Vaccinare i detenuti rispetta la Costituzione. Ma politici e tecnici si dividono sui tempi di Liana Miella La Repubblica, 4 gennaio 2021 Dopo l’appello su Repubblica di Liliana Segre e del Garante dei detenuti Mauro Palma, e il sì, sempre su Repubblica, del sottosegretario Dem alla Giustizia Andrea Giorgis, si fa strada la convinzione che “il mondo di dentro” delle carceri vada trattato proprio come “il mondo di fuori”. Vaccini per le carceri? Sì, al più presto, ma seguendo anche nelle prigioni la scala di priorità che esiste per tutti noi. Non tutti, come vedremo, sono d’accordo, C’è anche chi insiste per vaccinare tutti i detenuti il prima possibile. Dopo l’appello su Repubblica di Liliana Segre e del Garante dei detenuti Mauro Palma, e il sì, sempre su Repubblica, del sottosegretario Dem alla Giustizia Andrea Giorgis, si fa strada la convinzione - nella politica, tra i costituzionalisti, tra i magistrati, tra gli avvocati - che “il mondo di dentro” delle carceri vada trattato proprio come “il mondo di fuori”. Ecco allora una carrellata di opinioni che parte dall’assunto posto da Mauro Palma: “Il carcere è un luogo rischioso di per sé, perché è chiuso, e perché chi sta dentro ha dei vissuti difficili. È necessaria quindi una vaccinazione la più ampia possibile, partendo dalle categorie più fragili, gli anziani e i lungo degenti, e ovviamente controllando i nuovi ingressi”. Un sì pieno arriva da Mario Perantoni, il presidente di M5S della commissione Giustizia della Camera che ragiona così: “La posizione di Giorgis è condivisibile e di buon senso. Non ci devono essere discriminazioni né in un senso, né nell’altro. Finora nelle carceri non ci sono state grosse criticità nei numeri e nella diffusione dei contagiati, non abbiamo avuto per fortuna situazioni esplosive, ma è giusto che la tensione si mantenga alta perché quello del carcere è un luogo estremamente sensibile dove non si può allentare la vigilanza, perché le conseguenze potrebbero diventare serie. Hanno fatto bene Segre e Palma a mettere il tema sotto i riflettori. Perché non ci devono essere discriminazioni al contrario. È assolutamente necessaria una gestione oculata e attenta. Quindi, seguendo le indicazioni della scienza, il piano di vaccinazioni anche in carcere deve proseguire secondo le stesse priorità che ci sono all’esterno”. Gennaro Migliore, deputato di Italia viva ed ex sottosegretario alla Giustizia durante la gestione di Andrea Orlando, è convinto che la vaccinazione debba invece essere immediata e urgente. E dice: “Nelle carceri, con molti detenuti positivi, non c’è possibilità di isolarli dal resto della popolazione detenuta, nonché dagli operatori penitenziari, perciò i contagi aumentano notevolmente. Il carcere va considerato come una priorità per la salute collettiva”. I deputati di Azione Enrico Costa e di Più Europa Riccardo Magi, autori assieme, alla Camera, di un ordine del giorno nella legge di bilancio sui vaccini in carceri, dicono, innanzitutto, che “nelle attuali condizioni di pandemia è urgente un maggiore ricorso alle misure alternative alla detenzione in carcere come ogni altra misura che consenta di ridurre il sovraffollamento degli istituti penitenziari che persiste nonostante la diminuzione del numero di detenuti nell’ultimo anno”. Quanto ai vaccini poi “l’inserimento di tutte le figure della comunità penitenziaria tra le categorie prioritarie per la somministrazione dovrebbe essere un passo naturale nel momento in cui lo stesso sottosegretario Giorgis fa riferimento alle concrete condizioni di vita e ai contesti di comunità nei quali risulti difficile predisporre misure di prevenzione. In carcere è semplicemente impossibile predisporre e rispettare misure di prevenzione efficaci”. Costa e Magi a Repubblica dicono ancora che “un disimpegno sul fronte carcerario sarebbe l’ennesimo calcio ai principi costituzionali e ai doveri dello Stato”. Quanto al Pd, secondo loro, “è inutile che reclami la riforma del sistema carceri, ma contemporaneamente con i suoi esponenti di governo resti nell’equivoco di fronte a un rischio sanitario. Le formule ambigue di questi giorni, figlie di un giustizialismo strisciante, dimostrano ancora una volta che l’esecutivo si nasconde di fronte alle sue responsabilità e piega la tutela della salute a logiche politiche”. È preziosa l’opinione di Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza a Terni, dove c’è un carcere tra i più colpiti tra quelli italiani: “Ritengo fondamentale che i vaccini siano somministrati con particolare celerità a tutti quelli che abitano il mondo penitenziario: polizia penitenziaria, operatori amministrativi e detenuti, perché soltanto un intervento globale è in grado di assicurare un risultato efficace in un contesto in cui è quasi impossibile garantire distanziamento sociale. Sui tempi, posso solo dire che siano celeri, come anche auspicato in un recente documento dal Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza”. Ma è dai tecnici che arrivano consigli strategici sulla vaccinazione, ovviamente non solo quella in carcere. Partendo da Nello Rossi, direttore della rivista online Questione giustizia che lunedì’ pubblica, a sua firma, una lunga riflessione tecnica su “Il diritto di vaccinarsi. Criteri di priorità e ruolo del Parlamento”, di cui ci ha concesso una brevissima sintesi che, ovviamente, vale anche per le carceri. “Mentre si discute sull’obbligatorietà o meno della vaccinazione anti Covid restano senza adeguata risposta altri, più pressanti interrogativi: chi deciderà le priorità di accesso ai vaccini e con quali strumenti? Sono molte le ragioni che fanno ritenere necessario l’intervento del Parlamento. Solo una legge - che non è affatto sinonimo di soluzione rigida - può legittimare scelte difficili e potenzialmente tragiche e stabilire la cornice e i criteri di coordinamento dell’azione delle diverse istituzioni coinvolte nell’attuazione delle vaccinazioni”. Rossi scrive che “il decreto del ministro della Salute che, come previsto dalla recentissima legge finanziaria, adotterà il Piano strategico per le vaccinazioni, è un mero atto amministrativo insufficiente a disciplinare, con la trasparenza e il rigore necessari, l’ordine temporale delle vaccinazioni, determinando criteri chiari, precisi e cogenti, non derogabili ad libitum per effetto di iniziative estemporanee variamente motivate, come ad esempio, l’utile esemplarità del gesto di vaccinarsi, o sotto la spinta di pressioni particolari”. Se ne deduce, di conseguenza, che anche le vaccinazioni in carcere dovranno rientrare in una legge che ne disciplini le regole. Ma ecco, quanto alla assoluta necessità del vaccino, un parere importante, perché arriva da chi per anni è vissuto al vertice delle carceri, come Roberto Piscitello, ex direttore dei detenuti del Dap e oggi pubblico ministero a Marsala. Piscitello afferma che “come per i cittadini italiani liberi, i vaccini vanno fatti anche in carcere con le stesse priorità stabilite fuori. Iniziando dagli ultraottantenni che non dovrebbero essere moltissimi e proseguendo con le categorie a rischio”. “Il vaccino - dice Piscitello - va certamente fatto subito a tutta la polizia penitenziaria a contatto con i detenuti”. Aggiunge che “la diffusione del virus in carcere sarebbe un fatto gravissimo anche per ragioni di ordine e sicurezza pubblica, oltre che per ragioni sanitarie. Lo Stato che limita la libertà personale degli individui ha il dovere sacrosanto di tutelarne la salute. Soprattutto nei confronti dei presunti innocenti che si trovano in custodia cautelare”. Perché, secondo Piscitello, “lo Stato non può mettere un cittadino in carcere in custodia cautelare e poi esporlo al Covid”. Secondo l’ex direttore dei detenuti del Dap “chi entra in carcere deve avere la certezza di non essere infetto prima di essere assegnato alle sezioni, e poi isolato dagli altri per evitare di prendere il virus. Ed è ovvio che non deve essere la polizia penitenziaria a fare da veicolo quindi è necessario vaccinare subito tutti gli operatori penitenziari, cioè circa 30mila persone”. Ma vediamo qual è il parere di un costituzionalista come Marco Ruotolo, docente di diritto costituzionale all’Università Roma tre: “Condivido l’appello di Palma e Segre sulla priorità della vaccinazione delle persone detenute e di coloro che operano nelle strutture penitenziarie. Ad imporlo è il buon senso, considerate le caratteristiche dei luoghi di detenzione, ove più alto è il rischio del contagio. C’è pure da auspicare che alla campagna di vaccinazione segua un attento studio epidemiologico delle realtà penitenziarie. Ovviamente queste considerazioni vanno estese alle altre situazioni di privazione della libertà personale, ad esempio agli ospiti dei centri per il rimpatrio dei migranti”. Ruotolo aggiunge che “sarebbe preferibile procedere alla vaccinazione di tutti, ma l’eventuale limitata disponibilità potrebbe giustificare un’erogazione inizialmente destinata alle persone già affette da altre patologie che le espongano a maggiori rischi ove contraggano il virus”. Ma lo stesso Ruotolo insiste nel sottolineare che “alcuni provvedimenti adottati nel corso della pandemia hanno iniziato a produrre i loro effetti. Al 31 dicembre 2019 i detenuti erano 60.769, oggi sono 52.221. La più ampia applicazione della detenzione domiciliare negli ultimi diciotto mesi di pena e l’estensione delle licenze per i detenuti in regime di semilibertà, nonché il minor ricorso alla custodia cautelare hanno prodotto queste conseguenze”. Ruotolo li definisce “piccoli passi, non eclatanti, che contribuiscono a rendere la situazione meno incontrollabile”. Proprio per questo “l’avvio della campagna di vaccinazione costituirebbe un ulteriore passo, forse decisivo, per un’ordinata gestione degli istituti di pena nell’emergenza sanitaria”. Una voce più netta, contraria a seguire in carcere le regole progressive che vengono adottate nel mondo “di fuori” è quella dell’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere penali. A Repubblica dice: “Sorprende che si possa pensare che dentro le carceri valgano le stesse regole per stabilire le priorità nell’esecuzione dei vaccini, indicate per la popolazione libera. Ancor di più se chi lo ha dichiarato ha responsabilità politiche. Si sottovaluta la cronica emergenza che vivono gli istituti penitenziari, il sovraffollamento, le carenze sanitarie e igieniche. L’obbligo di vivere gli uni accanto agli altri, detenuti, agenti di polizia penitenziaria, amministrativi, educatori, medici, volontari. L’esigenza non più differibile di riprendere i colloqui in presenza con i familiari e i difensori. Un mondo intero che ancora una volta viene ignorato. Un mondo che non è chiuso in se stesso, ma ha continui contatti con l’esterno. Si tratta di oltre centomila persone che vanno immediatamente protette perché quotidianamente a rischio personale e in quanto potenziali diffusori del virus”. È la stessa opinione dell’ex sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone che per anni è stato il Garante dei detenuti in Toscana e che polemizza con Andrea Giorgis: “Dimentica la lezione di don Milani: non si possono fare parti uguali fra persone con condizioni diverse. Per anni, come Garante, mi sono sgolato a dire che il servizio sanitario in carcere doveva offrire di più e con tempi diversi, più celeri che per i cittadini liberi. Ad esempio assicurare le protesi dentarie per favorire il reinserimento sociale. La ragione di fondo è poi quella per cui il corpo recluso è nella responsabilità dello Stato. Quando il detenuto esce vi è la coincidenza del diritto individuale alla salute e l’esigenza di sanità pubblica”. Da questa premessa ne consegue la posizione di Corleone sui vaccini, per i quali ritiene che sia “davvero inaccettabile una scelta diversa tra gli ospiti delle RSA e delle carceri. Sono istituzioni totali e in carcere spazi e condizioni igieniche sono ben peggiori. Sarebbe una discriminazione incomprensibile. Le considerazioni dei Garanti sono convincenti. La Società della Ragione, la Onlus che si occupa di carcere e giustizia, ha lanciato una petizione che ha immediatamente raccolto 645 adesioni. Credo che il Dap sia convinto dell’utilità di una tale scelta”. Corleone conclude così: “È bene che il governo si mostri sensibile a garantire il diritto alla salute di chi da mesi è condannato all’isolamento assoluto e alla privazione non solo dei rapporti familiari ma anche delle attività trattamentali e dei colloqui con i volontari”. Il vaccino anti-Covid con priorità anche per i detenuti di Vincenzo Musacchio* nuovatlantide.org, 4 gennaio 2021 Lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij sosteneva che il grado di civilizzazione di una società si misurasse anche dalle sue prigioni. Concordando con questa idea, aderisco all’appello di Rita Bernardini affinché i reclusi nelle nostre patrie galere siano tra i primi a essere vaccinati contro il Covid. Ritengo sia percorribile anche la strada della temporanea conversione delle pene minori in detenzione domiciliare. Laddove non esista un domicilio, si potrebbe individuare qualcuno (enti o persone) che si possa assumere la responsabilità della quarantena. I detenuti (con loro ovviamente tutto il personale che lavora nelle carceri) vivono in uno stato di esposizione naturale al Covid-19 poiché è evidente a tutti il ridottissimo spazio a loro disposizione dato l’attuale sovraffollamento carcerario. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, al 29 febbraio 2020 in Italia i detenuti erano 61.230, a fronte di una capienza a norma delle carceri pari a 50.930 posti. Come ho da sempre sostenuto il condannato a pena detentiva, va punito, rieducato e risocializzato. Nell’esecuzione della sua pena gli va garantita l’integrità fisica e morale. In periodi di emergenza sanitaria come quella in corso la prevenzione all’interno degli istituti di pena sarebbe conforme al dovere di tutela della salute dei detenuti. Tra i cittadini più vulnerabili sono stati indicati giustamente i lavoratori del settore sanitario, gli ultra sessantenni, i malati cronici, i pazienti con più malattie, i lavoratori dei servizi essenziali, come insegnanti, forze dell’ordine, mancano inspiegabilmente le persone detenute. Una svista (augurandoci che di questo si tratti) non degna di un Paese civile e democratico come dovrebbe essere il nostro. Credo che il Ministero della Giustizia debba stendere un immediato piano d’emergenza per la vaccinazione delle oltre centomila persone che vivono e lavorano negli istituti di detenzione. Da cittadino mi auguro che questo impegno sia già stato adempiuto. *Giurista Emma Bonino: “Bonafede fa il giustiziere e punisce i carcerati” di Francesco Specchia Libero, 4 gennaio 2021 La leader radicale contro il Guardasigilli: “Ha sequestrato ogni idea di riforma”. Sul governo: “Rischia di sprecare i soldi Ue”. Velato da un cauto pessimismo, lo sguardo di Emma Bonino in queste ore, è più triste del solito. La senatrice di +Europa è un giunco d’acciaio. Con un attivismo di velocità quantica, da un lato raccoglie fondi per le capre, la memoria e il trasbordo della salma in Etiopia di Agitu Ideo Gudeta la pastora amica barbaramente uccisa in Trentino; dall’altro vaticina l’apocalisse sia per la campagna di vaccinazione anti- Covid, sia per il governo stesso. Cara Emma, lei sulla “Stampa” ha scritto un articolo oracolare, parlando di flop delle vaccinazioni “se non si apre al convezionamento di strutture sanitarie private, a cui rischiano di rivolgersi, in ordine sparso, le singole regioni, aggravando le disparità territoriali”. Infatti, oggi delle 470mila dosi arrivate da noi ne sono state utilizzate solo 35mila. Se non si arriva a 65mila al giorno sarà tragica. Cosa fa il governo? “Quando un governo scrive nero su bianco nel proprio piano strategico di potere disporre di dosi di vaccini per 50 milioni di italiani entro giugno, ma di non pensare di usarle tutte se non entro settembre, denuncia preventivamente la propria impreparazione. Il governo eviti il consueto scaricabarile con le Regioni, e faccia quello che non fa, cioè coordinare nel piano di vaccinazioni tutte le risorse sanitarie pubbliche e private disponibili, attive o rapidamente attivabili nel Paese”. Cos’è, di preciso, che non le va giù? Mi faccia capire… “L’idea di selezionare ex novo 15.000 operatori sanitari (3.000 medici, 12.000 infermieri), assumerli, formarli e poi ripartirli in centri che neppure si sa quali e dove siano, porta a questa conseguenza: che è partita la vaccinazione, ma non ci sono abbastanza vaccinatori e quindi scarseggiano anche i vaccinati. Dovremo festeggiare l’ultimo vaccinato tra quelli previsti, piuttosto che il primo, perché i ritardi nelle vaccinazioni saranno ritardi anche per la ripresa economica”. Il governo è in grado di gestire il post pandemia, tra vaccini e gestione dei fondi europei, o il compito deve spettare ad altri? “Quasi tutti i governi europei sono alle prese con difficoltà molto serie e quello italiano con difficoltà ancora più serie, a fronte di risultati ancora peggiori. Durante una pandemia occorre mettere nel conto l’imponderabilità degli eventi e questo dovrebbe consigliare di evitare di colpevolizzazione. Quello che però proprio non si può fare è presentare come un successo il “modello italiano” con questi record di letalità e di mortalità e mostrare un’insofferenza intollerabile di fronte a ogni critica. Sul futuro di questo governo o ad un altro deciderà il Parlamento. Ma un Conte-ter, o un rimpasto non sono prospettive interessanti, perché non costituiscono una alternativa al Conte-bis, che già di per sé non rappresentava una alternativa al governo Conte-uno”. E Renzi che minaccia la crisi ha ragione o è una tigre di carta? “Le critiche di Renzi sono tardive, perché è in maggioranza, ma non per questo sono meno vere. Vedremo se finirà a tarallucci e vino, tanto per tirare a campare un altro po’, oppure si aprirà una fase nuova”. Antonio Polito sul “Corriere” dice che Conte non è Churchill. E che ci sono problemi da risolvere come il solo utilizzo di 88 miliardi di euro dei 127 di prestiti causa esplosione del debito pubblico; o l’aumento della burocrazia al 30% (spaventa la Merkel); o i 24 miliardi di prebende in Finanziaria. Secondo lei tutti questi sono timori giustificati? “Sono giustificati sia i timori del Mef di non lasciare crescere il debito oltre limiti già abnormi, sia le preoccupazioni che il Next Generation venga buttato via in progetti vecchi e clientelari, senza ricadute sulla crescita. Si può usare una piccola parte dei fondi per spese già programmate, ma solo per investimenti e riforme, non per 55 miliardi di bonus come vorrebbe Conte. La legge di bilancio è un enorme contenitore di “mance”. La possibilità che il Recovery Fund venga sprecato è molto concreta. Poi, per un giudizio sui progetti serviva una discussione in Parlamento anche su priorità e obiettivi per le future generazioni”. Non è insolito che per la Sanità siano stanziati solo 9 miliardi quando ne occorrerebbero almeno 25, mentre per i ministeri più forti come lo Sviluppo si allocano 70 miliardi tra digitalizzazione e transazione energetica (rinnovo dei bonus del 110% compresi)? “Purtroppo la crisi pandemica spinge, per così dire naturalmente, verso scelte di breve periodo, che rispondano a condizioni e interessi di emergenza”. Il Mes sta lì e nessuno lo tocca, sembra come quando alle feste aspetti che al buffet si facciano avanti gli altri per primi... “La scelta sbagliata di non usare il Mes, condizionato alla spesa sanitaria, non può condurre a usare il Next Generation sulla sanità. D’altra parte l’Italia ha un sistema sanitario in grave crisi non - come si usa dire - in conseguenza delle politiche di austerità, ma per avere dirottato una quota della spesa sociale dalla sanità a interventi come quota 100 e il reddito di cittadinanza, cioè per avere adeguato le politiche di welfare alla logica del puro voto di scambio. Che senza Mes gli investimenti in sanità sarebbero stati insufficienti era assolutamente prevedibile, anzi scontato”. Qual è in questo momento la nostra peggior iattura? La burocrazia, la giustizia ultima in Europa, il debito pubblico, l’incertezza, il dilettantismo politico... altro? “Non c’è matrice comune per i problemi italiani. Rispondono tutti a un meccanismo politico identico, che la rivoluzione “antipolitica” non ha corretto, ma aggravato: in Italia non si cerca il consenso su un progetto di governo, ma si usa il governo per progetti di consenso e in generale di potere. Avviene in tutte le democrazie, ma in Italia in modo più assoluto e radicale. Ormai è normale pretendere di governare a prescindere dalla realtà, dai risultati, dalle conseguenze delle scelte compiute. Dunque è ovvio che il processo democratico sia una successione di scambi di utilità immediate, di rendite presenti fondate sui debiti futuri e di costruzione di capri espiatori a cui addossare tutto quello che non va (l’Europa o gli immigrati o le aziende straniere...). Questo deteriora la qualità della democrazia”. Qual è il compito dei partiti (soprattutto di voi, Radicali, +Europa e Calenda) e del Parlamento per correre ai ripari? “I partiti dovrebbero pensare un po’ meno alla propaganda e un po’ di più agli obiettivi. Le nostre componenti parlamentari, +Europa-Azione-Radicali, 3 senatori e 4 deputati, non sono interessate ai giochi parlamentari. Possiamo servire molto di più sul piano delle idee. Con Benedetto Della Vedova e pochi altri abbiamo promosso +Europa nel 2017 quando l’Europa era per tutti sul banco degli imputati e quando l’anti-europeismo era considerato una patente di rispettabilità. Il Covid ha invece insegnato a tutti che senza Ue oggi non avremmo neppure chi compra il nostro debito pubblico. Oggi c’è un’opposizione europeista e riformatrice, liberaldemocratica ed ecologista che sta crescendo”. Cosa ci riserva il 2021? Crisi di governo, rimpasto, elezioni anticipate o un burrascoso traghettamento verso il semestre bianco con un collettivo “tirare a campare”? All’estero, lei che frequenta, cosa ne pensano di noi? “Che l’Italia sia considerata, da prima del Covid, un problema per l’Europa non è pregiudizio, ma realtà: “crescita” azzerata, massimo debito, scarsa produttività, inefficienza della pubblica amministrazione, poca ricerca e formazione insufficiente. Da vent’anni arranchiamo vedendo crescere il nostro divario dai Paesi più forti e usciremo dal Covid vedendolo ancora più accentuato. Ovvio che si guardi con preoccupazione anche all’attuale fase di instabilità istituzionale. Cosa succederà al governo non lo so, ma tirare a campare non è un’opzione possibile, se la politica si accontenta di galleggiare l’Italia affonda”. Su “Repubblica” Liliana Segre fa un appello alla vaccinazione soprattutto nelle carceri italiane, dove il distanziamento è impossibile. Cosa ne pensa? A che punto è la storica battaglia per il rinnovo del sistema penitenziario? “A un punto morto. Dopo che nella scorsa legislatura il governo Gentiloni lasciò cadere la riforma Orlando, la discussione sul carcere è stata sequestrata da un ministro della Giustizia, Bonafede, che nel primo e nel secondo governo Conte ha dato prova di considerare la “costituzionalizzazione della galera” una sorta di pretesa da anime belle e un regalo alla criminalità. Sul Covid, è uguale. Sembra che segnalare l’urgenza sanitaria della situazione delle carceri - come continua a fare meritoriamente Rita Bernardini - significhi fare un favore a chi non se lo merita, quasi che l’immunità da un virus potesse essere distribuita sulla base del merito e non del rischio personale e sociale”. Lei conosce bene gli Esteri. Come ci stiamo comportando noi ora nei rapporti con Ue, Stati Uniti, Russia, ma soprattutto con la Cina che sta destabilizzando il nostro sistema industriale e tornerà a premere sul 5G? Cosa la sconfinfera e cosa no dell’attuale politica del ministro Di Maio? “Di Maio è arrivato alla Farnesina dopo avere inanellato nella sua storia politica, come esponente e capo M5S, relazioni pericolose con tutti i nemici dell’occidente democratico. Russia, Cina, Venezuela. Pochi mesi prima di diventare ministro degli Esteri, è andato in Francia a sostenere la causa dei Gilet Gialli che mettevano a ferro e fuoco Parigi. Ora ha cambiato registro. Resta il fatto che per chi due anni fa proponeva come Salvini il referendum sull’uscita dall’euro, accreditarsi oggi come leader europeista è azzardato. Di questo risente anche la politica estera italiana: tutta tattica estemporanea, di mero galleggiamento, su tutti i fronti principali di crisi globale”. Siamo messi bene. E un possibile arrivo di Draghi (in questo momento lo invocano tutti dalla massaia al mercato a Salvini)? Lo vedrebbe meglio premier o al Quirinale? “Penso che Draghi darebbe ovunque buona prova di capacità e intelligenza, posto che ne abbia voglia e gliene sia data la possibilità. Ma la questione più importante sarebbe capire se in Italia c’è un sistema politico capace di supportare, come fece nel 2012 quello europeo, un nuovo “Whatever it takes”, questa volta non per salvare l’euro e l’Ue, ma per salvare l’Italia dalla spirale di un declino irrimediabile. Se accadesse, noi saremmo pronti a fare la nostra parte”. Le manca Marco Pannella? “Mi manca molto, Marco. Ma credo che manchi a tutti”. Addio 2020: anno nero della giustizia, delle garanzie e del processo di Simona Musco Il Dubbio, 4 gennaio 2021 Una cartina di tornasole dello Stato di diritto può arrivare ora dalle decisioni della Corte Costituzionale, spesso sismografo della tenuta delle garanzie. L’annus horribilis dei diritti. Il 2020 dell’avvocatura si potrebbe riassumere così, tra il tentativo di smaterializzare il processo, ridisegnando (in peggio) il diritto alla difesa per contrastare la pandemia, e la marginalizzazione dei liberi professionisti nelle misure emergenziali. Dopo mesi di paralisi del sistema giustizia, con il blocco dei processi da marzo a maggio scorso e lo spettro evocato, e poi non realizzato, del processo da remoto, per affrontare la seconda ondata del virus il governo ha pensato ad una soluzione che, di fatto, secondo l’avvocatura, rischia di peggiorare il problema, oltre che di crearne qualcuno nuovo: una Camera di consiglio da remoto per i giudizi in appello. Con un processo di fatto cartolare, senza l’intervento del pm e dei difensori, salvo che una delle parti faccia richiesta di discussione orale o che l’imputato manifesti la volontà di comparire. A poter visionare gli atti sarà solo il relatore, data la lontananza dalla Cancelleria della sezione, rendendo la collegialità, dunque, un lontano ricordo. L’immediata conseguenza è che la maggior parte degli avvocati, per evitare tale rischio, chiederà la trattazione orale, anche nei casi in cui sarebbe stato possibile farne a meno. Con l’effetto, dunque, di aumentare, anziché diminuire, le presenze nelle aule. La crisi dello stato di diritto - Se è vero che le difficoltà non nascono con il Covid, di sicuro si può dire che la pandemia ha accentuato i problemi strutturali della giustizia. Ne è certo Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’università di Bologna, secondo cui il 2020 è stato un anno difficilissimo per l’avvocatura e per i diritti. “C’è sempre un equilibrio molto difficile tra tutela della salute pubblica ed esigenze di funzionalità della giustizia - spiega. Ma bisogna comprendere che per il processo penale la compresenza fisica è necessaria ed è difficile possa rinunciarvisi, dopo aver visto via via liofilizzarsi, se non scomparire, alcuni principi cardine come oralità, immediatezza e concentrazione. La fisicità è un requisito determinante e centrale”. Ma anche le modifiche relative alla sospensione dei termini della prescrizione e al prolungamento di quelli per la custodia cautelare rischiano di non rispondere al quadro costituzionale, secondo molti giuristi, specie quando sono munite di effetti retroattivi. Dubbi che la Consulta non ha fatto propri, ritenendo la sospensione della prescrizione non in contrasto con la Costituzione. Una decisione, commenta Manes, “che apre ad uno scenario di processualizzazione che suscita opinioni critiche. Fino a poco tempo fa - aggiunge - la prescrizione era ritenuta un istituto di diritto sostanziale, quindi direttamente connesso alle garanzie di legalità e irretroattività. Questi distinguo, in qualche modo, aprono una breccia che potrebbe consentire di far fluire molte diverse ipotesi di sospensione retroattiva della prescrizione ai danni dell’imputato, colui che ne pagherà realmente il prezzo”. Una cartina di tornasole dello Stato di diritto può arrivare proprio dalle decisioni della Corte Costituzionale, spesso sismografo della tenuta delle garanzie. “Osserviamo luci e ombre - continua Manes. L’anno si è aperto con una decisione storica, quella sulla irretroattività delle norme penitenziarie che avessero effetti afflittivi e punitivi sulla sfera giuridico penale del singolo. Le ultime decisioni, non solo quella sulla prescrizione, ma anche quella sulla impossibilità di accedere al rito abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo, segnalano una diversa sensibilità e un diverso rigore nell’affermare e proteggere le garanzie. Il contesto è emergenziale e comprendiamo tutte le necessità di primaria protezione di alcune esigenze di salute, però questo non dovrebbe mai consentire di accettare deroghe rispetto a garanzie fondamentali dello Stato di diritto, perché lo stesso è pensato proprio per reggere all’impatto di contesti eccezionali e di emergenza”. Una categoria in difficoltà - A dare un’idea di quanto sia stato duro il 2020 per la categoria ci ha pensato il Censis: il 57 per cento degli avvocati, stando all’ultimo rapporto, ha chiesto il bonus da 600 euro erogato dallo Stato per far fronte alle perdite causate dalla pandemia. I numeri finora a disposizione, sulla base dei dati contributivi relativi a luglio, parlano di una flessione delle entrate pari al 20 per cento. A spiegarlo è Nunzio Luciano, presidente di Cassa Forense: il dato, per ora, è parziale, ma basta a comprendere la situazione. Per questo l’obiettivo per il 2021, sottolinea, è creare “un nuovo tipo di welfare per i liberi professionisti, un’operazione di sistema che deve vedere in prima fila l’Adepp, l’associazione degli enti di previdenza privati”. Per affrontare la crisi Cassa Forense ha messo in campo diversi bandi, con lo scopo di aiutare economicamente gli avvocati in difficoltà. Tra questi quello per le spese degli studi legali e le prestazioni assistenziali straordinarie legate al Covid, con un’indennità pensata non solo per coloro che hanno contratto il virus, ma anche per chi ha subito una quarantena forzata. “Attualmente ci sono più di 8mila domande da evadere e le risorse sono in esaurimento - spiega Luciano. Il nostro impegno sarà di reperirle, senza dimenticare che siamo un ente che deve erogare le pensioni. La parola d’ordine è solidarietà: il più forte aiuta il più debole”. Ma per il 2021 è importante anche puntare sulla formazione. “Serve un nuovo modello di avvocato, partendo da una riflessione con il Consiglio nazionale forense e le associazioni più importanti dell’avvocatura - aggiunge. La formazione non potrà più essere quella tradizionale. L’avvocato dovrà cambiare pelle, sfruttando i nuovi fronti legati anche alle tecnologie e puntare agli studi associati e multisettoriali. Ma soprattutto serve unità: un’avvocatura divisa è debole e dobbiamo vincere i personalismi per portare avanti un progetto comune”. Giuseppe Santalucia (Anm): “La giustizia non si riforma a costo zero” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 4 gennaio 2021 Eletto presidente dopo il caso Palamara, assicura “più attenzione all’etica”. Il trojan? “Utile ma invasivo, usare con cautela”. “Il caso Palamara non si esaurisce con la vicenda di Palamara. Nessuno ha intenzione di gettare nell’ombra quello che è successo, né di voltare le spalle”. Parte da questo assunto la linea di Giuseppe Santalucia. Magistrato di Cassazione, esponente di Area, l’associazione delle toghe progressiste, già capo dell’Ufficio legislativo dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, da inizio dicembre guida l’Associazione nazionale magistrati. Alla sua elezione si è arrivati dopo lunghe giornate di discussione: “Abbiamo puntato all’unità, facendo una mediazione costruttiva, non al ribasso”, dice ad HuffPost a cui spiega il suo punto di vista sui temi più caldi che l’universo giustizia dovrà affrontare nei prossimi mesi. Le riforme? “Necessarie, ma la stagione dei provvedimenti a costo zero è finita”. La protesta della magistratura onoraria? “Indispensabile garantire i diritti di chi ha lavorato finora, ma si evitino in futuro sacche di precariato”. E sul processo da remoto, necessario in tempi di pandemia ma che vede forti perplessità da parte degli avvocati, ci dice: “Sbaglia chi pensa che i magistrati vogliano fare i processi da casa. Torneremo a farli tutti in presenza, ma intanto evitiamo il lockdown della giustizia”. Padre tecnico della riforma delle intercettazioni, sa benissimo quanto invasivo sia lo strumento del trojan. E per questo ricorda: “Il ruolo di garanzia non è solo nella legge ma anche nelle mani del magistrato, lo strumento è importante per le indagini ma va usato con molta cautela, perché può essere pericolosissimo”. Presidente, Lei ha preso la guida dell’Anm in un momento complicato per la magistratura, che esce da un anno e mezzo difficile, per quello che è passato alle cronache come “il caso Palamara” e la questione morale che ne è seguita. Come si riacquista la fiducia dei cittadini nelle toghe e come pensa di farlo l’Associazione nazionale magistrati? Proprio per recuperare la fiducia andata persa negli ultimi tempi il programma su cui c’è stata ampia, seppure non totale, convergenza nell’elezione della giunta esecutiva dell’Anm è stato basato su una maggiore attenzione all’etica del magistrato. Non solo quando lavora ma anche quando si rapporta con le istituzioni, con il Consiglio superiore della magistratura in particolare. Abbiamo assistito a comportamenti non corretti né consoni alle toghe e ora è necessario recuperare terreno, con consapevolezza e responsabilità. Tenendo presente che il caso Palamara non si esaurisce con la vicenda dell’ex leader di Unicost, dal momento che anche vari altri colleghi sono coinvolti, ma anche che la stragrande maggioranza della magistratura è estranea alle logiche evidenziate dalle chat. Su questo fronte sicuramente proseguiremo il lavoro fatto dalla giunta precedente e cioè quello di verificare e di accertare, sulla base delle regole del nostro codice etico, i comportamenti scorretti che sono emersi in quella vicenda. Lo faremo anche tenendo a mente le parole del presidente della Repubblica, che nel suo discorso di fine anno ha invitato le classi dirigenti a un rinnovato impegno a costruire. Nei mesi scorsi si è parlato tanto di “degenerazioni del correntismo”. Quanto è diffuso il fenomeno e quale è la cura? C’è un problema culturale, che però non riguarda tutti i magistrati. Certamente, però, negli anni passati c’è stata la degenerazione di quello che era un meccanismo virtuoso di confronto tra le toghe. Quella desinenza -ismo è sintomatica di un sistema scorretto che aveva preso piede. Ciò non è accettabile e il fenomeno delle correnti che diventano in sostanza un gruppo di pressione lobbistico certamente va stroncato. Il lavoro dell’Anm andrà in questo senso. E sia chiaro che nessuno ha intenzione di mettere in ombra quello che è successo, che è stato un campanello di allarme, né di voltare le spalle. Quando si è insediato al vertice dell’Anm ha affermato che il suo programma non sarebbe stato “a ribasso ma di mediazione”. Cosa voleva dire? Sottintendeva la necessità di un lavoro di mediazione tra i vari gruppi che compongono il comitato direttivo centrale, tra le varie sensibilità. Una mediazione costruttiva, non al ribasso. E proprio con questo spirito abbiamo deciso di proporre all’esame della prossima riunione del Comitato direttivo una delle prime iniziative della nuova giunta: quella di creare una commissione di studio per porre all’attenzione del Csm l’opportunità di ulteriori modifiche della normativa secondaria per il conferimento degli incarichi direttivi, nella prospettiva di non incentivare, ed anzi di mortificare, quelle ambizioni di carriera che sono state una delle principali concause dei fatti di cronaca degli ultimi tempi. Su questo ci impegniamo a dare una risposta in tempi rapidi. Poi abbiamo intenzione di approfondire il tema sistema elettorale del Csm, visto che è in cantiere la riforma. Proprio su questo la new entry del Comitato direttivo centrale, la “lista 101”, ha mostrato divergenze rispetto agli altri gruppi. Sostenendo che il sorteggio per i togati sia un’opzione praticabile. Ed esprimendo, quindi, un punto di vista diverso rispetto alle altre anime del cdc, notoriamente contrarie a questa opzione. Proprio in vista degli approfondimenti che intendete fare, come si ricompone questa diversità di vedute? Intanto voglio premettere che abbiamo intenzione di offrire al legislatore spunti di riforma concreti, documenti, e non proclami. Già nei mesi scorsi l’Anm si era esposta per manifestare la sua contrarietà al sorteggio. Anche io, personalmente, non sono d’accordo. Detto ciò, alla luce della richiesta della “Lista 101”, questa giunta si è fatta carico di non escludere a priori nessuna valutazione, di non scartare nessuna ipotesi dal tavolo. Nella storia delle istituzioni il sorteggio ha avuto un ruolo. Io sono contrario, ma non lo banalizzo. L’impegno è di avviare una riflessione ampia sul tema, senza pregiudizi. In cantiere non c’è solo la riforma del Csm. La bozza del Recovery Plan ha richiamato le riforme in discussione sul processo civile e penale. Ha avuto già modo di incontrare il ministro della Giustizia? Da cosa bisogna partire nel processo di riforma, secondo lei? Abbiamo avuto un primo incontro con il ministro, in cui è stata prospettata, ma ancora a livello di discussione generale e non operativa, l’importanza e l’urgenza di alcuni provvedimenti. Nell’immediato è necessario intervenire sulla giustizia civile. Proprio su questo terreno il ministro ci ha anticipato che occorrerà accelerare le riforme, per la semplificazione delle forme processuali. Quel che ora posso dire è che non basta cambiare le norme processuali. È fondamentale investire anche in risorse organizzative. Perché bisogna chiudere la stagione delle riforme a costo zero, se davvero vogliamo dare un servizio più adeguato. E della riforma del processo penale cosa pensa? Sembra che il governo voglia puntare molto sui riti alternativi... Sono d’accordo, in un sistema accusatorio, come il nostro, decongestionare il dibattimento è fondamentale. Perché se un numero eccessivo di casi non viene risolto con un procedimento più snello, inevitabilmente la macchina della giustizia si ingolfa e non può essere efficiente. Mai come oggi la macchina della giustizia è in difficoltà. Durante la prima ondata della pandemia si è quasi fermata, oggi comunque procede un po’ a rilento. Questo comporta l’accumulo di arretrati che, con particolare riferimento al processo penale, sarà reso ancora più evidente dallo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Con il rischio di ulteriori rallentamenti nel funzionamento della giustizia. Come se ne esce? Siamo consapevoli di quanto sia consistente l’arretrato accumulato nella prima fase della pandemia. Nei mesi primaverili si svolgevano davvero solo le questioni più urgenti e inevitabilmente oggi ci troviamo con una mole di lavoro imponente. Proprio per questo bisogna evitare che l’arretrato cresca ancora. La giustizia non può fermarsi, ovviamente però bisogna garantire la sicurezza di tutti coloro che lavorano nei tribunali. Come si fa? Anche attraverso il processo da remoto. Su questo punto, mi permetto di dissentire da ciò che ha affermato il presidente delle Camere penali (Giandomenico Caiazza, in un post, ha fatto riferimento a un “tentativo di sovvertire strutturalmente le regole costituzionali” del processo penale”, ndr). Non c’è nessuna volontà di rendere strutturale un meccanismo nato per l’emergenza, di dare vita a un processo penale virtuale permanente. Dovrebbe essere interesse di tutti fare in modo che le udienze continuino, anche e soprattutto per garantire i diritti delle parti. Sbaglia chi crede che la magistratura abbia interesse a fare i processi da casa. Quando si potrà torneremo a farli tutti in presenza. Nel mentre, va evitato il lockdown della giustizia e vanno poste le condizioni affinché i processi, civili e penali, possano essere svolti privilegiando quanto più possibile la trattazione scritta e i collegamenti a distanza, ovviamente soltanto per il periodo dell’emergenza. Emergenza che non si concluderà il 31 gennaio 2021, che è la data, allo stato, di cessazione delle misure emergenziali a cui ho fatto cenno. Il Legislatore dovrebbe individuare una data realistica di chiusura della parentesi di emergenza, in modo da consentire e non ostacolare, come ora invece sta avvenendo, una ordinata organizzazione e programmazione del lavoro giudiziario Il suo riferimento all’intervento del leader dei penalisti ci riporta all’annosa questione dei rapporti tra magistratura e avvocatura. C’è spesso una sorta di difficoltà di comunicazione. Come intende gestirla l’Anm? Intanto, ritornando ad un dialogo libero da parole d’ordine preconcette. Nessuno cerca l’unanimità di vedute, secondo un unanimismo di mera facciata, ma credo che sia il caso di evitare contrapposizioni aspre soprattutto nei toni, anche per non dare all’esterno l’immagine di uno sterile scontro tra corporazioni professionali. L’interesse ultimo delle due categorie dovrebbe essere lo stesso. Pur nella diversità dei punti di vista, io suggerirei di cambiare approccio. Torniamo alle riforme in cantiere. Soprattutto nei primi mesi del 2019 c’è stata una discussione sulle sanzioni ai magistrati che non rispettano i tempi. Che posizione ha l’Anm su questo? Gli illeciti disciplinari sono già previsti in una legge, la 109 del 2006. Un eventuale nuovo provvedimento sulle sanzioni non andrebbe a colmare nessuna lacuna, avrebbe soltanto l’effetto di una norma-bandiera. Le negligenze, chiaramente, vanno sanzionate, ma gli strumenti per farlo ci sono già. Credo sia poi il caso di ricordare che quando la giustizia ha tempi troppo lunghi la responsabilità non è dei magistrati, che ciò si verifica semmai in casi rari. Rifiuto l’equazione tempi lunghi dei processi = colpa dei giudici. Le ultime settimane dell’anno appena passato sono state caratterizzate dalla protesta della magistratura onoraria, che opera “a cottimo” e ora chiede un trattamento lavorativo adeguato ai compiti che svolge. Anche la giustizia europea si è, del resto, espressa in questo senso. L’Anm in una nota ha mostrato la solidarietà ai giudici che manifestavano. Come si risolve la questione? Ci sono due aspetti della vicenda: il primo riguarda il presente e il passato. Il secondo il futuro. Io credo che i circa 5mila giudici onorari e di pace che svolgono attualmente la professione hanno ricevuto un trattamento inaccettabile. Sono state date loro responsabilità sempre maggiori ma è mancato il pieno riconoscimento dei loro diritti che, al contrario, sono stati mortificati. Ecco, allora per quanto riguarda loro credo che sia il caso di garantire i diritti di cui non hanno goduto. Questa vicenda, però, deve fare da spartiacque tra passato e futuro: tra 10 anni non dobbiamo trovarci con lo stesso tipo di contenzioso. Come? Applicando la riforma Orlando, che può certo essere modificata e migliorata. L’attività della magistratura non togata non dovrà più perdere la caratteristica dell’onorarietà. Diversamente si creeranno ancora sacche di precariato che non sono accettabili. Bisogna insomma chiudere questo capitolo e la politica deve impegnarsi al massimo perché accada. Il suo riferimento all’ex Guardasigilli, del quale lei ha diretto l’ufficio legislativo, ci riporta a un’altra riforma varata quando Orlando era ministro, ma entrata in vigore solo l’anno scorso: quella delle intercettazioni. Tra le varie norme, viene introdotto l’utilizzo del trojan, per alcuni reati. Uno strumento potrebbe prestarsi ad abusi. Lei ha detto che va usato “con molta sapienza”. Cosa intende? Il trojan è uno degli strumenti d’indagine più invasivi, perché il virus viene inoculato, in genere, nei dispositivi elettronici portatili dell’indagato e, da quel momento, ogni singolo istante della sua giornata viene registrato. Sotto questo aspetto, va da sé che può essere pericolosissimo. Proprio per questo io credo che sia necessaria cautela nel disporne l’utilizzo. Il legislatore pone dei limiti, ma il ruolo di garanzia dei diritti non si ferma alla legge, arrivando poi nelle mani del magistrato che conduce l’indagine. Per questo ci vuole molta cautela. D’altro canto però, vietarne l’uso a priori avrebbe il significato di reprimere l’indagine. La legge, quindi, lo consente, è il magistrato che deve assumersi la responsabilità della scelta, stando attento alle garanzie. Nell’ultimo anno in almeno un paio di occasioni i magistrati sono stati duramente attaccati: nella prima fase della pandemia è stata bersaglio dell’opinione pubblica la magistratura di sorveglianza che, legittimamente, scarcerava per un periodo i detenuti che rischiavano la vita a causa dell’emergenza Covid. Di recente, invece, nell’occhio del ciclone è finito il tribunale di Brescia, che ha stabilito la non imputabilità di un uomo che aveva ucciso la moglie e soffriva di una seria patologia psichica. Come si difendono le toghe da questi attacchi? Io credo che le critiche siano più che lecite, ovviamente. Quello che costituisce un problema è il dileggio della decisione del giudice, soprattutto se basato solo sul dispositivo e non anche sulla lettura dell’intera sentenza, sulla valutazione del lavoro completo. Tali critiche generano confusione. Sulla decisione di Brescia è stato montato un caso inesistente e si è creato il tipico incidente che accade quando si danno notizie che non trovano fondamento nei fatti. Dal processo all’esecuzione della pena. In questi mesi c’è stato un ampio dibattito sul carcere e sulla necessità di ridurre il sovraffollamento in tempi di Covid. Anche l’Anm era intervenuta a marzo con una nota in cui invitava a non dimenticare i penitenziari. Il 2 gennaio, sulle pagine di Repubblica, abbiamo letto l’appello della senatrice Liliana Segre e del Garante dei detenuti Mauro Palma affinché anche a chi vive e lavora in carcere sia data la priorità nel piano vaccinale. Cosa ne pensa? Che il carcere è un luogo di particolare fragilità, che i diritti dei detenuti devono trovare piena tutela e, per questo, merita attenzione. Sono evidenti i rischi che corrono gli operatori penitenziari, che dovrebbero essere vaccinati il prima possibile. Quanto ai detenuti, la loro è una situazione di strutturale fragilità e per questo la loro condizione va tenuta al centro del dibattito. Anche su questo tema. “Basta con i giudici onorari sottopagati, se diventa un lavoro allora va retribuito” di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 4 gennaio 2021 Ostellari, senatore padovano presidente della Commissione Giustizia: “Problema da risolvere in fretta o sarà il caos”. “Al Senato nella commissione Giustizia che presiedo, tra i temi in discussione c’è quello della magistratura onoraria. Ci sono diversi disegni di legge presentati, ma si tratta di progetti che introducono correttivi e non risolvono la questione. La Lega ha una sua proposta e io la caldeggio. La politica deve trovare soluzioni o si rischieranno altre condanne come quella del giudice del lavoro di Vicenza e allo Stato costerà molto di più”. È l’avvertimento del senatore padovano Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia e avvocato di professione. Il tema è di stretta attualità: la retribuzione della magistratura onoraria che comprende giudici di pace, vice procuratori onorari (vpo) e giudici onorari (got). Il 16 dicembre scorso il giudice del lavoro di Vicenza, Gaetano Campo, ha accolto il ricorso di un giudice onorario (un legale padovano). E ha stabilendo il principio che il giudice onorario ha diritto a percepire lo stesso trattamento economico del giudice ordinario (togato cioè professionista). Presidente Ostellari, tante volte i magistrati onorari hanno protestato inascoltati perché hanno retribuzioni molto basse, un lavoro precario e nessuna e nessuna garanzia. Ora che succederà? “Ripeto, questa sentenza pone un tema urgente alla politica. E se non ci pensa la politica a risolverlo, ci penseranno i giudici del lavoro a dare risposte a chi chiede giustizia in base al principio “mi paghi ciò che mi spetta”. Credo che anche il Governo si debba mettere intorno a un tavolo accogliendo la nostra proposta. Qualcuno ne ha di diverse? Si faccia avanti. Neppure i magistrati onorari sono d’accordo con la proposta del ministro Bonafede. Al contrario di altri disegni di legge, quello della Lega prevede una stabilizzazione che consentirebbe ai magistrati onorari attualmente in servizio di essere tutelati sotto il profilo contributivo ed economico. Di fatto la magistratura onoraria resterà tale mantenendo le stesse competenze e quella ordinaria nulla avrà a che vedere con essa. Gli onorari hanno costituito una colonna importante del sistema giustizia e sono stati puntualmente confermati nel loro incarico, incassando poco e senza alcuna tutelata anche in caso di malattia. Ecco il senso di questa proposta: trovare una soluzione idonea senza creare una magistratura di serie A e una di serie B”. Che cosa prevede? “Intanto va fatta una precisazione: riguarda i magistrati onorari già in servizio ai quali si prevede di garantire un contratto a tempo indeterminato nello svolgimento delle funzioni che già esercitano con una retribuzione di 40 mila euro l’anno lordi a fronte di un impegno di almeno tre volte a settimana, oltre a oneri previdenziali e assistenziali fino al raggiungimento dell’età pensionabile di 70 anni. Oggi se un onorario è colpito da una malattia, è del tutto “scoperto”. A Palermo hanno proclamato addirittura uno sciopero della fame per denunciare questa situazione. Oppure se non si interviene, bisogna avere il coraggio di dire a queste persone: “Signori fino a oggi vi abbiamo presi in giro e ora vi lasciamo a casa”. Secondo noi, la proposta della Lega è la via giusta. Vedremo che ne pensa governo che potrebbe intervenire anche con un decreto legge”. La vostra proposta riguarda i magistrati onorari già in servizio. E chi in futuro entrerà nella magistratura onoraria? “Oggi ci sono persone che hanno trasformato in lavoro l’attività di magistrato onorario. E non è colpa loro, ma dello Stato che lo ha permesso perché andava bene che queste persone lavorassero sottocosto. Da oggi in poi deve essere chiaro che non si può continuare a fare ricorso ai magistrati onorari impiegandoli come se lavorassero a tempo indeterminato. È necessario stabilire regole chiare per il futuro e incarichi a termine”. Tempi per intervenire? “Anche a causa del Covid siamo stati bloccati e ora siamo concentrati sulla legge di Bilancio. Tuttavia alla presidente del Senato come commissione Giustizia abbiamo chiesto l’autorizzazione ad andare avanti sulla questione”. Ivrea (To). Il carcere cade a pezzi: quando piove si allagano anche alcune celle quotidianocanavese.it, 4 gennaio 2021 È quanto ha evidenziato il Garante regionale delle persone detenute che ha presentato un dossier in Consiglio regionale per chiedere interventi urgenti in alcune strutture penitenziarie, Ivrea compresa. “Se non ora quando? Come non pensare di utilizzare parte dei fondi Ue destinati all’Italia per far compiere un salto di qualità alla sanità e all’edilizia penitenziaria?”. Con questo doppio interrogativo il garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano ha aperto questa mattina la videoconferenza stampa di presentazione del Quinto dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi. “La raccomandazione, raramente rispettata, di non giungere mai al 100% di posti occupati per far fronte a necessità di spostamenti o di emergenze - ha spiegato - è diventata particolarmente drammatica nel corso della pandemia. Occorre operare affinché l’affollamento, che in alcuni Istituti piemontesi raggiunge anche il 130%, non superi il 98% della disponibilità”. Il documento, elaborato dal garante regionale in collaborazione con il Coordinamento piemontese dei garanti, verrà indirizzato al capodipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia, al provveditore dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte Pierpaolo D’Andria, al ministro di Giustizia Alfonso Bonafede e ai sottosegretari di Stato Vittorio Ferraresi e Andrea Giorgis. Critica la situazione a Ivrea dove piove dentro in alcune celle e il sistema di videosorveglianza funziona solo nel 50% della struttura. Questi gli interventi che il garante ha sollecitato per la struttura eporediese: - completamento del sistema di videosorveglianza delle aree comuni interne dell’istituto: al momento il sistema è stato attivato solo per il primo e terzo piano, mancano ancora il secondo ed il quarto, dei 4 piani in cui si articola l’edificio detentivo; - risistemazione logistica delle attività di servizio alla struttura detentiva o di formazione per un utilizzo più funzionale e meno conflittuale degli spazi; - potenziamento dei locali di formazione e scolastici, con lo sfruttamento migliore degli spazi ed eventualmente anche l’utilizzo di un cortile attiguo alle aule esistenti; - completamento ed ulteriore potenziamento dell’area dedicata all’accoglienza dei parenti in visita: una prima parte del lavoro auspicato lo scorso anno è stato svolto con le iniziative del progetto “Stare insieme”; - sistemazione campo sportivo al fine di poterlo utilizzare tutto l’anno (non solo nella bella stagione): indispensabile il rifacimento recinzione dello stesso; - prevedere la completa riverniciatura delle recinzioni esterne, non solo con finalità di decoro ma anche di prevenzione dell’erosione; - interventi di consolidamento della copertura dei tetti al fine di evitare le attuali infiltrazioni piovane; - prevedere la completa sostituzione delle guarnizioni delle finestre sia per una miglior coibentazione dei locali che per evitare le infiltrazioni di pioggia che spesso allagano le celle maggiormente esposte alle intemperie. Rovigo. Fp-Cgil: “Detenuti positivi al Covid in arrivo, ma non abbiamo le forze” di Giacomo Capovilla Il Resto del Carlino, 4 gennaio 2021 Potrebbe arrivare a Rovigo una quota consistente di detenuti positivi a Covid del Triveneto. Il carcere, individuato insieme a quello di Trento in quanto di nuova generazione, dovrebbe ospitare 34 detenuti contagiati. Un problema serio, secondo i sindacati della Fp-Cgil Polizia penitenziaria, a causa della grave carenza di personale, la mancanza di medici e attrezzature sanitarie e l’assenza di protocolli per gestire i detenuti positivi e il loro eventuale ricovero. “Rovigo è designata come eventuale luogo per detenuti positivi al Covid - spiega Gianpietro Pegoraro, coordinatore regionale della Fp-Cgil polizia penitenziaria. Come sindacato abbiamo chiesto aiuto al sindaco e al prefetto per evitare di ghettizzare le persone. Il provveditorato (amministrazione penitenziaria a livello decentrato, ndr.), che non vuole sentire ragioni, ha individuato Rovigo per far confluire 34 detenuti (attualmente ce ne sono 240) di media e alta sicurezza da tutto il Triveneto. Non è chiaro perché, in un periodo in cui sono vietati gli spostamenti tra regioni, questi vengano fatti per i detenuti. La decisione è definitiva, ma al momento non è ancora stata attuata perché, per ora, gli istituti sono riusciti a contenere la diffusione del contagio. A Venezia ci sono 38 detenuti positivi. Se la situazione degenera è probabile che vengano trasferiti a Rovigo. In ogni istituto - prosegue Pegoraro - ci sono reparti di isolamento, per motivi di disciplina o di salute. Quando è scoppiata la pandemia il Dap (dipartimento per l’amministrazione penitenziaria) ha detto di usare quei reparti per i positivi. A Rovigo abbiamo cinque stanze per questa finalità. In caso sia positivo al Covid un detenuto deve rimanere in isolamento per 14 giorni. A differenza di Venezia, la situazione in Polesine è migliore perché i tamponi sono stati fatti subito e a tappeto. I 34 posti per i positivi - prosegue il coordinatore regionale - dovrebbero essere ricavati da uno dei due reparti detentivi al primo piano. La scelta è ricaduta su Rovigo e Trento perché sono istituti penitenziari di nuova generazione, in quanto dotati di videosorveglianza e di apertura automatica dei cancelli (non delle stanze). Queste motivazioni non sono sufficienti secondo noi. Non abbiamo abbastanza personale per garantire la sorveglianza, mancano medici e infermieri e non ci sono attrezzature nel caso in cui un positivo peggiori. Non è chiaro né come né dove ricoverare i possibili casi gravi. Il provveditorato è stato l’unico che ci ha risposto dicendo di applicare il protocollo anti-Covid, all’interno del quale non era però previsto l’arrivo di 34 nuovi posti per positivi. Non esiste un piano che stabilisca come operare all’interno dei reparti Covid. Il provveditorato ha preso una decisione senza considerare che il personale è insufficiente e non formato per gestire dei positivi. Attualmente siamo in 124, quando invece dovremmo essere 180”. Milano. Diagnosi ritardata di un tumore a un detenuto, dottoressa condannata a 3 mesi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 4 gennaio 2021 Il medico, all’epoca dei fatti in servizio al carcere di Opera, à stata ritenuta colpevole di “lesioni colpose”: una Tac rapida avrebbe evitato atroci sofferenze a un 61enne. “Omicidio colposo” no, perché una diagnosi tumorale più accurata e tempestiva sarebbe comunque valsa al detenuto morto il 10 dicembre 2014 solo il 50% di possibilità di sopravvivere al massimo 2 mesi in più, ma di certo “avrebbe lenito le gravi sofferenze psicofisiche del paziente, migliorandone così le condizioni di vita residua”: è con questa motivazione che la III sezione del Tribunale spiega la condanna della dottoressa L.A., all’epoca in servizio nel carcere milanese di Opera e rinviata a giudizio appunto per “omicidio colposo”, a 3 mesi (più risarcimento del danno alla famiglia in separata sede civile) per il reato invece di “lesioni colpose” ai danni del detenuto G.C., di cui in settembre avrebbe sottovalutato i sintomi e non diagnosticato 4-6 settimane prima un tumore ai polmoni, non avviando la terapia del dolore che almeno ne avrebbe mitigato le atroci sofferenze alla schiena (“A fine estate - ha deposto la moglie - lui mi disse: “Ho passato un’estate tremenda, da mesi non riesco a dormire per questo dolore che ho e non posso stare in nessuna posizione…mi dice sempre che non ho niente”). Detenuto all’ergastolo nella sezione di Alta Sicurezza del carcere di Opera, l’uomo aveva 61 anni al momento della morte nell’ospedale San Paolo, dove solo negli ultimi giorni e su istanza dei familiari era stato ricoverato. Centrale, nella ricostruzione che il giudice monocratico Alessandro Santangelo fa della vicenda istruita dal pm Letizia Mocciaro, è la Tac polmonare che nel diario clinico risulta indicata il 19 settembre 2014 da un’altra dottoressa ex medico curante dell’uomo, senza che però si capisca perché l’esame fu in realtà a lungo non fatto, “non comparendo più nelle settimane successive - ha fatto notare il consulente dell’accusa - l’indicazione a eseguire la Tac polmonare senza nessun commento del perché non più presa in considerazione”. Quella Tac, nota il perito, se eseguita in quel momento, avrebbe “con ogni verosimiglianza condotto alla diagnosi” corretta di carcinoma polmonare, anziché alla diagnosi sbagliata di sospetta fibromialgia. Invece soltanto il 19 novembre, dopo un malore che lo aveva fatto ricoverare in ospedale, una Tac aveva mostrato il tumore ormai dilagato, “lo stadio della malattia era ormai talmente avanzato che non c’erano possibilità terapeutiche se non le cure palliative, tanto che fu impostata una terapia con oppiacei, unico tipo di antidolorifico che rispondeva”. Il dibattimento avrà anche una coda processuale. In aula, infatti, la teste dottoressa A. P., che era il precedente medico curante del detenuto e che aveva correttamente indicato la necessità di fare una Tac, ha però affermato che l’esame (eseguibile solo fuori dal carcere) non era poi stato eseguito perché il detenuto aveva rifiutato il ricovero esterno: ma questa affermazione, ad avviso del giudice che ha trasmesso alla Procura gli atti affinché valuti di contestare alla dottoressa la falsa testimonianza, “non convince per una pluralità di ragioni che, ad una lettura congiunta e inquadrata nelle altre risultanze processuali, finisce per accreditarla di franca falsità”. Tra questi elementi ci sono il fax con cui l’avvocato del detenuto sollecitava ancora il 31 ottobre esami diagnostici mediante un eventuale ricovero urgente, la deposizione dell’allora direttore del carcere Giacinto Siciliano, i familiari del tutto all’oscuro del preteso rifiuto del detenuto, e il fatto che la dottoressa lo evochi oggi ma all’epoca non lo abbia annotato nella cartella clinica, finendo in aula per addebitare questa mancanza a una propria possibile distrazione. Sulmona (Aq). “Il fiato sospeso per il Covid dietro le sbarre”, parla la moglie di un detenuto di Andrea D’Aurelio ondatv.tv, 4 gennaio 2021 “Ho vissuto questo Natale in ansia. Sapere che tuo marito positivo è chiuso 24 ore su 24 in una stanza, da solo, ti senti lacerare l’anima”. È lo sfogo che arriva da una donna nella rubrica “Raccontalo al Mister” per via del focolaio dietro le sbarre che è divampato nel carcere di Sulmona. Una situazione decisamente più tranquilla rispetto ai mesi scorsi anche se l’emergenza, come confermano gli addetti ai lavori, non può essere ancora considerata chiusa. La parola passa ai congiunti dei detenuti che hanno seguito tutto a distanza, tra preoccupazione e patema d’animo, senza poter interagire con i reclusi, almeno in un primo momento. “Sono stati giorni di immensa preoccupazione” - racconta la donna - “inizialmente hanno sospeso la videochiamata e si può immaginare come dovevamo sentirci noi familiari. Poi ringraziando Dio si sono organizzati per poterci dare questa occasione per vedere e sapere come stavano i nostri familiari. Io parlo di mio marito positivo. Ho vissuto questo Natale in ansia e preoccupazione. Una preoccupazione che solo chi c’è dentro può comprendere”. La donna parla di un “periodo infernale”. “Ogni giorno che chiamavo chiedevo se avesse febbre, i valori della saturazione dell’ossigeno. Mandammo un pacco postale con saturimetro ma non c’è stato consegnato. Mandammo vitamine D e non sono state consegnate perché non consentite. Solo vitamine C, mascherine e visiere erano permesse. Noi familiari siamo stati male perché mai potevamo immaginare che si arrivava a tanto”. Nello sfogo-denuncia la moglie del detenuto si interroga sull’origine del contagio, specificando che tutti i colloqui da giugno si sono svolti nel pieno rispetto delle misure precauzionali. “Non siamo noi gli untori” - tuona la donna - spiegando ancora che il giorno de suo ultimo colloquio risale ai mesi scorsi, prima dell’adozione del dpcm per la divisione del paese in fasce e colori. Nonostante la prenotazione gli accessi degli utenti furono sospesi per via degli ultimi protocolli anche se lei, dopo un viaggio di due ore e l’attesa nel piazzale Vittime del Dovere, riuscì a incontrare il coniuge. “Mio marito ha trascorso il giorno della vigilia e il giorno di Natale da solo come un cane chiuso in una gabbia” - conclude la donna - “il carcere già di per sé è quello che, figuriamoci con una pandemia in atto. Mercoledì 27 dicembre ha negativizzato ma nonostante questo sono ancora chiusi, non possono scendere a passeggio, non possono fare socialità neanche tra di loro che si sono negativizzati. Aspettiamo che tutto questo finisca quanto prima”. Una storia che fa riflettere sul risvolto umano e sociale della pandemia che coinvolge anche il penitenziario con le famiglie dei detenuti che restano, tuttora, con il fiato sospeso. Gorgona (Li). Beatrice, la contadina che insegna ai detenuti l’arte dell’olio di Stefania Pianigiani agrodolce.it, 4 gennaio 2021 Come ama sottolineare Sonia Donati, referente per la Toscana della Guida Slow Food agli Oli Extravergine, in Toscana l’olivo è sempre stato uno di famiglia, coltivato per lo più da quelle che sono definite Imprese Accessorie, quelle che non producono per la vendita, ma per l’autoconsumo e che quindi si basano sul solo lavoro familiare. A queste si affiancano i produttori che fanno fatica a fare reddito, ma che fanno qualità, quella qualità di olio che il comparto medico definisce nutraceutico: un olio diverso, molto diverso da quello che si chiama sempre extravergine, venduto sottocosto. Ma tutte queste persone, con il loro sacrificio, sostenendo costi non indifferenti, di fatto hanno conservato e conservano il paesaggio toscano, colline verdi, colline coperte di olivi curati, mantenuti, proprio quel paesaggio toscano che i numerosi turisti, da tutto il mondo vengono per vedere e ammirare. In Toscana attorno all’olivo sono nate tante attività e tra i tanti progetti messi in campo, per fare un olio di qualità ce n’è uno davvero speciale, quello di Beatrice Massaza, la contadinaMolto più di un semplice olio extravergine che ha insegnato ai detenuti di Gorgona, l’arte dell’olio extravergine di oliva. Un progetto che ha vinto il premio nazionale Agro-Social: seminiamo valore di Confagricoltura e JTI Italia. I detenuti del penitenziario dell’isola di Gorgona, nell’Arcipelago Toscano, oltre a lavorare nei campi e nel frantoio, si occupano anche di marketing e di vendita. Beatrice Massaza, titolare dell’azienda agricola Santissima Annunziata di San Vincenzo (Livorno), ha centrato l’obiettivo di fare un olio unico, reso ancora più speciale da chi lo fa. In ogni bottiglia c’è molto più di un prodotto di qualità nato da una varietà particolare di olive; ci sono percorsi di formazione per acquisire le conoscenze agronomiche biologiche, le competenze sul marketing e la comunicazione e soprattutto la possibilità di trovare in un lavoro il riscatto di una vita. È questo il cuore del progetto Recto Verso, vincitore del bando Agro-Social: seminiamo valore realizzato da Confagricoltura e JTI Italia. Un’idea che è nata un anno fa e “che è cresciuta grazie all’entusiasmo di tutti e 85 i detenuti e soprattutto dei responsabili del penitenziario”, racconta Beatrice Massaza, da sempre impegnata nel sociale. “Non è beneficenza, ma uno scambio alla pari tra persone che cercano una strada nuova e aziende che hanno bisogno di lavoratori che sappiano fare un mestiere. Il nostro progetto è nato lì perché l’azienda agricola di Gorgona è il luogo ideale. Da qui è nato un percorso articolato, che diventerà entro due anni un modello di lavoro da esportare anche in altri istituti penitenziari. Grazie ad Apot-Associazione produttori olivicoli toscani è stata creata una rete di aziende, circa un centinaio, interessate a partecipare e attivare percorsi formativi e d’inserimento lavorativo. La sfida è quella che dal carcere non escano ex detenuti, ma potatori esperti o agricoltori”. Raccolta, frantoio, quindi formazione sulla commercializzazione e la comunicazione. I ragazzi impareranno a creare le etichette e le campagne pubblicitarie, fino alle strategie di marketing e ai corsi di degustazione. Verranno poi creati dei video tutorial che serviranno a far conoscere ed esportare il modello di lavoro di Gorgona ad altri istituti penitenziari italiani, e piano piano arrivare alla creazione di un ente certificatore con tecnologia blockchain. Il bando Agro-Social: seminiamo valore ha ricevuto la candidatura di numerose idee progettuali di qualità provenienti dai territori coinvolti di Toscana, Umbria, Veneto e Campania, ed è nato con l’idea di stimolare la creazione di opportunità e nuovi modelli di sviluppo per le comunità locali rurali del Paese sostenendo progetti concreti d’impresa, sostenibilità e solidarietà. Perugia. La “funzione riabilitativa della pena” a “I martedì di Ugci” dei Giuristi cattolici lavoce.it, 4 gennaio 2021 “La straordinaria difficoltà che da mesi stiamo vivendo pare quasi averci assuefatto. Si continua a parlare di morti, di tamponi, di statistiche al grido primum vivere… il tempo per ‘filosofarè verrà - così scrivono in un comunicato i Giuristi cattolici dell’Umbria. E a tal proposito lanciano un segnale “che contestualmente è di speranza e di incitamento”. “Se il 2021 è l’anno della ‘ripartenza’ dove sono le idee per farlo? È quindi arrivato il momento di tornare anche a pensare, ad immaginare e a costruire. Anche se ancora non ci si può incontrare di persona, utilizzando i nuovi strumenti di comunicazione, i Giuristi cattolici dell’Umbria hanno organizzato sul web delle “chiacchierate” serali, denominate “i Martedì di Ugci”, in cui incontrarsi sul web per discutere insieme, ripartendo dalle fondamenta del nostro vivere insieme: il principio di dignità. La dignità, infatti, costituisce la pietra angolare su cui si regge tutta la nostra comunità politico-sociale, il principio fondamentale della nostra Costituzione. Seguendo l’insegnamento di Aldo Moro (“quando siete in difficoltà, tornate alle fondamenta”) i giuristi cattolici, propongono allora una serie di riflessioni sulla dignità dopo la pandemia. Se lo Stato esiste per realizzare il bene della persona umana, se la dignità viene prima di ogni altro diritto e valore, allora, si domandano i giuristi, quale dignità nella giustizia, nel lavoro, in economia, nei diritti e nelle libertà? Si inizia martedì 5 gennaio 2021 alle ore 21 in diretta Facebook (pagina “Mishpat-Ugci-Pg-Tr) e youtube, con un incontro sulla funzione riabilitativa della pena. È dignitosa la situazione delle carceri italiane sia per i carcerati, che per i “carcerieri”? Per renderla più dignitosa e utile la pena oggi, c’è solo un problema di soldi? Finito il Covid, il problema delle carceri si risolverà costruendo più penitenziari e assumendo più guardie, oppure facendo più amnistie e indulti, come si è fatto in questi ultimi 30 anni? È possibile incominciare a vedere il problema da un altro punto di vista? Ne parleranno guidati dal Prof. Avv. Simone Budelli, presidente dei Giuristi cattolici, il prof. Stefano Anastasia (Garante regionale per l’Umbria e il Lazio dei diritti delle persone detenute), il prof. Carlo Fiorio (vicedirettore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Perugia), la senatrice e avvocato Fiammetta Modena (Componente della Commissione Giustizia). Il diritto penale e i media, una relazione quasi impossibile di Pietro Polieri Gazzetta del Mezzogiorno, 4 gennaio 2021 Post-modernità giudiziaria è la denominazione dell’ambito entro il quale va collocato l’interesse scientifico attuale di Vincenzo Bruno Muscatiello, docente di Diritto penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari. In tale perimetro di studio, del diritto penale viene colta la complessa e polimorfica fenomenologia trans-formativa e alterativa interna sistemica, determinata dalla sua apertura contemporanea a istanze esterne alla sua costruzione, ordinariamente e storicamente coerente, lineare e logico-continuativa. Nella sua ultima produzione editoriale dal titolo “La seduzione dell’istante. Illusioni penalistiche al tempo dei media” (Cacucci, Bari 2020, 217 pp., euro 22,00) Muscatiello si sofferma a indagare la pressione seduttiva esercitata dai “novissimi” mezzi di comunicazione sulla struttura del diritto penale e su forma e contenuto della sua manifestazione pubblico- rituale, ovvero il processo. Con la stessa sensibilità, fine ed elegante, ma allo stesso tempo travolgente e impetuosa, del miglior Kierkegaard alle prese con la temporalità puntiforme della passione carnale che anima le plurime relazioni sentimentali di Don Giovanni, Muscatiello analizza la materia giuridico-penale nel momento in cui viene aggredita suadentemente dalle per-fusioni/pro-fusioni, incantatrici e inebrianti, dei mezzi di informazione, rilevando, con accorta esplorazione razionale, la decomposizione della sua unità congruente e la disponibilità a farsi attraversare, in modo ormai ricorrente e strutturato, dalle per-versioni illusorie e cronicamente discrete, legate al momento, dell’interesse giornalistico e della rapida e intra-conclusa battuta sui social media. Così, per lo studioso barese, la istantaneizzazione del diritto penale, in piena contraddizione con il suo normale svolgimento discorsivo ed evolutivo, pesato sull’attesa e la pazienza dell’indagine e dell’argomentazione durevoli e conseguenti, produce un vero e proprio stravolgimento identitario e operativo della penalistica stessa, corrotta tanto nella sua nucleità sostanziale quanto nel suo involucro procedurale, pur sempre, però, oggettivazione aderente di quella medesima sostanza, da cui non può essere separata e alla cui costituzione concorre parimenti. Ciò che ne deriva, in maniera ancora più terribile, è l’evaporazione evanescente della normatività ideale, cui il diritto penale si richiama e che costantemente persegue per raggiungere la pienezza della sua estrinsecazione esecutiva. Il diritto penale, in altre parole, rendendosi possibile nella misura in cui accetta il suo “dover-essere” che la tradizione e la prassi hanno plasmato nel tempo, e che rappresenta il suo fondamentale profilo individuale, diventa-altro-da-sé, si snatura, proprio quando cede alle lusinghe, ingannevoli e allucinatorie, dei meccanismi e della temporalità dei media, della telecamera quanto del tweet, dell’immagine quanto del suono, del commento quanto della polemica, in tal modo non più curvandosi sulla realtà dei fatti, che con sapiente meticolosità e scrupolosità si è “data (eticamente e deontologicamente) il tempo” di ricostruire, ma esponendosi alla mutevolezza ingannatoria e stupefacente della “notizia-per-forza-e-dell’-oggi”, legata più all’apparenza che alla realtà, più al nulla che all’essere. Muscatiello, lasciandosi alle spalle un’informazione che saltuariamente scommetteva su qualche processo celebrato su casi o personaggi celebri, operandone una selezione mirata e garantendo anche una certa fedeltà di ripresentazione della loro temporalità attuativa, narra una nuova storia dell’intreccio tra diritto e medialità, che ha trasfigurato il tribunale in salotto giuridico- televisivo, in cui alla dialettica di dimostrazioni e ragionamenti e al rigore di prove e deduzioni si è andata progressivamente sostituendo l’alternanza delle opinioni e la fantasmagoria delle illazioni. Trasformazione, questa, che si auspica di poter ancora controllare prima che muti in stabile degenerazione. Trattativa Stato-Mafia. Puntata storica per Report di Paolo Borrometi articolo21.org, 4 gennaio 2021 “Una puntata storica per Report”. Così Sigfrido Ranucci, autore e conduttore del programma Rai. La puntata, in onda questa sera, alle 21.10 su Rai 3 traccia e descrive tutti i principali spunti investigativi che identificano le deviazioni dello Stato nella stagione stragista e ciò che successivamente è emerso nelle inchieste sulla cosiddetta ‘Trattativa’ fra pezzi dello stesso Stato e la mafia. “C’è un filo che collega la strage di Bologna a quelle del ‘92 - ‘94. Approfondiremo il ruolo nelle stragi della P2, dei servizi di sicurezza, della destra eversiva e di Cosa Nostra - spiega Ranucci - e tutte le novità investigative che hanno portato negli ultimi 27 anni per ben tre volte a indagini nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri per il reato di concorso in strage. Le prime due archiviate, l’ultima ancora in corso presso la procura di Firenze”. Ed è proprio sul caso che Report manderà in onda un’intervista esclusiva a Salvatore Baiardo, favoreggiatore della latitanza dei Graviano che, dopo pochi anni di carcere, è libero. “Baiardo ci rivela che ha partecipato a diversi incontri fra Graviano, Berlusconi e Dell’Utri. E ci dice che i primi risalgono al 1991, spiegando con precisione dove si incontrassero”. Baiardo parla anche dei soldi che i Graviano avrebbero dato a Dell’Utri e Berlusconi, anche per appoggiare il progetto politico, già a partire dal febbraio-marzo del 1992. Ed ancora, fra le novità più attese della puntata, quelle sull’agenda rossa di Paolo Borsellino sparita dal luogo della strage il 19 luglio 1992. “L’agenda è in più mani” rivela sempre Baiardo agli inviati di Report Paolo Mondani e Giorgio Mottola. “Non solo, come si presume, in quelle di Graviano e Messina Denaro. Quell’agenda interessava anche ad altre persone. C’è stato un grosso incontro a Orta per quell’agenda rossa. Un grosso incontro”, riferisce sempre Baiardo. Precisando infine di “averla vista” anche lui. Sigfrido Ranucci annuncia inoltre che, nella puntata, vi sarà “la ricostruzione di un filo di relazioni comuni tra i capi piduisti, il terrorismo di destra, i servizi segreti deviati e la criminalità organizzata che percorre il periodo storico che va dalla strage di Bologna del 1980 alla preparazione della strategia stragista dei primi anni 90”. La puntata di Report, in onda questa sera, è un filo rosso anche per “i nodi irrisolti nel caso delle indagini sulla strage di Capaci, l’omicidio Ilardo, il ruolo di Giovanni Aiello detto “Faccia da mostro” nel racconto del collaboratore di giustizia Consolato Villani”. Villani racconta, nell’intervista, che “Dietro le stragi in Sicilia e anche in Calabria e tutto quello che è successo in Italia c’erano i servizi segreti deviati che partecipavano all’interno istigando, diciamo, queste situazioni”. Infine una triste parentesi che riguarda lo stesso conduttore di Report: Francesco Pennino, in carcere con i boss nel 2010, dopo la pubblicazione del libro a firma di Ranucci con il collega Nicola Biondo sull’infiltrazione di Ilardo, gli rivela che i Madonia l’avrebbero voluto ammazzare “ti volevano far del male”, ma che poi hanno avuto “lo stop da fuori, di non far rumore”. La seconda vita di San Patrignano. “Metodi nuovi senza padri padroni” di Franco Giubilei La Stampa, 4 gennaio 2021 La comunità fondata da Muccioli: oggi più prevenzione mentre l’impronta autoritaria è “sfumata”. Quando la storia di decine di migliaia di persone segnate da dipendenze pesantissime è tenuta insieme da una figura come Vincenzo Muccioli, col suo carisma patriarcale, si capisce come il racconto di Netflix risvegli i fantasmi di vecchie, ma roventissime polemiche. Quanto sia rimasto oggi dell’impronta del fondatore, che governò San Patrignano come una repubblica autonoma con generosità pari alla determinazione con cui incatenava i tossici in astinenza, è una questione attuale cui risponde il presidente della comunità, Alex Rodino. Anche lui, come tutti coloro che ci lavorano, è entrato qui dentro da tossicodipendente, nell’84, dunque le vicende della docuserie le conosce bene, anche se la notizia dell’uccisione di Roberto Maranzano da parte di altri ospiti di San Patrignano la seppe solo più tardi: “Ne lessi sui giornali (era marzo del 1993, ndr), ed è stato pesante portare avanti i ragazzi con quell’attenzione dei media addosso, ragazzi che magari prendevano a pretesto quelle vicende per lasciare il percorso di recupero”, ricorda Rodino. Il reparto punitivo dov’era maturato il pestaggio mortale, avvenuto nella porcilaia, era la macelleria. L’omicidio fu tenuto segreto per quattro anni e il cadavere fatto sparire. Oggi però SanPa è un altro mondo e della filosofia del fondatore sono rimasti i principi-base a guidare la vita dei circa mille ospiti attuali: “L’impronta di Muccioli sta nei principi fondanti di rispetto reciproco e di accoglienza che chi viene dalla piazza, i tossicodipendenti, non pratica. Nei primi anni della comunità quell’impronta era fortemente accentuata”. Partita senza alcuna esperienza né competenza specifica - a fine Anni 70 in Italia nessuno sapeva niente di aiuto agli eroinomani, i servizi pubblici erano assenti, tossici e famiglie erano abbandonati al loro inferno quotidiano - col tempo San Patrignano ha mutato i propri interventi: “I metodi si sono affinati e oggi c’è un vero gioco di squadra rispetto ad allora, quando la guida era una - aggiunge il presidente -. All’inizio da qui si scappava, oggi quasi più nessuno lo fa, e se qualcuno lascia la comunità è libero di farlo”. Niente di paragonabile al modo in cui Fabio Anibaldi, capo della comunicazione di SanPa ai tempi di Muccioli, fra i protagonisti del documentario Netflix, venne riacciuffato dopo una delle tante fughe: una squadra di SanPa lo andò a prelevare a Milano e lo riportò a San Patrignano, dove smaltì l’astinenza chiuso a chiave in uno stanzino per più di due settimane, come racconta lui stesso. “Difficile oggi spiegare nella maniera giusta - osserva Rodino -. Abbiamo cercato di fare tesoro degli errori, anche per aumentare l’efficacia del recupero”. L’impronta autoritaria “è sfumata”, resta invece il principio per cui “non si deve giudicare nessuno, bisogna rispettare il vissuto di chiunque. Per fare del bene ci vogliono persone per bene, ed è quel che ha prevalso”. In questo quadro complesso, la docuserie di Netflix ha riaperto una ferita: “La riapri comunque, qui però il problema è che la storia viene raccontata solo in parte, una parte che esiste e non va rinnegata ma che lascia fuori tante cose importanti”. Nel 2020, nonostante il Covid, sono stati reinseriti in società 250 ragazzi: “Da dieci anni facciamo prevenzione nelle scuole. Un tempo si parlava solo di recupero, oggi, molto di più, di reinserimento”. Omicidio Regeni, i Verdi annunciano: “Esposto in Procura contro la vendita di armi all’Egitto” La Repubblica, 4 gennaio 2021 Il coordinatore nazionale Bonelli: “Sosteniamo la battaglia dei genitori di Giulio”. “Un esposto in Procura contro la vendita di armi all’Egitto”. Ad annunciare la prossima deposizione dell’atto contro il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio sono i Verdi, che si associano così all’iniziativa dei genitori di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso nel 2016 al Cairo dopo essere stato torturato da cinque agenti dei servizi segreti civili egiziani. Proprio la notte di Capodanno Paola e Claudia Regeni intervenendo alla trasmissione televisiva Propaganda Live su La7 hanno annunciato la loro denuncia contro il governo italiano per la vendita di armi al presidente egiziano al-Sisi. “Trent’anni fa nel 1990 l’Italia approvava la legge 185 - spiega il coordinatore nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli - normando il controllo dell’esportazione, importazione e transito di materiali di armamento. Importante è il primo articolo: la legge vieta esportazione di armi verso paesi in stato di conflitto armato, Paesi che vadano contro all’articolo 11 della nostra Costituzione con Paesi responsabili di accertate gravi violazioni delle convenzioni sui diritti umani. Per questo. conclude Bonelli - riteniamo importante l’azione della famiglia Regeni”. I Verdi chiedono al ministro Di Maio “di sospendere e revocare ogni fornitura di armi nei confronti dell’Egitto, anche per ottemperare alla mozione approvata dal Parlamento europeo il 18 dicembre 2020 nella quale i deputati ‘invitano l’Unione europea ad avvalersi di tutti gli strumenti a disposizione per rispondere alle gravi violazioni, inclusa la possibilità di adottare misure restrittive nei confronti di funzionari egiziani di alto livello responsabili delle violazioni più gravi”. Appello a Di Maio: l’Italia non sia complice del boia iraniano Il Riformista, 4 gennaio 2021 Gentile Ministro Di Maio, le nostre organizzazioni sono profondamente preoccupate per la promessa del governo italiano di fornire supporto antidroga al governo iraniano, dato l’elevato rischio che questo sostegno si traduca in condanne a morte per presunti autori di reati di droga. È particolarmente preoccupante che il sostegno dell’Italia alle operazioni antidroga iraniane sia stato promesso nello stesso mese in cui l’Iran ha confermato 50 condanne a morte per droga in una sola prigione. La esortiamo a confermare che l’Italia non procederà con questa assistenza fino a quando l’Iran non abolirà definitivamente la pena di morte per reati di droga. Il governo italiano ha storicamente assunto la posizione più forte contro la pena di morte, e le nostre organizzazioni hanno lavorato a stretto contatto con il Ministero degli Affari Esteri per sostenere molte persone a rischio di pena di morte all’estero. Nel settembre scorso, l’Italia ha ospitato un evento presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per celebrare l’introduzione della Risoluzione biennale per una moratoria universale sull’uso della pena di morte. Nelle sue osservazioni a quell’evento, ha confermato che: “L’Italia rimarrà pienamente impegnata a sostenere la campagna internazionale per una nuova moratoria universale sulla pena di morte, in vista della sua abolizione nel mondo… una campagna che riguarda i diritti e la dignità di ogni essere umano”. Data questa forte opposizione pubblica alla pena di morte, la scorsa settimana ci siamo allarmati nel leggere sul Tehran Times che il governo italiano si è impegnato a estendere il proprio sostegno alle operazioni antidroga iraniane, che abitualmente portano alla condanna a morte e all’esecuzione degli imputati. Nello specifico, il Teheran Times ha riferito che: “Dopo un incontro con l’ufficiale di collegamento della polizia antidroga italiana Salvatore Labarbera, il capo della polizia antidroga iraniana Majid Karimi ha annunciato che il livello di cooperazione tra i due Paesi sarà rafforzato e incrementato. L’incontro si è tenuto in Iran il 3 dicembre, durante il quale Labarbera ha sostenuto l’idea di estendere il livello di cooperazione esistente e ha sottolineato la necessità di combattere gli stupefacenti anche a livello internazionale”. Se l’Italia procede nel fornire assistenza diretta alle operazioni antidroga iraniane, ciò comporterà inevitabilmente condanne a morte per presunti autori di reati di droga. Secondo un rapporto di Iran Human Rights, il governo iraniano nel 2019 ha giustiziato almeno 30 persone accusate di reati di droga. I tribunali iraniani continuano a emettere un gran numero di condanne a morte per reati legati alla droga, e il 15 dicembre scorso Iran Human Rights ha riferito che sono state confermate le condanne a morte di 50 imputati per droga detenuti nella prigione centrale di Urmia. In passato, ricerche condotte dalle nostre organizzazioni hanno ampiamente documentato e criticato il modo in cui l’assistenza al governo iraniano nella lotta al narcotraffico sfocia in operazioni il cui esito finale sono le esecuzioni degli arrestati. Il rapporto di Reprieve “European Aid for Executions” ha stabilito come sia stato potenziato il sostegno agli sforzi dell’Iran per la “riduzione dell’offerta”. L’assistenza per strutture, la formazione specialistica, la fornitura di cani per il rilevamento di droghe e la fornitura di attrezzature come body scanner e occhiali per la visione notturna, hanno aiutato la polizia iraniana a eseguire centinaia di arresti che hanno generato condanne capitali. La prova che l’assistenza europea rischia di consentire esecuzioni iraniane ha portato molti governi a rifiutare tali aiuti. I Paesi che, su questa base, hanno rifiutato di fornire assistenza alle operazioni antidroga iraniane includono Germania, Austria, Danimarca, Irlanda e Norvegia. La volontà dell’Italia di fornire assistenza antidroga al governo iraniano è in netto contrasto con la posizione di principio assunta da altri governi europei. Le nostre organizzazioni hanno molto rispetto per la posizione che l’Italia ha assunto nell’opporsi alla pena di morte nel mondo, ed è nostra speranza che, alla luce dei recenti sviluppi, il suo governo seguirà i partner europei nell’impedire che il suo supporto nella lotta alla droga venga utilizzato per ordinare esecuzioni. Chiediamo rispettosamente di rivelare quale assistenza il governo italiano sta attualmente fornendo all’Iran in questo settore, e confermare che non verrà fornita ulteriore assistenza fino a quando il governo iraniano non abolirà definitivamente la pena di morte per i reati legati alla droga. Sottoscrivono: Maya Foa, co-direttore esecutivo di Reprieve Mahmood Amiry Moghaddam, fondatore di Iran Human Rights Elisabetta Zamparutti, Tesoriera di Nessuno tocchi Caino Bosnia. “Non siamo bestie”. Nella tendopoli di Lipa i migranti rifiutano il cibo di Alessandra Briganti Il Manifesto, 4 gennaio 2021 Bosnia, temperature a meno 20 gradi. La Farnesina, che ha espresso “grande preoccupazione” per la situazione in Bosnia-Erzegovina, ha fatto sapere in una nota di aver disposto “uno stanziamento fino a 500.000 euro a favore della Croce Rossa che sta operando sul terreno”. Nessuna pietà per i migranti della tendopoli di Lipa, Bosnia-Erzegovina, andata a fuoco il 23 dicembre scorso in circostanze ancora da chiarire. Da allora un migliaio di persone cerca di sopravvivere alla fame, alla sete, al gelo, sorretti dalla speranza che l’Europa possa aprire quel confine maledetto che li separa dalla loro meta. Per ora però quella speranza si è infranta contro il rimpallo di responsabilità e le accuse incrociate tra Ue, organizzazioni internazionali e autorità locali, incapaci di trovare una soluzione a una catastrofe umanitaria nel cuore d’Europa. Martedì scorso il ministro della Sicurezza bosniaco Selmo Cikotic aveva disposto il trasferimento dei migranti in un’ex caserma di Bradina, villaggio di Konjic a sud di Sarajevo. Quel trasferimento però non ha avuto mai luogo a causa delle proteste dei residenti radunatisi davanti ai cancelli della struttura militare per impedire l’arrivo dei profughi. Intanto a Lipa il clima era surreale: i migranti sono stati fatti salire sugli autobus arrivati al campo in mattinata e lì sono rimasti per più di 24 ore senza sapere cosa ne sarebbe stato di loro. Dopo, come in uno spietato gioco dell’oca sono tornati alla posizione di partenza, lì tra le macerie di un campo dove manca tutto, per primo l’umanità. Su pressione dell’Ue il ministro della Sicurezza bosniaco ha ordinato la riapertura del centro di accoglienza allestito nella fabbrica dismessa del Bira a Bihac, cittadina di frontiera del cantone Una Sana dove si concentrano gli arrivi dei migranti in transito verso l’Europa. Anche in questo caso l’esecutivo è capitolato davanti all’intransigente rifiuto delle autorità locali e dei residenti di Bihac di ospitare, anche in via temporanea, i profughi rimasti all’addiaccio. La Farnesina, che ha espresso “grande preoccupazione” per la situazione in Bosnia-Erzegovina, ha fatto sapere in una nota di aver disposto “uno stanziamento fino a 500.000 euro a favore della Croce Rossa che sta operando sul terreno” e di aver chiesto alla Commissione Ue di “attivarsi per alleviare le sofferenze delle persone coinvolte”. Un appello che tuttavia cozza con la politica di respingimento dell’Italia che solo lo scorso anno ha “riammesso” in Slovenia 4.400 persone, a loro volta respinte in Croazia e Bosnia-Erzegovina. Per uscire dall’impasse la presidenza bosniaca ha inviato le forze dell’ordine a Lipa con il compito di allestire delle tende sulle rovine del campo. Una misura in sé insufficiente a fronteggiare la catastrofe umanitaria in corso in un luogo, peraltro, dove di notte le temperature possono crollare fino a 20 gradi sotto lo zero. Così ai dannati di Lipa non è rimasto altro che la protesta: da due giorni un centinaio di migranti rifiuta i pasti, uno al giorno, distribuiti dalla Croce Rossa, una delle poche organizzazioni ancora attive sul campo. “Aprite le frontiere, siamo esseri umani, non animali” dicono i cartelli branditi nell’indifferenza generale. L’ennesimo, disperato urlo, destinato a restare inascoltato. Gran Bretagna. Imminente la decisione sull’estradizione negli Usa di Assange La Stampa, 4 gennaio 2021 Il destino del fondatore di Wikileaks, Julian Assange, si deciderà questa mattina 4 gennaio alle 10 ore locali (11 ora italiana). Come preannunciato nel dossier de La Stampa alla fine del processo lo scorso 2 ottobre, il verdetto sull’eventuale estradizione negli Stati Uniti è atteso dal tribunale Old Bailey nel centro di Londra, dove Assange, 49 anni, australiano, è stato processato con l’accusa di aver violato l’”Espionage Act”, una legge americana draconiana del 1917 pensata per i traditori che passano informazioni al nemico: è la prima volta nella storia degli Stati Uniti che viene usata contro un giornalista. Secondo l’accusa avrebbe cospirato per ottenere e pubblicare documenti diplomatici e militari classificati nel 2010 e deve rispondere di 17 capi di imputazione per spionaggio informatico e un capo di accusa per pirateria informatica. Assange era stato arrestato nell’aprile 2019 dopo essere vissuto recluso per 7 anni all’interno dell’ambasciata di Londra dell’Ecuador, che gli aveva offerto rifugio nel 2012. Potrebbe essere condannato a 175 anni di reclusione da scontare in “condizioni amministrative speciali”, una versione particolarmente rigida del confinamento solitario. “Dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale le nazioni si sono unite e hanno creato le basi epocali per le Nazioni Unite e per la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Anche gli europei hanno creato il consiglio d’Europa, la Corte europea dei diritti dell’uomo, e hanno integrato nella legislazione nazionale, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo intesi come diritti umani inderogabili, e che non possono essere mai negati”. sottolinea il padre di Assange, John Shipton, in difesa del figlio. La dichiarazione è stata raccolta da Imbavagliati, Festival Internazionale di giornalismo civile, ideato e diretto da Désirée Klain, che dal 2015 dà voce a quei giornalisti che nei loro paesi hanno sperimentato il bavaglio della censura e la persecuzione di regimi dittatoriali. Giornalista, programmatore e attivista australiano, Assange è cofondatore e caporedattore dell’organizzazione divulgativa WikiLeaks, che dal 2006 pubblica documenti da fonti anonime attraverso il sistema dei “leaks”, informazioni trapelate. Appelli per la sua liberazione si stanno moltiplicando in ogni parte del mondo. L’accusa che viene formulata ad Assange dal Dipartimento di Giustizia americano, infatti, per molti costituisce un grave precedente per tutto il mondo della stampa. “Imbavagliati- Festival Internazionale di Giornalismo Civile”, prodotto dall’Associazione Culturale “Periferie del Mondo - Periferia Immaginaria”, è promosso dall’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli e dalla Fondazione Polis della Regione Campania per le vittime innocenti della criminalità e i beni confiscati. Ed è stato realizzato in collaborazione con la Federazione Nazionale della Stampa, la Fondazione Banco di Napoli, l’UsigRai, il Sindacato Unitario Giornalisti della Campania, Articolo 21, e con il patrocinio di Amnesty International Italia e Unicef Italia. La decisione di estradare il co-fondatore di WikiLeaks negli Stati Uniti sarebbe “politicamente e legalmente disastrosa per il Regno Unito” afferma Stella Moris, la compagna di Assange, in una lettera pubblicata dal Mail on Sunday, alla vigilia della sentenza. La compagna di Assange, che ha avuto due figli con lui, sostiene che la decisione di consentire l’estradizione non sarebbe solo una “farsa”, ma danneggerebbe il diritto alla libertà tanto sostenuto in Gran Bretagna. “Riscriverebbe le regole di ciò che è lecito pubblicare qui”, ha detto Moris. “Da un giorno all’altro congelerebbe il dibattito libero e aperto sugli abusi da parte del nostro stesso governo e anche di molti stranieri. I Paesi stranieri potrebbero semplicemente presentare una richiesta di estradizione affermando che i giornalisti britannici, o gli utenti di Facebook, hanno violato le loro leggi sulla censura. Le libertà di stampa che amiamo in Gran Bretagna sono prive di significato se possono essere criminalizzate e soppresse dai regimi in Russia o Turchia o dai pubblici ministeri di Alexandria, in Virginia”. L’attesa è che Wikileaks ricorra in appello nel caso di un’estradizione. Per cui, comunque vada, il suo trasferimento negli Stati Uniti potrebbe essere rinviato. Gran Bretagna. Roger Waters: “Oggi temo per Assange. Negli Usa sarà la sua fine” di Antonello Guerrera La Repubblica, 4 gennaio 2021 “Purtroppo temo che la decisione sia già presa. Lo estraderanno negli Usa e per lui sarà finita. Ma sarò sempre dalla parte di Julian”, promette al telefono Roger Waters, il celebre cantante e musicista inglese, fondatore di una delle band più amate della storia, i Pink Floyd. Perché oggi a Londra ci sarà una delle sentenze più attese, discusse e controverse degli ultimi anni, quale che sia il verdetto sul destino di Julian Assange. Il 49enne australiano è il fondatore del sito online Wikileaks che dal 2010 sconvolse il mondo con la pubblicazione dei cablogrammi segreti della diplomazia Usa sottratti dal militare americano Bradley Manning, oggi donna di nome Chelsea. Assange scoprirà se verrà estradato negli Usa dove è accusato di cospirazione per ottenere illegalmente e pubblicare informazioni classificate. In tutto, 18 capi di accusa per cui potrebbe essere condannato, se estradato, fino a 175 anni di carcere. Una lunghissima saga, da quando Assange si rifugiò per anni nell’ambasciata ecuadoriana a Londra nel 2012. Col tempo, l’australiano ha accumulato critici, soprattutto dopo i sospetti di convergenze con la Russia e Trump nel caso delle mail hackerate da ignoti al partito democratico americano durante la campagna elettorale del 2016 e pubblicate su Wikileaks. Ma Assange ha sempre avuto dalla sua parte la famiglia, attivisti, seguaci e un irriducibile nugolo di vip e artisti londinesi per la sua liberazione, da Brian Eno a Vivienne Westwood, da Jeremy Corbyn a Roger Waters, che spiega perché in quest’intervista a Repubblica. Mr. Waters, come mai tiene così tanto al caso Assange? “Perché è cruciale per la libertà di espressione, per il giornalismo e i diritti umani in generale. Assange, perseguitato negli anni, ha pubblicato quei documenti per farci capire quanti scomodi segreti ci nascondono i nostri governanti: altrimenti non avremmo mai saputo dei crimini americani in Iraq o Afghanistan. Era suo diritto, e il nostro. Altrimenti si torna al feudalesimo”. Feudalesimo? “Sì, perché queste sono le basi della nostra civiltà: chiedere conto ai leader mondiali delle proprie azioni. Insieme alla “Rule of Law”, la Legge sopra ogni cosa, alla base della nostra democrazia. Assange, con la pubblicazione dei cabli, ha fatto esattamente questo”. Ma la messa online di documenti classificati, talvolta non redatti, e tra l’altro rubati, ha rovinato la vita di molte persone, oltre a scatenare tensioni internazionali. “Sciocchezze. Fumo negli occhi per coprire la realtà. Come quando la National Security Agency mise nel mirino Seymour Hersh per lo scoop sul massacro americano di My Lai, in Vietnam”. Ma Assange è accusato dagli Usa di aver complottato con Chelsea Manning. “Julian non ha rubato niente, non ha commesso alcun crimine. Chelsea è stata graziata da Obama. A Julian gliela vogliono far pagare per le sue rivelazioni. Mi pare di vivere quanto profetizzato da George Orwell: i “ministeri della verità”, dove si decide la narrativa del potere, perfetti per populisti come Trump, Johnson, Bolsonaro, Salvini, Modi”. Lei, Waters, ha sempre criticato Trump. Però Assange è stato accusato di aver fatto, volontariamente o meno, il gioco del presidente uscente con la pubblicazione delle email dei democratici prima del voto 2016. Tanto che si specula su una possibile grazia. Anzi, secondo un avvocato di Assange, Trump gliela offrì nel 2017 se avesse scagionato pubblicamente la Russia nel caso delle mail hackerate. Lei crede a queste ricostruzioni? “No. Per me sono ridicole. Non c’è stato alcun ruolo della Russia. Wikileaks non ha alcun legame politico. Assange ha pubblicato documenti senza caratterizzarli o commentarli. Sta a noi lettori valutarli e farci un’idea. E poi avete un’ossessione con la Russia”. In che senso? “È un popolo stoico che ha sacrificato decine di milioni di persone nella Seconda guerra mondiale, ma oggi sembra il demonio, come in Ucraina e in Crimea. Che ha fatto benissimo ad annettere”. Contro ogni legge internazionale, schierando i carri armati. “Ma il 98% per cento degli elettori in Crimea ha votato per appartenere alla Russia. Dovete rispettarlo!”. E quindi lei non crede che, Assange o meno, la Russia abbia tentato di influire sulle elezioni nei Paesi occidentali, come quelle degli Usa nel 2016? “Sciocchezze! Enormi sciocchezze!”. Russia. Aumenta l’alcolismo e tornano le celle per gli ubriachi di Rosalba Castelletti La Repubblica, 4 gennaio 2021 “Il nuovo è un vecchio che è stato ben dimenticato”, recita un vecchio detto russo. E così, per combattere l’alcolismo che - a detta dei politici - ha raggiunto “vette preoccupanti “ in molte parti della Federazione, il Cremlino ha pensato di rispolverare le vytrezviteli, letteralmente “stazioni di disintossicazione”. Create in epoca zarista e diventate tristemente rinomate sotto Stalin, queste celle dove gli ubriachi prelevati dalle strade venivano rinchiusi finché non smaltivano la sbornia erano state abolite dieci anni fa. Ma per i deputati della Duma che hanno caldeggiato la legge siglata a fine anno da Vladimir Putin ed entrata in vigore il primo gennaio, i “rifugi per ubriachi” sono l’ultima arma nella lotta all’alcolismo. Circa 50mila russi continuano a morire ogni anno per il troppo bere, fino a 10mila per ipotermia dopo essersi accasciati all’aperto per la sbronza. E, se è vero che durante il ventennio di Putin al potere il consumo di alcol è crollato del 40 percento, il 2020 ha visto le vendite di vodka aumentare del 65 percento durante il lockdown. La prima vytrezvitel fu aperta nel novembre 1902 a Tula, a Sud di Mosca. Finanziata dalla città e equipaggiata da uno staff di paramedici, aveva l’obiettivo di soccorrere i lavoratori congelati per strada e ridurne la mortalità. Pochi anni dopo, istituzioni simili erano sorte in quasi tutte le province dell’Impero russo, ma vennero chiuse dopo la Rivoluzione. Nell’Unione sovietica la prima “stazione per smaltire la sbornia” apparve ne11931. Ma sotto Stalin questi rifugi divennero ben presto uno dei tanti mezzi di repressione. Con ordinanza del Commissario del popolo degli affari interni dell’Urss Lavrentij Beria del 1940, i centri medici per la sobrietà furono subordinati alla famigerata Nkvd, la polizia politica segreta responsabile delle purghe. Nel 1974 ci passò una notte pure il dissidente Andrej Sakharov. E non perché avesse alzato il gomito, ma perché aveva avuto l’ardire di partecipare a una manifestazione. Le stazioni sovietiche fornivano solo due “servizi”: una doccia fredda e un letto. Ma costavano quanto una notte in un buon hotel. I detenuti venivano svestiti (perché, sostenevano i medici, “un uomo nudo è più sottomesso”), rianimati con acqua ghiacciata e lasciati a dormire. I più violenti venivano legati alle brandine e talora picchiati. Il cittadino veniva dimesso solo smaltita la sbornia, di regola non prima delle 5 del mattino. Una notifica veniva inviata al datore di lavoro che poteva costare una censura o il licenziamento. Negli anni di Breznev, l’epoca della zastoj, stagnazione, che i sovietici ribattezzarono zastolje, sbronza, le stazioni erano così parte del “folclore urbano” da essere circondate da un’aura di romanticismo. Ne cantava Vladimir Vysotskij e Georgij Danelija le ricordava nei film Afonja e Maratona di autunno. Ogni anno tra 2,5 e 5 milioni di cittadini finivano in un centro per la sobrietà. Nel 1990 se ne contavano più di 1.200. Crollata l’Urss, il loro numero si dimezzò. Finché nel 2011 l’allora presidente Dmitrij Medvedev non ne decretò l’abolizione: dagli Interni, l’assistenza agli ubriachi sarebbe dovuta passare alla Sanità. In pochi anni, di fronte alla congestione degli ospedali, le autorità di una ventina di regioni sono tornate alla pratica collaudata delle stazioni per ubriachi: più simili a ospedali che a carceri, niente sbarre alle finestre né lucchetti alle porte e pernottamento gratis. Mentre lo Stato ha ripreso a discuterne. E nel 2018 le ha persino riesumate nelle 11 città che ospitavano i Mondiali di calcio. Ora, in base alla nuova legge, il sistema si baserà su un partenariato pubblico-privato e i “pazienti” dovranno pagare. La tariffa sarà definita su base regionale, ma dovrebbe aggirarsi tra i 1.500 e i 2mila rubli a notte, circa 16-22 euro. Gli agenti di polizia potranno prelevare dalla strada gli ubriachi “incapaci di muoversi o orientarsi” anche senza il loro consenso. “Il principale vantaggio è che nessuno congela”, sostiene il primario della clinica “Nezavisimost 24” Aleksej Kazantsev. Ma non mancano i dubbi. Molti ricordano i casi di percosse, fino alla morte, e di saccheggio che avvenivano nelle istituzioni prima della loro abolizione. Nel 2010 un giornalista venne ucciso a Tomsk dopo essere stato picchiato da un agente di polizia. Un anno prima un caso simile si verificò a Perni. mentre ad Arzamas una donna fu violentata. “Sappiamo che cosa è successo lì, quali violazioni dei diritti sono state commesse”, ricorda la narcologa Ljubov Shishenkova. Pur condividendo le perplessità, per Lev Levinson, capo del Programma di politiche antidroga dell’Istituto dei diritti umani, si tratta di “un servizio necessario”. Più pessimista lo psichatra Pjotr Kamenchenko che, all’inizio della sua carriera di medico negli Anni 80, si trovò a prestare servizio in un vytrezvitel: “Temo che tutto andrà secondo la formula “Volevamo il meglio, ma è andata come sempre”. Come il vecchio che è stato ben dimenticato. Dopo Trump arriva Biden, ma il Medio Oriente resta in bilico di Alberto Negri Il Manifesto, 4 gennaio 2021 Dopo il patto di Abramo. Più che una stabilizzazione è un salto in avanti verso nuove cancellazioni dei diritti dei popoli: in Medio Oriente l’amministrazione Biden, che si insedia il 20 gennaio, già oscilla sotto il peso delle decisioni di Trump. L’anno nuovo si apre come si è chiuso quello della pandemia. Gli americani possono fare quello che vogliono contro l’Iran e gli israeliani anche tutto quello che gli altri non possono mai fare: andare contro ogni legge internazionale. Una sintesi del doppio standard che, in negativo, si applica a iraniani, palestinesi, curdi, libanesi, iracheni, yemeniti, e a tutti coloro che in genere non intendono obbedire. Questi popoli, al massimo, possono ottenere “concessioni” ma non sono titolari di “diritti”. Il Patto di Abramo ha sancito questo stato delle cose. Nel mezzo stanno Erdogan e Putin: il primo funzionale al secondo. Non soltanto perché il Sultano della Nato si contrappone a Mosca e allo stesso tempo tratta con la Russia in Libia e in Siria ma anche perché serve agli Stati Uniti a contenere l’influenza russa, come testimonia la guerra del Nagorno-Karabakh contro gli armeni sostenuta dai turchi e dalle armi israeliane. Biden detesta Erdogan (lo attaccò anche da vice di Obama) ma si confronterà con lui non in base alle antipatie o alle credenziali democratiche ma alla sua utilità sul fianco orientale dell’Alleanza atlantica. A un anno dall’assassinio il 3 gennaio scorso a Baghdad da parte americana del generale iraniano Qassem Soleimani e del suo luogotenente iracheno Al Muhandis possiamo valutarne in pieno le conseguenze. Questo è stato l’anno dell’attacco all’Iran _ esemplificato anche dall’uccisione a novembre attribuita al Mossad dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh _ e del Patto di Abramo in funzione anti-Teheran tra Israele e le monarchie del Golfo, seguite poi da Sudan e Marocco. Più che una stabilizzazione è un salto in avanti verso nuove cancellazioni dei diritti dei popoli: in Medio Oriente l’amministrazione Biden, che si insedia il 20 gennaio, già oscilla sotto il peso delle decisioni di Trump. La contrasta eredità di Obama nelle primavere arabe del 2011 - sostegno in Egitto ai Fratelli Musulmani, guerra a Gheddafi e appoggio alla destabilizzazione della Siria - aveva avuto come sbocco positivo il 14 luglio 2015 l’accordo sul nucleare con l’Iran che aveva fatto infuriare Israele e gettato nel panico l’Arabia saudita e le monarchie del Golfo. Trump è uscito unilateralmente da questo trattato internazionale e stabilito nuove regole del gioco che poi tanto nuove non erano (risalgono al presidente democratico Roosevelt nel 1945): le monarchie dovevano pagare “cash” e con acquisti di armi americane la protezione Usa aggiungendo al conto la normalizzazione con Israele, venduta agli arabi dei petrodollari come una questione di sopravvivenza di fronte alla vera o presunta minaccia dell’Iran. Così sono arrivati gli “incentivi”. Netanyahu, che si prepara nuove elezioni in marzo, ha incassato da Trump il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale e l’annessione del Golan e poi nel 2020 gli è bastato soltanto un colpetto di freno sull’annunciata annessione della Cisgiordania per portare a casa le nuove alleanze con gli arabi. Al patto di Abramo hanno aderito Emirati e Barhain, poi è arrivata la normalizzazione tra Israele e il Sudan, quindi quella con il Marocco. L’Egitto di Al Sisi è già della partita: sta in piedi con i soldi degli Emirati e dei sauditi avendo come compito ideologico e repressivo di eliminare i Fratelli Musulmani. Anche il generale Haftar in Cirenaica se aderisse al Patto di Abramo verrebbe pienamente riciclato. Il sovrano Mohammed VI ha messo in cassaforte gli incentivi finanziari ma soprattutto si è aggiudicato il riconoscimento americano della sovranità marocchina sul Sahara occidentale. L’occupazione marocchina dei territori Sahrawi come quella israeliana della Palestina è contraria al diritto internazionale e a ogni risoluzione Onu sull’autonomia e l’autodeterminazione. Queste ultime sono due parole che nella rudimentale filosofia del Patto di Abramo anche i curdi devono dimenticare, come del resto gli stessi yemeniti. L’autonomia dei curdi iracheni ormai è ridotta al lumicino: il premier Al Khadimi preferisce incontrare Erdogan sulle operazioni anti-Pkk che i “suoi” curdi di Erbil o Suleimanya. Mentre quelli del Rojava, alleati occidentali contro l’Isis, avevano già visto sulla loro pelle nel 2019 cosa significava il ritiro americano dal nord della Siria. La realtà è che sia gli americani che gli europei sono pronti sacrificare i curdi in ogni momento se Erdogan si tiene in casa tre milioni di profughi e modera le sue pretese nel Mediterraneo orientale dove si scontra con l’asse Francia-Grecia-Cipro-Egitto-Israele-Emirati. Il Patto di Abramo ha suddiviso anche gli yemeniti tra buoni e cattivi. Secondo il Financial Times il dipartimento di Stato Usa prima del 20 gennaio si prepara a inserire gli Houthi alleati dell’Iran nella lista delle organizzazioni terroristiche. È uno dei prezzi che chiede l’Arabia Saudita, insieme al protettorato sullo Yemen, per il riconoscimento di Israele voluto dal principe assassino Mohammed bin Salman e finora frenato dal sovrano Salman. Ma probabilmente è ancora in Iraq che forse dobbiamo aspettarci nuove operazioni americane e israeliane anti-iraniane e contro le milizie sciite. Lo sostiene un recente reportage di Le Monde e ieri anche il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif. L’anno che verrà già somiglia molto, troppo, a quello appena trascorso.