“Buttate via la chiave”: così si è parlato di carcere nell’anno del Covid di Teresa Valiani redattoresociale.it, 5 gennaio 2021 “Morti”, “populismo penale” e “cambiamento” sono i termini che meglio descrivono gli ultimi 12 mesi secondo il Garante nazionale Mauro Palma. Poi c’è tutta la narrazione che “non analizza a fondo i fenomeni e influisce sulla politica”. “Deve marcire in galera”, “Buttate via la chiave”. Nemmeno il Covid è riuscito a disinnescare il perverso meccanismo che lascia marcire in galera anche il dettato della nostra Costituzione. Anzi, “l’asprezza accentuata dalla pandemia ha acuito il fenomeno di richiesta populista di penalità, di diminuzione della pietas e di irrazionalità nell’intervento penale, spesso in conseguenza di campagne di opinione sui media”. Dalle “scarcerazioni facili” alle rivolte che a marzo hanno infiammato gli istituti di pena, dal “populismo penale” al sovraffollamento. E, su tutto, il Covid. Con una narrazione che “risente sempre della necessità di non analizzare a fondo i fenomeni perché questi inevitabilmente proietterebbero interrogativi sulla nostra complessiva società”. Il garante nazionale Mauro Palma ripercorre per Redattore Sociale il 2020 delle carceri italiane partendo dal linguaggio con il quale un periodo tanto complesso è stato raccontato. Se dovesse utilizzare tre termini per definire il 2020 delle carceri italiane, quali sceglierebbe? “Sceglierei: morti, populismo penale, cambiamento. Morti, perché non è possibile descrivere l’anno trascorso senza ricordare che per la prima volta, dopo decenni, 14 persone sono morte in carcere a seguito delle manifestazioni violentemente sviluppatesi all’apparire della prima chiusura dei rapporti con l’esterno. Sullo sviluppo di queste ‘rivoltè, sulle conseguenze e sulle possibili responsabilità indaga la magistratura. Resta il fatto che il loro sviluppo è correlato a quell’ansia che l’espansione del virus ha determinato in tutti noi e ancor più nei luoghi dove la possibilità di movimento è preclusa. Resta la valutazione dell’incidenza che la nuova situazione ha determinato in tutti in termini di riduzione dello spazio relazionale di mediazione e di asprezza delle difficoltà preesistenti: un mutamento direi di paradigma che è divenuto molto più determinante dove fragilità e sofferenza già erano ampiamente presenti. Il carcere, del resto, conosce spesso - troppo spesso - la morte, basti pensare al numero di suicidi, peraltro aumentato nell’anno trascorso: eppure quelle morti di marzo 2020 interrogano ancora di più e danno l’immagine di una sconfitta collettiva”. “Populismo penale, perché l’asprezza accentuata ha acuito il fenomeno di richiesta populista di penalità, di diminuzione della pietas e di irrazionalità nell’intervento penale, spesso in conseguenza di campagne di opinione sui media. Basti pensare alla gazzarra scatenata attorno a una presunta direzionata clemenza verso persone responsabili di reati di grande criminalità, ‘meritevoli’, a parere di chi urlava, di un castigo secco, reclusivo, indipendentemente da quella doverosa attenzione alle condizioni di specifica vulnerabilità dal punto di vista della salute, in un momento di larga diffusione del contagio. La campagna mediatica su presunte ‘scarcerazioni facili’ ha finito con l’influire anche su decisioni normative, su decreti subito adottati sulla spinta di tale clamore”. “Cambiamento, perché in questo panorama piuttosto fosco, alcune tracce di cambiamento hanno invece ripreso a essere percorse. Non è solo la riduzione dei numeri, la sensatezza delle parole di chi ha invitato a un ricorso più contenuto alla custodia cautelare in carcere. È anche l’aver constatato direttamente quanto l’attuale connotazione sociale della popolazione detenuta evidenzi una carcerazione prevalentemente segnata da mancanza di sostegno nel territorio, di mancanza di abitazione, di istruzione, di una rete che garantisca supporto a chi è socialmente debole. Tutti temi che stanno riaprendo la strada a riconsiderare come sia necessario ricorrere a forme diverse di esecuzione penale per un insieme di reati o per accompagnare le persone al ritorno nella società quando si approssimi la fine dell’esecuzione della sentenza loro inflitta. Temi che due anni fa erano stati cancellati dall’agenda politica e che ora, timidamente, stanno riaffiorando”. Il cronico problema del sovraffollamento, il cambio ai vertici del Dap, le rivolte di marzo, la situazione esplosiva dell’ultimo trimestre e su tutto il Covid. Come è stato raccontato tutto questo dalla stampa? “Lo storytelling di queste vicende risente sempre della necessità di non analizzare a fondo i fenomeni perché questi inevitabilmente proietterebbero interrogativi sulla nostra complessiva società e sulla tipologia dei rapporti al suo interno. Si evita l’interrogativo sulla nostra ‘parte malata’: ma è un tentativo effimero di eludere il problema perché il non interrogarsi su di essa finisce con non farci comprendere nulla anche della parte supposta ‘sana’. Così il dibattito sul carcere ha nella grande diffusione mediatica solo due direttrici: quella di leggere tutto il carcere come abitato da appartenenti alla criminalità organizzata - che rappresenta soltanto un quinto della totalità di coloro che vi sono ristretti - e quella di interrogarsi sui numeri, cioè l’affollamento, i posti, la disponibilità di spazi e ben poco sul resto. Certamente sono due temi seri, ma limitarsi a essi evita di porsi domande sulla questione più generale di quale sia la sensatezza di una esecuzione penale che sta rischiando di lasciare la finalità costituzionalmente definita come mera variabile di sfondo, utile per convegni ma avulsa dalla concretezza quotidiana, e che neppure soddisfa quel desiderio di retribuzione per quanto commesso che sempre più viene stimolato nella collettività esterna, anche con frasi del tipo ‘buttare la chiavè, ‘deve marcire dentro’ ecc. In sintesi, il problema più impellente che la narrazione carceraria non coglie è quello della ‘produttività’ di una risposta alla commissione del reato che attualmente restituisce le persone alla società nella stessa situazione soggettiva e oggettiva da cui provengono, senza aver costruito per esse un percorso di ritorno utile: non solo affinché nessuna persona sia definitivamente ‘persa’, ma anche affinché possa configurarsi effettivamente una maggiore sicurezza per tutti”. Su cosa i media si sono soffermati poco e su cosa troppo? “Forse la questione meno esaminata è proprio quella dei reati di lieve entità e di coloro che, autori di tali reati, finiscono in carcere perché sono espressione di altre assenze fuori dal carcere, prima della commissione del reato. Il diritto penale dovrebbe agire in funzione sussidiaria, dopo che altre modalità di gestione delle complessità e dei conflitti abbiano agito e inutilmente. Solo così si riduce la sua funzione onnivora che oggi caratterizza il ricorso a esso. In tale ipotesi, il ricorso al carcere, cioè alla privazione della libertà e, quindi, alla esclusione della persona dal contesto sociale deve essere misura estrema a cui giungere solo dopo aver esplorato altre vie sanzionatorie che stabiliscano la non accettabilità di quanto commesso, diano alla vittima la consapevolezza che la collettività considera inaccettabile quanto essa ha subito - così sentenziando torto e responsabilità - ma al contempo delineino un percorso del graduale riannodarsi di quel filo che la commissione stessa del reato ha reciso. Tutto ciò scompare nella trattazione che i media fanno della risposta al reato. Troppo spesso sono al contrario dei potenti costruttori di una richiesta secca di carcere e, come tali, contribuiscono a rendere effimera e residuale la connotazione che la Costituzione assegna alle pene e alla loro esecuzione. Il linguaggio, in particolare, diviene un potente costruttore di una mentalità che sembra affidare al non vedere, al rinchiudere al di là di muri e cancelli ciò con cui si ha difficoltà a misurarsi”. I numeri del 2020? “I numeri della popolazione detenuta sono andati calando nel corso dell’anno, quando si sono adottati provvedimenti legislativi - molto timidi - per far sì che si potesse prevedere l’isolamento di persone che dovevano essere poste in quarantena o in isolamento precauzionale. E per far sì che quelle prescrizioni profilattiche di distanziamento tra persone, di areazione degli ambienti, di igiene complessiva non suonassero meno distanti dalla realtà che si viveva invece negli istituti penitenziari. Il numero delle persone detenute presenti è sceso a 52.221, a partire dal valore di oltre 60.000 raggiunto nel gennaio scorso e che nei primi due mesi era andato ancora crescendo. Sempre troppe le persone per quanto la capienza regolamentare ne preveda e la cautela obbligatoria per fronteggiare eventuali focolai di contagio ne richieda. I posti regolamentari e realmente disponibili sono attorno ai 47.000 e questo dato è già di per sé eloquente anche in situazione normale; ancor di più nella situazione in cui stiamo vivendo. I numeri del contagio sono stati molto contenuti nella prima fase, con meno di 300 persone detenute contagiate; ben diversi invece nella seconda ondata, con focolai improvvisi anche di cento persone nello stesso istituto e sorti improvvisamente, fino a raggiungere il livello, per diversi giorni, di più di mille persone. Va tuttavia considerato che per la stragrande maggioranza si è trattato di situazioni asintomatiche: coloro che hanno sviluppato la malattia non sono stati mai più di cento nello stesso giorno. Dietro questi numeri ci sono alcuni decessi: quattro nella prima ‘ondata’, altrettanti, finora, nella seconda. Imprescindibile è la necessità di considerare il mondo chiuso della detenzione come uno dei ‘luoghi’ prioritari per la vaccinazione, tenendo conto della peculiarità di tale mondo interno e della frequente fragilità sanitaria di chi vi è ristretto”. Le sfide che ci aspettano nel nuovo anno? “Ne enuncio due, semplici da dire, ma difficilissime. La prima è ricondurre la situazione alla maggiore normalità possibile: quella della riapertura, in sicurezza, a quelle presenze esterne e a quelle attività che sono sempre state elemento di valore del nostro sistema detentivo. Perché oggi i corridoi delle carceri sono diventati vuoti e sordi e il rischio del perpetuarsi di tale situazione è che si consolidi un modello detentivo meramente custodiale. La seconda è che si torni a riflettere su quel plurale che la nostra Carta utilizza nel parlare di ‘penè, in ciò prevedendo forme di risposta sanzionatoria diversa dalla privazione totale della libertà, e che, parallelamente, per le pene detentive, si torni a riflettere sulla positività di misure alternative dopo una parte della loro esecuzione, volte a un graduale, accompagnato e controllato ritorno alla libertà. Evitando che l’unico accompagnamento sia quello del chiudere il portone alle spalle, dopo una detenzione tutta chiusa in un mondo separato”. Covid in carcere, rischio terza ondata: “Servono i vaccini” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 gennaio 2021 La situazione rischia di generare: 50 i contagi nell’istituto di Venezia e un focolaio a Rebibbia. La garante di Roma: “Non si può isolare il carcere ancora a lungo”. Si sta riproponendo lo stesso schema tra la prima ondata del Covid 19 e la seconda. I numeri del contagio all’interno delle carceri, seguendo l’andamento nazionale, si sono apparentemente stabilizzati e così il Governo ha l’alibi per far bastare le misure - dichiarate insufficienti dagli addetti ai lavori - introdotte dal decreto ristori da poco convertito in legge. Eppure, esattamente come l’inizio della seconda ondata, ci sono campanelli d’allarme da non sottovalutare. Ad esempio c’è il carcere veneziano di Santa Maria Maggiore dove il numero dei contagiati da Covid 19 accertati all’interno della struttura è salito ad una cinquantina, tra cui anche cinque agenti di polizia penitenziaria. Per evitare che il virus si possa propagare ulteriormente, la direzione della casa di reclusione ha realizzato tre reparti Covid per cercare di garantire il massimo isolamento e ha dotato il personale dei presidi necessari ad operare in sicurezza. Ovviamente non manca la preoccupazione, sia da parte degli agenti che dei detenuti, i quali temono di poter essere contagiati e di potersi ammalare seriamente. Nella serata tra il 30 e il 31 gennaio si è svolta una protesta pacifica, nel corso della quale i detenuti hanno sbattuto le suppellettili contro le sbarre delle celle per richiamare l’attenzione e sollecitare l’adozione di tutte le iniziative necessarie per garantire la sicurezza sanitaria all’interno di Santa Maria Maggiore. Un nuovo focolaio si è riscontrato a Rebibbia Nuovo Complesso, in particolare nella sezione Alta Sicurezza. Fa sapere la garante dei detenuti del comune di Roma Gabriella Stramaccioni che si tratta già di circa una ventina di persone che sono state isolate e spostate in una sezione appositamente allestita. La garante ha espresso preoccupazione in quanto con l’interruzione delle attività di questi mesi e con l’obbligo di tampone negativo per i pochi volontari ed operatori che entrano, “significa che qualche falla nel sistema dei controlli avviene”. Da quello che i familiari stessi hanno riferito alla garante Stramaccioni, ci sono ancora nuovi arrivi ed addirittura trasferimenti da altri istituti (che dovevano invece essere bloccati in questi mesi). Oltre al nuovo complesso, si aggiungono anche altri sette casi registrati nel carcere a custodia attenuata della terza casa di Rebibbia. “Ribadisco - spiega la garante di Roma - l’importanza dell’appello dei Garanti e della Senatrice a vita Liliana Segre affinché il vaccino alle persone detenute sia somministrato al più presto. Non si può isolare il carcere ancora per molto tempo”. Una preoccupazione espressa anche da Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, che ricorda: “Già il 17 dicembre scorso avevamo posto il tema della vaccinazione dei detenuti, oltre che degli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria e dei restanti operatori delle carceri, che per molti versi possono essere assimilati agli ospiti delle Rsa, essendo anche loro ristretti in luoghi ad alta trasmissibilità e, molto spesso, affetti da comorbilità”. Da una parte la necessità dei vaccini, dall’altra il distanziamento fisico e l’isolamento sanitario che nelle carceri diventa difficoltoso a causa degli spazi già tutti occupati. Ci sono ancora troppi detenuti, mentre ci si appresta ad affrontare una nuova ondata. Eppure, questa situazione di sovraffollamento non dovrebbe esserci nemmeno nelle condizioni normali. Figuriamoci durante una pandemia. Come ha detto il collegio del garante nazionale già lo scorso 3 aprile, “occorre intervenire in maniera significativa tenendo presente entrambe le dimensioni che l’intervento deve avere: la dimensione della consistenza numerica perché l’affollamento non abbia a superare il 98% della disponibilità”. Ma se non si interviene con misure deflattive più incisive, il sovraffollamento è destinato ad essere sempre superiore al 100%. Interventi chiesti anche dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini parlandone direttamente con il premier dopo 35 giorni di sciopero della fame. Ma nulla di fatto. Sembrava che avesse recepito, ma durante la conferenza di fine anno, il presidente del Consiglio ha dichiarato che è tutto sotto controllo nelle carceri. Per questo motivo, Luigi Manconi e Giovanni Maria Flick - i primi ad essere ricevuti dal premier per parlare dell’emergenza carceraria -, hanno sottoscritto una lettera aperta pubblicata su Il Dubbio dal titolo “Caro Conte come non detto: sul carcere non ci siamo capiti”. “I contagi galoppano, lo Stato estenda la possibilità di liberazione anticipata” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 gennaio 2021 La lettera dei detenuti del carcere di Torino al Dubbio. “Aumentano i contagi, aumenta l’angoscia, s’incrementa la rabbia e la sfiducia!”. Così scrivono, in una lettera a Il Dubbio, i detenuti e le detenute del carcere di Torino, preoccupati per il Covid 19. Manifestano, soprattutto, la delusione a proposito delle misure deflattive introdotte dal governo. “Facciamo presente - denuncia la popolazione detenuta - che qui a Torino sono state dichiarate ammissibili solo 16 istanze, soggette comunque alla discrezionalità dei magistrati di sorveglianza”. Davvero poca cosa, a fronte di 1.300-1.400 detenuti del carcere piemontese. Nella lettera, i reclusi sottolineano il fatto che l’articolo 30 (la detenzione domiciliare) inserito nel decreto ristori ha creato, di fatto, delle diseguaglianze rispetto al diritto alla salute. Sì, perché vengono esclusi i condannati rientranti dei reati cosiddetti ostativi (4 bis) e anche chi ha reati minori ma una pena superiore ai 18 mesi. “Hanno meno diritti di altri?”, si chiedono sempre i detenuti e detenute del carcere di Torino. “Il sovraffollamento non si riduce - scrivono ancora nella lettera -, i contagi galoppano, queste “soluzioni” prese dallo Stato non ci bastano!”. Osservano anche che il loro diritto all’affettività ne risente moltissimo durante questa seconda ondata, “pur essendo una tutela anche per i nostri cari - sottolineano i detenuti - il blocco di colloqui e permessi grava sui nostri stati d’animo e su quello dei nostri affetti”. Chiedono il rispetto della loro dignità, perché “questo sacrificio non era previsto nelle nostre sentenze” e “almeno in un momento come questo, di totale e straordinaria emergenza, ci aspettiamo l’uso della civiltà”. Ma quindi cosa chiedono i detenuti e detenute del carcere di Torino? “Chiediamo la modifica dell’articolo 30 del decreto ristori, misure meno afflittive estese a tutta la popolazione detenuta”. Ma soprattutto, ci tengono a sottolineare, sostengono chi protesta e sciopera pacificamente. Questo per chiedere di “aumentare la liberazione anticipata, proposta legge di Nessuno tocchi Caino e del deputato Roberto Giachetti”. Una richiesta “con effetto retroattivo al 2015, anno in cui viene sospesa la liberazione anticipata speciale ed estesa a tutta la popolazione detenuta”, perché il Covid-19 non “chiede se hai o meno l’ostativo”. Non c’è nulla di male se vogliamo vaccinare per primi i carcerati di Sebastiano Ardita* Il Domani, 5 gennaio 2021 Non è questo il terreno sul quale rivendicare la parità formale di trattamento tra detenuti e liberi. Il tema della priorità dei vaccini da somministrare in ambiente penitenziario è un argomento rilevante, non solo per definire le politiche sociali nel nostro paese, ma anche come test di coerenza delle scelte complessive in materia di Covid e carcere. Per bocca del sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis abbiamo appreso che l’orientamento sarebbe che i detenuti siano vaccinati con gli stessi criteri dei cittadini liberi. Questa è una scelta a mio avviso sbagliata, non in linea con il principio del welfare rafforzato che tutela la salute in ambiente penitenziario - come hanno spiegato bene due giorni fa su Repubblica Mauro Palma e Liliana Segre - ma soprattutto pericolosa in termini di politica criminale. Non mi sembra questo il terreno sul quale rivendicare la parità formale di trattamento tra detenuti e liberi. In primo luogo perché le due categorie non sono sullo stesso piano e, in base al secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, meriterebbero trattamenti diversi. Ma soprattutto perché, su questa delicata materia, vi è la necessità di mantenere la coerenza delle scelte: ossia di rendere chiaro, una volta per tutte, se si ritiene vera o meno la circostanza che il virus si propaghi più facilmente in carcere e adeguarsi poi a questa valutazione. La ragione per decidere di negare la priorità del vaccino a chi sta in carcere potrebbe fondarsi solo su una valutazione certa del governo che ritenga non sussistente un maggiore pericolo di contagio e che l’infezione sia gestibile in ambiente penitenziario allo stesso modo di come si affronta all’esterno. Ma se così fosse non si comprende perché continuino a favorirsi le detenzioni domiciliari con braccialetto, anche per detenuti pericolosi, proprio sul presupposto del pericolo di Covid, consentite sulla base del decreto Cura Italia poi convertito in legge. Se solo vi fosse il dubbio che il pericolo di infezione sia rafforzato tra le sbarre, visto che da più parti si continuano a invocare ulteriori provvedimenti eccezionali e indulti, una scelta molto più razionale sarebbe quella di vaccinare tutti i reclusi presenti e tutti gli operatori penitenziari: e poi di vaccinare in ingresso i nuovi giunti e tenerli separati dalla restante popolazione detenuta fino a che il vaccino non abbia efficacia. Questa misura, che si giustifica ampiamente con le considerazioni esposte da Segre e Palma, avrebbe anche l’effetto di evitare quella temuta esplosione incontrollata dell’epidemia che sinora si era prevenuta favorendo il ricorso alle detenzioni domiciliari. Inoltre non va dimenticato che in carcere operano agenti, direttori, funzionari e altri operatori, che sono particolarmente esposti al virus e il cui bilancio di morti e contagiati risulta essere pari se non superiore a quello dei reclusi. Una delle grandi omissioni del dibattito recente sulle carceri riguarda proprio il sacrificio di questi operatori e la loro funzione strategica rispetto al buon funzionamento della macchina penitenziaria. L’espressione più gentile che si usa nei loro confronti è che “sono vittime anch’essi di un sistema senza speranze che è il carcere”. Questo è un modo sbagliato e ingeneroso di porre la questione. Nella sua storia l’amministrazione penitenziaria ha dato grande prova di coraggio e di sacrificio, e ha rappresentato non solo un baluardo per la sicurezza dello stato, ma anche un presidio per la rieducazione e il recupero dei condannati. Oggi paga le conseguenze di anni di omissioni e inefficienze nella gestione politico-amministrativa delle carceri, mentre sarebbe facile ripartire e costruire un carcere della speranza puntando sul lavoro di agenti, direttori e funzionari. A cominciare dalla gestione pianificata ed efficace di questa emergenza, che non può prescindere dal dare priorità al vaccino per chi vive e opera in quell’ambiente. Se poi il problema è dato da ciò che potrebbe pensare l’opinione pubblica, credo che nessun cittadino preferisca un indulto o una liberazione speciale a una dose di vaccino somministrata con priorità. Sarebbe sufficiente saperlo spiegare oggi con parole chiare, piuttosto che doversi giustificare domani del fatto di essere stati costretti a scarcerare altri diecimila condannati perché la situazione è sfuggita di mano. *Magistrato Indignano più le bestie che gli uomini in gabbia di Iuri Maria Prado Il Riformista, 5 gennaio 2021 Si dice spesso che se la gente visitasse un allevamento di animali - porci, vacche, tacchini, uno qualsiasi - diminuirebbe il consumo di carne perché lo spettacolo di quella costrizione fa disgustosa anche la sola idea di ingurgitarne le vittime. E magari i visitatori di quelle anticamere di carnaio non si trasformerebbero tutti in animalisti militanti, ma appunto a molti di loro ripugnerebbe di lì in poi di nutrirsi ancora di quegli esseri tenuti in vita il tanto che basta a diventare l’alimento altrui. Non sono sicuro che un’analoga rivolta sentimentale si registrerebbe se anziché di bestiame si trattasse di esseri umani detenuti, e se dunque la visita fosse organizzata in un carcere piuttosto che in un macello. Non sarebbe meno istruttiva, a cominciare dal fatto che le condizioni di igiene e sicurezza normalmente assicurate nelle prigioni per umani sono mediamente più blande rispetto a quelle che una legislazione assai più protettiva impone a chi tratta animali. E si potrà dire che i detenuti non sono destinati al macello, ma l’obiezione non calza e anzi dimostra l’appropriatezza del paragone: essi non hanno l’utilità delle bestie, servono tutt’al più a placare la fame tutta diversa di una società che crede di trovare nutrimento risarcitorio in quella segregazione, ma non c’è rischio che diventino cibo velenoso o indigesto e dunque sono per loro superflui i protocolli di garanzia che assistono la salute della scrofa o del bue. Ora io non ricordo esattamente quanti fossero i cinghiali finiti nel Naviglio milanese qualche settimana fa, o quelli abbattuti più recentemente in un giardinetto romano. Erano tuttavia meno di tredici, che è il numero dei detenuti morti in un solo giorno del marzo scorso senza che la cosa abbia smosso un centesimo dell’attenzione - che, per carità, va benissimo - invece dedicata alla triste fine di quei mammiferi. Una cerva imprigionata nel ghiaccio d’un lago o una femmina di leone salvata dal filo di ferro che sta soffocandola raccolgono la simpatia telematica di milioni di like, ma se non c’è niente di simile per il detenuto torquato del laccio che lo impicca non è perché un residuo di rispetto impedisce di fotografarlo: è perché non gliene frega niente a nessuno. Non so se avesse ragione Marguerite Yourcenar quando scriveva che ci sarebbero stati meno bambini martiri e meno vagoni piombati se non avessimo fatto l’abitudine ai furgoni pieni di animali condotti al macello. La realtà è che la produzione di detenuti costituisce un’industria a cui siamo tanto più abituati quanto più ci abituiamo a vergognarci di quella della produzione animale. E mentre reclamare l’abolizione degli allevamenti non è ancora maggioritario ma è già socialmente accettabile, vagheggiare la fine del carcere è semplicemente bestemmia. Forse vale l’opposto, allora: assisteremmo a meno crudeltà negli allevamenti se non assistessimo senza perplessità a quella nelle galere. E mangeremmo forse meno animali se non fossimo abituati a sfamare i nostri desideri di giustizia con la detenzione altrui. Ora riformare questa giustizia che uccide la vita e l’economia di Marco Bentivogli* Il Dubbio, 5 gennaio 2021 In un Paese in perenne ritardo su tutto - in ultimo i pasticci sull’assenza di un piano vaccini - sono però puntualissime e funzionali le polemiche forcaiole e giustizialiste. E in un paese che non funziona è “utile” aprire un dibattito pretestuoso sui vaccini ai carcerati: serve a catalizzare gli istinti beceri, a distrarre dalle incapacità e dalle incompetenze. Qualche giorno fa, in un memorabile pezzo su Il Foglio, il Prof. Giovanni Fiandaca metteva in fila tutte le questioni. La condizione carceraria italiana è una vergogna del nostro paese. L’utilizzo esclusivo della detenzione senza nessun’idea di custodia della persona e del suo reinserimento non cura mali sociali e criminalità ma li esalta. Le carceri italiane sono il frustino che il paese agita per esorcizzare le proprie responsabilità. Ma la demagogia punitiva non ha alcuna efficacia. Dati del 2018: il 68% dei detenuti in carcere torna a delinquere, mentre il tasso di recidiva di chi può giovare di misure alternative al carcere crolla al 19%. Gli sfottò contro i parlamentari che si sono recati in visita nelle carceri sono la schiuma di una cultura politica retrograda. E c’è ancora più da fare quando si sente un Ministro della Giustizia dire: “Gli innocenti non finiscono in galera”. Dovrebbe sapere che l’imputato solo al termine del processo viene giudicato “assolto”. E si può parlare di “ingiusta detenzione” e si parla di “errore giudiziario” dopo 3 gradi di giudizio che spesso arrivano in tempi biblici, aggravati dopo l’abolizione della prescrizione di cui l’attuale Governo è responsabile, come lo è dell’assenza di una vera riforma sulla giustizia civile. Dal 1992 (anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze) al 30 settembre 2018, si sono registrati oltre 27.200 casi di ingiusta detenzione. In media 1.007 innocenti finiti in custodia cautelare ogni anno. Insomma, mille persone ogni anno varcano la soglia del carcere, per poi essere assolte. La condizione carceraria è un’emergenza e un paese che ha bisogno di patiboli e che non sa rieducare non ha speranza. Va ringraziato chi lavora, anche da volontario, nelle nostre carceri e Bonafede, Salvini e Meloni dovrebbero andare a parlare con Ristretti Orizzonti a Padova e sforzarsi di ascoltare e capire, magari evitando i citofoni. A marzo 2020, proprio a inizio epidemia Papa Francesco aveva pregato di tutelare le persone vulnerabili anche perché costrette a vivere in luoghi sovraffollati. Aveva “osato” accostare gli anziani nelle Rsa con i carcerati, quasi un reato in un paese con la bava alla bocca e che vive di parallelismi utili solo a tenere basso il livello della politica. Come quando vengono accostati i terremotati nelle tende e gli immigrati col wi-fi; i carcerati vaccinati con i cittadini onesti senza lavoro. (Questi giorni si scopre peraltro che i soldi per “i terremotati” ci sono da anni ma non si spendono per il combinato disposto di politici inadeguati e burocrati esperti in slalom di irresponsabilità e terrorizzati dall’ “abuso di potere” e dal “danno erariale”). Per chi, dopo 2000 anni, ha ancora bisogno dei distinguo nella custodia della vita è uno scempio, lo stesso per cui produce bile contro i carcerati e non muove un dito per anziani e disabili. Ma l’indignato forcaiolo si sente di promuovere giustizia con semplicità e tra qualche bestemmia lo sentiamo gridare: “se fosse per me”. Ma auguro a tutti voi di non dover mai andare a trovare una persona a cui volete bene reclusa in prigione. Ha ragione Fiandaca, questo è un gruppo dirigente che non ha nessuna conoscenza di diritto e dunque, aggiungo io, è pericoloso per il paese. “Gettare le chiavi”, “a pane e acqua”, sono gli slogan primitivi di uso comune di cittadini e politici la cui rettitudine non è poi così specchiata. E per questo i loro tabloid forcaioli li usano solo contro i “nemici”. La recente magistropoli di cui solo il Riformista e il Dubbio hanno parlato è inquietante. L’autoreferenzialità è la parabola degenerata della separazione dei poteri dello Stato. C’è troppo giornalismo che non fa domande, che distrugge le persone senza appello. Le rivelazioni delle indagini in corso danneggia gravemente la ricerca della verità. Il processo a Ottaviano del Turco è un esempio di scuola (tra i tanti) in cui dopo non aver trovato prove, ci si è occupati di distruggerlo nella vita privata. L’uso dei trojan e delle intercettazioni, legittimato dal Governo, è diventato disponibile e alla mercé di poteri di ogni tipo. Non è un caso che la discussione sui “Servizi” di intelligence del paese siano un terreno di scontro in cui è sempre più chiaro che anche nel Governo è assente una cultura istituzionale che li consideri davvero al servizio della nostra Repubblica. E di nessun altro. Le riforme si fanno ascoltando ma mai subendo i veti delle corporazioni né tanto meno gli interessi di casta mascherati da interessi generali. La nostra giustizia ingiusta uccide la nostra economia e lo stato di diritto. Serve più coraggio. Ed è per tutti questi motivi che voglio augurare alla nuova avventura di questo giornale di non smettere mai di pungolare il “dubbio” dei vincitori, dei demagoghi, di chi ha dimenticato cosa ci lega gli uni agli altri e di chi è ben lontano da recuperare la compassione. *Coordinatore nazionale di Base Italia Magistratura a pezzi: il ruolo importante dell’Anm di Alberto Cisterna Il Riformista, 5 gennaio 2021 La crisi innescata dalla vicenda Palamara ha mandato in frantumi il pantheon della magistratura italiana, trasformandolo in un discutibile reliquiario con le frasi e le foto dei giudici uccisi usati come soprammobili. L’anno appena trascorso sarà studiato a lungo e non solo sotto il più scontato profilo sanitario. Le istituzioni di ogni Paese sono entrate in uno stato di fibrillazione dal quale stentano a riprendersi e in Italia questo è successo più che altrove. Governo, Regioni, Parlamento, la pubblica amministrazione in generale hanno dato la sensazione di uno sfarinamento complessivo, di una insuperabile difficoltà a fronteggiare le mille emergenze che affliggono il paese, con il risultato di condurlo dopo un lungo e doloroso abbrivio - alla paralisi quasi assoluta che si sta consumando in queste settimane. Niente vaccini, contagi alle stelle, crisi economica, ritardi nella programmazione economica, leggi finanziarie approvate all’ultimo secondo. In tutto questo fluttuare di incertezze e immobilismi, l’acquitrino si staglia come la meta più probabile dello sfociare di questo fiume irruento e malmostoso. La macchina giudiziaria non ha, anche lei, mancato di offrire inefficienze e manchevolezze. Con una particolarità, tuttavia, che per la giustizia è stato costruito un vero e proprio diritto della pandemia che ha riguardato non solo tutti i settori della giurisdizione, tra cui quella civile e penale, ma anche minutamente sfratti, esecuzioni, regime carcerario, indagini, processi in appello e in cassazione, e quant’altro. Un ordinamento speciale che, man mano, ha preso corpo e si è sostituito a quello vigente prima del Covid-19; un sistema che ha approntato i propri riti, ha disvelato i propri punti di forza e le proprie gravi cedevolezze, ha visto copiosamente all’opera anche puntigliosi e minuti esegeti. Qualcuno ha denunciato che la magistratura, al primo manifestarsi acuto dell’epidemia, si sarebbe collocata in “autoprotezione” con una serrata dei tribunali, coltivando l’idea di una giurisdizione `domestica”, ossia esercitata non nelle aule di giustizia, ma al riparo delle proprie abitazioni, insomma a casa. A questa accusa il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, ha risposto con una certa ruvidezza in una recente intervista ammonendo che “sbaglia chi crede che la magistratura abbia interesse a fare i processi da casa. Quando si potrà torneremo a farli tutti in presenza” per cui le misure valgono “ovviamente soltanto per il periodo dell’emergenza”. Una frase che tende a tranquillizzare le Camere penali, preoccupate dall’idea di una stabilizzazione del precariato normativo del 2020, e a ridare lustro all’immagine della corporazione che si è sentita vulnerata da una simile contestazione che coglie un sentimento diffuso. Nulla di peggio che passare per codardi di questi tempi, con tanta gente che rischia la vita ogni giorno. Potrebbe apparire che questo sia l’ultimo dei problemi con cui la magistratura è chiamata a fare i conti dopo l’affaire Palamara, ma la presa di posizione del presidente dell’Associazione non è casuale. Il credito che si è riversato sulle toghe italiane dopo la stagione della mattanza terroristica e mafiosa è stato enorme e, tuttora, resta grande. La prossima beatificazione di Rosario Livatino con le stimmate del martirio cristiano ne è solo l’ultima, importante manifestazione. In questi decenni, certo, non erano mancati scandali, inefficienze, deviazioni o malcostume, ma la crisi innescata dalla vicenda di Luca Palamara ha mandato in frantumi il pantheon della magistratura italiana, trasformandolo in un discutibile reliquiario con le foto e le frasi dei giudici uccisi adoperati come soprammobili sulle scrivanie a uso televisivo o come santini per celebrazioni spesso inquinate dalla presenza dei loro avversari di un tempo. La provocazione delle toghe serrate tra le comode mura domestiche in piena pandemia ha sferzato con durezza un corpo già esangue e febbricitante che non può sopportare di transitare dal sangue di Rosario Livatino alla codardia di don Abbondio. 11 presidente dell’Associazione ha lucidamente avvertito il pericolo di veder andare in frantumi anche gli ultimi bastioni di una fortezza che, per anni e anni, ha resistito a ogni assalto e che, come tutte le fortezze, non per un assedio ha visto aprirsi una breccia nelle sue mura, ma per l’astuzia di un cavallo non a caso chiamato trojan. Non è dato sapere se l’arrocco deciso dalle toghe associate, con la scelta di un presidente di alto valore professionale e conosciuta dirittura morale, riuscirà a evitare lo scacco matto. Al momento si deve registrare che, in piena pandemia, all’interno della magistratura italiana si sono costituiti due altri gruppi, uno dei quali frutto di una scissione che non ha precedenti in quel lato del parlamentino associativo, sinora sempre coeso e compatto. È il segno dei tempi e delle urgenze che premono alle porte della magistratura italiana e che non spingono alla conciliazione e all’attesa. È anche il segno che la corporazione deve, forse, fare i conti con l’ultima maggioranza parlamentare “amica” nella storia recente e che le toghe potrebbero trovarsi - in una posizione di Medita debolezza e perduta credibilità - a doversi confrontare con una classe politica meno incline al compromesso e al dialogo della precedente. La clessidra di questa legislatura corre veloce e l’anno lungi dal portare la moratoria che molte toghe auspicavano, ha solo aggravato la situazione aggiungendo critiche e insofferenza verso la magistratura. Di qui la mossa comunicativa più efficace e rassicurante del presidente dell’Anni: “II caso Palamara non si esaurisce con la vicenda dell’ex leader di Unicost, dal momento che anche vari altri colleghi sono coinvolti” e, poi, la prima indicazione operativa per il futuro della nuova compagine associativa appena eletta: “Su questo fronte sicuramente proseguiremo il lavoro fatto dalla giunta precedente e cioè quello di verificare e di accertare, sulla base delle regole del nostro codice etico, i comportamenti scorretti che sono emersi in quella vicenda”. Un passaggio importante e da non sottovalutare. Se l’azione disciplinare ha dovuto selezionare fatti e condotte secondo regole stringenti, la giustizia deontologica ha altre, e ben più tasche, regole e molti di coloro i quali sono sfuggiti alla prima hanno ben donde si temere la seconda. In questo snodo un impegno preciso che, certo, non sarà indolore per i magistrati associati e per quanti fidavano nella tregua pandemica per rifiatare. La nuova peste non ha reso un buon servigio a tanti e anche alla magistratura italiana di cui ha portato a nudo inefficienze e limiti che ora sono chiari e vanno colmati. In questa tragedia immane bisogna sempre sperare che ogni sventura possa essere un’opportunità, lo auspicava anche il pavido dei pavidi alla morte di don Rogrido: “Ah! - diceva poi tra sé don Abbondio, tornato a casa: - se la peste facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne male: quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni generazione; e si potrebbe stare a patti d’averla; ma guarire, vè”. Ovviamente a guarire. Anm: serve una proroga delle norme di emergenza anche nel civile e penale Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2021 Nel “milleproroghe” prolungata la vigenza della normativa emergenziale per i soli processi amministrativi. L’Associazione nazionale magistrati chiede alla politica un intervento urgente per mettere in sicurezza l’intera attività giurisdizionale. Nel decreto cd. “milleproroghe” infatti è stata espressamente prolungata la vigenza della normativa emergenziale per i soli processi amministrativi. “La mancanza di un’analoga e chiara previsione per i procedimenti civili e penali - si legge in una nota dell’Associazione - sembrerebbe preludere a una imminente ripresa dell’attività giudiziaria interamente in presenza, con conseguenti e inevitabili rischi per la salute degli utenti del servizio giustizia e dei suoi operatori”. “L’attività giurisdizionale - prosegue l’Anm - richiede, per il suo efficiente funzionamento, interventi chiari e tempestivi che consentano, nell’interesse di tutti, la predisposizione di adeguate misure organizzative”. Da qui il “sollecito ad un immediato intervento del Legislatore, che estenda i termini di applicazione della normativa emergenziale - almeno per l’intera durata dello stato pandemico - anche ai settori della giurisdizione civile e penale”. L’inchiesta di Gratteri che ha terremotato la politica calabrese finisce con un flop di Errico Novi Il Dubbio, 5 gennaio 2021 L’ex governatore della Calabria Mario Oliverio è stato assolto perché “il fatto non sussiste”. L’ex governatore della Calabria Mario Oliverio è stato assolto. La decisione del Gup di Catanzaro Giulio De Gregorio perché’ “il fatto non sussiste”. L’ex presidente della giunta calabrese, del Pd, era accusato di abuso d’ufficio e corruzione nell’ambito del processo “Lande desolate”. La Procura aveva chiesto una condanna a 4 anni e 8 mesi di carcere. L’inchiesta si riferisce a presunte anomalie nella realizzazione di tre opere pubbliche. Oliverio ha scelto il rito abbreviato, mentre gli altri imputati saranno giudicati con quello ordinario con udienza fissata per il 7 ottobre. “Sono stati due anni di gogna mediatica, nei miei confronti - ha commentato Oliverio - Ho speso la mia vita e il mio impegno politico e istituzionale avendo sempre come bussola la legalità, la correttezza amministrativa, il rispetto dei diritti e delle persone”. “Ho sempre combattuto in prima fila per il riscatto della mia terra e per la liberazione di essa da tutte le mafie e cricche affaristiche - ha continuato Oliverio - Quella mattina di dicembre del 2018 è come se il mondo si fosse capovolto. Nella mia funzione di massimo responsabile del Governo della Regione venivo sottoposto ad un provvedimento cautelare. Un atto grave non solo per la mia immagine, ma soprattutto per l’immagine della Calabria finita nel tritacarne mediatico e nella macchina del fango. Il solo pensiero che i calabresi, a partire da quelli che avevano riposto in me fiducia, potessero essere indotti a credere che il loro presidente avesse tradito la loro fiducia ed approfittato del ruolo che gli avevano conferito sono stati la più grave ferita e il più grande e insopportabile tormento della mia vita. Sono felice per i miei figli, per i miei cari, ma anche per i calabresi”. “Ora che si è affermata la verità e che la Giustizia, attesa da me in rispettoso silenzio, si è imposta è necessaria una riflessione approfondita - spiega Oliverio - Non posso non ringraziare quanti mi sono stati vicino in questa fase difficile, ma soprattutto ringrazio i miei avvocati difensori Enzo Belvedere ed Armando Veneto che sin dall’inizio hanno saputo impostare una linea difensiva argomentata e forte non solo della verità quanto della lettura giusta delle carte processuali. Esse tutte sin dall’inizio mostravano la mia totale estraneità agli addebiti mossimi con “grave pregiudizio accusatorio”. “Da garantista non posso non accogliere favorevolmente l’epilogo della vicenda giudiziaria legata all’inchiesta lande desolate per l’ex governatore Mario Oliveiro e per la deputata Enza Bruno Bossio” ha commentato il commissario regionale del Partito Democratico della Calabria Stefano Graziano. “Va dato atto della grande correttezza e rispetto istituzionale, di essersi difesi nelle sedi deputate e aver dimostrato l’infondatezza delle accuse”. Così mafiosi e i camorristi usano i social per rinforzare brand e potere di Antonio Crispino Corriere della Sera, 5 gennaio 2021 Tik Tok più che Fb o Insagram è diventata la nuova frontiera della comunicazione mafiosa. “Il dato allarmante è che fanno proseliti anche tra chi non è affiliato”. La fanpage dedicata a Vincenzo Torcasio, alias Giappone, boss di ‘ndrangheta condannato a 30 anni di carcere per omicidio oggi ha 18mila follower. E i numeri crescono anche se è ferma dal 2017. Perché è un vero e proprio manifesto criminale. Nella foto del profilo sono elencati i punti programmatici: “No al libero convincimento dei Giudici; rispetto per i diritti dei Carcerati; Dignità per ogni Detenuto; contro la Tortura del 41 Bis”. Con le parole “carcerati”, “dignità” e “detenuto” scritte in maiuscolo proprio come “giudice”. I Torcasio sono stati protagonisti di una faida di ‘ndrangheta (Torcasio-Cerra contro Iannazzzo-Giampà) durata più di dieci anni a Lamezia Terme (comune sciolto per infiltrazioni mafiose per ben due volte). I follower sono per lo più ex detenuti e familiari. Non solo di carcerati calabresi ma appartenenti un po’ a vari clan di camorra, mafia e ‘ndrangheta. Una sorta di circolo in cui ritrovarsi. Spulciando tra questi, infatti, si arriva facilmente ad altre fanpage su Facebook che fanno riferimento al clan dei “fraulella” di Ponticelli (Napoli), agli Aprea, gli Stolder, Marfè, Sibillo. Quest’ultimo è il baby boss che ha ispirato e ispira ancora oggi le varie paranze dei bambini. Fu ucciso all’età di 19 anni e il suo ritratto compare tra i vicoli di Napoli accanto a quelli di Pino Daniele, Massimo Troisi e Totò. Più che su Facebook e Instagram spopola su Tik Tok. ES17, ossia l’acronimo del nome seguito dal suo numero simbolo raccoglie 235,6k di visualizzazioni, come se fosse un divo del calcio, alla stregua di un CR7. Ed è solo la pagina più vista, ce ne sono altre con meno contatti. Sono centinaia i video in cui si riprendono spezzoni del documentario Sky che ripercorre la sua storia criminale. Ancora di più quelli in cui le ragazzine eseguono il lipsync di Mariarca Savarese, la fidanzata di Es17, che analizza la vita del piccolo boss. “Sono proprio le donne le chiavi d’accesso al social più di tendenza - spiega Marcello Ravveduto, ricercatore del Dipartimento di Scienze Politiche e della Comunicazione dell’università di Salerno -. I criminali gestiscono i social attraverso le donne. Sono più appariscenti, conquistano più seguito e veicolano meglio il messaggio. Spesso i profili sono cointestati perché quando il boss viene arrestato è la moglie che deve gestire la comunicazione”. Fa l’esempio degli Stolder, clan di camorra egemone nel centro storico di cui oltre alle attività criminali nella droga e nel riciclaggio si ricordano le frequentazioni con Maradona e il funerale della sorella del capoclan, Amalia, in stile Casamonica (anche loro attivissimi sui social). Il profilo Facebook si chiama Tonia Lello Stolder, moglie e marito (che attualmente è recluso in carcere). I post sono eloquenti: “Mi hanno tradito persone che hanno mangiato a casa mia, dimmi tu di chi mi posso fidare”. Poi seguono costantemente foto del marito e del marito con il figlio piccolo. Una specie di investitura. “Servono per affermare una presenza, anche se in carcere il marito deve essere ricordato al clan” spiega Ravveduto. La moglie di un altro baby criminale, Ciro Marfè, ricorda sulla sua pagina: “La vera donna non abbandona il suo uomo, in nessuna difficoltà, ma affronta i problemi con lui” e a seguire: “Sei bella come una questura che brucia”. Sono alcuni dei protagonisti delle cosiddette stese di camorra, ragazzini armati di pistola che marcano il territorio sparando in aria dalle selle dei motorini. Su Tik Tok c’è proprio un video tutorial di come si effettuano sparatorie di questo tipo, lo posta kekkofer. Ha ottenuto 16,1k di visualizzazioni e il suo profilo, pieno di video di questo tipo raggiunge 58,2k di utenti. L’altro pezzo forte è “Finalmente libero”, un video da 39k di visualizzazioni in cui si celebra la scarcerazione di un criminale. Non ci sono post di accompagnamento ma solo un emoji: una bomba con la miccia accesa. “È la nuova frontiera della comunicazione mafiosa sui social - spiega il docente di comunicazione Ravveduto -. La bomba ha due significati, può voler dire “sono un tipo forte, ho resistito a tutto” oppure “sono quello che comanda”. Spesso si trova l’icona 100% che vuol dire totale appartenenza a un clan oppure la siringa con la goccia di sangue che sta a celebrare un patto criminale appena stretto”. Il potere è anche estetica e allora su Facebook compaiono decine di pagine gestite da mafiosi come Aprea o Stolder in cui si posta quello che compra il boss, il nuovo taglio di capelli, lo champagne in casa, le scarpe alla moda. Come se curassero un brand. E in questo senso un evergreen è Totò Riina. Le fanpage a lui dedicate sono decine. Ciascuna con una media di 2-3000 follower. In passato le pagine social sono state utilizzate per le faide di camorra. Carlo Lo Russo, l’ultimo capo del potente clan soprannominato “I Capitoni”, utilizzò Facebook per organizzare gli agguati ai rivali. In un’intercettazione viene ascoltato mentre parla con la moglie: “Cerca su Facebook… Questo è quel Francesco?”, “Mi pare di sì…. questo è Raffaele… Ultimo… è uno della banda loro”, “i Barbudos… guarda qua che c’è scritto: tutti insieme siamo grandi e comandiamo…”. Fa infiltrare alcuni dei suoi nelle pagine social dei rivali per studiarne i movimenti e poi organizzare gli omicidi. Anche l’uso della geolocalizzazione diventa uno strumento di mafia. “Emanuele Sibillo quando postava lasciava la geolocalizzazione aperta in segno di sfida, per dire: “Sono qui, se siete capaci venitemi a prendere”, ricorda Ravveduto. Fabio Orefice, dopo aver subito un agguato dal quale ne uscì miracolosamente vivo, aprì la sua pagina Facebook e sfidò i killer con un post: “Il leone è ferito ma non è morto” con accanto foto di armi. Evidentemente i suoi rivali erano tra gli amici perché a distanza di poche ore esplosero diversi colpi d’arma da fuoco contro l’abitazione della mamma. “Il dato allarmante è che i mafiosi fanno proseliti anche tra chi non è affiliato. Specialmente su social strutturati come Tik Tok dove basta diventare di tendenza per far vedere lo stesso video a migliaia di persone. Spesso trovo ragazzini che forse ingenuamente ripetono atteggiamenti, minacce, stili e lessico tipico delle mafie” conclude Ravveduto. Tra quelli che hanno reso virale un trand di ES17 c’è Marika, 12 anni. La canzone di sottofondo è quella di Enzo Dong: “Voglio solo un Ak47, quando dormo è lui che veglia su di me. mitra tu stammi vicino”. Scarcerazione del detenuto gravemente malato ai tempi del Covid-19: a quali condizioni? quotidianogiuridico.it, 5 gennaio 2021 Cassazione penale, sezione V, sentenza 9 dicembre 2020, n. 35012. Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il tribunale del riesame aveva riformato l’ordinanza del GIP che, valutate le condizioni di salute di un detenuto in stato di custodia cautelare per associazione di stampo mafioso, le aveva ritenute incompatibili con il regime detentivo, applicandogli la misura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, la Corte di Cassazione (sentenza 9 dicembre 2020, n. 35012) - nel disattendere la tesi difensiva, secondo cui erroneamente il tribunale aveva ritenuto di escludere una situazione di incompatibilità col regime carcerario, connessa al pericolo concreto di contagio, sol perché non si erano verificati, presso la struttura carceraria ove egli era ristretto, casi di detenuti positivi al Covid-19, o perché l’emergenza sanitaria nazionale era in diminuzione - ha invece affermato che in periodo di pandemia, l’incompatibilità ex art. 275 comma 4 bis c.p.p. delle condizioni di salute con lo stato di detenzione per il pericolo di contagio deve essere ancorata - oltre che alla verifica astratta circa la presenza nell’indagato di una o più patologie, tali che in caso di contagio risulti certo o altamente probabile il verificarsi di gravi complicanze o di morte - alla ulteriore verifica del rischio che il carcere in cui l’indagato si trovi ristretto sia un luogo nel quale concretamente sia possibile contrarre il virus. Piemonte. Carceri, la lezione del Covid di Cecilia Moltoni gruppoabele.org, 5 gennaio 2021 Colpisce l’approccio positivo e propositivo che Bruno Mellano, Garante dei detenuti del Piemonte, ha voluto dare alla presentazione del quinto Dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi. Le criticità infatti ci sono, e non sono poche né leggere. Ma l’emergenza Covid ha dimostrato che sono superabili attraverso uno sforzo coordinato, intelligenza decisionale e investimenti talvolta esigui. Con 4.164 detenuti al 28 dicembre 2020, il tasso di affollamento medio degli istituti di pena in Piemonte è di circa il 110 per cento. E questo è il primo e più importante problema. La necessità di creare spazi per isolamenti e quarantene ha obbligato le istituzioni carcerarie a liberare e riadattare locali dismessi, in certi casi avviando procedure previste da tempo ma in stallo burocratico. L’auspicio è che, sull’onda degli interventi emergenziali, se ne sblocchino molti altri già programmati e che i fondi Recovery non dimentichino investimenti ormai improrogabili in questo senso. L’importanza di ampliare e ammodernare le strutture detentive va intesa, ha sottolineato Mellano, come strumento per garantire in futuro maggiori spazi alle attività che perseguono lo scopo educativo della pena: scuola, lavoro, formazione, incontri coi familiari. Tutte attività che si sono tragicamente interrotte durante l’emergenza sanitaria. Non si deve invece cadere nell’equivoco che servano più posti per ospitare più detenuti. La risposta alla pandemia ha dimostrato che una buona percentuale delle persone recluse può avere accesso alle misure alternative, come previsto dai decreti degli ultimi mesi mirati a decongestionare il sistema. Sarebbe un’occasione sprecata, secondo i Garanti, revocare adesso queste misure e rinunciare a pensare il carcere, per il futuro, sempre più come extrema ratio. Sul piano della gestione del contagio da Covid, il tema caldo è ora quello del vaccino. I Garanti si sono fatti promotori di un appello per garantire una corsia preferenziale all’immunizzazione dei detenuti e degli operatori penitenziari, visto l’ambiente chiuso e particolarmente a rischio in cui vivono. E la senatrice Liliana Segre, insieme ai senatori De Petris e Marilotti, ha presentato un’interrogazione in tal senso al Governo. Ma per ora le parole del sottosegretario alla Giustizia Giorgis sembrano escludere questa strada: nel contesto carcerario, ha spiegato, si seguiranno i medesimi criteri individuati a livello generale, tenendo conto di fragilità specifiche e dato anagrafico. Stefano Anastasia, portavoce nazionale della Conferenza dei Garanti italiani, ha chiuso la presentazione del Dossier con tre risposte secche alla domanda: cosa ci ha insegnato il Covid? La prima: per evitare che diventi ingestibile in caso di crisi, il sovraffollamento carcerario va combattuto con decisione nell’ordinarietà, attraverso interventi strutturali e con il ricorso sempre più ampio e ragionato alle misure alternative. La seconda: il sistema di comunicazione è molto arretrato, ancora fondato su carta e analogico. Investire sulla digitalizzazione è fondamentale per non privare mai più in futuro i detenuti delle opportunità formative e anche relazionali rese possibili dalle nuove tecnologie. La terza: anche dentro al carcere deve esistere un modello di integrazione socio-sanitaria. Facendo tesoro dell’esperienza tragica ma in qualche modo istruttiva della pandemia, bisogna insomma riportare alla piena legalità gli istituti penitenziari, perché è assurdo che proprio le strutture demandate ad accogliere chi ha violato la legge, violino a propria volta le norme che ne regolano capienza e funzionalità, e tradiscano il mandato costituzionale sullo scopo riabilitativo della pena. Un primo dato di speranza viene dalla normativa che consentirebbe finalmente di superare la situazione delle madri detenute insieme ai figli minori. Si parla di piccoli numeri, per fortuna, definiti comunque dai garanti uno scandalo. Implementare il sistema di case alloggio alternative, da tempo allo studio, sarebbe davvero un bel segnale per il futuro. Friuli Venezia Giulia. De Carlo (M5S): serve un’azione immediata nelle carceri Il Gazzettino, 5 gennaio 2021 Il M5S preme per un intervento nelle carceri, che in Fvg hanno non pochi problemi. “Nonostante risultino rientrate situazioni gravi come quella di Tolmezzo ove, all’inizio del mese di dicembre 2020, su 200 persone detenute si riscontravano 155 persone contagiate, mentre attualmente risulta un solo contagiato certificato e isolato e di Trieste, dove a inizio dicembre si contava un focolaio da 85 contagi, la situazione della diffusione dell’infezione da Covid-19 negli istituti penitenziari è chiaramente preoccupante e richiede un’azione immediata”, dichiara in una nota la deputata M5S Sabrina De Carlo, membro della Commissione Costituzionale, che ha depositato ieri un appello in merito alla situazione nelle carceri ai ministri Speranza e Bonafede. “Dalle istanze raccolte in questi ultimi mesi, è emersa chiaramente la necessità di prevedere un sistema di prevenzione volto alla tutela della polizia penitenziaria e della popolazione carceraria, nonché un rafforzamento del sistema sanitario in carcere. È nostro dovere mettere tutti gli operatori in condizioni di lavorare in sicurezza, evitando al contempo i contagi tra il personale e i detenuti, per minimizzare al massimo il rischio focolai. È doveroso che le istituzioni compiano tutte le azioni necessarie affinché venga garantito anche in questi luoghi il rispetto della dignità personale dell’individuo, ecco perché richiediamo che venga attuata una campagna di prevenzione coordinata”. Santa Maria Capua Vetere. Cardiopatico morto in carcere, l’Anm contro il Garante dei detenuti di Mary Liguori Il Mattino, 5 gennaio 2021 Non si placano le polemiche dopo la morte del detenuto Renato Russo, deceduto nell’infermeria del carcere di Santa Maria Capua Vetere nella notte di Capodanno. Dopo la denuncia del garante Samuele Ciambriello, affidata a Il Mattino e poi ai suoi profili social, è arrivata la replica della giunta esecutiva dell’Anm a difesa dell’operato dei magistrati che avrebbero respinto le due istanze di scarcerazione presentate da Russo in virtù di una grave cardiopatia. “Russo Renato, napoletano, 54 anni è morto nell’infermeria del carcere di santa Maria Capua Vetere - scriveva Ciambriello sabato - Adesso il suo corpo è all’Ospedale di Caserta per l’autopsia. Chiedo giustizia e verità. Per due volte il magistrato competente, pur essendo cardiopatico e malato, gli aveva rifiutato gli arresti domiciliari. Non si può morire in carcere e di carcere. Chi ha sbagliato deve pagare il suo debito non a prezzo della sua vita La giustizia è in agonia. Ci vorrebbe un picconatore. Ma quando la politica riprenderà in mano i suoi poteri e i suoi doveri? Adesso è cinica e pavida”. Nella stessa giornata, il magistrato Marco Puglia, segretario della giunta dell’Anm, replicava su Il Mattino alle dichiarazioni del garante. Oggi, una nuova nota del medesimo organismo che definisce “pericolose” le esternazioni di Ciambriello rilanciate dal garante dei detenuti napoletani, Ioia, e annuncia contromisure. “La giunta esecutiva dell’Anm presso la Corte di Appello di Napoli apprende con rammarico che il Garante per la tutela dei diritti delle persone private della libertà personale della regione Campania, Samuele Ciambriello, ha rilasciato nella una dichiarazione al Mattino di Caserta relativa al decesso di un detenuto cardiopatico presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere nella quale è dato leggere: “il magistrato competente, pur essendo Russo cardiopatico, gli ha rifiutato i domiciliari. Non si può morire in carcere e di carcere. Chi ha sbagliato deve pagare, ma non a prezzo della vita. La giustizia è in agonia”. “Tale dichiarazione - scrive ancora l’Anm - getta una inaccettabile ombra di iniquità sull’operato dei magistrati perché essa non è suffragata da alcuna analisi o elemento a sostegno di quanto prospettato e non tiene conto del costante senso di responsabilità che essi adoperano nel tutelare la salute dei detenuti. A ciò si aggiunga che la predetta dichiarazione è stata, altresì, pubblicata su un profilo social del garante Ciambriello e ripresa per intero sul profilo del garante del comune di Napoli, Pietro Ioia, consentendo, al contempo, la pubblicazione di commenti altamente diffamatori da parte di altri utenti nei confronti dei magistrati, del ministro Bonafede, della direzione e del personale del carcere sammaritano, senza alcun tipo di attività di moderazione o censura da parte dei proprietari dell’account. Siffatto comportamento, superficiale e al contempo pericoloso perché capace di nutrire un clima di ingiustificato rancore nei confronti delle pubbliche istituzioni, è assolutamente inaccettabile. E lo è ancor di più se posto in essere da soggetti che, per il loro ruolo istituzionale, dovrebbero avere la capacità di interloquire con la magistratura in maniera misurata e funzionale per il raggiungimento di un obiettivo comune. Lascia, pertanto, estremamente amareggiati la lettura della predetta dichiarazione e la modalità di diffusione e gestione della stessa senza sottacere la preoccupazione per la propria incolumità che, altresì, tali condotte ingenerano in persone che esercitano, nel rispetto della legge, le proprie funzioni. La Giunta, pertanto, si riserva l’utilizzo dei previsti strumenti di tutela nelle opportune sedi”. Poche ore dopo, il garante Ciambriello ha ulteriormente chiarito la sua posizione. “Prendo atto delle dichiarazioni dell’Anm, presso la corte di Appello di Napoli e per il grande rispetto che nutro per le istituzioni e la magistratura e per lo stesso ruolo di garanzia che sono chiamato a ricoprire, non intendo alimentare alcuna polemica in merito a questa vicenda. - ha scritto. Temo che le mie dichiarazioni siano state male interpretate e che non se ne sia colta la sostanza. Sono molto dispiaciuto se qualcuno sui social fa uso strumentale delle mie dichiarazioni o le commenta in modo offensivo. Per quanto mi riguarda, laddove nelle mie possibilità, rimuovo sempre i commenti inopportuni - di cui ovviamente non sono responsabile- e attiverò per il futuro forme di controllo più severe nell’interesse di tutti. Ciò detto vorrei però che restasse in primo piano l’azione del mio ufficio che ogni giorno lavora, nell’interesse del sistema penitenziario, a tutela di diritti costituzionalmente garantiti”. Modena. Morte di Salvatore Piscitelli, la procura apre un’inchiesta per omicidio colposo di Mario Di Vito Il Manifesto, 5 gennaio 2021 Aperto un fascicolo contro ignoti sul caso del 40enne morto nel penitenziario di Ascoli Piceno, il 10 marzo scorso, dopo essere stato trasferito già in condizioni critiche dal capoluogo emiliano. Il procuratore: “Al momento è tutto abbastanza fumoso: non ci pronunciamo ma rispetto a quanto è stato scritto negli esposti ed espresso verbalmente davanti ai pm si faranno i necessari approfondimenti”. È l’omicidio colposo l’ipotesi di reato sulla quale indaga la procura di Modena per il caso di Salvatore Piscitelli, il 40enne morto in carcere ad Ascoli Piceno il 10 marzo scorso dopo essere stato trasferito già in condizioni critiche da Modena, in seguito a una delle rivolte che scoppiarono dietro le sbarre all’inizio della prima fase di lockdown per il coronavirus. Al Sant’Anna di Modena - 560 detenuti su una capienza di 369 - si verificò la sommossa più violenta delle decine che scoppiarono un po’ ovunque in Italia: cominciata l’8 marzo e definitivamente domata soltanto il 15, durante la rivolta causata dallo stop ai colloqui con i familiari e dal pesante clima di incertezza di quei giorni, portò a un tentativo di fuga di massa dei carcerati (fermata solo dai furgoni della polizia penitenziaria che bloccarono materialmente ogni uscita) e a un totale di nove vittime, tutte ufficialmente per overdose dopo aver saccheggiato l’infermeria della prigione ed essersi impossessati di metadone e altre sostanze. Per il resto, l’istituto fu devastato: le celle, gli spazi comuni vennero distrutti e un’intera ala venne data alle fiamme e resa inagibile. “Al momento il fascicolo su Piscitelli è aperto per omicidio colposo - dice il procuratore modenese Giuseppe Di Giorgio -, per ogni detenuto morto è stato aperto un fascicolo. In alcuni casi il reato ipotizzato è morte come conseguenza di altro reato. Al momento è tutto abbastanza fumoso: non ci pronunciamo ma rispetto a quanto è stato scritto negli esposti ed espresso verbalmente davanti ai pm si faranno i necessari approfondimenti”. Il riferimento di Di Giorgio è al documento prodotto da cinque detenuti, trasferiti anche loro da Modena ad Ascoli con Piscitelli, e inviato alla procura alla fine di novembre. Tra le pagine scritte di proprio pugno dai detenuti si legge una dettagliata cronaca delle rivolte di marzo e di come sono state sedate. “Il detenuto - scrivono i cinque parlando di Piscitelli -, già brutalmente picchiato alla casa circondariale di Modena, durante la traduzione arrivò ad Ascoli in evidente stato di alterazione da farmici, tanto da non riuscire a camminare… Tutti ci chiedevamo come mai non fosse stato disposto l’immediato ricovero”. Tra i punti da chiarire c’è proprio il fatto che Piscitelli, al suo arrivo nelle Marche, non sarebbe stato sottoposto a una visita medica approfondita, come prevede la prassi e, nello specifico, sarebbe stato necessario viste le sue condizioni. Giunto ad Ascoli la sera del 9 marzo e sistemato in una cella della sezione penale, Piscitelli è morto la mattina successiva, dopo che altri detenuti avevano avvisato le guardie che non si muoveva più e che il suo corpo era freddo. Dopo aver inviato l’esposto, i cinque da Ascoli sono stati rimandati a Modena per essere poi ascoltati dalla procura. “Siamo stati picchiati selvaggiamente dopo esserci consegnati di nostra spontanea volontà agli agenti, senza aver opposto alcuna resistenza - hanno raccontato. Siamo stati oggetto di minacce, sputi, insulti e manganellate. Un vero pestaggio di massa”. E questo sarebbe avvenuto non solo a Modena, ma anche ad Ascoli: “Nello specifico nei furgoni della penitenziaria, alla presenza degli agenti locali. Quando siamo stati visitati a molti di noi non fu neanche chiesto di togliersi gli indumenti per constatare se avessimo lesioni corporee”. Il Garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma, sta seguendo il caso in qualità di “persona offesa” e ha provveduto a nominare l’avvocato Giampaolo Ronsisvalle e il medico legale Cristina Cattaneo per seguire ancora più da vicino le indagini. “Istituzionalmente - dice Palma - abbiamo il dovere di diradare ogni nebbia. Vogliamo sapere se tutti i detenuti trasferiti da Modena sono stati visitati adeguatamente. Vogliamo conoscere chi, dal punto di vista sanitario, ha autorizzato i trasferimenti e se una volta arrivati nelle altre carceri i detenuti sono stati seguiti adeguatamente”. Roma. Covid, focolaio a Rebibbia: “Virus portato da detenuti trasferiti da Sulmona” Il Messaggero, 5 gennaio 2021 “Dopo lo screening di tutti i presenti, sembra circoscritto il nuovo, piccolo, focolaio Covid che ha coinvolto diciotto persone nella sezione di alta sicurezza a Rebibbia Nuovo complesso”. Lo comunica il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. “Incredibilmente - prosegue Anastasìa - si è trattato di un focolaio di importazione, a seguito del trasferimento a Roma di un gruppo di detenuti dal carcere abruzzese di Sulmona, dove da settimane era in atto un focolaio assai esteso. L’amministrazione penitenziaria deve prestare più attenzione alla gestione di queste emergenze. Non si possono continuare a chiedere sacrifici ai detenuti, che da quasi un anno non possono più avere colloqui ordinari, nel numero e nelle modalità, con i familiari e spesso non possono più andare a scuola o svolgere attività, e poi trasferire detenuti da istituti in cui ci sono focolai senza essere assolutamente certi della loro negatività”. “Quanto accaduto - conclude Anastasìa - rinnova le motivazioni della richiesta dei garanti dei detenuti, per il riconoscimento della priorità vaccinale dei detenuti e degli operatori penitenziari. Non si tratta di garantire a tutti lo stesso accesso alle vaccinazioni, ma di riconoscere le peculiarità e i rischi della vita in comunità chiuse e sovraffollate come le carceri, e quindi di programmarvi le vaccinazioni quando saranno completate quelle nelle Rsa, che condividono con le carceri analoghe condizioni di rischio dovute alla convivenza e alla precarietà delle condizioni di salute”. Torino. Ucciso a pugni in una clinica psichiatrica di Andrea Bucci e Irene Famà La Stampa, 5 gennaio 2021 L’ha colpito con violenza, al volto e al torace in uno dei tanti alloggi all’ultimo piano della comunità psichiatrica “L’Arca” di Volpiano. Poi l’ha lasciato a terra, esanime, e si è seduto in attesa dell’arrivo dei carabinieri. “Sono stato io”: questa la sua confessione. Simone Giacomo Farina, italiano di 36 anni, con alle spalle diversi guai con la giustizia e in libertà vigilata con obbligo di permanenza nel centro di via San Benigno, ieri sera ha ammazzato un altro ospite della struttura. Simone Bonfiglio, quarantasei anni, seguito anche lui dalla comunità, centro che si occupa di pazienti psicotici gravi. “L’ho colpito più e più volte. L’ho preso a pugni. Sino a lasciarlo a terra” ha spiegato, più o meno così, ai carabinieri di Chivasso. Nel 2015, Farina era stato arrestato dai carabinieri, fermato di fronte a un centro commerciale di Carmagnola con una pistola Beretta rubata ad Alba. Voleva introdursi nei camerini delle ragazze immagine durante l’inaugurazione di un negozio. Il movente dell’omicidio è ancora al vaglio degli investigatori del comando provinciale, che in queste ore stanno ascoltando ospiti e operatori di quella villetta poco fuori Volpiano. Cosa ha sconvolto la quotidianità di quel centro sulla stradina che costeggia la linea ferroviaria per Rivarolo? Forse una banale discussione, di quelle che talvolta nascono tra chi vive nella struttura. Forse uno sguardo torvo, interpretato come una sfida. Forse una frase pronunciata a denti stretti, intesa come un affronto. O anche solo una sigaretta negata, un piccolo dispetto. A dare l’allarme, ieri intorno alle 22, il personale del centro. Gli operatori hanno trovato la vittima distesa a terra, in stato di incoscienza. Vani i tentativi dei soccorritori del 118 di rianimarla. Gli operatori de L’Arca, professionisti che da sempre si occupano di malati psichiatrici gravi, cercano di favorire l’atteggiamento riflessivo, la condivisione e la comunicazione tra gli ospiti. Ieri sera, però, qualcosa ha distrutti gli equilibri - spesso precari - di quel centro. Intorno a mezzanotte, il pubblico ministero Lea Lamonaca è arrivata per un sopralluogo, per rendersi conto di persona delle condizioni della struttura, delle condizioni di assistenza e di vigilanza dei pazienti spesso con gravi disturbi comportamentali. Nel giugno 2019, una diciottenne, ospite del centro, si era suicidata gettandosi dalla finestra. Roma. Detenuta seviziata a Rebibbia, due agenti sotto processo di Francesco Salvatore La Repubblica, 5 gennaio 2021 Sono accusati anche di aver falsificato un verbale per depistare. La reclusa ha rivelato tutto alla direttrice, da lì il via all’inchiesta. Trascinata quasi completamente nuda, e sull’acqua fredda, da una cella all’altra bloccandola per la nuca. Così due agenti della polizia penitenziaria in servizio a Rebibbia hanno abusato del proprio ruolo facendo violenza su una detenuta con problemi psichici. Per i due, una soprintendente addetta alla sorveglianza generale e un assistente capo, è stato disposto il giudizio immediato su richiesta della procura. Sono accusati di abuso di autorità contro arrestati e falso. Per garantirsi l’impunità hanno redatto un verbale fasullo in cui giustificavano il trattamento nei confronti della detenuta, inventandosi un comportamento ostile e violento da parte della stessa. A corollario di tutto, inoltre, l’assistente ha minacciato la vittima di non rivelare i fatti “altrimenti le violenze si sarebbero ripetute”. La detenuta, però, ha denunciato la vicenda alla vicedirettrice del carcere che ha dato avvio al procedimento disciplinare, poi finito in procura. Ad occuparsene il pm Giulia Guccione, che ha chiesto e ottenuto anche una misura cautelare nei confronti dei due agenti. Entrambi sono stati sospesi per un anno dal servizio. Ad inchiodarli le telecamere interne del carcere. I fatti risalgono al luglio scorso. La vittima, di origine rom e detenuta per alcuni furti, aveva dei problemi mentali e aveva provato più volte a togliersi la vita, motivo per cui era stata messa all’interno di una cella da sola togliendole anche i vestiti (era rimasta solo in abbigliamento intimo), perché avrebbe potuta utilizzarli per impiccarsi. La donna era stata riempita di farmaci e alla richiesta di una sigaretta - che le era stata negata - ha danneggiato un termosifone. Quando la sovrintendente ha aperto la porta ha ordinato all’agente che era con lei, chiamato per riparare il termosifone, di trasferirla di peso in un’altra cella. Entrambi l’hanno presa per le braccia e l’hanno tirata fuori. Per il gip “il trascinamento di peso della detenuta, nuda e sull’acqua fredda”, appare “chiaramente motivato da stizza e rabbia per i danni causati dalla donna”. Dopo alcuni minuti l’agente l’ha riportata nella cella di prima bloccandola per la nuca, sebbene la vittima fosse collaborativa. Una violenza brutale e gratuita, tanto più che c’erano 5 agenti di sesso femminile che potevano accompagnarla, “un eccezionale intervento di personale maschile non autorizzato, peraltro su detenuta completamente nuda e che, come si vede dai filmati, mostra particolare soggezione”. Milano. Il carcere a Opera è più duro senza la poesia, cancellata dal Covid di Manuela D’Alessandro agi.it, 5 gennaio 2021 Silvana Ceruti, responsabile dello storico laboratorio di poesia nel carcere di massima sicurezza, racconta le conseguenze della sospensione dell’attività sui detenuti che attraverso i versi “scoprono il senso della bellezza e che anche se si hanno dentro delle cose brutte se ne possono fare di belle”. Nel carcere di Opera invaso dal Covid, coi detenuti sempre più segregati per proteggerli dal contagio, manca la poesia. Potrebbe sembrare la minore delle mancanze ma Silvana Ceruti, responsabile da 26 anni del laboratorio in versi, già insignita dell’Ambrogino d’oro per essere stata la prima a introdurre la lirica in un penitenziario, spiega all’Agi quanto sia invece dolorosa. “Siamo ‘chiusi’ dalla primavera salvo una breve ripresa tra settembre e ottobre. In questi mesi abbiamo provato a mandare via lettera degli spunti poetici ai 20 partecipanti del laboratorio, di solito molto ispirati e prolifici, desiderosi di farsi leggere. Non hanno risposto al nostro invito. Senza il contatto umano per loro è tutto molto più difficile. Sono soli coi loro pensieri e la loro paura, difficile scrivere in quel contesto di desolazione, dove le attività sono sospese e anche nello stesso reparto i contatti sono molto limitati”. Ceruti, che conduce gli incontri assieme a un altro poeta, Alberto Figliolia, ha ben chiara quale sia la potenza della poesia in un cammino di recupero: “Nella mia esperienza, ho visto che scrivere versi consente ai detenuti di scoprire delle parti di loro che non sapevano di avere e, soprattutto, di far rilucere la bellezza che hanno dentro. Il senso della bellezza direi, che poi viene valorizzato a volte anche nei concorsi che vincono o nei complimenti da parte dei familiari a cui spediscono le opere svelando delle parti nascoste. Una persona che ha delle cose ‘bruttè dentro, può fare delle cose belle”. Nonostante il Covid, “in maniera miracolosa” anche quest’anno il laboratorio di Opera ha prodotto il calendario poetico edito da ‘La vita felicè, a cui è possibile richiederlo. “Le poesie sono state scritte e raccolte poco prima che esplodesse il contagio e la cosa singolare è che avevamo scelto come tema quello della ‘distanza’, che poi è diventata la parola della pandemia. È stato tutto molto complicato poi. La nostra fotografa, Margherita Lazzati, si è trasferita in Svizzera a duemila metri per problemi di salute e da lì ha scattato col cellulare delle foto meravigliose. Il calendario è stato inviato a tutti gli autori, averlo tra le mani per loro è molto importante. È uscire dal carcere attraverso la loro voce”. Le poesie, spiega Ceruti, sono “di alto livello”, frutto dello studio durante i laboratori in cui si parte da un testo iniziale e poi, col contributo di tutti, lo si cesella. A scorrere le firme degli autori ce ne sono alcuni noti alle cronache giudiziarie e nere. Non si sa quando riprenderanno gli incontri, che si svolgono ogni sabato dalle 9 alle 12 nella stanza ‘Acquario’ del carcere: un lavoro corale, tutti attorno a un tavolo e spesso con degli ospiti poeti, ma anche altre persone che abbiano un’esperienza artistica da condividere. “La distanza svanisce il tempo/come il profumo del giorno/prima/e non voglio più camminare/all’infinito, senza poter/apprezzare/la libertà persa dentro a un/labirinto/senza un orizzonte”, i versi profetici di Juan Carlos Saraguro per il mese di marzo, il più crudele della pandemia. Asti. Gazzetta Dentro 2020: uno spiraglio tra carcere e società. di Domenico Massano domenicomassano.it, 5 gennaio 2021 “È nella dialettica tra noi e gli altri che si gioca la complessa dinamica che lega identità e convivenza. Alcuni contesti segnano fortemente questa difficile dialettica, come i luoghi di privazione della libertà: separati, isolati, sempre più spesso volutamente costruiti lontani dai centri abitati, quasi a voler accentuare il baratro”. (Garante nazionale delle persone private della libertà, Relazione al Parlamento 2020) Nel corso del 2020 sul periodico astigiano “Gazzetta d’Asti”, si è potuto leggere settimanalmente un articolo un po’ particolare, contrassegnato da un piccolo logo con, su uno sfondo grigio di sbarre, la scritta “Gazzetta Dentro”, seguita dalle parole “Riflessioni dal carcere di Quarto”. Un titoletto che si è dimostrato capace di inserirsi nelle pagine del giornale con discrezione, ma con una costanza tale da meritarsi qualche parola di approfondimento in più, accompagnata da alcuni stralci di articoli scritti dalle persone detenute. La “Gazzetta Dentro” è la pubblicazione mensile realizzata all’interno della Casa di Reclusione di Asti grazie all’associazione di volontariato Effatà. Da alcuni anni collaboro nel coordinamento di questo progetto editoriale che si propone di essere un’opportunità per dar voce alle persone ristrette e a chi opera nel e per il carcere, coerentemente con quanto previsto dall’art. 27 della Costituzione. Un’esperienza che si basa sul lavoro di una Redazione cui partecipano redattori interni ed esterni, e la cui valenza comunicativa si spera possa contribuire a creare un ponte fra carcere e società, due luoghi che, pur trovandosi nello stesso territorio, sembrano lontanissimi e sconosciuti. Il 2020 è stato un anno particolarmente difficile per il diffondersi della pandemia Covid-19, un’emergenza assolutamente inaspettata e inedita: “(Certe cose) le avevamo viste soltanto nei film di fantascienza e, se erano fatti bene, eravamo tutti curiosi di scoprire come andava a finire. … oggi la cruda realtà, ci sta facendo vedere che gli eroi veri sono sul campo e affrontano in prima persona un nemico che ti colpisce a tradimento, senza effetti speciali. … Restare chiusi e privi della propria libertà, per chi si è macchiato di un qualsiasi reato, sappiamo cosa vuol dire. Perdere quel diritto senza aver commesso crimini, dev’essere ancora più dura” (Gennaro, “Certe cose”). In questa situazione, nonostante da più parti si continuasse a ripetere che “siamo tutti sulla stessa barca”, le criticità e le disuguaglianze sociali non solo si sono palesate con maggiore evidenza ma, in alcuni casi, si sono acuite: “Ogni qual volta si è colpiti da un disastro, di qualunque genere, a sentirne maggiormente l’effetto sono le fasce più deboli, … tra le categorie più esposte ci sono anche i detenuti. Nelle strutture carcerarie tutto è amplificato e, ovviamente, non fa eccezione questa situazione che preoccupa e agita i reclusi sia per sé stessi sia per i propri affetti. Oltre alla quarantena decisa nelle aule di tribunale si è in quarantena per il fatto che i volontari non possono entrare e tutte le attività, giustamente, sono state sospese, come anche i colloqui con i propri cari” (Amedeo, “Al capolinea”). Tuttavia, nonostante le difficoltà, le chiusure e le restrizioni per la pandemia Covid-19, il percorso della “Gazzetta Dentro” è proseguito con nuove modalità (on line, telefoniche, …), dimostrando grandi capacità di resilienza e testimoniando un importante investimento umano. Il dialogo e il confronto costante, seppur mediati e a distanza, hanno continuato ad essere la strada, per quanto faticosa, da percorrere: “Interloquire all’interno del gruppo di lavoro non sempre è facile, sia per le diverse opinioni, sia per il diverso peso che ciascuno attribuisce al progetto. Discutere sempre e comunque su tematiche riguardanti l’andamento del gruppo, anche con enfasi, al fine di trovare la “quadra” è ciò che più giova. Opinare per limare le sfaccettature delle problematiche e privilegiare l’interesse del gruppo, per creare equilibri, è sicuramente un elemento positivo” (Salvatore, “Lavorare in gruppo”). Poggiando su questi presupposti l’impegno comune di persone ristrette, volontari e operatori dell’area trattamentale, ha permesso di riorganizzarsi, adattandosi alla situazione di emergenza sanitaria per mantenere vivo questo piccolo, ma significativo, canale di comunicazione e … di speranza. La speranza, un sentimento che permette di volgere uno sguardo al futuro e che, anche nelle situazioni più difficili, può trovare alimento anche in un giornalino interno ad un carcere: “Mi sento libero quando vado a lavorare, come volontario, nella redazione della Gazzetta Dentro. Qui, trovo uno spazio tutto per me. Apro la porta, e trovo persone con le quali dialogo, esprimendo i miei pensieri, confrontandomi liberamente. La libertà di uscire dalla mia cella e andare in un luogo come la redazione mi fa sentire responsabile e mi fa crescere… io credo, che ognuno di noi non debba mai perdere la liberta del pensiero, di scrivere, di comunicare, e di coltivare sentimenti di amicizia e affetto. Tutto ciò non può solo che darci la forza e il coraggio, per sopportare questa carcerazione. La nostra speranza non deve finire mai d’esistere” (Guido, “Liberi di volare”). La speranza come riflesso non di una vita passata ma di un futuro da immaginare: “Non avrei mai immaginato di dover riflettere davanti a uno specchio, anch’esso invecchiato, che ha perso la sua parte argentata, per lasciare spazio a una superfice scura da dove non è più possibile specchiarsi, uno specchio arrivato ormai alla fine della propria esistenza, ma che conserva un angolo da cui sembra voler attrarre immensa luce. Così come questo specchio, anch’io ho conservato un angolo nel mio cuore. Un angolo di grandi aspettative, un angolo di rivendicazioni, uno spiraglio oltre il quale posso vedere un mondo che non ho mai visto, fatto di speranze, di buone intenzioni e buone azioni” (Gerardo, “Lo specchio”). Forse, seppur sommessamente e con inevitabili criticità e ambiguità, anche il percorso condiviso con la “Gazzetta Dentro” nel 2020 ha rappresentato un piccolo spiraglio da cui provare a guardare in modo diverso alla società di cui tutti siamo parte. È stato un percorso fatto di parole e riflessioni che hanno continuato a varcare la soglia del carcere per contribuire a costruire ponti, a tessere tenui fili relazionali e comunicativi tra persone e realtà differenti e, spesso, lontane ma appartenenti a un’unica comunità di vita. Un percorso che cercheremo di proseguire anche in questo nuovo anno, nella speranza di tener viva quella ineludibile “dialettica tra noi e gli altri [in cui] si gioca la complessa dinamica che lega identità e convivenza”. Gherardo Colombo, un tessitore ostinato e paziente di Andrea De Lotto unimondo.org, 5 gennaio 2021 Inizio novembre 2020, riesco finalmente ad avere un appuntamento con Gherardo Colombo per intervistarlo. Capisco subito che non vi è stata alcuna supponenza nell’avermi fatto aspettare qualche settimana, ma che è veramente strapreso. Lo colgo subito dal suo essere lì in collegamento con me, ma allo stesso tempo sta rispondendo a qualcuno sul computer. Ha un’ora, non c’è molto tempo. Io parto dalle origini, lui mi ferma subito e mi dice: “Senta, facciamo prima, io le lascio un mio libro dove descrivo bene quello che lei mi chiede…” Ottimo, a fine intervista questa frase me l’avrà ripetuta più volte e il giorno dopo sono nella sua portineria a ritirare ben sette libri scritti da lui. In questo mese e mezzo li ho letti quasi integralmente. A questo punto le domande si sono moltiplicate. Facciamo così: scrivo un primo pezzo, ma sono sicuro che ci sarà un seguito. Gherardo Colombo nasce in una famiglia agiata, con proprietà terrene in un piccolo paese fuori Milano, nel quale passa molto tempo da bimbo e poi ragazzo. A scuola non è uno dei primi della classe, anzi! È un giovane inquieto, che deve arrivare al liceo per rendersi conto di come è importante studiare sodo per vivere consapevolmente. Ed è al liceo che decide che farà il giudice. E così avviene. Insomma, la sensazione, a leggere le sue pagine, è quella di un “crescendo” passo a passo, lento, graduale, costante. Fino a che si ritrova tra le mani vicende enormi. E saranno anni in cui si troverà su un vascello, a navigare tra le tempeste e i nubifragi della corruzione, del terrorismo e della mafia, a tirare e mollare le vele, per cercare di rendere vera la frase che compare nei tribunali, ossia che la legge è uguale per tutti. La sensazione, ora che Gherardo Colombo vuole contribuire a mettere una nave in mare (www.resq.it) per salvare chi affoga, è ancora più forte. Le vedi quasi, le burrasche di allora, nelle quali ha tenuto il timone finché la nave non gli è stata più volte sottratta, sequestrata e portata nel placido porto di Roma… Bloccata perché non potesse più navigare. E ogni volta eccolo su un’altra nave. Le sue navi principali si sono chiamate IRI, P2, Mani Pulite, più altre, di dimensioni diverse (come a battaglia navale…) che si sono incrociate alle maggiori. Ha conosciuto la fama, ma ha anche masticato la polvere. Ha fatto molto, ha lavorato tantissimo, ha sperato, ci ha creduto. A un certo punto ha detto: “Basta, signori, me ne vado. Ho capito che non è il mare giusto… Grazie. Esco da quello dei palazzi di giustizia, entro in quello, forse ancora più difficile e complesso, delle aule scolastiche.” È tornato lì dove aveva lasciato qualcosa in sospeso, è tornato a scuola. Basta calpestare corridoi di tribunali, basta faldoni, armadi chiusi a chiave, incontri in corridoio con l’obiettivo di non essere ascoltati. Basta giornalisti, basta televisioni, basta urla della folla “Di Pietro, Colombo, andate fino in fondo! Colombo, Di Pietro, non si torna indietro!”. Un po’ di silenzio. Bisogno di riflettere, capire. Ha detto: “Riavvolgiamo la pellicola e vediamo dove è iniziato il guasto…” Ha risentito l’odore dei corridoi delle scuole, quel profumo un po’ acido che viene dalla mensa, quei finestroni alti con le tende bianche e verdi delle vecchie scuole elementari di Milano. Quei corridoi che altrimenti si osservano solo quando si va a votare… Ha voluto ritrovare le scuole piene, non vuote. Non quelle con militari e scrutatori, ma quelle coi bimbi. E poi i ragazzi, medie (complicati) superiori (un po’ meglio). E incontrandoli non riusciva a stare seduto al suo posto, doveva alzarsi e immergersi tra loro, come per sentire i loro odori, sentirli vicini. Un po’ di insegnanti se li sarebbe mangiati. Ma la pazienza l’aveva già imparata, ritrovava quella dei contadini che aveva osservato da ragazzo. Forse aveva qualcosa da farsi perdonare, questo lo sa solo lui o forse nemmeno lui. Aveva mandato tanta gente in galera e ora aveva scoperto, come fulminato sulla via di Damasco (ma per quanto tempo era stato preparato quel fulmine), che il carcere non solo non era efficace, ma non serviva a nulla. Penelope tesseva di giorno e disfaceva di notte; lui ha tessuto per 33 anni e da 13 anni disfa. Vuole farlo per altri 20 anni, sente che il tempo passa veloce e allora corre. Risponde a tutti e tutte, non riesce a dire di no, deve recuperare. Anzi no: Gherardo Colombo ha cercato di disfare “le trame” per 30 anni, ora da 13 anni sta tessendo altro, una nuova stoffa. E lo farà fino alla fine. E quest’anno ha trovato la sintesi: sarà nella ciurma di terra di una nave concreta, che presto salperà. Come quelle donne formidabili che dicono: “L’ultimo posto che lascerò sarà la cucina… lì mi troverete fino all’ultimo!”, lui sarà ancora con la nave. Magari non a bordo, curerà le retrovie, preparerà i pasti. Mai con supponenza, ma con l’umiltà che non si addice ai personaggi con la sua storia. Così qualche giorno fa gli ho proposto di fare insieme un incontro online con Carmelo Musumeci, ex ergastolano, che da anni si batte contro l’ergastolo ostativo, scrivendo spesso su Pressenza. Figuriamoci, Colombo è contro l’ergastolo tout court. Ci sta, lo faremo a gennaio o a febbraio, non appena troverà il tempo. Vi faremo sapere quando; venite, collegatevi, sarà interessante. Una volta in piazza gridavano “Pagherete caro, pagherete tutto!!”. Quella sera parlerà chi ha pagato e chi ha fatto pagare. Ora entrambi sono convinti che pagare non serva a nulla, anzi, che forse vada abolito direttamente il denaro. SanPa. La domanda è sempre la stessa: il fine giustifica i mezzi? di Angela Azzaro Il Riformista, 5 gennaio 2021 Successo per le cinque puntate che ricostruiscono la storia della comunità di San Patrignano creata nel 1978. Il primo fatto che colpisce è che il docufilm in 5 puntate “SanPa, luci e tenebre di San Patrignano”, è uno dei successi di Natale. Accanto alle serie più leggere come Bridgerton (comunque da non sottovalutare) troviamo nella top ten della piattaforma digitale il lavoro prodotto da Gianluca Neri e diretto da Cosima Spender. Regia superlativa, ritmo sostenuto, non ci si annoia un minuto. Lo stile è quello dei docufilm americani: niente voce fuoricampo, ricostruzione tramite materiale d’archivio, interviste ai protagonisti, montaggio incalzante. Ma non si tratta certo di un argomento facile da affrontare: si racconta la nascita nel 1978 della comunità di San Patrignano per il recupero dei tossicodipendenti, delle idee di Vincenzo Muccioli, dei processi, del carisma, delle vite salvate e di quelle vite che invece venivano legate con le catene. In gioco c’è una domanda grande, enorme, che ci interroga anche oggi: è giusto, in nome della sua salvezza, privare qualcuno della libertà (e della dignità)? Da qualche giorno si discute molto. E come se il tempo si fosse fermato e ci si divide in detrattori e in estimatori di Muccioli. La comunità di San Patrignano ha scritto un comunicato in cui prende le distanze dalla serie: sarebbe secondo loro una lettura tendenziosa. Invece, vedendola, si può verificare che le luci e le tenebre ci sono in egual misura e che i fatti sono fatti. Sia quelli delle vite salvate, sia quelli delle vite che volevano lasciare la comunità e che non potevano liberamente farlo: due si suicidarono lanciandosi dalla finestra. Allora la maggior parte delle persone stava con lui, con Muccioli, con i suoi metodi. Tra i pochi che contestavano il fondatore di San Patrignano a muso duro c’era il leader radicale Marco Pannella. Il docufilm ricostruisce un’epoca, quella della fine degli anni Settanta, quando la protesta giovanile trova un killer micidiale: l’eroina. I sogni diventano incubi, una generazione rischia di finire sotto terra. E lo Stato, la politica, la società non ci sono. Il primo atto di accusa è contro di loro. Contro chi vede tutto questo accadere e non fa niente, non dice niente, si gira dall’altra parte. È in questo vuoto che si inserisce Muccioli creando da zero una sorta di Stato nello Stato: i giovani con problemi di droga arrivano da tutta Italia, fanno la fila, sperano in lui. Tutto questo in SanPa c’è. A tal punto che anche chi è sempre stato contrario al metodo Muccioli sente incrinare la propria certezza. Quelle persone, le loro famiglie, erano sole. E a San Patrignano trovavano un aiuto. Ma andando avanti nella serie si capisce che quel metodo era intollerabile. Perché non è tollerabile che le persone venissero incatenate per giorni in luoghi degradati. Che non potessero andare via perché lui le andava a riprendere, che se dicevi qualcosa di sbagliato venivi punito. Metodi violenti che negli anni si fanno sistema nel sistema. E non basta dire questo, non basta denunciare questa violenza. Il problema di San Patrignano diventa anche un altro. Non solo i nuovi guai giudiziari del fondatore legati alle attività della comunità che nulla avevano a che fare con la cura dei tossicodipendenti, oppure l’omicidio di un ospite scoperto molti anni dopo. C’è il fatto che da quell’esperienza si è propagata una cultura della repressione, della criminalizzazione e del proibizionismo. Muccioli, prima della sua caduta, era considerato un santo, tutto ciò che diceva era un dogma. Nasce in questo clima la legge Vassalli Jervolino che pone le basi per la criminalizzazione dei tossicodipendenti. Mentre curava i singoli, Muccioli faceva sì che si affermasse una cultura del disinteresse, della punizione. Arriviamo così a oggi. Il tema delle droghe è diventato un tabù e la cultura antiproibizionista è messa in un angolo. I giovani sono lasciati soli. Non se ne parla a scuola, non se ne parla nei media, se non davanti ai fatti di cronaca per denunciare, urlare, stigmatizzare. Sono in pochi quelli che svolgono il compito di informare, di distinguere per esempio tra droghe leggere e droghe pesanti, di spiegare i principi dell’antiproibizionismo, di stare vicini ai giovani senza doverli per forza giudicare. Tra questi ci sono sempre i Radicali e alcune associazioni come quelle che organizzano la campagna “Meglio legale”. Ma per il resto c’è il vuoto delle istituzioni. Forse anche per questo la serie piace anche ai giovani, perché finalmente trovano un testo che li aiuta a capire, a conoscere i fatti del passato ricostruendo una problematica molto complessa ma che li tocca da vicino. In SanPa c’è anche molto altro: il ritratto dell’uomo di potere, la folla che lo ama, il processo mediatico, l’appoggio della famiglia Moratti e - tema a noi caro, ma purtroppo vero anche allora - della giustizia che si sostituisce alla politica. O meglio di una politica assente che abdica al proprio ruolo e lascia che sia la giustizia a fare i conti con l’esperienza di San Patrignano. Torniamo così alla domanda iniziale, alla domanda che ci riguarda anche oggi: in nome della cura di una persona si possono mettere tra parentesi libertà e dignità? La risposta che viene fuori dalla serie, distribuita in 190 Paesi, è un netto No. Un No problematico perché non si può risolvere nel denunciare i metodi violenti, ma chiede che ci sia una presa in carico da parte delle istituzioni e della società. Presa in carico che oggi non c’è considerato che la maggior parte delle persone tossicodipendenti finisce in galera sola, abbandonata, senza futuro. San Patrignano, la comunità senza diritti di Andrea Colombo Il Manifesto, 5 gennaio 2021 “Sanpa”, la docuserie su Netflix di Carlo Gabardini, Gianluca Neri e Paolo Bernardelli, con la regia di Cosima Spender, racconta ascesa, trionfo, crollo di Vincenzo Muccioli e l’Italia degli anni Ottanta. Guru, padre-padrone con botte e amore, la sua figura diviene la risposta al vuoto dello Stato di fronte alla tossicodipendenza. Nello sterminato dizionario delle emergenze che si sono susseguite nella penisola la voce “Droga”, che s’impose alla fine degli anni Settanta per prolungarsi poi lungo tutto il decennio successivo, merita un posto d’onore a sé. Lo Stato se ne lavò le mani. A farci i conti e reggerne l’oneroso peso furono le famiglie, sprovvedute, impreparate, sprovviste di mezzi, disperate. Dovevano affrontare la tragedia di giovani e giovanissimi che rischiavano a ogni ora di rimanerci secchi con l’ago nella vena, che si spegnevano giorno dopo giorno, che soffrivano le pene dell’inferno in crisi d’astinenza, che rubavano, spacciavano, mendicavano, battevano per il “quartino” quotidiano. Le comunità di recupero spuntarono una dopo l’altra, tanto diverse tra loro quanto l’intera tavolozza dei colori, per supplire a quella mancanza, riempire almeno parzialmente quel vuoto. Le famiglie le videro come il solo faro in una notte senza stelle. In questa sorta di Far West emerge un romagnolo a metà tra i 40 e i 50, senza attività di rilevo alle spalle, anzi senza arte né parte, già sedicente medium, guaritore, spiritista, con una marcata punta di megalomania destinata nelle condizioni adatte a straripare. Disprezza la medicina ma ha il physique du rôle del capo carismatico, vanta il carattere del guru e del santone: fisicamente imponente, di bell’aspetto e molto telegenico, voce profonda, convinzione incrollabile di essere nel giusto, illimitata fiducia in sé stesso e nei propri metodi. Trasforma il podere ricevuto in dono dai parenti della moglie in comunità terapeutica. Inizia curando una sola tossicodipendente, figlia di amici. Finirà per guidare la più mastodontica e discussa comunità italiana, San Patrignano. SanPa: luci e tenebre di San Patrignano, la docuserie in cinque puntate di Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, regia di Cosima Spender, che spopola su Netflix racconta la sua parabola e quella del fondatore Vincenzo Muccioli: l’ascesa, il trionfo, il crollo. Il metodo di Muccioli è in realtà semplice: ai ragazzi allo sbando offre la riproposizione di una comunità patriarcale arcaica, fondata sulla figura di un padre padrone che dispensa carezze e botte a fin di bene, che impone disciplina ferrea ma sa far sentire calore e vicinanza, che punisce, premia e convoglia su di sé l’amore dei fedeli, che combattono i loro fantasmi proprio per conquistare il suo amore. Dalla comunità, una volta entrati, non si esce. Le ronde, formate dai più affidabili tra gli internati (perché di questo si tratta), vegliano e sorvegliano, inseguono i fuggitivi. Muccioli va a riprendersi uno per uno quelli che sfuggono alle maglie: a SanPa si ha il diritto di non entrare ma una volta entrati se ne esce solo quando decide il santone. Le punizioni sono frequenti: botte ma anche segregazione, catene e manette, stanzine fetide e buie trasformate in celle di rigore. La contestazione è punita severamente: mettere in discussione l’autorità è il peccato più grave. I rapporti tra maschi e femmine devono essere ridotti al minimo e comunque casti: a Muccioli la licenziosità non piace. Come funzionino le cose a San Patrignano lo sanno tutti almeno dal 1983, quando la polizia entra nella comunità e trova i puniti di turno incatenati nelle loro cellette. Muccioli viene processato: sarà condannato in primo grado, poi assolto in appello e Cassazione. La vera anomalia, registrata dal documentario in modo magistrale, si produce a questo punto. Non è rappresentata da Muccioli e dal suo tentativo conclamato di resuscitare una comunità contadina e patriarcale fondata su obbedienza cieca e disciplina rigida ma dalla reazione del Paese, dei politici, degli opinionisti, dei giornali e delle tv. Il coro che rivendica il diritto di Muccioli a violare uno per uno tutti i diritti costituzionali in nome del “buon fine” è imponente, assordante. Famiglie e ministri e gente comune, Mike Bongiorno e Red Ronnie, Montanelli e Biagi, i Moratti, che nel corso del tempo investiranno nella comunità 260 milioni di euro: fanno tutti muro in difesa dell’uomo che, come chiosa con felice espressione Paolo Villaggio, “dà quegli schiaffoni che noi genitori di sinistra non abbiamo dato”. La legge e i diritti si fermano sulla soglia di San Patrignano, in un’apoteosi dell’emergenza che cede a un privato megalomane la sovranità sul proprio territorio. Per comodo, per risparmio, per inettitudine, per convinzione, per disperazione. Le spinte sono molteplici, diverse. Il risultato è univoco. Gli applausi frenetici che salutano il tentativo, inevitabilmente effimero, di rispondere al disagio e al disordine ripristinando le regole di un ordine patriarcale e autoritario accompagnano la per nulla effimera edificazione di un sistema basato sull’uso permanente dell’emergenza, di volta in volta giustificata da “esigenze superiori”. Da quel momento una “buona causa” in nome della quale sterilizzare diritti e svuotare libertà la si troverà sempre. Per Muccioli il processo dell’83 è il trampolino di lancio. Osannato, accolto come un profeta, ascoltato come un vate dai politici, vede la sua comunità ingrossarsi a vista d’occhio. Di fronte ai cancelli fanno la fila per mesi. Tutto è gratuito ma lo è anche il lavoro dei pazienti-operai. San Patrignano è anche un laboratorio del moderno modo di produzione neoschiavista. Lo chiamano ovunque, modellano leggi sui suoi suggerimenti, lo implorano di buttarsi in politica. Lui appassionato di animali, spende e spande, compra cavalli e cani che costano centinaia di milioni. Nessuno fa una piega, neppure dopo il fermo di due suoi luogotenenti alla frontiera con il doppiofondo della macchina pieno di soldi esportati di contrabbando. Ma nella sua apoteosi San Patrignano cambia. Con il guru sempre meno presente il mix di schiaffi e carezze, di paternalismo autoritario ma anche affettuoso, cede il passo a un universo puramente concentrazionario, nel quale comandano le squadrette delegate dal capo, formate dai maschi più tosti e più fedeli. Arrivano i suicidi, poi il caso di Roberto Maranzano, ucciso nella porcilaia a botte dalla “polizia interna”: la salma viene trasportata a 600 km di distanza, per stornare i sospetti. Arrivano anche le prime testimonianze dall’interno, una rottura dell’omertà che sancisce la fine di Muccioli. Walter Delogu, suo autista e uomo di fiducia, va oltre: lo registra mentre ipotizza l’omicidio di un possibile delatore. Muccioli muore nel 1995, secondo voci da sempre in circolazione ma mai confermate di Aids, dopo essere stato condannato a 8 mesi per favoreggiamento. Se fosse sopravvissuto avrebbe dovuto affrontare un nuovo processo, con imputazione ben più grave: “Maltrattamenti seguiti da morte”. “Sanpa”, pur palesemente molto critico, evita il rischio di trasformarsi in una requisitoria. Cerca anche le luci, o quelle che per molti furono e sono ancora luci: il senso di comunità che aiutò comunque molti a scrollarsi la scimmia di dosso. Sfugge anche la tentazione di allargare lo spettro: stringe l’obiettivo solo sulla vicenda di San Patrignano ma così facendo riesce a svelare, attraverso la dissezione del caso esemplare, cosa sono stati davvero gli anni Ottanta, dietro i lustrini nostalgici alla Stranger Things, e quanto la realtà di oggi sia ancora fondata sulla controrivoluzione culturale di quel decennio. Il sistema San Patrignano di Sergio Segio vita.it, 5 gennaio 2021 “Il potere logora chi non ce l’ha”, proclamava arguto e sfottente uno dei più rappresentativi e longevi governanti della Prima Repubblica, Giulio Andreotti. Erano gli anni Ottanta del secolo scorso e anche lui, assieme a tanti suoi compagni di partito e di governo, al pari di leader di formazioni avverse e concorrenti, come Bettino Craxi, si recava presso Rimini a recare omaggio e sostegno a Vincenzo Muccioli. Il fondatore della comunità di San Patrignano era divenuto uno dei personaggi più popolari dell’Italia di quegli anni. Trampolino di lancio erano stati, paradossalmente, le accuse e i conseguenti processi giudiziari contro di lui, che invocava leggi più repressive sulle droghe: “Basta con la liceità di bucarsi, basta con il compiangere il tossicodipendente e concedergli la modica quantità”, tuonava sui giornali. Una filosofia di coazione e contenimento, conseguentemente, era alla base delle metodologie della sua struttura. La bontà del fine giustificava i mezzi utilizzati per raggiungerli. Tanto che alcuni suoi operatori e lui stesso vennero imputati nel cosiddetto “processo delle catene” per sequestro di persona e maltrattamenti. L’esito fu una condanna in primo grado, il 16 febbraio 1985, seguita dall’assoluzione in appello, nel novembre 1987. Un nuovo processo, nel 1994, vedrà Muccioli imputato e condannato per favoreggiamento, ma assolto dalla più grave imputazione di concorso in omicidio colposo, relativamente alla morte di un giovane tossicodipendente, Roberto Maranzano, avvenuta a San Patrignano nel 1989 a seguito di uno dei pestaggi punitivi che - è emerso da svariate testimonianze - nella comunità venivano inflitti a persone che tentavano la fuga, si rendevano responsabili di violazioni delle regole o, semplicemente, si mostravano indocili. Le molte udienze, affollate di giornalisti e di sostenitori, e le assoluzioni moltiplicarono a dismisura la fama e il consenso di cui già godeva Muccioli, che si presentava, e veniva accreditato da quasi tutti i media, come “salvatore” di migliaia di ragazzi e ragazze di cui nessuno sapeva e voleva occuparsi, secondo la sua stessa narrativa. Indubbiamente, non erano pochi i famigliari, travolti dal dramma e dall’impotenza, a preferire i figli incatenati in una porcilaia piuttosto che “liberi di drogarsi”. Per parlare di loro, arriva ora su Netflix SanPa - Luci e tenebre di San Patrignano, con la regia di Cosima Spender, una docuserie in cinque puntate nata da un’idea di Gianluca Neri, che con equilibrio ed efficacia ci restituisce una memoria colpevolmente rimossa. Ne esce un dolente affresco d’epoca, dove risulta evidente il tentativo di superare il manicheismo col quale l’Italia intera visse quegli avvenimenti e giudicò i suoi protagonisti. Dai tanti testimoni di cui vengono proposti il racconto e i ricordi emerge una umanità variegata, diversamente tormentata, giustificatoria o autoassolutoria ma sempre e comunque ricca. Un quadro complesso, contorto e sofferto che, anche indipendentemente dalle singole narrazioni, aiuta a comprendere l’intrinseca insufficienza, per non dire la fallacia, del metro di misura oppositivo male/bene, giusto/sbagliato col quale sinora ci si è perlopiù misurati sull’argomento. Uno solo dei testimoni, Fabio Cantelli, che in quel periodo ebbe la delicata responsabilità delle relazioni esterne a San Patrignano e la forza di separarsene criticamente, lo rende esplicito: “Concetti come libertà, volontà, male, bene vanno rivisti e bisogna avere il coraggio di non usarli come assoluti”. E dalle sue parole, ma forse ancora di più dal suo volto, si capisce come non vi sia intento sminuente di quanto, anche di tragico, avveniva in quegli anni in quel luogo arroccato in una presunzione di autosufficienza. C’è, invece, vera e sofferta consapevolezza, esito profondo e maturo di un viaggio alla ricerca di quei significati che, in molti casi, in precedenza avevano portato alla dipendenza da sostanze e al rifugio illusorio nelle loro evanescenti e micidiali risposte. Un rifugio inevitabilmente presto sgretolatosi, per essere sostituito da quell’altro, quello apparentemente protettivo e paterno della comunità terapeutica, altrettanto precario e insufficiente, dove al potere delle sostanze era sostituito quello dell’autorità e della “salvazione”. Il potere sulle persone può avere effetti inebrianti e di alterazione della realtà, proprio come una droga pesante. Ed è così che dalla “prima” San Patrignano si arrivò alla “seconda”, strutturata su scala industriale, catena di smontaggio e rimontaggio di vite all’insegna della cura coatta, dei pezzi rotti da riaggiustare. Alcuni dei quali, all’opposto, proprio lì si sono rotti definitivamente: come Natalia Berla e Gabriele Di Paola, di cui il documentario racconta il suicidio, per entrambi avvenuto nell’aprile 1989, e come Fioralba Petrucci, anche lei rimasta uccisa precipitando da una finestra della comunità “satellite” di Civitaquana nel giugno 1992, su cui invece il documentario non si sofferma. Eppure, è particolarmente illuminante, poiché, secondo testimonianze dell’epoca, quella giovane era morta dopo essere stata ripetutamente picchiata, il giorno prima di essere riportata a San Patrignano, dove non voleva tornare. “Fioralba sapeva troppo”, titolò “la Repubblica”, che riferiva le dichiarazioni della madre Antonietta: “Mi ha confidato di un omicidio avvenuto a Sanpa”. Era l’omicidio Maranzano, che venne alla luce solo l’anno successivo, grazie alle rivelazioni di un ex ospite, Franco Grizzardi. Il passaggio dalla prima alla seconda fase di San Patrignano, tuttavia non è dipeso solo dall’accresciuta notorietà e dai consensi ricevuti dalla struttura e dal suo fondatore. Certo, da quello è derivata una sorta di delirio di onnipotenza, con Muccioli ormai sempre impegnato altrove, tra quotidiane ribalte televisive, incontri importanti e riconoscimenti in Italia e all’estero, costretto a delegare la gestione ad altri, a un “cerchio magico” che gli filtrasse ogni contatto. Ma maggiormente determinante è stato il nesso - che nella docuserie poco traspare - con il clima sociale e culturale. La fase iniziale della comunità sta temporalmente dentro la sperimentazione e il mettersi in gioco solidale e motivato che fece nascere numerose comunità e movimenti, nel contesto degli anni Settanta, con il suo portato di conflitti e di lotte, di diritti civili e di libertà, di onda lunga dell’antiautoritarismo del 1968 ben rappresentato, anche simbolicamente, dalla chiusura dei manicomi; in e di quel contesto San Patrignano rappresentava il controcanto, dove infatti spesso Muccioli si trovava ad attaccare la legge 180 del 1978, cosiddetta legge Basaglia. La seconda fase, negli anni Ottanta, è condizionata e, al contempo, anticipatoria della restaurazione politica e culturale, punitiva e disciplinare, allora in corso complessivamente nella società e, nello specifico, ben tradotta nella filosofia fortemente repressiva della legge sulle tossicodipendenze, cosiddetta Iervolino-Vassalli, introdotta nel 1990 ma di lunga gestazione, di cui proprio Muccioli fu il più deciso e ascoltato proponente. Se il documentario sceglie di non addentrarsi nel dibattito politico, sociale e culturale di quella fase di crinale (non solo italiana, peraltro: la war on drugs e l’ipertrofia del penale e del carcere si affermano negli Stati Uniti in quegli stessi anni, per esportarsi ed estendersi in Europa e in modo particolare nel nostro paese), di passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale, in compenso mostra bene gli albori e lo sviluppo di quel sistema malato di rapporto interdipendente tra media e processo penale spettacolarizzato che si perfezionerà di lì a poco negli anni di Tangentopoli, in quel caso con una indiscussa regia della magistratura, sulla scia dei precedenti processi per terrorismo. Diversamente, nella vicenda di San Patrignano è il potere mediatico che governa il gioco in autonomia, proponendosi classicamente quale megafono di una volontà della pubblica opinione invece sapientemente costruita e mobilitata. Qual è stato, in definitiva, il modello SanPa? Non solo e non tanto catene, contenimento e violenza, che ne erano semmai semplici e ancora artigianali strumenti, bensì quello di sistema disciplinare e autoritario, economico e produttivo basato sul lavoro coatto e gratuito. A differenza delle altre comunità, quella di Muccioli “seconda fase” è stata in grado di assicurare un’amplissima ricettività. Nell’ultimo bilancio sociale disponibile, quello del 2018, San Patrignano dichiara di ospitare “circa 1.200 persone” e di averne accolte dall’inizio ben 26.000, nonché di essere stata “concepita e tuttora strutturata come una vera e propria micro società”. Una rivendicazione o una ammissione, a seconda dei punti di vista. Ma certamente questo è un punto focale, che consente di leggere e meglio comprendere l’evoluzione, le scelte operate e i metodi utilizzati nonché lo stesso “gigantismo” di questa comunità dalla storia così peculiare. Una dimensione resa possibile non solo dagli spazi fisici che, dall’inizio, ha avuto a disposizione sulle colline riminesi e dall’imponente e continuativo sostegno finanziario assicurato dal petroliere Gianmarco Moratti e dalla moglie Letizia, in quel tempo presidente della Rai e in seguito sindaco di Milano, ma proprio dalle metodologie operative, laddove le altre realtà terapeutico-riabilitative hanno invece investito sull’aspetto educativo, cercando di assicurare strutture con un rapporto ottimale operatori/utenti. A San Patrignano è prevalsa l’economia di scala, con il lavoro come principale strumento rieducativo, nella pretesa di costituire, appunto, non solo una cittadella separata ma una società a sé stante, alternativa e autonoma. Un microcosmo concentrazionario e indipendente. Se è vero che il lavoro (purché corredato da diritti e propedeutico al reinserimento nella società “vera”) può contribuire a riabilitare, l’ergoterapia in un universo chiuso e autoriferito altro non può essere che sistema di governo disciplinare di una comunità di individui non liberi. SanPa ci racconta senza autocensure dei limiti e degli “effetti collaterali” di quel sistema ma anche, onestamente, dei risultati delle filosofie di “salvazione” sempre rivendicate da Muccioli. Nulla ci dice - e dunque non induce a riflettere, come sarebbe utile e necessario - sulla dimensione sociale e numerica dei “sommersi” (tra il 1973 e il 2000 il numero accertato di decessi per sostanze stupefacenti in Italia è stato di 16.955; dai primi anni Novanta, dopo la nuova legge, oltre 30.000 persone tossicodipendenti hanno continuato a entrare mediamente in carcere ogni anno) e sulle cause della loro “perdizione”. Che non possono essere attribuite solo e sempre agli effetti delle droghe in sé, bensì, in misura maggiore e determinante, al trattamento giuridico delle stesse e alla clandestinità e criminalizzazione che ne deriva per chi le consuma: si moriva (e si muore, anche se oggi non se ne accorge più nessuno) di overdose, ma si moriva (e si muore) anche di carcere, di AIDS, di repressione, di stigmatizzazione e di emarginazione in quanto assuntori di sostanze stupefacenti proibite. Questo era e rimane il nodo che non può essere eluso. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sotto attacco. Cui prodest? camerepenali.it, 5 gennaio 2021 È innegabile siano numerose le decisioni della Corte di Strasburgo che hanno contribuito a migliorare il sistema della protezione dei diritti fondamentali negli Stati aderenti al Consiglio d’Europa; altrettanto noto è che, spesso, tali pronunce hanno provocato reazioni, anche accese, da parte di chi non ne condivide gli esiti. Tuttavia, oltre a iniziative di delegittimazione dell’attività giurisdizionale della Corte, per lo più affidate alla critica sui media, è recente la notizia di una forma di aggressione concretizzatasi in un sofisticato cyber-attacco che ha reso irraggiungibile dall’esterno il sito istituzionale della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per più di tre giorni, compresi i tempi per la manutenzione e il ripristino. L’azione, rivendicata su Twitter da un gruppo nazionalista turco, ha avuto inizio lo scorso 22 dicembre subito dopo la pubblicazione della sentenza di Grande Camera, molto attesa anche in virtù delle ripercussioni di carattere politico, nel ricorso Selahattin Demirtas c. Turchia (n. 2), come reso noto dalla Corte in un comunicato ufficiale nel quale i due eventi erano posti in correlazione. Il caso riguardava l’arresto e la detenzione cautelare di Selahattin Demirtas, che, all’epoca dei fatti, era uno dei co-presidenti del Partito democratico del popolo (Hdp), un partito politico filo-curdo di sinistra. La Corte Edu nella sua composizione più ampia ha constatato, in particolare, che le interferenze nell’esercizio della libertà di espressione del ricorrente - vale a dire la revoca dell’immunità parlamentare a seguito della modifica costituzionale del 20 maggio 2016, la sua detenzione cautelare poi prorogata e il procedimento penale avviato contro di lui per reati connessi al terrorismo sulla base di prove che sarebbero emerse dal contenuto dei suoi discorsi politici - non erano imposti dalla legge ai sensi dell’articolo 10 della Convenzione (libertà di espressione). Per quanto riguarda l’articolo 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza), nessun fatto o informazione specifica che avrebbe potuto dare adito a un sospetto giustificante la detenzione cautelare del ricorrente era stata addotta dai tribunali nazionali in un qualsiasi momento della sua detenzione, e non vi era quindi un ragionevole sospetto che egli avesse commesso i reati dei quali era accusato. Le medesime osservazioni hanno anche portato alla constatazione di una violazione del diritto del ricorrente ad essere eletto e sedere in Parlamento: la Corte, sul punto, ha rilevato che le autorità giudiziarie non hanno rispettato l’obbligo procedurale di cui all’articolo 3 del protocollo n. 1 (diritto a libere elezioni) e cioè di accertare se il ricorrente avesse o meno diritto all’immunità parlamentare per le dichiarazioni contestate. In particolare, non risultava che le medesime autorità avessero bilanciato gli interessi in gioco e tenuto conto del fatto che il ricorrente era uno dei leader dell’opposizione politica del suo paese. Infine, è stato stabilito che la detenzione del ricorrente, soprattutto durante due campagne politiche cruciali relative al referendum del 16 aprile 2017 ed alle elezioni presidenziali del 24 giugno 2018, aveva perseguito l’ulteriore scopo di reprimere il pluralismo e limitare la libertà di dibattito politico, che sono coessenziali al concetto stesso di società democratica. La Corte di Strasburgo ha pertanto deliberato che lo Stato convenuto debba porre in essere tutte le misure necessarie per assicurare l’immediata scarcerazione di Selahattin Demirtas. Tale pronuncia, che ha ritenuto sussistente anche la violazione dell’art. 5 § 1 Cedu, oltre a confermare le violazioni accertate in quella resa il 20 novembre 2018 dalla Seconda Sezione - presieduta da Robert Spano, attuale Presidente della Corte EDU - in relazione alla quale era stato chiesto il rinvio alla Grande Camera sia da parte del governo resistente che del ricorrente, induce a una riflessione più generale sul pericolo che le aggressioni all’operato della Corte si riflettano sulla tutela dei diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto, pilastri sui quali si fonda l’azione del Consiglio d’Europa. L’equivoco di fondo, totalmente errato, è che la Corte non ha, né rivendica, alcun ruolo politico, essendo, per contro, l’organo giurisdizionale previsto dall’art. 19 Cedu per assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte Parti contraenti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli. Principio cardine della sua attività giurisdizionale è dato dall’indipendenza sia della Corte sia dei suoi Giudici che nell’esercizio delle funzioni non rispondono né agli Stati che li hanno proposti né al Consiglio d’Europa, ragion per cui l’incarico è incompatibile con qualsiasi ruolo che possa pregiudicarne l’autonomia. Diversamente, il rischio è quello di delegittimare la Cedu e la Corte, il che priverebbe chiunque abbia subito una violazione dei propri diritti e libertà fondamentali della possibilità di trovare quella tutela che, seppur nell’ambito di uno standard minimo, la Convenzione e la Corte di Strasburgo hanno pur sempre garantito e continuano a garantire. L’Osservatorio Europa dell’Unione Camere penali italiane Catastrofe ai confini. Profughi sulla tragica “via balcanica” di Maurizio Ambrosini Avvenire, 5 gennaio 2021 Con il favore forse del clima natalizio, con quel tanto di buoni sentimenti che ancora riesce a smuovere, almeno una parte del sistema mediatico italiano si è accorto della drammatica situazione delle persone in cerca di asilo bloccate in Bosnia e lasciate senza assistenza: una crisi umanitaria che su queste pagine viene documentata da tempo. Negli stessi giorni è uscito il Libro Nero dei respingimenti, un rapporto di 1.500 pagine pubblicato dal Border Violence Monitoring Network e frutto di quattro anni di lavoro, in cui sono state raccolte 892 testimonianze e documentata l’esperienza di 12.654 vittime di violazioni dei diritti umani lungo la rotta balcanica. Anche questo un fronte tenuto aperto da questo giornale, da ultimo con i reportage di Nello Scavo corredati di drammatiche testimonianze fotografiche. La Croazia si è rivelata il punto più critico di una vicenda che si è consumata a lungo in una sostanziale indifferenza ai confini della Ue. Lì, i migranti vengono sistematicamente picchiati, derubati e ricacciati oltre il confine con la Bosnia. Soltanto tra gennaio e novembre del 2020, il Danish Refugee Council ha registrato 15.672 respingimenti dalla Croazia verso la Bosnia, classificandone come “violenti” il 60%. La vicenda del confine balcanico segna un salto di livello nella strategia del doppio standard applicata dalla Ue nella gestione degli ingressi di rifugiati. Finora il rispetto formale delle convenzioni internazionali sull’asilo era aggirato mediante l’esternalizzazione delle frontiere, ossia scaricando la responsabilità sui Paesi di transito mediante sussidi economici e pressioni politiche: Niger, Turchia, Libia sono i casi più noti. Ora invece è emerso - e ha portato a iniziative politiche e giudiziarie in sede europea e nella stessa Croazia - un ricorso alla violenza alle frontiere stesse della Ue. forse da parte di forze di polizia di un Paese membro o forse da parte di elementi definiti “paramilitari” che sarebbero però in grado di ‘operarè in modo sistematico in un Paese dell’Unione. Respingimenti collettivi e brutali erano già accaduti sul confine greco-turco, ma non ancora in una forma così organizzata, aggressiva ed estesa. L’altro elemento entrato in gioco è la proliferazione dell’intolleranza, diventata una pietra d’inciampo per la strategia europea del doppio standard. Finora la non accoglienza europea poteva appoggiarsi su qualche precaria forma di protezione al di là delle sue frontiere. Questa volta invece al confine bosniaco i sussidi economici non sono bastati a oliare la macchina dell’accoglienza: le popolazioni locali hanno inscenato proteste e scoraggiato i tentativi di approntare soluzioni alternative per porre rimedio alla chiusura del campo di Lipa. In altri termini, hanno imitato le dimostrazioni di ostilità verso i profughi così spesso viste in Italia e in altri Paesi negli scorsi anni. Il copione è quello noto, anche se forse con qualche ragione in più: comunità locali gravate da povertà, disoccupazione, emigrazione dei giovani si sentono chiamate da poteri esterni e lontani a farsi carico dell’accoglienza di gente più sfortunata e bisognosa di loro. Anche se in realtà non tirano fuori un euro, anzi ne ricevono. Non si sta ripetendo in Bosnia il mezzo miracolo che avviene da anni in Libano, in Giordania e in Turchia, dove le popolazioni locali bene o male si adattano alla convivenza con numeri di profughi da noi mai neppure sfiorati: 134 ogni 1.000 abitanti in Libano, 69 in Giordania, 43 in Turchia, contro 25 per la Svezia, 14 per la Germania e 3,4 per l’Italia. Ci sono persone che rischiano di morire di fame, di freddo, di malattie non curate ai confini dell’Europa: una catastrofe umanitaria da evitare, come hanno chiesto l’Organizzazione mondiale delle migrazioni e l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati. Ma al di là di un’urgente risposta all’emergenza, va ripensata profondamente la politica europea dell’asilo. Il doppio standard non è soltanto ingiusto, ma anche fallimentare, e purtroppo mortifero. Dalla Libia all’Europa, storia di un giornalista schiavo delle milizie di Stefania Parmeggiani La Repubblica, 5 gennaio 2021 Alpha Kaba è un rifugiato della Guinea. Nel suo romanzo biografico racconta cosa significa nascere dalla parte sbagliata del mare, lottare per la libertà, la dignità e infine la sopravvivenza. E ci inchioda alle nostre responsabilità: non possiamo fingere di non sapere. Schiavi delle milizie è un libro crudo, tagliente, necessario. Leggerlo è una presa di coscienza, un atto politico: aiuta a riconoscere quel che non possiamo più negare: la cattura, il respingimento, l’internamento dei migranti in strutture ufficiali ad opera della guardia costiera libica, equipaggiata e finanziata dall’Italia e dall’Europa, è solo l’ennesimo ingranaggio di un sistema disumano. Lo ha scritto un giornalista che in quelle strutture ha passato mesi ridotto in schiavitù e che oggi dice: “Non posso tacere. Il mio lavoro è parlare a nome di tutte quelle persone che sono ancora là”. Alpha Kaba è un rifugiato politico: nato in Guinea, oggi vive a Bordeaux. Nel romanzo biografico Schiavi delle milizie - scritto insieme al collega francese Clément Pouré, edito in Italia da Quarup con prefazione di Nello Scavo (trad. di Sarah Ventimiglia, euro 14,90) - racconta la storia di un uomo nato dalla parte sbagliata del mare. Un uomo che credeva nella libertà, costretto a lasciare la sua terra e a scoprire sulla propria pelle cosa sia il razzismo. Un uomo che dopo avere attraversato un inferno di deportazione e prigionia, riesce ad arrivare in Europa e a riprendere in mano la propria vita. La storia di Kaba comincia in una capanna a Bokè dove nasce nel 1988 e continua in una grande casa: un padre con tre mogli e 17 figli, i più grandi si occupano dei più piccoli, un’infanzia serena. La madre vuole che studi perché diventi quello che lei chiama un “intellettuale”. Lo iscrive in una scuola privata, a cinquanta chilometri da casa. È l’inizio di tutto: le lezioni in francese, i ramoscelli raccolti per imparare a fare di conto, le prime scoperte letterarie tra cui I soli delle indipendenze - severa critica al colonialismo di Ahmadou Kourouma - e poi l’esperienza dell’esilio nei libri di Tierno Monènembo. E il grande amore - Hassiatou, una ragazza da cui tutto lo divide a cominciare dalla religione e dall’etnia, lei è fulani, lui malinke. Finanziato da uno zio ingegnere in Europa, Boké continua a studiare mentre il suo paese precipita nel caos: i bus non circolano più, gli ospedali funzionano a scartamento ridotto, quasi tutti gli uffici amministrativi restano chiusi, nemmeno i ristoranti aprono più i battenti, migliaia di persone chiedono le dimissioni del governo di Lansana Conté. Kaba, che ormai è un liceale, partecipa alle manifestazioni, sa di essere un privilegiato perché può studiare ma dentro di sé prova un forte senso di solidarietà verso i più deboli. Nel frattempo conosce la radio, s’innamora di alcune trasmissioni culturali e, grazie a un professore, inizia a parlare al microfono. Nel quartiere lo chiamano per commentare partite di calcio, spettacoli di danza, artisti. Presto deve rinunciare: Hassiatou è incinta, e il governo decide che dovrà studiare geografia. “Non è possibile contestare questo tipo di decisioni, posso solo dire sì o no. Dunque accetto”. I corsi non gli interessano, ha bisogno di soldi, inizia a fare lavoretti. “Se la mia passione non avesse bussato di nuovo alla mia porta, se non avessi avuto un segno, avrei sicuramente trascorso così la mia vita”. Un giorno mentre ascolta la radio - lo fa sempre appena ha del tempo libero - il presentatore lascia il suo numero di telefono. Lui, d’istinto, gli scrive, spiega che il suo sogno è fare il giornalista, si propone per uno stage. Il giorno dopo arriva la risposta: sì. Inizia la gavetta, si fa spazio in radio, conosce Moussa Diawara, il presidente dell’associazione degli studenti della sua università, personaggio popolare, volto della gioventù che ascolta la radio pirata e ha sete di cambiamento e libertà. Suo malgrado diventerà anche lui un portavoce di quella nuova generazione di studenti africani. Ha uno stipendio, fa quello che sogna, offre agli ascoltatori uno spazio di libertà che lo Stato nega. Quando, grazie alla padronanza del francese e di ben tre lingue locali, copre in radio la visita di Condé a Kankan e traduce in diretta gli interventi degli ascoltatori, la sua vecchia vita finisce. In strada scoppiano disordini, il regime accusa la radio di esserne l’istigatrice. Kaba scappa nella notte e si rifugia da un amico. Non importa che lavori per una piccola emittente locale: per il regime è un uomo libero e quindi pericoloso. Se lo prendono sarà massacrato di botte, torturato, destinato al carcere. Scappa con una vecchia moto, il confine con il Mali è un colabrodo, arriva a Bamako, ma non si può fermare: potrebbe essere riconosciuto da qualche guineiano di passaggio, tradito e rispedito indietro. Deve continuare a fuggire. Kaba racconta il suo viaggio della speranza con la precisione del cronista: le tappe, i chilometri, i compagni di sventura, uomini e donne dell’Africa subshariana, i soldi pagati ai passeur, le labbra arse dalla sete, la sabbia e il vento, i dettagli che lo trasformano in un “diamante nero”, merce preziosa da rivendere nell’inferno della Libia. Racconta l’umiliazione provata quando lo spogliano del suo bagaglio - pochi oggetti che testimoniano come prima di diventare un migrante avesse avuto una compagna, una figlia, un lavoro, degli amici, una passione divorante. Ricorda e scrive ogni dettaglio dei libici che lo hanno comprato: la fede al dito e gli occhi azzurri del mercante che lo esamina prima di stabilirne il valore, 350 dinari. Mentre lavora, piegato dalle violenze, ripensa alle lezioni di storia, all’epoca dello schiavismo, alle responsabilità non solo del mondo occidentale, ma anche di quello arabo, ai neri vittime di grandi pogrom ancora nel 2000, proprio in Libia, e la concretezza di quella realtà gli piomba addosso: ora anche lui è uno schiavo. Resiste come può. Annota ciò che accade, capisce che in Libia la guerra è ovunque, lo Stato non ha più potere, le milizie - tribali, religiose, di semplici mercenari - regnano sovrane. Bastano una stanza vuota e un catenaccio perché un libico possa mettere su la sua prigione privata. “Nessuno gli impedisce di fare prigioniero un negro, anzi, diciamo che ormai la cosa è del tutto normale”. A ogni cambio di prigione e di padrone teme sempre le stesse cose: le percosse, la morte, la follia. Passa di mano in mano, finisce nel campo di prigionia ufficiale di Zawyah - quello da cui provenivano gli uomini condannati a 20 anni di carcere come torturatori dal tribunale di Messina nel 2000 con un verdetto senza precedenti. Il suo inferno personale dura due anni, fino a quando uno dei tanti padroni promette, se lavorerà bene, di liberarlo e di aiutarlo a raggiungere l’Europa. Non ci crede, ma accade veramente. “Forse, come ogni uomo potente, sperava che una buona azione bastasse a fare di lui un uomo buono”. Kaba non ha parole dolci per il suo “liberatore”, sa che è una persona orribile e che avergli ridato la libertà non riparerà mai la colpa di averlo comprato al mercato e poi sfruttato come fosse un animale. Quando attraversa il Mediterraneo è un automa che risponde solo alle percosse e agli ordini. La sua imbarcazione naufraga e sette persone muoiono. Sarebbe annegato anche lui se non fosse stato per l’Aquarius, nave umanitaria dell’ong Sos Méditerranéè, che li soccorre. Prima in Italia e poi in Francia dorme per strada, non sa dove andare e cosa fare, suo padre è morto, la sua compagna anche, stroncata da una violenta malattia. Non ha alcuna rete di supporto psicologico eppure Kaba ancora una volta non si arrende: sente la necessità di testimoniare quello che gli è accaduto, collabora a un documentario di uno studente di giornalismo, conosce professori che decidono di aiutarlo a integrare la sua formazione con un corso di perfezionamento, infine decide di scrivere un libro per raccontare il meccanismo che lo ha schiacciato. Oggi Kaba fa il magazziniere per pagarsi l’affitto, continua a cercare un lavoro adeguato ai suoi titoli di studio, risparmia e lotta per fare in modo che sua figlia lo raggiunga. Ci costringe a riconoscere, come scrive Nello Scavo nella prefazione, che non potevamo non sapere. Stati Uniti. La vita di Lisa Montgomery appesa a un filo, gli ultimi appelli per salvarla di Giulia Cerqueti Famiglia Cristiana, 5 gennaio 2021 La donna, affetta da gravi disturbi mentali, sarà giustiziata il 12 gennaio attraverso un’iniezione letale. Altri due detenuti sono in attesa di esecuzione prima del 20 gennaio, data dell’insediamento di Joe Biden. Il 2020 è stato segnato da un numero record di morti di stato. In netta controtendenza rispetto all’opinione pubblica, sempre più contraria. L’esecuzione, per iniezione letale, è prevista per il 12 gennaio. Se la sua condanna sarà eseguita, Lisa Montgomery, 52 anni, sarà la prima donna detenuta nel braccio della morte a essere giustiziata negli Stati Uniti per una condanna emessa da un tribunale federale dal 1953. La donna è stata condannata alla pena capitale nel 2007 per un delitto atroce compiuto nel 2004, nel Missouri: la Montogmery si presentò a casa di una ragazza di 24 anni, Jo Stinnett, incinta di otto mesi; dopo aver visto il pancione della giovane donna, la strangolò, le aprì con un coltello la pancia e le portò via il feto, per farlo poi passare alla sua famiglia come suo. La donna venne fermata dalla polizia il giorno seguente, nella fattoria dove si era rifugiata con la bambina strappata alla madre uccisa. La piccola riuscì a sopravvivere e venne poi affidata al padre. Come sottolinea Nessuno tocchi Caino, non è chiaro se la Montgomery - già madre di quattro figli - avesse subìto di recente un aborto spontaneo, che non era riuscita ad accettare e che voleva nascondere prendendo un figlio non suo. Di certo la donna soffriva di problemi psichiatrici, legati a un’infanzia molto sofferta, segnata da abusi sessuali e incesto, e le era stata diagnosticata una grave forma di pseudociesi o gravidanza isterica (la condizione psichica per cui una donna ha i sintomi clinici di una gravidanza pur non essendo effettivamente gravida). L’esecuzione era prevista per l’8 dicembre 2020. Ma il giudice federale Randolph Moss l’ha sospesa fino al 31 dicembre perché le due avvocatesse d’ufficio della Montgomery avevano contratto il Covid-19 e non potevano dunque difendere al meglio la loro imputata. Il direttore del Bureau of prison, l’agenzia che gestisce le carceri e le esecuzioni federali, ha poi fissato l’esecuzione al 12 gennaio. Ma il giudice Moss ha contestato questa decisione ricordando che, secondo la giustizia americana, la data dell’esecuzione deve essere resa nota al detenuto o detenuta con un anticipo di almeno venti giorni. Dato che l’esecuzione era stata sospesa fino al 31 dicembre, se si conta a partire da quella data, l’esecuzione avrebbe dovuto essere fissata non prima del 20 gennaio, giorno in cui Joe Biden entra in carica come presidente. Tuttavia la Corte d’appello di Washington ha respinto il rinvio e il Dipartimento di giustizia ha confermato la data dell’esecuzione il 12 gennaio. Più di mille avvocati hanno firmato una lettera rivolta al presidente Trump in cui si chiede che la pena capitale per la donna sia commutata in carcere a vita. Anche la Commissione interamericana sui diritti umani lo scorso dicembre ha chiesto che l’esecuzione della Montgomery venga fermata. E la Comunità di Sant’Egidio ha lanciato un appello urgente per salvare la sua vita. Dal 1976 ad oggi le esecuzioni di detenute donne nel braccio della morte per condanne emesse da singoli Stati sono state sedici. Attualmente Lisa Montgomery è l’unica condannata a morte a livello federale. Come rileva il Death penalty informazione center-Dpic (Centro di informazione sulla pena di morte) il 2020 è stato un anno particolare, fuori dagli schemi, non solo per la pandemia, ma anche sotto il profilo della pena capitale negli Usa. Lo scorso anno ha visto una progressiva erosione del sistema delle esecuzioni a livello statale: il Colorado ha abolito la pena di morte e altri due Stati, Utah e Louisiana, hanno raggiunto il traguardo di un decennio senza esecuzioni, facendo arrivare a 34 il numero degli Stati che hanno abolito la pena di morte oppure non la applicano più da almeno dieci anni. Dall’altro lato, tuttavia, nel 2020 il numero delle esecuzioni a livello federale - riprese nel 2020, durante l’amministrazione Trump, dopo lo stop alla moratoria del 2003 deciso dal ministro della Giustizia William Barr a luglio del 2019 - hanno rappresentato il 59% di tutte le esecuzioni (dieci su un totale di diciassette), facendo guadagnare a Trump il triste primato di presidente che, nell’arco di meno di sei mesi, ha autorizzato più esecuzioni federali di civili rispetto a qualunque altro capo di Stato Usa del XX e XXI secolo. Il primo giustiziato federale nel 2020 è stato Daniel Lewis Lee, il 13 luglio. Oltre a Lisa Montgomery, altri due detenuti, Corey Johnson e Dustin Huggs, sono in attesa di esecuzione entro il 20 gennaio. Al 2 gennaio 2021 nel braccio della morte federale - perlopiù nel Federal correctional complex di Terre Haute, nell’Indiana - sono reclusi 52 detenuti in attesa di esecuzione, tutti condannati per omicidi aggravati. L’unica donna è Lisa Montgomery. Come spiega il Dpic, esecuzioni e condanne alla pena capitale nel 2020 hanno continuato a essere eseguite e comminate ai detenuti e agli imputati in condizioni di maggiore vulnerabilità e carenza di difesa. Tutti i detenuti giustiziati lo scorso anno erano affetti da uno o più problemi di carattere psichico, danni al cervello, traumi cronici, oppure avevano meno di 21 anni al momento del delitto. Fra i giustiziati dello scorso anno, alcuni sono stati condannati al termine di processi segnati da difetti e lacune. Uno si è visto negare la prova del Dna, che avrebbe potuto potenzialmente dimostrare la sua innocenza. L’opinione pubblica sulla pena capitale, tuttavia, sta visibilmente cambiando: i dati mostrano che il consenso alle condanne a morte ha raggiunto il suo livello più basso dagli anni Sessanta, grazie anche al grande movimento per i diritti civili e contro il razzismo che è nato e si è diffuso nel corso del 2020. Joe Biden si è dichiarato contrario alla pena di morte. E ha assicurato che da presidente metterà fine alle condanne federali. Il suo mandato comincia il 20 gennaio. Forse sarà troppo tardi per i tre ultimi condannati a morte dell’amministrazione Trump, Lisa Montgomery, Corey Johnson e Dustin Huggs, a meno che il presidente uscente non ascolti gli appelli per la loro salvezza e non decida in extremis di chiudere il suo mandato con un atto di clemenza. Gran Bretagna. WikiLeaks, negata agli Usa la richiesta di estradizione per Assange di Marta Serafini Corriere della Sera, 5 gennaio 2021 Negli Stati Uniti l’hacker australiano avrebbe rischiato di essere processato per aver divulgato informazioni segrete e 175 anni di carcere. La motivazione: è a rischio suicidio. Il Messico offre asilo politico. La decisione sul destino di Julian Assange resta a Londra. Questa mattina l’Old Bailey ha deciso di negare agli Stati Uniti la richiesta di estradizione per il fondatore di WikiLeaks. Negli Usa Assange, 49 anni, è accusato di aver violato “l’Espionage Act” attraverso la pubblicazione di documenti diplomatici e militari segreti nel 2010 e rischia 175 anni di carcere. La decisione è stata presa dal giudice distrettuale Vanessa Baraitser sulla base delle preoccupazioni per la salute mentale di Assange dal momento che negli Stati Uniti dovrebbe stare in isolamento e sarebbe a rischio suicidio. La decisione è dunque basata su motivazioni che hanno a che fare con l’imputato e non con le differenze tra sistemi giudiziari. Gli avvocati del 49enne australiano avevano invocato il primo emendamento e la difesa della libertà di parola nella loro arringa. Ma la giudice ha respinto queste motivazioni affermando che la sua “condotta, se dimostrata, avrebbe costituito un reato” anche in Gran Bretagna. Ma ha deciso di negare l’estradizione sulla base di altri fattori, affermando che Assange soffre di depressione clinica e ha “l’intelletto e la determinazione” per aggirare le misure di prevenzione del suicidio che le autorità statunitensi avrebbero potuto adottare in carcere. “Siamo estremamente delusi”. Gli Stati Uniti avevano già annunciato che in caso di rifiuto dell’estradizione avrebbero fatto ricorso e nel pomeriggio dal dipartimento di giustizia americano è arrivata la conferma ufficiale. Tutt’altro che risolta dunque la vicenda e ancora incerto il destino del fondatore di WikiLeaks, anche perché resta da capire se Assange dovrà restare ancora in carcere o se invece verrà rilasciato per gli stessi motivi di salute che hanno determinato la decisione del tribunale di Londra. Intanto la difesa dell’hacker australiano ha fatto sapere che chiederà la libertà su cauzione del suo cliente ed è stata fissata per mercoledì l’udienza. Se è dunque ipotizzabile che Assange torni a breve libero, è anche ipotizzabile che non resterà in Gran Bretagna, in quel caso però bisogna capire quale sarà lo stato pronto a dargli asilo politico. E se una prima offerta di asilo è arrivata dal presidente messicano, Andres Manuel Lopez Obrador, resta da capire cosa decideranno i giudici britannici nelle prossime ore. Assange, presente in aula oggi, dunque per il momento resta rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh nel sud di Londra dall’aprile 2019, dopo che l’Ecuador gli ha revocato l’asilo politico e dopo che la polizia britannica lo ha arrestato, dopo che il giudice britannico Michael Snow ha giudicato Assange colpevole di aver violato le condizioni della libertà vigilata con il massimo della pena, ossia 50 settimane di carcere. Molti in effetti erano stati gli appelli in questi mesi per la sua liberazione basati sulle preoccupazioni per le sue condizioni di salute. Ma non sono mancati anche quelli che hanno fatto emergere le contraddizioni giudiziarie. “Questo non è il giorno in cui Julian tornerà a casa, ma quel giorno arriverà presto. Questo è un giorno di vittoria per Julian ma ancora non possiamo festeggiare”, ha dichiarato Stella Morris, compagna di Assange, madre dei suoi figli e sua legale. Assange, di origini australiane, ha fondato WikiLeaks nel 2006. Nel 2010 inizia a pubblicare i documenti riservati e hackerati da Bradley (poi diventata Chelsea) Manning, il soldato Usa finito in carcere per aver trafugato decine di migliaia di documenti riservati, graziata da Obama e poi di nuovo arrestata l’8 marzo scorso. Tra il luglio 2010 e l’aprile 2011, Assange pubblica circa 90 mila file sulle guerra in Afghanistan, 500 mila su quella in Iraq, 250 mila cablo diplomatici delle ambasciate americane nel mondo e infine i Guantanamo files. Il file più scottante però è un video che mostra un elicottero apache statunitense durante un’azione a Bagdad nel 2007. L’elicottero spara uccidendo 11 persone innocenti tra cui un fotografo e un autista della Reuters. I diari afgani e iracheni rivelano molti ‘incidenti’ e vittime civili dell’intervento americano. Nel 2010 un tribunale svedese aveva chiesto l’arresto di Assange per tre accuse di stupro, molestie sessuali e di “coercizione illegittima”, caso che però verrà archiviato nel 2017. Nel 2012 richiede e ottiene asilo politico nell’ambasciata dell’Ecuador. Il timore è quello di essere estradato negli Stati Uniti, una volta messo sotto processo in Svezia, per la rivelazione di enormi quantità di documenti riservati statunitensi. Per sette lunghi anni vive con otto agenti della polizia inglese che stazionano 24 ore su 24 appena fuori dall’ambasciata (per un costo calcolato in 4 milioni di sterline l’anno). Alle accuse su Assange si aggiunge un altro mattone. L’australiano è sospettato di aver tentato con i suoi leaks di influenzare il risultato delle elezioni presidenziali Usa e di aver tramato con il Cremlino per danneggiare la candidata Hillary Clinton in favore dell’avversario Donald Trump. Il nome di Assange viene dunque associato al Russiagate. È la goccia che fa traboccare il vaso. Il 6 febbraio 2018 il giudice britannico conferma il mandato di cattura per la mancata presenza all’udienza. Un cavillo cui i nemici si aggrappano. L’Ecuador di Lenín Moreno (meno favorevole all’hacker del precedente leader Rafael Correa) si dimostra sempre più ostile nei confronti dell’ospite scomodo e gli stacca più volte la connessione internet denunciando suoi comportamenti scorretti, compresa l’incuria nei confronti del gatto. Assange punta il dito contro i suoi nemici, colpevoli a suo dire di star facendo pressioni politiche sul governo ecuadoriano affinché lo consegni ai britannici. Cerca di difendersi, denuncia lo spionaggio, denuncia la violazione dei diritti umani. Ma appare sempre più isolato. La temperatura intorno a Mendax - questo il suo nickname da hacker - sale sempre di più fino a quando Quito gli revoca l’asilo politico. Ad attenderlo fuori dalla porta dell’ambasciata l’aprile del 2019, la polizia britannica. Poi la richiesta di estradizione degli Stati Uniti e l’attesa per il nuovo verdetto. Fino ad oggi. E fino a mercoledì, per l’ennesima tappa di una vicenda iniziata quindici anni fa. “Assange, una vittoria a metà: il giornalismo investigativo rimane sotto tiro” di Marina Catucci Il Manifesto, 5 gennaio 2021 Intervista a Alexander Urbellis, avvocato newyorchese, fondatore dello studio Blackstone Law Group che si occupa di privacy e sicurezza. Alexander Urbellis è un avvocato newyorchese, fondatore dello studio Blackstone Law Group che si occupa di privacy e sicurezza. Ed è un hacker, membro del gruppo newyorchese 2600, conosciuto in tutto il mondo per la sua attività di divulgazione e di difesa di privacy e diritti civili digitali. Cosa significa l’accusa per Assange per altri whistleblower? Pur essendo una vittoria per Assange questa decisione è lontana dall’esserlo per i whistleblower, i giornalisti, o chiunque cerchi di rivelare informazioni riservate. Il valore della decisione stessa di incriminare Assange crea un ambiente ancora più ostile per gli informatori e coloro che rischiano l’estradizione negli Usa. Ero rimasto molto sorpreso nel vedere che gli avvocati che rappresentavano gli Usa erano stati in grado di persuadere la giudice Baraitser ad accettare quasi tutti i loro argomenti: che l’estradizione non avrebbe violato il divieto del Trattato di estradizione Usa-Uk sui reati politici (visto che il Parlamento aveva deliberatamente rimosso tale protezione); che gli Usa avrebbero fatto ad Assange un processo equo; e che i presunti crimini di Assange non fossero protetti dal diritto alla libertà di parola. Che peso ha la sentenza della corte inglese? Non c’è da festeggiare perché la sentenza si basa sulle condizioni deplorevoli delle carceri statunitensi e sul fragile stato mentale di Assange. In effetti, la giudice sembra essere convinta che Assange abbia commesso un crimine offrendo assistenza a Chelsea Manning attraverso la decrittografia di una password che serviva a ottenere l’accesso a un sistema informatico federale, e senza la quale Manning non avrebbe avuto accesso. Di ciò non sono sorpreso, e ho sempre trovato che sia il fatto più preoccupante per Assange. Mettendo da parte i principi legali in gioco nella decisione, questa fornisce un chiaro esempio di come una campagna ben pianificata e sostenuta per il rilascio di ciò che molti percepiscono essere un prigioniero politico può avere successo. Ma presentare il caso incentrandolo sullo stato mentale di Assange, non è un favore per la libertà di stampa. Questa sentenza è anche una vittoria per l’amministrazione Trump. Le accuse contro Assange erano un tentativo di infangare le acque con questioni politiche sull’estradizione in modo che i tribunali del Regno Unito trattenessero la questione per tutto l’anno elettorale del 2020, evitando che nell’anno elettorale, Assange potesse presentare al mondo la sua buona fede giornalistica, insieme alle prove dei numerosi collegamenti di Wikileaks con la campagna Trump nel 2016, e in particolare con Roger Stone. Quindi la libertà di stampa è ancora in pericolo? Nulla nella decisione di rifiuto dell’estradizione di Assange rafforza la libertà di stampa e nessun giornalista dovrebbe salutare questa decisione come una vittoria, il ragionamento contenuto nel documento è assolutamente ostile alle libertà di stampa. In effetti, il giudice è arrivato persino a citare le critiche di altri organi di stampa ad Assange per aver pubblicato i nomi di informatori riservati, mettendo quegli informatori in grave pericolo e, in alcuni casi, costringendoli a fuggire dai loro Paesi d’origine. Al limite, e se fossi un professore di diritto, direi che anche se la decisione non supporta tutti i principi legali che i sostenitori di Wikileaks e Assange avrebbero sperato, la decisione chiarisce alcune delle aree più oscure della legge, e così facendo consente giornalisti e avvocati di tutelare meglio le libertà di stampa in futuro.