Pena di morte e pena perpetua: e il senso di umanità? di Davide Galliani* Giustizia Insieme, 30 gennaio 2021 La vita e le opere di Primo Levi parlano molto a chi si occupa delle massime pene. Un solo esempio. Scrive Primo Levi: al pari della felicità perfetta, anche la infelicità perfetta non è realizzabile; questi due stati-limite non sono realizzabili perché la condizione umana è “nemica di ogni infinito”. Ha ragione Primo Levi. Infinitezza e perpetuità implicano l’assenza di limite, sono estranee alla condizione umana. Viene in mente chi si dichiarava contro l’ergastolo, la pena perpetua, perché incapace di immaginarsela. La pena perpetua, infinita, sta fuori dalla immaginazione dell’uomo, sta fuori dalla condizione umana, è inumana: se non possiamo immaginarci una cosa è perché quella cosa sta fuori dal nostro essere umani. Facciamo una radicale traduzione giuridica. Approvata la Costituzione, si era riusciti a definire con una qualche precisione il perimetro del divieto dei trattamenti contrari al senso di umanità: vietate le frustate, vietata (anzi punita) ogni violenza fisica. Non era molto, ma per i tempi era il massimo, essendo la mente, rispetto al corpo, ancora misteriosa. Franco Basaglia non aveva neppure ottenuto la libera docenza. Grosso modo con la svolta culturale del 1968, anche la rieducazione, il secondo corno dell’art. 27 Cost., ha iniziato a prendere forma. Da lì è stata una escalation, fino alla (giustissima) affermazione della Consulta, oramai del 1990: la rieducazione non può essere schiacciata da alcuna altra funzione della pena. È anche successo che la stessa Consulta abbia chiaramente affermato che senso di umanità e rieducazione non possono essere disgiunti, al contrario formano un tutto unico. Tuttavia, ed è questo il punto, la rieducazione si è presa il palcoscenico, mentre il senso di umanità è rimasto, per quanto più o meno contornato, al divieto delle frustate. Il senso di umanità ha mantenuto un più o meno preciso perimetro, ma lo spazio al suo interno non si è ingrandito, al contrario di quanto accaduto alla rieducazione, che ha attratto tutte le nostre attenzioni. Si pensi alle manette e alle gabbie in aula, ai blindati in carcere. Quale la tesi, quindi? Se vogliamo contestare la pena perpetua dobbiamo tornare a parlare di senso di umanità. Non ci siamo riusciti con la rieducazione, e dubito ci riusciremo. Del resto, contestare l’ergastolo ostativo significa (piaccia o meno) contestare anche l’ergastolo tout court. Ecco che, se non entriamo nel perimetro del senso di umanità, per restare dentro a quello della rieducazione, abbiamo già finito la battaglia. Voglio dire che le potenzialità offerte dal senso di umanità, per contestare la pena perpetua, devono essere approfondite. Peraltro, dato che la Consulta oramai legge quasi sempre il III comma dell’art. 27 Cost. insieme all’art. 3 Cost., avremmo anche un notevole guadagno. La pena perpetua, in quanto tale, in quanto perpetua, infinita, è contraria al senso di umanità perché non permette alcuna retribuzione medievale, nessuna eguaglianza costituzionale, zero proporzionalità giurisprudenziale. Infrange insieme il senso di umanità e la eguaglianza-proporzionalità: non tratta un uomo al pari di un uomo, ma ragiona con il sono tutti uguali. Un premeditato omicidio aggravato merita quanto dieci omicidi. La pena è uguale per tutti, perpetua, infinita. Può un giudice calibrare, parametrare, ragionare sul singolo fatto, sul singolo uomo? No, lo tratta come tutti gli altri, a disparità di fatto-concreto. Capisco che si possa dire: ma così la pena perpetua è anche contro la rieducazione, perché non può essere compresa come pena giusta, essendo identica a quella di chi ha commesso un fatto-reato diverso. Infrange la colpevolezza, e per questa via anche la responsabilità penale personale, se è vero (ed è vero) che anche il legislatore, e non solo i giudici e l’amministrazione, deve rispettare la rieducazione. Questo è vero, però si tenga in considerazione un ulteriore argomento. La rieducazione non esiste in tutte le Costituzioni del mondo, anzi. Noi siamo una (bella) eccezione. Mentre in tutte le Costituzioni del mondo esiste il divieto di trattamenti inumani (grosso modo, il cruel inglese). E la stessa Convenzione europea dei diritti umani, al pari del Trattato UE, utilizza l’inumano, non la rieducazione. Parlare di senso di umanità piuttosto che di rieducazione ci universalizza, ci sprovincializza. I rischi sono fortissimi, sbagliato negarli, inutile sottacere che dopo Auschwitz l’uomo rappresenta la più grave minaccia per sé stesso. Ma il rischio soggettivo di comprendere cosa sia il senso di umanità è bilanciato dal privilegio oggettivo del principio di eguaglianza. In fondo, non sono scindibili: non esiste un uomo fisso, non esiste un uomo eguale ad un altro. Il senso di umanità e l’eguaglianza insieme sono uno scudo, forgiano il limite, rappresentano la barriera più forte contro l’infinitezza, la perpetuità, che alimentano l’egoismo smisurato che oggi prevale ovunque, come se esistessero tanti padri eterni quanti padri in terra. Per venire alla pena capitale, la questione è conseguente. Non basta essere contro, per l’errore giudiziario o per principio (il quinto comandamento). Non basta: è pieno il mondo di politici democratici che combattono la pena capitale sostenendo che non bisogna uccidere perché la persona può essere (anzi deve essere) lasciata marcire in galera. Una posizione attraente: intanto ti salvo la vita, poi vediamo cosa succede. Ma faccio presente che poi vediamo che succede è tanto crudele e inumano quanto giustiziare subito una persona appena condannata a morte. Non vi sono alternative: chi è contro la pena capitale ma a favore della pena perpetua deve spiegare a sé stesso e poi a noi cosa è più inumano. Si dirà: il marcire in galera non va bene, sono favorevole alla pena perpetua con la possibilità un giorno di tornare in società. Chi dice questo abbia almeno la cortesia, per non infrangere l’ottavo comandamento, di andare un giorno nella sua vita in un carcere, il luogo che dovrebbe preparare il ritorno in società. Ammetto la replica: ma, con un carcere diverso, se una persona è sempre pericolosa non può tornare in società. Qui dobbiamo gettare la spugna. Siamo dentro ad un argomento divino, non umano. Se fosse umano mediterebbe che l’infinito non appartiene a ciò che noi (umani) possiamo immaginare, nemici come siamo di ogni infinità. *Intervento al Consiglio direttivo di Nessuno Tocchi Caino del 30 gennaio 2021 Per Bonafede emergenza sanitaria e sovraffollamento sotto controllo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 gennaio 2021 Una semplice radiografia tecnica per quanto riguarda il sistema penitenziario. Nessun accenno ai 13 detenuti morti a seguito delle rivolte, niente per quanto riguarda il problema sovraffollamento, tranne che citare le misure deflattive in merito alla pandemia. Nulla per quanto riguarda tutte le problematiche irrisolte che riguardano le patrie galere. Parliamo della relazione sullo stato della giustizia dell’anno 2020 del ministro Alfonso Bonafede. Senza nemmeno citare l’oggettiva difficoltà nella gestione dell’emergenza sanitaria in carcere (ad esempio Il Dubbio ha parlato del caso Tolmezzo dove sono partiti gli esposti), nella relazione leggiamo che “fin dai primi giorni della pandemia, l’amministrazione si è data l’obiettivo prioritario di evitare la diffusione del contagio tra coloro che lavorano e vivono all’interno degli istituti penitenziari. Oltre a fornire i dispositivi di protezione, l’Amministrazione penitenziaria si è concentrata sui principali fattori di penetrabilità del contagio negli istituti. Si è optato per i colloqui dei detenuti con modalità “a distanza”, si sono costruite tensostrutture per il triage dei detenuti in entrata”. Si cita il “decreto Cura Italia” (d. l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge il 24 aprile 2020) nel quale sono state introdotte le disposizioni in materia di detenzione domiciliare, licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà. Successivamente, a seguito della seconda ondata ricorda l’emanazione del decreto ristori che, mettendo alcuni paletti in più, introduce nuovamente le misure deflattive precedenti. Proseguendo, la relazione sull’anno giudiziario rende noto il Programma Nazionale per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid19 negli Istituti penitenziari, finanziato dalla Cassa delle Ammende, nello scorso aprile, con 5 milioni di euro, per favorire l’inclusione di 1.046 detenuti nei programmi di trattamento extra-murario. Il programma (che coinvolge le Regioni, i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione penitenziaria, gli Uffici Inter- distrettuali dell’esecuzione penale esterna e i Centri per la giustizia minorile) sta vivendo una fase di rilancio, anche in virtù dell’impulso del Procuratore generale della Corte di Cassazione. Ricorda anche che, “l’ultima legge di Bilancio ha poi destinato 4,5 milioni di euro alle case- famiglia protette, al fine di fronteggiare il fenomeno la presenza di bambini in carcere al seguito di genitori detenuti”. La relazione, però, sottolinea che la pandemia ha inciso molto sulle attività relative all’esecuzione penale esterna. Infatti, “al 31 dicembre 2019 - si legge nella relazione - i soggetti in carico per misure erano 60.372, mentre al 31 ottobre del 2020, il loro numero è pari a 57.991. Alla stessa data dell’anno precedente era invece pari a 60.184”. La relazione annuale rende noto che per rafforzare questo settore, si è ottenuto nell’ultima legge di Bilancio, “uno stanziamento per l’assunzione di 80 unità di personale presso il Dipartimento della giustizia minorile e di comunità”. Ma il sovraffollamento c’è. La soluzione? Nessun accenno all’ampliamento delle misure alternative, anche perché effettivamente non è rientrato nel programma del governo, ma stanziamento per l’edilizia carceraria. “Sino al 31 dicembre 2022 - ricorda la relazione - le nuove funzioni in tema di progettazione, gestione delle procedure di affidamento e delle procedure di formazione dei contratti, nonché di individuazione di immobili dismessi e idonei alla riconversione, sono assegnate al personale tecnico del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Comunque parliamo di soldi. Infatti, rende noto il ministro attraverso la relazione, sono stati previsti interventi straordinari per il potenziamento infrastrutturale delle articolazioni penitenziarie del ministero della Giustizia per un importo complessivo di 80 milioni di euro, così ripartiti: 25 milioni di euro per l’anno 2021; 15 milioni di euro per l’anno 2022; 10 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2023 al 2026. La relazione ri-corda anche che, in collabora-zione del ministero della Difesa, sono a “caccia” di caserme dismesse per convertile in car-ceri. Ne hanno individuate già tre: la Caserma “Bixio” di Casale Monferrato, la Caserma “Battisti” di Napoli e la Caserma “Barbetti” di Grosseto. Quindi non puntare sul carcere come extrema ratio, ma come unico contenitore di tutto ciò che la società libera non è riuscita a far fronte. Non rimane, quindi, che costruirne altre o convertire - come accadde nel 800 per i monasteri - edifici usati per ben altri scopi. Solo il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, durante la sua relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, dopo aver ricordato il problema delle strutture penitenziario, ha ricordato l’inadeguatezza generale delle nostre carceri. In generale ricorda che la pandemia ha fatto affiorare le fragilità del nostro sistema e quindi di ripensarlo, partecipando, quindi - ha sottolineato il presidente Curzio - “alla costruzione di un qualcosa che ancora non c’è”. Coronavirus: il Cdm proroga fino al 30 aprile le misure su licenze e permessi ai detenuti adnkronos.it, 30 gennaio 2021 “In considerazione del protrarsi dell’emergenza sanitaria e allo scopo di contenerne le conseguenze in ambito carcerario, il testo proroga, dal 31 gennaio al 30 aprile 2021, le disposizioni del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, che consentono la concessione, ai condannati ammessi al regime di semilibertà, di licenze premio di durata straordinaria, il riconoscimento, a specifiche categorie di condannati, di permessi premio di durata eccedente quella ordinaria e, infine, un più agevole accesso alla detenzione domiciliare ai condannati con un limitato residuo di pena da espiare”. Lo si apprende dalla nota di Palazzo Chigi diramata dopo il Cdm che si è tenuto in tarda mattinata. Mirabelli (Pd). Bene la proroga delle misure contro il sovraffollamento - “È molto importante che il Governo, nel Consiglio dei Ministri di stamattina, abbia prorogato al 30 aprile le misure, già previste nei precedenti provvedimenti presi durante l’emergenza Covid, per gestire al meglio e alleggerire il sovraffollamento nelle carceri. Aver confermato queste misure, che riguardano permessi, licenze e semilibertà, aiuterà a tenere sotto controllo la pandemia negli istituti penitenziari assicurando a chi è in carcere di scontare la pena con dignità e in sicurezza sanitaria e a chi vi lavora le giuste garanzie contro il Covid. Con queste misure evitiamo, infatti, che alcune migliaia di detenuti, che già godono di misure cautelari più leggere, debbano rientrare in carcere con il rischio di sovraffollare ulteriormente gli istituti penitenziari che già soffrono una situazione difficile. La proroga di queste misure mi sembra, quindi, una scelta di civiltà e di buon senso”. Lo afferma il Senatore Franco Mirabelli, Vicepresidente del Gruppo Pd al Senato. Fateli uscire! di Valerio Renzi fanpage.it, 30 gennaio 2021 Dopo le rivolte di marzo - con 13 detenuti morti a seguito delle proteste e la repressione nel carcere di Modena - nulla o quasi è cambiato nei penitenziari italiani. Ieri è stato reso noto la positività al Covid-19 nel carcere romano di Rebibbia, che dimostra come colpevolmente troppo poco si è fatto per svuotare le celle sovraffollate in questi mesi. Nel carcere romano ci sono 110 detenuti positivi al Coronavirus. Nel carcere maschile - tra vecchio e Nuovo complesso - risultavano detenuti al 31 dicembre 2020 1796 detenuti su 1466 posti effettivamente disponibile, con un sovraffollamento di 33o persone in più nelle celle. Incredibilmente alla stessa data l’Istituto a Custodia Attenuata Terza Casa è pieno esattamente a metà, con 81 posti occupati su 162. Il Garante dei Detenuti della Regione Lazio Stefano Anastasia ieri ha lanciato l’allarme, che riguarda in particolare modo il Nuovo complesso dove si trova concentrata la maggior parte della popolazione carceraria ed è il settore più affollato del penitenziario. Lo scorso lunedì i detenuti positivi erano 51, i numeri del contagio potrebbero dunque peggiorare ulteriormente trasformando il penitenziario in un enorme cluster. Checché ne dicano in diversi, i penitenziari non sono il luogo più sicuro dove trovarsi durante l’attuale pandemia, e il garante sottolinea come le “carceri sono luoghi a rischio per la diffusione della pandemia”. Come potrebbero esserlo luoghi dove si vive affastellati, uno addosso all’altro, insalubri e dove la popolazione malata o con problemi sanitari?. “Le loro condizioni igieniche e di sovraffollamento, unite alle condizioni di salute dei detenuti, ne fanno ambienti in cui il virus ha grande facilità di diffusione, nonostante gli sforzi profusi dal personale sanitario e penitenziario e dalla sempre maggiore consapevolezza dei detenuti sulle misure di prevenzione individuali da adottare”, spiega Anastasia. Per questo “servono iniziative e disposizioni immediate, a partire dalla scarcerazione di tutti coloro che possano beneficiare di alternative al carcere e dei detenuti in attesa di giudizio per reati non violenti, in modo che si possa gestire nel migliore dei modi l’isolamento, il monitoraggio e l’assistenza di chi contrae il virus in carcere”. Il commissario Domenico Arcuri ha sottolineato solo qualche giorno fa la necessità di vaccinare con priorità la popolazione carceraria, e la Regione Lazio ha approvato un ordine del giorno per procedere con la vaccinazione dei detenuti dopo quella degli over 80. Per ora c’è l’impegno politico, mancano le disposizioni nella programmazione, ma potrebbe volerci del tempo forse troppo tempo a guardare quello che sta accadendo a Rebibbia. Se il Covid è un’occasione di ripensare la nostra società, può essere anche l’occasione per cominciare a ripensare quel buco nero dei diritti e delle tutele che è il sistema penitenziario, cominciando dall’applicazione delle pene alternative e uscendo da una cultura penale che ha al centro la detenzione. La possibilità di un’amnistia, con il parlamento più giustizialista della storia, sembra davvero remota, ma il fatto che non si stia agendo neanche con gli strumenti a disposizione è un fatto grave: evidentemente la salute di persone la cui tutela è in teoria nelle mani dello Stato vale meno di quella degli altri cittadini. Questo nonostante le promesse di un uso massiccio dei domiciliari e delle pene alternative, oltre che alla possibilità di far uscire dalle celle chi sta è ormai prossimo alla fine della pena. Ora sta a tutti, e non solo agli addetti ai lavori, non girarsi dall’altra: perché quella del carcere è sempre presentata come una questione marginale nel dibattito pubblico, ma è invece centrale per la qualità di una democrazia. Fateli uscire ora: perché le condizioni in carcere già sono inumane e tutt’altro che riabilitanti normalmente, in questa situazione poi è un accanimento che assomiglia a una condanna in contumacia. Il pm Davigo: “Il sovraffollamento delle carceri è un falso mito” liberta.it, 30 gennaio 2021 “Il nostro Paese è poco serio. Le pene riportate nel codice penale sono minacce del legislatore, che spesso non diventano realtà. Eppure, in Italia non si fa una riforma della giustizia per evitare di toccare interessi potenti”. Immancabilmente critico e pungente nei confronti della politica, il magistrato Piercamillo Davigo è stato l’ospite del primo incontro online organizzato dal caffè letterario del Liceo Gioia di Piacenza. In collegamento a distanza, la celebre “toga” si è confrontata con gli studenti di viale Risorgimento, ripercorrendo alcuni passaggi cruciali della sua carriera e - soprattutto - della storia italiana. Nato in provincia di Pavia nel 1950, Davigo è stato sostituto procuratore a Milano a partire dal 1981, finendo poi sotto i riflettori della cronaca per aver fatto parte del famoso pool di “Mani pulite” che scoperchiò il sistema tangentizio della politica e fece crollare la Prima repubblica. “Entrai in magistratura nel 1978, l’anno del sequestro di Aldo Moro. Sembrava che lo Stato non ci fosse più - ha ricordato il magistrato a riposo - la politica era incapace di fronteggiare il terrorismo”. Davigo, poi, ha definito un “falso mito” il sovraffollamento delle carceri: “Le nostre case circondariali non sono sovrappopolate. In Europa, in media, i detenuti hanno quattro metri quadrati a testa, mentre nelle celle italiane si prevede uno spazio di nove metri quadrati per il primo recluso e cinque metri quadrati agli altri. Ecco spiegato il problema”. Al via l’anno giudiziario in tempi di pandemia. In Cassazione sfila la “giustizia che non c’è” di Liana Milella La Repubblica, 30 gennaio 2021 Nella grande aula del Palazzaccio da 350 posti solo 32 presenti. Da Bonafede un intervento tecnico. Il presidente Curzio cita Draghi e lancia l’allarme sui giovani e la scuola. Dal pg Salvi la preoccupazione per i femminicidi. Protagonista silenzioso il caso Palamara con le azioni disciplinari. Il vice presidente del Csm Ermini invita le toghe a “superare le correnti”. Il Covid, ovviamente. E i fondi del Recovery. E i processi civili e penali a rilento. I giovani e la scuola. Un Guardasigilli, Bonafede, dimezzato dalla crisi di governo. La sua relazione è solo tecnica, niente politica. Ma i vertici delle toghe italiane non fanno sconti alla politica. Non nascondono nulla, né i reati, quelli gravissimi contro le donne, né la crisi della stessa magistratura per via del correntismo. In Cassazione, per la tradizionale cerimonia d’apertura dell’anno giudiziario, sfilano gli ermellini in toga rossa. Consegnano, davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, seduto come sempre in prima fila, la fotografia di una giustizia a rilento, che però proprio dal Covid potrebbe rinascere diversa, digitale anziché cartacea. Nella grande aula della Cassazione da 350 posti ci sono solo 32 presenti. Il - da sempre - grande evento della giustizia italiana si auto comprime. Per la prima volta nessun giornalista guarda la cerimonia dal doppio ballatoio che sovrasta la sala. Tutte online le relazioni, e la diretta video trasmessa dalla Rai. Protagoniste sembrano le mascherine. Il primo presidente della Suprema Corte Pietro Curzio, al suo primo anno giudiziario, riassume in un’immagine il senso della giustizia. Un bozzetto apre la sua relazione. Rappresenta il processo a Verre, “imputato di gravi concussioni e peculato in danno della Sicilia di cui per tre anni era stato governatore, un giudizio in cui l’accusa fu sostenuta da un ancor giovane Cicerone e la difesa da Ortensio, all’epoca principe del Foro romano”. Ma, come spiega Curzio, l’affresco per il quale era stato stilato il bozzetto non è stato mai realizzato. Tant’è che “la parete qui alla mia destra è rimasta bianca. È l’affresco che non c’è?”. Quel bozzetto rappresenta anche lo stato della giustizia in Italia, perché il Covid, dice Curzio, “ha comportato il sostanziale blocco per un certo periodo, una faticosa e difficile ripresa per la restante parte dell’anno e oggi ci pone dinanzi alla necessità di ripensare profondamente il sistema. Di partecipare alla costruzione di un qualcosa che ancora non c’è?”. Appunto, la giustizia dopo il Covid che ancora non c’è. Perché “la pandemia ha ulteriormente mostrato l’inadeguatezza del sistema, la gracilità e vetustà di molti suoi gangli, e pone in modo deciso la necessità di un cambiamento profondo e incisivo, prima di tutto culturale”. Curzio parla per primo, poi il Procuratore generale Giovanni Salvi, il vice presidente del Csm David Ermini, il Guardasigilli Alfonso Bonafede, e due donne protagoniste entrambe del mondo della giustizia, Gabriella Palmieri, al vertice dell’Avvocatura generale dello Stato e Maria Masi, presidente del Consiglio nazionale forense. Complessivamente una fotografia della giustizia in Italia che consegna un paese pressato dai reati (corruzione, mafia, omicidi delle donne), rallentato dalla pandemia, appeso ai fondi del Recovery, spaventato e dubbioso sul suo futuro politico. Nell’aula magna della Suprema corte risuona la citazione che Curzio fa di Mario Draghi, uno dei protagonisti silenziosi dell’attuale crisi di governo. “Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”. Curzio sottoscrive questa preoccupazione perché “il debito dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani”. Per questo non sono ammessi ritardi e “ciascuno nel rispetto delle proprie competenze e in adempimento dei propri doveri” dovrà fare del suo meglio. A partire dalla giustizia e dai suoi ritardi. Anche perché lo stop “a quella stanza di compensazione che è la scuola ha prodotto un silenzioso aumento dei maltrattamenti in famiglia verso minori e più in generale l’incremento di minori maltrattati o abbandonati”. Un ritardo che Curzio non minimizza. A partire dai numeri, perché “ogni anno sopravvengono in Cassazione più di 30mila ricorsi civili e 50mila penali. Un dato quantitativo unico nell’esperienza giuridica internazionale”. È necessaria “tempestività”, ma “i tempi del processo civile superano il livello di ragionevolezza; la qualità dei provvedimenti non sempre è all’altezza del ruolo della Corte; i contrasti, molto spesso inconsapevoli, sono diffusi e ricorrenti”. Ma qui s’instaura un “circolo vizioso” perché “quanto maggiore è il numero dei ricorsi, tanto maggiore è il numero dei giudici necessari alla Corte; quanto maggiore è il numero dei giudici, tanto maggiore è il rischio di decisioni non omogenee o contrastanti tra loro”. Sarà l’interrogativo del futuro. Per adesso Curzio non è pessimista sui suoi numeri quando dice: “Il terribile anno che ci siamo lasciati alle spalle ci ha visti impegnati fondamentalmente a limitare i danni e alla fine il bilancio è positivo. Grazie a un forte recupero nel secondo semestre, siamo riusciti a definire più di 30mila processi civili e nel penale siamo riusciti a conservare tempi di definizione dei giudizi inferiori ad un anno”. Il primo presidente boccia l’idea di ridurre il processo d’appello, chiede al governo di far partire il processo telematico anche per la Suprema Corte. Quando affronta il momento “travagliato” della magistratura, Curzio cita una frase di Rosario Livatino, il giovane magistrato giustiziato da Cosa nostra, quando scrive che “non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili”. E chiosa: “Forse il segreto è semplicemente, per ogni scelta che operiamo, di chiederci quanto siamo credibili”. Un messaggio che impatta con le durissime polemiche sul correntismo, sulle chat di Palamara. Sui retroscena che turbano lo stesso Csm in quello che si può considerare come l’anno nero delle toghe. Sulle quali però apre una nota positiva il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia quando contesta le ricostruzioni dell’ex pm e le definisce un “affresco” che “dileggia un’istituzione dello Stato, che reca un grave torto alla realtà, in cui i magistrati sono ancora e autenticamente un potere diffuso, non governabile e non orientabile da mediatori improvvisati”. Certo non parla di toghe corrotte il Guardasigilli Alfonso Bonafede, perché la crisi politica gli impone di limitarsi a considerazioni tecniche, proprio com’è già avvenuto in Parlamento. Parte dalla pandemia che “ha inciso fortemente anche sul settore della giustizia”. Bonafede esprime “la profonda gratitudine ai magistrati togati e onorari, avvocati, personale amministrativo, polizia penitenziaria che, con spirito di sacrificio, competenza e abnegazione, hanno permesso che la giustizia non si fermasse nemmeno nei momenti di maggiore difficoltà”. Poi vanta il calo dei detenuti, parla di “significativa diminuzione”, fornisce la cifra di chi sta in carcere a oggi, 52.369 persone. Dal Covid anche un fortissimo impulso alla digitalizzazione che potrebbe avere effetti positivi nel futuro, tant’è che il ministro cita l’uscita nella Gazzetta ufficiale della norma che consentirà dal 31 marzo il deposito telematico facoltativo con valore legale degli atti processuali e dei documenti presso le sezioni civili della Cassazione. Invece è proprio sul caso Palamara che arrivano input dal vice presidente del Csm David Ermini. Il suo invito è quello di superare le correnti, il correntismo, le raccomandazioni. E garantire chi chiede un posto solo con la sua faccia.” Perché, secondo lui, “vanno salvaguardate le giuste ragioni di quei magistrati che, senza spudoratezza di rapporti o appoggio di cordate correntizie e del tutto alieni da una pratica indecente quale la cosiddetta coltivazione della domanda, aspirano legittimamente al riconoscimento delle loro capacità e delle loro attitudini”. È una previsione realistica e praticabile ed Ermini la presenta così: “Occorre che ogni decisione sia preceduta da una congrua, preventiva istruttoria e sia corredata da una adeguata e approfondita motivazione; che le nomine agli uffici apicali siano prese nella rigorosa osservanza del metodo cronologico; che le assegnazioni di funzioni o l’attribuzione di incarichi che richiedono peculiari requisiti di idoneità siano precedute dalla sola, scrupolosa valutazione delle necessarie competenze tecniche, senza cedere alla tentazione di accordi preventivi volti alla ripartizione dei posti”. Quello che tutti gli italiani pensano che già si faccia, ma che evidentemente rappresenta una novità. E proprio sul caso Palamara il procuratore generale Giovanni Salvi parla di “reazione sanzionatoria pronta ed efficace”. Quelle 26 azioni disciplinari aperte in piazza Cavour, di cui 17 sono già a giudizio sul tavolo del Csm. E le altre su cui sta lavorando il suo team di procuratori che peraltro, a quanto trapela, hanno più volte sentito lo stesso Palamara. Ovviamente Salvi non minimizza quanto è accaduto e che adesso deve spingere la magistratura a “ricostruire la sua credibilità duramente scossa dalle indagini che hanno portato all’emersione di un sistema diffuso di asservimento del Csm a logiche di interessi di gruppo, e che ha consentito anche condotte di assoluta gravità alcune delle quali in precedenza mai verificatesi”. Ma Salvi ripete quanto ha detto più volte in questi due anni, e cioè che “l’auto raccomandazione è un meccanismo interno che esiste nella magistratura. Chi concorre a un posto vuole avere spesso un rapporto diretto con il consigliere del Csm”. E in questo Salvi non ravvisa, di per sé, una colpa. Ma è sul Covid e sui reati più diffusi in Italia che la relazione di Salvi offre molte novità. A partire dai femminicidi. Perché se calano gli omicidi volontari - 268 nel 2020 con un calo del 13,5% rispetto ai 315 del 2019 - gli assassini delle donne aumentano. Erano 132 nel 2017 su 375 omicidi, salgono a 141 nel 2018 sul totale di 359, sono 111 nel 2019 e 112 l’anno scorso. Quindi il 42% rispetto al totale. La pandemia ha portato Salvi a concentrarsi sia sull’uso dei processi da remoto, sia sull’effettiva necessità della permanenza in carcere, e sui detenuti, su quella che definisce “l’esclusione degli ultimi dai benefici a causa della loro marginalità sociale”. Salvi parla di “primi frutti, davvero positivi, così da far sperare che il distanziamento sia raggiunto senza ricorrere a rischiose scarcerazioni e che - passata la pandemia - coloro che hanno diritto a usufruire di misure alternative non debbano scontare due volte la pena, a causa della loro emarginazione sociale”. Effetto Covid all’Avvocatura dello Stato E c’è un effetto Covid anche per l’Avvocatura dello Stato, con i dati che fornisce la toga, al vertice da agosto 2019, Gabriella Palmieri Sandulli che può vantare il 60% di cause vinte tra tutte quelle che il suo ufficio ha affrontato nel 2020. “Gli effetti dell’emergenza sanitaria che ha caratterizzato gran parte dell’anno - dice Palmieri - si riverberano con evidenza anche da noi con una riduzione del numero di affari nuovi del 21% rispetto al dato del 2019, raggiungendo comunque la notevole cifra di 45.000 affari. Un effetto che si verifica anche nelle Avvocature distrettuali con un calo del 13 per cento”. E anche per i magistrati di via dei Portoghesi il Covid diventa l’occasione “per trasformare la situazione emergenziale in un fattore di accelerazione della digitalizzazione e della dematerializzazione degli atti”. Tant’è che, come dice Palmieri, “l’Avvocatura ha eseguito oltre 67mila depositi telematici nel civile, con un aumento percentuale pari al 30% rispetto al 2019”, mentre il numero delle notifiche di atti giudiziari via Pec “è salito alla cifra record di oltre 21mila”. Si apre l’anno giudiziario, Curzio: “Tribunali cadenti e carceri inadeguate” di Errico Novi Il Dubbio, 30 gennaio 2021 La relazione del primo presidente Pietro Curzio per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 nell’Aula Magna della Cassazione. “È importante il dialogo con l’Avvocatura, che concorre alla giurisdizione, anche di legittimità, svolgendo un ruolo fondamentale. Vi sono oggi le migliori condizioni per intensificare questo dialogo”. Il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio lo sottolinea nella sua relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, che quest’anno si svolge con una cerimonia “ristretta” nell’Aula Magna della Cassazione: 25 magistrati in toga rossa e una trentina di ospiti, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per rispettare il distanziamento necessario in questa fase di emergenza sanitaria. Presenti al Palazzaccio i presidenti di Senato e Camera, Elisabetta Casellati e Roberto Fico, il premier dimissionario Giuseppe Conte, il presidente della Corte Costituzionale Giancarlo Coraggio, oltre ai vertici delle forze armate, della magistratura amministrativa e contabile. Dopo la relazione del presidente Curzio, segue l’intervento del Guardasigilli Alfonso Bonafede, quelli del vicepresidente del Csm David Ermini e del procuratore generale della Suprema Corte Giovanni Salvi, e, a seguire, dell’avvocato generale dello Stato Gabriella Palmieri e del presidente facente funzioni del Consiglio nazionale forense, Maria Masi. “La pandemia ha ulteriormente mostrato l’inadeguatezza del sistema, la gracilità e vetustà di molti suoi gangli, e pone in modo deciso la necessità di un cambiamento profondo e incisivo, prima di tutto culturale”, comincia Curzio. Nel 2020, sottolinea, “l’amministrazione della giustizia è stata, come ogni settore della vita della nostra comunità, segnata dalla pandemia. Ciò ha comportato il sostanziale blocco dell’attività giudiziaria per un certo periodo, una faticosa e difficile ripresa per la restante parte dell’anno e oggi ci pone dinanzi alla necessità di ripensare profondamente il sistema. Di partecipare alla costruzione di un qualcosa che ancora non c’è”. “Di riforme del sistema giustizia e, al suo interno del giudizio di legittimità, ne sono state fatte molte negli ultimi anni, con un continuo, a volte turbinoso, susseguirsi di modifiche normative e organizzative, che a volte, invece di risolvere i problemi, hanno finito per complicarli”, sottolinea Curzio. “Da tempo - aggiunge - siamo consapevoli che un sistema giustizia adeguato alla complessità dei problemi costituisce un fattore insostituibile per la garanzia dei diritti e doveri dei cittadini, per la vita delle imprese e delle amministrazioni, per la ragionevole certezza dei rapporti economici, civili, sociali”. “Per fare fronte alla crisi si è scelto di impegnare risorse economiche in misura impensabile sino a un anno fa. Ma per ottenere dall’Europa i relativi finanziamenti è necessario tracciare un quadro di riforme, prima fra tutte della giustizia, che dia idonee garanzie di conseguire gli obiettivi prefissati”. In particolare, ricorda il presidente della Suprema Corte, su temi quali “digitalizzazione, semplificazione, nuove risorse umane e strumentali, ufficio del processo” vi sono “impegni precisi nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ci auguriamo che il 2021 sia l’anno della “svolta italiana” all’interno di una svolta europea, che il piano prospetta, e che il progetto si trasformi in un processo operativo articolato ed efficace”. “Il terribile anno che ci siamo lasciati alle spalle ci ha visti impegnati fondamentalmente a limitare i danni e alla fine il bilancio è positivo”, spiega il primo presidente. “Grazie ad un forte recupero nel secondo semestre - aggiunge - siamo riusciti a definire più di 30mila processi civili e nel penale siamo riusciti a conservare tempi di definizione dei giudizi inferiori ad un anno”. Edizilia giudiziaria - “La generalità degli uffici giudiziari presenta significative carenze strutturali, necessità di interventi di manutenzione straordinaria, anche per quello che riguarda gli impianti tecnici e di sicurezza, e una complessiva inadeguatezza degli spazi resa particolarmente evidente dalla necessità di adottare, a causa della pandemia, misure di distanziamento particolarmente incisive nell’accesso agli uffici e nella permanenza all’interno di essi di professionisti e utenti”, sottolinea il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, nella sua relazione per l’anno giudiziario, affrontando il tema dell’edilizia penitenziaria e delle strutture dell’esecuzione penale esterna che “mostrano da anni gravi deficit di capienza e una significativa vetustà degli edifici che hanno determinato l’ormai endemica problematica del sovraffollamento carcerario, cui consegue un significativo contenzioso nel settore risarcitorio e situazioni di grave crisi, sfociate, durante la fase più virulenta della pandemia, anche in tumulti e rivolte, nonché una diffusa difficoltà di gestione”. Al Governo deve essere rivolta la richiesta di proseguire il potenziamento del personale amministrativo della Corte, che ha bisogno urgente di nuove acquisizioni tanto sul piano numerico che delle competenze professionali”, dice Curzio affermando che “la pandemia ci ha posto il problema di ricorrere al lavoro agile, ma le difficoltà sono state molteplici per la mancanza di accesso al sistema da luoghi diversi dall’ufficio. Questi problemi devono essere risolti, predisponendo meccanismi che consentano di passare con fluidità da una modalità all’altra di lavoro quando ciò si renda necessario o utile per il buon andamento dell’amministrazione”. In prospettiva, secondo Curzio, “l’organizzazione della Corte dovrebbe essere modificata puntando più che sull’aumento del numero dei magistrati, sul rafforzamento delle strutture di supporto al loro lavoro, mediante la costituzione di un ufficio composto da giovani giuristi cui affidare compiti preparatori di studio dei fascicoli e di ricerca giurisprudenziale e dottrinale, volti a costituire la base delle decisioni. È questo l’assetto organizzativo di altre Corti supreme, che dovremmo importare nel nostro sistema”. Caso procure: “Credibilità magistratura appannata, no a degenerazioni correntizie” - “Gli ultimi anni sono stati difficili per il Csm e per l’associazionismo giudiziario. La magistratura italiana ha le risorse per superare questo periodo travagliato, anche se non è facile. Bisogna avere l’umiltà di ascoltare ciò che ci hanno insegnato i migliori tra noi”, si legge nella relazione di Curzio, che cita Rosario Livatino, il quale “lasciò scritto nel suo diario di uomo di fede “non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili”. Forse il segreto - osserva Curzio - è semplicemente, per ogni scelta che operiamo, di chiederci quanto siamo credibili”. “La cultura del dialogo e la ricerca di soluzioni condivise creano un metodo di confronto capace di plasmare l’attività del magistrato all’ascolto e al rispetto delle opinioni diverse. Di questo si ha una prova evidente nella vita degli uffici giudiziari, là dove l’impegno della magistratura associata è capace di aiutare a superare i momenti di puro individualismo, sempre presenti, per ricercare soluzioni organizzative discusse e partecipate. Di questo si ha oggi più che mai bisogno, in una fase in cui la credibilità della magistratura e dei suoi organismi è fortemente appannata, al punto da consentire dubbi sul suo assetto voluto dalla Costituzione”, si legge nella Relazione. “Il profondo e inscindibile legame che unisce lo Stato di diritto alla libertà di associazione dei magistrati deve però far riflettere attentamente i magistrati e le loro associazioni sulla responsabilità che assumono nel momento in cui esercitano tale libertà - aggiunge Curzio - Essa rappresenta un bene prezioso per la crescita culturale per l’attuazione dello Stato democratico e non tollera deviazioni verso logiche corporative e autoreferenziali, né, tantomeno, inquinamenti, forme di degenerazione correntizia, collegamenti con centri di potere”. Violenza sulle donne: crescono maltrattamenti e stalking - “Se per un verso non si segnalano particolari disfunzioni derivanti dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere introdotte dalla legge numero 69 del 2019, il cosiddetto “Codice Rosso”, dall’altro, si registra un incremento dei reati spia, quali i maltrattamenti in famiglia, lo stalking e le altre violenze ai danni delle donne”, sottolinea Curzio. “Viene da più parti segnalato l’incremento delle denunce di violenze da parte di donne straniere - prosegue - ritenuto indice della crescente integrazione sociale cui consegue un’accresciuta consapevolezza da parte delle vittime della possibilità di ottenere tutela e di affrancarsi da pratiche e costumi dei paesi di origine”. Inaugurazione Anno giudiziario. Il pg Salvi dice basta ai pm showman di Simona Musco Il Dubbio, 30 gennaio 2021 Inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale della Cassazione: “Discrasia tra clamore mediatico e fasi successive. No alla ricerca del consenso”. “L’anno della pandemia ha visto gli uffici del pubblico ministero nell’intero territorio nazionale impegnati a svolgere responsabilmente il loro fondamentale ruolo. Non sempre al clamore delle indagini e degli arresti ha però corrisposto pienamente la conferma nelle fasi successive. Questa discrasia, quando significativa, dovrà essere oggetto di attenta analisi in sede di ricerca dell’uniformità nell’esercizio dell’azione penale e quindi anche nelle indagini preliminari”. Quello che il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi dedica alle inchieste spettacolo è solo un piccolissimo passaggio. Ma rimane comunque potentissimo, a fronte di una relazione di oltre 300 pagine che analizza un anno complicatissimo per la giustizia, devastata dal Covid e costretta a fare i conti con nuovi strumenti per non rischiare l’empasse. Il passaggio è delicato e tocca la questione della presunzione di innocenza, spesso dimenticata e sostituita con una condanna mediatica a priori, spesso irreversibile, anche dopo le assoluzioni pronunciate nei luoghi deputati al processo. Ed è forte la critica pronunciata da Salvi, nel corso del suo intervento in Cassazione, all’eccesso di protagonismo, alla ricerca smodata di consenso, all’uso del processo penale come risposta alle pulsioni della pubblica opinione e non come applicazione delle norme. “È ricorrente la polemica circa dichiarazioni rese dai magistrati del pubblico ministero. La moderazione nelle dichiarazioni, resa necessaria dalla precarietà dell’accertamento non ancora sottoposto alla piena verifica del contraddittorio, è manifestazione della professionalità del capo dell’ufficio - ha dichiarato il procuratore generale -. La comunicazione nei toni misurati e consapevoli deve essere tale da evitare anche solo il sospetto che non la fiducia della pubblica opinione sia cercata ma il suo consenso. Questa sarebbe la fine dell’indipendenza del pubblico ministero”. Ma non solo: affidare al diritto penale “l’orientamento valoriale di un aggregato sociale” vuol dire snaturarlo, portando “rischi preoccupanti”. Così facendo, infatti, “si esigerebbe dalla giurisdizione che le sentenze dei giudici non applichino solo norme, ma veicolino contenuti ritenuti giusti e tali non perché ricavati dalla Carta fondamentale, ma dal sentimento, dalle passioni, dalle emozioni dei cittadini”. E ciò, ha avvisato Salvi, porterebbe le politiche pubbliche a non affrontare i fenomeni criminali sulla base della loro natura, spostandosi soltanto “suoi risvolti punitivi”. Si tratta di quella che il procuratore generale ha definito “la tentazione del governo della paura”, che “ha riflessi anche sul pubblico ministero”, in quanto “dal desiderio di assecondare la rassicurazione sociale all’idea di proporsi come inquirente senza macchia e senza paura, che esporta il conflitto sociale e combatte il nemico, il passo non è troppo lungo”. “Avvocatura e magistratura unite nell’affermare i valori costituzionali” - Salvi ha aperto il suo discorso rivolgendo un saluto anche all’avvocatura, “alla quale siamo legati dal comune sentire nell’affermare i valori costituzionali e che nell’esercitare in autonomia il suo ruolo garantisce anche la nostra indipendenza e alla quale va dunque il nostro rispetto”, passaggio che corrisponde perfettamente alla base teorica della riforma per l’avvocato in Costituzione. Ricordando i magistrati caduti nell’esercizio della propria funzione, il pg ha ricordato lo scandalo che ha travolto la magistratura, resa meno credibile da “un sistema diffuso di asservimento del governo autonomo a logiche di interessi di gruppo, che ha consentito anche condotte di assoluta gravità, alcune delle quali in precedenza mai verificatesi”. Per evitare tali degenerazioni, “sono state emanate linee guida” per distinguere i casi di effettiva rilevanza disciplinare da quelli di carattere etico e deontologico. Ma è evidente, si legge nella relazione, “che la disciplina non può che essere parte di un impegno ben più vasto, nel quale la sanzione non sia che l’aspetto residuale, l’ultima ratio. Non dobbiamo riprodurre nel giudizio disciplinare le dinamiche degenerative che hanno afflitto il diritto penale, così da farne non il luogo eccezionale della violazione del precetto tipico, ma quello di un diritto punitivo etico”. Il Covid e la sfida degli uffici giudiziari - L’emergenza Covid, ha sottolineato Salvi, ha spinto gli uffici giudiziari a sfruttare la tecnologia per non fermare la giustizia. Una sfida, tutto sommato, vinta, secondo il procuratore generale. “La giustizia ha molto sofferto - ha sottolineato -. Abbiamo avvertito innanzitutto il peso della nostra arretratezza, soprattutto nella diffusione del processo telematico. L’esperienza ha infine generato, anche grazie all’impegno indefesso del ministero della Giustizia, aspetti positivi, sui quali dobbiamo ora operare per non disperdere il patrimonio accumulato, cogliendo le opportunità che si aprono per l’innovazione organizzativa della giustizia nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Ma non solo: la pandemia ha aumentato il livello di condivisione tra gli uffici requirenti, “che vede al centro l’impegno per l’uniforme esercizio dell’azione penale, secondo i principi della correttezza dell’agire del pubblico ministero e del perseguimento dell’obiettivo della ragionevole durata del processo, in ogni sua fase”. Rimane abnorme il contenzioso nel settore della protezione internazionale e in quello tributario, a causa di contrasti interpretativi che impediscono “la celere definizione dei processi sulla base del precedente consolidato e determinano sin dal giudizio di primo grado intollerabili disparità di trattamento di posizioni eguali”. Carcere, estremismo di destra e femminicidi - Un passaggio viene anche dedicato alla diffusione del virus nelle carceri, che ha reso evidente un problema annoso: “l’esclusione degli “ultimi” dai benefici a causa della loro marginalità sociale”. Da qui l’impegno “per rendere disponibili alloggi e programmi di inserimento per i detenuti con pene brevi residue”. Il pg ha anche fatto il punto sulle rivolte nelle carceri, sottolineando che i nove detenuti morti nell’istituto di Modena “sono deceduti per l’assunzione di sostanze stupefacenti sottratte dalla farmacia e non per violenze esercitate nei loro confronti durante la rivolta dell’8 marzo a Modena”. Ma la pandemia ha fatto emergere anche l’uso strumentale della paura, soprattutto dai partiti estremisti di destra: “Le formazioni vicine all’estremismo ed eversione di destra, negli ultimi mesi, hanno dimostrato interesse contro le politiche governative in tema di contenimento del Covid-19 e hanno cercato di sfruttare la particolare situazione problematica per incitare alla disobbedienza e ad atti di violenza, strumentalizzando il disagio economico e sociale diffuso in diversi strati della cittadinanza”. Fenomeno al quale si associa “il riproporsi di antiche pulsioni razziste e antisemite, che si saldano a nuovi mezzi di comunicazione e all’affermarsi di movimenti che si richiamano al suprematismo bianco”. Segnalato, infine, il calo degli omicidi, che solo in minima parte ha riguardato i femminicidi, divenuti “proporzionalmente tra le principali cause di omicidio”. Il Covid paralizza la giustizia: “Processi, sarà uno tsunami” di Michele Fullin Il Gazzettino, 30 gennaio 2021 “La pandemia ha inciso pesantemente sui procedimenti giudiziari, che sono stati rinviati in gran numero. Quest’anno ci attende uno tsunami, visto che i procedimenti rinviati si sommeranno a quelli in arrivo. In più, dovremo affrontare anche la criminalità indotta dalla pandemia, che ha colto l’occasione per fare profitti e investire denaro in imprese in crisi”. È il quadro descritto dalla presidente della Corte d’Appello di Venezia, Ines Maria Luisa Marini, che questa mattina sarà parte integrante del suo intervento di apertura dell’Anno giudiziario. Come di consueto, la presidente ha anticipato alcuni dei temi portanti della relazione sullo stato della giustizia in Veneto e l’impatto del Covid è senz’altro uno di questi. All’inizio, poi, (10 marzo-11 maggio 2020) è stato devastante perché non era chiaro come affrontare l’emergenza. Poi gli uffici si sono organizzati creando le condizioni per lavorare in sicurezza e la situazione è migliorata sensibilmente tra il 12 maggio e il 30 giugno. Lo studio effettuato dalla Corte si riferisce a queste due fasi. A subire i maggiori problemi è l’area penale, caratterizzata da un elemento di presenza imprescindibile. La Corte ha rinviato il 96% dei procedimenti (624 su 653 in calendario) e su queste percentuali si sono assestati i diversi tribunali del Veneto: Padova 94%, Rovigo 92%, Venezia 95%, Vicenza 94%, Verona 88%. Hanno fatto eccezione Treviso (56% dei processi rinviati) e Belluno (59%). Nell’area civilistica, per l’essenza stessa del processo che è per lo più documentale, la Corte ha rinviato 1381 procedimenti su 2mila 631 programmati grazie al web, il 52%. Un trionfo, rispetto alle sedi distrettuali: Belluno ha rinviato il 93 % dei processi, Padova l’81, Rovigo l’86, Treviso il 94, Venezia il 93, Verona il 98, Vicenza l84. In media, il 90 per cento. Quando gli uffici si sono organizzati per l’emergenza i risultati si sono visti. La Corte, nel Penale, ha rinviato solo il 41 per cento dei procedimenti causa Covid, mentre nei tribunali il panorama è stato molto variegato: ce ne sono stati alcuni che hanno continuato a rinviare quasi tutto e altri come Vicenza che hanno saltato solamente due processi. Nell’area civile le cose sono andate molto meglio, con il 30 per cento dei processi rinviati dalla Corte e con i tribunali che hanno ripreso l’attività. La Giustizia continua ad essere in sofferenza comunque a causa della carenza endemica di personale: in Corte d’Appello la scopertura è del 41 per cento di magistrati (mancano 18 consiglieri) e del 39 per cento per gli amministrativi. E nelle altre sedi la situazione non è migliore. Tra l’altro, alla Corte a breve sarà vacante anche il vertice, poiché a metà febbraio anche Ines Marini se ne andrà in pensione. “Il piano Next Generation Ue - ha detto - rappresenta una grande occasione per la giustizia, ma gli interventi favoriti previsti alimentano la preoccupante tendenza in atto a ricorrere a risorse precarie. Già oggi in primo grado i magistrati onorari sono più numerosi dei togati e il Piano ne prevede l’immissione di altri 2mila. Non è la soluzione, perché non ci sono cause di serie A o di serie B, tutte hanno pari dignità e hanno alle spalle le persone”. “L’esame dei dati numerici consente di affermare che, sotto il profilo delle iscrizioni delle notizie di reato, vi è stata una riduzione di alcuni fenomeni criminosi, con ogni probabilità imputabile alle limitazioni di movimento dovute alla pandemia”. Lo conferma il Procuratore Generale reggente di Venezia Giancarlo Buonocore, il quale ha sottolineato la marcata flessione dei reati predatori, globalmente diminuiti del 12% (fra questi, i furti in abitazione e gli scippi sono calati del 14%), i reati di inquinamento delle acque e violazione alla normativa sui rifiuti (-28%), i reati edilizi (-24%). “Va evidenziato l’aumento significativo di alcune categorie di reati: anzitutto quelli contro la libertà sessuale e di stalking. L’aumento complessivo del 18% è particolarmente vistoso nei reati di violenza sessuale ai danni di minori (+ 37%) e nei reati di stalking (+23%). È evidente - ha concluso il Pg - anche nei reati di violenza sessuale (+10,76%). Solo i reati di violenza sessuale di gruppo sono diminuiti sensibilmente (- 39,13%. Vistoso è, inoltre, l’aumento delle iscrizioni per reati di pedofilia e pedopornografia (+ 54,69%)”. Prescrizione, Costa e Magi contro Bonafede: “Si torni alla legge Orlando” di Liana Milella La Repubblica, 30 gennaio 2021 Cinque emendamenti nelle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera mercoledì prossimo faranno riesplodere il caso. Ma l’ex maggioranza - Pd, M5S, Leu - non ha i numeri per bloccare il blitz dei garantisti. S’annuncia un nuovo blitz contro la prescrizione. Ne parliamo proprio nel giorno in cui in Cassazione si tiene la cerimonia per aprire, questa mattina alle 11, l’anno giudiziario che però si svolgerà in versione Covid, 50 partecipanti anziché 300. Fuori perfino i giornalisti. Tutto in streaming. C’è da scommettere che il Guardasigilli in carica Alfonso Bonafede non pronuncerà mai la parola “prescrizione”, dopo la sua relazione al Parlamento che ha depositato mercoledì sera. Ma la sua legge è lì, da sempre divisiva. Un vero e proprio spartiacque sulla giustizia tra garantisti e giustizialisti. Da una parte c’è lui, l’inquilino di via Arenula, che la ritiene indispensabile per una giustizia equa nei confronti delle vittime (vedi Viareggio); dall’altra ci sono gli acerrimi nemici, Renzi in testa, ma con lui gli avvocati, i garantisti, molti giuristi. Per chi non dovesse ricordarlo, la legge sulla prescrizione prevede che il tempo assegnato a ogni reato per poterlo perseguire si fermi dopo il processo di primo grado. Stop per i condannati, avanti per gli assolti. È in vigore dal primo gennaio 2020. E adesso Enrico Costa di Azione e Riccardo Magi di Più Europa, ormai inseparabili paladini di quella che considerano una “giustizia giusta”, hanno pianificato l’agguato alla prescrizione di Bonafede. Per giunta nel suo momento di massima debolezza, nel quale si dubita anche se, in un nuovo Esecutivo, possa restare Guardasigilli. Che s’inventano i due sfruttando la fragilità della maggioranza uscente nelle commissioni della Camera? Nella prima, per gli Affari costituzionali, il fronte Pd, M5S, Leu conta 24 voti, a fronte di altri 24 per l’opposizione. Quindi una votazione non può che finire male per Bonafede. Va meglio nella Bilancio dove i giallorossi sarebbero in vantaggio di uno o due voti. Ed è in queste due commissioni che Costa e Magi hanno piazzato ben cinque emendamenti in cui, con differenti artifici, chiedono di buttare giù la prescrizione di Bonafede per tornare alla legge che era in vigore prima, e cioè quella dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando. Costa, un anno fa, quando era ancora in quota Forza Italia e per giunta anche responsabile Giustizia del partito, ci aveva già provato. E con lui Lucia Annibali, la renziana responsabile a sua volta della stessa materia per il suo gruppo. Il lodo Annibali e il lodo Costa però quella volta furono fermati, la Bonafede entrò in vigore. Si studiò anche come renderla più garantista, ma alla fine la pandemia spazzò via tutto. Sulla prescrizione calò una fitta nebbia. Ma adesso, dopo la crisi, e soprattutto dopo la levata di scudi contro Bonafede e la sua relazione in Parlamento, proprio la prescrizione è tornata a essere un obiettivo. Anzi, l’obiettivo dei garantisti. E Costa e Magi si considerano tra questi. E piazzare un colpo con la bocciatura della prescrizione sarebbe il massimo. Sicuramente ci starebbero i renziani. Più, ovviamente, tutta l’opposizione. La richiesta è specifica. Sospendere la legge Bonafede finché non entra in vigore la riforma del processo penale che contiene l’obbligo dell’accelerazione dei processi. La soluzione, nel frattempo, sarebbe quella di far “rivivere” la legge Orlando che sospendeva la prescrizione soltanto per 36 mesi tra Appello e Cassazione, sempre per i condannati, mentre continuava ad andare avanti per gli assolti. È scontato che Renzi voterà la proposta. Che, naturalmente, dovrà passare prima il vaglio di ammissibilità. Non sarà l’unica “provocazione” di Costa e Magi visto che i due vogliono far saltare anche il Trojan, la microspia che è costata la radiazione dalla magistratura a Luca Palamara. Anche questa una norma di Bonafede che, nella legge Spazzacorrotti, ha esteso a molti reati, tra cui la corruzione, la possibilità di usare il virus che trasforma il cellulare in una telecamera, quindi non solo in grado di effettuare registrazioni audio, ma anche video dell’ambiente circostante. E il populismo alla fine si impiccò alla prescrizione di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 30 gennaio 2021 Fiore all’occhiello del giustizialismo, il fine-processo-mai era stato portato in trionfo. E invece ha affossato il Conte bis, Bonafede, e i responsabili. La lunga battaglia delle Camere penali, alla fine ha pagato. La politica è l’arte del possibile? Beh anche dell’impossibile, verrebbe da dire. Se qualcuno, un paio di anni fa, assistendo alla marcia trionfale della riforma Bonafede della prescrizione, avesse immaginato che un giorno il governo del populismo giudiziario si sarebbe impiccato esattamente a quella riforma, sarebbe stato accusato di essere lui visionario. Invece è esattamente quello che è accaduto. Non entro nel merito della crisi; dico solo che il Governo Conte bis, che pure ha varato la entrata in vigore di quella sciagurata riforma (approvata l’anno precedente, ma con entrata in vigore differita a gennaio 2020) ha dovuto rassegnare le dimissioni prendendo atto che il Parlamento avrebbe certamente bocciato la relazione del ministro della Giustizia esattamente a causa di quella riforma. Dico di più: il tentativo di costituzione di un nuovo gruppo parlamentare (responsabili, costruttori, europeisti, insomma quello) è naufragato principalmente su quel voto, e sulla politica della Giustizia simbolicamente connotata proprio da quel fiore all’occhiello del populismo giudiziario da quasi tre anni al governo del Paese. Credo sia legittimo rivendicare con orgoglio il contributo che l’Unione delle Camere Penali Italiane ha saputo offrire al raggiungimento di questo importante risultato politico. Un percorso, forte di anni di battaglie politiche, manifestatosi il 23 novembre 2018 al Teatro Manzoni di Roma, riempito fino all’inverosimile, con la discesa in campo, a fianco dei penalisti italiani “contro il populismo giustizialista”, dell’intera comunità dei giuristi italiani, mai fino ad allora così espliciti nello schierarsi apertamente nell’agone politico. Fu quel Teatro che seppe accendere un’attenzione nuova, nei media e nella politica, sulle parole d’ordine del garantiamo, del diritto penale liberale, dei valori costituzionali del giusto processo, denunciando con forza il valore illiberale ed antidemocratico di una idea del diritto penale che rivendica a se stesso il compito di “spazzare via” fenomeni sociali, piuttosto che porre limiti chiari e predefiniti alla potestà punitiva dello Stato. Una attenzione mediatica che deflagrò con la “Maratona Oratoria” per raccontare “la verità sulla prescrizione”. Centinaia di avvocati da tutta Italia si alternarono senza sosta, per una intera settimana, al microfono del gazebo installato davanti al palazzo della Corte di Cassazione, per disvelare la grande mistificazione mediatica e politica populista. Quella che faceva dell’antico istituto della prescrizione non lo strumento di difesa contro l’assurda pretesa dello Stato di rendere a proprio piacimento prigioniero di un’accusa l’imputato senza limiti di tempo, e con essa la sua dignità e la sua vita, ma invece un oltraggioso privilegio di pochi ricchi privilegiati, e dei loro avvocati traffichini. Quando vedemmo popolarsi quella piazza, giorno dopo giorno, di telecamere dei telegiornali prima, e di trasmissioni popolari della mattina e del pomeriggio poi, capimmo che la lunga semina stava finalmente dando i suoi frutti, che le nostre parole, il nostro punto di vista, stava diventando comprensibile e dunque in grado finalmente di esprimere la sua forza. E furono tanti, ed autorevolissimi, i politici ed i parlamentari che vollero raggiungerci a quel microfono, per dirsi pronti a raccogliere in Parlamento e nel Paese il testimone di quella battaglia di civiltà e di libertà. La legge abrogativa fu varata, a gennaio 2020, ma tra un florilegio di distinguo, condizioni, scadenze temporali, promesse di rivisitazioni che ne fecero da subito, all’evidenza, un’anatra zoppa. Non so se infine riusciremo ad abbatterla, quella sciagurata riforma. Vedremo. Ma se oggi, addirittura a distanza di un anno dalla sua entrata in vigore, di fronte all’arrogante rivendicazione di quel mostriciattolo giuridico di infima qualità tecnica -una vergognosa giaculatoria populista senza capo né coda, cifra perfetta dei tempi miserabili che ci tocca vivere- la sua sola evocazione è bastata a precludere definitivamente ogni ipotesi di sopravvivenza del Governo alla propria crisi politica, credo sia legittimo rivendicare con orgoglio questa lunga, esaltante battaglia politica in nome del diritto, delle garanzie, della Costituzione. Questa è la bellezza della politica, quando essa si nutre di idee, di convinzioni, di valori forti a lungo sedimentati nella storia del pensiero umano, non di vuota e violenta agitazione delle viscere della pubblica opinione. “La durata è la forma delle cose”, ci ricordava sempre Marco Pannella. Non dimentichiamola mai, questa splendida verità. “Niente scorciatoie, serve una rifondazione morale”. Ermini non fa sconti al Csm di Errico Novi Il Dubbio, 30 gennaio 2021 David Ermini, nell’intervento pronunciato all’inaugurazione dell’anno giudiziario, si conferma come un vicepresidente del Csm autonomo e realista. Niente inerzia, niente scorciatoie sommarie, magari col sacrificio di qualche singolo. David Ermini, nell’intervento pronunciato all’inaugurazione dell’anno giudiziario, si conferma come un vicepresidente del Csm autonomo e realista. Arriva a chiedere alla magistratura una “rifondazione morale”. Appello in cui riecheggia il discorso severissimo rivolto al plenum, nel giugno 2019, dal Capo dello Stato, da quel Sergio Mattarella che è il più alto vertice anche dell’organo di autogoverno. Al presidente della Repubblica, non a caso, Ermini si rivolge più volte nel suo intervento, innanzitutto per esprimergli “profonda riconoscenza”. “Il doveroso accertamento delle responsabilità di singoli magistrati non deve trasformarsi in un modo per liquidare fatti dolorosi e inquietanti all’interno di una spiacevole parentesi da archiviare e dimenticare in fretta”, è il passaggio in cui il vicepresidente del Csm pare in sintonia con i tanti che intravedono in Luca Palamara un facile capro espiatorio. E infatti, a pochi mesi di distanza dalla condanna all’espulsione pronunciata a Palazzo dei Marescialli nei confronti dell’ex presidente Anm, Ermini ricorda come “risulterebbe vana ogni decisione della sezione disciplinare o della prima commissione per le incompatibilità se ad essa non si affiancasse un profondo cambiamento di mentalità, una vera e propria rifondazione morale”, appunto, “che coinvolga tutta la magistratura”. Il che non vuol dire che si debba disconoscere il tentativo, compito in questi mesi, di scuotersi dalla normalizzazione spartitoria. “Nell’anno appena trascorso il Consiglio superiore, dopo aver rischiato di essere travolto dalle dolorosissime vicende venute alla luce l’anno precedente, che avevano reso evidente una degenerazione correntizia non più sostenibile, era chiamato a dimostrare di saper continuare ad assolvere la funzione di governo autonomo della magistratura attribuitagli dalla Costituzione: ciò non solo attraverso la serietà e puntualità nell’accertamento delle responsabilità disciplinari, ma anche attraverso le modalità di assunzione delle deliberazioni”. E grazie al sostegno di Mattarella, tiene a dire Ermini, si può “affermare che il Consiglio ha dato questa dimostrazione”. Evidentemente con qualche rischio di resistenza, se il vicepresidente sente il bisogno di raccomandare, per esempio, attenzione nelle “assegnazioni di funzioni che richiedono peculiari requisiti di idoneità: penso, ad esempio, all’incarico di membro del Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura”. Scelte che devono essere precedute, ricorda, “dalla sola, scrupolosa valutazione delle competenze tecniche, senza cedere alla tentazione di accordi preventivi volti alla ripartizione dei posti”. Oltre a un passaggio sulla riforma all’esame della Camera, per la quale si chiede di audire anche lo stesso Csm, ce n’è un altro forse più significativo di tutti: serve una “autoriforma”, secondo Ermini, innanzitutto nei “procedimenti di valutazione di professionalità dei magistrati, che dovranno prevedere controlli sulla qualità e sulla tenuta dei provvedimenti, in modo da consentire quella necessaria differenziazione dei giudizi, oggi spesso indebitamente uniformati in incolori e ripetitive espressioni di generica positività, che costituisce il presupposto indispensabile dell’affermazione del merito”. Forse la svolta davvero necessaria, non a caso accolta poco dopo, in una nota dell’Unione Camere penali, con un plauso liberatorio. Ciclone Palamara. L’Anm si indigna per il libro shock, ma qualcuno chiede “verità” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 30 gennaio 2021 Magistratura indipendente ora chiede un “rapidissimo accertamento della veridicità dei fatti narrati”. Il “Sistema”, il libro-intervista di Luca Palamara con Alessandro Sallusti, già sold out in molte parti d’Italia, sta scatenando, com’era prevedibile, polemiche feroci fra le toghe. Le rivelazioni dell’ex togato Csm, per anni punto di riferimento dell’associazionismo giudiziario, hanno messo in imbarazzo più di un magistrato. Diverse le querele già presentate. “Quanti sono chiamati in causa spiegheranno e diranno la loro verità e chi ne ha il potere distribuirà torti e ragioni. Quel che non può tollerarsi”, è la reazione che il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha affidato ieri a una nota, “è che una intera istituzione, la magistratura, paghi oggi un prezzo elevatissimo in termini di sfiducia collettiva e di pericolosa delegittimazione per l’opera di quanti hanno creduto di poterla utilizzare per personale tornaconto. È il tempo della reazione indignata”, è il passaggio chiave di Santalucia, “contro chi, per comprensibile convenienza, non si immerge nella faticosa opera di distinguere i fatti e i comportamenti dei singoli ma cuce con suggestione narrativa tanti diversi episodi per tratteggiare con le fosche tinte del complotto l’esistenza di un ‘ sistema’ in cui la magistratura si muoverebbe come un corpo unitario, animato da convenienze faziose e interessi corporativi”. Parole durissime che, però, non sembrano essere condivise da tutti. A prendere le distanze dal presidente dell’Anm, esponente di primo piano della componente progressista “Area”, sono i vertici di “Magistratura indipendente”, Mariagrazia Arena e Paola D’Ovidio, rispettivamente presidente e segretario della corrente moderata. “Mi”, si ricorderà, era stata “penalizzata” dallo scoppio dall’affaire Palamara, con tre consiglieri su cinque al Csm costretti alle dimissioni per aver partecipato all’incontro all’hotel Champagne. “I fatti in questione, se veri, determinano discredito e un grave vulnus di credibilità della magistratura. Chiediamo con forza un rapidissimo accertamento della veridicità dei fatti narrati e una loro rigorosa valutazione, da operarsi nel rispetto di ogni garanzia, da parte degli organi preposti nell’interesse dell’intera magistratura e dei cittadini”. Dello stesso tenore il commento della presidente, a sua volta vicina a “Mi”, della Corte d’Appello di Venezia, Ines Marini: “Sarebbe sbagliato risolvere ogni cosa con l’espulsione del singolo, facendone un capro espiatorio: occorre circoscrivere la discrezionalità del Csm nelle nomine, privilegiando l’anzianità di servizio e l’esercizio effettivo dell’attività giurisdizionale rispetto a quella svolta fuori ruolo oppure in incarichi elettivi, anche istituzionali, perché questi ultimi presuppongono l’indispensabile supporto delle correnti”. Dopo lo scambio fra vertice Anm e componente “moderata”, ieri è poi di nuovo intervenuto Palamara, ormai corteggiatissimo dai media: domenica è atteso a “Non è l’arena” su La7: “Non sto parlando come una persona che è definitivamente fuori dalla magistratura, la decisione del Csm sulla mia rimozione è temporanea, non è definitiva, né esecutiva”, ha esordito a chi gli domandava se avesse nostalgia della toga. “Nel libro - ha poi aggiunto - racconto fatti accaduti. Se l’ho fatto è per dare un contributo e svolgere una riflessione sul mondo della magistratura”. Alla domanda sul perché avesse deciso di scrivere un libro, ha risposto di voler “spiegare il meccanismo delle nomine, anche perché il racconto che viene fuori dai giornalisti di giudiziaria è il racconto di giornalisti divenuti magistrati aggiunti, perché parlano con gli stessi e quindi diventano depositari di verità. Se qualcuno si sente danneggiato può chiamarmi e parlarne, io ci sono”, ha quindi concluso, rinnovando l’invito a essere ascoltato dalla prima commissione del Csm, competente per le incompatibilità ambientali, con particolare riferimento alle polemiche per i passaggi del libro in cui e citato, fra gli altri, il togato Giuseppe Cascini, che giovedì sera ha annunciato di voler querelare Palamara. Ieri è arrivato anche il commento di Andrea Reale, fra i fondatori di Articolo 101. Il gruppo delle toghe “anticorrenti” aveva chiesto al pg di Cassazione Giovanni Salvi e allo stesso Cascini di querelare Palamara per quanto scritto nei loro confronti nel libro. Cascini ha appunto immediatamente assecondato l’invito. “Chiederemo all’Anm di prendere una posizione: auspichiamo il confronto pubblico anche in una sede istituzionale”, precisa Reale, secondo cui “tutti i cittadini hanno il diritto di sapere come sono andati i fatti”. A Palamara, osserva Reale, “è stato tolto il diritto di parola e di difendersi davanti all’Anm. Il processo disciplinare è stato troppo frettoloso, gli hanno falcidiato la lista testi. L’Anm deve decidere se essere parte offesa o riconoscere di essere stata protagonista di una stagione infamante della magistratura e dare atto al nuovo corso. Palamara è stato solo la punta di un iceberg”. Anche l’anno giudiziario 2021 inizia all’ombra di Palamara di Giulia Merlo Il Domani, 30 gennaio 2021 L’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 si è svolta sottotono. A causa del Covid-19 non c’è stato il corteo delle alte cariche dello stato e della magistratura e la cerimonia è stata contingentata in un’ora e mezza con 50 ospiti in sala, contro i quasi 350 delle precedenti annate. A causa della crisi di governo, invece, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si è presentato con una relazione scevra da ogni valutazione politica e prospettiva per l’anno che verrà. A incombere sulla sala, tuttavia, c’era anche la questione che sta facendo il giro delle chat dei magistrati italiani: il libro-intervista Il Sistema scritto da Alessandro Sallusti con Luca Palamara. A due anni dalla crisi che ha mandato in tilt le toghe, il tema del correntismo e del mercato delle nomine è tutt’altro che archiviato e anzi è tornato attuale dopo le nuove dichiarazioni di Palamara, espulso dall’ordine giudiziario e imputato per corruzione a Perugia. Nel libro, infatti, l’ex capo dell’Anm chiama in causa due delle più alte cariche della magistratura, entrambe presenti all’inaugurazione. Palamara sostiene di aver orchestrato insieme ai vertici renziani del Pd di allora la nomina di David Ermini a vicepresidente del Csm durante una cena non dissimile da quella organizzata all’hotel Champagne per scegliere il procuratore capo di Roma. Inoltre afferma che l’attuale procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, lo avrebbe invitato su “una splendida terrazza di un lussuoso albergo romano” per chiedergli sostegno. Sostegno che Palamara non gli ha dato, preferendogli Raffaele Fuzio, che poi si è dimesso nel 2019 proprio in seguito allo scandalo delle nomine. “E non era la prima volta che Salvi, che quel posto successivamente lo ha raggiunto, mi incrociava”, ha scritto Palamara, sostenendo di aver preso parte negli anni precedenti anche al tavolo spartitorio che ha portato Salvi alla procura generale di Roma. Gli interventi Il libro di Palamara è già oggetto di querele e smentite, che però per ora non hanno riguardato i capitoli su Salvi ed Ermini. Ma negli interventi di entrambi, ieri, si è letta in controluce una indiretta risposta agli attacchi. Ermini ha ricordato che serve “una vera e propria rifondazione morale che coinvolga tutta la magistratura” e che le nomine “siano precedute dalla sola, scrupolosa valutazione delle necessarie competenze tecniche, senza cedere alla tentazione di accordi preventivi volti alla ripartizione dei posti. È ciò che il Consiglio ha iniziato a praticare e intende praticare”. Salvi ha invece sottolineato l’efficacia delle linee guida emanate dal suo ufficio e utilizzate per l’esame dei casi emersi dalle indagini di Perugia: “Esse hanno distinto i casi di effettiva rilevanza disciplinare, perché in violazione del precetto tipico, dalle condotte che, pur in contrasto con precetti etici o deontologici, rientravano nell’attribuzione del Csm o dell’Anm, da quelle che non hanno alcuna valenza negativa”, ricordando che hanno portato “all’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti di ventisette magistrati, per 17 dei quali è già stato chiesto il giudizio, che si svolge dinanzi alla Sezione disciplinare del Csm”. Linee guida che “assolvono” il magistrato che decida di autopromuoversi, se ciò viene fatto “anche se in modo petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti o la prospettazione di vantaggi elettorali, non può essere considerata in violazione di precetti disciplinari”. Eppure proprio la posizione di Salvi ha sollevato nei giorni scorsi la reazione della magistratura associata: una trentina di magistrati guidati da Articolo 101, gruppo di opposizione all’attuale giunta Anm, hanno chiesto al procuratore generale e al togato di Area, Giuseppe Cascini, anche lui tirato in ballo da Palamara, di chiarire. Anche Magistratura indipendente ha chiesto “un rapidissimo accertamento della veridicità dei fatti narrati e una loro rigorosa valutazione”. Sicilia. Apprendi (Antigone): “I detenuti scontino la pena nella città di residenza” antudo.info, 30 gennaio 2021 Pino Apprendi, nel corso della diretta tenutasi venerdì 29 dicembre sulla pagina Facebook di Antudo.info, ha sottolineato le difficoltà dell’essere detenuti fuori dalla propria regione e l’importanza di battersi per garantire questo diritto fondamentale. Uno degli aspetti di cui poco si parla riguardo la vita in carcere è la condizione di chi si ritrova a scontare la pena lontano dalla propria località di residenza. A prescindere dall’emergenza sanitaria, la lontananza dalla propria terra è una grave violazione dei diritti dei detenuti. Non solo, ma è una condizione che colpisce anche i familiari, costretti a vivere una situazione emotivamente ed economicamente ancora più difficile. Già avere un parente detenuto in una città diversa da quella di residenza comporta oneri enormi che diventano insormontabili se il detenuto si trova fuori dalla regione. Durante l’attuale pandemia, la paura del contagio amplifica queste criticità. Nel caso in cui i detenuti risultino positivi, vivranno la malattia lontani dalla famiglia, col rischio di non poter più tornare ad abbracciare i propri cari. Le parole di Pino Apprendi - “È un argomento importante. Noi come Antigone Sicilia stiamo cercando di far sì che i detenuti possano stare nella propria regione, preferibilmente nella loro città - a meno che non ci siano motivi ostativi grandi. Bisogna pensare agli affetti familiari. Non è che oltre al detenuto, può pagare suo figlio, sua madre, la moglie e via dicendo. Non è possibile questo, dobbiamo cercare di evitarlo. Soprattutto perché mette in condizione la famiglia di essere dissanguata economicamente. Mi è capitato un caso in cui una signora ha avuto il marito trasferito all’improvviso ad Agrigento. Arrivata lì con la macchina, la bambina stava malissimo perché, a quanto pare, soffriva molto di mal d’auto. Questo è un esempio banale per esprimere le difficoltà che ha la famiglia a incontrare il detenuto, a portargli degli abiti, a portare del cibo. Questa è tra le battaglie che stiamo portando avanti a livello nazionale. Un altro esempio che vi riporto è quello di un detenuto fuori regione che è stato contagiato. Aveva il Covid ma non riusciva a comunicare con l’esterno la sua malattia. Poi la moglie, siciliana, mi ha chiamato e io dalla Sicilia ho messo in moto il meccanismo del garante regionale. Gli è stata salvata la vita. Questo argomento è molto molto importante, se ne sta occupando direttamente il Garante dei detenuti nazionale”. Roma. Focolaio a Rebibbia: 75 positivi al Covid. Domiciliari a Verdini di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 gennaio 2021 L’allarme della garante dei detenuti del comune di Roma, Gabriella Stramaccioni sulla situazione sanitaria nel carcere di Rebibbia. “Il clima che si respira è difficile. soprattutto dal punto di vista psicologico. Ci sono persone che sono in isolamento dal 2 gennaio in condizioni strutturali precarie”, questa è la fotografia attuale dei detenuti che stanno al carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. È la Garante dei detenuti del comune di Roma, Gabriella Stramaccioni, a descrivere il disagio interno. Ha visitato nuovamente il carcere ieri mattina, con l’infettivologa e la Comandante dell’istituto, nei reparti dove sono alloggiati i positivi. “Sono attualmente 75 i positivi, 6 i definitivamente negativi, 4 attualmente negativi (in attesa di terzo tampone di conferma) 22 attualmente negativi (in attesa di secondo e terzo tampone di conferma), e 7 ricoverati. Ci sono poi alcuni reparti in isolamento per quarantena”, rende noto sempre la garante Stramaccioni. La garante Stramaccioni: il sovraffollamento peggiora la situazione - L’infettivologa, che sta seguendo tutti con molta scrupolosità, ha risposto alle innumerevoli domande che le sono state poste e ha anche spiegato i motivi per i quali è necessario registrare tre tamponi negativi per poter essere considerati guariti e tornare nel proprio reparto. “La mancanza di spazi ed il sovraffollamento peggiorano una situazione già difficile”, denuncia la garante. Anche nel giro fatto ieri mattina, ha avuto conferma che ci sono situazioni che potrebbero essere risolte per coloro che sono al di sotto dei 18 mesi al fine pena. “Ma non avviene e le persone continuano a essere recluse anche con un fine pena di 3 o 4 mesi. Per non parlare dell’assurdità di alcuni rigetti ad istanze presentate per incompatibilità per motivi di salute”, spiega con amarezza la garante Stramaccioni. Domiciliari a Verdini per l’emergenza sanitaria - Come se non bastasse, è stata rigettata una istanza ad una persona il 19 gennaio in quanto non considerata a rischio Covid. Peccato però, fa sapere sempre la garante, che la stessa persona sia risultata positiva 4 volte ai tamponi dal 2 gennaio ad oggi. Nel compenso, almeno si aggiunge una notizia positiva per l’oramai 70enne Denis Verdini: va ai domiciliari nella sua casa di Firenze. Il magistrato di sorveglianza, Romina Incutti, ha firmato ieri l’ordinanza, citando fra le motivazioni lo stato di salute dell’ex senatore di Forza Italia e l’emergenza sanitaria nelle carceri. E Verdini era detenuto proprio a Rebibbia, epicentro di un importante focolaio. Modena. Il pg della Cassazione Salvi: “Morti in carcere dovute a overdose, nessuna violenza” Il Resto del Carlino, 30 gennaio 2021 “La Procura di Modena ha già accertato che nove detenuti del carcere Sant’Anna sono deceduti per l’assunzione di sostanze stupefacenti sottratte dalla farmacia e non per violenze esercitate nei loro confronti durante la rivolta dell’8 marzo”. Lo ha detto ieri il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi nella sua relazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Proseguono - ha sottolineato - indagini in diversi uffici per valutare se vi siano state responsabilità per negligenza che abbiano potuto aver causa concorrente nei decessi”. In merito all’emergenza Covid-19 e alla situazione carceraria, “gli ‘orientamenti’ adottati l’1 e il 27 aprile 2020, sulla base dell’interlocuzione con i Procuratori generali dei distretti hanno trovato generalizzata applicazione - ha aggiunto - in molti casi erano già stati anticipati dagli uffici di merito, che alla loro redazione avevano contribuito. Gli uffici hanno colto l’impostazione di fondo che prevede misure atte a diminuire la pressione carceraria, garantendo al tempo stesso le esigenze di tutela delle vittime e della collettività. In effetti questi due obiettivi sono stati pienamente raggiunti. Da un lato vi è stato un reale decremento della popolazione carceraria, dall’altro non si sono registrati fenomeni diffusi di violazione di prescrizioni o di recidivismo, correlabili a dette misure”. Bologna. Muore in cella: aveva 28 anni e nessun problema di salute, disposta autopsia Il Dubbio, 30 gennaio 2021 Aveva solo 28 anni ed è morto mentre era detenuto nel carcere della Dozza di Bologna. Una morte strana quella del giovane nordafricano su cui bisognerà far luce. Per questo motivo sarà probabilmente disposta un’autopsia sul corpo trovato senza vita questa mattina nel carcere bolognese. Il giovane, che scontava una condanna a quattro anni e dieci mesi per vari reati, era in cella con un altro detenuto e sarebbe deceduto nel sonno, dalle prime ricostruzioni per cause naturali. Ma la sua giovane età e la totale assenza di problemi di salute lasciano spazio a qualche sospetto. Dopo i primi soccorsi del personale sanitario del carcere, è intervenuto il 118 con l’automedica, ma per il 28enne non c’era nulla da fare. Vista la giovane età, saranno fatti accertamenti per chiarire l’origine del malore. Per il sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe, la situazione nella struttura al momento non è critica. “Nel carcere di Bologna - affermano Giovanni Battista Durante e Francesco Borrelli, segretario generale aggiunto e vice segretario provinciale del sindacato- sono presenti 685 detenuti, non si registra, quindi, un grave sovraffollamento, come invece succedeva in passato. Ricordiamo che sono state registrate presenze che hanno raggiunto i 1200 detenuti circa. Anche i problemi relativi al contagio da Covid-19 sono stati affrontati e superati in buona parte, rispetto alla gravità dei mesi di novembre e dicembre”. Verona. La pandemia “libera” il carcere di Montorio: 10% in meno di detenuti di Laura Tedesco Corriere di Verona, 30 gennaio 2021 Effetto pandemia anche sul carcere: come risulta dal bilancio 2020 tracciato dal coordinatore dall’Ufficio di Sorveglianza, giudice Isabella Cesari, “le misure alternative alla detenzione adottate lo scorso anno sono 809, con aumento di una cinquantina rispetto all’anno precedente anche in considerazione delle difficoltà alla detenzione verificatesi nella locale casa circondariale in occasione della pandemia e conseguente chiusura”. Di tali misure, “37 sono state revocate per violazione dei relativi obblighi:20 nei confronti di soggetti in affidamento al servizio sociale o terapeutico, e 17 nei confronti di detenuti domiciliari”. Infine la situazione carceraria “secondo le informazioni fornite dalla direzione della locale casa circondariale indica - sottolinea il procuratore Barbaglio - la presenza media di 482 detenuti nel periodo 1 luglio 2019-30 giugno 2020, anche qui con una riduzione del 10% circa rispetto allo stesso periodo dell’anno passato, presumibilmente in considerazione del maggior ricorso alle misure alternative ed al differimento pena per motivi di salute adottate nel corso della pandemia”. Padova. Casa circondariale, oggi un presidio di solidarietà per i detenuti Il Mattino di Padova, 30 gennaio 2021 Per Dana Lauriola, l’attivista No-Tav rinchiusa a Le Vallette di Torino, e per tutti gli altri carcerati che con la pandemia hanno visto peggiorare le loro già pessime condizioni di detenzione. Per loro oggi i Centri sociali hanno organizzato presìdi di solidarietà. A Padova l’appuntamento è per le 10.30 davanti alla Casa circondariale. L’iniziativa, promossa dal Pedro, chiederà l’indulto o altre misure di sconto per ridurre l’affollamento nelle carceri, ancora meno sopportabile ora che c’è la pandemia; l’istituzione di una figura di garante dei diritti dei detenuti e delle detenute in tutte le città; misure preventive non carcerarie per i reati minori; priorità nell’accesso al vaccino per tutta la popolazione carceraria. “Il grado di civiltà di un paese si vede dalle sue carceri, diceva Voltaire”, ricordano i promotori dell’iniziativa, “in quelle italiane in questo momento è come se vigesse la pena di morte senza processo. Le condizioni sono peggiorate i detenuti si sono visti privare ulteriormente dei pochi diritti che ancora sono garantiti”. Voghera (Pv). Si ricorda la Shoah anche in carcere La Provincia Pavese, 30 gennaio 2021 La Casa circondariale di Voghera celebra la Giornata della memoria. Il carcere di via Prati Nuovi ha dedicato una giornata di lavoro scegliendo di “fare memoria” attraverso i disegni e le poesie dei bambini del ghetto di Terezin. A Terezin i disegni furono nascosti da un’insegnante in due valigie piene prima di abbandonare il campo. Parlano di casa, raccontano di stenti e di nostalgia. Antonella Strazzari, docente del Cpia di Pavia, durante l’incontro con le persone detenute nella sezione di Alta Sicurezza ha spiegato: “Facciamo memoria per rendere giustizia a milioni di vittime che non ne hanno mai avuta”. Nel corso della giornata Gianni Tempesta con i soci Coop hanno proiettato nell’Aula Magna il film “Corri, ragazzo, corri” per le persone detenute della Media Sicurezza. “ll tema della nostalgia della famiglia, il vis suto dei bimbi nel lager, il sacrificio di tante persone ha suscitato nelle persone detenute la consapevolezza della tragedia”, commenta il direttore Stefania Mussio. Terzo settore in crisi: aiutiamo chi aiuta di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 30 gennaio 2021 L’emergenza sociale sta già devastando migliaia di famiglie: se si toglie loro anche il riferimento di enti e associazioni, cosa rimane? Vale la pena ascoltarlo, questo grido d’allarme. Perché arriva dalla terra con la storia più radicata di volontariato, filantropia, cooperativismo e impresa sociale: la Lombardia. Fondazione Cariplo, da sempre in prima fila nella gestione delle emergenze e nell’attenzione alle persone, al territorio, all’educazione e alla ricerca, ha intuito poco dopo l’esplodere della pandemia che l’impatto sul Terzo settore sarebbe stato devastante. E ha chiesto a Istat di condurre un’analisi approfondita perché, come spiega il presidente della Fondazione Giovanni Fosti, “conoscere è il primo passo per muoversi con intelligenza ed efficacia”. Ecco i numeri: la perdita dei bilanci delle organizzazioni per il 2020 è di 1,2 miliardi di euro. Moltissime realtà potrebbero dover chiudere e ci sono 57 mila posti di lavoro a rischio. Ovviamente, la chiusura si ripercuoterebbe sui servizi che queste realtà garantiscono: dall’assistenza a bambini, anziani, disabili, alle attività culturali; dallo sport di base alle attività nelle carceri; dalle iniziative di avviamento al lavoro, al sostegno alle donne. ‘emergenza sociale sta già devastando migliaia di famiglie: se si toglie loro anche il riferimento di enti e associazioni, cosa rimane? E se questa è la situazione in Lombardia, cosa sta succedendo nel resto del Paese? Fondazione Cariplo con la Fondazione Peppino Vismara da ottobre ha cominciato ad erogare 15 milioni per “aiutare chi aiuta”. Ma a questo bando “Let’s go”, lanciato in giugno, hanno risposto 1400 enti: per accontentare le loro esigenze primarie di milioni ne sarebbero serviti 70. Possiamo sempre e solo aspettare la filantropia? No. Chi sta pensando al Recovery plan non può non considerare cosa sta succedendo al Terzo settore e non può non considerarlo come soggetto imprescindibile per la costruzione del “dopo”. Va sostenuto chi sta garantendo la coesione sociale del Paese. Perché di questo stiamo parlando. Quelli che “essere fascista è un vanto”: da Nord a Sud spira la brezza nera di Alberto Mattioli La Stampa, 30 gennaio 2021 L’ultimo episodio a Biella: insulti antisemiti da un consigliere comunale leghista. “Gli ebrei ricordano con enfasi quello che a loro è successo. Bene. Ma un popolo che ha subito questo dovrebbe più di altri, ricordarsi ed intervenire su quello che succedeva, specialmente decenni fa e ancora adesso ai popoli africani, uccisi, massacrati, tenuti alla fame della cui fame (sic) specialmente i più piccoli morivano. Nulla di questo. Se ne sono sempre fregati. È per questo che sin dal 1967 a chi mi parlava di cosa avevano fatto ai poveri ebrei, rispondevo che non meritavano la mia attenzione”. Così, su Facebook, l’omaggio di Franco Mino, consigliere comunale leghista a Biella, al Giorno della Memoria, e non si sa se sia peggio il delirio o l’italiano (questi difensori della Patria, chissà perché, trattano sempre malissimo la sua lingua). Seguirono le immancabili polemiche, lo sventurato rispose senza ritrattare, finché il sindaco leghista della città, Claudio Corradino, e il segretario locale del partito, Michele Mosca, ne chiesero e ottennero le dimissioni. La sintassi ringrazia. Però il copione si sta ripetendo un po’ troppo. Capita di continuo che baldi leghisti di provincia svelino le loro simpatie fasciste, senza pudori né timori. L’episodio di Biella arriva subito dopo quello di Cogoleto, 9 mila abitanti nel Ponente ligure. Si stava appunto ricordando la Shoah quando tre consiglieri comunali di centrodestra si sono esibiti in quello che ai colleghi di centrosinistra (e anche dalle foto, per la verità) è sembrato un saluto romano. Uno, Francesco Biamonti, è leghista. Anche qui, solita storia: polemiche violentissime, la Digos che denuncia i tre, Biamonti il sindaco (“La caccia alle streghe è ricominciata, falsa la sua ricostruzione”) e il proconsole salviniano in Liguria Edoardo Rixi che sospende Biamonti, poi si vedrà. In Liguria, evidentemente, spira fra i leghisti una brezza nera: all’ottavo municipio di Genova il consigliere Igor D’Onofrio definì con piglio littorio il fascismo “la più audace, la più originale e la più mediterranea delle idee!”, mentre gli antifascisti sono “gli infami nipoti dei banditi”. Risultato: uscita dalla Lega prima di esserne sbattuto fuori, “per non mettere in ulteriore imbarazzo il nostro movimento”, come scrisse il commissario cittadino del partito. Intanto il sindaco leghista di Adro, provincia di Brescia, la settimana scorsa ha negato la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, che “non ha nessun legame con la nostra storia e il nostro Comune”. Esattamente, ha fatto notare l’Anpi locale, come Gianfranco Miglio, l’ideologo della Lega presalviniana, cui fu intitolata una scuola ricoperta di Soli delle Alpi. Anche a Sud non si scherza. Durante la campagna per le regionali in Basilicata, comiziando a Melfi (Potenza) la candidata leghista Gerarda Russo proclamò papale papale: “Io sono fascista”. Poi, di fronte alle proteste, precisò che la frase era stata estrapolata. Vero. In effetti, come da video, aveva strillato: “Se fascista vuol dire essere a favore del popolo, allora io sono fascista!”, ognuno valuti la differenza (ottima però la battuta che circolò allora: “Finalmente in Italia qualcuno vuole fare una politica di Potenza”). In effetti fra Lega e ultradestra c’è qualche relazione pericolosa di troppo. Il boom elettorale ha obbligato a improvvisare in fretta una classe dirigente, pescando a destra e strizzando l’occhio anche a Casa Pound e dintorni. Lo stesso Salvini qualche passo falso l’ha fatto, come quando si fece fotografare con l’ultras bresciano Massimiliano “Chicco” Baldassari, uno che porta una mascherina con il ritratto del Duce e la scritta: “Torna presto, Zio”. I leghisti ribattono che quella di fascismo e antifascismo è una storia finita con il Novecento. Come Susanna Ceccardi, pupilla di Salvini e candidata sconfitta alle ultime regionali in Toscana. “Non sono né fascista né antifascista, è una questione che aveva senso nel 1944. Io sono anti-ideologica”, disse in un’intervista. La questione è delicata e ha a che vedere con l’identità stessa della Lega. Da un lato, c’è chi la pensa come un partito di destra “dura”, sovranista e populista, antiglobalista e identitaria, insomma il Front national di qua dalle Alpi. Dall’altro, chi la vede come una specie di Cdu italiana, certo conservatrice ma moderata, dentro quello che una volta si sarebbe chiamato “l’arco costituzionale”. Per esempio, Luca Zaia, che martedì ha spiegato che “un centrodestra moderno non può avere dubbi sulla Shoah” e che dire che il fascismo ha fatto anche cose buone “è inaccettabile”. Sembrerebbe lapalissiano ma non lo è, specie dopo che una sua assessora, Elena Donazzan (meloniana, però) si è esibita in radio cantando “Faccetta nera”. Puntini sulle “i” forse indispensabili in un partito in cerca di identità, minacciato da destra dal montare di FdI e guidato da un leader davvero, lui sì, a-ideologico come Salvini, che debuttò come “comunista padano” e va dove lo portano i sondaggi. E dire che il vecchio Bossi nel ‘94 strillava: “La Lega è la continuazione della lotta di Liberazione fatta dai partigiani. Mai coi fascisti! Mai! Mai!”. Mai dire mai. Stati Uniti. Biden inizia a fare sul serio: addio alle prigioni private di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 30 gennaio 2021 Il decreto esecutivo è la premessa di una grande riforma della giustizia penale. Per il presidente hanno aumentato l’insicurezza di detenuti e agenti Poi la critica al sistema giudiziario: “Basta con il carcere di massa”. “L’America non è mai stata all’altezza della sua promessa fondamentale di uguaglianza per tutti, ma non abbiamo mai smesso di provarci. Oggi, agirò per promuovere l’equità razziale e spingerci più vicino a quell’unione più perfetta che abbiamo sempre cercato di essere”. Le parole pronunciate dal nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden martedì 26 gennaio prima di firmare alcuni importanti ordini esecutivi daranno, almeno nelle intenzioni, un indirizzo preciso ai prossimi 4 anni della sua amministrazione. Il presidente ordina al dipartimento di giustizia degli Stati Uniti di porre fine all’uso di carceri private, rafforzare l’applicazione della lotta alla discriminazione nel mercato immobiliare, sottolineare l’impegno del governo federale per la sovranità tribale dei nativi americani e condannare i pregiudizi anti- asiatici. Una direzione totalmente opposta rispetto all’operato del suo predecessore Donald Trump. Il primo punto in particolare investe il mondo della giustizia e si pone contro quella che Biden, raccogliendo una critica proveniente dalla società americana, ha definito “l’incarcerazione di massa”. Per il nuovo inquilino della Casa Bianca l’uso massivo del carcere “impone costi significativi … mentre le prigioni private approfittano dei detenuti federali mettendo sia i prigionieri che gli agenti penitenziari in condizioni meno sicure”. Quella che si profila dunque è una generale riforma della giustizia penale e della polizia che comprende misure come il divieto della pena di morte e la riduzione del trasferimento di attrezzature militari alle forze dell’ordine locali. Un dibattito scaturito dopo la morte di George Floyd a Minneapolis nella primavera del 2020 e dopo le massicce proteste di Black Lives Matter. Sebbene i progetti di un profondo cambiamento della polizia giacciono al Congresso ora sembra che verranno affrontati fattivamente. Ma è proprio il carcere e la sua progressiva privatizzazione ad occupare il centro della scena politica. Un modello da sempre esistente negli Usa ma che da 30 anni almeno ha visto una progressiva amplificazione. Ad essa hanno contribuito in particolar modo le politiche di Trump sull’immigrazione e nei confronti dei reati per droga. Tanto da diventare un lucroso business da milioni di dollari per le società e gli investitori specializzati ai quali viene appaltato questo tipo di servizio. La privatizzazione carceraria ha avuto un’espansione a partire dagli anni ‘ 80 come corollario della cosiddetta “war on drug”, fu Reagan infatti a firmare l’Anti- Drug Abuse Act che stabiliva pene detentive molto più punitive anche per crimini non violenti. La conseguenza fu di un aumento vertiginoso della popolazione carceraria costituita per la stragrande maggioranza da afroamericani. Anche i democratici con Bill Clinton non furono da meno visto che il Violent Crime Control and Law Enforcement Act si poneva nella stessa direzione. I numeri parlano chiaro e danno il senso delle dimensioni reali, se nel 1980 i detenuti erano complessivamente 660mila, attualmente si è giunti a 2 milioni. Praticamente si può dire che un quarto della popolazione carceraria mondiale si trova negli Stati Uniti. I risultati di tutto ciò furono inevitabilmente il sovraffollamento e l’aumento dei costi di gestione dei penitenziari e dei servizi come quelli medico sanitari. La risposta dunque fu quella di affidare il fabbisogno ai privati. Ecco dunque che si affacciarono compagnie come la CoreCivic, nel 1983, e poi la GEO Group della Florida, un colosso che lavora anche in altri paesi del mondo. Si tratta di sue corporation quotate in borsa che trascinano un indotto di almeno altri 3mila operatori. Dimensioni necessarie visto che si occupano anche di controllo elettronico dei detenuti, riabilitazione e del lavoro in carcere svolto dagli internati per 25 centesimi l’ora senza nessun diritto. Un business sicuro che può prosperare anche in momenti di crisi economica come quello provocato dalla pandemia di Covid- 19. L’unico, ma fondamentale rischio, è che queste società possano risentire di eventuali cambiamenti legislativi come quelli portati avanti da Biden. È già successo nel 2016 quando Obama volle mettere fine ai contratti di appalto e le quotazioni azionarie di CoreCivic e Geo Group precipitarono. Situazione completamente ribaltata nel 2016 con Trump, grande sostenitore delle prigioni private e delle politiche di law and order. Grazie al lavoro di lobby delle “compagnie carcerarie” che spesero 5 milioni di dollari per la campagna elettorale del tycoon, i dividendi ricominciarono ad aumentare fino a raggiungere un fatturato da 4 miliardi di dollari. Attualmente il governo degli stati Uniti spende quasi 40 miliardi di dollari per finanziare le prigioni private che ospitano una popolazione di circa 130mila persone. Intanto ha avuto un forte impulso un altro business, quello della costruzione di centri di detenzione per migranti soprattutto negli stati del sud. Sulla scorta delle politiche anti immigrazione di Trump è stato calcolato che il 72% delle persone intercettate al confine si stato portato in queste strutture. Inutile dire che CoreCivic e Geo Group si sono viste offrire nuovi e remunerativi contratti milionari non solo per l’edificazione e la gestione dei centri ma anche per attività di controllo delle frontiere. Il problema maggiore però è che i privati hanno interesse a contenere i costi e così tagliano i servizi. Ecco dunque la somministrazione di cibo avariato, agenti non qualificati e malpagati, condizioni igienico sanitarie scadenti e poche risorse mediche. La situazione è stata descritta con precisione da Shane Bauer, il giornalista che ha scritto il libro “America prison” dopo essersi fatto assumere con facilità come agente penitenziario in un carcere della Lousiana per 4 mesi. La sua testimonianza parla di detenuti non portati in ospedali perché le spese sarebbero a carico delle società private e della mancanza quasi totale di programmi per la riabilitazione dei detenuti e servizi di supporto per l’assistenza psichiatrica. Bielorussia, le violazioni dei diritti umani nelle carceri e l’impunità per i torturatori di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 30 gennaio 2021 Il nuovo dossier di Amnesty International fa luce sulle violenze commesse dalle autorità bielorusse contro i manifestanti che hanno protestato contro i risultati elettorali dell’agosto 2020. Le autorità della Bielorussia hanno usato il sistema giudiziario nazionale come un’arma per punire il dissenso e le vittime della tortura, anziché i responsabili di quelle violenze. È quanto afferma il report di Amnesty International “Bielorussia: voi non siete esseri umani”, pubblicato ieri. La ricerca della giustizia in Bielorussia è “senza speranza”, si legge nel report, ed è per questo che Amnesty International richiede l’attenzione della comunità internazionale. Nessuna denuncia contro le autorità Le autorità bielorusse hanno ricevuto oltre 900 denunce di violazioni dei diritti umani commesse dalla polizia ai danni di civili, a seguito della repressione brutale e di massa scatenata contro il dissenso dopo le elezioni dell’agosto 2020. Eppure, non è stata avviata neppure un’indagine in merito. Le uniche indagini sono quelle contro i manifestanti pacifici: a fine ottobre erano oltre 600 i fascicoli aperti e oltre 200 le persone incriminate per rivolta di massa e violenza contro la polizia. Torture in carcere. Durante e dopo le proteste, le autorità hanno trattenuto centinaia di civili e manifestanti pacifici. Nella notte tra il 13 e il 14 agosto all’interno della struttura “Akrestsina” a Minsk le famiglie delle persone fermate hanno registrato chiari rumori di pestaggi e grida agonizzanti, che non lasciano alcun dubbio su quanto si stesse svolgendo. Un testimone riporta: “Chiunque piangeva e pregava di cessare i pestaggi, veniva picchiato ancora di più”. Numeri sconosciuti. Amnesty denuncia l’assenza di dati ufficiali circa il numero di arrestati nel corso delle proteste. Secondo l’Alto commissario ONU per i diritti umani Michelle Bachelet, il numero superava quota 27.000 lo scorso dicembre, e gli arresti non sono fermati. Un altro detenuto racconta di come i detenuti fossero obbligati a camminare lungo un corridoio dove cinquanta agenti di polizia scatenavano su di loro i manganelli Scoraggiare le denunce. Chi è arrivato a sporgere denuncia si è esposto al rischio di gravi rappresaglie e si è trovato davanti ad un muro di burocrazia e tattiche per scoraggiare, intimidire e respingere le denunce. Una testimone racconta che, dopo essere riuscita a far registrare la sua denuncia e a ottenere che un medico la visitasse, il magistrato le ha detto che non avrebbe aperto un’indagine “senza un ordine dall’alto”. Le denunce contro i manifestanti invece sono arrivate. Le organizzazioni della società civile hanno documentato decine e decine di procedimenti aperti contro manifestanti pacifici sulla base di accuse false e politicamente motivate. La richiesta di giustizia internazionale. Amnesty International ricorda che la Bielorussia è obbligata dal diritto internazionale a rispettare i diritti umani di tutte le persone che si trovano sul suo territorio, garantendo tra l’altro il divieto assoluto di tortura e indagando e punendo i responsabili. “Il livello senza precedenti di violazioni dei diritti umani e la totale impunità garantita ai responsabili rendono necessaria l’attuazione o l’istituzione di meccanismi di giustizia internazionale”, ha commentato Maria Struthers, direttrice per l’Europa orientale e l’Asia centrale di Amnesty International. “La comunità internazionale non può restare a guardare”. Bielorussia, il sistema giudiziario al servizio dell’impunità di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 gennaio 2021 In un nuovo rapporto, Amnesty International ha denunciato che, nell’ambito della repressione brutale e di massa scatenata contro il dissenso dopo le elezioni dell’agosto 2020, le autorità della Bielorussia hanno ridotto il sistema giudiziario a un’arma per punire le vittime della tortura più che i responsabili. Dall’inizio delle proteste post-elettorali, i gruppi per i diritti umani hanno raccolto prove di tortura riguardanti centinaia di manifestanti pacifici e hanno documentato la morte di almeno quattro di loro. Sebbene abbiano ammesso di aver ricevuto oltre 900 denunce di violazioni dei diritti umani commesse dalla polizia a partire dall’agosto 2020, le autorità bielorusse non hanno avviato una sola indagine mentre ne hanno aperte centinaia contro manifestanti pacifici, molti dei quali vittime di maltrattamenti e torture. Nel suo rapporto, Amnesty International presenta terribili resoconti di arresti di massa di manifestanti pacifici, sottoposti a tortura, obbligati a rimanere nudi o in posizioni dolorose, pestati senza pietà e privati per giorni del cibo, dell’acqua potabile e delle cure mediche. Il più famigerato luogo di tortura è la struttura denominata “Akrestsina”, nella capitale Minsk. La notte tra il 13 e il 14 agosto 2020 i parenti delle persone detenute ad “Akrestsina” hanno registrato i rumori degli incessanti pestaggi, chiaramente udibili all’esterno, e le numerose grida agonizzanti che in alcuni casi chiedevano pietà. Il numero esatto dei manifestanti arrestati arbitrariamente e portati ad “Akrestina” e in altri centri di detenzione di tutto il paese rimane sconosciuto: all’inizio del dicembre 2020, secondo l’Alta commissaria Onu per i diritti umani, aveva già superato quota 27.000 e gli arresti da allora sono proseguiti. Invece di avviare procedimenti penali nei confronti dei sospetti autori di violazioni dei diritti umani, il 28 ottobre 2020 la Procura generale della Bielorussia ha reso noto che erano stati aperti 657 fascicoli nei confronti dei manifestanti e che oltre 200 persone erano state incriminate per rivolta di massa e violenza contro agenti di polizia. Le organizzazioni della società civile hanno documentato decine e decine di procedimenti aperti contro manifestanti pacifici sulla base di accuse false e politicamente motivate. Secondo Amnesty International, il livello senza precedenti di violazioni dei diritti umani e la totale impunità garantita ai responsabili rendono necessaria l’attuazione o l’istituzione di meccanismi di giustizia internazionale. Arabia Saudita, alla faccia del “Rinascimento” di Riccardo Noury Il Manifesto, 30 gennaio 2021 Breve cronistoria dell’era “rinascimentale” a Riad: pena di morte per la minoranza sciita, torture, frustate, carcere, violenze sessuali per le oppositrici, delitto Khashoggi. Se George Orwell fosse stato ancora tra noi, si sarebbe morso a lungo le mani per non essere stato lui ma Matteo Renzi a inventare uno dei più riusciti ossimori del nostro tempo: il “Rinascimento saudita”. Con molta modestia, mi accingo a descrivere una breve cronistoria di questa era straordinaria di riforme, modernità e rispetto dei diritti attribuita al regime di Riad. 27 maggio 2014: Ali al-Nimr, attivista della minoranza sciita della Provincia orientale, viene condannato a morte dal tribunale antiterrorismo per 12 reati tra cui partecipazione a proteste antigovernative, aggressione alle forze di sicurezza, possesso di armi e rapina a mano armata. Ammesso che questi reati li abbia commessi davvero (ha denunciato di averli “confessati” sotto tortura), aveva sì e no 17 anni e dunque, per il diritto internazionale, non può essere condannato alla pena capitale. Nel 2020 è entrato in vigore un decreto che vieta l’esecuzione di condanne a morte nei confronti di rei minorenni. Ma per lui, come per altri due attivisti sciiti in attesa della decapitazione, Abdullah al-Zaher e Dawood al-Marhoon, è prevista un’eccezione data la gravità dei reati di cui sono stati giudicati colpevoli. Ali al-Nimr è ancora nel braccio della morte. Nel frattempo, il 2 gennaio 2016 è stata eseguita la condanna dello zio, lo sceicco Nimr al-Nimr, uno dei più autorevoli leader religiosi sciiti. 9 gennaio 2016: Raif Badawi, blogger, attivista e fondatore del portale “Liberali sauditi”, viene fatto scendere da un pulmino, in catene. La piazza di fronte alla moschea al Jafali di Gedda è piena di gente, al termine della preghiera del venerdì. Arriva il funzionario addetto all’esecuzione delle pene e lì, al centro della piazza, inizia ad agitare la frusta. Una, due, 10, 50 volte. Dopo 15 minuti lo “spettacolo” è terminato. Il pulmino riparte. Per fortuna, le altre 950 frustate previste dalla sentenza non sono state eseguite. Raif Badawi è in carcere, però, perché la condanna emessa nei suoi confronti il 1° settembre 2014 ha previsto anche 10 anni di carcere. E arriviamo ad una data importante e drammatica. Il 2 ottobre 2018: Jamal Khashoggi, giornalista e dissidente, entra nel consolato saudita di Istanbul. Non ne uscirà vivo. “L’hanno smembrato con una sega”, dichiareranno poi due funzionari dei servizi di sicurezza turchi al New York Times. Vengono diffuse immagini, girate dalle telecamere di sicurezza della rappresentanza diplomatica, che mostrano l’ingresso del “team speciale” inviato da Riad per trucidare Khashoggi. Per la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie, Agnes Callamard, il giornalista è stato vittima di “una esecuzione extragiudiziale di cui, sulla base delle norme sui diritti umani, lo stato saudita è responsabile”. Vengono processati in tutta fretta alcuni funzionari di basso e medio livello dei servizi sauditi. In primo grado arriva la condanna a morte, poi sarà commutata. 28 dicembre 2020: Loujain al-Hathloul scoppia a piangere non appena ascolta il verdetto. Deve ritenersi persino fortunata: la condanna non è stata a 20 anni, come aveva chiesto la pubblica accusa ma a “soli” cinque anni e otto mesi. Da questi vengono sottratti gli oltre due anni e mezzo trascorsi in carcere dal 15 maggio 2018 tra torture, isolamento e violenza sessuale. Quella che gli account Twitter vicini alla casa reale saudita offendono come “traditrice”, “spia qatariota” e “terrorista”, è una straordinaria e coraggiosa attivista per i diritti delle donne, che sta pagando un duro prezzo per aver invocato e ottenuto riforme per la parità di genere come la fine del divieto di guida e l’abolizione del sistema del guardiano maschile, un tutore che fino a poco fa prendeva tutte le decisioni al posto delle familiari quali sposarsi, viaggiare, lavorare, andare all’università, persino sottoporsi a cure mediche e a interventi chirurgici. Con Loujain sono in carcere altre quattro compagne di lotta: Nassima al-Sada, Samar Badawi, Maya’a al-Zahrani e Nouf Abdulaziz. P.S. Aggiungo un’ultima data a questa veloce cronologia, quella del 29 gennaio 2021, quando il governo Conte ha deciso di sospendere e revocare le forniture di armi a Riad. Niente più bombe italiane, dunque, per il “Rinascimento saudita”. Yemen. Centomila morti dopo, l’Italia applica la legge: basta armi ai sauditi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 30 gennaio 2021 Bombe disinnescate. Il governo alla fine accoglie la richiesta di revoca definitiva delle esportazioni verso Riyadh e gli Emirati. 12.700 ordigni in meno da scaricare sullo Yemen. La vittoria delle organizzazioni che per anni si sono battute per questo storico risultato. Francesco Vignarca, di Rete Italiana Pace e Disarmo: “Si può fare”. E ora riconversione “pacifista” della fabbrica sarda Rwm. La gioia esplode di mattina. Lievita rapidamente dopo la pubblicazione del tweet di Rete Italiana Pace e Disarmo che per prima dà la notizia, storica: il governo italiano revoca le esportazioni di armi verso Arabia saudita ed Emirati, principali attori e aguzzini della coalizione sunnita che dal marzo 2015 bombarda lo Yemen per farlo tornare il cortile di casa propria. Centomila morti dopo, l’Italia applica la sua stessa legge, la 185 del 1990 che vieta la vendita di armi a paesi coinvolti in conflitti armati e violatori di diritti umani. Nello specifico, a essere definitivamente revocate sono le forniture autorizzate dopo l’inizio del conflitto e ancora non consegnate: oltre 12.700 bombe che non finiranno negli arsenali sauditi ed emiratini, spiegano le organizzazioni che da anni si battono per il rispetto della legge, Amnesty Italia, Comitato Riconversione Rwm, Fondazione Finanza Etica, Medici senza Frontiere, Movimento dei Focolari, Oxfam Italia, Rete Italiana Pace e Disarmo, Save the Children Italia, European Center for Constitutional and Human Rights e Mwatana for Human Rights. La decisione - che recepisce la risoluzione a firma Yana Chiara Ehm (M5S) e Lia Quartapelle (Pd) approvata lo scorso dicembre dalla commissione esteri della Camera - riguarda sei autorizzazioni per missili e bombe d’aereo, di cui 20mila ordigni approvati dal governo Renzi per un valore di 411 milioni. Sono le stesse che il governo Conte aveva sospeso nel luglio 2019 e che rappresentano quasi la metà di tutte le autorizzazioni concesse negli ultimi cinque anni. Resta inoltre in piedi la sospensione della concessione di nuove licenze a favore di Abu Dhabi e Riyadh. “La sospensione era in scadenza in questi giorni - ci spiega Francesco Vignarca, di Rete Italiana Pace e Disarmo - ma da tempo ci eravamo mossi per ottenere un rinnovo. In commissione, però, avevamo tentato una carta più coraggiosa: non solo uno stop temporaneo ma la revoca definitiva. Il governo ha accettato”. “Ci sono tre cose da notare dopo questo risultato - aggiunge Vignarca - Primo, visto che ci sono altre armi in giro e altri fornitori, il fatto che l’Italia prenda le distanze da una delle parti in conflitto la rende più credibile nel premere per la pace. Secondo, intendiamo estendere la nostra azione sia in termini di sistemi d’arma che di paesi, perché si rivolga a tutti gli Stati membri della coalizione che bombarda lo Yemen e a chi viola i diritti umani, penso all’Egitto. Terzo, per la prima volta si revocano autorizzazioni già concesse ed è enorme il valore simbolico di questa decisione. Dice una cosa: si può fare. Tante volte ci è stato detto che una volta che l’autorizzazione è stata data non si torna indietro. Non è così: se le condizioni mutano si può revocare. Lo dice la 185”. Tra chi festeggia ci sono i pacifisti sardi che da anni si battono per la trasformazione della Rwm di Domusnovas, l’azienda che produce gli ordigni diretti nel Golfo per conto della casa madre tedesca Rheinmetall, in una fabbrica civile che dia lavoro senza compromessi. “Un enorme risultato, avevamo ragione noi - ci dice Angelo Cremone di Sardegna Pulita, anche a nome di DonneAmbienteSardegna e Wilpf Italia - Lo scorso dicembre a Roma sotto la sede del ministero per lo Sviluppo economico avevamo chiesto, in modo folkloristico, l’arresto dei ministri che avevano violato la 185. Stasera (ieri per chi legge) una nostra delegazione vedrà la sottosegretaria Todde: presenteremo la nostra proposta di riconversione della Rwm in un caseificio”. L’azienda, millantando crisi per la sospensione del 2019, ha messo in cassa integrazione decine di operai e non rinnovato i contratti a tempo determinato. Eppure - lo scrivevamo lo scorso 15 novembre - ha in essere commesse milionarie con Qatar e Turchia. Una realtà che non ha fermato ieri la Filctem-Cgil locale che, per bocca del segretario Madeddu (in contrasto con le linee guide della Cgil nazionale che spinge per la riconversione), ha dato voce al timore di un’emorragia di posti di lavoro in una regione, il Sulcis, già disastrata sul piano occupazionale. La battaglia continua, consapevoli del risultato storico. Che arriva insieme a una buona dose di ironia: giovedì spopolava il video di Matteo Renzi che a Riyadh pronosticava il prossimo “rinascimento” saudita, un one-man-show a favore del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, definito “un grande” (dopotutto riuscì a chiamare al-Sisi un “grande statista”). Dando prova di un incomprensibile senso della democrazia (di cui Conte in Italia, per il senatore di Iv, è un vulnus), Renzi ha cantato dietro lauto compenso le lodi di un paese che più medievale non c’è: attiviste torturate e detenute per aver chiesto di guidare, oppositori in galera, boia sommersi di lavoro, donne cittadine di serie B sottoposte al sistema del guardiano, migranti in condizioni di semi schiavitù (ah, per Renzi è abbassamento del costo del lavoro, parole sue), minoranze religiose sottomesse. E così via. “Ovviamente è una coincidenza - così ci saluta Vignarca - Il governo non ha revocato l’export perché Renzi è andato a Riyadh: la decisione era stata già presa, c’è stato solo un recepimento formale. Ma va detta una cosa: Matteo Renzi non è solo un ex primo ministro, è un componente della commissione difesa del Senato e fino a pochi mesi fa della commissione esteri. La prima compra e vende armi, la seconda dovrebbe verificare il rispetto della 185. La cosa più grave è questa: Renzi è in carica, rappresenta il popolo italiano in parlamento e fino a poco fa era nella maggioranza di governo”.