Celle-discarica e detenuti malati: ma di quale giustizia parlate? di Francesca Sabella Il Riformista, 31 gennaio 2021 Ciambriello e Bernardini uniti nella protesta: “Cerimonie e crisi di governo non facciano passare i diritti in secondo piano”. “I diritti generano diritti”: Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, alza la voce e urla queste parole all’ingresso del Ministero della Giustizia, a Roma. Ciambriello ha aderito alla protesta non violenta di Rita Bernardini, esponente dei Radicali che da giorni ha scelto di riprendere lo sciopero della fame per accendere i riflettori sulle condizioni della popolazione carceraria. L’ex deputata e presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino ha scritto su un foglio, affisso sulla facciata della sede di via Arenula: “Memento: chiunque tu sarai, noi saremo qui ad aspettarti per il rispetto dei diritti umani dei detenuti”. Un post-it gigante per ricordare a Bonafede quali sono i suoi obblighi nei confronti dei detenuti. Da sempre in prima linea per difendere i diritti dei reclusi, ieri Ciambriello si è unito alla protesta di Bernardini. “Ho accettato volentieri l’invito di Rita che da una settimana, tutti i giorni, passeggia per un’ora intorno alla sede Ministero della Giustizia e con suoi ospiti parla di diritti umani e carcere - spiega il garante - Ho aderito per ricordare sia al ministro “provvisorio”, che al Governo e alla politica in generale quali siano i loro obblighi verso i detenuti. Giustizia e carcere sono stati i punti critici di questo Governo perché ormai il populismo politico si coniuga con quello giudiziario”. Ciambriello ha pure sottolineato come il giustizialismo imperversi contro il garantismo e quanto i diritti dei detenuti vengano calpestati ogni giorno: “Questa manifestazione si è svolta nella giornata in cui si è aperto l’anno giudiziario, in tempi di pandemia. Ma parliamo di una giustizia inesistente. Certezza della pena, diritto di difesa, tempi della giustizia, mancanza di personale, giustizia diversa per ognuno, carceri come discariche sociali: ecco, le cerimonie di apertura dell’anno giudiziario sono il trionfo di una giustizia che non c’è”. E proprio in riferimento alla mancanza di personale, alla lentezza con la quale si prendono decisioni, e al pericolo di contagio nelle carceri che Ciambriello, pochi giorni fa, ha diffuso dati e numeri. Perché, sempre più spesso, chi potrebbe lasciare il carcere è costretto a rimanere dietro le sbarre. In Campania, i detenuti che hanno beneficiato di misure premiali ed eccezionali sono stati pochissimi: dei 250 che avrebbero potuto scontare residui di pena a casa, solo 90 hanno lasciato le celle. Questo mentre l’avanzata del Covid continua a far tremare i penitenziari di tutto il Paese. In Campania, dall’inizio della pandemia, si sono registrati più di 600 contagi e quattro decessi tra i detenuti. Attualmente i positivi sono 23: uno all’interno del carcere di Poggioreale, due a Santa Maria Capua Vetere e 19 a Secondigliano; a loro se ne aggiunge uno ricoverato al Cotugno. Inoltre ci sono 68 contagiati tra agenti di polizia penitenziaria e personale sanitario. A preoccupare è anche l’isolamento imposto ai reclusi che hanno avuto contatti con persone positive al virus. È per tutti questi motivi che Ciambriello e Bernardini hanno esposto uno striscione, all’esterno del Ministero, che richiamava i versi della Bibbia: “Fame di giustizia e sete di verità”. La leader radicale non ha alcuna intenzione si interrompere lo sciopero della fame “perché, anche durante la crisi politica, le violazioni dei diritti umani dei detenuti non sono purtroppo sospese”. Neanche il garante ha intenzione di fermarsi e di deporre le armi della sua battaglia per i diritti dei detenuti perché: “Giustizia vo cercando”. Rems, la proposta per cancellare le norme del Codice Rocco di Franco Corleone Il Riformista, 31 gennaio 2021 L’Italia sta vivendo una grave crisi politica, anzi meglio si dovrebbe dire una profonda crisi della politica, e paradossalmente proprio per questo sarebbe opportuno affrontare alcuni nodi irrisolti sul terreno della giustizia e del diritto. Mi capita di ripetere ossessivamente che la legge 180, conosciuta come la legge Basaglia, fu approvata dal Parlamento il 13 maggio 1978, pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo di Aldo Moro ignobilmente assassinato. La politica, non imprigionata dalla emergenza del terrorismo, seppe rompere i muri dei manicomi. Oggi in piena pandemia bisognerebbe avere la stessa forza e passione. Quattro anni fa con una mobilitazione dal basso, costruita dal cartello StopOpg, si realizzò una vera rivoluzione, la chiusura dei manicomi giudiziari, luoghi dell’orrore dell’internamento. Ora dopo un numero significativo di anni di funzionamento della riforma, si può fare un bilancio e indicare le criticità e i passi necessari per evitare una burocratizzazione e un arretramento. L’esperienza delle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza presenta un quadro che può far inorgoglire soprattutto le persone che hanno lavorato per il successo di una scommessa di civiltà, basata su capisaldi precisi (territorialità, numero chiuso, durata fissa della misura di sicurezza, rifiuto della contenzione). 1.500 persone transitate nelle 32 Rems, quasi mille uscite dopo una permanenza breve e finalizzata al recupero, 650 presenze sono i numeri che smentiscono chi insiste per l’aumento dei posti disponibili e delle strutture. Sono state agitate strumentalmente le liste d’attesa, la loro dimensione, senza porre il nodo del peso abnorme delle misure di sicurezza provvisorie e tacendo il fatto che nessun caso grave è stato abbandonato e non risolto. Tutto bene? Purtroppo no. I responsabili delle Rems hanno indicato le difficoltà e hanno offerto precise indicazioni di correzioni indispensabili. Sotto tiro è stata messa l’utilizzazione eccessiva delle misure di sicurezza provvisorie e l’aumento abnorme di proscioglimenti per incapacità di intendere e volere rispetto al periodo finale di apertura degli Opg. È stato denunciato il rischio di riproporre in sedicesimo la commistione di soggetti assai diversi nelle Rems come accadeva negli Opg, snaturando il principio dell’extrema ratio e il carattere di comunità terapeutica in favore di un deposito di corpi. L’approfondimento e la riflessione su tutto questo patrimonio di idee e suggestioni mi ha convinto che la strada giusta sia davvero quella del superamento del doppio binario. Incidere sull’articolo 88 del Codice penale è in linea coerente con il testo, e il contesto, della legge 81 che in un punto fondamentale lega la durata della misura di sicurezza alla previsione della pena massima per il reato commesso (solo in caso di pena dell’ergastolo la misura di sicurezza è infinita o senza fine). Se si è scelto un nesso tra misura di sicurezza e reato, o meglio di avere qualificato il fatto come reato è coerente scegliere la via del giudizio, non per arrivare a una pena dura o esemplare ma per affermare una responsabilità, anche se affievolita, che ha sicuramente un valore terapeutico. Il 18 e 19 settembre la Società della Ragione organizzò a Treppo Carnico un seminario su questo tema. Oggi pomeriggio con un appuntamento on line presenteremo il risultato di una discussione che ha coinvolto giuristi, avvocati, psichiatri, operatori e militanti delle associazioni impegnate nella conquista di diritti civili e sociali. L’obiettivo è quello di presentare in Parlamento una proposta di legge che cancelli le norme del Codice Rocco. Giustizia, l’inaugurazione dell’anno giudiziario fra il Covid e le polemiche sul caso Palamara di Liana Miella La Repubblica, 31 gennaio 2021 Nelle cerimonie nei distretti la pandemia viene presentata come l’occasione per rivoluzionare la giustizia. Ma i toni più duri sono sempre sul correntismo. Di Matteo parla di “cancro”. Ermini e l’ex pm si scontrano a distanza. I giudici onorari protestano per il loro futuro. È il Covid o il caso Palamara che oggi stringe in una morsa la magistratura italiana? La pandemia ha portato i camion con le bare, anche la morte e la malattia dei giudici e di chi lavora con loro, i palazzi di giustizia blindati, i processi in ritardo, l’obbligo delle udienze da remoto. E certo, anche per le toghe, ha comportato di vivere un anno orribile. E questo lo riconoscono tutti i vertici della magistratura e in tutti i distretti durante le cerimonie di apertura dell’anno giudiziario, con parole più o meno drammatiche. Ma la pandemia è un male per tutti, accomuna le toghe al resto degli italiani, avvicina perfino gli uni e gli altri, soprattutto se il magistrato si mostra comunque efficiente e comprensivo. Invece il “sistema Palamara” è stato, ed è tuttora, un virus esclusivamente endogeno. Riguarda i soli giudici, ne compromette l’immagine, mina l’istituzione, in una mescolanza tuttora di fatto indistinta di colpe e responsabilità. Al punto che un ex Csm come Luigi Riello, oggi procuratore generale a Napoli, usa la stessa espressione per il Covid e per Palamara, “nulla sarà più come prima”. E poi, rivolto al Csm, lancia un duro segnale: “Non credo che Palamara sia l’unica strega da bruciare e che tolto lui la magistratura sia di nuovo immacolata”. L’Italia attraversa una confusa crisi politica, l’instabilità è dietro l’angolo, il Guardasigilli tuttora in carica Alfonso Bonafede parla a Lamezia Terme, nell’aula bunker costruita in cinque mesi per consentire il maxi processo Rinascita Scott del procuratore Nicola Gratteri. E della rapidità di quell’esecuzione gli dà atto il procuratore generale Beniamino Calabrese. Ma proprio per la sua qualità di ministro di un governo dimissionario Bonafede parla quasi da “tecnico”. Ne potrebbe, del resto, in questa sua veste precaria, lanciare moniti morali alla magistratura. Quelli di cui invece si avverte un drammatico bisogno e un’assoluta urgenza. Come dimostrano le prolusioni del vice presidente del Csm David Ermini e quelle dei consiglieri laici e togati che parlano in ogni cerimonia. E sempre, con puntuale insistenza, torna il caso Palamara. Ovviamente sul filo della polemica. Così se Ermini - che tiene il suo intervento alla Corte di appello di Roma - definisce “non più sopportabile la degenerazione correntizia” e parla di “scorie ancora in circolo in questi giorni”, con un evidente riferimento al libro di Palamara (“Il sistema” scritto col direttore del Giornale Alessandro Sallusti), ecco che a stretto giro replica lo stesso Palamara: “Scorie? Ermini pensa che io sia diventato radioattivo solo dopo la sua nomina? Le correnti non le ho inventate io”. La prescrizione? Ne parlano gli avvocati che contestano la legge di Bonafede. I processi troppo lenti? È un dato di fatto, come hanno dimostrato in Cassazione il primo presidente Pietro Curzio e il procuratore Giovanni Salvi. E lo confermano tutti i vertici dei singoli distretti. Ma la pandemia ha scombussolato le carte. Ha costretto anche la giustizia italiana a cambiare registro. Ha aperto la via agli atti in formato digitale, sia civili che penali, ai processi da remoto, sicuramente quelli civili e, quando si può, quelli penali. Anche se il presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria Luciano Egidio Maria Gerardis fa una considerazione da tenere ben presente: “La giustizia è un fatto umano, che si nutre anche delle intuizioni e, perché no, delle sensazioni che derivano da ogni forma di dialogo, anche quello nudo che passa attraverso lo sguardo e i gesti. Eliminare ciò e ridurre tutto a rapporti virtuali, significherebbe privare il momento giurisdizionale di una componente essenziale”. Sembra quasi di sentir parlare le Camere penali. Certo, c’è tutto questo nel tradizionale momento di bilancio sullo stato della giustizia italiana. C’è la nuova procuratrice di Milano Francesca Nanni che parla degli “effetti sconvolgenti” della pandemia, ma riconosce il suo potere di “innestare un cambiamento anche nel sistema giustizia, di cui si possono già cogliere aspetti positivi”. C’è il procuratore generale di Roma Antonio Mura che considera il Covid “un inedito stress test”. E c’è il presidente della Corte d’Appello di Brescia Claudio Castelli che ai colleghi dice: “È tempo di essere coraggiosi e di ripensare la giustizia che vorremmo, una giustizia più vicino ai cittadini, più fruibile, più comprensibile, più equa. L’epidemia ha sconvolto tutti i nostri parametri e dovremmo cercare di trasformare la crisi in un’occasione”. Ma dov’è l’anomalia? I tradizionali bilanci annuali in Cassazione e in periferia trasmettono più ottimismo e più ricette risolutorie sulla pandemia da centinaia di morti piuttosto che indicare una fine del caso Palamara. Un caso che già due anni fa ha rischiato di travolgere l’attuale Csm - salvato solo dall’autorevolezza del suo presidente Sergio Mattarella - e che adesso ne mette quotidianamente a dura prova ogni decisione. Basta ascoltare quello che Nino Di Matteo, l’ex pm di Palermo oggi consigliere togato, dice a Caltanissetta. Frasi come questa: “Troppi magistrati sono pervasi dal male oscuro del carrierismo e sono impegnati in una folle corsa al conseguimento di incarichi direttivi”. E poi quella più forte: “Il Csm sta ancora affrontando l’onda lunga dei fatti emersi dall’inchiesta della procura di Perugia, fatti e situazioni che ci devono indignare, ma non ci possono sorprendere. Non dobbiamo essere ipocriti. Essi rappresentano una fotografia nitida di una patologia che rischia di minare l’intero sistema della magistratura, una malattia che silentemente si era diffusa come un cancro con la prevalenza delle logiche di clientelismo e collateralismo con la politica”. Un “cancro”, espressione che usò Berlusconi ormai più di dieci anni sollevando la protesta durissima di tutte le toghe. E adesso una toga usa proprio questa parola per definire i comportamenti devianti. Tutti i consiglieri del Csm, parlando ai colleghi, si fanno garanti di un futuro senza correnti, che passa obbligatoriamente per l’accertamento dei fatti e delle responsabilità. Ma i tempi sono troppo lunghi. La magistratura nel frattempo resta in mezzo al guado. Per riportarla alla realtà non basta neppure il disperato appello dei giudici onorari - categoria precaria e bistrattata - che con una rosa in pugno, a voler ricordare lo storico sciopero dei lavoratori dell’industria tessile svoltosi nel 1912 a Lawrence negli Usa, manifestano sotto il palazzo di giustizia di Milano. L’Assogot, l’associazione dei giudici onorari di tribunale, chiede di ottenere “il diritto delle ferie, della maternità, degli infortuni, della malattia, del trasferimento, del congedo familiare, dei buoni pasto o della gratifica natalizia”, tutti “diritti ancora sconosciuti e negati”. L’unico procuratore generale che spende una parola per questi 5mila “fantasmi” è quello di Torino, Francesco Saluzzo. Eh già, perché gli altri sono tutti presi dal caso Palamara. Che in share batte decisamente perfino il Covid. Anno giudiziario, l’allarme dei Pg: “Giustizia paralizzata dal Covid” di Elena Del Mastro Il Riformista, 31 gennaio 2021 Le Corti d’Appello di tutta Italia hanno inaugurato l’anno giudiziario 2021. Celebrazioni che sono avvenute in modo modesto e nelle sale vuole per l’emergenza coronavirus. Da Nord a Sud il tema centrale è stata l’emergenza coronavirus che ha praticamente paralizzato la macchina della giustizia. Ma c’è stato un altro tema affrontato dai più: il caso Palamara. A pochi giorni dalla pubblicazione del libro-intervista di Alessandro Sallusti proprio a Luca Palamara (“Il Sistema - Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana”). Il Covid paralizza la giustizia - Udienze e sentenze in calo anche del 40%, come a Roma, rispetto al 2019. Magistrati di sorveglianza, a Milano, sommersi da +240% di ricorsi dei detenuti in ‘fuga’ dal coronavirus. L’onda lunga del Covid ha travolto tribunali e Corti di Appello, già in lotta contro l’arretrato. Quasi nessun distretto giudiziario si è salvato dall’effetto ‘paralisi’ del lockdown che ha chiuso l’Italia da marzo a maggio. È questo il drammatico report viene dai vertici della giustizia territoriale. Basso profilo, data la crisi di governo, per il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Dalla nuova aula bunker di Lametia Terme, all’anno giudiziario di Catanzaro, il ministro ha ricordato che “nel contesto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, è previsto lo stanziamento di 470 milioni per l’edilizia giudiziaria”. Da Bari, il presidente degli avvocati Giovanni Stefani’ obietta che “le cifre per l’edilizia giudiziaria appaiono modeste, solo 450 milioni, sicuramente insufficienti: basti pensare, restando alla sola Puglia, che per completare il polo giudiziario di Bari occorrono 355 milioni, per quello di Lecce ne sono stati promessi 70 e anche la cittadella di Foggia, costerà decine di milioni”. “Che nel piano vaccinale non sia stato previsto alcun canale preferenziale per le strutture carcerarie, per detenuti e agenti di custodia, è una grave mancanza”, ha rilevato da Firenze Alessandro Nencini presidente vicario della Corte di Appello. Non sono più disposti a tollerare le restrizioni del Covid: avvocati sul piede di guerra. “Il diritto alla salute non può diventare onnivoro, ma va contemperato con il diritto di difesa”, va garantito “il contraddittorio” nel processo, ha detto Vinicio Nardo, il leader degli avvocati di Milano che ha parlato di “fine della civiltà giuridica” per la sospensione di tanti diritti dei carcerati, come i colloqui. Sulla stessa scia Vincenzo Comi, della Camera penale di Roma, che ha parlato di 124 contagi nel carcere di Rebibbia “a fronte dei 21 comunicati ufficialmente dalla Direzione solo pochi giorni fa”. L’ombra di Palamara - Del Caso Palamara ha aleggiato in tutte le aule. “La legittimazione dell’agire giurisdizionale sia direttamente proporzionale alla sua credibilità”, ha affermato, ad esempio, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini, intervenendo in Corte d’Appello a Roma. “Inutile nascondervi che anche l’anno che abbiamo alle spalle non è stato facile per il Consiglio superiore - ha aggiunto -, le note e dolorose vicende, le cui scorie ancora circolano in questi giorni, hanno reso evidente una degenerazione correntizia non più sopportabile. Sul Consiglio gravava e grava l’obbligo di dimostrare di saper continuare ad assolvere la funzione di governo autonomo della magistratura attribuitagli dalla Costituzione”. Copione simile nelle parole del consigliere del Csm Sebastiano Ardita, intervenuto all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Palermo: “È tempo - ha detto - che il consenso e la fiducia tra base dei magistrati e componenti e organo di autogoverno avvenga su un terreno diverso, che non sia esclusivamente la carriera. Ma soprattutto occorre riportare il Csm alla sua originaria funzione di organo di garanzia, non affezionarsi all’idea di un accentramento di competenze e funzioni in pochi luoghi di influenza; impedire che l’autonomia dei singoli magistrati guadagnata verso l’esterno sia poi perduta a vantaggio dei centri di potere interno”. Poi Ardita ha aggiunto: “La magistratura non deve temere né il confronto, né il giudizio o la critica della pubblica opinione, degli avvocati e delle altre categorie professionali”. Infine ha concluso: “Quelli che verranno dovranno essere tempi di riflessione, di studio e di proposta affinché la magistratura, la sua rappresentanza, il suo autogoverno si mettano alle spalle la grave crisi di immagine e di funzionamento che si portano dietro. Occorre rifondare tutto, ripensare tutto in una prospettiva diversa, allontanando il nuovo corporativismo fatto di pregiudiziale difesa del potere interno e di controllo dei meccanismi di acquisizione del consenso, spacciati come strumenti di difesa da pericoli esterni”. Esplicite anche le affermazioni del procuratore generale di Napoli, Luigi Riello: “Mi sembra che larga parte della magistratura si stia illudendo, in gran parte in buona fede, che, cacciato Palamara dalla Magistratura, dimessisi alcuni consiglieri del Csm, tutto sia ritornato normale. Palamara è il diavolo, lui è il cancro, lo abbiamo estirpato, le nostre coscienze sono immacolate. Palamara non credo sia l’unica strega da bruciare. Il correntismo c’era. Spero che Palamara parli, ma non con i libri, con le interviste, spero che parli al procuratore della Repubblica di Perugia, parli al Csm, dicendo tutto quello che c’è da dire. C’è una crisi, che investe il tessuto connettivo valoriale della categoria, di questo dobbiamo tenere conto”. Lo stesso Pg ha aggiunto: “Nessuna indulgenza per lui, sia chiaro, se la sua colpevolezza sarà definitivamente accertata in sede disciplinare e penale. Ma fuori luogo, fuorvianti e a effetto mi sono apparsi gli inviti che, sulle mailing list, vengono quotidianamente rivolti al predetto Palamara a mettere a disposizione dell’intera magistratura italiana la trascrizione integrale della ‘messaggistica’ da lui intrattenuta con i colleghi investiti di incarichi nell’autogoverno e nella rappresentanza sindacale e con coloro che semplicemente vi aspiravano. Essi parlano giustamente di una crisi che investe il tessuto connettivo valoriale della categoria”. Uno Stato rispettoso della persona non lascia la Giustizia senza risorse di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 31 gennaio 2021 Se vogliamo che la tutela dei diritti avvenga nel rispetto della Carta non c’è altro modo che investire nella giurisdizione: lo ha detto la presidente del Cnf Maria Masi all’inaugurazione dell’anno giudiziario. L’auspicio è che la politica la ascolti. Le parole della presidente del Consiglio nazionale forense Maria Masi intervengono in un periodo delicato per il sistema giustizia, tutt’ora sottoposto a pressioni costanti, a causa dell’emergenza sanitaria. A proemio del discorso inaugurale, la presidente Masi ripropone la domanda già avanzata a inizio 2020, domanda per certi aspetti retorica, non potendo attendere nessun’altra risposta se non di segno positivo: si chiede se l’esercizio della giurisdizione è, a maggior ragione oggi, atte le estreme difficoltà derivanti dalla pandemia, pienamente orientato al rispetto della Costituzione. Inefficienza di tribunali, corruzione nei palazzi di giustizia, attacchi al corpo togato e magistratura in politica, lentezza dei procedimenti, rendono la risposta tutt’altro che scontata e retorica come si affermava poc’anzi. Le catastrofiche premesse non sono frutto di un cieco pessimismo, ma intendono ingenerare la consapevolezza che è solo dalle crisi e dalle difficoltà che si possono trarre preziose occasioni per migliorare. L’auspicio più immediato è che lo stress sofferto dal sistema giudiziario sia appunto occasione per migliorarlo. Non è utopistico. Il legislatore - come evidenzia la presidente del Cnf nel suo discorso - tende ad adottare approcci semplicistici che si limitano a tamponare problemi endemici nel breve periodo, ma che sono inevitabilmente destinati a mostrare tutti i loro limiti nel lungo. Quello di Masi, tramite la domanda inizialmente posta, è dunque un invito a riflettere sullo stato attuale della giurisdizione, in ordine all’esigenza di riflettere ed eventualmente individuare soluzioni in grado di garantire la tutela dell’assetto costituzionale, nonostante il periodo di crisi. La lentezza che affligge il sistema viene affrontata dal legislatore in un’ottica di “mero efficientismo”, avverte la presidente dell’istituzione forense. È necessario rendersi conto che intervenire su meri aspetti procedurali, per tentare di velocizzare le decisioni, è un metodo che comporta necessariamente il sacrificio di interessi sostanziali, i quali rimangono inevitabilmente schiacciati. L’asettico e matematico approccio che tende a “giocare” sui codici di rito comporta un’evidente lesione della tutela giurisdizionale, la quale viene sempre più sacrificata in favore dell’efficientismo, in modo da mascherare carenze di organico. Basterebbe così poco: nel penale, ad esempio, centralità all’udienza preliminare, oggi declassata a mero calendario del grado successivo. Nel discorso si evidenzia come, per un completo rispetto della tutela delle parti, fondamentali risultano gli investimenti in risorse umane, strutturali e infrastrutturali, investimenti da troppo tempo procrastinati, ma che la crisi pandemica ha reso più che mai necessari, al fine di garantire un esercizio della giurisdizione che sia anche conforme al dettato costituzionale. A titolo di compendio sia sufficiente pensare che spesso gli stessi procuratori, proprio per riuscire a seguire le innumerevoli cause portate alla loro attenzione, sono costretti a chiedere sostituzioni in sede di udienza, con il paradossale effetto che, se il giudice è precostituito per legge, spesso invece la parte che ha il delicato compito di indagare, finisce per non avere la piena contezza degli atti processuali, con grave danno per imputati e indagati. Insomma, “il cuore della Giustizia è la persona, non l’efficientismo” e bene fa la presidente del Consiglio nazionale forense a ribadirlo con forza nel discorso cerimoniale di inaugurazione dell’anno giudiziario, in quanto solo un organico adeguato permette all’intero sistema di trattare le vicende umane che transitano, anche a lungo, nelle Corti di Giustizia con l’attenzione che meritano, nel pieno e auspicato rispetto dei principi costituzionali. In ultimo, su queste pagine già si commentava in un recente articolo come la stessa Corte costituzionale, con la sentenza del 18 novembre 2020 numero 278, abbia accettato di sacrificare un diritto un tempo ritenuto immutabile, qual è il principio di legalità in ambito penale, ammettendo la retroattività di leggi che vanno a modificare i termini di prescrizione, al fine di salvare un decreto legge nato per affrontare la diffusione del contagio. Quanto si è esposto sono gli evidenti sintomi di un malessere perpetuo su cui ancora il legislatore, per ragioni di mero carattere economico, non è intervenuto, dimenticando, tuttavia, che la salute di un sistema giudiziario risulta funzionale alla vita economica di un Paese. Sarebbe dunque augurabile che la domanda posta dalla presidente del Consiglio nazionale forense fosse la base di un percorso di investimenti in ambito giudiziario, investimenti che, seppur così spesso auspicati, rimangono da tempo disattesi. *Direttore dell’Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici “Le procure hanno un potere terrificante” di Valentina Stella Il Dubbio, 31 gennaio 2021 Intervista al penalista Tullio Padovani, già professore ordinario di Diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa: “La politica giudiziaria non la fa il Parlamento, la fa qualcun altro contro il Parlamento stesso”. Tullio Padovani, avvocato penalista, già professore ordinario di Diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa è tra i pochissimi accademici del suo campo ad essere stato invitato a far parte della Accademia Nazionale dei Lincei. Per dare seguito alle nostre pubblicazioni di testi di Giovanni Falcone, lo abbiamo sentito per commentare quello sulla separazione delle carriere sul quale è perentorio: “non è un problema tecnico, ma uno dei massimi problemi politici, forse ‘ il’ problema politico di questo Paese”, e subito dopo aggiunge che “se il potere dell’accusa non comporta responsabilità tutti lo temono, sono tutti terrorizzati dai pm. Il pm si presenta come un’ombra nefasta in qualunque contesto”. Professore, su questo giornale abbiamo riproposto alcuni scritti di Giovanni Falcone a favore della separazione delle carriere: il compianto giudice palermitano viene citato sempre, spesso in modo strumentale, tranne che su questo tema. Lei che ne pensa? Ha perfettamente ragione dottoressa. Iniziamo col dire che Falcone non si è occupato del problema una volta per caso: è stato un tema ricorrente nella sua riflessione. In uno scritto antecedente a quello pubblicato sul vostro giornale, ho potuto constatare come Falcone si ponesse da tempo certi interrogativi e cito testualmente: “Ci si domanda come è possibile che in un regime liberaldemocratico (…) non vi sia ancora una politica giudiziaria e tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti. Mi sembra giunto il momento di razionalizzare e coordinare l’attività del pm, finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica della obbligatorietà dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività”. Il punto nodale è proprio questo: quando si discute di separazione delle carriere non si può prescindere dal tema dell’obbligatorietà dell’azione penale. Quindi prima di tutto dobbiamo chiederci una cosa. Quale, professore? Considerato che l’accusare e il giudicare sono due terreni completamente distinti, perché si vuole difendere l’unicità delle carriere? Guardiamo cosa dicono le fonti: il giudice risolve dei conflitti applicando la legge, ed è vincolato solo ad essa, in base all’articolo 101 della Costituzione (‘ I giudici sono soggetti soltanto alla leggè). E il pm? L’azione del pubblico ministero ha il suo riferimento nell’articolo 112 della Carta Costituzionale (‘ Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penalè): secondo i pm, quindi, anche la loro attività sarebbe interamente giustificata dalla legge così come per i giudici. Ecco perché sostengono l’unicità delle carriere. Tutto ciò è semplicemente falso sia in fatto che in diritto. Ci spieghi meglio, professore... In fatto: è impossibile perseguire tutti i reati. In Francia, quando nel 1977 si pose il problema di una riorganizzazione giudiziaria sul tavolo c’era anche il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale che non era mai stata introdotta; i francesi si resero conto subito che sarebbe stata una assurdità. Inoltre è pericoloso ammettere che un pm debba perseguire tutti i reati: a tal proposito vale la pena ricordare quanto scrisse il giudice della Corte Suprema Robert H. Jackson nel 1940. All’epoca Jackson ricopriva la carica di Attorney General degli Stati Uniti: “L’applicazione del diritto non è automatica. Non è cieca. Una delle maggiori difficoltà della posizione del pubblico ministero è che egli deve scegliere i casi, perché nessun pubblico ministero potrà mai indagare tutti i casi di cui riceve notizia … Se il pubblico ministero è obbligato a scegliere i casi, ne consegue che può anche scegliersi l’imputato. Qui sta il potere più pericoloso del pubblico ministero: che egli scelga le persone da colpire, piuttosto che i reati da perseguire. Con i codici gremiti di reati, il pubblico ministero ha buone possibilità di individuare almeno una violazione di qualche legge a carico praticamente di chiunque. Non si tratta tanto di scoprire che un reato è stato commesso e di cercare poi colui che l’ha commesso, si tratta piuttosto di individuare una persona e poi di cercare nei codici, o di mettere gli investigatori al lavoro, per scoprire qualcosa a suo carico”. Queste parole sembrano scritte pochi minuti fa perché è sempre stato così. E invece in diritto? Se parliamo di esercizio dell’azione penale, l’inizio dell’azione penale è un fenomeno giuridico che è disciplinato dalla legge nell’articolo 405 del codice di rito e questo articolo è collocato all’interno del Titolo VIII che è dedicato alla chiusura delle indagini preliminari, alla fine delle quali il pm sceglie se dare inizio all’azione penale oppure chiedere l’archiviazione. Cosa ne deduciamo? Che le indagini preliminari non sono coperte dal dovere che si pretende di ritrovare nell’articolo 112 della Costituzione. L’obbligatorietà dell’azione penale non si riferisce espressamente alle indagini preliminari. Pertanto quando il pubblico ministero, dinanzi alle perplessità che sorgono rispetto ai suoi atti di indagine, replica sostenendo che si tratta di atti dovuti, imposti dall’art. 112, afferma qualcosa di inesatto. In sostanza si tratta di un pretesto, tanto poi il conto di indagini lunghe e costose lo paga lo Stato e casomai il cittadino che dopo anni viene prosciolto. Siamo dinanzi ad un potere smisurato? Il potere dell’accusa è un potere terribile e per di più è discrezionale e arbitrario. E, appellandosi all’obbligo costituzionale, nessuno è chiamato a rispondere delle proprie scelte. Addirittura l’articolo 1 della Costituzione (‘ L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzionè) alla luce di quello che ci siamo detti fino ad ora va riletto così: L’Italia è una Repubblica giudiziaria, fondata sull’esercizio dell’azione penale. La sovranità appartiene ai pubblici ministeri, che la esercitano in modo discrezionale. È una constatazione molto forte... Ma è così. Se il potere dell’accusa non comporta responsabilità tutti lo temono, sono tutti terrorizzati dai pm. Il pm si presenta come un’ombra nefasta: il terrore pervade chiunque abbia a temere una iniziativa del pubblico ministero. Ed è questo terrore che non permetterà mai che si discuta di separazione delle carriere in Parlamento, come chiede l’Unione delle Camere Penali Italiane? La politica giudiziaria in Italia non la fa il Parlamento, la fa qualcun altro anche contro il Parlamento stesso. L’obiezione che muovono tutti è che il pm andrebbe sotto il controllo dell’esecutivo... Questo tema lo aveva affrontato già Falcone, proprio nel testo da voi riproposto sulla separazione delle carriere: “Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere”. Il problema non è dunque questo, perché comunque si trovano le garanzie necessarie al fine di assicurare l’indipendenza non dei singoli pm ma del potere d’accusa, di cui però bisogna rendere conto. Esso deve essere un potere trasparente: come la democrazia muore nel buio, così se il potere di accusa non è trasparentemente esercitato e responsabilizzato allora siamo alla fine della democrazia. La separazione delle carriere non è un problema tecnico, ma uno dei massimi problemi politici, forse ‘ il’ problema politico di questo Paese. Cosa ne pensa delle dichiarazioni del Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri? Sono rimasto sconvolto da quelle dichiarazioni. Ma le voglio raccontare un episodio: tantissimi anni fa mi trovavo in una Corte di Appello siciliana: avevo l’impressione che il Procuratore Generale si stesse comportando come il padrone di casa, avevo avvertito particolari toni e modi di rivolgersi alla Corte che mi erano sembrati fuori dalle righe. E contemporaneamente avevo notato un atteggiamento molto ossequiente e remissivo dei giudici. Mi rivolsi al collega del posto e lui mi rispose: “la tua impressione è giusta. Li vedi quei signori della Corte? Ciascuno di loro ha un pentito in Procura che dice cose generiche, potrebbe però arrivare un secondo pentito che dice cose specifiche”. Palamara, il fantasma delle cerimonie di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 31 gennaio 2021 Il libro dell’ex leader dell’Anm e la tentazione della magistratura di chiudere lo scandalo pesano sulle inaugurazioni dell’anno giudiziario nelle corti d’appello. Mentre i pg denunciano le mancate riforme e l’aumento delle violenze in famiglia. L’onda lunga del caso Palamara, le difficoltà degli uffici giudiziari per la pandemia, le riforme della giustizia che hanno finito per azzoppare il governo sono i temi al centro delle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario che si sono tenute ieri in 26 corti di appello (dopo quella solenne in Cassazione venerdì). Ma nelle relazioni dei procuratori generali e dei presidenti delle corti c’è stato il tradizionale spazio per il bilancio dell’attività giudiziaria, con alcune novità preoccupanti sul fronte dei reati in crescita. Lo scandalo aperto - In libreria con le sue selezionate confessioni al direttore del Giornale Sallusti, domani sera in televisione da Giletti, l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara è molto più che un fantasma per la magistratura italiana. La sua relativamente veloce radiazione dall’ordine non ha certamente chiuso il caso. Ad affrontare il tema di petto è stato il pg di Napoli Luigi Riello, in passato leader della stessa corrente, Unicost, guidata da Palamara all’apice della sua capacità di influenza. “Mi sembra che in magistratura ci si stia illudendo che cacciato Palamara dalla magistratura sia tutto a posto. Ma non credo che sia l’unica strega da bruciare e che tolto lui la magistratura sia immacolata”, ha detto Riello. Di “degenerazione correntizia non più sopportabile” è tornato a parlare da Roma il vicepresidente del Csm Ermini, lui stesso indicato nel libro di Palamara come il beneficiario di un accordo tra le correnti togate e il Pd renziano. Al libro Ermini ha fatto un accenno indiretto, parlando di “scorie ancora in circolazione” e subito è arrivata la risposta di Palamara: “Parla di scorie, forse pensa che io sia diventato radioattivo solo dopo la sua nomina”. I consiglieri del Csm della corrente di sinistra Area impegnati nelle diverse cerimonie hanno ovunque sostenuto che “correntismo deteriore e carrierismo” sono stati alimentati “da evidenti distorsioni che hanno interessato tutti i gruppi associativi”. Mentre il consigliere indipendente del Csm, di area davighiana, Nino Di Matteo (anche lui citato nel libro da Palamara che si vanta di aver “agevolato la sua elezione a presidente dell’Anm di Palermo”) dalla cerimonia di Caltanissetta ha parlato della “malattia” del Csm “per la prevalenza di logiche clientelistiche, correntizie e di cordata”. Il ruolo del ministro - Secondo la presidente della corte di appello di Venezia Ines Marini “la politica non ha colto l’opportunità nella crisi scatenata del caso Palamara, preferendo riforme elettorali del sistema anziché scelte radicali”. Mentre il procuratore generale di Torino Saluzzo ha parlato di azione “in chiaroscuro” del governo criticando le mancate riforme “che pure, sopratutto dopo aver modificato la prescrizione, sarebbero state necessarie”. Il ministro Bonafede è intervenuto alla cerimonia di Catanzaro per tagliare il nastro di una nuova aula bunker. Ma essendo, sopratutto lui, nel delicato interregno di governo non ha affrontato nessuno dei temi al centro del dibattito. Allarme per i detenuti - Il presidente vicario della corte di appello di Firenze Nencini, il pg di Bologna De Francisci e il pg di Trieste Grohmann hanno denunciato il sovraffollamento delle carceri e il collegato rischio di diffusione del Covid, tema presente in tutti gli interventi nelle corti da parte dei rappresentanti dell’avvocatura. In generale ovunque è stato sollevato il problema dell’arretrato, aggravato dalla lunga sospensione delle attività dei tribunali per il virus. Violenze in famiglia - In un quadro di generale diminuzione dei reati denunciati - venerdì il pg della Cassazione Salvi aveva sottolineato che l’Italia è ormai uno dei paesi “con il minor tasso di omicidi al mondo” - crescono invece le violenze in famiglia, come chiara conseguenza dei lockdown, A Roma le denunce relative ai reati di violenza di genere e domestica sono cresciute del 9%. Di “forte incremento delle notizie di reato per i delitti di maltrattamenti in famiglia e di atti persecutori, nonché di violenza sessuale, in aumento anche tra i minorenni” ha parlato il pg di Genova Aniello. “La situazione delle vittime di violenza domestica è particolarmente aggravata dal distanziamento sociale e dall’isolamento”, ha detto il pg di Milano Nanni. Soprattutto perché, ha notato il pg di Firenze Viola, “vittime e carnefici sono stati costretti dentro le mura domestiche creando un regime di convivenza forzata, di isolamento e di illecito controllo”. Giudizi penali. In primo grado oltre il 50% di assoluzioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2021 Oltre la metà dei processi che arrivano a dibattimento si conclude con l’assoluzione. Percentuale che sale ancora sino a sfiorare il 70% quando è in discussione l’opposizione a un decreto penale di condanna, quando cioè a essere contestato è il pagamento di una sanzione solo pecuniaria per reati ritenuti “minori”. Dati che emergono con evidenza dalla relazione del primo presidente della Cassazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. E che spingono a riflessioni sia in termini di sistema sia sulle contingenze della politica della giustizia. A dibattimento circa la metà dei processi che si celebrano con il rito ordinario (50,5%) e oltre i due terzi dei giudizi di opposizione al decreto penale (69,7%) si concludono con una pronuncia di assoluzione. Va puntualizzato che da questa percentuale non sono esclusi i procedimenti conclusi con dichiarazione di non doversi procedere (per prescrizione o per altre cause di improcedibilità che non riguardano direttamente l’infondatezza dell’accusa: per esempio, ricorda la relazione, la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto), ma tuttavia resta significativo l’indicatore che se ne ricava. “Il complesso dei dati relativi alle percentuali di assoluzione all’esito di dibattimento - sottolinea la relazione di Pietro Curzio - evidenzia un problema sia di valutazione prognostica sulla sostenibilità dell’accusa a dibattimento da parte del pubblico ministero (articolo 125 disp. att. cod. proc. pen.) che di effettività dei controlli giurisdizionali da parte del giudice per le indagini preliminari”. Dal vertice della Cassazione arriva anche una possibile cura visto che “da tempo viene segnalata l’opportunità di incrementare e rendere più penetranti i poteri definitori attribuiti al Gup in sede di udienza preliminare, ampliando la discrezionalità allo stesso attribuita dal codice di rito, onde ulteriormente ridurre le ipotesi di assoluzione al dibattimento per infondatezza dell’accusa”. Come spesso può avvenire, il dato statistico si presta a una pluralità di letture e non sarebbe certo testimonianza della buona salute del sistema giudiziario una percentuale di condanne molto elevata. E tuttavia un numero così elevato di assoluzioni in dibattimento, sia pure in assenza di una maggiore profondità di conoscenza per esempio sulla tipologia dei reati, di certo testimonia di una difficoltà evidente della nostra giurisdizione. Soprattutto se si tiene conto della durata comunque assai elevato del nostro giudizio penale di primo grado, dai 378 giorni del 2017/18 si è passati ai 100 di più, 478, nel 2019/20 (con tutte le avvertenze della pandemia) e dei danni collaterali subiti dal cittadino che al procedimento penale è esposto. Quanto poi all’intreccio con la cronaca, basta qui ricordare come l’attuale correttivo alla riforma Bonafede della prescrizione intende fare leva proprio sulla distinzione tra assolti e condannati in primo rado. Dalla relazione, infine, quanto all’esame dell’attività dell’Ufficio Gip-Gup emerge che la quasi totalità delle richieste di archiviazione avanzate dal pubblico ministero viene accolta (407.986 nel 2019/2020) e che le imputazioni coatte costituiscono un evento marginale. Prevedere l’esito dei processi, l’intelligenza artificiale si fa giudice Il Gazzettino, 31 gennaio 2021 È possibile prevedere l’esito di un giudizio? L’intelligenza artificiale ci può venire in aiuto in questi casi? Conoscere in anticipo la probabile risoluzione di una controversia, è immaginabile? La risposta è sì ed in questo ambito l’Università Ca’ Foscari con il suo Centro di studi giuridici sta lavorando, primo ateneo in Italia, ad esplorare il tema della giurisprudenza predittiva. Il progetto, fortemente voluto dalla Corte d’appello di Venezia in collaborazione con l’ateneo veneziano, ha visto protagoniste le cattedre di diritto del lavoro e di diritto commerciale del dipartimento di Economia. Per questo progetto sono state raccolte, massimate e commentate centinaia di sentenze della Corte d’appello e di tutti i tribunali del Veneto, per gli anni 2018 e 2019, per costruire una banca dati ragionata a disposizione di tutti gli operatori (magistrati, avvocati, consulenti del lavoro, imprese ecc). Ora il progetto fa un salto di qualità. Grazie alla collaborazione con il dipartimento di intelligenza artificiale di Deloitte, si sta realizzando un programma che consente, tramite l’impiego di alcune parole chiave, di predire l’esito di un giudizio. Questa capacità predittiva del sistema, senza eliminare del tutto l’incertezza tipica di ogni processo, consentirebbe di orientare gli attori nella scelta della migliore strategia in vista di un’azione in giudizio, contribuendo anche a ridurre il contenzioso. Per illustrare il progetto domani ci sarà un evento su piattaforma digitale tra le 15 e le 16.30 alla presenza delle massime autorità tra le istituzioni e le associazioni di categoria. Martedì alle 16.30 nuovo incontro sul web dedicato questa volta al rischio di infiltrazioni criminali nel tessuto imprenditoriale Veneto durante la pandemia. Quella sentenza su Gozzini che sfida la “furia della moltitudine” con la civiltà del diritto di Piero Calabrò* e Biagio Riccio** Il Dubbio, 31 gennaio 2021 Contro l’assoluzione, pronunciata dalla Corte d’assise di Brescia, dell’ottantenne che ha ucciso la moglie, si sono levate prevedibili grida di scandalo. Ma la Giustizia deve saper resistere, e affrontare “la notte buia dell’ignoranza” evocata da Manzoni ne “La colonna infame”. Hanno suscitato un acceso dibattito le motivazioni della sentenza (n. 2/2020) depositate in data 21.12.2020 sul caso Gozzini, signore ottantenne che ha ucciso la propria moglie, Cristina Maioli. Il processo si è tenuto alla Corte di Assise di Brescia e l’imputato, nonostante l’efferato crimine dispiegatosi in modo crudele e atroce, è stato assolto, perché l’omicidio, secondo l’organo giudicante, è stato compiuto in totale infermità di mente, derivante da delirio di gelosia. Sia sulla stampa che attraverso i social, il caso giudiziario è stato interpretato in modo strumentale e si è impropriamente ritenuto che fossimo al cospetto di un uxoricidio o di un femminicidio. Il ministro della Giustizia Bonafede, senza neppur leggere le motivazioni della decisione e senza alcuna seria informazione sulle carte processuali, ha minacciato l’invio di ispettori, così supinamente cavalcando l’onda della demagogia volta ad assecondare le grida di quella moltitudine che, invece della verità, vuole un colpevole a tutti i costi, per il solo fatto che l’omicidio ha avuto come vittima una donna. Le motivazioni del verdetto sono, invero, di una chiarezza cristallina e si snodano su un’intelaiatura caratterizzata da un percorso argomentativo privo di faglie, dipanato in una ragionata sistemazione degli elementi che fanno emergere la civiltà giuridica del provvedimento, senza dare eccessivo peso all’aspetto squisitamente psichiatrico del processo. Ecco perché il suo estensore, il presidente Roberto Spanò, ha perseguito, riuscendovi, l’intento di suffragare e motivare -attraverso le confluenti consulenze tecniche del pubblico ministero e della difesa dell’imputato- la deliberazione di assoluzione adottata dalla Corte che, è bene rammentarlo, è composta in prevalenza da giurati laici. Ebbene, proprio il consulente tecnico di parte della pubblica accusa ha messo in evidenza che Antonio Gozzini è stato ossessionato, pervaso dal “lato oscuro” (come lo definisce Andreoli) del delirio di gelosia, che ha generato l’assoluta mancanza della capacità di intendere e di volere, al momento in cui è stato compiuto l’atroce crimine. Siamo alla totale parificazione tra ciò che è stato prefigurato e nutrito idealmente, con quello che realmente è accaduto, con una perfetta corrispondenza tra l’ideale e il reale, senza cesura, senza taglio, con una simmetrica sovrapposizione di piani tra loro identici. Perde ogni valore l’aspetto volitivo, non vi è conflitto tra apparenza e realtà, tra il detto e il non detto, tra il rivelato e il sottaciuto, tra l’esplicito e il rimosso. Si espande sino al totale annichilimento delle facoltà di intendere e di volere il mostro della gelosia, presente nei recessi dell’animo dell’omicida e invece creato dal nulla e, soprattutto, sul nulla. Si attua disperatamente il dramma della follia che porta all’impazzimento di shakespeariana memoria, come è avvenuto con Otello. “Guardatevi dalla gelosia, il mostro dagli occhi verdi che irride il cibo di cui si nutre”. Ma, mentre nel dramma di Otello la pulsione si esprime nel progetto predisposto da Iago a causa della perdita di un fazzoletto che Desdemona giammai avrebbe dovuto smarrire e che, addirittura, si ritrova nelle mani del presunto amante Cassio, nella fattispecie del Gozzini non vi è alcunché, perché la mente è piatta e, nel contempo, vuota e si insidia, penetra in essa il demone della gelosia, per un motivo che non rinviene alcun fondamento. “Non sono mai gelosi per un motivo, ma gelosi perché sono gelosi. È un mostro concepito e generato da se stesso”. Non c’è nemmeno una dinamica patologica nell’omicidio, la finalità si concreta nel fatto stesso dell’organizzazione dell’azione delittuosa, senza un disegno precostituito. La modalità, infatti, si accentua proprio nell’aver soppresso, mentre dormiva, la moglie e, per colorarne il tradimento anche con la sua mortificazione fisica, le azioni più cruente sono state perpetrate attorno all’inguine della vittima. È un omicidio senza alcun movente, senza circostanze e situazioni dalle quali potesse tralucere una preparazione. Ecco perché non si può parlare di uxoricidio, né di femminicidio. Nella sentenza (pag. 21) è ben scritto che il primo “contrassegna la mera uccisione di una donna (moglie: ndr), mentre il secondo, avente contenuto criminologico, si riferisce all’uccisione di una donna in quanto tale, per motivi legati al genere, e ciò, a causa di situazioni di patologie relazionali, dovute a matrici ideologiche, misogine e sessiste, e ad arretratezze culturali di stampo patriarcale”. La sentenza è ben motivata, incentrata su una confessione dell’imputato che ha descritto tutta la dinamica del fatto, con una lucidità impressionante (quando prende i coltelli procurati anzitempo dalla cucina, quando inferisce numerosi colpi con forza inaudita all’inguine, mentre la vittima dorme, il fatto stesso di voler dopo suicidarsi, senza che però ciò sia avvenuto, il dormire tranquillamente e al risveglio chiamare la domestica per raccontare l’efferatezza del proprio gesto). Da essa si può desumere che il tema della gelosia, il suo delirio, ha avuto campo libero per la realizzazione dell’omicidio, e in questo hanno dato man forte la consulenza dell’imputato e perfino quella del pm (pur sminuita dallo stesso pubblico committente). Non è stata reputata indispensabile una consulenza tecnica d’ufficio, giacché il consulente della parte offesa (gli eredi della vittima) si è sottratto al confronto nel momento più importante (l’interrogatorio dell’imputato), senza poterne modificare le argomentazioni, anche perché -forse- ne aveva ben donde. Da qui, per assenza del dolo e della colpa, e, dunque, dell’imputabilità sottesa e necessaria, l’assoluzione del Gozzini, alla luce dell’articolo 85 c.p., a tenor del quale “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se al momento in cui l’ha commesso non era imputabile”. Perciò, in luogo del carcere, l’applicazione della - non certo premiale - misura di sicurezza del ricovero in residenza per l’esecuzione (Rems). Il ministro della Giustizia e gli intempestivi altri “illustri” critici dovrebbero ben sapere che la civiltà del diritto sfida la notte buia dell’ignoranza, la furia della moltitudine (di cui discettava Manzoni ne “La storia della colonna infame”), perché la follia è contro il limite che invoca la giustizia e perché l’insano di mente non ha la consapevolezza della forza della pena che gli viene inferta e che comunque dovrebbe, per la nostra Carta Costituzionale, avere una funzione rieducativa. *Ex magistrato **Avvocato “Mi hanno cucito addosso il ruolo di mostro, ora voglio tornare a vivere” di Simona Musco Il Dubbio, 31 gennaio 2021 Dal 2016 a mercoledì scorso, mezza Italia è stata convinta che fosse Stefano Binda l’assassino di Lidia Macchi, uccisa con 29 coltellate nel gennaio 1987. Ma l’assassino non era lui. “È un incubo che ho vissuto ad occhi aperti. Altri forse hanno dormito, quel sonno della ragione che produce mostri”. Stefano Binda ha attraversato l’inferno. E ne è uscito, cinque anni dopo un arresto che più ingiusto non si può. Dal 2016 a mercoledì scorso, mezza Italia è stata convinta che fosse lui l’assassino di Lidia Macchi, la giovane studentessa impegnata con Comunione e Liberazione uccisa con 29 coltellate nel gennaio 1987 e ritrovata morta in un bosco a Cittiglio, nel varesotto, un delitto rimasto senza colpevole. In primo grado Binda - anche lui di Cl - era stato condannato all’ergastolo dalla Corte di assise di Varese e poi prosciolto in appello dalla Corte di Assise di appello di Milano il 24 luglio 2019, dopo tre anni e mezzo di custodia in carcere. Ora la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del Pg di Milano e dei familiari di Lidia. Il suo nome era stato tirato in ballo con un colpo di scena degno di un crime movie: una lettera anonima contenente una poesia - “In morte di un’amica” - con dettagli che solo l’assassino poteva conoscere e recapitata alla famiglia il giorno del funerale della ragazza. Poesia che, secondo la ricostruzione dell’accusa, fu scritta proprio da Binda. Ma l’assassino non era lui. “Esperienze come questa - racconta Binda al Dubbio - lasciano macerie”. Si aspettava che finisse in questo modo? Confidavo molto in questa decisione. Poi il fatto che lo stesso procuratore generale della Cassazione - e quindi non un avvocato dell’accusa, come molti magistrati intendono il loro ruolo, ma un pubblico ministero - abbia chiesto lui stesso l’assoluzione, francamente, ha incrementato le mie speranze: non c’era più un’accusa, in senso sostanziale. Crede che questo voglia dire che il sistema giustizia, al di là delle sue storture, funziona? Io ho attraversato gli estremi del codice, dalla pena massima all’assoluzione con la formula piena. Sono stato sfortunato nel primo grado o sono stato fortunato oggi? Credo che bisogna interrogarsi su quanto il sistema sia affidato alle scelte dei singoli, di quali garanzie dia. Francamente, come cittadino, non mi sembra responsabile dire che il sistema funziona sulla base della logica “tutto è bene quel che finisce bene”. È una sciocchezza. Ho passato tre anni e mezzo in carcere, il che vuole dire essere stato messo in pericolo. Il sistema giustizia non può non farsi carico di queste cose. È importante e delicatissimo. Ma a questo livello il dibattito pubblico è insufficiente e l’impostazione culturale non è all’altezza. La famiglia della vittima ha affermato che non c’erano elementi per una sua condanna. Cosa ne pensa? È importante che questa possa essere l’occasione di far tornare, anche nei miei riguardi, quella famiglia come la famiglia Macchi e non come la parte civile, cioè la privata accusa. Mi compiaccio che dica di comprendere l’assoluzione piena. D’altronde in primo grado è stato montato un processo indiziario contro di me, ne è risultato un processo di prove positive a mio favore eppure mi è stato dato l’ergastolo. L’unico elemento era solo quella famosa lettera anonima... C’era una consulenza di parte che me l’attribuiva e la mia consulente che lo negava decisamente. A fronte di ciò, la mia consulente è stata querelata per diffamazione e addirittura la procura generale ha chiesto che venisse depennata dall’albo dei consulenti, alla quale peraltro l’esperta della procura non è mai stata iscritta. Fortunatamente il consiglio dell’ordine dei consulenti tecnici ha manifestato la massima fiducia in lei. Qual era il suo alibi? Mi trovavo in vacanza a Pragelato, dall’1 al 6 gennaio. La stessa Patrizia Bianchi (la superteste che ha affermato di aver riconosciuto la grafia di Binda, ndr) mi ha sentito fino al 31 per farmi gli auguri e poi il 7. Nessuno mi ha visto da nessun’altra parte, men che meno a Cittiglio, e tre testimoni ricordavano di avermi visto a Pragelato. Ci sono prove documentali, ovvero una mia agenda che riportava i nomi delle quattro persone che erano in stanza con me e le indagini hanno portato a evidenziare che in quell’albergo c’era un unico piano con una stanza da cinque persone. Quindi io avrei dovuto inventarmi il numero di una stanza che era l’unica per cinque persone, scrivere il nome di quattro persone che davvero c’erano e che si sono ricordate di essere in stanza insieme, toglierne una che non si è mai fatta avanti e sostiturmi a lei. Un’assurdità. E sto citando i verbali. Perché è stato arrestato? Mentre la lettera è stata mandata alla grafologa, la busta è stata spedita a Parma, ai Ris. La grafologa dichiarò di trovare una corrispondenza, mentre i Ris comunicarono di aver trovato un dna valido sulla busta. Non attesero gli esiti: certissimi che fossi io, mi fecero arrestare. Poco dopo i Ris dissero che non c’era corrispondenza con il mio dna. Ma ormai il treno era partito. E chi lo ferma, a quel punto? C’era del dna anche sul corpo... Riesumarono la salma riuscendo a trovare quattro formazioni pilifere sul pube, tutte e quattro della stessa persona, ma non mie. E ho comunque preso l’ergastolo. In Corte d’Appello è stata la scienza a farmi assolvere. In primo grado come era stata giustificata la sua condanna? Le prove del dna sono state ritenute neutre. Il dna è stato comparato con quello dell’addetto delle pompe funebri di allora, per verificare un’eventuale contaminazione, ma non con quello degli altri che erano stati sospettati prima di me. Alcune donne avevano denunciato di essere state molestate nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio, ne è stato fatto un identikit che corrisponde perfettamente ad uno dei sospettati, scagionato perché non poteva aver scritto l’anonimo, in quanto “non ne aveva la cultura”. La sentenza d’appello parla di deserto probatorio. Dice chiaramente che, consapevoli di non avere in mano niente, in violazione di legge, hanno approvato l’idea che l’autore del delitto dovesse avere un certo profilo per cucirmelo addosso. Come sono stati l’arresto e il periodo che ha vissuto in carcere? È stata una cosa sinceramente devastante. Si dice sempre: se non hai fatto niente quando suonano al campanello stai sicuro che non è la polizia. E invece era proprio la polizia. Non capivo. I primi sette giorni e sette notti sono stati i più duri della mia vita, ho fatto uno sforzo enorme per rimanere lucido e ciò mi ha aiutato molto. Sono stato l’unico ad andare in galera dopo 30 anni dal fatto, da incensurato, sotto gli occhi di tutta Italia. Il pericolo di fuga è stato documentato perché conosco un prete che è nunzio apostolico in Burkina Faso: una roba assurda. Il pericolo di inquinamento delle prove, invece, dopo 30 anni dal fatto e 19 ore di perquisizione che avevano prodotto nulla, era motivato con il rischio di subornazione dei testimoni. Su questo chiesero l’incidente probatorio testimoniale, per bloccare le testimonianze. Ma risultò totalmente a mio favore. Per spiegare il livello delle indagini, si disse che a rendere possibile l’ipotesi che io avessi un coltello era il fatto di dover tagliare l’eroina! O anche che io mi trovassi dove è stata uccisa perché stavo andando al Sert. Peccato che il Sert sia stato istituito per legge nel 1990 e a Cittiglio il primo risale al 1995. Questi non sono spunti investigativi, questi sono motivi di un ergastolo. Chiederà un risarcimento? Quello che è finito è finito, ma lascia una devastazione economica totale e parlo delle cose materiali, che sono le ultime. Ci sono ben altre ferite, altri pesi. Parlando del parzialmente rimediabile, questa assoluzione con formula piena rende ufficialmente la mia un’ingiusta detenzione. Dovrò fare causa allo Stato, che resisterà. Cosa farà adesso? Mi piacerebbe molto se la mia esperienza servisse a qualcosa. Non ho perso i contatti con il carcere, un mondo davvero dimenticato, di cui a nessuno importa. La giustizia va davvero ripensata, ma dall’inizio, dal concetto di polizia giudiziaria. Una persona può disporre, senza limiti di budget, della vita degli altri. Io sono sempre stato libero, ma adesso, a fronte della assoluzione, voglio riconquistare appieno la mia libertà, che non dipendeva certo dallo Stato, così come la mia innocenza. Vorrei guadagnarmi una vita davvero libera, a partire dal guadagnarsi da vivere, nel senso più concreto del termine. Ho 53 anni, con un titolo di studio in filosofia preso due vite fa: non è facile. Voglio aiutare quelli che hanno a che fare con la giustizia, ma dalla parte sbagliata. Uva come Cucchi e Aldrovandi un mistero lungo tredici anni di Luigi Manconi e Valentina Calderone La Stampa, 31 gennaio 2021 Finora nessuno è stato condannato per la morte dell’operaio varesino di 43 anni. Questa, come direbbe un anziano cantante blues introducendo la sua musica con un borbottio, a metà tra il soliloquio e l’annuncio al mondo, “è una storia molto triste”. In effetti, la lunga vicenda umana e giudiziaria di Giuseppe Uva e di sua sorella Lucia, è gravata, oltre che dal dolore, da una sorta di cupezza. Eppure, il blues di Giuseppe e Lucia Uva - come sempre in quel repertorio musicale - fa intravedere nelle note finali un barlume di luce. Di questo, poi si dirà. Ma intanto una prima immagine. Quando, il 5 giugno del 2013, ci ritrovammo frustrati e impotenti davanti ai cancelli dell’aula bunker di Rebibbia, dove era stata appena pronunciata la sentenza del primo processo per la morte di Stefano Cucchi, assistemmo a una scena inaudita. Lucia Uva, arrivata da Varese nell’utilitaria guidata da suo marito Paolo, sempre silenzioso e protettivo (deceduto poco più di un anno fa), ebbe un moto di lucida furia, che si tradusse in una lunga invettiva. Si mise a camminare, minuta e sola, di fronte a un plotone di poliziotti in assetto anti-sommossa, avanti e indietro, con larghe e lente falcate, fino al termine della fila e poi tornando sui suoi passi, e ancora ripetendo quel breve percorso e parlando con voce singolarmente alta e sonora. Si rivolgeva ai giovani agenti, chiamandoli “figli miei” e dicendo loro di Stefano Cucchi e di suo fratello Giuseppe, con parole e tonalità che al tempo stesso suonavano come durissime e familiari. Ecco, fu in quella circostanza che pensammo: è come un blues. Secondo Alessandro Portelli, docente di Letteratura angloamericana all’Università La Sapienza di Roma, massimo esperto e traduttore di Bruce Springsteen, il blues è “prendere in mano il proprio dolore, guardarlo come dal di fuori e trarne una specie di paradossale ironia”. Di quest’ultima, l’ironia, è difficile qui trovare traccia, ma è in particolare quel “prendere in mano il dolore” che ci interessa. Torniamo all’inizio di questa storia. Il 14 giugno del 2008, a Varese, Giuseppe Uva, operaio 43enne, passa la serata con l’amico Alberto Biggiogero. I due seguono una partita di calcio in televisione, bevono qualche bicchiere di troppo e girano per la città, fino a quando - è ormai notte fonda - decidono di spostare in mezzo a una strada alcune transenne trovate sul marciapiede. È l’episodio che farà precipitare la situazione. Una pattuglia di due carabinieri raggiunge Uva e l’amico e li conduce in caserma facendosi supportare da altri sei poliziotti. In tutto otto uomini che costituiscono pressappoco il totale delle forze destinato al pattugliamento notturno della città. Un impegno di risorse assai rilevante per far fronte a due persone in stato di ebbrezza, che non vengono identificate e alle quali non viene notificato alcun verbale e per le quali non viene eseguito alcun fermo o arresto. E nessuna comunicazione in merito verrà trasmessa al magistrato di turno. Poi, Uva, a seguito di un trattamento sanitario obbligatorio, alle sei del mattino finirà in ospedale e qui troverà la morte qualche ora dopo. Il giorno successivo, Biggiogero presenterà una denuncia in Procura, in cui racconta, in modo dettagliato, ciò che ha visto e sentito nel corso di quella notte mentre si trovava nella caserma dei carabinieri, a pochi metri dal locale in cui l’amico era trattenuto dai militari. Da quel momento prenderà le mosse una vicenda giudiziaria a tratti paradossale, che vale la pena sintetizzare perché indicativa di un complesso sistema di procedure e istituti, che può trasformarsi in un meccanismo perverso. Le prime indagini, condotte dai pm Sara Arduini e Agostino Abate (anch’egli a suo modo una figura tragica, che richiederebbe un blues) partono con gravi lacune e si concentrano su quanto accaduto in ospedale, ignorando la denuncia del testimone oculare, Biggiogero, e tutto quanto avvenuto nelle ore trascorse da Uva in caserma. Il primo processo vedrà imputati solo i medici, successivamente assolti nei diversi gradi di giudizio. Per avere una prima sentenza a carico degli operatori di polizia si dovrà aspettare il 15 aprile 2016. Ma l’iter giudiziario terminerà solo nel 2020, quando la Cassazione confermerà l’assoluzione dei due carabinieri e dei sei poliziotti presenti nella caserma nelle ore in cui Bigioggero sostiene di aver udito le richieste di aiuto e le grida di dolore dell’amico. Le varie sentenze, a dire il vero, non offrono risposte adeguate alle molte domande rimaste aperte, quali: come si è potuto trattenere in caserma per ore, senza alcun titolo, un libero cittadino? Come questi si è procurato i lividi e le ferite, e qual è la spiegazione degli ematomi e del sangue sul corpo e sui vestiti? Non sono domande peregrine e non vengono riproposte per partito preso, se appena si tiene conto che il Consiglio Superiore della Magistratura ha sanzionato i procuratori Abate e Arduini per non aver svolto correttamente e tempestivamente le indagini, creando un danno non solo alla vittima, ma agli stessi imputati che avrebbero potuto meglio difendersi dalle accuse. Da qui la decisione dei familiari della vittima di ricorrere alla Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu): e solo pochi giorni fa - ecco il barlume di luce di cui si è detto - la buona notizia. La Cedu ha ammesso il ricorso presentato dagli avvocati Stefano Marcolini, Fabio Matera e Fabio Ambrosetti. Questi i quattro principali motivi del ricorso, ritenuti, evidentemente, plausibili dalla Corte europea: 1. Uva è stato sottoposto a trattamenti inumani e degradanti e comunque a maltrattamenti, sia dal punto di vista fisico che psicologico, in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani; 2. Lo Stato italiano non si è adoperato a sufficienza per accertare i fatti, perché la lunghezza del processo e l’imperizia delle indagini non avrebbero consentito il raggiungimento della verità, neanche se essa fosse stata a portata di mano; 3. Il legislatore italiano ha introdotto nell’ordinamento il reato di tortura solo nel 2017, dopo quasi trent’anni dalla firma della Convenzione Onu contro la tortura: e senza questo colpevole ritardo, l’autorità giudiziaria avrebbe potuto disporre di strumenti più appropriati e incisivi per la valutazione dei possibili comportamenti delittuosi; 4. Nel secondo grado del processo, a carico degli appartenenti alle forze di polizia, ci si è limitati ai verbali del primo grado senza che i testimoni venissero nuovamente ascoltati, in violazione di una precisa disposizione della stessa Cedu. L’ammissione del ricorso è già un fatto importantissimo, perché, va ricordato, la Cedu tende a dichiarare inammissibile oltre l’80% dei ricorsi presentati. E perché è stata la stessa Cedu, in questi anni, a fare opera di giustizia, intervenendo o correggendo, criticando o sanzionando lo Stato italiano: in occasione delle sevizie a danno di detenuti, come nel caso dell’istituto penitenziario di Asti; del sovraffollamento carcerario, denunciato dalla “sentenza Torreggiani”; delle violenze nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001. La Cedu, si può dire, soccorre provvidenzialmente laddove la responsabilità dello Stato, per omissione o azione, oltrepassa il livello di tollerabilità ammesso da una società mediamente sensibile e civilizzata. Per quanto riguarda la morte di Uva, va da sé che l’iter della decisione potrà essere ancora lungo e che l’esito non è affatto scontato. Ma, intanto, la decisione della Cedu ci dice che questi dolenti dodici anni nella vita di Lucia Uva - in una città talvolta ostile, quasi sempre indifferente - non sono trascorsi invano. Ormai è diventato un vezzo letterario, ma questa vicenda sembra affermare la forza di una residua speranza e, magari, il ritmo luccicante di un blues: C’è un giudice a Strasburgo/C’è un giudice a Strasburgo. Padova. Giustizia, l’anno funesto: processi bloccati dal Covid e flop di progetti digitali di Roberta Polese Corriere del Veneto, 31 gennaio 2021 Nella prima grande ondata della pandemia è stata un’ecatombe per i processi penali, anche a Padova: il 94% dei procedimenti è stato rinviato tra marzo e maggio, e quota del tutto simile - il 92% si è registrata tra maggio e giugno. E dopo una fase di ripresa autunnale - non senza difficoltà - il 2021 non è iniziato sotto i migliori auspici. La presidente del tribunale Caterina Santinello sottolinea che oggi le cose stanno andando meglio, intanto però due giudici positive nel settore penale stanno paralizzando le udienze monocratiche e collegiali: ogni udienza viene procrastinata. “Purtroppo è così - spiega Santinello -. I giudici non si possono sostituire e purtroppo i rinvii accadono. Nel primo lockdown avevamo l’indicazione di mandare avanti i processi urgenti, adesso quest’obbligo non c’è più, ma facciamo i conti con l’epidemia”. A complicare ulteriormente le cose è ovviamente quanto accade ai numerosi avvocati impegnati a Palazzo di giustizia, tra difficoltà a spostarsi o casi di contagio al virus, fatto che ovviamente consente lo stop per legittimo impedimento. E la stessa cosa vale per i detenuti. È stato un anno funesto il 2020 per il settore giustizia sul quale pesava già una crisi strutturale. Se il settore civile ha potuto contare sulle udienze da remoto, che peraltro venivano usate anche prima della pandemia, nel penale l’accesso alle videocall è stato profondamente osteggiato dagli avvocati che intendono garantire ai loro clienti il processo in presenza, che assicura un giudizio più equo, passaggio ribadito questo anche dalle camere penali del Veneto in una nota diffusa ieri. “Nel processo civile c’è sempre stata più elasticità, perché se c’è un avvocato positivo e non può presentarsi, c’è sempre la piena disponibilità a fare udienze on line” spiega la presidente. Eppure il personale amministrativo ce l’ha messa tutta per rende nella relazione della Corte d’appello - al fronte del permanere di problemi tecnici e della scarsa utilità del portale”. Inoltre erano stati chiesti supporti per la verbalizzazione informatica delle udienze, cosa che consentirebbe di gestire personale aggiuntivo “ma nessuna risposta è arrivata a tale richiesta e non risultano in arrivo forniture hardware destinate alla realizzazione di questi progetti” si scrive nel documento. Quanto al coordinamento interno tra giudici, la stessa corte d’appello afferma di aver realizzato proprio in questo periodo un gruppo Whatsapp con tutti i presidenti del tribunale. Anche a Padova funziona più o meno così: “Lo uso anche io, è uno strumento che consente rapidità per le comunicazioni urgenti - spiega la presidente - più spesso però per discutere usiamo Teams”. A tagliare la testa al toro sul fronte intasamento della giustizia è Leonardo Arnau, presidente dell’ordine degli avvocati di Padova: “L’unica cosa da fare sarebbe depenalizzare i reati bagatellari, o stralciarli. E invece i procedimenti aumentano sempre di più”. Bologna. “Gogna mediatica sulle toghe dopo l’inchiesta sugli affidi” di Davide Varì Il Dubbio, 31 gennaio 2021 Anno giudiziario, il presidente della Corte d’appello di Bologna: “Strumentalizzazioni e sospetto, così il sistema è stato messo in pericolo”. Effetti nefasti sul sistema della giustizia minorile. Sono quelli provocati dall’inchiesta sugli affidi in Val d’Enza denominata “Angeli e Demoni”, meglio conosciuta come “il caso Bibbiano”, che “per effetto di una martellante campagna mediatica, ha esposto tutto il sistema della Giustizia minorile e familiare, come era prevedibile, al sospetto generalizzato e alle rivendicazioni di soggetti interessati”. A dirlo, nella sua relazione, nel corso dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario, il presidente vicario della Corte d’Appello di Bologna, Roberto Aponte. Aponte ha ricordato la segnalazione del Presidente del Tribunale per i Minorenni Giuseppe Spadaro, che ha sottolineato come, durante le indagini, “il lavoro di tutti i magistrati dell’Ufficio sia stato fortemente e negativamente condizionato in termini di delegittimazione dai riflessi riverberati dalle deprecabili fughe di notizie nonché da una vera e propria strumentalizzazione, ad opera di gran parte dei media, dell’inchiesta” in questione; strumentalizzazione che ha provocato “lo scatenarsi del triste fenomeno del cosiddetto odio del web, nonché una vera e propria gogna mediatica” nei confronti dei magistrati del Tribunale Minori, “vittime di innumerevoli episodi di minacce che, comunque, non hanno minimamente scalfito il sereno svolgimento dell’attività giurisdizionale dei colleghi”. “Quello che preme ribadire, in questa sede - ha evidenziato quindi Aponte - è la validità, pur nella consapevolezza di indubbie criticità da affrontare con spirito libero da pregiudizi, dell’impianto del sistema della nostra giustizia minorile. È assolutamente indispensabile - ha ribadito - combattere il messaggio volto a dipingere il Tribunale per i Minorenni come uno strumento cieco, condizionato da chi vuole solo togliere i figli ai genitori. Un grande giurista del secolo scorso descriveva la “famiglia” come “un’isola che il mare del diritto può solo lambire”. Ma quest’isola, purtroppo, non sempre è il luogo più sicuro e migliore per crescere, e il compito del Tribunale per i Minorenni è quello di salvaguardare i minori, se è assolutamente necessario, anche nei confronti del loro ambiente naturale”. Ma l’ombra del dubbio e del sospetto ha investito in modo indistinto tutto il sistema di aiuto, assistenza, cura e protezione, ha aggiunto Daponte, “ha investito le stesse famiglie e le comunità che hanno accolto minori in difficoltà. L’esperienza maturata ci ha insegnato che, se è necessario rafforzare i servizi di sostegno alla genitorialità e investire nella formazione e supervisione di chi opera nel campo delle fragilità familiari; se è necessario, per la magistratura, dotarsi di un bagaglio sempre più approfondito di conoscenze non solo di natura strettamente giuridica, perché solo la capacità di valutazione acquisita mediante una formazione multidisciplinare può evitare il sospetto di un appiattimento della giurisdizione su valutazioni esterne dei servizi o degli ausiliari, è assolutamente indispensabile, come già si è osservato lo scorso anno, combattere il messaggio volto a dipingere il Tribunale per i Minorenni come uno strumento cieco, condizionato da chi vuole solo togliere i figli ai genitori”, ha evidenziato. Già lo scorso anno, sempre in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il pg di Bologna Ignazio De Francisci aveva sottolineato la gogna a cui era stato sottoposto il sistema, condannando il pressapochismo dei media e le strumentalizzazioni politiche. Trieste. Grave situazione sanitaria in carcere, le detenute alzano la voce e si mobilitano triesteprima.it, 31 gennaio 2021 La battitura della sezione femminile andrà in scena nel pomeriggio di lunedì 1 febbraio. Le detenute chiedono tamponi, esami sierologici e gli arresti domiciliari in caso di gravi problemi di salute. Più che essere sottoposte a vaccinazione chiedono tamponi ed esami del sangue sierologici. Dopo la protesta della sezione maschile di qualche giorno fa, anche le detenute del carcere di via Coroneo alzano la voce contro la grave situazione sanitaria presente nel sistema detentivo italiano. Nel pomeriggio di lunedì 1 febbraio è infatti prevista la battitura della sezione femminile - che potrà contare sulla solidarietà di una presenza dell’Associazione Senza Sbarre all’esterno della casa circondariale triestina - volta a rivendicare maggiori attenzioni da parte delle autorità. Secondo ASS, le detenute chiedono di essere sottoposte a tamponi ed esami del sangue sierologici, “piuttosto che essere costrette alla vaccinazione”, l’indulto ed essere sottoposte ad arresti domiciliari in caso di problemi sanitari e gravi patologie, e in occasione di residui di pena. “L’iniziativa delle detenute della sezione femminile del carcere del Coroneo - conclude la nota - è stata comunicata anche ad altre prigioniere e prigionieri in Italia, con l’idea di una mobilitazione più estesa possibile per allargare e sostenere tali rivendicazioni e rompere l’omertà di regime sulla questione delle carceri”. Bolzano. L’allarme della Corte d’Appello: “Rischio disordini nel carcere” altoadige.it, 31 gennaio 2021 La dura relazione della presidente della Corte d’Appello di Trento, Gloria Servetti, pubblicata in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, svoltasi ieri. Desta preoccupazione la situazione all’interno del carcere di Bolzano. A tal punto da far temere disordini interni qualora la situazione non dovesse migliorare. È quanto emerge dalla relazione della presidente della Corte d’Appello di Trento, Gloria Servetti, pubblicata in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, svoltasi stamane, 30 gennaio. Alla data di agosto 2020, nella struttura risultano 77 detenuti. Una piccola attenuazione rispetto all’anno precedente, “permane però inalterato, come già evidenziato in passato - scrive Servetti nella sua relazione - il grave problema della vetustà dell’immobile, ripetutamente segnalato e quindi ben noto”. Non solo. “Successivamente al collocamento fuori ruolo della direttrice di Bolzano, l’incarico è stato assunto ad interim dalla direttrice di Trento”, e il presidente del Tribunale di Sorveglianza, riporta la relazione, ha anche rappresentato più volte al Dap che “l’obiettiva impossibilità di garantire una presenza quotidiana costituisce fonte di grande preoccupazione nella popolazione carceraria, la quale sta mostrando significativi segni di sempre maggiore irrequietezza”, si legge ancora nel documento. Ancora, “la presenza di un solo educatore all’interno della struttura carceraria porta con sé notevoli problematiche per l’attività della magistratura di sorveglianza e per i detenuti stessi”. Quindi, “in difetto di solleciti interventi, sono ragionevolmente ipotizzabili dei disordini e delle proteste che vanno assolutamente scongiurati. Preme sottolineare - recita ancora la relazione - che negli ultimi mesi si sono verificate delle problematiche tra detenuti, in alcune occasioni anche sfociate in risse ovvero aggressioni fisiche e verbali; successivamente al trasferimento di alcuni detenuti, più di recente la situazione pare essersi stabilizzata, ma l’equilibrio raggiunto non può che essere considerato precario”. Caltanissetta. Riconosciuti 114 risarcimenti per il sovraffollamento nelle carceri di Alberto Sardo radiocl1.it, 31 gennaio 2021 Il sovraffollamento nelle carceri è un fenomeno strutturale in Italia e gli istituti di pena del distretto nisseno non ne sono esenti anche se il fenomeno non è uniforme. Su 188 istanze presentate al giudice per chiedere rimedi risarcitori ne sono state accolte 114 mentre 36 sono ancora pendenti. Le richieste sono basate sulla norma introdotta nel 2014 nell’ordinamento che prevede rimedi risarcitori per i detenuti che abbiano subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’articolo fa riferimento a pene inumane e degradanti e nel caso italiano va declinato con la parola sovraffollamento. Poco meno della metà delle persone ristrette nelle carceri del distretto, circa il 40 percento, si trova detenuta in custodia cautelare. Sono diversi i casi di autolesionismo verificatisi nell’ultimo anno mentre è molto più contenuto il dato dei tentativi di suicidio da parte di detenuti. Nella casa circondariale di Caltanissetta su una capienza di 178 si registra la presenza di 221 detenuti di cui 120 in custodia cautelare con un sovraffollamento di 43 unità. “Non si sono registrati casi di suicidio, anche alla luce degli interventi interni, posti in attuazione del “Protocollo prevenzione rischio suicidario” siglato con l’ASP in data 24.01.2018”, si legge nella relazione sullo stato della Giustizia nel distretto di Caltanissetta. Al carcere Malaspina si sono però verificati 15 casi di autolesionismo. A Enna il sovraffollamento è più limitato con 182 detenuti presenti su una capienza di 171. Nel carcere ennese nessun caso di suicidio, 23 scioperi della fame e 16 casi di autolesionismo. Nel carcere di Piazza Armerina si registra una presenza media di 50 detenuti dei quali 30 con problemi di alcol dipendenza o tossicodipendenza. A Gela una presenza media di 50 detenuti che in alcune fasi arriva a 61. La capienza è di 48 ma la capienza tollerabile arriva fino a 96. A Gela si è registrato un tentato suicidio scongiurato dal tempestivo intervento degli agenti della Polizia Penitenziaria e un caso di autolesionismo. La casa di reclusione di San Cataldo riservata ai detenuti del circuito di media sicurezza ospita 134 persone ristrette, un numero complessivamente pari alla capienza stabilita. Nessun caso di suicidio, due gli atti di autolesionismo. Gli istituti di pena del distretto nisseno non sono dotati di sezioni femminili ma esclusivamente di sezioni maschili suddivise nei vari circuiti di sicurezza (media e alta sicurezza, protetti). “Relativamente alla gestione dell’emergenza sanitaria da Covid-19 - si legge nella relazione - gli istituti penitenziari del distretto hanno dovuto rivisitare i modelli organizzativi interni in ottemperanza alle indicazioni dei vari D.P.C.M. connessi al contenimento delle forme di contagio, attraverso procedure di pre-triage per l’ingresso. Sia i detenuti che il personale in servizio sono stati sottoposti a screening sanitario a mezzo tampone naso faringeo e test sierologici. Presso gli istituti penitenziari si è inoltre provveduto alla riorganizzazione dei colloqui tramite videochiamata. In tutti gli istituti penitenziari del distretto sono stati sperimentati percorsi virtuosi finalizzati a favorire e soprattutto a rendere possibile il reinserimento del detenuto nel circuito lavorativo a pena espiata. Solo a titolo esemplificativo si segnala che presso la Casa Circondariale di Caltanissetta sono stati attivati un corso di marketing e finanza, un laboratorio autobiografico, un corso di informatica di base, il corso di chitarra (progetto musica dentro), il progetto genitorialità sui padri detenuti, il corso di alfabetizzazione per adulti per la scuola media”. “Una carcerazione anaffettiva è dannosa per la società - scrive la presidente della Corte d’Appello Maria Grazia Vagliasindi. Se in carcere non circola la cultura dell’umanizzazione della pena - come ricorda Mons. Vincenzo Paglia - la società sbaglia e la giustizia si ritrae”. Anche in questo ambito l’emergenza covid ha colpito. Negli istituti sono state praticamente sospese tutte le attività trattamentali tranne le attività didattiche. Roma. Nel carcere femminile di Rebibbia c’è un errore di Attilio Bolzoni Il Domani, 31 gennaio 2021 A Rebibbia Anthony vive in una cella tutta sua: ancora lotta con il nome scritto sui documenti, Antonella- Schiacciato dall’esistenza, vorrebbe solo un’occasione: “Non merito forse anch’io un gesto di civiltà?”. Sulla carta di identità Anthony è Antonella C. nata il 3 marzo 1967 a Galatone, provincia di Lecce. Statura 1 metro e 60 centimetri, capelli neri, occhi celesti, segni particolari “sembianze maschili”. È in carcere dal 2013 e ha pene da scontare per diciassette anni. Tutti furti. Quelli che, da quanto ho capito e credo di non avere capito male, gli hanno consentito di non morire di fame. Ma oggi il suo problema, e non soltanto suo, è un altro: Anthony è l’unico uomo - almeno così si sente lui - in mezzo a 350 donne, tutte le recluse del “complesso penitenziario femminile più grande d’Europa” che è appunto la casa circondariale di Rebibbia. Ci siamo incontrati il giorno di Capodanno nell’androne di un palazzo di Montespaccato, periferia romana dove lui stava passando le feste insieme a cinque donne. Siamo rimasti per un paio d’ore a parlare, fermi uno difronte all’altro, fuori pioveva. Ma non era l’acqua che scendeva a trattenerci in piedi e immobili al freddo, Anthony non poteva uscire e io non potevo entrare. Dovevamo per forza stare lì, nell’androne. Il piccolo appartamento che divideva con le cinque donne era una “casa di accoglienza” che ospitava detenute di Rebibbia in permesso speciale, oltrepassare il portone era come fuggire, a tutti gli effetti un’evasione. Così, a Montespaccato, Anthony mi ha raccontato brandelli della sua vita e promesso, una volta tornato nella cella numero 85 della “sezione femminile” del carcere di Roma, che mi avrebbe donato “uno scritto dove spiego veramente chi sono”. Memorie che sono diventate un libro. Mi ha anticipato il titolo: Ero nato errore. È stato di parola, dopo un paio di settimane il suo diario mi è stato consegnato e in una notte l’ho letto tutto d’un fiato. Quella mattina di Capodanno mi aveva però già detto qualcosa, o forse mi aveva detto tutto: “Sono un uomo”. L’ho visto arrivare mentre salutava una ragazza cinese con un sacchetto della spesa fra le mani. Aveva addosso un giubbotto di pelle marrone scuro e un paio di jeans, scarpe di gomma chiare, si è presentato sfilandosi per un momento la mascherina: “Buongiorno, io sono Anthony”. Barba folta e baffi, sorridente, gentile, all’apparenza quieto nel ricordare un tormento lungo quasi cinquantaquattro anni. Mi ha confessato subito che nell’appartamento di Montespaccato ha trascorso giorni sereni “anche se, in verità, avrei preferito restare a Rebibbia”. Solo, nella sua cella, “perché ogni volta che entro o esco dal carcere ci sono momenti di forte imbarazzo con le perquisizioni personali e con i controlli all’esterno...”. Qualche sera prima di San Silvestro, nella casa di accoglienza sono saliti i carabinieri per la sorveglianza sulle detenute in libera uscita. Cercavano sei donne e hanno trovato cinque donne e Anthony. Cercavano anche un’Antonella. Ha fatto molta fatica a spiegare che quell’Antonella era lui. Telefonate in carcere, verifiche incrociate con l’“ufficio matricola”, un po’ di stordimento e alla fine i carabinieri se ne sono andati probabilmente non del tutto confortati dalle rassicurazioni ricevute. Sulla carta Antonella - Sulla carta di identità Anthony è Antonella C. nata il 3 marzo 1967 a Galatone, provincia di Lecce. Statura 1 metro e 60 centimetri, capelli neri, occhi celesti, segni particolari “sembianze maschili”. La foto accanto è decisamente quella di un uomo. È in carcere dal 2013 e ha pene da scontare per diciassette anni. Tutti furti, solo furti. Quelli che, da quanto ho capito e credo di non avere capito male, gli hanno consentito di non morire di fame. Ma oggi il suo problema, e non soltanto suo, è un altro: Anthony è l’unico uomo - almeno così si sente lui - in mezzo a 350 donne, tutte le recluse del “complesso penitenziario femminile più grande d’Europa” che è appunto la casa circondariale di Rebibbia. Anthony non condivide la cella con nessun’altra. Le agenti lì dentro non irrompono mai, bussano sempre, una delicatezza per rispettare la sua privacy. Fa poca vita comune, niente ora d’aria con le altre, i contatti con le detenute sono limitati alla lavanderia dove lavora. Gli hanno concesso di avere anche un rasoio per farsi la barba ogni mattina. È vicenda alquanto intricata quella di Anthony e il carcere, istituzione totale che il più delle volte non migliora certo la vita degli uomini e delle donne che per colpa o per sventura ci finiscono, è diventato il luogo dove più di ogni altro si sono manifestate le “contraddizioni” di Anthony e del suo corpo. E, paradossalmente, proprio il carcere potrebbe offrirgli la chance di una nuova identità, liberandolo dalla doppiezza che lo devasta. Il suo desiderio è avere in tasca un documento che attesti la sua mascolinità. Ci sta provando, non sarà facile però ottenere ciò che vuole. Il mistero è intorno al suo sesso. Confuso. Non è maschio e non è femmina ed è maschio e femmina insieme con organi sessuali non completamente sviluppati. C’è gran consulto di specialisti intorno ad Anthony. Memorie dell’infanzia - Nell’androne comincia a raccontare e a raccontarsi. Parla con calma, ha con sé qualche carta e appunti sparsi. Comincia da quando “il Mostro” - così chiama suo padre, mai per nome, mai papà - lo fa registrare all’anagrafe del comune di Galatone sei giorni dopo che viene al mondo dalla levatrice Angela Molducci “che, assistito al parto di Cecilia. P., moglie di Renato C., non potendo questi presentarsi perché lontano dal paese per motivi di lavoro” dichiara davanti a due testimoni “che è nato un bambino di sesso femminile alla quale dà il nome di Antonella”. Firmato l’ufficiale dello stato civile Antonio Inguscio. Un atto di nascita che è una condanna a morte per Anthony. Il padre fa il muratore, la madre tira su i figli, ne partorirà sette. Ma c’è poco da fare alla fine degli anni Sessanta laggiù nel Salento, i genitori decidono di emigrare in Germania, non vogliono o forse non possono portare con loro l’ultimo arrivato in famiglia. C’è una parente in Scozia, sposata con uno dei fratelli di suo padre. A sei mesi è con zia Ann a Inverness, una cittadina sulla costa nord orientale attraversata dal canale di Caledonia. Quella creatura che all’anagrafe è Antonella, a quattro anni confessa alla donna che lo cresce “che a lui piacciono le bambine”. Da quel momento la zia, “bellissima, alta, capelli rossi, mia unica e vera madre”, lo chiamerà Anthony. Ma non durerà a lungo la vita di Anthony e nemmeno la vita di Anthony nelle Highlands scozzesi. “Troverai tutto nel mio libro, i particolari anche di quella mattina che il Mostro venne a prendermi a Inverness per strapparmi via per sempre”, mi dice ricordando campi verdi, laghi, la neve dei lunghi inverni scozzesi. A pagina 19 del suo diario rintraccio quella giornata: “Alle nove del mattino sento zia che mi chiama… ci sono delle persone che ti vogliono, vedo una donna che mi prende in braccio stringendomi forte, ero impaurito, non la conoscevo.. mia zia mi disse che quella donna era la mia mamma...erano i miei genitori che dopo quattro anni erano venuti a trovarmi”. Il libro è firmato da Anthony con Nina Maroccolo, una scrittrice che entra a Rebibbia per un laboratorio di prosa e canto con il poeta Plinio Perilli. Nel 2013 l’incontro, nel 2014 Ero nato errore viene dato alle stampe da Pagine Editore. Sulla quarta di copertina, la Maroccolo scrive che la storia di Anthony sembra popolata da quei personaggi “del sottosuolo” che si ritrovano nelle opere di Dostoevskij. È il 1971 quando è prelevato “dal Mostro” e dall’“Estranea” (la madre) e “trasportato” da Inverness a Luino, in provincia di Varese. Un giorno i suoi genitori spariscono, vanno in Puglia, quando tornano gli presentano un fratello e una sorella che non ha mai conosciuto. Sono tutti e due più piccoli di lui, si chiamano Gianni e Claudia, fino ad allora avevano vissuto a Galatone con i nonni. L’inferno di Anthony comincia a Luino. È un bambino schiavo. Deve spolverare la casa dove abitano fino a farla brillare, altrimenti percosse. Deve spaccare la legna, altrimenti percosse. Deve badare ai fratellini. Non può giocare, non può uscire in giardino, non può incontrare altri bambini. Una volta il padre gli spezza un bastone sulla schiena: “Mi guardava con gli occhi pieni di odio, si scaraventava su di me come se fossi io che gli avevo fatto del male”. C’è vergogna in quella casa, c’è risentimento perché Anthony esiste. Dai quattro agli undici anni è un calvario. Solo botte e umiliazioni. In famiglia si confida soltanto con suo fratello Gianni, il “Mostro” quando è ubriaco prende a calci pure lui. E sono colpi di frusta o di cinghia, oltraggi, privazioni, tre giorni senza mangiare. Gianni una sera gli dice: “Perché non lo facciamo fuori, ci sono dei funghi, devono essere velenosi, li prendiamo e li sbricioliamo nel piatto”. Una notte Gianni scivola via dalla casa per incontrare una ragazzina, una corsa in motorino, l’incidente, Gianni muore. Il padre non glielo fa salutare nemmeno per l’ultima volta. Gli anni passano e l’inferno non finisce mai. Trova un lavoro come saldatore a Varese, fa il giardiniere, lo stalliere, ripara frigoriferi. Ogni volta la paga la deve portare tutta a casa, al “Mostro”. Anthony un giorno scappa e si rifugia da una sorella, poi prende il primo treno per Torino. Una pensioncina in via Mazzini e comincia a cercare un lavoro: “Ma in qualsiasi posto dove mi presentavo e ogni volta che esibivo il documento la risposta era sempre negativa.. e allora ho capito che non avevo speranza”. Anthony, per tutti, era sempre Antonella. Non ha più un soldo in tasca, di notte dorme nei casolari abbandonati, di giorno si trascina fra barboni e ragazze che si vendono, non ha vestiti, mendica cibo. Di tanto in tanto si sfama facendo il giro delle macellerie, chiede scarti per un cane che non ha. Ma le disgrazie non vengono mai da sole. Un pomeriggio Anthony sta male, perde tanto sangue dal naso, dopo una settimana è sul lettino di un ospedale. La diagnosi è crudele: un tumore al cervelletto. L’operazione e quattro mesi di chemio. Quando esce, sempre più distrutto, si getta nel Po: “Mi ricordo solo che ero fra le braccia dei pompieri che mi tiravano su...”. I furti e il carcere - È qui che comincia un’altra delle tante sue vite. Ed è quella che l’ha portato a Rebibbia. Anthony che non trova lavoro perché è Antonella, Anthony che non ha casa e non ha famiglia, Anthony che non ha amici, Antony che diventa un ladro. Ruba attuando sempre lo stesso piano. Si presenta in un bed and breakfast, si sistema nella stanza, aspetta il momento migliore per l’incursione nell’appartamento privato della proprietaria o di qualche altro ospite. A volte sono 60 euro, altre volte 80 euro e un anellino, una collana, un orologio. Soldi per mangiare. Girovaga per l’Italia, dopo Torino è a Firenze dove, con quello che riesce a racimolare con le incursioni nei bed and breakfast, compra una vecchia auto che diventa la sua casa. Dorme lì dentro. Lo pizzicano per la prima volta a Faenza, in provincia di Ravenna, il 26 gennaio 2010. La sentenza di condanna arriva il 28 maggio 2012. Il giudice riconosce “il disegno criminoso premeditato” sostenuto dalla pubblica accusa e per Anthony sono 4 mesi e 10 giorni di reclusione. I primi. A Trieste un’altra condanna a 1 anno e 4 mesi di reclusione. E poi, a catena, tutte le altre. Sempre furti, solo furti. È ancora libero e decide di andare a Roma. Passa dalla comunità di Sant’Egidio, una sera in una chiesa lì vicino incontra don Franco, “le solite parole del prete che anch’io sono Figlio di Dio ma non può aiutarmi e bla bla bla”, Anthony è disperato e coglie l’occasione al volo, “in un attaccapanni c’era la giacca del prete appesa, frugai nelle tasca interna e c’era il suo portafoglio con dentro tre carte di credito e quasi trecento euro, presi i soldi mettendo a posto il portafoglio”. Dopo il furto entra in un bar e si compra “una bella ciambella calda morbida alla crema” ma ha anche la pessima idea di raggiungere Brindisi. In Puglia lo fermano a un posto di blocco, i carabinieri gli chiedono i documenti, il solito dramma: Anthony è Antonella. E, a mano, ha maldestramente anche corretto la data di scadenza dell’assicurazione della sua vecchia auto. Gliela sequestrano. Non perde solo una macchina, perde la casa. Torna a dormire in ripari di fortuna, nei campi tempestati di ulivi della campagna pugliese. Incontra un brav’uomo, Domenico, che gli presenta sua moglie Rosanna e i loro due figli. È un lampo di felicità in mezzo al deserto umano. Lo aiutano, per la prima volta trova qualcuno che ha un po’ di compassione. Ma dura poco. Perché Anthony torna a Roma, per un anno riesce a sopravvivere con piccoli “colpi” ma una sera lo fermano due poliziotti e una poliziotta. È il settembre del 2013: “Mi dicono che li devo seguire, quando arriviamo in questura mi comunicano che devono portarmi in carcere, io divento bianco come un lenzuolo e comincio a tremare..”. La donna poliziotta gli allunga un pacchetto di sigarette, apre il portafoglio e gli mette in tasca 10 euro. Sulle cronache dei quotidiani si ritrova qualche notizia su questo spaventoso passato di Anthony. Resoconti sbrigativi, da vecchio “mattinale” di questura. Un foglio del Salento titola: “La donna con i baffi cha ha truffato mezza Italia”. Un altro giornale della Romagna scrive della sua “pericolosità sociale” e ironizza: “È donna ma rubava da uomo”. A Rebibbia Anthony sta in isolamento per due settimane, gli educatori capiscono che è un “caso speciale” e gli assegnano una cella singola. Ha qualche imbarazzo per la doccia in comune con le altre detenute, però resiste, resiste perché “nessuno mi può cambiare perché sanno anche in carcere che io sono Anthony”. Nel suo libro elenca “le agenti come posso dire, umane” che hanno avuto almeno una volta un’attenzione per lui. Ispettrice Roberta, molto disponibile. L’assistente Livia. Direttrice Pedote. Agente Veronica. La rossa che è rossa. L’agente Jessy con quei capelli neri lunghi e ondulati. Agente Lorella. Sovrintendente Carla. E l’assistente Marta, che quando ha il rossetto il suo sorriso si illumina. Gesti di civiltà - Anthony non ha un avvocato perché non se lo può permettere. Solo un difensore d’ufficio, per un po’ gli dà una mano l’avvocato Fabio Spaziani. Intanto gli anni di reclusione si accumulano. Disegno criminoso premeditato. Nelle pagine di Ero nato errore lui chiede e si chiede: “Ma non c’è una sproporzione evidente fra piccoli reati e grande pena? Non c’è l’esigenza civile di riconoscermi una difesa ponderata, insomma giusta? Non ho diritto a gesti veri di civiltà da parte di una società che si vanta e si dice civile? Io non sono uno stinco di santo, sono colpevole di tutto, ma non del brutto romanzo esistenziale che mi ha schiacciato”. Nell’androne del palazzo di Montespaccato, dopo un’ora che siamo lì a chiacchierare, Anthony mi confida che in carcere ha avuto momenti di intimità con una vicina di cella. “Roba vecchia però”. Mi assicura che a Rebibbia sta bene perché “ho un lavoro, mangio ogni giorno, ho un letto, mi posso lavare”. Nel suo libro ha affettuose parole per qualche detenuta: “Antonella, da quando ha iniziato a lavorare non facciamo quasi più qualche giocata a carte.. Nichita, lei è addetta all’abbigliamento, quando trova qualcosa da uomo me la mette da parte, grazie Nichita. Berenice sa come addolcirmi con il suo tiramisù. Michela, che è addetta ai cani ed è bello vedere come si rapporta con i cani, amabile, peccato che sono un uomo perché se fossi un cane riceverei un sacco di coccole che dalla razza umana non ho mai”. Sul risvolto di copertina di Ero nato errore trovo un numero di telefono e un nome: Nina. Chiamo. Risponde Nina Maroccolo, la scrittrice che l’ha conosciuto a Rebibbia e con cui hanno scritto insieme. Le è stato vicino per molti mesi, prima gli incontri ogni martedì, poi anche due o tre volte la settimana. Il libro è un atto di amore. Non vede Anthony dal 2017 ed è sorpresa: “Ma come, è ancora rinchiuso in carcere? Io credevo che fosse finalmente in una comunità e avesse ottenuto la possibilità di lavorare fuori”. Anthony è ancora dentro e vi resterà fino al 2030, a meno che non sopraggiunga un indulto o un miracolo o una grazia che qualcuno vorrebbe chiedere al presidente della Repubblica. Il magistrato di sorveglianza di Rebibbia femminile Marco Patarnello conosce bene Anthony e le sue sofferenze. E sa che, prima di ogni altra cosa, lui deve modificare il suo stato anagrafico. Così com’è, fuori dal carcere, vivrebbe sempre una marginalità che gli porterebbe più male che bene. I “clandestini” delle carceri italiane Che ne è delle persone in cerca di una loro identità, quando si trovano in carcere? Se lo è chiesto in passato anche l’associazione Antigone, in uno dei suoi ultimi rapporti sulle condizioni di detenzione. Per esempio, la realtà delle persone trans detenute in carcere continua a essere trattata “quasi come un fenomeno clandestino”, nonostante il tema sia affrontato sempre di più nella produzione scientifica e talvolta anche dai media. “Anche lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non ha ancora individuato delle soluzioni univoche alle varie problematiche emerse negli anni, continuando a ondeggiare tra la scelta di diversi sistemi di allocazione che vanno dai reparti dedicati, a volte presso istituti femminili, altre maschili, fino alla collocazione presso le sezioni precauzionali”. Alle problematiche di una vita in carcere, può dunque aggiungersi un’incapacità di riconoscere la transizione in corso, da un genere a un altro. Le conseguenze psicologiche possono essere devastanti: “Spesso il disagio che accompagna lo stato di detenzione delle persone transessuali si manifesta in comportamenti autolesivi che fanno temere per la stessa sopravvivenza della persona”. Padova. Centro sociale Pedro: “Garante, vaccini e sconti di pena per i detenuti” Il Mattino di Padova, 31 gennaio 2021 Da quasi un anno il Consiglio comunale di Padova ha istituito la figura del garante per i detenuti. Ma, complice la pandemia che impedisce di convocare il Consiglio in presenza - modalità indispensabile, in questo caso - la nomina della persona a cui affidare l’incarico è rimasta bloccata. Stringere i tempi e votare al più presto è una delle richieste fatte ieri dal Centro sociale Pedro nel corso di un doppio presidio, prima davanti alla Casa circondariale e poi sotto la Casa di reclusione. Un sit-in di solidarietà che i detenuti hanno appoggiato con fischi e urla dalle finestre, in segno di ringraziamento. L’iniziativa, dedicata idealmente all’attivista No-Tav Dana Lauriola, in carcere a Torino, è servita a richiamare l’attenzione sugli effetti della pandemia nelle carceri sovraffollate. E dunque a chiedere sconti di pena, indulti o altre misure per svuotare gli istituti, riducendo in questo modo anche il rischio di contagio, misure preventive per i reati minori e priorità nell’accesso al vaccino per tutta la popolazione carceraria. Che in questi ultimi mesi ha pagato un prezzo alto alla pandemia, vedendosi ridotti anche quei pochi contatti che aveva con l’esterno. Gorgona (Li). Al via prenotazioni per visite all’isola-carcere ansa.it, 31 gennaio 2021 Dal primo febbraio saranno aperte le prenotazioni online per visitare l’isola-carcere di Gorgona (Livorno) con il Parco: 20 le date disponibili, la prima è sabato 20 marzo la partenza è solo da Livorno. Lo ha annunciato, in una nota, l’Ente Parco Nazionale Arcipelago Toscano. Gorgona, ultima isola carcere attivo d’Italia, se non d’Europa, la più piccola, verde e selvaggia tra le isole del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, rappresenta un po’ l’isola del riscatto dei detenuti, che lì coltivano le vigne e gli ulivi imparando un mestiere. La ricchezza naturalistica, unita al fascino di un’isola modello di recupero sociale, prosegue l’Ente Parco, la rendono una tra le più richieste dai visitatori. Il Parco in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria conferma anche per il 2021 il programma di fruizione per far conoscere questo territorio protetto seppure con limitazioni dovute al regime carcerario da una parte e alla tutela della biodiversità dall’altra. Le prenotazioni possono essere effettuate on line sul sito: https://prenotazioni.islepark.it/gorgona/ tare-il-parco/gorgona. Nell’ organizzazione della visita sono previste alcune regole in più per disposizioni dettate da motivi di sicurezza, le visite guidate infatti devono essere autorizzate dall’amministrazione penitenziaria in accordo con l’Ente Parco secondo un calendario concordato. Le presenze di visitatori sull’isola sono contingentate per un numero massimo di 100 visitatori al giorno. Maltrattamenti in famiglia: in aumento durante il lockdown di Agnese Ananasso La Repubblica, 31 gennaio 2021 Tra le questioni sollevate all’apertura dell’anno giudiziario 2021 è emerso l’incremento delle violenze tra le mura domestiche, a fronte di un calo degli altri reati. “Effetto distorto delle necessarie misure di prevenzione sanitaria”. Durante i mesi di lockdown sono diminuiti i reati soprattutto predatori ma sono aumentati i maltrattamenti e le violenze domestiche. È una delle questioni sollevate dai procuratori generali delle principali corti di Appello italiane durante l’apertura dell’anno giudiziario 20121. Bologna: pedopornografia e autolesionismo tra i minori - “Sul lato della giustizia penale si osserva un rilevante aumento dei delitti di pedopornografia e di maltrattamenti in famiglia, fenomeni compatibili con l’ampliarsi della dimensione domestica della vita nel trascorso anno”, ha detto Ignazio De Francisci, procuratore generale della Corte d’Appello di Bologna, in un passaggio del suo intervento. “Altro fenomeno preoccupante - aggiunge - è costituito dall’aumento tra i minori degli atti di autolesionismo e di intossicazione etilica”. Grande, sottolinea De Francisci, “è stato l’impegno della Procura per i Minori e buoni i risultati, nonostante la gravissima carenza di personale amministrativo alla quale si inizierà a fare fronte con i concorsi straordinari attualmente in corso”. Nell’ultimo anno i procedimenti per maltrattamenti in famiglia sono cresciuti del 20%. Genova: violenza sessuale anche tra i minori - “Alla generale diminuzione dei reati si contrappone il forte incremento delle comunicazioni di notizie di reato per i delitti di maltrattamenti in famiglia e di atti persecutori nonché di violenza sessuale, quest’ultimo fra l’altro in aumento anche tra i minorenni. Anche questo, evidentemente, un effetto del periodo più restrittivo durante la pandemia da Covid 19”. Lo spiega nella sua relazione Roberto Aniello procuratore generale della corte d’Appello di Genova durante la cerimonia di apertura dell’anno giudiziario. Firenze: vessazioni anche in presenza di minori - “Il lockdown ha portato a una diminuzione generale dei reati anche in Toscana, ma sono aumentate dell’11% le iscrizioni “per i fatti di violenza intra-familiare e, in particolare, per il delitto di maltrattamenti in famiglia, in conseguenza dell’adozione delle misure per prevenire il rischio di contagio che hanno però costretto dentro le mura domestiche vittime e carnefici”. Lo ha detto il procuratore generale presso la corte d’appello di Firenze, Marcello Viola illustrando, nella sua relazione con cui si è aperto l’anno giudiziario in Toscana. Un “effetto distorto” delle “necessarie misure di prevenzione sanitaria”, che, ha detto ancora Viola, “ha percettibilmente accresciuto il numero delle persone vulnerabili sottoposte ad un penoso regime di sofferenze morali, di violenza fisica e morale, di continue vessazioni, di umiliazioni, anche alla presenza di bambine e bambini. “In tale ambito, continua a costituire eccellente esempio di collaborazione istituzionale, il protocollo d’intesa Codice Rosa, sottoscritto tra la Regione Toscana, la Procura Generale e tutte le Procure della Repubblica del Distretto, al fine di garantire sul territorio in modo uniforme il miglior supporto alle vittime di violenza che accedono al Pronto Soccorso”. Sardegna: violenza su minori da amici di famiglia - Anche in Sardegna è allarme violenze sessuali e pedo-pornografia: lo scorso anno sono aumentati i procedimenti per violenza sessuale che sono arrivati a 207, contro i 168 dell’anno precedente. In crescita anche i procedimenti per pedofilia e produzione e detenzione di materiale pedopornografico. Sono questi alcuni dei dati illustrati stamane a Cagliari dalla procuratrice facente funzione della corte d’appello di Cagliari, che ha sottolineato come sia “sempre allarmante il dato relativo ai fatti di violenza sessuale” che troppo spesso, nel caso di vittime minorenni, sono commessi da amici di famiglia. In aumento anche i casi di maltrattamenti di genitori compiuti da giovani dipendenti da alcol e droghe. Perché gli uomini odiano le donne di Michela Marzano La Stampa, 31 gennaio 2021 In questi ultimi mesi, sono cambiate molte abitudini, sono cambiati i gesti, talvolta sono cambiate persino le parole che utilizziamo per rivolgerci agli altri. Dopo un anno di pandemia, tutto sembra diverso. Cioè. Tutto, tranne il copione delle violenze contro le donne che resta invece sempre identico, inesorabilmente lo stesso: lei che vuole lasciare lui; lui che, questa cosa, non l’accetta; lei che comincia ad aver paura; lui che l’ammazza. Anzi, non solo il copione di questo film horror non si è modificato, ma si è anche pericolosamente diffuso. E nonostante gli omicidi siano un po’ ovunque in calo, le violenze domestiche e i femminicidi non hanno fatto altro che aumentare. Con la convivenza forzata, c’è stata una recrudescenza delle patologie psichiatriche, è diminuita la fiducia in noi stessi e negli altri, si è moltiplicato il consumo di psicofarmaci. La reclusione ha fatto male a chiunque: il mondo si è ristretto e, pian piano, sono venute meno la voglia e la forza di credere nel futuro. Ma perché gli uomini devono prendersela con le donne? Pensano forse che, per una donna, le cose siano più semplici? Credono che spetti a una moglie o a una compagna colmare i loro vuoti e ricucire le loro ferite? Immaginano che una donna sia un oggetto che possiedono e di cui possono disporre a piacimento? Si illudono che, in fondo, sia colpa delle femmine se le cose vanno male, perdono il lavoro, bevono, diventano aggressivi e alzano le mani? Quand’è che impareranno a prendere su di sé fallimenti e delusioni, tristezza e incertezze, paure e solitudine? Non so nemmeno più quante volte ho scritto che il problema delle violenze contro le donne è un problema strutturale della nostra società. E che non basta moltiplicare le leggi per punire i colpevoli o per proteggere le vittime per uscire da questa piaga. E che l’unico modo per venirne fuori è prevenire: insegnare, educare, accompagnare, stimolare, ascoltare, parlare, conoscere. Insomma, fare in modo che i più piccoli imparino progressivamente che nessuna persona potrà colmarli o ripararli; nessuno potrà mai essere esattamente come loro vogliamo che sia, occupando quel posto (e solo quello) che gli hanno preparato, sempre e comunque a loro disposizione. L’aggressività, come ci insegna Freud, è una di quelle pulsioni che non potranno mai essere del tutto eliminate. Ma questo non significa che non si debba far di tutto per controllarla o limitarla. Oppure che non si possa chiedere aiuto a uno specialista per attraversare le tenebre che possono portarci a sfogare violentemente le nostre frustrazioni su chi ci è accanto. La cosa assurda, nell’ultimo episodio di questa serie infinita di violenze domestiche e femminicidi, è che la vittima di Carmagnola, Teodora - uccisa un paio di giorni fa dal marito Alexandro - era una psicologa, e lavorava in un centro specializzato nella cura delle dipendenze. Una di quelle persone che accompagnano i propri pazienti nella ricostruzione di se stessi. Certo, non spettava a lei curare il marito. Alexandro avrebbe dovuto iniziare un percorso con qualcun altro e, da quanto emerge, aveva pure promesso di farlo. Prima di essere risucchiato dalla gelosia e dalla violenza. E illudersi che eliminare moglie e figlio, prima di tentare il suicido, fosse la soluzione ai disagi della propria esistenza. La violenza non è mai una soluzione, è sempre un problema. Ma finché non si capirà che gli uomini violenti sono malati, che l’aggressività non contenuta prima o poi diventa assassina, e che il rispetto delle persone e la compassione per gli altri esseri umani si imparano da piccoli e si coltivano nel tempo, non ci sarà modo di arginare violenze domestiche e femminicidi, e di combattere seriamente contro questa terribile piaga. Soprattutto ora che in casa si vive tutti appiccicati. E che il riconoscimento dell’altro e il rispetto dell’alterità altrui sono messi a dura prova per chiunque. Migranti. Rotta balcanica, eurodeputati Pd bloccati al confine con la Bosnia di Vanessa Ricciardi Il Domani, 31 gennaio 2021 Pietro Bartolo, Pierfrancesco Majorino, Alessandra Moretti e Brando Benifei sono in missione per verificare cosa stia accadendo, ma sono stati bloccati in Croazia prima di raggiungere la frontiera. In un video hanno denunciato quanto gli è accaduto: “Eppure questo è un confine europeo” ha detto Moretti. Bartolo ha aggiunto: “Questa è una nostra prerogativa, è un nostro diritto”. Il loro viaggio proseguirà comunque, andranno nella zona di Biha?. “Cosa c’era oltre il limite imposto dalla polizia? Cos’è che non dovevamo vedere?”, questa la domanda di Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa che ha prestato per anni soccorso i migranti, in viaggio sulla rotta balcanica. Oggi è stato bloccato dalla polizia croata davanti a un nastro che delimita l’area prima di raggiungere il confine con la Bosnia: “Questi non sono i nostri confini. I confini d’Europa lungo la rotta balcanica sono ben oltre questo nastro, eppure la polizia croata non ci permette di andare avanti. Non consente, cioè, a quattro eurodeputati, nell’esercizio delle loro funzioni, di vedere coi propri occhi i confini d’Europa”. Lo ha denunciato oggi pomeriggio insieme a Pierfrancesco Majorino, Alessandra Moretti, Brando Benifei. La delegazione di eurodeputati Pd si è recata in Croazia per verificare cosa sta accadendo nell’area. Massimiliano Smeriglio, che ha partecipato alla spedizione, ma sul fronte italiano, ha spiegato ieri che è loro intenzione verificare le responsabilità europee di quanto sta accadendo e le azioni di Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera, quindi portare i risultati della loro missione all’attenzione del parlamento europeo. I parlamentari spiegano nel video di essere stati fermati in realtà ben prima della frontiera, e di aver chiesto un permesso per andare al confine reale ma, ha riferito a Domani l’ufficio stampa in serata, non gli è stato concesso. “Eppure questo è un confine europeo” aveva detto Moretti nel video. Bartolo ha aggiunto: “Questa è una nostra prerogativa, è un nostro diritto”. Domenica 31 gennaio, anche se la missione in Croazia non è andata come previsto, andranno in Bosnia. La delegazione di eurodeputati visiterà la zona di Biha? e il campo di accoglienza di Lipa, distrutto a dicembre scorso da un incendio e nel quale le condizioni delle persone sono drammatiche. Bambini, donne e uomini, sono infatti costretti a vivere in accampamenti in condizioni precarie vittime del gelo. La delegazione incontrerà le autorità locali del distretto di Una Sana e i rappresentati di diverse Ong che lavorano da tempo nell’area balcanica e che denunciano l’incapacità di ritrovare soluzioni efficaci sul piano emergenziale e strutturale. Gli eurodeputati puntano a un’immediata azione umanitaria - che dal Parlamento europeo viene richiesta da oltre un anno. Per gli eurodeputati, hanno riferito prima di partire, è ora di rivedere le scelte compiute dai singoli governi europei e dalle istituzioni dell’Ue sui migranti e i richiedenti asilo, un tema che chiama in causa direttamente l’Italia, artefice di respingimenti illegali. Stati Uniti. La decisione di Biden contro le prigioni private ugolini.co.th, 31 gennaio 2021 Martedì il nuovo presidente americano Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo che proibisce al dipartimento della Giustizia di rinnovare i suoi contratti con le carceri private. Negli Stati Uniti, infatti, una buona parte delle numerosissime persone condannate a pene detentive è rinchiusa in strutture private. Queste prigioni sono note per la qualità della vita piuttosto bassa di chi ci vive - il cibo è scadente e il comportamento delle guardie è spesso brutale, tra le altre cose - ragione per cui già il governo di Barack Obama aveva cercato di ridurne l’uso. L’ordine esecutivo riguarda solo le autorità federali, non quelle dei singoli stati, ed è per questo solo un primo passo, lo ha detto lo stesso Biden, nel quadro delle azioni che la nuova amministrazione intende adottare per risolvere le ingiustizie sistemiche presenti nel sistema giudiziario americano. Le autorità statali e federali degli Stati Uniti ricorrono alle carceri private fin dagli anni Ottanta. In quel periodo ebbe inizio la cosiddetta incarcerazione di massa, quel fenomeno che ha portato gli Stati Uniti a essere il primo paese al mondo per numero di detenuti in rapporto alla popolazione. A fronte di un grosso aumento della criminalità infatti l’amministrazione di Ronald Reagan introdusse pene molto severe per crimini non violenti ma legati alla droga, che a loro volta fecero crescere tantissimo il numero di persone in carcere: nel 1980 le persone detenute erano circa 660mila; oggi sono quasi 2,3 milioni secondo i dati dell’ong Prison Policy Initiative che tengono conto di tutti i tipi di incarcerazione. Con l’aumento del numero dei detenuti, le autorità pubbliche dovettero risolvere il problema del sovraffollamento dei penitenziari e si rivolsero ad alcune società private per costruire e gestire nuove carceri. La prima azienda a ottenere un contratto del genere fu CoreCivic, nel 1983. L’anno dopo toccò a Geo Group: oggi queste due società sono tra le principali aziende che gestiscono penitenziari e servizi ai carcerati. Tra le altre cose organizzano programmi di riabilitazione, si occupano del monitoraggio elettronico dei condannati agli arresti domiciliari, sono proprietarie di edifici in cui hanno sede uffici governativi e amministrano imprese in cui i detenuti lavorano. Entrambe sono quotate in borsa e i loro ricavi annuali messi insieme sono di circa 1 miliardo di dollari. Essendo aziende a scopo di lucro, le società che gestiscono le carceri private hanno sempre avuto interesse ad aumentare la varietà dei loro servizi e al tempo stesso a tagliare i propri costi. Negli anni numerose inchieste giornalistiche hanno rivelato che questo atteggiamento è andato a scapito delle condizioni di vita dei detenuti: ricevono cibo scadente e cure mediche non adeguate, e sono assistiti da personale non qualificato. Ci sono state anche delle inchieste sulle imprese dove i detenuti lavorano e che spesso sono amministrate dalle stesse società che gestiscono le carceri private. Secondo queste indagini, aziende come CoreCivic e Geo Group sfruttano il lavoro dei carcerati dato che la loro condizione permette di ricompensarli con stipendi bassissimi. Per via di questi problemi, molto noti negli Stati Uniti, nel 2016 l’allora viceprocuratrice generale Sally Yates aveva presentato un memorandum al dipartimento di Giustizia in cui chiedeva ai funzionari responsabili di non rinnovare i contratti con i gestori delle carceri private. L’amministrazione di Donald Trump aveva però cancellato questa raccomandazione: fu una delle prime cose che fece Jeff Sessions quando divenne procuratore generale. Nei suoi primi dieci giorni di presidenza, Joe Biden ha ribaltato molte iniziative dell’amministrazione precedente, tra cui questa. L’ordine esecutivo sulle prigioni private fa parte di una serie di provvedimenti il cui scopo è ridurre le divisioni e le diseguaglianze tra i diversi gruppi demografici americani. Una delle manifestazioni del razzismo sistemico presente negli Stati Uniti è infatti l’altissima percentuale di afroamericani all’interno della popolazione carceraria: solo il 13 per cento degli americani è nero, mentre tra i detenuti la percentuale raggiunge il 40 per cento. Solo il 9 per cento dell’intera popolazione carceraria americana (circa 200mila persone) è detenuto in prigioni private, con percentuali che cambiano tra uno stato e l’altro: del totale di questi detenuti, sono 55mila quelli condannati per reati federali. L’ordine esecutivo di Biden dunque riguarda un piccolo numero di carcerati ed è per questo che lo stesso presidente lo ha definito come un primo passo nel suo piano per “fermare le aziende che traggono profitto” dall’incarcerazione. Una prima conseguenza della decisione di Biden si è vista in borsa: dopo l’annuncio dell’ordine esecutivo il valore delle azioni di CoreCivic e Geo Group ha raggiunto il minimo da più di un decennio. Si stima che le due società potrebbero perdere fino a un quarto dei loro ricavi con la fine dei contratti federali. Nel 2019 il 23 per cento dei ricavi di Geo Group e il 22 per cento di quelli di CoreCivic derivavano da questi contratti. Tuttavia sia CoreCivic che Geo Group hanno commentato la decisione di Biden senza esprimere sorpresa, né particolare preoccupazione. Le ragioni sono diverse: prima di tutto sapevano già quale sarebbe stata la posizione dell’amministrazione Biden nei loro confronti. In secondo luogo negli ultimi anni - nel 2020 anche per via della pandemia - il numero di persone condannate a pene detentive dai tribunali federali è diminuito, dunque è calata la necessità di ricorrere alle carceri private. Ma il motivo principale per cui questo specifico ordine esecutivo non danneggia in modo particolare i gestori delle prigioni private è che negli ultimi anni il loro business si è spostato sui centri di detenzione per immigrati irregolari, che non sono contemplati dalla decisione di Biden. Nel 2019 il principale cliente di CoreCivic e Geo Group è stata l’ICE, l’agenzia federale responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione. Le politiche sull’immigrazione dell’ex presidente Trump hanno fatto aumentare di 17mila persone i detenuti nei centri per immigrati irregolari, che in totale sono oggi 42mila; l’80 per cento di loro è ospitato in strutture private. Per questo nei primi anni dell’amministrazione Trump il valore delle azioni di CoreCivic e Geo Group era aumentato. Al tempo stesso però erano aumentate le critiche nei confronti di queste società, accusate di commettere varie forme di abusi contro gli immigrati detenuti. Per questo molti investitori avevano venduto le loro azioni, ben prima dell’ordine esecutivo di Biden. Due anni fa sia JPMorgan che Bank of America avevano annunciato che avrebbero smesso di finanziare i gestori di carceri private. Quindi se da un lato l’iniziativa di Biden non ha particolarmente cambiato la situazione per queste aziende, dall’altro le cose non stavano andando troppo bene per loro già da prima. Tunisia. 30 anni di carcere per uno spinello di Davide Milo tio.ch, 31 gennaio 2021 Misura massima decisa per tre giovani. Il caso fa discutere. Essendo la sostanza stata consumata in luogo pubblico, sono state applicate tutte le aggravanti del caso. Sta suscitando la reazione di molte associazioni della società civile tunisina la recente condanna in primo grado a 30 anni di reclusione nei confronti di tre giovani per aver detenuto e consumato sostanze stupefacenti, in particolare marijuana, in un luogo pubblico. Secondo Faouzhi Dhaoudi, portavoce del Tribunale di El Kef, quello che ha emesso la condanna, ai tre giovani è stata applicata la misura massima essendo la sostanza stata consumata in un luogo pubblico, quale uno stadio, dove i tre sono stati sorpresi. Ai giovani sono state infatti applicate tutte le aggravanti del caso. In loro favore il deputato del partito Attayar Zied Ghanney ha fatto appello al presidente della Repubblica affinché conceda ai tre una grazia eccezionale. La notizia ha riacceso in Tunisia l’annoso dibattito sull’eccessiva severità dell’impianto normativo sulla detenzione e il consumo delle sostanze stupefacenti. Da anni in Tunisia si discute nella società civile e tra i partiti politici della non attualità e la non costituzionalità dell’attuale legge che disciplina l’intera materia, la famigerata 52 del 92, che grava oltretutto pesantemente sul totale della popolazione carceraria. E molte associazioni ne chiedono, per questi motivi, l’abrogazione. Arabia Saudita. Città hi-tech e stranieri schiavizzati, il Rinascimento pagato dagli ultimi di giordano stabile La Stampa, 31 gennaio 2021 Il costo del lavoro basso citato da Renzi è figlio di un doppio standard: i dipendenti nazionali hanno salari nettamente più alti degli immigrati. Erano le quattro del mattino, nel tepore della tenda nel deserto, Mohammed bin Salman sorseggiava l’ennesimo caffè al cardamomo e guardava un film di fantascienza sul canale Mbc. Treni sospesi sfrecciavano in una megalopoli del futuro, fra grattacieli e fattorie pensili. Di colpo l’idea. Era così che doveva svilupparsi Neom, il progetto di città tecnologica affacciata sul Mar Rosso. Una città in “orizzontale”, lunga 170 chilometri, con una spina dorsale fatta di ferrovie veloci e metrò, senza più auto: “Investiamoci 100 miliardi”. Era nata The Line, il progetto al centro della “Davos del deserto” di quest’anno, un modello per tutto il mondo in cerca di soluzioni alla crisi ecologica, con l’Arabia Saudita al centro. Il colpo d’ala di un principe rinascimentale, per i suoi ammiratori. Per i critici un sogno faraonico, nato “come se si potessero costruire città allo stesso modo che nei videogiochi”. Mbs ama decidere alla svelta ed è generoso con chi sostiene la sua missione modernizzatrice. Nel 2016, quando la sua Vision 2030, cominciava a prendere forma, riceve una telefonata dal magnate giapponese Masayoshi Son, in cerca di finanziamenti per il suo SoftBank Group. Dopo meno di un’ora il principe stacca un assegno da 45 miliardi. “Ho ricevuto 45 miliardi in 45 minuti, uno al minuto”, commenterà Son. Il problema, in una monarchia assoluta e priva di un Parlamento, è capire come sono spesi, e con quale efficacia, tutti questi soldi. L’Arabia Saudita è abituata ai mega-progetti, finora con risultati deludenti. Da governatore di Riad, Re Salman, padre del principe, prometteva negli anni Settanta di fare della capitale saudita “la metropoli più avanzata al mondo entro il 1985”. Siamo lontani. La prima linea del metrò sarà inaugurata quest’anno. The Line ha però il merito di aver riportato l’attenzione sulla Future investment initiative e distratto l’opinione pubblica dal nuovo vento che soffia da Washington: lo stop alla vendita di armi, la riapertura dell’inchiesta sull’uccisione di Jamal Khashoggi, il giornalista ucciso e fatto a pezzi nel 2018, secondo la Cia su ordine dello stesso Mbs. La luna di miele con Donald Trump è finita, il principe deve riposizionarsi sulla linea di Joe Biden, e mettere l’accento sull’ecologia può aiutare. The Line promette di essere a “zero emissioni” e “in armonia con la natura”. Peccato ci siano già tribù beduine che vivono là “in armonia” e che si stanno battendo contro la distruzione dei loro insediamenti. Uno dei loro attivisti, Abdul Rahim al-Huwaiti, è stato ucciso dalla polizia lo scorso aprile. Nel “nuovo Rinascimento” non c’è spazio per il dissenso e a Mbs “interessa solo convincere i media, specie occidentali, che farà la storia e cambierà il mondo”, come ha sintetizzato Walid al-Hathloul, fratello dell’attivista per i diritti umani Loujain, incarcerata da quasi tre anni. The Line è il futuro, forse, per adesso agli abitanti del Regno interessa trovare una casa decente. “Le città saudite - ha picchiato duro il New York Times - sono brutte e polverose, con religiosi conservatori che sovrintendono su burocrati corrotti, in un paesaggio costellato di mega progetti abbandonati”. Le riforme procedono tra contraddizioni. Sì al diritto alla guida per le donne, ma condanne per le dissidenti che si sono battute in questo senso, come la stessa Al-Hathloul. Anche i cambiamenti nel mercato del lavoro, dagli aspetti ancora medievali, dove le organizzazioni sindacali sono limitate, segnano il passo. Mbs ha promesso di abolire il sistema della kafala, ma da marzo ci saranno soltanto miglioramenti marginali. Su 32 milioni di abitanti, sei sono lavoratori stranieri e per Human Rights Watch sono quelli più a rischio “di lavoro forzato”. Una ricercatrice della ong, Rothna Begum, ha documentato “casi di domestici imprigionati, con i passaporti confiscati, costretti a turni massacranti senza riposi o giorni liberi, soggetti ad abusi fisici e sessuali”. Come negli altri Paesi del Golfo o in Libano la “kafala”, da “kafil”, cioè “sponsor”, regna ancora sovrana. Ai lavoratori è richiesto uno sponsor, un’agenzia o direttamente il datore di lavoro, che paghi una cauzione di migliaia di dollari. Quasi sempre l’imprenditore sequestra loro il passaporto e a quel punto può fare quello che vuole. I casi di suicidi, specie fra le domestiche, sono decine. Questo contribuisce a tenere “basso il costo del lavoro”. Diversa la situazione nel settore pubblico, con trattamenti di livello europeo. Il salario minimo è di 5300 rial, pari a 1300 euro, mentre per gli stranieri è di 2500, circa 600 euro. Gli occidentali con alte qualifiche, tecnici, ingegneri, manager o giornalisti nelle testate anglofone, possono avere invece paghe superiori a quelle in Europa. La modernizzazione ha però comportato anche l’introduzione delle tasse, prima inesistenti. L’Iva al 15% è stata imposta su quasi tutti i prodotti e il sussidio di 270 dollari al mese per la casa abolito. Più che di The Line è di questo che discutono i sauditi, anche su social sempre più controllati e censurati. Mali. “Infibulazione e discriminazioni: le donne sono vittime e non lo sanno” di Martina Santamaria L’Espresso, 31 gennaio 2021 Salimata Traoré ha solo 21 anni ma si batte con forza per l’emancipazione femminile. Che nel suo Paese è solo all’inizio. E della democrazia dice: “Per i giovani è un dovere prima che un diritto”. Parla la giovane scrittrice africana. La scrittura a volte è l’unico mezzo utile per far luce su questioni altrimenti impronunciabili. Soprattutto per chi vuole provare a cambiare il corso della storia. Come Salimata Traoré, 21 anni e una battaglia quotidiana tra femminismo e attivismo. Nei suoi libri denuncia quello che il Mali non vuole far sapere: lo strapotere degli anziani, la precarietà dei giovani e un sistema patriarcale che condanna le donne a matrimoni forzati e mutilazioni genitali. Con la sua associazione vuole rendere l’istruzione gratuita per chi non può permettersela, perché “La libertà nasce dalla consapevolezza”. Per chi combatti la tua lotta culturale e ideologica? Mi sento molto coinvolta nella causa di donne e giovani. Sono le categorie sociali più discriminate, e non solo nel mio Paese. Io, giovane donna, sento di esserlo doppiamente. La mia battaglia la porto avanti con la scrittura, cercando di sollevare temi scomodi e informare. È l’unico modo che abbiamo per fare in modo che ci sia sempre più consapevolezza e quindi sempre più azione. Cosa significa essere una donna nel Mali? C’è una frase del mio libro “Notre Combat de tous les jours” che dice: “Siamo ragazze, madri, mogli, ma soprattutto lottiamo per essere noi stesse!” È questo quello che sentiamo. Certo, le donne maliane sono sempre più istruite e in carriera: sono dirigenti, ministre, imprenditrici. C’è chi decide di lasciare un matrimonio infelice, preferendo salvarsi la pelle piuttosto che salvare la reputazione della famiglia, e chi, come me, osa denunciare le ingiustizie e gli abusi. Ma siamo ancora molto lontani dal concetto di giustizia. La società crede che siamo destinate semplicemente a soffrire, obbedire e accettare e stenta a riconoscere per davvero che abbiamo voce in capitolo o che abbiamo diritto ad averla. In Mali una ragazza sin dall’infanzia viene preparata al matrimonio. Le viene fatto capire che essere una buona moglie è una priorità, molto più di ogni sua ambizione. È ora di cambiare mentalità, affinché tutte abbiano la possibilità di scegliere. Devono poter decidere se andare a lavorare o restare a casa, se sposarsi, rimanere single o anche divorziare quando le cose vanno male. Ma abbiamo bisogno che anche i padri e i mariti ci sostengano in questa lotta, prestando attenzione all’educazione delle loro figlie e camminando accanto alle loro mogli. Le questioni che affronti nei tuoi libri sono ancora dei tabù. Il Mali, ad esempio, è tra i paesi in cui le mutilazioni genitali femminili registrano i maggiori tassi di incidenza. La pratica dell’infibulazione è ancora una delle piaghe più aberranti nel mio Paese. Secondo le stime di “Jeune Afrique” la pratica colpisce il 91% delle donne maliane tra i 15 e i 45 anni. Nel 2020 il Sudan ha vietato le mutilazioni genitali femminili. Da noi, invece, non esiste alcuna legge a riguardo. Se solo il Mali potesse imparare dal Sudan! Le conseguenze sono incalcolabili, sia per la vita sessuale delle vittime sia per il loro benessere psico-fisico sia per l’eventuale nascita di un figlio. I rischi anche: sanguinamento, infezioni, HIV, spesso la morte. Se le MGF sono ancora una pratica profondamente radicata nella nostra tradizione è anche a causa della scarsa consapevolezza che se ne ha. Cosa si può fare? A mio avviso, va benissimo organizzare conferenze contro le mutilazioni genitali; però, una donna non istruita che vive in un quartiere svantaggiato parteciperà a manifestazioni di questo genere, quasi sempre tenute in francese? Capirà qualcosa? E se manca un’informazione adeguata, la maggior parte continuerà a ignorare i rischi, a non denunciare e a credere, al contrario, che l’escissione sia un bene per le ragazze e per la loro identità sociale. Dobbiamo darci da fare per promuovere l’informazione sul campo, nella lingua locale. Altrimenti le donne resteranno vittime inconsapevoli di una barbarie non necessaria e gli uomini, d’altra parte, continueranno a ignorare la nostra battaglia, invece di sostenerla. Poi ci sono i giovani. La tua associazione Leaders du Mali de Demain è pensata per loro, che hanno bisogno di formazione e informazione. Quanto contano davvero questi due strumenti nel Mali? Nelson Mandela ha detto che “L’istruzione è l’arma più potente che può essere usata per cambiare il mondo”, e di questo sono convinta. Io personalmente devo ringraziare i miei genitori per aver considerato la mia educazione una priorità. E se oggi ho il coraggio di intervenire per difendere i principi in cui credo lo devo a questo. Per me ogni cosa, anche il coraggio, parte dall’istruzione. In Mali, però, non tutti sono così fortunati: da una parte ci sono i più piccoli - che non sempre i genitori possono o vogliono avviare agli studi - dall’altra coloro che vorrebbero raggiungere i livelli più alti della loro formazione, ma non ne hanno i mezzi. È per questo che ho fondato Leaders du Mali de Demain, per ampliare le modalità e le possibilità di accesso ai corsi, dato che sul sistema educativo maliano non possiamo contare. In generale poi noi giovani maliani dobbiamo sottostare a un sistema politico in cui gli organi decisionali sono nelle mani degli anziani. Non c’è spazio per noi. Il 2020 per il Mali è stato un anno di sconvolgimenti politici. A che punto siete sulla strada verso il cambiamento? Il 2020 è stato un anno molto duro. A marzo le elezioni legislative, poi le manifestazioni, poi il colpo di stato militare. Dopo il marzo 1991, i maliani non erano mai stati così determinati e motivati ??a rovesciare un capo di Stato, il suo governo e il parlamento. Hanno unito le forze come non accadeva da anni. La politica del Mali ha ancora molta strada da fare; le sue priorità ora sono da cercare oltre i litigi e le controversie che ci circondano. La sfida da raccogliere è il successo della transizione politica in vista del nuovo governo e soprattutto la valorizzazione dei punti essenziali per lo sviluppo del Paese: sicurezza, salute e istruzione. La morte di Soumaila Cissé (leader del partito dell’opposizione, prigioniero di militanti islamisti, liberato a ottobre insieme agli italiani Pierluigi Maccalli e Nicola Chiacchio, ndr), invece, è stata uno shock; ha sconvolto la scena politica, ma anche l’esito delle imminenti elezioni, quando finalmente Cissé sarebbe potuto diventare Presidente. Il 2020 si è portato via anche due ex presidenti, Amadou Toumani Touré e Moussa Traoré. All’improvviso, citando Amadou Hampâté Ba (scrittore e filosofo maliano ndr.), tre grandi “biblioteche” sono andate a fuoco. Quale futuro vedi per il tuo Paese? Il Mali di un tempo era uno degli imperi più potenti e ricchi in Africa, per risorse, cultura e diversità. Sono sicura che, attraverso una nuova generazione ben coinvolta e istruita, presto torneremo ad avere uno Stato migliore di quello di oggi, forse anche migliore di quello di un tempo. Un futuro positivo, prospero e sviluppato, in un’Africa emergente. Ed è con questo ottimismo che vedo il futuro. Ma sta a me e ai miei coetanei renderlo possibile, moltiplicando le azioni attraverso associazioni o movimenti politici. Come ho detto nel mio primo libro, “Pensée d’une Jeune Africaine”: “Con amore e volontà, ti costruiremo”.