodeficienza e/o fragilità”. Tolmezzo. “Dicevano: è influenza. Invece era Covid”. Ecco come il carcere è diventato un focolaio di Rosita Rijtano lavialibera.libera.it, 6 gennaio 2021 Due esposti denunciano le lacune nella gestione dell’emergenza coronavirus nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo. Il bilancio finale è stato di 161 contagiati su 203 detenuti e un morto. Avevano febbre, tosse, mal di testa e dolori alle ossa. “Non preoccupatevi. Banale influenza”, gli dicevano. Invece era Covid-19. Ma per sapere la verità i detenuti hanno dovuto insistere: protestare, battendo forte pentole e posate sulle sbarre. Solo così hanno ottenuto i tamponi e scoperto che il coronavirus si stava diffondendo di cella in cella da giorni. È quanto successo nel carcere di Tolmezzo, stando a due esposti presentati ai tribunali di Roma e Bologna, che denunciano le lacune nella gestione dell’emergenza sanitaria all’interno dell’istituto penitenziario. Non solo i ritardi nelle diagnosi e nei ricoveri, ma anche il mancato isolamento dei positivi, una volta individuati. Lacune che a metà novembre hanno trasformato un carcere di massima sicurezza in un focolaio Covid: il più grande negli istituti di pena italiani. La situazione è rientrata alla normalità da qualche settimana, come documenta una nota del Garante dei detenuti e delle persone private della libertà personale che al 18 dicembre conta nella struttura 18 positivi. Ma il bilancio finale è stato di 30 agenti di polizia penitenziaria e 161 reclusi (su 203) contagiati, più una vittima, deceduta nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Trieste il 12 dicembre. Le domande senza risposta - Un epilogo che avrebbe precise responsabilità da parte dell’amministrazione penitenziaria e dell’Azienda sanitaria universitaria Friuli centrale (Asufc), cui spetta la gestione dell’assistenza sanitaria nel carcere di Tolmezzo. A entrambe lavialibera ha rivolto le stesse domande: è vero, come sostengono detenuti e rispettivi legali, che i tamponi sono stati effettuati con diversi giorni di ritardo rispetto alla comparsa dei primi sintomi e solo dopo insistenti richieste da parte dei detenuti stessi? I positivi al Covid-19 sono stati isolati dalle altre persone presenti all’interno della struttura carceraria? L’ospedalizzazione di chi ne aveva bisogno è stata tempestiva? Domande cui la direzione del carcere di Tolmezzo non ha risposto. Mentre la direzione dell’azienda sanitaria ha fatto sapere che “al momento non intende rispondere”. Come Tolmezzo è diventato un focolaio Covid - Ufficialmente tutto ha inizio il 13 novembre, quando l’esito di un tampone svela l’ingresso del coronavirus nella casa circondariale di Tolmezzo, in provincia di Udine: una struttura particolare perché ospita soprattutto soggetti all’alta sicurezza o al 41 bis. Nel primo caso, persone condannate o accusate di associazione di stampo mafioso, ma anche di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, sequestro a scopo di estorsione, tratta di essere umani, e di alcuni gravi reati sessuali. Nel secondo, chi ricopre ruoli apicali all’interno delle organizzazioni criminali. Questi ultimi sono collocati in celle singole e hanno contatti limitati sia con gli altri reclusi sia con l’esterno, tanto che qualcuno ha definito il 41 bis “il luogo più sicuro dal contagio Covid”. Eppure, è proprio al 41 bis che si trova il primo positivo individuato nel carcere di Tolmezzo. Non si tratta di un caso isolato. Molti detenuti manifestano gli stessi sintomi e in pochi giorni si scopre che sui 16 presenti al 41 bis in 11 sono affetti dal coronavirus. Come sia iniziato il contagio, considerate le restrizioni sociali cui si è sottoposti al regime di carcere duro, rimane da chiarire. Ma il problema riguarda anche l’alta sicurezza, dove il 16 novembre si registrano una decina di positivi accertati. Gli esposti parlano di “prevenzione fallimentare”, “mancanza di protocolli” e di “rispetto delle regole minime di base”. Qualche esempio: “La polizia penitenziaria - si legge - utilizzava la mascherina in modo scorretto, lasciando il naso scoperto, le docce erano promiscue e i consigli di disciplina venivano svolti in salette minuscole con una pluralità di persone (...)”. Significativo è il caso del telefono: nell’alta sicurezza ce n’è solo uno e veniva usato da tutti i detenuti, senza che fosse sanificato tra una chiamata e l’altra. Scandalosa viene, poi, definita la gestione medica all’interno della struttura. Se il primo tampone è stato effettuato solo il 13 novembre, secondo la ricostruzione degli avvocati, alcuni detenuti avrebbero avuto febbre e tosse già tra il 7 e l’8 novembre. Nonostante questo, hanno continuato a svolgere una vita normale all’interno dell’istituto, frequentando gli spazi comuni e presentandosi ai colloqui con i difensori, perché “l’area medica li aveva rassicurati che si trattava di una banale influenza di stagione”. “Anche io ho rischiato di essere contagiata”, racconta Sara Peresson, uno dei tre legali che hanno presentato gli esposti. Peresson denuncia quanto successo non solo come avvocato di alcuni detenuti, ma anche come parte in causa di una vicenda che considera “assurda”. “Per una settimana - prosegue - ho continuato a frequentare cinque soggetti positivi che manifestavano sintomi. Gli ho ripetutamente chiesto se fossero certi si trattasse di una semplice influenza e mi hanno risposto che questo era quanto gli era stato detto dai medici”. Una versione che non convince più nel momento in cui il primo tampone risulta positivo. A quel punto sarebbero stati i reclusi a insistere per essere testati in quanto “consapevoli di avere tutti gli stessi sintomi” e vista “l’assenza di iniziativa da parte della direzione e dell’area sanitaria” della struttura. Insistenze e proteste che, denunciano detenuti e legali, sarebbero state necessarie anche per l’ospedalizzazione di chi ne aveva bisogno. Compreso l’uomo, poi deceduto, fratello del boss della ‘ndrangheta Franco Coco Trovato. Si chiamava Mario Coco Trovato, aveva 71 anni ed era stato condannato a 15 anni e mezzo per infiltrazioni mafiose nel territorio di Lecco. Ad aprile aveva chiesto la detenzione domiciliare per motivi di salute legati al rischio da contagio Covid, ma l’istanza non era stata accolta. Un’altra lacuna, che viene definita come la più “clamorosa delle mancanze di coloro che hanno la responsabilità della gestione del carcere”, riguarda il mancato isolamento dei positivi: nelle stesse celle hanno continuato a convivere malati Covid-19 e no. Solo “a distanza di giorni e giorni” i contagiati sono stati separati dagli altri detenuti. Ma ormai era troppo tardi, “Tolmezzo si era trasformata in un lazzaretto”. Un comportamento “incurante delle regole e delle misure di prevenzione” che, concludono gli esposti, ha messo a repentaglio “non solo i detenuti, ma anche il personale e gli operatori penitenziari, gli insegnanti, gli avvocati e tutti gli utenti che per ragioni di lavoro accedono al carcere nonché tutte le famiglie di queste persone”. Il problema sovraffollamento - Di gestione fallimentare parla anche Francesco Santin, referente friulano di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Più cauta Daniela de Robert, membro dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale: “Non bisogna creare allarmismi - precisa -. Il carcere di Tolmezzo, così come il sistema carcerario nel suo complesso, fino ad ora ha tenuto”. Ma la vicenda punta i riflettori sulla principale criticità che continua a essere riscontrata in molti istituti, cioè “l’assenza di luoghi ad hoc per l’isolamento dei positivi”. Un’esigenza che in molti casi è difficile da soddisfare considerato il persistente sovraffollamento delle carceri italiane, a cui si affiancano precarie condizioni igieniche. Il 18 dicembre erano 53.002 le persone presenti negli istituti di pena del nostro Paese a fronte di una capienza regolamentare di circa 50mila posti, che scendono a 47mila se si tiene conto delle sezioni provvisoriamente chiuse. Una situazione che ha portato Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale, a portare avanti uno sciopero della fame (ora sospeso), mentre la senatrice a vita Liliana Segre e il Garante dei detenuti Mauro Palma hanno lanciato un appello per inserire l’ambiente carcerario tra i luoghi di prioritaria attenzione nella campagna di vaccinazione. Alcune misure per liberare spazi e tutelare le persone più a rischio sono state previste sia nel decreto Cura Italia sia nel decreto Ristori. “Ma le leggi continuano a essere molto timide e il numero di detenuti all’interno delle strutture carcerarie scende molto lentamente”, sostiene de Robert. Una lentezza che, per la Garante, vede la “forte responsabilità di chi ha voluto rallentare quelle che sono state definite scarcerazioni facili e, invece, facili non lo erano affatto”. Il riferimento è alla controversa lista dei 498 detenuti al 41bis o in alta sicurezza cui sarebbero stati concessi i domiciliari per motivi di salute durante la prima ondata pandemica. I dati ottenuti da lavialibera dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) raccontano un’altra storia: l’8 giugno 2020 si contavano 223 persone uscite dai reparti di alta sicurezza per cause espressamente legate al Covid, di cui 121 definitivi e 102 a titolo cautelare. Solo quattro erano i reclusi al 41bis. Alla data del 23 settembre “i detenuti del circuito alta sicurezza e quelli sottoposti al regime del 41-bis rientrati negli istituti penitenziari risultano essere 112”, ha riferito in un’audizione in Parlamento il ministro della Giustizia pentastellato Alfonso Bonafede. Malati e poveri: chi resta nelle carceri - A farne le spese sono soprattutto le persone più fragili, dice de Robert. Una fragilità che può essere sanitaria e/o sociale. La prima interessa chi soffre di patologie che abbinate al Covid-19 potrebbero diventare letali. Una questione non di poco conto, considerata la fotografia della popolazione carceraria scattata dall’ultimo rapporto di Antigone: sempre più anziana e con problemi di salute che negli istituti di pena sono molto più diffusi (13 per cento dei detenuti) rispetto alla popolazione generale (7 per cento). Stando ai dati del ministero della Salute, il 67,5 per cento dei ristretti soffre di almeno una patologia. Al primo posto ci sono i disturbi psichici (41,3, per cento) seguiti da quelli del tratto gastrointestinale (14,5 per cento) e le malattie infettive (11,5 per cento). Carceri sovraffollate e insalubri e over 60 - Socialmente fragili sono, invece, i senza fissa dimora e “tutti coloro che se avessero un avvocato o dei punti di riferimento non finirebbero in cella”. A questo proposito agli inizi di novembre è intervenuto Giovanni Salvi. Il procuratore generale della Cassazione ha fatto presente che almeno duemila detenuti avrebbero diritto alla detenzione domiciliare, ma non possono esercitarlo perché privi di un “reale domicilio”. Il che, ha scritto Salvi, oltre a “rappresentare un’inaccettabile discriminazione” su base economica e sociale, “comporta il paradosso che proprio i soggetti marginali e meno pericolosi vengono esclusi di fatto dai benefici”. Mentre il sistema carceri si preclude la possibilità di “consentire il distanziamento sociale senza che questo comporti la scarcerazione di persone maggiormente pericolose”. Santa Maria Capua Vetere. L’ennesimo segnale che è necessario intervento contro sovraffollamento di Riccardo Polidoro Il Riformista, 6 gennaio 2021 La recente morte di Renato Russo, detenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, è l’ennesimo macabro segnale della necessità, oggi più che mai, di un non più procrastinabile intervento per diminuire il sovraffollamento negli istituti di pena. Non ci interessa addossare la colpa a qualcuno. Il “pianeta carcere” è da sempre in affanno e, se responsabilità ci sono, esse sono da ravvisarsi nell’indifferenza di Governo e Parlamento. Altre sono le responsabilità di coloro che, pur rivestendo ruoli d’interlocuzione politica, tacciono e non protestano ma intervengono solo con modalità corporative. Il disinteresse della politica è testimoniato anche dall’aver del tutto dimenticato detenuti e personale dell’amministrazione penitenziaria nello stabilire le priorità per i vaccini. Ultima prova ne è l’intervista rilasciata a Repubblica pochi giorni fa da Andrea Giorgis, ordinario di Diritto costituzionale e sottosegretario alla Giustizia. Nel leggere l’articolo avremmo voluto porre noi alcuni quesiti, in quanto le risposte sono state generiche e prive di quella visione reale della drammatica situazione detentiva nel nostro Paese. “Credo che occorra partire dai criteri che hanno orientato il piano vaccinale nazionale, senza trascurare le specifiche condizioni di vita e la necessità di evitare focolai in contesti di comunità nei quali risulti difficile predisporre le misure di prevenzione, ferma la possibilità di rimodulare e adattare le strategie qualora emergano situazioni critiche”, ha detto Giorgis. Il sottosegretario, evidentemente, non ha compreso che l’oggetto della domanda erano i detenuti e non gli iscritti a un circolo di burraco o di vela, nel qual caso la risposta ovvia sarebbe stata proprio quella data da lui. Dalla infelice dichiarazione sarebbero dovute derivare una serie di domande che, purtroppo, non sono state poste e che, ad avviso di chi scrive, avrebbero chiarito al lettore le ragioni per cui, sullo stesso quotidiano, il giorno precedente, la senatrice Liliana Segre e il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma avevano firmato l’appello per dare priorità al vaccino anche alle persone ristrette. Stessa richiesta avanzata dall’Unione Camere Penali Italiane (Ucpi) con il documento dell’11 dicembre scorso, nel quale si chiedeva al ministro della Giustizia e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, di predisporre immediatamente il piano operativo per la vaccinazione dei detenuti e di tutti coloro che lavorano negli istituti di pena: oltre 100mila persone che vanno immediatamente protette perché quotidianamente a rischio personale e perché potenziali diffusori del virus. Per le stesse ragioni la Camera ha recentemente approvato un ordine del giorno, su iniziativa di Riccardo Magi, che ha impegnato il Governo a prendere in considerazione tale priorità. Eppure la risposta del sottosegretario alla Giustizia non sembra andare in questa direzione. Ecco perché, nell’intervista, sarebbe stato opportuno chiarire una serie di circostanze attraverso le seguenti domande: “Non crede che, proprio nel rispetto dei criteri che hanno orientato il piano vaccinale nazionale, dopo la precedenza ai lavoratori del settore sanitario, agli anziani che risiedono nelle strutture assistenziali e agli operatori di queste ultime, vadano presi in considerazione i detenuti che, da un punto di vista sanitario, erano vulnerabili già prima dell’arrivo del Covid?” E poi: “Non crede che tale priorità debba essere estesa a tutti coloro che entrano ed escono dal carcere, per ragioni di lavoro e, pertanto, sono potenziali portatori del virus?”. Ancora: “Nel dichiarare che non vanno trascurate “le specifiche condizioni di vita e la necessità di evitare focolai in contesti di comunità nei quali risulti difficile predisporre le misure di prevenzione”, come fa a non pensare proprio agli istituti di pena che corrispondono proprio alle caratteristiche da lei indicate?”. Non solo: “La possibilità di “rimodulare e adattare le strategie qualora emergano situazioni critiche” da lei indicata, come pensa possa essere attuata nell’immediatezza nelle carceri, laddove, allo stato, vige un’assoluta confusione sul numero dei vaccini distribuiti nelle varie Regioni e sulla quantità di vaccini effettivamente iniettati?”. E infine: “La sua risposta non è in contrasto con l’ordine del giorno approvato alla Camera che prevede un impegno concreto del Governo, per dare priorità ai vaccini negli istituti di pena? Non crede che la Costituzione debba garantire il diritto alla salute a tutti e, in primo luogo, a persone affidate allo Stato quali sono i detenuti?”. Le risposte non possiamo immaginarle, ma possiamo senz’altro affermare che, nonostante l’allarme lanciato da tutti coloro che si occupano di esecuzione penale, manca un piano dei vaccini in carcere e non sembra che qualcuno del Ministero della Giustizia o del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria se ne stia occupando. Saremmo lieti di essere smentiti e, magari, di avere risposte alle nostre domande. P.s.: mentre scrivevamo è giunta la richiesta della giornalista di Repubblica, autrice dell’intervista, che chiedeva poche battute sulle dichiarazioni rese dal sottosegretario Giorgis. Eccole: Sorprende che si possa pensare che dentro le carceri valgano le stesse regole per regolamentare le priorità nell’esecuzione dei vaccini che si sono stabilite per la popolazione libera. Ancor di più se chi lo ha dichiarato ha responsabilità politiche. Si sottovaluta la cronica emergenza che vivono gli istituti penitenziari, il sovraffollamento, le carenze sanitarie e igieniche. L’obbligo di vivere gli uni accanto agli altri, detenuti, agenti di polizia penitenziaria, amministrativi, educatori, medici, volontari. L’esigenza non più differibile di riprendere i colloqui in presenza con i familiari, con i difensori. Un mondo intero che ancora una volta viene ignorato, che non è chiuso in se stesso, ma ha continui contatti con l’esterno. Si tratta di oltre 100mila persone che vanno immediatamente protette. Napoli. Devianza minorile, non stiamo ad aspettare il prossimo raid di Antonio Mattone Il Mattino, 6 gennaio 2021 Sedicenni tra i protagonisti della brutale aggressione al rider avvenuta la notte del primo dell’anno, documentata dal video che è diventato virale sul web. Uno proviene da una famiglia modesta ma onesta. Frequenta con profitto il secondo anno dell’istituto tecnico Vittorio Veneto e gioca bene a pallone, tanto da essere in procinto di fare dei provini con alcune società di calcio. L’altro, invece, ha avuto un’infanzia difficile, con il padre affiliato al clan Di Lauro in carcere, per una lunga condanna da scontare. Ha abbandonato la scuola e si è messo a fare il garzone di un salumiere. Apparentemente diversi, ma accomunati dall’aver partecipato alla rapina dello scooter con cui Gianni Lanciato sbarcava il lunario. Le immagini hanno mostrano una violenza e un accanimento inimmaginabile per dei ragazzi così giovani. Eppure non gli hanno lasciato scampo, lo hanno aggredito con pugni, calci e spintoni fino a scaraventarlo per terra. E dopo essere passati con le ruote del loro ciclomotore sulle sue gambe, gli hanno sottratto lo scooter e sono fuggiti via. Gli autori del pestaggio, tutti giovanissimi, provengono dal Rione dei Fiori di Secondigliano. Un quartiere nato dopo il terremoto che ha raccolto gli artigiani e i contadini che abitavano nei fatiscenti vicoli Censi di Secondigliano e alcuni terremotati che vivevano negli insediamenti di container sorti nella zona. Una coabitazione problematica per la difficoltà ad amalgamare in una comunità gente di ceto sociale eterogeneo, proveniente da diverse zone della città. Successivamente il rione è diventato tristemente famoso per essere stato il fortino del clan Di Lauro. Oggi, dopo l’arresto di “Ciruzzo ‘o milionario” e degli esponenti del suo clan, il Rione dei Fiori non ha più l’asfissiante sorveglianza criminale, non ci sono più vedette che controllano chi entra e chi esce, e non si vedono in giro le file di chi veniva a rifornirsi della droga. Tuttavia gli abitanti del “Terzo Mondo”, altro nome con cui viene emblematicamente chiamato il rione, vivono in uno stato di totale abbandono. Mancano punti di aggregazione, rari i negozi, impraticabili i campetti di calcio. Solo le sedi della municipalità e dell’Asl resistono al centro dell’abitato, che ha avuto peraltro un rilevante prolungamento grazie ad insediamenti di edilizia abusiva. Persino la parrocchia è stata smembrata per ragioni di divisione urbanistica del territorio, dove invece ci sarebbe bisogno di una attenta e specifica azione pastorale. I giovani protagonisti dell’aggressione al rider sono nati durante gli anni della prima faida di Scampia. È una generazione cresciuta a “pane e gomorra”, tra marginalità sociale e modelli di riferimento criminali. Colpisce nel loro racconto che, prima della rapina si trovavano all’una di notte, in pieno coprifuoco, intenti a giocare a carte. Poi hanno deciso di andare a mangiare un panino, quando a quell’ora non dovrebbero esserci locali aperti neanche per asporto. Infine sono andati in giro a cercare prede da rapinare e malmenare. E proprio alcuni di quei parenti che avrebbero dovuto vigilare su di loro hanno affermato che si è trattato di una bravata, “non roviniamogli la vita, sono tutti ragazzi che lavorano”, hanno aggiunto. Già, lavorano, quindi non avrebbero neanche avuto bisogno di commettere rapine per avere dei soldi in tasca. Non sappiamo se i due sedicenni si trovassero insieme per caso o se si frequentassero da tempo. Tuttavia emerge sempre di più come l’aggressività sia diventato un modo di essere, un comportamento culturale trasversale, che riguarda tutti i ceti sociali. Giovani che si aggregano per contrapporsi ed incutere terrore, dove il potere è direttamente legato alla violenza che si è capaci di esprimere e che hanno nei social una grande vetrina. È solo di pochi giorni fa la grande rissa che ha coinvolto ad Ercolano decine di ragazzi. Un altro episodio preoccupante, e non si può affermare che si tratta di pochi criminali che offuscano l’immagine di una città, come dice qualche sindaco per difendere l’immagine del proprio territorio. La violenza giovanile è un fenomeno diffuso, è la grande emergenza di Napoli, su cui tutti intervengono sdegnati di fronte a fatti di cronaca così cruenti per ripiombare poi in un grande silenzio. Vorremmo invece che se ne continuasse a parlare quando i riflettori su questa vicenda si saranno spenti, che questo tema entrasse nel dibattito politico delle prossime elezioni che designeranno il nuovo sindaco di Napoli, mentre troppo spesso si sentono solo proclami vuoti su alleanze, programmi, coalizioni, oppure si invocano pene più severe o i maestri di strada come soluzioni per tutte le stagioni. Ben più complessa è la questione, che richiede invece una analisi approfondita delle cause e ipotesi di lavoro di breve e lungo periodo per arginare il fenomeno. Non ci si può rassegnare a fare della violenza giovanile la grande emergenza insoluta di Napoli. Dobbiamo fare nostro l’appello di Gianni Lanciato, che ancora dolorante si è rivolto ai suoi aggressori chiedendo di riflettere e di smetterla con questa inutile violenza. E soprattutto non possiamo restare inerti aspettando il prossimo raid. Napoli. Ancora e fino a quando si vive e si muore di camorra di Antonio Maria Mira Avvenire, 6 gennaio 2021 Un filo rosso di sangue ha unito in meno di tre mesi un padre e un figlio. Tra i botti di Capodanno sei ‘bottè di pistola hanno strappato la vita di Ciro Caiafa, pregiudicato legato ai clan, colpito a morte dai killer mentre si stava facendo tatuare un braccio nella sua casa, un ‘basso’ in zona San Lorenzo, Centro Napoli. Ciro, 40 anni, era il padre di Luigi, il ragazzo di 17 anni ucciso da un poliziotto nel corso di una rapina. Con lui un altro ragazzo, Ciro De Tommaso, figlio del pluripregiudicato soprannominato Genny ‘a Carogna. Padri e figli destini drammaticamente comuni. Non grandi boss ma ugualmente inseriti in quel ‘sistema’ che sembra non lasciare scampo né scelta. Forcella, Quartieri spagnoli, Tribunali. Il centro della città. Centro vivo ma ancora segnato dal degrado. Le famose pizzerie e a fianco ancora i puntellamenti del terremoto del 1980, uguali a 40 anni fa. I cesti che scendono dai piani alti per accogliere la spesa ma anche per distribuire sigarette e droga. Le sentinelle della camorra e le belle iniziative anticamorra, come la Biblioteca a porte aperte, creata da Giovanni Durante, papà di Annalisa uccisa, ad appena 14 anni, il 27 marzo 2004 mentre usciva con le amiche. Già, qui si muore da adolescenti, per un colpo destinato a una resa dei conti o per un colpo destinato a reprimere un reato. Si muore e si vive. Nei ‘bassi’ insalubri, come quello in cui è stato ucciso Ciro Caiafa. Ma qui c’erano anche i lussuosi appartamenti dei Giuliano, dove venne immortalato Maradona nella vasca da bagno a forma di conchiglia. Il buio e la luce. Spesso assieme. Alcuni anni fa mi capitò di andare a mangiare una pizza, proprio lì, con l’allora parroco di San Giorgio Maggiore, don Luigi Merola, e i suoi ‘ragazzi’, l’ex guardaspalle di Giggino Giuliano, la prima vedova della faida di Scampia, un ‘pacchista’, una ‘tossica’ spacciatrice, e tanti altri ‘normali’. Chissà che fine hanno fatto. Che strada hanno imboccato? La vicenda del figlio e del padre Caiafa torna a farci queste domande. Cosa succederà ora agli altri tre figli di 15, 13 e 7 anni che hanno visto il padre morire? Chi si occuperà di loro? C’è ancora tempo. Non è già segnato il futuro loro e di tanti giovani di questi e di altri quartieri napoletani. Ma non si deve attendere. Troppo facile considerarli ragazzi “a perdere”, irrecuperabili, sui quali investire è inutile. Una città, una società che lo pensa ha già dichiarato la propria sconfitta. Ma va fatto subito. Prima che arrivino altri. Questa non è la Gomorra televisiva. A questi ragazzi restano le briciole dei grandi affari dei clan, sperano di salire la classifica criminale, e quasi sempre li aspettano solo due traguardi: il carcere o la morte. Ma quali esempi hanno davanti? Luigi aveva solo un padre che a 40 anni entrava e usciva dal carcere, ma senza diventare mai un big della camorra. Forse ci ha provato, e lo hanno drammaticamente punito, veri boss o altri che come lui ambiscono a diventarlo. “Voglio chiarezza e giustizia per mio figlio”, aveva detto a ottobre, mentre era agli arresti domiciliari. È arrivata, invece, anche per lui la morte, in quella stessa casa. Non è stato ucciso in una villa lussuosa, con vasche idromassaggio, rubinetti d’oro e telecamere, ma in un umido ‘basso’, piano strada, bilocale dove vivevano in sei e ora sono rimasti in quattro. Una storia che si ripete. Drammaticamente. Famiglie dove le parole sono coca e pistole. Di padre in figlio. Come i due minorenni fermati per il pestaggio di un rider per rubargli lo scooter, figli di camorristi del clan Di Lauro. Ipocrita negarlo. Magistrati e forze dell’ordine hanno più volte spiegato che l’unico affare che pandemia e lockdown non hanno bloccato è quello della droga. E tanti hanno provato a inserirsi o a fare il salto in classifica. “Ragazzi, molto spesso bambini, già inseriti in un ‘giro’ di droga. Per loro quale futuro? Se non diventano consumatori di eroina, se riescono a sopravvivere, è difficile che possano imboccare altre strade che non siano quelle dell’illegalità, dello spaccio diretto, dello scippo, del furto”. Lo scriveva Giancarlo Siani il 22 settembre 1985, il giorno prima di essere ucciso dalla camorra, ad appena 26 anni. Giornalista vero che oltre a denunciare cercava di capire. Sono passati 35 anni. Ma cosa è stato fatto, cosa di fa per evitare davvero che sia sempre e solo cronaca nera? Milano. Un concorso di idee sul tema “bellezza”. Cinico tempismo mentre il virus uccide di Domenico Alessandro de Rossi* Il Dubbio, 6 gennaio 2021 In presenza del Covid-19, che vede il carcere in prima linea come una bomba nel rischio pandemia, con discutibile insensibilità da parte del ministero della Giustizia e di altre istituzioni circa le azioni da intraprendere, appare la notizia che la Triennale di Milano con la condivisione della Casa circondariale Francesco Cataldo di Milano, bandisce con cinico tempismo il concorso di idee “San Vittore spazio alla bellezza”. Obiettivo dell’iniziativa sarebbe il promuovere una nuova concezione di casa circondariale, attraverso la riprogettazione di alcuni spazi del carcere, per cambiarne la “percezione” e migliorando gli spazi che lo ospitano. Che ci sia il dovere, da sempre, di ripensare l’intero complesso italiano nelle modalità dell’esecuzione penale e nelle strutture dedicate non v’è dubbio. Non per caso da troppi anni siamo in attesa da parte del Dap di un integrato, sistemico, organico “Piano carceri”, dove da un nuovo regolamento penitenziario, ad una diversa concezione delle diverse modalità detentive, fino all’urbanistica, ai trasporti ed al recupero degli edifici storici, si possa gestire l’enorme problematica all’interno di un quadro sistematico di riferimento. Nel recente “Non solo carcere”, libro a ciò dedicato, tentammo insieme ad altri professionisti di sistematizzare almeno questa vasta tematica anche in funzione della condanna della Cedu, Corte Europea Diritti Umani. Nella congerie di proposte disorganiche da parte della politica e delle istituzioni ecco ora anche la Triennale con il suo bando che dedica alla bellezza le problematiche del carcere: l’ossimoro per definizione. Sì, in tempi di Coronavirus dove ogni giorno si aggiungono centinaia di morti, in cui si susseguono appelli al Governo, tra cui quello dell’immediata distribuzione del vaccino nelle carceri, tra rivolte, morti e abusi, proprio quello della bellezza sembra essere la risposta da dare al problema. Nel dubbio, escludendo cattivi pensieri per spiegare queste scelte incomprensibili, in tempi di emergenza nazionale, per capire si dovrebbe ricorrere alla mera indifferenza alle morti ed egoismo di parte, oltre che di interessi per la creazione di vetrine personali da spendere in altre sedi. Ma ciò che in questo caso risulta ancora più incredibile è il silenzio dell’ordine degli architetti che ha accettato - per quanto ci risulta senza battere ciglio - che il bando della Triennale non ammettesse la partecipazione diretta di professionisti che hanno più di quaranta anni! Non è chiaro il motivo della esclusione di esperienze più mature e forse più consapevoli nella complessa materia che certamente non riguarda solo il problema della bellezza del carcere. Ma a proposito di forma, di stile e di comportamento sta il fatto che a peggiorare l’affaire si aggiungano da parte degli architetti “maggiorenni” giudizi fortemente critici nei confronti del concorso per l’inutile esclusione di chi ha superato l’età. Mentre gli stessi che criticano partecipano poi in pari tempo da esterni come consulenti dei giovani professionisti. Come a dire non accetto ma mi adeguo: esco dalla porta e rientro dalla finestra. Questo è il modo in cui ormai nel nostro Paese istituzioni e classe dirigente e professionale affronta le complesse problematiche riguardanti la situazione delle carceri e dell’esecuzione penale. John Ruskin diceva che l’architettura è l’adattarsi delle forme a forze contrarie. Ma forse un limite etico, di questi tempi, ci vorrebbe. *Vice presidente Cesp - Centro Europeo Studi Penitenziari Covid. Ipotesi stato di emergenza fino al 31 luglio: cosa significa e cosa cambia di Giampiero Maggio La Stampa, 6 gennaio 2021 Ipotesi stato di emergenza fino al 31 luglio: cosa significa e cosa cambia. I timori del governo per una terza ondata e la curva dei contagi che non rallenta. Verso il nuovo Dpcm del 15 gennaio. Oggi sarà l’ultimo giorno in zona rossa per l’Italia. E da domani si entrerà in una sorta di zona gialla rafforzata, con restrizioni che andranno dal blocco degli spostamenti tra Regioni e una serie di altri obblighi simili a quelli applicati durante le festività. Terminata questa fase, intorno al 15 di gennaio, ne seguirà un’altra: molto dipenderà dalla curva dei contagi e soprattutto dai valori Rt e dai parametri stabiliti dal Comitato tecnico scientifico relativi alla pressione sugli ospedali e sulle terapie intensive. Il governo agirà, molto probabilmente, seguendo anche in questa seconda fase le varie colorazioni. E per entrare in fascia bianca, con un allentamento delle restrizioni, si dovrà avere un indice Rt inferiore a 1. Spunta, poi, un’altra ipotesi: l’idea del governo di Giuseppe Conte di prorogare lo stato di emergenza fino al 31 luglio. Dunque, le prossime mosse dell’esecutivo saranno un nuovo Dpcm entro il 15 gennaio e, appunto, un prolungamento dello stato di emergenza. Si procederà a piccoli passi, ogni decisione sarà condizionata, inevitabilmente, dalla curva dei contagi. Ieri è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legge 5 gennaio 2021 n. 1 che entra in vigore da oggi. Nel periodo fino al 15 gennaio, data di scadenza del decreto legge n. 158/2020 e del Dpcm 3 dicembre, varranno le stesse regole per tutta Italia seppur diverse giorno per giorno (zona gialla rafforzata il 7 e l’8 gennaio, zona rossa nel week end 9-10 gennaio), mentre da lunedì 11 si ritornerà alle zone di colore, che cambieranno in ogni regione dopo il nuovo monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità con la modifica dell’indice di contagio Rt che porterà nuovi territori in zona arancione o rossa (ci sono dieci regioni sotto la lente, in particolare Veneto, Liguria e Campania) e l’ordinanza del ministero della Salute attesa al più tardi per il 9 gennaio. Ecco cosa prevede il decreto-legge: Punto numero 1. “Dal 7 al 15 gennaio 2021 è vietato, nell’ambito del territorio nazionale, ogni spostamento in entrata e in uscita tra i territori di diverse regioni o province autonome, salvi gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute. È comunque consentito il rientro alla propria residenza, domicilio o abitazione, con esclusione degli spostamenti verso le seconde case ubicate in altra regione o provincia autonoma”. Punto numero 2. “Nei giorni 9 e 10 gennaio 2021 sull’intero territorio nazionale, ad eccezione delle Regioni cui si applicano le misure di cui all’articolo 3 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 3 dicembre 2020, si applicano le misure di cui all’articolo 2 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 3 dicembre 2020, ma sono consentiti gli spostamenti dai comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti e per una distanza non superiore a 30 chilometri dai relativi confini, con esclusione in ogni caso degli spostamenti verso i capoluoghi di provincia”. Punto numero 3. “Fino al 15 gennaio 2021 nelle regioni in cui si applicano le misure di cui all’articolo 3 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 3 dicembre 2020 è altresì consentito lo spostamento, in ambito comunale, verso una sola abitazione privata una volta al giorno, in un arco temporale compreso fra le 5 e le 22 e nei limiti di due persone, ulteriori rispetto a quelle ivi già conviventi, oltre ai minori di anni 14 sui quali tali persone esercitino la potestà genitoriale e alle persone disabili o non autosufficienti conviventi. Per i comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti lo spostamento di cui al presente comma è consentito anche per una distanza non superiore a 30 chilometri dai relativi confini, con esclusione in ogni caso degli spostamenti verso i capoluoghi di provincia”. Punto numero 4. “Nell’intero periodo di cui al comma 1 restano ferme, per quanto non previsto nel presente decreto, le misure adottate con i provvedimenti di cui all’articolo 2, commi 1 e 2, del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35”. Partiamo da alcuni punti fermi. La Germania ha predisposto nuovi blocchi, il Regno Unito sta vivendo giorni difficili a causa di un picco dei contagi (ieri, circa 60 mila nuovi positivi al coronavirus) ed è nel pieno di una terza ondata a causa della variante inglese del virus. Variante che preoccupa l’Europa e che costringe i capi di governo a mantenere alta l’attenzione. È per questo che i giorni a venire per l’Italia sono cruciali. Il governo, dunque, ha già pronto un nuovo Dpcm che, come detto, stabilirà non solo l’istituzione delle tre fasce di colore, ma anche una cosiddetta “zona bianca”: chi rientrerà in quella fascia potrà, di fatto riaprire tutto. La condizione necessaria? Avere un Rt sotto uno, rischio basso e meno di 50 casi ogni 100mila abitanti. Al momento, però, nessuna Regione detiene queste caratteristiche. In zona bianca potranno riaprire palestre, teatri, cinema, sale da concerto, musei come già aveva anticipato, nei giorni scorsi, anche il ministro dello Sport Spadafora e come, di fatto, aveva suggerito il ministro Dario Franceschini. Di pari passo procederà il piano di vaccinazioni, che ieri ha subito una vera e propria accelerazione e che dovrebbe portare, secondo i piani di esperti e dell’esecutivo, ad una immunità di gregge entro l’autunno/fine 2021. Per questo, come aveva precisato Giuseppe Conte durante la conferenza stampa di fine anno a Villa Madama, non è da escludere una proroga di altri sei mesi, ovvero fino al 31 luglio, dello stato d’emergenza in scadenza, come è noto, il 31 gennaio. Sono già filtrate alcune indiscrezioni, con l’indicazione di due date: il 31 marzo e, appunto, il 31 luglio. Il tema è stato ampiamente affrontato anche sul sito del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali sul decreto Milleproroghe: cosa significa? Intanto si segnala, in particolare, “la proroga al 31 marzo 2021 dell’utilizzo della procedura semplificata di smart working”. La proroga (come data più prudenziale fissata nel 31 marzo) riguarda, inoltre, numerose misure in ambito scolastico e universitario, medico-sanitario, in tema di protezione dei lavoratori e della collettività, in materia di svolgimento degli esami di Stato di abilitazione all’esercizio delle professioni e dei tirocini professionalizzanti e curriculari. Droghe. Perché oggi è importante riflettere e criticare il modello Muccioli di Vanessa Roghi Il Domani, 6 gennaio 2021 L’impostazione di San Patrignano vede solo due possibilità di salvezza per i “drogati”: il salvatore o il padre padrone, la figura forte che deresponsabilizza il resto della società. Così la politica continua a disinteressarsi della droga. Parlare di tossicodipendenze è difficile, si oscilla fra logiche repressive e totale disinteresse, è molto raro leggere o vedere qualcosa sul consumo di droghe che porti a un ragionamento più ampio e vada oltre le nostre certezze. Questo, “SanPa. Luci e tenebre di San Patrignano”, la serie Netflix su Vincenzo Muccioli, riesce a farlo, qualsiasi sia la posizione che abbiamo nei confronti di quella storia. Da spettatori siamo portati subito al centro dell’evento, quando, nel 1978, nasce la comunità di San Patrignano, una risposta (non certo l’unica come sembra dalla serie) a politiche pubbliche che non riescono a fronteggiare la marea dell’eroina che sta spazzando via una generazione: Muccioli appare a tante famiglie ma anche a tanti “drogati”, un salvatore. Ma non solo. Vincenzo Muccioli capisce che quello del recupero dei tossicodipendenti sta per diventare un affare. Sicuramente nel suo progetto iniziale pesa moltissimo anche la sua aspirazione a diventare una specie di guru, un mistico della riviera romagnola, ma certo il business non è secondario. Le cinque puntate della serie Sanpa raccontano di una crescita esponenziale di soldi che portano in pochissimi anni la piccola comunità a diventare un luogo ricchissimo anche grazie al supporto finanziario della famiglia Moratti e di altri ricchi e disperati genitori (Enrico Maria Salerno, Paolo Villaggio) che vedono in San Patrignano l’ultima spiaggia per disintossicare i figli. E ancora: racconta anche la nascita di un approccio alla disintossicazione diverso da quello scelto dallo stato, in comunità infatti viene assolutamente proibito l’uso di metadone o di psicofarmaci. L’alternativa al metadone E questo nella serie è molto chiaro: intorno a questa scelta “alternativa” al metadone nasce San Patrignano. Quello che appare è che il riminese decide, generosamente, di mettere una toppa là dove lo stato è assente. Ma lo stato non è così assente come sembra dalla miniserie: una nuova legge del 1975, che è andata finalmente a modificare quella del 1923 che regolava la gestione delle tossicodipendenze, prevede finanziamenti importanti per progetti sulla prevenzione e la cura. C’è chi se ne accorge come Francesco Cardella, editore siciliano: in Calabria, duemila persone lavorano alla sua comunità terapeutica. Fonda con Mauro Rostagno la comunità di Saman in Sicilia. Achille Saletti è un avvocato penalista, nei primi anni Ottanta molti suoi clienti hanno grane con la giustizia per problemi di eroina. Inizia a collaborare con Saman e ricorda l’assoluta improvvisazione, lo sforzo di tanti volontari senza alcuna preparazione e soprattutto senza alcuno strumento: “Le strutture terapeutiche erano mandate avanti in modo empirico, improvvisato. In comunità per esempio non veniva dato niente, né farmaci né altro, si curavano le crisi di astinenza con la camomilla”. E Luigi Cancrini, da me intervistato per un libro scritto tre anni fa (“Piccola città. Una storia comune di eroina”, Laterza): “Fu in quel momento che apparvero personaggi come Vincenzo Muccioli che, iniziando da una vicenda sua personale che lui raccontava come una conversione religiosa, in buona fede, mise in piedi questa grande impresa”. San Patrignano, Ceis, Gruppo Abele, don Riboldi, Saman. La “comunità” di recupero entra a far parte dell’immaginario nazionale come alternativa ai luoghi di somministrazione del metadone pubblici, ben descritti da Carlo Rivolta nei suoi articoli sul quotidiano La Repubblica. “Il centro del comune così funziona solo al pomeriggio per la distribuzione del metadone e alla mattina per l’assistenza psicologica. Sono tornato di pomeriggio. Questa volta il girone era pieno di “dannati” che aspettavano il loro turno. Una ragazzina bionda, capelli lunghi, un viso molto dolce e triste, mi ha raccontato la sua storia: “Vengo qui da due mesi. Appena arrivata mi hanno fatto compilare una scheda. C’è la mia condizione sociale. Mi hanno chiesto subito se volevo assistenza psichiatrica. Ho detto di no, da allora nessuno si è mai più interessato al mio stato psichico. E io invece sto male: prima avevo degli amici, quelli con cui mi bucavo, ora mi hanno isolata. Qui al centro invece siamo tutti divisi, ci vergogniamo tutti un po’ di essere qui, e tra noi non c’è rapporto. Tantomeno abbiamo il minimo rapporto con gli assistenti sociali. Insomma si viene qui, si prende il metadone, e si va via. Chi vuole tirarsi fuori dall’ero, in pratica lo fa da solo”. Solitudine e controllo totale Non dimentichiamola questa solitudine e la vergogna mentre guardiamo il documentario Sanpa. Quando sentiamo ragazzi e ragazze che dicono di preferire le catene a quella solitudine, vista dal loro punto di vista, quella scelta è plausibile, disperata e plausibile. E non dimentichiamo neppure il contesto, che è del tutto assente nella miniserie: nel 1978 la legge 180, più conosciuta come legge Basaglia, chiude i manicomi dove la legge del 1923 rinchiudeva i tossici (i medici avevano l’obbligo di denuncia). Bene, una volta chiusi i manicomi dove si mettono i drogati? In carcere? Costa troppo allo stato e poi a volte il tossico non ha nemmeno commesso un reato visto che dopo il 1975 il consumo non è più considerato tale. Intanto la marea dell’eroina monta e le famiglie, che come si dice a un certo punto nella miniserie sono migliaia e migliaia, sono disperate. Così nasce questo kibbutz all’italiana (espressione di Giovanni Minoli), San Patrignano, dove il lavoro e la vita comunitaria sembrano essere la risposta al male di vivere dei tossici. Ma non è un “poema pedagogico” quello che scrive Muccioli sulla collina sopra Rimini, è piuttosto un progetto di controllo totale, che ricorda quelli di Osho o di Ron Hubbard che, negli stessi anni, decide anche lui di salvare i tossicodipendenti. Da questo frainteso concetto di “comunità”, da questa idea patriarcale della relazione fra terapeuta e “malati” nasce il metodo San Patrignano, che non disdegna il ceffone quando è necessario, e la reclusione, e le catene, a ricreare il manicomio proprio mentre nel resto del paese si sta cercando di smantellarlo. Il resto (ascesa e declino, Aids, processi) è storia (o meglio miniserie). Guardare la dipendenza Come ogni racconto ben concepito, la serie su San Patrignano lascia aperte molte domande: quanto delle future politiche sulle droghe prendono corpo lì, sulla collina, quanto il modello patriarcale imposto da Muccioli ha plasmato e plasma il discorso sulle droghe. Muccioli ripete spesso di essere un padre per i suoi ragazzi. Ma siamo sicuri che la famiglia sia un luogo salvifico, sempre? Come scrisse Cancrini nel suo primo studio Esperienza di una ricerca sulle tossicomanie: “Le famiglie dei tossicomani si dividono in due specie: “Mi aspetto molto da te. Non mi aspetto niente da te”. Muccioli si aspetta molto dai “suoi” ragazzi, ma cosa dà in cambio? Oggi riflettere sulla storia di Muccioli in modo serio è fondamentale per criticare fino in fondo quell’impostazione che vede solo due possibilità di salvezza per i “drogati”: il salvatore o il padre padrone, comunque la figura forte che deresponsabilizza il resto della società che delega e si volta dall’altra parte. E magari, grazie alla serie, la politica si ricorderà che la conferenza nazionale sulle droghe non viene convocata da undici anni come ricorda Claudio Cippitelli, operatore romano: “Ricordo la prima conferenza nazionale sulle droghe di Palermo, nel 1993. Era previsto l’intervento di Muccioli e lui, avvertito dallo staff di San Patrignano della presenza del padre di Giuseppe Maranzano in sala, si dava alla fuga. Non so se vedrò Sanpa su Netflix, non so se ho voglia di tornare a discutere questioni di oltre quarant’anni fa, mentre non viene organizzata la conferenza nazionale sulle droghe da undici anni (secondo la legge da celebrare ogni tre anni)”. Infine: la dipendenza va guardata dritta negli occhi, le interviste agli ex ospiti della comunità ci consentono di farlo e sono la parte più bella e importante di questo lavoro che per una volta sembra dire: non c’è niente di cui vergognarsi nelle vostre storie, parlatene, parliamone. E grazie per avercele raccontate. Droghe. Nascere e morire a San Patrignano, eterni schiavi della dipendenza di Ginevra Lamberti* Il Domani, 6 gennaio 2021 Mio padre è entrato in comunità nel 1981. Chi è stato lì in quegli anni fondativi è spesso legato a SanPa da un debito che sembra non estinguersi mai. Ma è giusto sostituire l’assuefazione alla sostanza con l’assuefazione alla struttura? Ho trascorso i primi mesi della mia vita in un container con i miei genitori, tutto attorno c’era il fango di una cittadella in espansione. Era il 1985 e la cittadella si chiamava San Patrignano. Mio padre era arrivato lì nel 1981, da Roma, per disintossicarsi da un forte disturbo da uso di eroina. Ce lo aveva portato di peso mio nonno, insieme hanno dormito in macchina per giorni, poi è stato accettato. Mia madre lo ha raggiunto non appena le è stato permesso, scendendo in autostop dal Veneto, per non lasciarlo da solo. Sono nata a Rimini, quando mi chiedono perché, rispondo “passavamo da quelle parti”. Lo sanno innumerevoli amici, lo sanno i parenti di millesimo grado, lo sa anche un po’ di gente a caso. Non è mai stato esattamente un segreto, non è mai stata esattamente una cosa di cui parlare in pubblico. Ora, non è necessario che questa storia abbia un peso eccessivo nell’economia della mia esistenza, soprattutto da quando mio padre è morto. Soprattutto perché il tempo passa e la memoria collettiva cancella, rendendo la parola “Sanpa” una lallazione dimenticata dai più. C’è ancora, ma la stragrande maggioranza del paese può fregarsene. C’è ancora, ma nessuno si ricorda più della cronaca nera, del potere che si esibisce con maggiore forza proprio quando finisce in tribunale. Alla luce di tutto ciò, iniziare il 2021 con la storia di quel posto nella top 10 Netflix dei più visti in Italia, è stato abbastanza scioccante. In molti vedendola hanno pensato a Wild wild country, docuserie sempre targata Netlfix, sull’incredibile parabola della comune-città del guru Osho nel Stai Uniti. Io credo però che le similitudini siano più legate alle scelte di stile e di regia che ai contenuti. Quando si ragiona di storia, l’appiattimento è sempre una grande tentazione, ma il fatto che Osho e Vincenzo Muccioli fossero due uomini forti, carismatici, accentratori, con una personalità marcatamente narcisista, non rende i loro percorsi e le parabole delle loro comunità sovrapponibili. La differenza più importante sta nella relazione con il potere locale e centrale. Oregon e Stati Uniti non sapevano più come espellere la città degli adepti del Bagwan dal proprio corpo, poiché essi si appellavano ai principi della stessa costituzione statunitense. Lo Stato italiano, che desiderava in modo struggente continuare a delegare un problema sistemico dentro le quattro mura chiuse di San Patrignano, non sapeva più come difenderla, perché all’interno di quelle quattro mura si continuavano ciclicamente a violare le leggi dello Stato. La seconda differenza sostanziale è che, da un certo punto in poi - un punto invero assai precoce - Bagwan si è ritirato in un ostinato mutismo, delegando le responsabilità legate all’atto stesso del pronunciare parole in pubblico al suo entourage. A Vincenzo Muccioli va riconosciuto di non aver mai smesso, fino a che ha potuto, di andare incontro e contro al mondo col suo corpo e la sua voce. Sia che fosse pronunciando parole di accoglienza, sia che fosse con esternazioni di una gravità agghiacciante. Del luogo in se, con una chiave romanzesca che rielaborava preziose fonti dirette, avevano già parlato Andrea Delogu e Andrea Cedrola nel libro La Collina (Fandango, 2014), ma quando si parla di SanPa non si parla mai solo di un luogo. Lo ha ricordato Enrico Deaglio nello straordinario pezzo uscito il 2 gennaio su Domani: quando si parla di SanPa si parla della storia complessa, e mai chiarita né digerita, dell’arrivo dell’eroina in Italia. Ne parlò Giovanni Minoli con lo speciale Rai Operazione Bluemoon. Eroina di stato. Ne ha scritto la storica, documentarista e scrittrice Vanessa Roghi in Piccola città. Una storia comune di eroina (Laterza, 2018), ovvero un romanzo autobiografico e di approfondimento storico che è un vero gioiello; la prima pubblicazione da correre a leggere per capire l’evoluzione del mercato delle sostanze stupefacenti in Italia, ma anche gli usi e abusi politici, la rappresentazione mediatica, la manipolazione dell’opinione pubblica a seconda degli interessi del momento. Una lettura fondamentale che mi ha fatto comprendere come, in fondo, non sia mai stata SanPa in se a preoccuparmi, bensì il modo in cui lo Stato si fosse specchiato in essa, riconoscendosi. Quasi tutti quelli che sono passati da SanPa in quegli anni fondativi sono legati da un debito di gratitudine che non sembra avere fine. Questo mi ha insegnato fino a che punto la gratitudine possa essere una schiavitù, ma anche che dalla disperazione completa si esce aggrappandosi a quello c’è. A SanPa mio padre faceva l’odontotecnico e ne era molto orgoglioso. Ne è uscito all’inizio dell’86, ha aperto un laboratorio, è rientrato nell’89 in seguito a una brutta ricaduta e a un’overdose, in questo caso di cocaina. È stato dentro per circa un anno, quella volta in una sede distaccata di Trento - che in seguito è stata chiusa - mentre noi lo aspettavamo fuori. Dopo essere tornato non ha mai più ripreso il suo mestiere. Eravamo ulteriormente impoveriti, i miei hanno iniziato a fare gli operai, cambiavamo spesso casa e città. La versione ufficiale era che lo facevamo per motivi di lavoro. La verità è che qualcosa nel cervello di mio padre si era spezzato, consumato, interrotto, vai a sapere. Tutto attorno a lui era un complotto e tutti, prima o poi, finivano col farne parte. Quando un luogo diventava inospitale, ci spostavamo. Anche se nessuno gli ha mai fatto una diagnosi, questa si chiamerebbe doppia diagnosi. È quando al disturbo da uso di sostanze si associa un disturbo psichiatrico. Se non fosse una tragedia avrei dunque trovato divertente, esilarante, sentire Vincenzo Muccioli dichiarare la sua aperta opposizione alle scienze psichiatriche e alla psicologia. I “Ciocchi”, il “Sole Piatti”, le chiusure nel tino, nella cassaforte della pellicceria, nella piccionaia, l’istantaneo esame di coscienza che tutti si facevano quando Vincenzo entrava in mensa chiedendosi, finché non era seduto, “chissà se ho fatto qualcosa di male”, “chissà se oggi cazzierà me”, a casa erano materia di normale conversazione. I miei genitori hanno sempre detto di aver visto. Mio padre ha sempre detto di non essere mai stato picchiato né segregato. Non saprò mai se è vero, ma voglio credere di sì. So che la comunità per molti versi lo ha aiutato a sopravvivere a se stesso, gli ha fornito un ambiente strutturato e controllato in cui riprendersi, praticare la sua professione, diplomarsi, avere delle attenzioni. So che voleva bene a Vincenzo e che non lo sopportava, che si sentiva amato e non si sentiva mai amato abbastanza. So che ha avuto dei buoni amici e che hanno riso moltissimo. So che Roberto Maranzano è stato ucciso, che Natalia Berla e Gabriele Di Paola si sono suicidati in circostanze mai chiarite, e so che non sono stati gli unici. So che del metodo San Patrignano facevano parte l’inseguimento, il controllo, le intercettazioni, il sabotaggio, in taluni casi anche della vita al di fuori della comunità. E so che mio padre ha vissuto nel terrore di essere seguito, controllato, intercettato, sabotato. Era spaventato, aggressivo e autolesivo come una bestia in gabbia. Aveva un’intelligenza istintiva, le sue intuizioni spesso erano corrette, ma le conclusioni completamente deliranti. So che non era inseguito, né sabotato, perché era abbandonato, e di lui non fregava più niente a nessuno. Credo che la sua esperienza possa in parte rispondere alla domanda: che cosa succede nella testa di una persona affetta da manie di persecuzione quando viene sovraesposta a un ambiente dai metodi persecutori e privata di un adeguato percorso psicoterapeutico? Vi prego di credermi, succede un disastro. Mio padre, e gli altri e le altre con lui, sono stati il prodotto delle inadempienze dello Stato, di un antiproibizionismo ottuso, della negazione della scienza. Criticità di cui, a ben guardare, non ci siamo ancora liberati. Chiunque lo abbia incrociato potrà controbattere che il suo problema principale fosse il fatto puro e semplice di essere un soggetto ingestibile. Ma io non mi confronto con questa storia per parlare dei suoi limiti oggettivi, o della validità di quel sistema in relazione al suo (e conseguentemente al mio) vissuto. Lo faccio per chiedere alla San Patrignano di ieri: quanto poteva essere valido il modello terapeutico di un microcosmo che liberava dall’assuefazione alla sostanza per sostituirla con l’assuefazione alla struttura? E per chiedere alla San Patrignano di oggi: quanto può dirsi fino in fondo rinnovata una realtà che non si è mai davvero voluta confrontare con i crimini connessi alla sua lunga genesi? È morto nel 2013 in seguito alle complicazioni di un tumore al fegato, a sua volta sviluppatosi da un’Epatite C diagnosticata tardivamente. Negli ultimi giorni di ricovero aveva perso l’uso delle gambe, ma io non sapevo che erano gli ultimi giorni. Se si fosse ripreso e lo avessero dimesso non avremmo saputo cosa fare. Viveva in un’emergenza abitativa, assegnata regolarmente dal comune di Treviso, che era priva di riscaldamento, priva di ascensore, lontana dall’ospedale e circondata dal nulla di una zona industriale. La sua compagna, mia madre ed io ci trovavamo per l’ennesima volta senza mezzi, a chiederci, e adesso? Non ho avuto troppi dubbi, ho chiamato San Patrignano, ho spiegato che eravamo alla fine, ho chiesto se, in caso di necessità, avrebbero potuto darci una mano. Hanno detto di sì, perché se sei senza speranza la risposta è quasi sempre sì. San Patrignano, in questo, è dostoevskiana. Quindi ad oggi ho anch’io un motivo di gratitudine. Ringrazio di avermi fatta tornare a casa sentendomi sollevata e meno sola, quella sera, perché quel sì voleva dire che nel caso di uno stato terminale prolungato avremmo avuto un supporto di eccellenza. E poi ringrazio papà, perché credo non avesse nessuna intenzione di tornare, ed è morto quella settimana stessa circondato dall’affetto dei suoi cari, senza dover dire grazie a nessuno che non fossimo noi. Nota: Nei Manuali MSD si legge che “i termini tossicodipendenza, abuso e dipendenza sono vaghi e carichi di valore; è preferibile parlare di disturbo da uso di sostanze e concentrarsi sulle manifestazioni specifiche e sulla loro gravità” *Ginevra Lamberti (1985) è una scrittrice e vive in Veneto. Il suo ultimo romanzo, “Perché comincio dalla fine” (Marsilio, 2019) è nella terzina vincitrice del Premio Mondello 2020 ed è in traduzione in Brasile. Il suo primo romanzo “La questione più che altro” (Nottetempo, 2015) è stato pubblicato anche in Francia. Suoi racconti sono stati tradotti in tedesco e in cinese. Immigrazione: un’Italia più aperta con lo “ius culturae” di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 6 gennaio 2021 Nel nostro paese gli stranieri sono solo il 5,6% degli iscritti all’università (contro una media Ue del 9% e punte del 17,7 in Svizzera o del 18,3 in Gran Bretagna). “L’Italia deve candidarsi a prendere il posto degli inglesi nell’attrattività di Erasmus: diciamo a Pd, M5s e Leu di puntare sullo ius culturae dando la cittadinanza agli studenti universitari che verranno a laurearsi in Italia. Vale a dire che se tu sei uno studente che viene a studiare medicina e stai cinque anni in Italia poi alla fine non soltanto ti do la laurea ma ti do la cittadinanza. Perché mi interessa l’immigrazione di qualità. Mi interessa attrarre cervelli. Attrarre talenti”. Evviva. Quasi dieci anni dopo la Leopolda del 2011, dove fra le 100 proposte per cambiare Italia c’era “l’adozione dello ius soli per i figli degli immigrati”, Matteo Renzi pare avere infine dismesso l’uso sbrigativo, sciagurato e suicida della formula “ius soli”. Che, sbandierata così, come uno spot, poteva essere letta in un solo modo: il riconoscimento della cittadinanza a chi nasceva in Italia. Punto. Una scelta insostenibile, per un paese spalancato verso l’Africa in piena esplosione demografica, e già abbandonata dalla stragrande maggioranza dei paesi in favore di una mediazione con lo ius misto. Meglio ancora, ius culturae. E parallelamente una scelta complicatissima da difendere davanti all’aggressività crescente di chi come Matteo Salvini cavalcava con toni sempre più bellicosi proprio quelle parole un tempo nobilissime ma oggi di fatto impraticabili. Prendiamo nota: in tutto il 2020, stando all’archivio Ansa, l’ex leader pd ha rottamato lo spot autolesionista senza più invocarlo manco una volta. Anzi, risulta essersi tenuto alla larga dallo “ius soli” tout court dalla nascita di Italia Viva, ottobre 2019. Una scelta di bottega visto il tentativo di aprire il suo partito (6,4% le aspettative iniziali…) ai moderati? O il progressivo riconoscimento dell’obbligo politico, economico e morale di arrivare alla cittadinanza per i nuovi italiani usando però (le parole sono pietre) i termini giusti? Si vedrà. Certo è che in un paese come il nostro dove gli stranieri sono solo il 5,6% degli iscritti all’università (contro una media Ue del 9% e punte del 17,7 in Svizzera o del 18,3 in Gran Bretagna) sarebbe un peccato non cogliere il senso della proposta renziana sulla necessità di un’Italia più aperta verso una immigrazione di qualità. Di talenti. Cervelli. E come, se non con uno ius culturae? Stati Uniti. Una donna al patibolo dopo 70 anni: il crudele addio alle scene di Trump di Sergio D’Elia Il Riformista, 6 gennaio 2021 Sarà la prima detenuta federale giustiziata dal 1953, ha commesso un delitto così efferato da far dubitare che fosse in sé. Il presidente uscente vuol fare fuori tutti prima che Biden chiuda il braccio della morte. Bonnie Heady fu asfissiata a morte nella camera a gas del Penitenziario di Jefferson City, nello stato del Missouri, il 18 dicembre 1953. Era stata condannata per aver rapito e ucciso un bambino di sei anni di Kansas City. Era stata arrestata a settembre insieme a un suo complice. A ottobre era comparsa davanti a un giudice del tribunale federale di Kansas City. A novembre, dopo solo un’ora e otto minuti di discussione, una giuria popolare del tribunale federale aveva raccomandato la pena di morte, invocata dai parenti delle vittime e dagli stessi carnefici, rei confessi nel processo. Quindici minuti dopo, il giudice federale l’ha condannata all’esecuzione, che venne effettuata a tempo di record un mese dopo. Giustizia fu fatta, rapida e senza appello. Se nulla fermerà la mano del boia, il 12 gennaio, dopo quasi settanta anni dall’ultima esecuzione federale di una donna, la storia si ripeterà. Un’altra donna, Lisa Montgomery, verrà messa in croce sul lettino della camera della morte del penitenziario di Terre Haute, in Indiana. Morirà avvelenata da una dose letale di Pentobarbital e dopo aver provato, prima dell’ultimo liberatorio respiro, una terribile sensazione di panico, di soffocamento o annegamento. Lisa si è resa responsabile di un delitto talmente efferato da far dubitare della sua reale capacità di intendere e volere al momento del fatto. Dopo aver strangolato una donna incinta, le ha aperto la pancia con un coltello da cucina, ha prelevato il feto di otto mesi e se l’è portato a casa per farlo crescere con sé… forse, per dare al bimbo l’amore che a lei, stuprata e prostituita sin da piccola, era stato negato. A differenza di Bonnie, arrestata, processata e giustiziata nel giro di pochi mesi, Lisa ha atteso tredici anni nel braccio della morte. Probabilmente non era in sé quando ha commesso il fatto, sicuramente oggi è una persona diversa da quella del delitto. Senza nessuna grazia, senza un atto di pietà, il 12 gennaio, giustizia sarà fatta. Una giustizia lenta ma inesorabile. Nel 1953, quando Bonnie Heady è stata asfissiata col gas, governava in America il Presidente Ike Eisenhower, il generale che aveva deciso di fare la guerra al nazismo e porre fine all’orrore delle camere a gas nei campi di concentramento. Alla fine del conflitto mondiale, il Presidente degli Stati Uniti aveva ripristinato la pena capitale, per la sua arcaica concezione della giustizia, che esige di cavare un occhio per ogni occhio cavato, togliere la vita a chi la vita ha tolto, ripagare il danno arrecato con un danno di egual misura. In tal modo, è divenuto lui stesso cieco, mortifero, dannoso. Ha condannato e si è autocondannato alla “catena perpetua” di causa ed effetto, al ciclo assurdo di delitto e castigo, della violenza e del dolore da ricambiare con una violenza e un dolore eguali e contrari. Alla fine, si è rivelato anche lui “crudele e inusuale”, come le pene e i trattamenti contrari all’Ottavo Emendamento della Costituzione americana. Dall’antica legge di Dio Trump ha tratto la versione negativa e spietata, che giudica, condanna e maledice per sempre. Ne ha fatto un codice personale e penale da imporre al mondo e ai giorni nostri. Della volontà di Dio ha negato la parte positiva e benevola, che pure esiste, e indica un diritto e una giustizia di miglioramento, di tutela e di riparazione. Come invocava Aldo Moro, il progresso penalistico non sta nel miglioramento del diritto penale, ma nel suo superamento con qualcosa di meglio del diritto penale, che sia più ragionevole e più umano del diritto penale. È questa la “nuova frontiera” del diritto e della giustizia penale: un diritto senza pene e istituti di pena, una giustizia che non punisce, ma ripara. Stati Uniti. Caro Presidente Biden, non ceda allo show tribale della pena di morte di Dario Nardella* Il Dubbio, 6 gennaio 2021 L’appello del sindaco di Firenze contro l’esecuzione di Lisa Montgomery: “Non c’è giustizia senza vita”. Illustrissimo Presidente Joe Biden, mi permetto di scriverLe da Firenze, città di cui sono sindaco dal 2014, per sollevare un tema che mi auguro possa avere un’attenzione particolare durante il suo mandato presidenziale, quello della pena di morte. Sono rimasto molto colpito dalla notizia della prossima esecuzione di Lisa Montgomery, condannata alla pena capitale per un delitto efferatissimo, aver strangolato nel 2004 una donna incinta nel Missouri prima di praticarle un cesareo e rapire il bambino. È l’unica donna in attesa nel braccio della morte. Ha un passato di violenze, abusi, disturbi mentali. La sua sorte, a meno di colpi di scena legali dell’ultimo minuto, è questione di ore. Firenze è capoluogo della Toscana. Nel 1786, il 30 novembre, l’allora Granducato, stato autonomo, fu il primo al mondo ad abolire la pena di morte per volere di Pietro Leopoldo di Lorena che promulgò una nuova Riforma Penale. Da Firenze, da questa terra, rilanciamo un appello forte contro la pena di morte e per una moratoria delle condanne. Non può essere mai deterrente, non può essere mezzo di correzione, non può essere degna di una Stato che voglia chiamarsi civile. Lisa Montgomery si è macchiata di un crimine orrendo, è da anni in carcere. Marito e figlia della vittima cosa ricaverebbero dalla sua morte? Quale idea di giustizia vogliamo insegnare a quella bambina? L’ergastolo o comunque una pena di lunga durata non sarebbe sufficiente? Già l’illuminista Cesare Beccaria giudicava la pena di morte nient’altro che “uno spettacolo” che nulla aveva a che vedere col “contratto sociale” che deve stabilirsi tra cittadino e Stato civile. Ebbene, non vogliamo questi “spettacoli” che lanciano in pasto al più tribale populismo i nostri istinti più biechi. Crediamo anzi che prima di tutto la giustizia debba essere assicurata non solo rapidamente ma anche equanimemente rispettando i diritti umani anche del più crudele degli uomini. Cosa ci distinguerebbe, altrimenti, dal “lupus” teorizzato da Thomas Hobbes? A cosa varrebbero migliaia e migliaia di anni di evoluzione, progresso, modernità? La stessa parola “giustiziato” in italiano richiama la parola “giustizia” e dovrebbe essere cambiata. Negli ultimi anni sono stati molti i casi di condannati negli Stati Uniti che hanno fatto clamore. Ricordo bene quanto fui turbato, da giovanissimo, dal caso di Paula Cooper, quindicenne omicida di una anziana insegnante di catechismo. Per lei, nera che veniva da un’adolescenza disagiata, si mobilitò l’opinione pubblica internazionale e persino Papa Giovanni Paolo II. La sua pena fu commutata in ergastolo. C’è un particolare che mi colpì di più, nella storia di Paula. Il nipote della vittima, che in origine era favorevole all’esecuzione, ebbe un ripensamento. Anche per lui la donna non andava giustiziata. Niente gli avrebbe ridato la nonna, neppure la morte della sua assassina. Ricordo anche il caso di Gregory Summers, giustiziato in Texas nel 2006, accusato di aver commissionato l’omicidio dei genitori adottivi, delitto per il quale si era sempre proclamato innocente. Summers riposa ora proprio in Toscana, in provincia di Pisa: fu lui a chiederlo espressamente. Ma la pena di morte non è solo negli Stati Uniti. Appena qualche giorno fa è stato giustiziato un giovane in Iran. Era colpevole di omicidio, aveva appena 16 anni al momento dei fatti. Non ci sentiamo più sicuri dopo la sua morte, non ci sentiamo più appagati, non ci sentiamo vendicati. Nessuna giustizia può esserci senza la vita. Commutare la pena di morte in forme alternative di punizione non significa rinnegare i processi o assolvere coloro che sono stati condannati, non significa mostrare mollezza ma semmai essere consapevoli della potenza della misericordia e della legge. Siamo certi che questo appello che parte da Firenze contro la pena di morte potrà essere da Lei ricevuto e valutato con la massima lucidità, consapevolezza, equità. Da sempre c’è un solido legame tra Firenze e gli Usa e i rapporti storici sono ancor di più rafforzati dalla presenza in città di numerose sedi di università americane. Per questo forte è il desiderio di condurre insieme importanti iniziative per i diritti umani e per la difesa dei valori comuni. Il Suo mandato inizia con la lotta a una terribile pandemia. Salvare vite umane è la sfida e il traguardo più grandi. Sarebbe davvero un’impresa straordinaria che fossero salvate anche le vite dei tanti, troppi, condannati che ancora sopravvivono nel braccio della morte. *Sindaco di Firenze Siria. L’Ong Admsp: “Il regime si autofinanzia sulla pelle dei detenuti” di Alessandra Fabbretti dire.it, 6 gennaio 2021 I testimoni hanno riferito di dover pagare ogni volta l’equivalente di 2-3.000 euro, ma la somma per i siriani rifugiati all’estero lieviterebbe sensibilmente. I vertici del regime siriano starebbero aggirando le sanzioni economiche individuali imposte dall’Unione europea ottenendo ampie somme di denaro dalle famiglie dei detenuti, che in Siria sarebbero decine di migliaia. La denuncia emerge da un report realizzato dall’Association of Detainees and the Missing in Sednaya Prison (Admsp), associazione costituita dai parenti dei detenuti del carcere di Sednaya. Ai ricercatori, i familiari dei detenuti intervistati hanno raccontato di essere costretti a versare di continuo “mazzette” a funzionari statali tra cui secondini, personale carcerario, militari e giudici per poter incontrare i propri cari dietro le sbarre o per ottenerne il rilascio. Un sistema di “bustarelle” che permetterebbe alla “rete” di incassare milioni attraverso una catena di “mediatori”, che fanno finire i fondi nelle tasche di quegli alti funzionari colpiti dal congelamento dei patrimoni e da altre restrizioni internazionali imposte dall’Unione europea. L’ultima tranche di sanzioni è scattata a ottobre contro sette ministri del governo del presidente Bashar Al-Assad, portando a 280 il numero di alti esponenti dello Stato che Bruxelles ritiene responsabili dei crimini commessi nel conflitto scoppiato nel 2011. I testimoni hanno riferito di dover pagare ogni volta l’equivalente di 2-3.000 euro, ma la somma per i siriani rifugiati all’estero lieviterebbe sensibilmente, arrivando anche a superare i 30.000 euro. L’autore del report e direttore di Adms, Diab Serrih, ha parlato di “un’industria della detenzione”. “Il regime siriano- ha continuato Serrih- è costruito sugli apparati di sicurezza e l’intelligence. Pagano salari bassi per stimolare la corruzione, cosi’ le tangenti servono a finanziare questa ‘infrastruttura’ detentiva”. Ha inoltre parlato di “un governo ombra che guida il Paese”. Come denunciano le organizzazioni per i diritti umani locali, prima dello scoppio del conflitto civile, nel 2011, tra le 100.000 e le 250.000 persone erano detenute nelle carceri siriane. Un numero che è nettamente aumentato con la guerra, coinvolgendo migliaia di manifestanti, attivisti, oppositori del governo del presidente di Bashar Al-Assad, oltre ai combattenti fatti prigionieri durante il conflitto. Una quantita’ di persone che una volta finite nelle maglie del sistema giudiziario siriano, difficilmente ne riemergono. Negli anni diversi report delle ong hanno testimoniato le violenze, le torture e le uccisioni patite dai detenuti. Ora quest’ultima inchiesta getta luce su una nuova dimensione del conflitto che il 15 marzo entrera’ nel decimo anno. In Algeria Hirak e repressione si spostano online: tre anni di galera per meme sui social di Stefano Mauro Il Manifesto, 6 gennaio 2021 Il caso di Walid Kechida, accusato di offese alla religione e a esponenti del governo. Ma non è il solo. E in vista delle elezioni una nuova legge ufficializza la censura dei giornali online. Con una condanna a tre anni nei confronti del giovane internauta Walid Kechida si è aperto il 2021 in un clima di crescente repressione della libertà di espressione in Algeria. “Il momento è veramente difficile e dobbiamo mobilitarci tutti insieme contro il regime, Walid (Kechida) è stato condannato - ha detto ad Afp Kaci Tansaout, coordinatrice del Comitato nazionale per la liberazione dei detenuti (Cnld) - con l’accusa di aver pubblicato “meme” e vignette che deridevano gli esponenti del governo e la religione su Facebook”. La procura di Setif aveva chiesto cinque anni di carcere lo scorso 27 dicembre per “insulto al presidente” e “violazione dei precetti dell’Islam”, diventati poi tre con la sentenza di lunedì. Un moto di proteste ha occupato i principali social del paese con l’hashtag #FreeWalidKechida, segno di protesta nei confronti del regime che “continua la sua vendetta contro i militanti dell’Hirak” A causa della pandemia dallo scorso marzo le proteste in strada del movimento si sono interrotte, ma non quelle attraverso il web, con un progressivo aumento della repressione nei confronti di attivisti e giornalisti come Khaled Drareni, condannato a due anni, o Mustapha Bendjama, direttore del quotidiano Le Provincial, accusato di aver “attaccato l’interesse nazionale” per le sue pubblicazioni sui social. Più di 90 persone sono attualmente detenute in Algeria in relazione alle proteste dell’Hirak, con cinque detenuti in sciopero della fame nel carcere di El Harrach, ad Algeri, per “denunciare questa dura repressione”. Secondo il Cnld, i vari processi si basano, almeno nel 90% dei casi, su pubblicazioni critiche nei confronti delle autorità sui social. Monitoraggio dei contenuti, procedimenti giudiziari e censura dei media elettronici: se il ministro delle Comunicazioni, Ammar Belhimer, ritiene che “non ci siano prigionieri di coscienza in Algeria”, numerose ong, prima tra tutte Reporters Sans Frontières (Rsf), ritengono che “il cappio si stia stringendo su internet”. In quest’ottica viene contestata la nuova legge che punta, secondo le opposizioni politiche, “a controllare i media online, sia dal punto di vista tecnico che editoriale”, dopo che già nel 2020 almeno dieci siti di notizie (Radio M, Maghreb Emergent, Interlignes, Casbah Tribune) sono stati censurati dalle autorità. Il decreto, che concede un anno di tempo ai media per conformarsi alle nuove disposizioni, impone ai quotidiani di “fornire informazioni sui finanziamenti e di conservare un archivio di tutti i contenuti per almeno sei mesi”. L’hosting del sito dovrà essere “domiciliato esclusivamente” in Algeria e per i siti che pubblicano in una lingua straniera ci dovrà essere “il consenso dell’autorità responsabile della stampa elettronica”. “Il governo mantiene la sua road map autoritaria e decide un altro colpo di stato in preparazione delle elezioni legislative, queste dure sentenze ne sono la conferma”, ha denunciato su Twitter Said Salhi, vicepresidente della Lega algerina per i diritti dell’uomo (Laddh). Le elezioni legislative sono previste per il 2021 in Algeria e il presidente Tebboune - rientrato dalla Germania il 30 dicembre, dopo due mesi di assenza a causa della degenza da coronavirus - ha reso prioritario lo sviluppo della nuova legge elettorale e ha validato la nuova costituzione (votata con una bassa affluenza il 1° novembre), ampiamente criticata dalla società civile perché “attribuisce troppo potere al presidente della Repubblica a discapito del potere giudiziario e politico”.