Covid, Giorgis: “Dentro le carceri valgono gli stessi criteri delle vaccinazioni nazionali” di Liana Milella La Repubblica, 3 gennaio 2021 Il sottosegretario alla Giustizia risponde all’appello lanciato su Repubblica da Liliana Segre e dal Garante dei detenuti, Mauro Palma. Subito il vaccino ai detenuti? “Credo che occorra seriamente rifletterci su. I detenuti vanno trattati come i cittadini liberi, tenendo conto della maggiore o minore fragilità e in particolare delle condizioni di salute e dell’età anagrafica”. Il costituzionalista e sottosegretario alla Giustizia del Pd, Andrea Giorgis, risponde così all’appello su Repubblica di Liliana Segre e Mauro Palma, il Garante nazionale dei detenuti. Ma Giorgis affronta anche a 360 gradi i problemi delle carceri: “Dall’inizio del Covid ci sono 9mila detenuti in meno”. Convinto che siano necessari meno carcere e più misure alternative, Giorgis - che ha seguito la maratona del bilancio - considera importanti i fondi stanziati per le prigioni nei prossimi tre anni, da quelli per cablarle e digitalizzarle, a quelli per le detenute madri, a quelli per gli psicologi che dovranno occuparsi di seguire chi ha fatto violenza sulle donne. Possiamo chiamare il 2020 anche l’anno nero per le carceri. Covid a parte - con una media di 2mila positivi tra detenuti e personale, anche se in questi giorni i dati sono in calo - le rivolte di febbraio hanno impressionato negativamente l’opinione pubblica, spesso più propensa al “marcite in galera” che alla pena come recupero. Lei che giudizio dà? “Penso che si debba fare tutto il possibile per dare piena ed effettiva attuazione alla finalità rieducativa della pena, come prescrive la nostra Costituzione. E che si debba insistere nello spiegare come tale scelta si traduca in un beneficio non solo per il condannato, ma per l’intera collettività: come dimostrano gli studi condotti sul tema, laddove la pena riesce a svolgere una funzione effettivamente rieducativa ed emancipante, i rischi di recidiva diminuiscono e di conseguenza aumenta la sicurezza dei cittadini; e aumenta anche il numero di coloro che sono in grado di svolgere un ruolo positivo nella collettività e nelle proprie famiglie”. Secondo lei quelle rivolte erano organizzate? “Non lo so, ma spero che le indagini in corso facciano presto chiarezza sulle dinamiche di ciascuna rivolta e sulle eventuali regie esterne; e mi auguro che facciano altresì piena luce sulle morti avvenute tra i detenuti del carcere di Modena e di Rieti”. È un fatto però che nei due decreti Cura Italia e nei due dl Ristori non siete stati di manica larga sulle carceri. Cito solo, a mo’ di esempio, i domiciliari solo per chi deve scontare ancora 18 mesi, e fino a sei con il braccialetto elettronico, nonché per chi ha già un premesso premio oppure il lavoro esterno. E tutto questo ottenuto con fatica e solo fino al 31 gennaio. Non le sembra che prevalga, anche in questo caso, il “marcite in galera”? “No, direi di no. Il 29 febbraio 2020 i detenuti erano 61.230, oggi sono 52.221. La densità detentiva è diminuita, ed è diminuita in maniera significativa. Ciò tuttavia non è ancora sufficiente, anche perché la capienza effettiva, al momento, è di circa 48.000 posti, e perché parte rilevante della diminuzione delle presenze è dovuta ad una diminuzione degli ingressi. Ma la direzione che si è imboccata è quella giusta e su di essa occorrerà proseguire, anche e soprattutto investendo sulle misure alternative al carcere e cercando più in generale di dare seguito a quello straordinario lavoro di analisi e di proposte emerse dagli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dall’allora ministro Andrea Orlando”. Liliana Segre e il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, con un appello su Repubblica, hanno chiesto che i detenuti siano tra i primi a vaccinarsi. Lei è d’accordo? “Credo che occorra rifletterci su, ascoltando anche le voci di operatori e medici. I detenuti, quando sono in gioco diritti fondamentali come la salute, non devono subire alcuna discriminazione rispetto ai cittadini liberi e come questi ultimi, in linea di principio, devono essere trattati. Ciò, in questo caso, suggerirebbe di seguire i criteri che hanno orientato il piano vaccinale nazionale, e di tenere quindi conto della maggiore o minore fragilità e in particolare delle condizioni di salute e dell’età anagrafica, senza trascurare le specifiche e concrete condizioni di vita e la necessità di evitare focolai in contesti di comunità nei quali risulti particolarmente difficile predisporre le misure di prevenzione, ferma la possibilità di adeguare le strategie qualora emergano situazioni critiche. E ferma naturalmente l’esigenza di vaccinare in via prioritaria, insieme agli operatori sanitari e sociosanitari, coloro che svolgono funzioni pubbliche essenziali e rischiano di diffondere il virus, come gli insegnanti e il personale scolastico, le forze dell’ordine, il personale delle carceri e dei luoghi di comunità”. Anche il presidente della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio, con Repubblica, parla delle carceri come di “un problema irrisolto per l’eccessivo affollamento e l’inadeguatezza delle strutture”... “Per dare piena attuazione alle prescrizioni costituzionali, occorre investire, oltre che sulle misure alternative, sulle strutture materiali e immateriali delle carceri e su una nuova e più adeguata architettura penitenziaria. In questa prospettiva sono state approvate alcune importanti disposizioni della legge di bilancio e in questa stessa prospettiva sono stati definiti alcuni progetti di manutenzione, ristrutturazione e di nuove edificazioni che mi auguro siano parte qualificante del Piano nazionale di ripresa e resilienza”. È davvero una notizia che s’investa di più dopo anni su un mondo considerato quello degli ultimi e dei reietti... “Invece, tra le disposizioni contenute nella legge di bilancio, vorrei ricordare per esempio lo stanziamento di 80 milioni (25 per il 2021, 15 per il 2022, 10 ogni anno fino al 2026) per, cito testualmente, “l’ampliamento e l’ammodernamento degli spazi e delle attrezzature destinate al lavoro dei detenuti, nonché per il cablaggio e la digitalizzazione degli istituti penitenziari”. Nuovi spazi, dunque, per organizzare corsi di formazione e attività lavorative, e la predisposizione di un’adeguata rete digitale per una molteplicità di funzioni: dalle videoconferenze necessarie per i processi penali, alla possibilità di fruire di lezioni anche da remoto, alla predisposizione di più moderni sistemi di videosorveglianza, alla sperimentazione della telemedicina”. Nel bilancio c’è una cifra che colpisce, quei 6 milioni distribuiti nel triennio per aumentare il numero degli psicologi con l’obiettivo di realizzare trattamenti nei confronti degli autori di reati contro le donne e per la prevenzione della recidiva... “È una misura importante che insieme alle assunzioni di personale amministrativo, di quello specificamente dedicato al trattamento, e di personale degli uffici dell’esecuzione penale esterna, consentirà di potenziare la dimensione rieducativa della pena. Senza naturalmente svalutare il ruolo e la professionalità della polizia penitenziaria alla quale anche sono destinati consistenti investimenti.” C’è un’altra cifra che colpisce, 4,5 milioni di euro in tre anni per le case-famiglia, per le madri in cella con i propri figli. La legge Monti-Severino è del 2011. Ma concretamente non ci sono mai stati tanti soldi per ampliare le strutture come la “casa di Leda” a Roma. Ora è la volta buona? “Si tratta di una misura promossa e fortemente voluta dalle organizzazioni civiche, come Cittadinanzattiva e A Roma Insieme-Leda Colombini, per evitare ai bambini l’esperienza carceraria, consentendo il trasferimento dei genitori detenuti presso case famiglia protette o comunità alloggio già presenti su tutto il territorio nazionale”. Ancora. Quei 2,4 milioni, 800mila euro all’anno, per garantire i risarcimenti per i casi di “detenzione inumana e degradante”, sono da leggere come un’ammissione di colpa per un carcere tuttora disumano? “Sono stanziamenti per risarcire dalle violazioni dell’articolo 3 della Corte di Strasburgo, e al tempo stesso sono uno sprone ad adeguare e modernizzare le strutture carcerarie da un lato, e a riformare ed estendere le misure alternative e i connessi percorsi rieducativi dall’altro”. Un’ultima questione, lei è un costituzionalista, ritiene che la netta preclusione della politica per misure di clemenza come indulto e amnistia siano accettabili? Ricorda quel 9 luglio del 2000, anno del Giubileo, quando Giovanni Paolo II visitò Regina Coeli e disse “chiedo alle autorità competenti, in nome di Gesù, un gesto di clemenza per tutti i prigionieri”? “Dal 1992, per approvare una legge che concede l’amnistia o l’indulto, occorre la maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti il Parlamento, e oggi non mi sembra vi siano le condizioni politiche per aprire una tale discussione. I provvedimenti di clemenza, peraltro, possono servire a mitigare il sovraffollamento solo temporaneamente, perché, come dimostra l’esperienza, se non vi sono riforme strutturali dell’esecuzione penale e se non si imbocca con determinazione la prospettiva di una riduzione dell’ambito di estensione del diritto penale e della carcerazione, il problema del sovraffollamento si ripresenta”. E quindi lei cosa suggerisce in alternativa? “Io però voglio essere fiducioso che, anche su questo difficile e complesso terreno, il nostro Paese - pur senza retrocedere nel contrasto all’illegalità, alla violenza e alla corruzione - saprà compiere importanti passi, cogliendo le opportunità che questa drammatica crisi ci offre. Perché per uscire davvero dalla crisi, come ha detto la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si tratta non solo di riparare e recuperare l’esistente, ma di plasmare un modo migliore di vivere il mondo di domani”. Giustizia e sanità. Tra il dire e il fare c’è di mezzo l’Italia di Riccardo Iacona Il Domani, 3 gennaio 2021 Sono appena tornato dalla Calabria per raccontare una delle indagini più importanti contro la ndrangheta condotta dalla Procura di Catanzaro guidata dal magistrato Nicola Gratteri. Si chiama “Rinascita Scott” e sono talmente tante le persone rinviate a giudizio che a Lamezia Terme hanno dovuto costruire una enorme aula bunker, l’unica capace di contenere centinaia di imputati e i loro avvocati del primo maxi processo che si svolgerà in Calabria a partire da metà gennaio. Per quattro anni le forze dell’ordine hanno pedinato, ascoltato e registrato la vita della ndrangheta, dimostrando come le ndrine guidate dal boss di Limbadi Luigi Mancuso controllavano per intero la vita politica, economica e sociale di Vibo e di tutta la provincia. I loro “uffici” erano sempre aperti e la gente vi si rivolgeva per qualsiasi evenienza: dall’acquisto di un terreno, alla richiesta di prestiti, al recupero crediti, persino per ottenere il ricovero di un proprio parente nell’ospedale. Uno stato illegale parallelo che si avvaleva della collaborazione di decine di professionisti, imprenditori, avvocati, commercialisti, medici. Dove era l’Italia quando i “bravi ragazzi” occupavano, non solo militarmente, una intera provincia? Non c’era e ha lasciato per decenni gli uffici del distretto giudiziario di Catanzaro del tutto sguarniti e gli ndranghetisti hanno dilagato. Poi, nel 2016, a Catanzaro è arrivato come procuratore della Repubblica Gratteri e grazie alla sua determinazione ha ottenuto più magistrati e forze dell’ordine e ha cominciato a lavorare portando a Catanzaro l’esperienza che aveva maturato a Reggio Calabria. Una battaglia durissima che deve fare i conti con una corruzione profonda: gli interessi della ndrangheta hanno trovato occhi e orecchie tra i professionisti della giustizia, avvocati, forze dell’ordine e persino magistrati nel “sistema Catanzaro” che garantiva impunità e sentenze aggiustate anche agli ndranghetisti. I nemici di Gratteri non sono solo “fuori”, ma anche “dentro” il palazzo di Giustizia. Ho deciso di raccontare questa storia per una delle puntate di Presadiretta perché mostra bene qual è la sfida dell’Italia che ci aspetta in questo 2021, un anno che si prospetta veramente difficile: passare dalle chiacchiere ai fatti e ridurre la distanza enorme che c’è tra le parole del dibattito pubblico e le realizzazioni concrete, una distanza insopportabile, la vera palla al piede dell’Italia. Per anni gli operatori della giustizia, soprattutto quelli in prima linea contro la criminalità organizzata, ci hanno avvertito che quando lo stato lascia un territorio la criminalità organizzata lo occupa. E così è stato, non solo a Vibo Valentia ma in tutta Italia. Tante parole sul dovere dell’antimafia, troppi pochi fatti. Gli errori della seconda ondata Lo vediamo con la battaglia della salute che ancora ci vedrà impegnati nel 2021. In un’altra delle puntate mostreremo le tante occasioni perse per attrezzarci all’arrivo della seconda ondata. Se oggi dobbiamo registrare l’aumento dei numeri del contagio e quello giornaliero dei deceduti, è perché non siamo stati capaci di sfruttare i mesi che ci separavano dal “generale autunno” per implementare i servizi di tracciamento, isolamento e ricostruzione delle catene epidemiologiche. E quando i numeri sono saltati ci siamo ritrovati nella situazione del marzo, aprile del 2020: con i reparti Covid e le terapie intensive piene e una quota di morti in più determinata dall’impossibilità di gestire numeri così alti. Eppure si era scritto e detto, ai più alti livelli della politica e della scienza: non si contiene una pandemia negli ospedali, occorre una forte Medicina del territorio, bisogna implementare i Dipartimenti di prevenzione, ci vogliono più medici e infermieri. Sono rimaste parole, ancora una volta, per l’incapacità del sistema Italia di mettere in opera velocemente, persino quello su cui tutti sono d’accordo, a fronte peraltro di risorse stanziate. Oggi abbiamo uno strumento in più, il vaccino e di questo dobbiamo ringraziare la ricerca scientifica che in tutto il mondo è riuscita a realizzare un vero e proprio miracolo. La sanità pubblica uscirà comunque con le ossa spezzate, come testimonia l’aumento esponenziale di decessi dovuti a tutte le patologie, certificato dall’Istat che calcola dal 1 gennaio del 2020 ad agosto un più 8,6 per cento. Significa che mentre ci occupavamo del Covid aumentavano i decessi per tutte le altre patologie gravi, saltavano gli screening, gli interventi di elezione e si bloccava l’emigrazione sanitaria che aveva consentito a chi abitava nelle Regioni meno efficienti di farsi curare dove i livelli essenziali di assistenza venivano garantiti al meglio delle possibilità cliniche e al passo con il progresso della ricerca. Quando metteremo mano a portafoglio e idee per riformare davvero il servizio sanitario nazionale, dopo 10 anni di tagli che lo hanno messo in ginocchio? Quando coglieremo l’occasione della sfida che ci ha lanciato il coronavirus per aumentare le risorse su prevenzione e territorio? Come ci occupiamo dello scandalo di tante sanità diverse a seconda della regione in cui si vive? Da noi c’è sempre un “dopo”, che rischia di non arrivare mai, o di arrivare troppo tardi. Padri e figli, destino di morte nella Napoli ferma al passato di Adolfo Scotto di Luzio Il Mattino, 3 gennaio 2021 Leggere i giornali, leggerne tanti, ogni mattina, è un’esperienza che nonostante tutto è ancora in grado di riservare qualche sorpresa. A Napoli il 31 dicembre cade sotto i colpi di un agguato camorristico un pregiudicato, Ciro Caiafa. Suo figlio, Luigi, diciassette anni, pochi mesi prima era stato ucciso da un poliziotto durante un tentativo di rapina a mano armata (sebbene la pistola sarebbe risultata poi una “replica”). Intorno alla figura di Luigi si è costituito nei mesi successivi alla sua morte un piccolo culto criminale, con tanto di immagine votiva, candele e pellegrinaggi. Ciro Caiafa aveva quarant’anni quando è stato ucciso, viveva in un basso, due stanze, con moglie e altri tre figli, una femmina e due maschi, tredici anni lei, quindici e sette gli altri due. Quando è stato ammazzato con sei colpi di pistola, si stava facendo tatuare una croce sul braccio e il nome del figlio morto. Era l’una di notte e in casa tutti erano svegli, adulti e bambini, in un mondo in cui si deve immaginare crollata l’intera impalcatura etica del vivere civile, senza regole che non siano quelle della vita marginale e in cui ogni distinzione che presiede alla normale educazione appare del tutto inesistente. Nessuna differenza tra il giorno e la notte, nessuna separazione tra adulti e bambini; alla fine, nessuna vera nozione dell’infanzia e di ciò che le pertiene. In uno spazio vitale così piccolo e soffocante, la vita non può che svolgersi in strada. In strada è morto Luigi, dalla strada, dalle finestre aperte sulla strada del basso in cui viveva la vittima, è venuto l’assassino di Ciro. Inutile dirlo, i bambini hanno assistito all’esecuzione del padre. Hanno visto la morte e il sangue, senza che niente sia stato loro risparmiato. Nella cronaca che ne ha fatto ieri su Repubblica Conchita Sannino, un tratto in particolare colpisce e che forse può passare inosservato, ma che pure restituisce intera la misura di questo dramma. L’unica cosa che sappiamo del più piccolo dei bambini è che quando parla lo fa in napoletano. A sette anni. Giustamente Conchita Sannino si chiede cosa ne sarà di questi ragazzi, in una famiglia in cui il padre e il fratello maggiore in circostanze completamente diverse sono morti ammazzati e dove la norma paterna e due zie sono attualmente agli arresti. Evidentemente, non è solo questione di sopravvivenza fisica, ma di educazione. L’intera sfera della riproduzione sociale di questo nucleo famigliare è investita dal processo della vita criminale e sovvertita nei suoi presupposti fondamentali. In questa storia niente è intatto. Non c’è casa, non c’è famiglia, non c’è scuola. A chi abbia letto di questa vicenda sulle pagine del Mattino, nella cronaca di Leandro Del Gaudio, non dovrebbe essere sfuggita un’altra notizia. Bastava infatti far scorrere l’occhio nella pagina accanto per leggere nel taglio basso di una cosa che apparentemente non ha niente a che fare con l’episodio di cui ci stiamo occupando, una notizia di libri, da prima pagina della cultura, e che invece intrattiene con l’omicidio di Ciro Caiafa un legame profondo. È la notizia dell’edizione in un unico volume delle lettere meridionali di Pasquale Villari, in realtà quelle che con questo titolo furono pubblicate nel 1878 e gli iscritti cavouriani inviati alla Perseveranza nel 1861, sotto il titolo forse non proprio adeguato di Mezzogiorno pedagogico. Per Villari, che di scritti pedagogici ne ha consegnati molti alle stampe, le Lettere meridionali erano innanzitutto una riflessione sulla questione sociale in Italia. Le Lettere si aprivano con uno scritto sulla camorra che era innanzitutto una ricognizione dei luoghi e dei modi di abitare delle classi povere napoletane: dai “fondaci”, alle “grotte degli spagari”, ai bassi, dove viveva anche la parte meno misera del popolo napoletano, annota Villari, i quali “non solamente sono senza aria e senza luce, ma son tali che spesso per entrarvi si discendono alcuni scalini, onde la malsana umidità”. Napoli si iscriveva allora nella coscienza pubblica del nuovo Stato unitario per mezzo di uno sguardo come questo, tanto acuto quanto indisponibile ad ogni forma di camuffamento della verità. È inutile girarci attorno, ma da molto tempo non vogliamo più vedere queste cose. Abbiamo coltivato per decenni, nelle scienze sociali e nel dibattito storiografico, la convinzione che si trattasse di nient’altro che di un “racconto”, di uno dei modi possibili di rappresentare la realtà, funzionale ad una strategia precisa di iscrizione del Mezzogiorno nella nuova compagine politica prodotta dal Risorgimento. Subalterna e disciplinante. Perché nascesse un Mezzogiorno tutto nuovo era perciò necessario sbarazzarsi innanzitutto di quel racconto. È stata la grande illusione degli anni Novanta. La dismissione del Sud, la sua scomparsa dall’orizzonte politico e civile del paese viene anche da qui. Dall’idea che non ci fosse più alcuna “questione”. A pagare il prezzo più alto di questa scomparsa è stata proprio Napoli, l’antica capitale che anche in questo modo dichiarava l’ormai definitiva perdita di qualsiasi rendita di posizione del suo antico monopolio sul Sud continentale. La questione napoletana che non è certo più quella di Villari (e nemmeno di Francesco Saverio Nitti) resta però tutta intatta dal punto di vista della trasformazione moderna della città. Basta uno squarcio di luce su di un fatto di cronaca per illuminare uno spaccato sociale che nel secondo decennio del ventunesimo secolo mostra come miseria e degrado delle classi popolari, criminalità, tutto si svolga ancora negli stessi luoghi e con gli stessi protagonisti di 150 anni fa. Napoli resta con tutta la sua urgenza una ferita aperta del nostro paese. Se poi il lettore fosse stato così paziente da leggere anche l’intervista che nella stessa pagina dedicata alla morte di Ciro Caiafa, Daniela De Crescenzo ha fatto ad Angela Iovino, vedova di Maikol Russo ucciso innocente cinque anni fa in un bar di Forcella, ancora una volta il giorno di San Silvestro, avrebbe scoperto una storia diversa, l’altra faccia per così dire, della sopraffazione camorristica. Una donna che, dopo che le è stato strappato il marito, vive e donne con i figli nella piccola cucina della casa dei genitori. Il figlio per studiare, in questi mesi di didattica a distanza, non ha avuto altro mezzo per collegarsi alle lezioni online che il cellulare di sua nonna. Un disastro, commentava giustamente sua madre. Questo disastro è il nostro. Indennità di disoccupazione anche ai detenuti-lavoratori di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 3 gennaio 2021 La disciplina del lavoro svolto in carcere dai detenuti, anche in favore dell’Amministrazione penitenziaria, deve essere equiparata a quella riconosciuta al lavoratore in libertà. È quanto ha stabilito il 15 dicembre scorso il giudice del lavoro del Tribunale di Venezia accogliendo il ricorso presentato contro la decisione dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (Inps) che aveva negato l’indennità Naspi (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego) al detenuto che, a causa della scarcerazione, era rimasto senza lavoro. La norma istituita nel 2015 prevede che possano usufruire della Naspi, tutti quei soggetti con rapporto di lavoro subordinato che si vengano a trovare in condizioni di “disoccupazione involontaria”. La storia inizia quando viene scarcerato il detenuto che in carcere svolgeva attività lavorativa in favore dell’Amministrazione penitenziaria, come “addetto alla assistenza di soggetto disabile”. Con l’uscita dall’istituto penitenziario, il soggetto si ritrova in ‘disoccupazione involontaria’, giusto il presupposto richiesto dalla legge per usufruire della indennità Naspi. Presentata domanda all’INPS, l’istituto rigetta, argomentando che l’attività lavorativa svolta alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria non può essere equiparata a quella svolta - in carcere - alle dipendenze di soggetti diversi o, ancor meglio, all’esterno, cioè al cosiddetto “lavoro libero”. Questo perché, l’attività lavorativa svolta in condizioni di detenzione (a cui si accede per domanda e a rotazione con gli altri detenuti) - secondo l’Inps che rigetta richiesta - “ha caratteri del tutto peculiari per la sua precipua funzione rieducativa e di reinserimento sociale”. Il giudice del lavoro del Tribunale di Venezia sentenzia equiparando le due tipologie di lavoro, quello libero e quello prestato in carcere, e nello specifico riconoscendo che non si trattava di un rapporto di lavoro “a rotazione” e che non prevedeva periodi di inattività, avendo il detenuto lavorato in via continuativa. Ma, soprattutto, ritenendo che la negazione di questo diritto “confliggerebbe con il principio di uguaglianza previsto dall’articolo 3 della Costituzione”, perché “i detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, sarebbero così gli unici a versare la contribuzione atta a finanziare la Naspi senza poterne usufruire”. Genova. Detenuto muore impiccato nel carcere di Marassi genovatoday.it, 3 gennaio 2021 Si tratta del primo detenuto deceduto in Liguria nel 2021. L’uomo, arrestato per spaccio di droga, si è tolto la vita durante la notte fra venerdì 1 e sabato 2 gennaio 2021. Poco dopo la bella notizia che le carceri liguri sono arrivati a contagi zero, nella giornata di sabato 2 gennaio 2021 la segreteria del sindacato Osapp è venuta a conoscenza di un suicidio nella notte. Si tratta del primo detenuto deceduto in Liguria nel 2021. “Purtroppo - dichiara Rocco Roberto Meli - nonostante il pronto intervento degli agenti di polizia penitenziaria operanti presso la casa circondariale di Marassi, non sono riusciti ad arrivare in tempo in quanto verso le ore 2 circa dopo il giro di controllo delle camere detentive, un detenuto di origini marocchina di circa 35 anni arrestato per reati inerenti allo spaccio di droga recluso presso il primo piano della sesta sezione, aspettando che il giro finisse, si è impiccato. A dare l’allarme è stato il compagno della camera detentiva. Il segretario regionale Osapp sottolinea come “questo periodo si sta rivelando molto difficile per tutte quelle persone che si trovano a operare all’interno dell’istituto, trovandosi davanti realtà sconcertanti difficili da tollerare psicologicamente”. Santa Maria C.V. (Ce). Cardiopatico morto in carcere, fu vittima dei pestaggi della polizia di Mary Liguori Il Mattino, 3 gennaio 2021 Due infarti in sette mesi, due istanze di scarcerazioni respinte. Nel mezzo, la rivolta in carcere soffocata, secondo la Procura di Santa Maria Capua Vetere, con i manganelli. Poi un nuovo attacco di cuore, l’arrivo del 118, la morte e la chiamata ai familiari, la mattina dopo. È deceduto nonostante i vari tentativi di rianimazione Renato Russo, 54 anni, di Arzano, detenuto a Santa Maria Capua Vetere con ancora cinque anni da scontare per due rapine messe a segno nell’Aversano nel 2019 con la tecnica del “lancio del bullone”. È morto intorno all’una di notte di Capodanno nell’infermeria dell’Uccella. Alle sette del mattino, la sua compagna è stata avvisata del decesso e messa al corrente che la salma è sotto sequestro per gli accertamenti disposti dall’autorità giudiziaria. Secondo quanto si è finora appreso, Russo, arrestato dai carabinieri di Aversa nell’ottobre del 2019 insieme a un coetaneo con l’accusa di avere rapinato due automobilisti dopo aver lanciato dei bulloni contro le loro macchine, sette mesi fa è stato colpito dal primo infarto. Dopo l’attacco, fu ricoverato per dieci giorni all’ospedale di Sessa Aurunca, dimesso e riaccompagnato in carcere. A luglio, Russo ha avuto un secondo arresto cardiaco; operato all’ospedale di Caserta, dimesso una settimana dopo e, ancora, ricondotto in carcere. Il tutto con la pandemia in corso, pertanto il suo avvocato, adducendo la patologia cardiaca e il pericolo di vita, ha chiesto per due volte al magistrato di concedergli i domiciliari ma, evidentemente, rientrando il reato per il quale era sopraggiunta la condanna - la rapina - nella fattispecie ostativa, il giudice non ha ritenuto di accordare il beneficio. Il 30 dicembre, Russo ha quindi avuto l’ultimo contatto con la famiglia. Una videochiamata in cui, a detta dei familiari, tossiva. La notte seguente, intorno all’una, ha avuto un attacco cardiaco fatale. Inutili i tentativi di rianimazione del 118: il 54enne è arrivato in ospedale a Caserta che era già cadavere. La salma è sotto sequestro. Russo sarebbe tra quei detenuti che la Procura ritiene vittime della rappresaglia punitiva del 6 aprile scorso. Quella notte, sostengono i pm diretti dal procuratore Maria Antonietta Troncone, 66 agenti di polizia penitenziaria entrarono nelle celle e picchiarono selvaggiamente i detenuti che, il giorno prima, avevano inscenato una violenta rivolta tesa a ottenere benefici e scarcerazioni in relazione alla pandemia in corso. La Procura accusa gli agenti del reato di tortura. “Renato ha sbagliato e stava scontando la sua pena, ma ha pagato con la vita - dice il fratello del 54enne, Mauro - la mattina del 30 dicembre ha videochiamato la compagna e tossiva. Lei gli ha detto di farsi portare in ospedale, ma lui ha risposto che per due volte gli avevano già negato i soccorsi. Due mattine dopo, ci hanno avvisati che era morto. Per due volte, aveva presentato istanza di scarcerazione, ma il magistrato ha negato i domiciliari. La seconda volta è accaduto dopo la rivolta in carcere, in seguito alla quale mio fratello e altri detenuti sono stati barbaramente picchiati dagli agenti. Il giorno dopo, Renato era pieno di lividi, gli agenti non si sono fatti scrupoli ad alzare le mani su un cardiopatico e per due volte i giudici gli hanno negato la possibilità di scontare la sua pena a casa e poter ricevere le cure adeguate. Tutto ciò è ingiusto e incivile”. Il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, chiede “giustizia e verità. Per due volte - ha detto - il magistrato competente, pur essendo Russo cardiopatico, gli ha rifiutato i domiciliari. Non si può morire in carcere e di carcere. Chi ha sbagliato deve pagare, ma non a prezzo della vita. La giustizia è in agonia. Quando la politica riprenderà in mano i suoi poteri e i suoi doveri? Adesso è cinica e pavida. L’”ostatività” di un reato è una interpretazione ipocrita e incostituzionale, se riconosci che un detenuto è malato il motivo per il quale è in carcere non può prescindere il diritto alla salute”. Il segretario della giunta esecutiva dell’Anm di Napoli e magistrato di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, Marco Puglia, replica alle affermazioni del garante. “Al di là della assoluta drammaticità della vicenda, per la quale non può che esserci dolore, ritengo che non sia corretto gettare un’ombra sulla magistratura. Le dichiarazioni del garante sono prive di capacità di analisi di una vicenda delicata avvenuta in un momento delicato: questo non perché la magistratura sia esente da errori, ma perché l’operato dei giudici, che ogni giorno si assumono la responsabilità della salute dei detenuti, non può essere messo in dubbio senza approfondimenti”. “L’ultimo provvedimento che riguarda Russo - continua Puglia - risale al 28 giugno del 2020 e il rigetto disposto dalla Sorveglianza tiene conto della vicenda al momento dell’istanza: è irrealistico sostenere che la morte poteva essere evitata con la scarcerazione. Sarebbe opportuno che chi riveste ruoli di un certo tipo non rilasciasse dichiarazioni se non dopo approfondimenti di natura sanitaria e processuale”. “Va detto - ha concluso Puglia - che l’istanza potrebbe essere stata respinta per inammissibilità in quanto la condanna non era ancora definitiva”. Il 20 gennaio ci sarebbe stata la prima udienza in corte d’Appello. Napoli. Giuseppe ha un tumore ma per la magistratura deve restare in carcere di Viviana Lanza Il Riformista, 3 gennaio 2021 Sulle spalle ha una condanna a sette anni di reclusione per il reato di estorsione. Ma ha anche il fatto di aver scontato la condanna quasi interamente agli arresti domiciliari, essendosi dissociato e non avendo mai violato le prescrizioni imposte dalla misura alternativa. Ora la sua storia è finita al centro di una denuncia presentata alla Procura di Napoli. L’ha scritta di suo pugno Giuseppe Loffredo, 56 anni, napoletano e da sette mesi recluso nel carcere di Secondigliano e con ancora sette mesi da espiare per chiudere il proprio conto con la giustizia. Si ritiene vittima della burocrazia giudiziaria che gli impedisce, solo perché la condanna è divenuta definitiva e c’è di mezzo un reato ostativo, di poter terminare di espiare la pena agli arresti domiciliari e vittima di quella burocrazia che impone una serie di passaggi, spesso lunghi e talvolta farraginosi, per avere in carcere i farmaci che gli servono per resistere a una grave forma di tumore del sangue che lo ha già costretto su una sedia a rotelle. “Temo per la salute di mio padre - racconta la figlia Sabrina - È entrato in carcere con le proprie gambe, ora è su una sedia a rotelle. Purtroppo la sua è una malattia da cui non si guarisce e in carcere vedo che sta peggiorando. Non chiedo che venga scarcerato, ma che almeno possa avere di nuovo gli arresti domiciliari”. Ad accrescere le preoccupazioni dei familiari di Loffredo c’è anche la denuncia che lo stesso detenuto ha scritto alla Procura di Napoli il 17 dicembre scorso: “Sono malato di mieloma multiplo e ho bisogno di un farmaco che mi deve essere somministrato quotidianamente senza interrompere la somministrazione, cosa che invece è capitata più volte come si evince dalla cartella clinica”, ha scritto il detenuto nella denuncia in cui ha segnalato uno stop alla terapia causato da un ritardo dell’arrivo del farmaco nel carcere di Secondigliano in cui è detenuto. “Ciò non tutela il mio diritto alla salute - ha aggiunto Loffredo - distruggendomi anche psicologicamente in quanto ho paura che, senza la chemioterapia di mantenimento, questo male incurabile mi possa sopraffare in breve tempo”. In questi mesi i giudici della Sorveglianza hanno sempre respinto le istanze presentate dagli avvocati di Loffredo, negando il differimento dell’esecuzione della pena sulla base del fatto che in carcere il detenuto poteva ricevere il farmaco per la chemioterapia. Gli avvocati Domenico Dello Iacono e Angelo Ferraro avevano sottoposto ai giudici le difficili condizioni del detenuto dovute anche alla pandemia, evidenziando come, per un soggetto rinchiuso in carcere, la necessità di evitare luoghi affollati, prescritta dai medici, sia impossibile da ottenere, ed evidenziando anche la “sofferenza aggiuntiva” vissuta da Loffredo per la condizione di autoisolamento cui è costretto per proteggersi dal Covid, considerato che a Secondigliano ci sono stati e ci sono detenuti positivi. Del caso di Loffredo si è occupato anche il garante regionale Samuele Ciambriello evidenziando due aspetti sollevati da questa storia: uno riguarda il tema dei reati ostativi, l’altro le lungaggini burocratiche che indicono sulla tutela di diritti fondamentali come quello alla salute. “Chi ha sbagliato paghi la sua pena, ma non a prezzo della vita - commenta Ciambriello - Chi è detenuto ha diritto alla tutela della propria vita anche se il reato è ostativo. Perché questa del reato ostativo è una clausola ipocrita, ingiusta e costituzionalmente illegittima”. Modena. “Violenze al carcere di Sant’Anna, Piscitelli è morto nell’indifferenza” Il Resto del Carlino, 3 gennaio 2021 L’accusa di cinque detenuti: “Una volta portato ad Ascoli il nostro compagno di cella non fu assistito a dovere”. “Emetteva versi lancinanti: è stato chiesto più volte l’intervento di un medico ma non è stato fatto nulla. Quella mattina la risposta è stata: ‘Fatelo morire’. Verso le 10, 10.20 dopo diversi solleciti furono avvisati gli agenti che Salvatore era nel letto, freddo. Piscitelli era morto. Eppure hanno scritto che è deceduto in ospedale”. È un esposto da brividi quello firmato e depositato in procura da cinque detenuti presenti alla violenta rivolta dello scorso 8 marzo nel carcere Sant’Anna. Un esposto volto a far luce sul decesso dei detenuti, avvenuto in alcuni casi in carcere e per altri quattro durante il trasferimento in altri penitenziari. Al centro della denuncia dei detenuti, in particolare, la morte di Salvatore Piscitelli (avvenuta dopo il trasferimento nel carcere di Ascoli), 40 anni che, secondo gli amici carcerati avrebbe perso la vita nell’indifferenza di molti; commissari e agenti di Ascoli ‘sordi’ dinanzi alle richieste di aiuto durate quasi un giorno. I cinque detenuti sono stati sentiti pochi giorni prima di Natale in procura a Modena come persone informate sui fatti ma, come spiega il procuratore Giuseppe di Giorgio, ci sono ancora diversi elementi da approfondire. “Al momento il fascicolo è aperto per omicidio colposo - spiega Di Giorgio - per ogni detenuto morto è stato aperto un fascicolo; in alcuni casi il reato ipotizzato è morte come conseguenza di altro reato. Al momento è tutto abbastanza fumoso: non ci pronunciamo ma rispetto a quanto è stato scritto negli esposti ed espresso verbalmente davanti ai pm si faranno i necessari approfondimenti”. Unico punto fermo per la procura l’esito dell’esame autoptico effettuato sul corpo di Piscitelli che, come per gli altri decessi, ‘parlerebbe’ di morte conseguente ad un’overdose. Overdose dovuta a quell’ingestione massiccia di metadone dopo che i detenuti, nel corso della rivolta, saccheggiarono la farmacia del Sant’Anna. Nell’esposto si fa riferimento a presunti pestaggi avvenuti al Sant’Anna: “Il detenuto, già brutalmente picchiato alla casa circondariale di Modena, durante la traduzione arrivò ad Ascoli in evidente stato di alterazione da farmaci tanto da non riuscire a camminare... Tutti ci chiedevamo come mai non fosse stato disposto l’immediato ricovero”. Venezia. Detenuti preoccupati dall’emergenza Covid: i contagiati sono già 50 Il Gazzettino, 3 gennaio 2021 All’interno del carcere di Santa Maria Maggiore la situazione è sempre piuttosto tesa a seguito dell’emergenza conseguente alla pandemia Covid-19: il numero dei contagiati accertati all’interno della struttura è salito ad una cinquantina, tra cui anche 5 agenti di polizia penitenziaria. Per evitare che il virus si possa propagare ulteriormente, la direzione della casa di reclusione ha realizzato tre reparti Covid per cercare di garantire il massimo isolamento, e ha dotato il personale dei presidi necessari ad operare in sicurezza. Ovviamente non manca la preoccupazione, sia da parte degli agenti che dei detenuti, i quali temono di poter essere contagiati e di potersi ammalare seriamente. Nella serata tra il 30 e il 31 gennaio si è svolta una protesta pacifica, nel corso della quale i detenuti hanno sbattuto le suppellettili contro le sbarre delle celle per richiamare l’attenzione e sollecitare l’adozione di tutte le iniziative necessarie per garantire la sicurezza sanitaria all’interno di Santa Maria Maggiore. Sulmona (Aq). Carcere, i rinforzi se ne vanno ilgerme.it, 3 gennaio 2021 Dovrebbero lasciare il carcere lunedì prossimo gli agenti del Gom venuti in soccorso in via Lamaccio per fronteggiare l’emergenza epidemiologica dietro le sbarre scoppiata qualche settimana fa e che ha coinvolto circa 90 detenuti e diversi caschi blu. Lo annuncia con molta preoccupazione, chiedendo un ripensamento, la Uil penitenziari che spiega come “seppur nel frattempo migliorata, la situazione presso il penitenziario - scrive Mauro Nardella - resta tutt’ora in preda all’emergenza visto che diversi sono ancora sia i detenuti che gli agenti positivi al tampone”. E ancora “che il contributo del Gom sia stato, e tutt’ora lo è, determinante ai fini della prevenzione del totale collasso della struttura è sotto gli occhi di tutti - si legge in una nota. Pensare, quindi, ad una sua venuta meno, in un momento come quello attuale, sarebbe una disdetta per un sistema come quello del carcere peligno alle prese ancora con gravi problemi”. A seguito dell’accensione di un focolaio in via Lamaccio, il carcere è stato, dopo un primo periodo di forte incertezza, attenzionato dal ministero che oltre a mandare rinforzi tra gli agenti, ha proceduto a trasferire una parte dei detenuti per liberare celle e permettere l’isolamento dei positivi. I disagi più grandi sono venuti però dalla gestione dei ricoveri che hanno richiesto uno sforzo nella sorveglianza maggiore e rischioso, anche per l’assenza, specie all’inizio, di reparti dedicati per la cura dei detenuti Covid. Velletri (Rm). In carcere ai tempi del Covid, intervista al cappellano don Franco Diamante di Maria Sole Lupi castellinotizie.it, 3 gennaio 2021 “Il carcere di Velletri vive nella tranquillità, la tensione è stata superata. I detenuti sono molto attenti sapendo del pericolo del Covid-19 e portano la mascherina quando sono fuori la loro cella, fortunatamente nessun caso Covid-19 accertato”. Queste sono le prime informazioni rilasciate dal cappellano del Carcere di Velletri, Don Franco Diamante, intervistato a filo diretto per il nostro giornale. Lui che vive dall’interno la dura realtà carceraria, data la lunga esperienza del suo operato, ci racconta di una situazione sotto controllo all’interno del penitenziario, da quando grazie alla concessione della detenzione domiciliare ad opera del decreto Cura Italia dello scorso marzo il numero dei presenti si è via via ridotto di 200 unità. “Sono attualmente 400 i detenuti presenti nel carcere in linea con la capienza regolamentare - sostiene il cappellano, e aggiunge. Adesso, con meno persone all’interno c’è meno affollamento nei servizi e anche qualche possibilità lavorativa in più internamente all’istituto”. Tuttavia, la parte più dolorosa è che il Covid-19 ha sospeso tutte le attività trattamentali interne (tra queste il teatro, il cineforum, libro forum, attività manuali e tanto altro) che davano un senso e uno scopo alle dure e grigie giornate all’interno delle mura carcerarie. Ci dice il parroco, “I volontari possono entrare ma sono una piccola minoranza rispetto agli ingressi prima della pandemia e possono avere soltanto contatti singoli con il detenuto che ne ha bisogno. Il rapporto è un detenuto per un volontario”. La scuola e le messe sono le uniche a rimanere in vigore. Per quanto riguarda la vita religiosa in carcere, ci dice il cappellano: “possono partecipare alla messa 40 detenuti alla volta, abbiamo aumentato i giorni e gli orari settimanali in modo tale da dare l’opportunità a più persone divisi per sezioni di prenderne parte”. Le messe sono il giovedì, il sabato e la domenica in orari diversi per sezioni diverse. Il giovedì la messa è riservata ai precauzionali (sex offender) e il sabato e la domenica per i comuni. “Posso dire che la partecipazione alle funzioni è più o meno rimasta invariata rispetto al periodo prima della pandemia, in media un centinaio a settimana partecipano alla messa”. Ciò che emerge dal racconto del cappellano è una fotografia drammatica della realtà quotidiana dovuta alla pandemia da Covid-19 nella quale, al fine di ridurre le probabilità di contagio dall’esterno verso l’interno, i detenuti vivono esclusi quasi completamente dal mondo esterno, tranne per i rari casi di coloro che possono beneficiare dei permessi premio e dei permessi di lavoro. Viene reso in tal modo difficile quel cammino rieducativo previsto dall’Art. 27 comma 3 della Costituzione italiana il quale cita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere nella rieducazione del condannato”. Ad aggiungere sofferenza, oltre all’assenza oramai quasi annuale di attività culturali e sociali extra, vi è la limitazione dei contatti in presenza con i familiari. Ci racconta: “I parenti che possono raggiungere il carcere, devono prendere appuntamento prima di poter fare visita al proprio caro in detenzione. A separare le loro conversazioni è un vetro divisorio che non permette loro il contatto fisico”. Nessun abbraccio, quindi, è consentito tra compagni, coniugi, madri e figli e padri e figli. È da immaginarsi il loro dolore per vivere in una condizione di totale privazione dell’affettività, soprattutto nel bel mezzo delle appena trascorse festività natalizie. Tuttavia, si assiste anche nel carcere di Velletri, così come disposto a livello nazionale, l’aumento delle chiamate e videochiamate concesse ai detenuti verso le loro famiglie e soprattutto nei casi in cui vi sono figli minori. Il cappellano spiega: “Diciamo che a seguito delle ribellioni di marzo dovute alle chiusure ai colloqui con i familiari, da qualche mese hanno concesso maggiori possibilità di chiamare in famiglia, alcuni lo fanno anche quotidianamente e questo ha contribuito inevitabilmente ad abbassare la tensione nelle carceri”. Si è chiesto a Don Franco Diamante di raccontarci di come è prevista l’organizzazione della procedura di isolamento per i sospetti Covid-19 e per i “nuovi arrivati” alla casa circondariale. La risposta: “Noi li chiamiamo “i nuovi giunti”, loro vengono messi in isolamento in una delle stanze singole nella “sezione quarantena precauzionale” al “secondo B” per 14 giorni, devono fare due tamponi, se sono negativi vengono mandati nelle celle. Anche chi esce per permesso o per una visita in ospedale quando fa rientro viene messo in isolamento e deve seguire l’iter dei due tamponi. In più c’è una “sezione Covid”, se tra i detenuti c’è un caso sospetto viene messo in quarantena. La sezione Covid-19 è spesso affollata”. Tuttavia, dalle parole del cappellano sembra di capire che la situazione a livello di organizzazione è di molto migliorata rispetto ai primi mesi della pandemia quando venne dedicata la “sezione transito” (quella riservata ai colloqui con i legali) per la quarantena sia dei nuovi giunti e sia dei sospetti Covid-19, per un totale di poco più di dieci posti. Si è chiesto all’intervistato di raccontarci se avesse recepito qualche informazione in merito all’adesione dei detenuti del Carcere di Velletri allo sciopero della fame nazionale indetto dall’Onorevole Rita Bernardini, assieme ad altri personaggi del panorama politico e culturale, dai primi di dicembre per chiedere l’apertura di un dialogo con il Ministero di Giustizia circa l’approvazione di provvedimenti che mirino a decongestionare molte carceri italiane in condizione di sovraffollamento (ipotizzate anche la concessione di amnistia e indulto). La replica di Don Franco Diamante: “So che hanno aderito nella Casa Circondariale di Velletri circa la metà dei carcerati più motivata e consapevole. In carcere viene chiamato lo “Sciopero del carrello” e consiste nel non mangiare gli alimenti e le pietanze del vitto ufficiale portate cella per cella dal personale di polizia penitenziaria mediante il carrello”, da qui il nome. Lo sciopero è durato 4 giorni”. Immaginando l’andamento delle feste natalizie in carcere, Don Franco Diamante ha aggiunto la sua testimonianza: “Natale in carcere è sempre stato il giorno più brutto dell’anno. Pandemia o no non cambia molto per loro. In quel giorno il personale è sempre stato al minimo e le attività non sono mai state previste così come i colloqui con i familiari”. Solitudine, è la parola che più ci sembra descrivere il Natale- così come ogni altro giorno di festa- di coloro che si trovano ristretti in carcere e in generale sono privati della libertà personale. Sicuramente le festività in corso sono vissute con ancora più amarezza da coloro che vivono nelle mura delle celle, dai loro familiari e anche da coloro che vi lavorano quotidianamente. Confidando in un 2021 più positivo rispetto al precedente anche per la realtà penitenziaria rivolgiamo auguri sinceri di Buon Anno a tutti gli operatori penitenziari, al personale di polizia penitenziaria, ai volontari, a Don Franco Diamante per averci rilasciato l’intervista e a tutti i detenuti del carcere di Velletri. È importante che le persone recluse non vengano dimenticate dalla società ed è importante che questo lungo periodo sia un’occasione per attribuire il giusto valore alla libertà. Savona. Ciangherotti rilancia: “Ad Albenga il nuovo carcere” La Stampa, 3 gennaio 2021 Il Consigliere comunale di Forza Italia Eraldo Ciangherotti rilancia la proposta che sia ad Albenga la nuova sede del carcere in provincia di Savona. Lo afferma dopo l’intervento del referente regionale dei detenuti in Piemonte, il fossanese Bruno Mellano che ha bocciato l’ipotesi di realizzare una nuova casa circondariale a Cengio. “Sbagliano i sindaci degli enti locali di Piemonte e Liguria di collocare un nuovo carcere nell’area dell’ex Acna a Cengio, in Liguria - ha sottolineato Mellano - Giusto pensare al riutilizzo dell’area industriale dismessa. Si tratta però un luogo isolato che non garantisce un reinserimento sociale e pena dignitosa a contatto con le famiglie e i servizi. Al massimo si può valutare l’utilizzo dell’imponente complesso della Scuola di polizia penitenziaria di Cairo-Montenotte dove si sta già sperimentando il lavoro all’esterno per alcuni detenuti di Fossano”. Eraldo Ciangherotti rilancia così la sua proposta: “La Valbormida è una zona decentrata rispetto al resto della provincia e in particolare per il Ponente. Meglio aprire una riflessione sull’opportunità di realizzare un penitenziario ad Albenga. Le aree idonee potrebbero essere quelle all’uscita del casello autostradale di Albenga nei pressi dell’Ortofrutticola o ristrutturando l’ex polveriera sulla strada per Campochiesa. Sia in un caso che nell’altro sarebbero zone facilmente raggiungibili dai mezzi della polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine per il trasferimento da e per il carcere. Non sono luoghi isolati e offrirebbero vantaggi certi per il personale della polizia penitenziaria e per le famiglie dei detenuti. Anche loro, come le forze dell’ordine, avrebbero possibilità migliori per raggiungere il carcere vicino all’autostrada e tra l’altro non lontano da un ospedale. La nostra provincia ha bisogno di un nuovo penitenziario in tempi rapidi e penso che nella nostra città si possa realizzare una struttura accogliente per il personale carcerario e per le loro famiglie (che avranno la possibilità di vivere in una località dotata di tutti servizi), ma appunto anche per gli stessi detenuti e i loro parenti in visita e per tutte le persone addette ai lavori. La presenza sul territorio di un’importante struttura offrirebbe un’opportunità di lavoro a commercianti ed artigiani. Occasioni uniche come lo sono state per decenni le caserme la cui chiusura ha, invece, impoverito il territorio, come ben ricordano i più anziani. Un istituto ad Albenga, inoltre, oltre a minori costi di gestione per le casse dello Stato, garantirebbe una maggiore sicurezza per la stessa cittadina con più forze dell’ordine sul territorio. Per questo motivo invito alla riflessione non solo l’onorevole Franco Vazio, ma tutti i parlamentari della Liguria e in particolare del Ponente Ligure affinché valutino l’opportunità di realizzare un penitenziario nella nostra città”. Pistoia. Il carcere inaugura una nuova biblioteca La Nazione, 3 gennaio 2021 Giornata di inaugurazioni lo scorso 15 dicembre per il carcere di Pistoia che si è dotato di un nuovo spazio per il personale e una nuova sala polivalente per i detenuti. Entrambi progetti fortemente voluti dalla direttrice della casa circondariale pistoiese Loredana Stefanelli: “Fin dall’inizio del mio incarico ho voluto assicurare la realizzazione di molte iniziative che garantissero il benessere del personale, tra queste, uno spazio creato per sospendere anche per pochi minuti, un’attività difficile e delicata come quella del poliziotto penitenziario oltre che di tutto il personale che si occupa delle funzioni centrali”. Lo spazio dedicato ai dipendenti è stato dunque riaperto dopo esser stato chiuso per più di quindici anni. Un angolo grazioso, arredato con sedie, tavolini e piante ornamentali dove poter leggere un buon libro preso in prestito dalla biblioteca appositamente allestita. Un contributo per favorire la lettura e la cultura anche in locali non dedicati, commenta la direttrice Stefanelli. Presto sarà inoltre allestita una zona-comfort nel medesimo spazio, tramite un soppalco dove potrà sostare il personale che alloggia in caserma. I detenuti invece hanno lavorato per rendere di nuovo agibile la sala polivalente del carcere. La sala, abbandonata da tempo, non disponeva di servizi igienici, aveva un pavimento logorato e non più adeguato, il soffitto non più a norma. “Due anni fa è dunque nata l’idea di rendere di nuovo l’ambiente conforme e fruibile da parte dei detenuti, perciò, dopo il progetto approvato da Cassa Ammende e grazie all’aiuto fondamentale del funzionario Giovanni Mosca del carcere di Prato, sono partiti i lavori dei detenuti per recuperare l’area”, spiega la direttrice del carcere pistoiese. Un progetto che ha portato soddisfazione a tutti i soggetti coinvolti, in particolare ai detenuti che grazie al loro operato potranno beneficiare di un nuovo spazio-palestra e di uno spazio in cui poter svolgere iniziative con la comunità esterna, tassello importante dell’attività carceraria che persegue l’obiettivo di non isolare le strutture penitenziarie dal resto del territorio. Due importanti novità per il carcere pistoiese per le quali la direttrice Stefanelli ringrazia il funzionario Giovanni Mosca, il provveditore Carmelo Cantone e la dirigente ufficio detenuti e trattamento Angela Venezia che ha partecipato all’inaugurazione delle sale. Milano. Corsi in carcere di informatica, l’alleanza tra moda e volontariato di Federico Berni Corriere della Sera, 3 gennaio 2021 La grande moda per il reinserimento dei i detenuti in società. Mondi più vicini, oggi, grazie all’impegno di un colosso del lusso come Gucci e di una realtà come Sesta Opera San Fedele, un’associazione che si occupa di “volontariato penitenziario” nelle carceri di San Vittore, Bollate, Opera e, per i minori, il Beccaria. La didattica a distanza ha fatto il resto, rendendo possibile per tutto il 2020 - e con una nuova sessione in vista per l’anno appena cominciato - un corso di informatica aperto a chi sta scontando la pena attraverso le cosiddette misure alternative (ad esempio arresti domiciliari, semilibertà, permessi lavorativi). A tenerlo sono dei professionisti di Gucci, nella cui politica aziendale rientra anche l’impegno in progetti di volontariato. Uno di questi va incontro ai programmi di Sesta opera. Si parte dai primi rudimenti informatici, con l’obiettivo di arrivare ad avere dimestichezza con i programmi più diffusi nella vita comune. Con un unico scopo: “Dare ai detenuti strumenti utili per affrontare l’attuale società”, come spiega Guido Chiaretta, presidente di Sesta opera. E quindi “creare un ponte tra il dentro e il fuori, aiutando le persone con percorsi personalizzati di reinserimento sociale”. Fare attività formative ed educative con professionisti esterni volontari, rappresenta “una parte di questa strategia, che cerca di dare alle persone che scontano la pena i mezzi necessari a tornare alla vita fuori dal carcere”, perché “l’inclusione passa dal saperci responsabili delle fragilità degli altri”. “Altre persone sono in lista d’attesa per aderire al programma (attualmente ne fruiscono cinque assistiti), ma, fanno sapere dall’associazione di piazza San Fedele, servirebbero “altri computer per allargare la platea”. L’esempio della Onlus milanese arriva a pochi giorni dalla pubblicazione del rapporto carceri della Caritas ambrosiana, che ha restituito una fotografia allarmante dei tre principali istituti penitenziari della città, sempre più chiusi al mondo esterno per l’emergenza Covid. Il documento lamenta lo stop completo a qualsiasi attività didattica, culturale, ricreativa e di sostegno psicologico. E tra le misure richieste, c’è proprio un maggior ricorso agli interventi di “accoglienza abitativa promossi e finanziati dalla Cassa delle ammende”, che consentirebbero ai detenuti che ne hanno diritto di scontare la pena all’esterno del carcere. Milano. L’Università va in carcere: “Così detenuti e studenti fanno lezione insieme” di Lorenzo Zacchetti tpi.it, 3 gennaio 2021 Grazie a una convenzione tra la Statale di Milano e le carceri lombarde i detenuti hanno la possibilità di iscriversi a costo ridotto e di partecipare ai laboratori insieme agli studenti “esterni”, che si impegnano anche come tutor dei neoiscritti. Il progetto sta riscuotendo grande successo, nonostante il Covid-19. La pandemia di Covid-19 ha portato alla luce diverse criticità che in precedenza venivano trascurate, in particolare sulle strutture residenziali: ospedali e Rsa, ovviamente, ma anche le carceri, dove non casualmente ci sono state delle forti tensioni. “I detenuti hanno provato la stessa sensazione di paura di tutti noi, ma senza ricevere adeguate informazioni”, spiega a TPI il professor Stefano Simonetta, autore del libro Utopia e carcere. “Non voglio certo giustificare le reazioni violente, ma va tenuto conto anche del fatto che per queste persone l’emergenza sanitaria ha rappresentato un ritorno al regime detentivo di vent’anni fa, annullando non solo le visite, ma anche alcune esperienze di socialità che sono state introdotte nel tempo”. Una di queste deve il suo avvio proprio al prof. Simonetta, docente di filosofia all’Università Statale di Milano, in seguito al suo incontro con un detenuto albanese: “Mi ero recato presso il carcere di Bollate per fargli sostenere un esame e, al termine, mi ha raccontato delle difficili condizioni nelle quali si era preparato. Al di là della necessità di studiare di notte, con una piccola luce per non disturbare i compagni di cella, la cultura carceraria guarda con sospetto a queste velleità, considerandole un modo per conquistare il favore del direttore o del magistrato di sorveglianza”. Dal caso singolo, si è arrivati a una convenzione tra la Statale, il più grande ateneo della città, e il provveditore delle carceri lombarde: “Un protocollo d’intesa tra Pubbliche Amministrazioni era per me un passaggio fondamentale per andare oltre le specifiche discrezionalità e l’allora Rettore della Statale lo ha condiviso con me”, prosegue il prof. Simonetta, “Nei vari istituti ci sono già moltissime esperienze di volontariato, anche di grande valore, ma tutte legate alla disponibilità dei singoli: maestri di musica, insegnanti delle scuole superiori e anche signore che insegnano l’arte del cucito. Noi volevamo invece dar vita a un progetto collettivo e siamo partiti dagli aspetti economici, abolendo tutte le spese possibili: oggi un detenuto che si iscrive alla Statale paga solamente i 156 euro previsti dall’imposta di bollo regionale, che non è abbattibile. Abbiamo messo un unico vincolo: che nei primi due anni si raggiungano almeno 18 crediti (pari a due/tre esami), per evitare che questa possibilità fosse utilizzata in modo solo strumentale”. Dai cinque studenti ristretti che hanno iniziato il progetto, oggi gli iscritti alla Statale sono oltre 100, ai quali vanno sommati i detenuti che seguono i corsi presso altri Atenei. Ovviamente, il Covid-19 ha complicato molto anche il loro percorso di studi. “Inizialmente ci consentivano di entrare in carcere con un tampone negativo, ma adesso non è più consentito”, spiega il prof. Simonetta, il quale usa il plurale riferendosi non solo ai colleghi che tengono i laboratori presso gli istituti di pena, ma anche agli studenti esterni. Un tratto davvero particolare di questo progetto è che le classi sono miste in vari sensi: i detenuti frequentano i corsi insieme a studenti non ristretti, dei quali la maggior parte è composta da ragazze. Inoltre vengono invitati a partecipare anche i detenuti non iscritti all’Università, ma che hanno gli strumenti culturali per seguire le lezioni. Le attività si svolgono in cicli trimestrali, con una presenza settimanale all’interno del carcere. E gli studenti esterni fanno davvero a gara per potervi entrare: “Ogni anno mettiamo a disposizione circa 100/120 posti, ma le richieste sono più del doppio. Ci sono studenti che arrivano dalla Svizzera, dal Piemonte o dall’Emilia Romagna: si alzano all’alba per poi sottoporsi ai rigidi protocolli di sicurezza e infine fare lezione insieme ai detenuti”. Come si spiega questo forte interesse degli studenti per il progetto con il carcere? “Molti sono spinti dall’impegno sociale, ma altri non hanno alcuna esperienza di volontariato. Si tratta di una proposta formativa con tutti i crismi, ma decisamente al di fuori degli standard, grazie alla quale si possono cementare delle relazioni forti, che continuano anche al di là del percorso di studi”. Anche la relazione tra studenti e detenuti è molto particolare: “Inizialmente prevale la diffidenza, da entrambe le parti. Le lezioni si svolgono in cerchio e le prime volte si formano due semicerchi ben distinti. Col tempo, diventa persino arduo distinguere tra chi è ristretto e chi no: anzi, abbiamo notato che spesso i detenuti sono molto meno garantisti dei ragazzi, che tendono a giustificare i loro reati con la loro estrazione sociale. C’è anche chi rimarca che, in fondo, rubare gli piaceva! Su questo devo dire che noi preferiamo non far sapere agli studenti le motivazioni per le quali i loro compagni di corso sono finiti in carcere, per evitare pregiudizi. Fa eccezione il carcere di Opera, che invece vuole che siano informati, per meglio tutelarli rispetto a possibili rischi. Certo, delle situazioni difficili ogni tanto si presentano: ad esempio quella volta che un detenuto di Bollate, nel corso di una lezione sul 41 bis, ha espresso delle posizioni molto dure su Falcone e Borsellino. Quella volta ho fatto davvero fatica”. Oltre a studiare insieme ai detenuti, gli esterni hanno anche la facoltà di diventare loro tutor, sostenendo il percorso delle matricole. Anche in questo caso, si rende necessaria una selezione tra le tante manifestazioni di disponibilità: “Eppure, io stesso ancora mi stupisco del fatto che dei ventenni vadano 8/10 volte al mese in carcere per seguire i loro assistiti. Alcuni di essi sono al 41 bis e quindi non li vedranno mai in faccia, eppure li sostengono lo stesso, in base ai bisogni manifestati”. I risultati sono decisamente incoraggianti: al momento sono circa una decina i detenuti che si sono laureati, ma considerando che l’esperienza è cominciata da pochi anni è più indicativo il dato della media dei voti per esami sostenuti, che non si discosta di molto da quella degli studenti in libertà. Circa il 30 per cento degli iscritti è composto da stranieri (in prevalenza balcanici, ma anche sudamericani e asiatici), con una forte eterogeneità dei livelli di partenza: “Ci sono pezzi grossi del crimine organizzato che sono già alla terza laurea, ma anche immigrati che a fatica hanno preso il diploma di scuola superiore in carcere e provano ad andare avanti”. Altrettanto soggettivo è l’esito del percorso, perché chi ha di fronte a sé molti anni di detenzione preferisce prendersela con calma, mentre chi è vicino alla scarcerazione punta soprattutto a trovare lavoro. Che siano giovani o più maturi - ci sono anche over 70 - i detenuti che iniziano questo percorso hanno comunque a loro disposizione una chance non indifferente, che può essere colta per progettare un futuro di riscatto sociale o anche semplicemente per fare un’esperienza di socialità che altrimenti gli sarebbe negata. “Certo, comprensibilmente incide anche questa motivazione” - conclude il prof. Simonetta - “Non siamo mossi dal desiderio di salvare nessuno, ma semplicemente dalla convinzione che lo Stato debba garantire i diritti dei detenuti: anche se quello alla libertà lo hanno perso, quello all’istruzione va tutelato”. Castelfranco Emilia (Mo). Nelle parrocchie le ostie fatte in carcere di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 3 gennaio 2021 Ostie per le parrocchie dell’Emilia-Romagna: è questa l’originale iniziativa partita dalla casa di reclusione di Castelfranco. “Un percorso che nasce dalla particolarità del contesto - commenta Maria Martone, direttrice della struttura -. Infatti, oltre ad avere una sezione di reclusione, ne abbiamo anche una di casa-lavoro, in cui sono presenti delle persone che, pur avendo scontato la propria pena, restano in istituto per svariati motivi”. La direttrice descrive il percorso che ha portato alla realizzazione del progetto: “Sin dal 2019, insieme al cardinale Matteo Maria Zuppi, ci siamo interrogati sulle migliori soluzioni da adottare per questi soggetti, spesso privi di punti di riferimento e per i quali, spesso, è molto importante l’aspetto spirituale. Abbiamo, quindi, scelto di coniugare questo profilo con quello produttivo. Fra l’altro, si tratta di lavorazioni poco complesse, a cui possono accedere anche coloro che non sono in possesso di una particolare specializzazione”. “Il Cardinale Zuppi ha scelto di finanziare l’iniziativa, specie sotto il profilo dell’acquisto dei macchinari - prosegue Martone - mentre la restante parte della gestione del lavoro è stata demandata alla cooperativa sociale Giorni Nuovi, che ha già provveduto alla assunzione di due persone. Una particolarità: l’impacchettamento avviene apponendo sulle confezioni il logo del carcere. Dall’inizio della produzione serviamo diverse parrocchie di Castelfranco, Modena e Bologna”. Maria Martone sottolinea che: “Nell’ultimo periodo abbiamo attivato tante iniziative, fra cui una lavanderia, un call center, la nostra azienda agricola, che produce ortaggi e li mette in vendita all’esterno, anche per i cittadini. Infine, per la prima volta saranno messe in vendita bottiglie di vino con il logo dell’istituto”. “Credo molto nella realizzazione di nuove professionalità in corso di pena - conclude la direttrice - giacché ritengo che il lavoro assolva a un’importante funziona rieducativa”. Civitavecchia (Rm). Sant’Egidio consegna i regali al carcere trcgiornale.it, 3 gennaio 2021 Si è svolto mercoledì scorso alle ore 10 presso la Casa di Reclusione “Passerini” di via Tarquinia a Civitavecchia il tradizionale incontro natalizio tra i volontari della Comunità di Sant’Egidio e i detenuti per gli auguri di buone feste e buon anno e la consegna dei pacchi regalo. All’incontro hanno partecipato quasi tutti i 70 detenuti ai quali i volontari oltre al dono di un bel regalo contenente generi alimentari di conforto ed una bella tuta ginnica, hanno soprattutto portato solidarietà ed amicizia. “Il 2020 - affermano da Sant’Egidio - è stato un anno difficile per tutti ma soprattutto per coloro che vivono nelle strutture chiuse e non hanno potuto ricevere le visite dei familiari e dei volontari, o le hanno potute ricevere con molte restrizioni. L’anno nuovo nasce sotto il peso di tante preoccupazioni per il futuro. La Comunità di Sant’Egidio non ha potuto organizzare il consueto pranzo di Natale che in questa struttura non è mai mancato negli ultimi dieci anni. Tutte le attività di Sant’Egidio, come quelle di altre associazioni di volontariato che frequentano le Carceri per visitare gli ospiti, ruotano intorno al contatto con le persone, alle strette di mano, agli abbracci, ai baci, al mangiare intorno alla stessa tavola, al prendere cibo dagli stessi vassoi al respirare la stessa aria, gli uni accanto agli altri senza distinzioni. Quest’anno sarebbe stato quindi facile e per certi versi giustificabile arrendersi, non fare e rimandare tutto, eventualmente, al prossimo anno. Invece le ragioni dell’incontro ed il pensiero per coloro che aspettano una novità per la loro vita in modo intenso sono state più forti. Muniti di mascherine, gel e grande entusiasmo i volontari, hanno potuto incontrare i detenuti nella grande sala teatro, divisa in due parti da una barriera in plexiglas: da una parte i volontari e il personale della polizia penitenziaria, dall’altra gli ospiti della struttura. Non una situazione ideale per un incontro di amicizia e solidarietà: all’inizio c’era un certo imbarazzo in tutti ma poi ha prevalso la voglia di comunicare e la forza di stare insieme. Ci sono state delle belle parole: “…che il Natale ed il nuovo anno vi porti pace e serenità a voi ed alle vostre famiglie…” “…noi non ci arrendiamo a non incontravi ed anche voi non vi dovete arrendere, non vi dovete rassegnare…” Un pensiero commosso è stato rivolto da tutti alla memoria di Padre Alessandro Mambrini, il cappellano venuto recentemente a mancare, che ha lasciato un segno nel cuore di tanti detenuti e che sempre è stato un protagonista dei pranzi di Natale di Sant’Egidio. Dopo le parole ci sono stati tanti applausi: alla pace, alla salute, all’amicizia, alla libertà. Sì, applausi davvero liberatori. Anche il personale del carcere ha partecipato con calore e vicinanza all’incontro, organizzato in stretta collaborazione con il Direttore Patrizia Bravetti; erano presenti il Comandante Emanuela Anniciello, il Vicedirettore Dott. Daniele De Maggio ed altri agenti. “Una bellissima giornata - spiega il responsabile della Comunità di Sant’Egidio Massimo Magnano - che ci ha reso felici come ogni anno, perché gli incontri con i detenuti sono indispensabili, sono persone fragili che hanno bisogno di messaggi di pace e di speranza. Noi siamo un punto di riferimento per loro, non solo durante il periodo di reclusione ma anche quando usciranno: tutti potranno venire presso i Centri della Comunità in tante città per ricevere sostegno e amicizia. Ringrazio per l’incontro di questa mattina e per quello di sabato 19 dicembre che abbiamo svolto presso il carcere di Borgata Aurelia, a cui abbiamo distribuito più di 450 pacchi regalo”. Infatti, sabato 19 dicembre i volontari di Sant’Egidio sono andati a visitare i detenuti e le detenute presso il grande Carcere di Via Aurelia Nord per consegnare gli stessi doni natalizi consegnati al Carcere in Via Tarquinia. Anche in questo carcere gli agenti della Polizia Penitenziaria diretti dal Comandante Giovanna Calenzo avevano organizzato in modo perfetto i percorsi. I volontari sono passati prima nella sezione femminile dove in un cortile all’aperto hanno potuto salutare e soffermarsi con tutte le detenute. Sono circa 35 di tante nazionalità e di varie età. Alcune anche molto anziane, aiutate dalle più giovani. La sezione femminile è bella, piena di dipinti colorati e murales che negli anni alcune detenute transitate in questo luogo hanno dipinto sulle pareti. Bella come sono belli gli occhi di queste donne che aspettano di tornare libere. Dietro le mascherine si intuiva il sorriso di molte di loro, uguale a quello dei volontari, contenti di essere lì. Poi c’è stato in una sala della sezione maschile l’incontro con una rappresentanza di detenuti. Anche qui parole molto calorose da parte dei volontari e di alcuni detenuti a cui, simbolicamente, sono stati consegnati 449 regali anche per gli altri non presenti. Gli agenti si sono poi predicati per far avere subito e contemporaneamente i regali in tutte le celle. La mattina del giorno di Natale i volontari di Sant’Egidio sono stati invitati a partecipare alla messa nel grande carcere di via Aurelia Nord celebrata dal Vescovo Mons. Gianrico Ruzza presso la Cappella del carcere. Il Vescovo si è insidiato da pochi mesi nella diocesi ma già è entrato varie volte dentro i due penitenziari di Civitavecchia per visitare i detenuti. Alla messa oltre alla direttrice Patrizia Bravetti ed a vari agenti erano presenti anche tanti detenuti ed un gruppetto di detenute. Tutti con la mascherina ed il distanziamento. È stata una Messa di Natale toccante. Il Vescovo, durante l’omelia, si è rivolto agli ospiti della struttura dicendogli che anche se per gli uomini che sono là fuori non sempre è così, per Dio tutti loro sono al primo posto, né davanti né dietro a nessun altro, al primo posto. Al termine della cerimonia un detenuto, F. proveniente dalle Isole Canarie, ha consegnato al Vescovo a nome di tutti una bella icona della Madonna e gli ha chiesto di pregare per tutti loro che sono là dentro ogni volta che si raccoglierà in preghiera davanti a quel quadro. Davvero un Natale che ha portato un po’ di ossigeno e di speranza ai detenuti nel tempo difficile della pandemia”. Sciascia. Il dovere civile della letteratura di Pietrangelo Buttafuoco Corriere della Sera, 3 gennaio 2021 Un secolo fa, l’8 gennaio 1921, nacque un pezzo raro della cultura europea: un intellettuale e, insieme, un formidabile artista. Litigò con Renato Guttuso, polemizzò con Italo Calvino, intervistò il patriarca mafioso Genco Russo. Asciutto, rigoroso, eretico, fu interprete di una Sicilia e di un’Italia bisognose di verità e diritto, fuori dai vincoli dell’ideologia dominante Insegnante alle elementari. Questo è Leonardo Sciascia. A chi cerimoniosamente lo appella “maestro!”, da sornione qual è, risponde: “Ebbene sì; maestro di scuola io sono”. Diplomato alle magistrali dove insegna Vitaliano Brancati, all’istituto IX Maggio di Caltanissetta - la cittadina siciliana d’entroterra della sua più completa felicità - Sciascia, nato cent’anni fa l’8 gennaio 1921, è il pezzo raro della letteratura europea in ragione della sua unicità: essere davvero un intellettuale e, al contempo, un formidabile artista. A dispetto dei tanti imbonitori di pistolotti moralistici da festival letterari, Sciascia attraversa il suo tempo accompagnando Sandro Attanasio, l’ispettore di Einaudi che alla guida di una Bianchina furgonata vende libri nei più remoti paesi dell’entroterra di Sicilia. Anni dopo - portando con sé Gesualdo Bufalino - accompagnerà Gianni Giuffrida e Mario Andreose per Bompiani mentre con Elvira Sellerio, dagli uffici di via Siracusa a Palermo, inventa la stagione più entusiasmante dell’editoria. Donna Elvira è una vera “comandiera”. Con lei Sciascia affina il dovere sociale e civile della letteratura, inventa la collana della Memoria, fabbrica l’immaginario di libertà a uso di un’Italia bisognosa sempre più di verità nel diritto e della razionalità fuori dall’ideologia dominante e si ritrova “eretico” rispetto alle tante chiese. Litiga con Renato Guttuso, titolare del mistero comunista; in tema di terrorismo polemizza con Italo Calvino che è potente idolo della Cultura con la C maiuscola; si butta alle spalle l’esperienza di consigliere comunale del Pci a Palermo, quella di parlamentare radicale al fianco di Marco Pannella e, dopo aver votato la lista del Garofano, scrive - ma senza iscriversi al partito - a Bettino Craxi. Con il leader del Psi, inviso a tutte le anime belle, Sciascia consuma il trauma definitivo presso il ceto dei colti e sulla questione dolente della giustizia - col simbolo della bilancia ormai sostituito con quello delle manette - rompe l’andazzo forcaiolo al punto di essere tratteggiato da Giorgio Bocca al pari di un avvocaticchio; con la paglietta e l’abito bianco dei Don. Bocca che riteneva l’Inferno un vasto Sud abitato da diavoli raccontava dunque l’autore de Il giorno della civetta vestito al modo di una macchietta. E lo vedeva perfino “immerso nei ragionamenti mafiosi”. Antonio Di Grado, già presidente della Fondazione Sciascia, non ha mai dimenticato questo inciampo di Bocca, ma gli è che la Buonanima nei suoi viaggi in Italia cercava solo ciò che voleva trovare, al punto d’inventarsi - in un rigurgito razzista - uno Sciascia con la coppola. È quello che sul “Corriere della Sera” pubblica il fondamentale editoriale dal titolo I professionisti dell’Antimafia e la milizia di Leoluca Orlando, il comitato antimafia, sfregia ponendolo addirittura “ai margini della società civile”. A proposito di coppole, di zii di Sicilia - e d’incontri pericolosi - sembra un racconto di Sciascia l’incontro del Maestro di Regalpetra con Marcello dell’Utri, nientemeno. In un pomeriggio del 1983 a Milano, il non ancora senatore di Forza Italia si aggira tra gli scaffali quando il proprietario, coccolandolo come merita un cliente spendaccione, gli dice: “Di là c’è Sciascia, lo vuole conoscere?”. Imbarazzato, Dell’Utri dice sì “ma” - si premura ad aggiungere - “non voglio disturbarlo”. Il libraio fa allora le presentazioni, Sciascia è altrettanto imbarazzato nel far un minimo di conversazione con uno sconosciuto, porge timidamente la mano ma il libraio, molesto assai, dice al maestro: “Questo signore è il dottor Dell’Utri, il braccio destro del dottor Berlusconi...”. Con un’espressione muta che il palermitano Dell’Utri decifra benissimo, Sciascia si sta interrogando - “e cu è?” - mentre il libraio, inesorabile, continua: “Quello di Canale 5!”. L’illustre letterato in un sussulto rimedia alla gaffe: “Certo, certo, la guardiamo questa televisione”. Il libraio, soddisfatto di avere trovato almeno quest’appiglio, prende la copia di Cruciverba, un libro edito dalla Einaudi, e lo porge a Sciascia chiedendogli una dedica per il dottor Dell’Utri. “E cosa scrivo?”, domanda lo scrittore facendo una faccia sconfortata. È lo stesso Dell’Utri a soccorrerlo in quel frangente: “Manco mi conosce, non si può sbilanciare; scriva “cordialmente, senza cordialità”; e così non sbaglia”. La battuta piace così tanto a Sciascia da fargli accendere la parlantina e allo sconosciuto avventore incontrato in libreria racconta di quando, nel 1958, da giovane maestro alle elementari - pur distaccato a Roma al ministero, corrispondente da Caltanissetta per “L’Europeo” - è incaricato di intervistare Genco Russo, il capo della mafia. Sciascia si adopera con l’avvocato di Genco Russo per organizzare l’incontro a Mussomeli e così fare l’intervista. Il servizio va a buon fine ma quando sta per prendere congedo dai due ecco che l’avvocato porge a Sciascia una copia fresca di stampa de Gli zii di Sicilia e gli dice: “Firmaci una dedica allo zio Genco”. Tutto poteva immaginare, Sciascia, eccetto che ritrovarsi a fare una dedica a Genco Russo. Il dio del genio e dell’improvvisazione però gli viene in aiuto. E così scrive: “Allo zio di Sicilia, questo libro contro tutti gli zii”. In tema di “sicilianizzazione” - il progressivo degrado di una povera nazione qual è l’Italia - nel Giorno della civetta, uno tra i suoi libri più famosi, Sciascia introduce una efficace locuzione: la linea della palma, emblema della prossimità desertica che come il mercurio di un termometro segnala l’immobilità sociale. Preso a prestito e a pretesto di cavoli a merenda, con lo sciascismo fuori luogo rispetto alla sua stessa poetica - tutta di asciuttezza e rigore - perfino Sciascia è diventato un genere orecchiato ora in un tribunale, ora in una redazione o, peggio ancora, nelle chiacchiere da talk. Tra le botole dei luoghi comuni, quella della Sicilia è una delle più capienti. A ritrovarla, oggi, la copia con dedica a Genco Russo, se ne farebbe un feticcio del mistero di un’isola affollata di metafore ma affacciandosi dalla finestra di casa in contrada Noce, la residenza di campagna in quel di Racalmuto, Sciascia si conferma nell’agio di chi vive e conosce il mondo. Padrone di sé stesso, degli asparagi selvatici e dello specialissimo genius loci dell’impostura - quella dell’abate Vella raccontato nel suo Consiglio d’Egitto - più di ogni altro posto, lì, lui è Nanà XaXa, così come la traslitterazione in lingua araba impone, svelando quel che il suo volto olivastro e il suo sorriso già annunciano. Prima dell’avvento dell’islam, Racalmuto - ovvero RahalMaut - neppure esisteva. E lui stesso, presentandosi con la tipica aspirazione delle vocali - che risente del linguaggio saraceno di dodici secoli fa - non sa darsi memoria prima dell’Egira. Sciascia che viene ben dopo Verga e i suoi vinti - e dopo le lenzuola sporche di morte descritte da Tomasi di Lampedusa - capovolge la disperazione cui si assoggetta la sua terra e adotta la luce e la vita sul lutto. La sua stessa tomba, al cimitero del paese, è abbagliante di chiarore e lumi. Composto nel sepolcro con le mani strette a un crocifisso d’argento reclama con Pascal la possibilità di una scommessa: l’eventualità del Cielo. La Sicilia spagnolissima che s’invera nella lezione di Giuseppe Antonio Borgese, quella della cupa pasta “cervantina e riberesca”, ovvero la follia onirica del Don Chisciotte di Cervantes e il contrappunto buio nelle pitture di De Ribera, arretra rispetto alla sua scelta di modernità. Alle tenebre dello Spagnoletto, Sciascia contrappone la luminosa santità delle foto di Ferdinando Scianna che gli consentono di affollare nell’Es la disperante solitudine dei suoi siciliani. Non c’è libro più erotico di Feste religiose in Sicilia e, dunque, non c’è rave più sensuale della Settimana Santa, con gli scatti di Scianna a confermarlo in un’intensa trama di Eros e sacro. In Morte dell’Inquisitore Sciascia decifra nel sacramento della confessione “una escogitazione, per così dire, boccaccesca”. Lo stesso celibato dei preti è pura astuzia, assicura invulnerabilità nello sconfinare il mondo della femmina velata, ammantata e addobbata di mantiglie quando svela azioni e intenzioni: “Un modo escogitato da una categoria privilegiata, cioè quella dei preti, per godere di libertà sessuale sul terreno altrui, e nell’atto stesso di censurare una tal libertà nei non privilegiati”. L’eleganza del lutto estremo - il più potente rito di consacrazione della carne inchiodata - s’avvolge nella brace, tutta sfarzo e fantasticheria, di un desiderio. Gli uomini sono incappucciati. I bambini, pure. E all’hidalgo che se ne va a cavallo del Ronzinante in cerca di Mulini a vento, Sciascia - chiudendo una volta per tutte con Borgese - predilige Giufà, il furbo sciocco di memoria saracena che si tira la porta di casa portandosela sotto braccio al modo di un Magritte assai saputo di cavilli algebrici ancorché limpidi, illogici e umoristici. Lui, di suo, è un intellettuale i cui occhiali - quelli della letteratura - lo aiutano a decifrare la realtà anche a costo di fraintenderla. Durante i lavori della commissione parlamentare sul terrorismo, si ritrova a interrogare Patrizio Peci, il pentito delle Brigate rosse, e si prepara come se avesse di fronte un testimone del nichilismo travolto dalla miseria, dalla tirannia e dall’ignoranza, con domande tipo: “Ha letto La Madre, qual è la sua interpretazione di Maksim Gor’kij?”. Gli altri parlamentari, vicino a lui, sono ammirati del suo candore da Candide. Lui è solo uno che fa sogni in Sicilia - vorrebbe cavarsela con l’optimisme alla Voltaire - ma quelli la sanno lunga e l’avvisano amorevolmente: “Ma che fai, Leonardo? Cosa credi che siano i brigatisti? Tutt’al più avranno letto solo fumetti e giornalini pornografici”. E ancora in tema di osé resta da raccontare di quella volta quando a Parigi, nel quartiere a luci rosse di Pigalle, Scianna e Sciascia, inseparabili cercatori di senso, si ritrovano davanti alla locandina di un locale di spogliarelli. Il fotografo chiede allo scrittore: “Che facciamo, entriamo?”. “Entriamo”, risponde Sciascia. I due fanno il loro ingresso nel locale deserto. Siedono a un tavolo e subito si palesa una ragazza che sulle note di una musica diffusa da un registratore comincia a spogliarsi. Scianna guarda furtivamente lo scrittore che, a sua volta, osserva di sottecchi il compagno di disavventura. Entrambi, imbarazzati, distolgono lo sguardo dalla scena quando finalmente Scianna sussurra a Sciascia: “Che facciamo, usciamo?”. “Usciamo”, borbotta l’altro e quando una volta fuori, camminando per un bel pezzo in silenzio, Sciascia riprende a parlare, dice: “In quel posto, caro amico, l’unica cosa pornografica eravamo noi due”. Vincenzo Muccioli e l’enigma irrisolto dell’Italia dell’eroina di Enrico Deaglio Il Domani, 3 gennaio 2021 Il fondatore di San Patrignano ha saputo supplire alle mancanze dello stato smarrito davanti al disastro della droga. Ma è stato un uomo con i suoi modi spesso troppo sbrigativi, i processi, le sue ombre e i cliché tipici di tutti i guru. Raccontare la sua vita significa raccontare la saga di una persona sola che si illude, brevemente, di poter sfuggire al Fato. Non credo siano molti, in Italia, quelli che oggi si ricordano di Vincenzo Muccioli. No, non Mucciòli. Mùccioli, con l’accento sdrucciolo. I più sono in quella fascia d’età che oggi si definisce a rischio Covid; a tutti gli altri il nome evoca solo lontani ricordi, che si addensano un po’ se a quel cognome si aggiunge il nome di “San Patrignano”, che era il vescovo cattolico di Fano, perseguitato dall’imperatore Diocleziano. Così si chiamarono, fin dall’antichità, decine di piccole o piccolissime località del centro Italia. Insomma, per darvi un aiutino: Vincenzo Muccioli (1934-1995) è stato il fondatore della “comunità di San Patrignano”, vicino a Rimini, che divenne il più grande centro d’Europa per il “recupero dei tossicodipendenti”. Fu un personaggio “molto discusso”, ma forsennatamente amato dall’opinione pubblica, che l’avrebbe voluto ministro, presidente, santo subito. La sua agonia e la sua morte provocarono una grande emozione mediatica, un vero e proprio monopolio del dolore, da cui si divincolò solo il titolo irridente del Charlie Hebdo di allora, il settimanale satirico Cuore: L’inferno aspetta Vincenzo Muccioli, per fortuna loro senza conseguenze. Poi, come tante altre cose, Muccioli venne, e anche abbastanza velocemente, dimenticato. Se ne riparla ora perché Netflix ha messo in onda un documentario davvero notevole, SanPa: luci e tenebre di San Patrignano, che in cinque puntate ripercorre l’altrettanto notevole storia della “comunità” e del suo guru. Grandi apprezzamenti per il lavoro fatto, per la documentazione (molta mai vista prima, e decisamente conturbante per la gelida violenza che comunica), per lo “spirito del tempo”, per l’equilibrio, le interviste, schiette a numerosi protagonisti della vicenda, il coraggio e la serenità di spirito della ricostruzione di un momento della nostra storia recente, che sembra nello stesso tempo così lontano e irripetibile, quanto moderno e attuale. Non è un giallo, non è solo una ricostruzione storica: la serie di Netflix è piuttosto una saga dell’uomo solo, che si illude solo brevemente di poter sfuggire al Fato: un vecchio tema, un classico. Per questo le puntate hanno i titoli da grande tragedia: Nascita, Crescita, Fama, Declino e Caduta. Per questo il volto del protagonista impercettibilmente cambia, prevede, intuisce quale sarà la sua fine. Come tutte le tragedie, ci sono dei prodromi, delle condizioni esterne che la provocano. Nel nostro caso la storia fu uno degli eventi più disastrosi avvenuti nel nostro paese, ovvero la improvvisa, programmata, immissione sul mercato di un’enorme quantità di eroina. La grande operazione di mercato cominciò alla fine degli anni Settanta, che erano stati tumultuosi, moderni e ricchi di partecipazione giovanile. Nel corso di quel decennio, progressivamente, le speranze di cambiamento e l’ottimismo avevano lasciato il posto a un panorama fosco fatto di repressione e contestazioni violente, uso delle armi da fuoco ed erano culminate con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. A questo trauma collettivo seguì una fase, che i sociologhi chiamarono del “riflusso”. “Moro e La febbre del sabato sera - diceva l’ottimo professor Giorgio Galli - ballarono insieme”. Nelle pause, avvenne la grande invasione della droga. E fu davvero un’epidemia, ma a differenza di quella attuale, le cui origini sono nel rapporto andato a male tra uomo e natura, quella fu davvero la più vile e infame operazione del capitalismo italiano; addirittura, secondo alcune teorie fu un piano preordinato della Cia per punire una gioventù ribelle. Hashish, marijuana vennero ritirati dal mercato e sostituiti da eroina, che costava poco, poteva permettersi una rete di distribuzione capillare ed era prodotta in loco; la Sicilia disponeva allora di decine di raffinerie funzionanti, note a tutti tranne che a polizia e governi. Il risultato fu presto detto: Cosa Nostra si prese il più grande cash flow che la storia ricordi. Se un tossico spende 50.000 lire a settimana, e se i tossici sono - diciamo - una platea di mezzo milione e se la cosa dura molti anni, potete anche voi fare i conti, anche se non siete laureati alla Bocconi. Significa che Cosa Nostra ha in mano la liquidità del paese, che Palermo comanda su Milano, che può comprarsi industrie e banche, giudici e poliziotti, senza contare la politica, che è poi quella che costa meno: in quegli anni cambiò il futuro economico italiano e “riciclaggio”, invece di “produzione”, divenne la parola di tendenza. Un guaio però si verificò, l’imprevisto del “costo sociale”. L’eroina in Italia dilagò in quella parte di società dolce, ma anche feroce, che si chiama “la classe media”, distruggendo stili di vita e famiglie, mescolando l’inferno dei poveri con il quieto vivere dei ricchi. C’erano le stazioni trasformate in “piazze di spaccio”, le farmacie notturne con le lunghe file, la microcriminalità, gli zombie, i cucchiaini forati nei bar, il parco Lambro, il Colle Oppio, Ostia, Ercolano, le scritte agli svincoli delle autostrade “dio c’è”, la centrale di spaccio di Fasano nelle Puglie, la disco che sostituì il rock, l’accattonaggio, lo sbattimento, la spada, la mistica del buco, i ragazzi che rubavano in casa le suppellettili di famiglia e se le vendevano per una dose, le ragazze che si prostituivano, sempre per una dose. Se quell’epoca potesse condensarsi in una sola immagine, questa sarebbe una fotografia in bianco e nero, scattata in una fredda giornata d’inverno a Milano. Si vede un ragazzo irrigidito su una panchina di un parco pubblico nel quartiere Bovisa; ha dei jeans bianchi, un giaccone, la testa rovesciata all’indietro. È morto. Davanti a lui un prete, un prete vero, con la tonaca, gli impartisce la benedizione. Era uno dei tanti morti di overdose da eroina - nel 1990 furono 1.190 (ufficiali, ma era molto, molto per difetto). Si chiamava Dario R., aveva sedici anni, l’anno era il 1979. Nessuno capì, o volle capire, da dove veniva il disastro; si capì invece subito che di epidemia si trattava e che bisognava trovare un riparo. Lo stato, inteso come ministero della Salute, governo, scienziati venne preso alla sprovvista e non sapeva decidersi. L’Italia aveva bisogno di lui I ragazzi che morivano erano vittime o colpevoli? Le droghe erano tutte uguali? Il disastro era provocato dal tilt delle endorfine o piuttosto dal materialismo, dal sessantotto, dalla dissoluzione delle famiglie, dalle controculture giovanili? Di sicuro bisognava cambiare le leggi, troppo permissive. E, per curare, l’unica soluzione che venne trovata fu quella di somministrare, in pubblici ambulatori, il metadone, un oppiaceo simile all’eroina, ma che dava meno assuefazione e di cui si poteva, nel tempo, diminuire il dosaggio. Era comunque qualcosa e aveva una base scientifica, anche se vedere quelle file di ragazzi che aspettavano il bicchierino di plastica con la dose, o se la scambiavano o se la vendevano, trasformava il paesaggio delle città in una distopia del socialismo reale o un normale pomeriggio di Blade Runner. E così nacquero le “comunità”. In genere erano posti gestiti da religiosi, fattorie in campagna, basate sul fatto che se si tenevano i ragazzi fuori dalle tentazioni metropolitane, all’aria aperta non avrebbero avuto tentazioni. Alcune erano grandi, quelle di don Mazzi, di don Gelmini, di don Picchi, ma ce n’erano decine e decine di altre che nascevano con una cascina, un prete, un medico a firmare le ricette e l’inevitabile richiesta di finanziamento dalla regione. E poi ci fu Vincenzo Muccioli. Un omone romagnolo alto un metro e 90 con 130 chili di peso, drop out dall’università, a capo di un “cenacolo” che si diletta di parapsicologia. Lui ha poteri carismatici, impone le mani, è dotato di un “raggio cristico” (ha anche le stigmate nelle due mani, e se le è procurate lui con un trincetto, come fece a suo tempo Padre Pio) ed esercita su una collina di Coriano, in una decina di ettari detti “la vigna del Signore” che la famiglia della moglie gli ha messo a disposizione e dove alleva cani di razza. Incomincia ad “accogliere” ragazzi tossicodipendenti nel 1978, fonda la “comunità di San Patrignano”, la sua fama esce dal circondario. E la fama è che “con Muccioli se ne viene fuori”. I suoi metodi sono spicci, lui stesso non esita a farli sapere. Dice che i ragazzi che arrivano sono come piante morte e che spetta a lui farli risorgere. Devono obbedirgli, però, in tutto. Niente fumo, niente sesso, niente alcool. Se cercano di fuggire saranno riacciuffati, tutto quello che scrivono a casa viene letto, se sbagliano saranno “puniti”, “isolati”, “legati”. La delazione è incoraggiata, e lui stesso, che vede tutto, passa in mensa a distribuire ceffoni. “Mi comporto come un padre di famiglia”, dice lui. La disciplina è tutto. Sì, ma quanto dura? Quando si guarisce? Quando si potrà uscire nel mondo? Qui Muccioli è molto più vago. La “rigenerazione” è un processo lungo, dice il Fondatore, può durare anni, i fiori sbocciati sono deboli, e comunque deciderà lui, e solo lui. Fuori dai cancelli di San Patrignano, intanto, si formano file di auto: sono tossici che vogliono entrare, portati dai genitori. Dormono in macchina anche settimane. Muccioli li guarda e sceglie… alcuni cominciano a lamentarsi che i raccomandati passano prima. E lui, intanto, è diventato l’uomo più popolare d’Italia; o meglio, di mezza Italia. Siccome il lettore avrà già capito che qui ci sono tutti gli elementi perché la storia finisca male, è bene fermarci sul momento di massimo splendore: siamo nel 1983 e dalla comunità arrivano voci strane, “ragazzi incatenati”, per cui i carabinieri vanno a vedere. E ne restano scioccati. Nella serie televisiva, il giornalista Luciano Nigro, che funge da voce narrante, mostra le fotografie che facevano parte, come prove di accusa, del fascicolo processuale. A distanza di quarant’anni, comunicano ancora turbamento: ragazzi incatenati alle caviglie e abbandonati in piccionaie, magazzini, tinozze, depositi di animali morti; sporchi, smagriti, con segni di ferite, gli occhi chiusi o spalancati, non più abituati alla luce: sono foto che vengono da un lager, c’è poco da fare. Come potè Muccioli sopravvivere a delle fotografie simili? I manicomi in Italia vennero chiusi quando i giornali pubblicarono foto e video di che cosa erano quelle “istituzioni totali”; Hitchcock, chiamato a esaminare i video di Dachau liberata dagli americani, si raccomandò: “Non montatele, lasciatele grezze, altrimenti diranno che sono false”. Addirittura l’America perse la guerra in Iraq quando venne mostrato al mondo che cosa succedeva nella prigione di Abu Ghraib. Ho chiesto a Nigro la storia di quelle foto. “In realtà, io le pubblicai, su un piccolo settimanale di area Pci che si stampava a Rimini, si chiamava Settepiù. Erano pubbliche, qualsiasi giornale avrebbe potuto averle o chiedermele, ma nessuno lo fece. Non il Corriere, nemmeno Repubblica; il Giornale di Montanelli, figuriamoci: era lanciato in una campagna forsennata per Muccioli! Rimasi molto colpito da questa mancanza di coraggio. Eppure, avrebbero cambiato la storia di San Patrignano, quando si era ancora in tempo”. Dunque, c’è un processo, a Rimini, e Muccioli è alla sbarra, ma il pubblico, in particolare genitori di ospiti della comunità urla “vergogna!” quando sarà condannato a un anno e otto mesi. Ricorda Nigro, “in realtà vinse Muccioli”, perché la sua condotta (una cosa che noi, adesso, potremmo definire maltrattamenti, tortura, riduzione in schiavitù, abuso di potere, de-umanizzazione, esercizio di sadismo, a seconda di come ci sentiamo) venne accettata dai suoi sponsor e sostenitori, come “necessaria” e “dettata dall’amore”. Ed era un bello spaccato della società italiana. C’era Red Ronnie, il popolarissimo dj, che si proclamava “soldato di Muccioli”, Paolo Villaggio, con un figlio tossico che a “San- Pa” aveva “finalmente trovato un padre”, Indro Montanelli per cui Muccioli era un eroe, come lo era stato per lui ragazzo Mussolini, Mike Bongiorno che lo dichiarò “amato dal 92 per cento degli italiani”, i conduttori e opinionisti televisivi, da Giovanni Minoli ad Arrigo Levi, Maurizio Costanzo, Guglielmo Zucconi, che se lo contendevano, il segretario della Uil Giorgio Benvenuto che andò a “SanPa” a celebrare il primo maggio, mezzo Partito socialista, mezza Democrazia cristiana e soprattutto i coniugi Gian Marco e Letizia Brichetto Moratti, della grande famiglia di petrolieri, in vetta alla Milano bene e dei suoi valori civici. I Moratti non solo finanziavano San Patrignano ma vi passavano il tempo libero, a servire in mensa, a pulire i pavimenti, ad ascoltare affascinati i racconti di Vincenzo e a partecipare con lui alle decisioni importanti, per esempio quale pena dare ai ragazzi riottosi. Con quella condanna (peraltro ribaltata in appello l’anno dopo), Muccioli aveva vinto. Era passato il principio che se per far del bene si deve far del male, lo si può fare; erano stati messi da parte i diritti dell’uomo, per sancire i diritti dell’”uomo forte”. A quel tempo “SanPa” aveva 400 ospiti. Divennero presto duemila, i giudici di sorveglianza ci mandavano i detenuti tossici a scontare la pena, Muccioli era sommerso dai finanziamenti. Si dimostrò un notevole imprenditore: 220 ettari di terreno su cui avviare un’agricoltura moderna, una scuderia di cavalli di razza considerata la più ricca d’Europa, laboratori di falegnameria, sartoria, restauro. È scoppiata intanto anche in Italia, un’altra epidemia: l’Aids. Si scopre che più di un terzo degli ospiti di “SanPa” sono sieropositivi, Muccioli “li prende in carica”, fonda un ospedale privato. “SanPa” divenne anche un centro convegni sulla droga e su come combatterla; la nuova legge, che prenderà il nome di Jervolino-Vassalli fu scritta sotto sua dettatura (e fu un disastro perché riempì le carceri di ragazzi arrestati per aver fumato uno spinello), Bettino Craxi sposò le proposte repressive di Muccioli e si lanciò in una campagna contro “la modica quantità non punibile”, caldeggiata invece dai comunisti; la linea dura contro i drogati forgiò politici longevi come Giovanardi, La Russa, Gasparri, Buttiglione (che vedremo in azione, con l’aggiunta di Salvini, vent’anni dopo, a proposito della morte di Stefano Cucchi). Letizia Moratti vide la sua carriera politica avanzare vertiginosamente: presidente della Rai, ministro della Pubblica istruzione, sindaco di Milano, sempre con San Patrignano in cima ai suoi pensieri. Muccioli non sfuggì al cliché di altri guru. Si costruì la solita grande villa con piscina, fenicotteri, etc.; trattò (in contanti, a suon di miliardi) cavalli di razza e si fece beccare al confine svizzero per esportazione di capitali, ornò il viale d’ingresso alla comunità di gabbioni con tigri, pantere nere, puma, leopardi che rappresentavano l’eroina messa in gabbia dall’unico che l’aveva domata: lui. E poi, quello che tutti si aspettano: la caduta, a cui il documentario dà il ritmo e il fremito di un grande film di mafia americano. Siamo nel 1993, c’è una serie di strani suicidi in comunità - ragazzi che volevano fuggire - c’è un ragazzo, Roberto Maranzano, trovato morto, e orrendamente seviziato e avvolto in una coperta di San Patrignano, in una discarica a Terzigno, sotto Napoli, quasi mille km da San Patrignano. “Beh, capita”, dicono a “San-Pa”: era scappato, sarà stato ucciso in una lite tra pusher. E invece no: un ospite racconta che Maranzano è stato ucciso a San Patrignano, perché ribelle e chi lo ha ucciso è un uomo bestiale, minorato psichico, una specie di Luca Brasi per Vito Corleone. Il delitto, efferato, è avvenuto nella porcilaia, tra quarti di bue, con modalità da cronaca di fatti corleonesi. Poi Muccioli ha ordinato di andarlo a scaricare a mille chilometri di distanza, dopo avergli fatto un’iniezione di eroina e stricnina e avergli sparato. La prova? In un nastro che ha registrato il suo braccio destro e autista. Si scopre che San Patrignano, come sono state altre comunità chiuse di questo genere, si fonda principalmente su una grande e feroce polizia interna e che i volti puliti dei “risorti” non sono tutto quello che c’è da vedere. Il processo è lugubre, da fine impero. In attesa della sentenza finale Muccioli si ammala, di che cosa non si sa, il suo volto cambia. Muore a “SanPa”, anno 1995, tra i suoi ragazzi e in diretta televisiva. Un Capo, un Santo, uno che ha fatto del Bene, un Vero Italiano. Sì, ma di che cosa è morto? Il documentario dà credito alla tesi che sia morto di Aids, contratto da uno degli ospiti della comunità (in cui, al momento della sua morte, un terzo degli ospiti era sieropositivo). Viene dato anche credito alla teoria dell’omosessualità (repressa, nascosta dietro la facciata del buon bagnino romagnolo, dolorosa e anche aggressiva) del fondatore di “SanPa”. Una proposta di erigere un monumento a Vincenzo Muccioli a Rimini venne bocciata dall’amministrazione comunale. Epilogo. La storia racconta che l’epidemia da eroina cessò la sua fase acuta all’inizio degli anni Novanta, quando la cocaina divenne la droga della classe media. San Patrignano cominciò a svuotarsi. Il figlio di Muccioli, Andrea, la gestì con dubbi criteri e venne sostituito. I Moratti pagarono gli ingenti debiti. Oggi San Patrignano ospita mille persone che soffrono di dipendenza da alcool, cocaina ed eroina. Armi contro i diritti umani, uniamo le nostre battaglie in nome della giustizia di Ennio Cabiddu* Il Manifesto, 3 gennaio 2021 Lettera aperta ai genitori di Giulio Regeni. Le due azioni di denuncia, la Vostra e la nostra, contro la violazione della legge 185/90 possono unirsi in un’azione comune in nome della giustizia e dei diritti umani. Considerateci a Vostra disposizione, certi che la ragione finalmente prevarrà sul mercimonio delle vite umane, quella di Giulio e quelle delle vittime innocenti dello Yemen. Lettera ai genitori di Giulio Regeni. Carissimi Paola e Claudio, apprendiamo con piacere che avete denunciato la violazione da parte del governo italiano della legge 185/90 che vieta espressamente la vendita di armi a Paesi in guerra o che violano i diritti umani. Ci sentiamo particolarmente vicini a Voi in questa tenace e sacrosanta voglia di smascherare la complicità dello Stato italiano (sì, dello Stato e non solo del governo) in nome di superiori interessi economici e geopolitici. La nostra particolare vicinanza nasce anche dal fatto che noi abbiamo presentato quasi un anno fa analogo esposto alla magistratura in relazione alla esportazione verso l’Arabia saudita delle bombe prodotte in Sardegna dalla Rwm. Il nostro esposto con altre iniziative è servito almeno a far sospendere per 18 mesi la scandalosa fornitura. Questi 18 mesi stanno per scadere anche se la Commissione esteri della Camera dei deputati si è già espressa per convertire la sospensione in revoca delle licenze. Ci sembra allora che le due azioni di denuncia, la Vostra e la nostra possano unirci in un’azione comune in nome della giustizia e dei diritti umani. Per questo considerateci fin d’ora a Vostra disposizione, certi che la ragione finalmente prevarrà sul mercimonio delle vite umane, quella di Giulio e quelle delle vittime innocenti dello Yemen. Prima di salutarvi e sapendo di farvi cosa gradita, rivolgiamo il pensiero a Patrick George Zaki, da troppo tempo segregato sulla base di pretestuose accuse nel suo Egitto, sempre uguale all’Egitto di Giulio. Per Patrick ci uniamo quindi ai tanti che sono impegnati per la sua liberazione ma non ci uniamo certo all’inerzia dello Stato italiano, tutto preso, ancora una volta, a tutelare ben altri e molto meno dignitosi interessi. *Portavoce di Sardegna Pulita Vergogna Regeni, Roma denunci l’Egitto all’Onu di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 3 gennaio 2021 Al governo egiziano che, per bocca della sua procura generale, dichiara che non c’è più nulla da fare per identificare i responsabili dell’assassinio e delle torture inflitte a Giulio Regeni, e che il procedimento in corso in Italia è privo di basi, il ministero degli Esteri ha risposto con un comunicato per dire che la dichiarazione egiziana è inaccettabile. Il ministero dice che ha fiducia nella magistratura italiana (!) e prosegue annunciando che agirà anche attivando l’Unione europea. La difesa dei propri cittadini, anche all’estero, è dovere del governo nazionale; menzionare l’Unione europea non può nascondere la propria inettitudine. Il Parlamento europeo è già intervenuto denunciando le prassi egiziane e sollecitando sanzioni contro i funzionari egiziani responsabili. Ma la responsabilità primaria è dell’Italia. Offensiva del buon senso, a questo punto, è poi la chiusura del comunicato, che incredibilmente formula ancora l’auspicio che la procura egiziana condivida l’esigenza di verità e fornisca la necessaria collaborazione alla Procura della Repubblica di Roma. Al di là delle apparenze che servivano a trascinare nel tempo l’attività della magistratura italiana e tenerne d’occhio gli sviluppi, le autorità egiziane hanno negato collaborazione. Con la loro recente dichiarazione esse l’hanno chiusa definitivamente. Non vi sarà alcuna collaborazione egiziana nella ricerca della verità. Del tutto illusorio è che gli agenti egiziani contro i quali procede la magistratura italiana siano consegnati all’Italia se saranno condannati. E le autorità egiziane non procederanno ad altre indagini per identificare e punire in Egitto i responsabili delle torture e dell’omicidio. I governi italiani che si sono succeduti nel tempo da cinque anni a questa parte si sono mossi nel quadro dei rapporti politici ed economici con l’Egitto. A parte l’atto dimostrativo del temporaneo ritiro dell’ambasciatore, quei rapporti sono rimasti stretti. Basta menzionare la recente fornitura di due navi da guerra e la collaborazione nella ricerca e nello sfruttamento dei campi di gas nel mare egiziano da parte dell’italiano ente petrolifero di Stato. Ma il tempo della attesa e degli auspici è ora finito. E deve ricredersi chi avesse pensato che il trascorrere del tempo e il succedersi di tragedie finisca con coprire e far dimenticare questa. L’azione della famiglia con l’appoggio che le è assicurato dall’opinione pubblica non ha dato e non darà tregua. Occorre ora che il governo italiano prenda atto dell’insanabile conflitto apertosi con quello egiziano. Il conflitto è ora tra governi. Entrambi i Paesi sono parte della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Gli Stati si sono impegnati ad impedire che atti di tortura siano commessi nel proprio territorio; essi si sono obbligati e svolgere indagini efficaci e indipendenti e darsi la più ampia assistenza giudiziaria in qualsiasi procedimento penale relativo alla tortura, comunicandosi tutti gli elementi di prova (indipendentemente da eventuali trattati bilaterali in proposito). La collaborazione cui l’Egitto è tenuto è mancata ed ora appare definitivamente negata. Anche se risulta che al momento del suo sequestro Regeni era sotto il controllo degli agenti della sicurezza egiziana, lo stato di indagini preliminari in cui si trova il procedimento penale in Italia può rendere difficile, nel rapporto tra i governi, dar per certa la responsabilità di agenti pubblici egiziani, che abbiano agito per conto di quelle autorità. Ma ciò che è incontrovertibile è l’ostruzionismo che è stato opposto alle richieste italiane di collaborazione giudiziaria. Almeno sotto questo aspetto è già ora sicura la violazione degli obblighi internazionali da parte dell’Egitto. E per questo il governo italiano dovrebbe attivare subito gli strumenti previsti dalla Convenzione contro la tortura. La Convenzione prevede che una controversia sulla sua interpretazione o applicazione, non risolvibile tramite negoziazione, sia sottoposta a arbitrato. Se, nei sei mesi seguenti alla data della richiesta di arbitrato, le parti non sono giunte ad un accordo sull’organizzazione dell’arbitrato, ciascuna di esse può sottoporre la controversia alla Corte Internazionale di Giustizia. Si tratta della Corte delle Nazioni Unite che decide le controversie internazionali. Nell’aprile del 2019 è stata istituita una commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. Essa non è ancora giunta a formulare conclusioni o raccomandazioni al governo, ma ha recentemente ricevuto un argomentato suggerimento da parte dell’internazionalista professor Pisillo Mazzeschi. In esito alla sua audizione egli ha depositato una memoria che offre tutti i motivi utili a intraprendere la via prevista dalla Convenzione contro la tortura. A quell’autorevole contributo si è ora aggiunta la presa di posizione della Società Italiana di Diritto Internazionale. Il governo non ha più alcuna giustificazione nel protrarre l’inerzia o continuare a limitarsi a più o meno sdegnate dichiarazioni. Non c’è soltanto da far valere la ragione italiana in un caso di omicidio e tortura di cui è stato vittima un suo cittadino. Non c’è soltanto da adempiere ad un dovere cui il governo è vincolato. La tortura è un crimine contro l’umanità. La comunità internazionale, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, ha preso su di sé l’onere di far tutto il possibile per prevenire, far cessare e reprimere ogni fatto di tortura. E con la Convenzione contro la tortura ha stabilito gli obblighi degli Stati con gli strumenti utili a contrastarla. Il governo italiano si trova ad essere il membro della comunità internazionale che, attivando i meccanismi della Convenzione, può dimostrare che essa non è una vuota serie di belle parole, ma esprime un impegno serio. Può farlo e quindi, senza tardare, deve farlo. Stati Uniti. Una donna al patibolo alla vigilia dell’insediamento di Massimo Basile La Repubblica, 3 gennaio 2021 L’ultima fu nel 1953 Ethel Rosenberg: finì sulla sedia elettrica vittima del maccartismo. Sedici anni dopo un omicidio orribile e tredici dopo un processo di cui nessuno si ricordava più, adesso Lisa Montgomery riceverà tutta l’attenzione dell’America e un posto nella storia: dopo il via libera della Corte d’appello, il 12 gennaio diventerà la prima donna detenuta in un carcere federale a essere giustiziata dal governo americano in quasi settant’anni. Le ultime erano state, nel ‘53, Ethel Rosenberg, condannata in pieno maccartismo per spionaggio con l’Unione Sovietica e uccisa sulla sedia elettrica, e Bonnie Brown Heady, condannata alla camera a gas per rapimento e omicidio. Montgomery, 52 anni, una delle cinquantacinque donne rinchiuse attualmente nel braccio della morte, ne aveva 36 quando il 16 dicembre 2004 strangolò una ragazza di 23 anni del Missouri, Bobbie Jo Stinnett, all’ottavo mese di gravidanza. Erano diventate amiche in chat, parlando di cani e rispettive gravidanze. Solo che quella di Montgomery era paranoia. Vittima di abusi sessuali dal patrigno, la donna, che viveva nel Kansas, per anni aveva sostenuto di essere incinta. Parlando di figli in arrivo e del desiderio di adottare un cucciolo, aveva guadagnato la fiducia della vittima, che gestiva con il marito un allevamento di cani Terrier. Dopo averla uccisa, strangolandola alle spalle, Montgomery aveva preso un coltello da cucina e sventrato la vittima, portandole via la piccola. Quando la madre della ragazza entrò in cucina, vide un lago di sangue. Ai poliziotti raccontò che era come se alla figlia fosse esplosa la pancia. Il giorno dopo, tornata in Kansas, Montgomery annunciò di aver partorito. Venne arrestata. La bimba, chiamata Victoria, sopravvisse e venne consegnata al padre. Nel 2007 i giudici hanno emesso la condanna a morte, confermata un anno dopo. Rinchiusa nel Federal Medical Center a Fort Worth, Texas, la donna ha atteso l’esecuzione che verrà eseguita nel carcere federale di Terre Haute, Indiana. Doveva essere giustiziata l’8 dicembre, ma la sentenza era stata rinviata perché l’avvocato della donna aveva contratto il Covid dopo una visita in carcere. Il 23 novembre è stata fissata l’esecuzione per il 12 gennaio, ma il legale si era opposto. La corte d’appello ha respinto il ricorso. Se non ci saranno novità, Montgomery verrà uccisa con iniezione letale, ennesima condanna a morte nell’ultimo anno sotto l’amministrazione Trump, otto giorni prima del giuramento da presidente degli Stati Uniti di Joe Biden, da sempre contrario alla pena capitale. Iran. Reo minorenne messo a morte l’ultimo giorno del 2020 di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 gennaio 2021 Hassan Rezaei, condannato alla pena capitale per un omicidio commesso quando aveva 16 anni, è stato messo a morte all’alba del 31 dicembre, quando ne aveva raggiunti 28, nella prigione centrale di Rasht. Nel 2020 l’Iran è stato l’unico stato al mondo ad aver eseguito condanne a morte di rei minorenni, in completa violazione delle norme internazionali. Immediate sono state le reazioni delle Nazioni Unite e dell’Unione europea. Secondo Iran Human Rights, dal 2010 in Iran sono stati messi a morte almeno 63 minorenni al momento del reato, quattro dei quali negli scorsi 12 mesi. Almeno 80 rei minorenni sono in attesa dell’esecuzione in varie prigioni del paese.