Caro Conte, come non detto: sul carcere non ci siamo capiti di Giovanni Maria Flick e Luigi Manconi Il Dubbio, 2 gennaio 2021 Gentile Presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte, mentre le rivolgiamo i nostri più sinceri auguri di buon anno, intendiamo chiederle scusa per il tempo prezioso che le abbiamo fatto perdere. Due settimane fa, infatti, lei ebbe la cortesia di accogliere la nostra richiesta di un incontro a Palazzo Chigi per discutere della situazione del sistema penitenziario italiano in tempo di pandemia. Nonostante un’agenda di incontri particolarmente impegnativa, e nel pieno di una fase di verifica della solidarietà di governo, lei ha trovato quasi un’ora di tempo per ascoltare dati e valutazioni che, insieme a Gherardo Colombo e a Sandro Veronesi, abbiamo voluto esporle. Abbiamo sottolineato quale sia, al di là delle cifre ufficiali, purtroppo non sempre corrispondenti a realtà, l’effettivo stato di sovraffollamento delle carceri italiane; e come le misure generali di prevenzione e profilassi, valide per tutti i cittadini, semplicemente non siano applicabili in alcun modo in ambienti, pensati per due tre reclusi, dove si trovano invece anche sei, sette, otto persone. Abbiamo sottolineato, inoltre, come la pericolosità del contagio in carcere non vada misurata esclusivamente in base al numero dei ricoverati in ospedale o in terapia intensiva (numero relativamente ridotto), ma sul dato dei positivi asintomatici: dal momento che questi ultimi, in ambienti altamente congestionati, rappresentano un fattore particolarmente acuto di diffusione del contagio, al di là della manifestazione dei relativi sintomi. Abbiamo segnalato, poi, come anche le misure di prevenzione più elementari quali il ricorso alle mascherine, siano largamente disattese. Da qui la nostra richiesta che si prendessero in considerazione provvedimenti - condivisi da operatori del settore, sindacati di polizia penitenziaria, centinaia di docenti di diritto penale, magistrati di sorveglianza, il Garante nazionale delle persone private della libertà e personalità eminenti come il procuratore generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi - destinati a ridurre in misura rilevante la popolazione detenuta. Lei, in quell’incontro, si mostrò molto interessato alle nostre proposte e si impegnò a discuterle col ministro della Giustizia, a ricevere la dirigente radicale Rita Bernardini, allora come oggi in sciopero della fame, e a visitare un carcere. L’incontro con Rita Bernardini c’è stato e così la visita all’istituto romano di Regina Coeli, ma le parole che successivamente ha avuto modo di dire, nel corso della conferenza stampa di fine anno, ci hanno lasciato profondamente perplessi. Abbiamo ascoltato solo ed esclusivamente frasi di rassicurazione sul fatto che la situazione delle nostre carceri sia pienamente sotto controllo, di ridimensionamento dello stato di diffusione del contagio in carcere, con la sottolineatura del numero ridotto di persone ricoverate e sottoposte a terapia intensiva, e - come sempre da mezzo secolo - una sola indicazione di prospettiva: la costruzione di nuove carceri. Ne abbiamo ricavato la sensazione che il nostro incontro sia stato pressoché inutile. Non pretendevamo, certo, che lei seguisse i nostri suggerimenti, ma speravamo che almeno, in una qualche misura, ne tenesse conto. Ce ne rammarichiamo. E, tuttavia, continuiamo ad aver fiducia nella possibilità di qualche ulteriore riflessione da parte del Governo su un tema tanto delicato e dolente. Noi continuiamo a essere disponibili a dare il nostro modesto contributo. Cordiali saluti e ancora auguri di buon anno. Covid e vaccini. Perché dobbiamo proteggere chi sta in carcere di Liliana Segre e Mauro Palma* La Repubblica, 2 gennaio 2021 Difficile dover decidere le priorità nell’accesso a una misura di tutela della salute, così fondamentale come un vaccino, mentre incombe tuttora il rischio dell’esplosione dei suoi improvvisi focolai. Per questo l’azione del governo - e del ministro della Salute in particolare - a cui è affidata la responsabilità di tale decisione va guardata con rispetto. Difficile dover decidere le priorità nell’accesso a una misura di tutela della salute, così fondamentale come un vaccino, mentre incombe tuttora il rischio dell’esplosione dei suoi improvvisi focolai. Per questo l’azione del governo - e del ministro della salute in particolare - a cui è affidata la responsabilità di tale decisione va guardata con rispetto, senza accavallare pressioni e senza la pretesa di avere la parola decisiva. Tuttavia esiste un criterio ineludibile: la protezione deve essere più rapida laddove la vulnerabilità è maggiore, sia per fragilità soggettiva, sia per il contesto a cui una persona è esposta. Da qui, infatti, la decisione di priorità per il personale sanitario, per gli ospiti nelle residenze per anziani o disabili. Per questi ultimi, la doppia vulnerabilità, quella personale e quella dell’ospitalità all’interno di un luogo chiuso, dove la libertà di movimento è fortemente limitata se non preclusa, è fattore decisivo per stabilire una vulnerabilità accentuata. Eppure non sono le sole persone a vivere tale criticità, perché i luoghi di privazione della libertà sono anche altri, tutti tenuti insieme dallo stesso rischio di uno sviluppo non controllabile del contagio, una volta che il virus sia entrato in quegli ambienti. Per questo, già nell’interrogazione formulata al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia in data 17 dicembre a firma Segre, De Petris e Marilotti è stata evidenziata la necessità di considerare l’ambiente carcerario come luogo di prioritaria attenzione nella vaccinazione che il nostro Paese sta predisponendo. Il carcere è luogo strutturalmente chiuso, dove peraltro, dati i numeri attuali, la misura preventiva del distanziamento è impossibile e dove il tempo trascorso all’interno di un ambiente stretto e condiviso, quale è la camera di pernottamento, ricopre ampia parte della giornata, se non quasi la sua totalità. La connotazione personale e sociale della popolazione detenuta rivela inoltre una particolare vulnerabilità dal punto di vita sanitario, dati i difficili percorsi di vita che molto spesso connotano coloro che giungono in carcere. Positivamente, la Camera dei Deputati ha approvato un ordine del giorno, d’iniziativa di Roberto Magi, che impegna il Governo a muoversi in tale direzione. Ora è importante che questa indicazione entri effettivamente nella programmazione degli interventi vaccinali e che alla doverosa priorità assegnata a coloro che in carcere operano, si affianchi quella per coloro che vi sono detenuti. Anche perché è ovvio che la condizione materiale di un luogo dove la convivenza è forzata crea tra tutti i presenti un rapporto inscindibile, per cui l’eventuale contagio tra i carcerati finirebbe per riverberarsi anche sugli stessi operatori che si prevede di proteggere con priorità. Ma non è soltanto un principio di equità, e non è neppure solo un imperativo dettato da quell’aggettivo “fondamentale” che la nostra Carta attribuisce al diritto alla tutela della salute di ogni persona, indipendentemente dal suo essere libero o detenuto, innocente o colpevole. È proprio un obbligo, poiché alla privazione della libertà dei custoditi fa riscontro la responsabilità per il loro benessere di chi esercita il diritto-dovere di custodirli, cioè dello Stato. Siamo dunque certi che il Governo saprà dare la necessaria priorità ad un piano vaccinale che riguardi tutte indistintamente le persone che vivono e lavorano nelle carceri. *Liliana Segre è senatrice a vita, Mauro Palma garante nazionale dei diritti dei detenuti “Il carcere va cambiato e il Pd presenterà la sua riforma” di Giulia Merlo Il Domani, 2 gennaio 2021 Intervista a Walter Verini. Dodici mesi di promesse da mantenere sui fondi europei. “Questo sarà l’anno delle riforme della giustizia”, dice Walter Verini, tesoriere del Pd che da sempre si occupa di giustizia. La riforma del penale e del civile verranno approvate? A metà gennaio scade in commissione alla Camera il termine per gli emendamenti alla riforma del processo penale. Per il civile, al Senato è incardinata la riforma complessiva e, anche per dare risposta alle richieste europee, è probabile che il governo interverrà con alcune anticipazioni attraverso un decreto. L’Europa chiede di velocizzare i tempi dei processi, basta quanto previsto nel Recovery plan? Il 2020 è stato un anno importante per le assunzioni, ora è il momento di riformare il modello organizzativo. Le riforme vanno nella direzione di abbattere i tempi dei processi: per il civile attraverso la semplificazione dei riti; per il penale, con la fissazione di tempi certi per le fasi di indagine e i gradi di giudizio, in modo da non superare i 6 anni. Sarebbe un risultato straordinario. Basta imputati a vita e basta vittime che non vedono giustizia. Il Pd ha chiesto un cambio di passo, vale anche per la giustizia? Sì e in particolare per la riforma del carcere. Come Pd abbiamo un cruccio: con Andrea Orlando avevamo scritto una riforma importante, che però non è riuscita a percorrere l’ultimo miglio anche a causa di una insufficiente spinta da parte del Consiglio dei ministri, Guardasigilli a parte. Poi il governo con il Salvini del “buttiamo via la chiave” buttò anche la riforma. Noi intendiamo rilanciare le parti innovative di quella riforma, anche per depenalizzare alcuni reati che non creano allarme sociale, per rafforzare le misure alternative al carcere e i percorsi di rieducazione. Oggi le carceri sono luoghi prevalentemente afflittivi, inadeguati a reinserire nella società chi ha scontato la pena. Il ministro parla di costruire nuove carceri. Serve? Noi non pensiamo tanto a nuove carceri, quanto a interventi dentro ai perimetri carcerari, per allestire nelle aree esterne delle strutture già esistenti luoghi di socialità e formazione, che servano appunto a trasformare gli istituti penitenziari in luoghi di pena ma anche di recupero. Questo aiuterebbe a combattere il gravissimo sovraffollamento, a rendere umano il trattamento e a tutelare il lavoro della polizia penitenziaria. Italia viva sembra voler riaprire il dibattito sulla prescrizione… Il tema è importante, ma non va agitato strumentalmente. La vera sfida è quella di far sì che il processo penale abbia tempi ragionevoli, in modo che i procedimenti non arrivino alla prescrizione. Se tutto rimanesse come ora la prescrizione tornerebbe - giustamente - ad essere una questione, ma mi chiedo: interessa di più agitare pubblicamente il tema della prescrizione o garantire la ragionevole durata dei processi lavorando tutti insieme al ddl penale e portare a sei anni la durata dei tre gradi di giudizio? Renzi ha definito “giustizialista” il piano di Conte per la giustizia… Tutti noi abbiamo il dovere di rendere meno tossico il dibattito sulla giustizia. Bisognerebbe smetterla sia con il falso garantismo, che scatta a corrente alternata a seconda del soggetto in questione, ma anche con il populismo giudiziario a cui spesso hanno ceduto soprattutto i Cinque stelle. Qual è la via di mezzo? Quella che riporta ai capisaldi fondamentali, a partire dalla presunzione di innocenza: un avviso di garanzia o una sentenza di primo o secondo grado non possono essere usati come indizi di colpevolezza. Spetta ai singoli valutare l’opportunità o meno di passi indietro nell’interesse delle istituzioni. Il problema riguarda anche i giornali: basta vedere come un certo modo di raccontare le inchieste che poi magari si sono concluse con l’assoluzione, ha cambiato la vita dei cittadini e persino il corso di vicende politiche. Con inaccettabili tempi biblici per avere giustizia. La lista di cose da fare è lunga, ce la farete? Se la legislatura dura fino al 2023 e lavoreremo bene, potremmo farcela ad approvare tutte le grandi riforme. Spero possa nascere un patto virtuoso anche con l’opposizione. Confrontiamoci e lavoriamo insieme per un obiettivo che credo sia interesse comune di tutti: togliere la giustizia dal terreno tossico della lotta politica e riformarla davvero. Che errore ignorare la moratoria sulla pena di morte votata dall’Onu di Andrea Pugiotto Il Riformista, 2 gennaio 2021 Tutti i Paesi abolizionisti sono prima passati attraverso una moratoria. Considerarla compromissoria rispetto a un ripudio non negoziabile della pena capitale, significa anteporre una battaglia di principio a una battaglia di scopo che dal 2007 al 2020 ha fermato le esecuzioni di migliaia di condannati e che vede l’adesione di un numero di Stati sempre crescente. 1. Nel cupo presente del mondo in cui viviamo, le poche buone novità globali non andrebbero trascurate. È quanto invece accaduto al voto del 16 dicembre scorso, espresso dall’Assemblea Generale dell’Onu a favore della moratoria sull’uso della pena di morte e sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie: se ne è scritto solo su questo giornale, meritoriamente, grazie alla sottosegretaria agli Esteri, Marina Sereni, e alla tesoriera di Nessuno Tocchi Caino, Elisabetta Zamparutti (Il Riformista, 16 e 19 dicembre). Altrove, la notizia non ha fatto notizia. Perché? 2. La pena capitale - è la risposta di tanti - non è più un problema per il nostro Paese, dove non esiste da tempo: per l’esattezza, dal 4 marzo 1947. Quel giorno, in esecuzione di una sentenza della Corte d’Assise di Torino del 5 luglio 1946, tre rapinatori ritenuti responsabili della strage di Villarbasse furono fucilati per aver ucciso a bastonate dieci persone ed averne gettato i corpi in un pozzo. Da allora, la Repubblica italiana non ha più inflitto la pena di morte. Del resto - continuano i più - la storia italiana è tradizionalmente abolizionista: con la sola eccezione della parentesi fascista, la pena capitale è stata cancellata dalla nostra legislazione fin dal primo codice penale dell’Italia unitaria, adottato nel 1889 su impulso del guardasigilli Zanardelli. È una mezza verità, dunque una mezza bugia. La nostra è semmai una storia tendenzialmente abolizionista, avendo sempre contemplato l’applicazione della pena di morte “nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”, come recitava anche la Costituzione repubblicana (art. 27, 4° comma). Eccezione pericolosa, perché a simili leggi sono soggetti - ancorché in tempo di pace - tutti i corpi di spedizione all’estero impegnati in operazioni militari, con il relativo personale di comando, di controllo e di supporto. Da qui il rosario di decreti legge approvati d’urgenza ad ogni missione di peace-keeping al fine di scongiurarvi l’applicazione della pena capitale, fino alla decisione di abolirla dal codice penale militare di guerra (legge n. 589 del 1994). Risale invece solo a tredici anni fa la scelta di ripudiarla incondizionatamente, espressa con legge costituzionale n.1 del 2 ottobre 2007: “Non è ammessa la pena di morte”. Punto (e basta). Fino ad allora - cioè fino a ieri - il nostro è stato, dunque, un Paese retenzionista. 3. Quella dell’art. 27, 4° comma, non è una revisione costituzionale simbolica. Approvata a maggioranza qualificata da entrambe le camere, la legge n.1 del 2007 ha evitato il referendum popolare confermativo. Entrata in vigore, in quanto legge costituzionale è sottratta anche a referendum abrogativo popolare e richiede, per una sua ipotetica revisione, un procedimento legislativo aggravato. Così, la scelta abolizionista è stata giuridicamente messa in sicurezza. Ciò è un bene, perché il vento forcaiolo può fare il suo giro, e soffiare nella direzione di un ritorno al passato. Come in passato. Nel 1928, Benedetto Croce scriveva nella sua Storia d’Italia che l’abolizione della pena di morte era ormai un fatto di costume, e che l’idea stessa di una sua restaurazione era inconciliabile con il sentimento nazionale. Eppure, dopo pochi anni, il fascismo la reintrodusse senza grandi turbamenti nell’opinione pubblica, e con i chierici del diritto pronti ad argomentare - come Francesco Carnelutti sulle pagine della Rivista di Diritto pubblico - il diritto dello Stato di disporre della vita dei cittadini in analogia all’istituto civilistico dell’espropriazione per pubblica utilità. L’abolizionismo, infatti, è sempre un successo fragile, facilmente insidiabile. Magari applicando l’analisi economica al diritto, arrivando così a giustificare la preferibilità della pena di morte al carcere a vita, perché meno onerosa per l’erario. Oppure teorizzando l’inevitabilità della pena capitale per una residuale categoria non-umana di rei, “i Mostri” (così - con tanto di maiuscola - Nicolò Amato, Caino e Abele. Vita per vita?, Treves editore, 2016): assassini nati, protagonisti recidivi di reati efferati, impermeabili a qualsiasi minaccia retributiva o misura rieducativa, verso i quali l’unica deterrenza efficace è metterli nella materiale impossibilità di continuare a uccidere, giustiziandoli. Del resto, l’ultimo rapporto Censis sulla realtà sociale del Paese attesta un’impennata dei favorevoli alla pena capitale (il 43,7% degli italiani, quasi uno su due), con punte del 44,7% tra i giovani: né poteva essere diversamente, considerate le tante tricoteuses che animano il dibattito pubblico dei delitti e delle pene. Se questo è il nuovo che avanza, è stato davvero lungimirante scolpire nella nostra Costituzione che il divieto della pena di morte non può essere più messo ai voti. 4. Controcorrente, l’abolizionismo costituzionale suggella così il paradigma rieducativo penale, declinandolo - una volta per tutte - in termini di reinserimento sociale. La soppressione della pena capitale, infatti, cancella l’unica eccezione costituzionalmente prevista alla finalità rieducativa della pena (prescritta dall’art. 27, 3° comma), restituendole la forza dell’inderogabilità: ora, davvero, si può affermare che, per la Costituzione italiana, nessuna persona è mai persa per sempre. C’è dell’altro. Come insegna l’esperienza statunitense, la giustificazione aggiornata della pena di morte è oggi in un suo evoluto scopo terapeutico: Caino va giustiziato nel nome di Abele per ripristinare il benessere collettivo e fornire una chiusura psicologica alle vittime traumatizzate. L’abolizionismo costituzionale, a contrario, conferma il monopolio pubblico del diritto punitivo, mettendolo al riparo da forme di sostanziale privatizzazione: fossero anche quelle di una difesa sempre legittima (come si vorrebbe far dire al nuovo art. 52 del codice penale), o di una rifondazione del senso della pena a partire dai bisogni delle vittime. Il monopolio statale nell’esecuzione penale, infatti, serve proprio per emanciparla dalla vendetta privata, trasformandola in esigenza di giustizia pubblica proceduralmente normata. Nello Stato di diritto Caino deve essere punito, ma non in forme equivalenti al suo crimine, perché a forza di “occhio per occhio” si diventa tutti ciechi. 5. L’abolizionismo costituzionale non ha solo una funzione difensiva. Impone al nostro Stato di concorrere a rifondare una grammatica delle relazioni internazionali che elevi il ripudio della pena di morte a standard giuridico. Vale, innanzitutto, nella cooperazione giudiziaria, in cui deve operare il divieto di estradizione e di espulsione verso Paesi dove il soggetto corra anche soltanto il rischio di essere giustiziato, “perché il divieto contenuto nell’art. 27, 4° comma, della Costituzione, e i valori ad esso sottostanti - primo fra tutti il bene essenziale della vita - impongono una garanzia assoluta” (così la sentenza costituzionale n. 233/1996 sul noto “caso Venezia”). Già oggi, del resto, l’abolizione della pena capitale è condizione necessaria per l’appartenenza o per l’adesione all’Unione Europea e al Consiglio d’Europa, rappresentando oramai a livello continentale (con l’unica eccezione della Bielorussia) un inedito elemento identitario. Il suo dilagare ha anche consentito l’esclusione della pena capitale dall’arsenale sanzionatorio della Corte penale internazionale, che pure giudica di reati indicibili. Ciò segna una significativa discontinuità con le pregresse esperienze di giurisdizione internazionale: gli statuti dei Tribunali di Norimberga (1945) e di Tokyo (1946), infatti, prevedevano per i crimini di guerra la pena di morte, poi eseguita in concreto. 6. Di questo puzzle, tessera imprescindibile è oramai la politica - a riconosciuta leadership italiana - per la moratoria universale della pena di morte. Dopo due tentativi falliti, l’Assemblea Generale dell’Onu, dal 2007 al 2020 ha approvato otto risoluzioni per la sospensione delle esecuzioni capitali, nella prospettiva dell’affermazione del diritto universale a non essere uccisi per mano dello Stato. La loro implementazione ha fermato fucilazioni, impiccagioni, iniezioni letali, elettrocuzioni, decapitazioni di migliaia di condannati altrimenti senza scampo: basta immaginare i loro volti e le loro voci, per capire che non si tratta di un mero dato statistico. Eppure l’iniziativa dell’Onu viene trascurata, quando non giudicata con sufficienza, perché solo ottativa e non vincolante per i singoli Stati. È un grave errore che ne sottostima l’efficacia, sia tattica che strategica. Lo strumento della moratoria, infatti, traduce in tempi politici i tempi storici dell’abolizionismo, e l’esperienza pregressa attesta che tutti i Paesi oggi abolizionisti sono sempre passati attraverso la fase intermedia di una moratoria, legale o di fatto. Osteggiarla con sdegno perché compromissoria rispetto al non negoziabile ripudio della pena capitale, significa anteporre una battaglia di principio di mera testimonianza ad una battaglia di scopo sempre più estesa: il voto del 16 dicembre scorso ha registrato (su 193 membri dell’ONU), 123 Stati favorevoli, 38 contrari, 24 astenuti, 8 assenti, confermando così il progressivo aumento delle nazioni acquisite alla causa. 7. Nel nostro ordinamento, dunque, non esiste più la pena di morte. Vi sopravvive invece l’ergastolo, che pure della pena capitale è l’ambiguo luogotenente. È vero storicamente: l’ergastolo si afferma - Cesare Beccaria docet - non come alternativa umanitaria ma per ragioni di efficienza, essendo la sua perpetua estensione ben più afflittiva rispetto all’intensità della condanna a morte. È vero anche giuridicamente: vigente la pena capitale, il codice penale equiparava lo status dell’ergastolano a quello del condannato a morte; così come, all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione, la pena capitale fu convertita di default con quella del carcere a vita. Pena di morte e pena fino alla morte (qual è l’ergastolo senza condizionale) sono come gemelli diversi. Entrambe esprimono un assolutismo retributivo, amputando dalla pena la sua finalità rieducativa. Entrambe pagano dazio all’errore giudiziario, sempre possibile, tollerando l’inaccettabile rischio di punire irreversibilmente un innocente. Entrambe, in nome di esigenze collettive di difesa sociale, strumentalizzano il condannato per fini di politica criminale, violandone la dignità individuale. Entrambe lo costringono a un trattamento inumano e degradante qual è il “soggiacere per lunghi anni nel braccio della morte e all’angoscia e alla tensione crescente del vivere all’ombra sempre presente della morte” (così la Corte Europea dei diritti umani, nella causa Soering c. Regno Unito). L’art. 27, 4° comma, della Costituzione esprime il divieto assoluto e generalizzato della morte come pena. Così interpretato, l’ergastolo senza condizionale ne rappresenta un’illegittima eccezione. Anche nei suoi confronti si imporrebbe una “moratoria” (magari attraverso l’ormai prossima decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo), nella prospettiva di relegare la pena fino alla morte, come già la pena di morte, tra gli inutili arnesi della storia. Giustizia penale: con la scusa del Covid, volevano fare carta straccia del diritto di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 2 gennaio 2021 La ovvia e da noi penalisti condivisa necessità di ridisegnare temporaneamente regole e modalità di celebrazione dei processi di fronte alla morsa della pandemia ha armato il tentativo di ribaltare le regole costituzionali. Tentativo che noi abbiamo sconfitto. È stato l’anno nero della giustizia. Breve riassunto. Il 1° gennaio dell’anno scorso è scattata l’abolizione della prescrizione, in evidente violazione dell’articolo 111 della Costituzione. Il Governo promise che avrebbe riparato al danno riformando in pochi mesi il processo penale e rendendolo rapido, sicuro, garantista ed efficiente. Cosa ha fatto in questi mesi? Zero. In primavera è scoppiata (con un anno di ritardo) magistratopoli. Perché sono emersi tutti (non tutti per la verità: diversi son stati nascosti) i documenti del caso Palamara. È risultato evidente che gran parte dei vertici della magistratura sono corrotti. Che le nomine dei capi delle Procure e dei tribunali sono clientelari e illegali. Che la magistratura non è indipendente ma al comando del partito dei Pm. Che migliaia di processi sono irregolari. Poi è scoppiato il clamoroso caso Berlusconi: la certezza che la sentenza di terzo grado contro di lui nel processo per evasione fiscale (che portò all’unica condanna nei suoi confronti e allo smantellamento della sua influenza politica e del suo partito) era illegale. Poi l’amnistia concessa dalla Cassazione ai magistrati coinvolti in magistratopoli (amnistia totale salvo che per Luca Palamara). Infine, le nuove rivelazioni del Riformista sull’insabbiamento di una notevole quantità di materiale d’indagine, di nuovo, sul Palamaragate. Oggi la magistratura è del tutto priva di credibilità. Forse anche di legittimità. Dopo 25 anni di dominio politico della magistratura, la corruzione non è stata nemmeno scalfita, l’economia colpita a morte, la democrazia politica azzerata. Cosa è cambiato? L’aumento smisurato del potere dei magistrati. C’è una sola soluzione per ricostruire una macchina della giustizia. L’uso del piccone. Quello di Cossiga. Tutto a zero e si ricomincia. Riforma totale. Perché ciò avvenga bisogna che i magistrati si facciano da parte e la politica riprenda in mano i suoi poteri e i suoi doveri. Succederà? Buon 2021! Non è certo difficile formulare a tutti ed a ciascuno di noi l’augurio più appropriato ai tempi difficili che stiamo vivendo: lasciamoci questo 2020 alle spalle il più lontano possibile, e speriamo di poter recuperare nel nuovo anno, quanto più possibile, la normalità della nostra vita quotidiana. Credo però sia indispensabile esprimere anche un augurio meno scontato ma non meno importante: l’emergenza sanitaria non diventi strumento di governo della vita sociale ed istituzionale oltre gli stretti confini della sua dimensione sanitaria. Il Covid- 19 non diventi un pretesto per manomettere regole, diritti, princìpi di libertà e di civiltà faticosamente costruiti negli anni. È purtroppo facile che questo accada, quando una comunità sociale smarrita ed impaurita si affida, deve affidarsi, a chi la governa nella tempesta. Sul terreno della giustizia penale, che misura più di ogni altro gli equilibri sempre in bilico tra potere dello Stato e libertà dei cittadini, abbiamo già toccato con mano come questo abbia rischiato ripetutamente di accadere. La ovvia e da tutti noi condivisa necessità di ridisegnare temporaneamente regole e modalità di celebrazione dei processi penali di fronte ai morsi della pandemia, ha armato in modo formidabile il tentativo di sovvertirne strutturalmente le regole costituzionali. La improvvisa evidenza della eclatante necessità - ben oltre l’emergenza - di modernizzazione dell’accesso alla giustizia ha occasionato il tentativo di realizzare il desolante sogno gratteriano del processo penale on line, della riduzione a icona del diritto di difesa. I penalisti italiani sissignore, esattamente noi - grazie anche ad una incessante e a tratti feconda interlocuzione con Governo e Parlamento, hanno saputo sconfiggere, pur pressati come eravamo e siamo dalla grave crisi della nostra vita lavorativa, questa formidabile aggressione al diritto di difesa dei cittadini, e l’idea burocratica ed autoritaria del processo penale che incessantemente la alimenta. Ma il risultato più straordinario che abbiamo incassato è stata la concreta dimostrazione che quella idea - lo ripeto: incolta, ottusa, rozzamente burocratica - è estranea alla gran parte della magistratura italiana, la cui indifferenza - quando non repulsione - per il videogioco del processo penale è stata diffusamente registrata, con sollievo e grande soddisfazione, sui territori dalle nostre 131 camere penali. Ed anche quando il Parlamento ha voluto mantenere le vestigie di quel tentativo, prevedendo la possibilità di inconcepibili camere di consiglio da remoto (una idea non so dire se più stupida o più irresponsabile), le indisponibilità - di fatto, ma anche formalmente dichiarate in documenti congiunti con noi - di importanti Corti di Appello Italiane ha confermato il naufragio della baldanza avanguardista dei fanatici del videoprocesso. Ma ci aspetta ora, con il nuovo anno, un percorso ancora più impervio, visto che viene nuovamente rilanciata, come priorità della lumeggiata ricostruzione sociale ed economica del paese, la famosa “riforma del processo penale”, accompagnata da quella dell’ordinamento giudiziario. Il primo, sincero augurio che mi sento di formulare è che non si realizzino, viste le disastrose premesse, né l’una, né l’altra (e in fondo, ad occhio e croce, non è una speranza così peregrina). Ma se davvero prenderà avvio il percorso parlamentare, dobbiamo dare fondo alla più forte mobilitazione della comunità dei giuristi della quale saremo capaci, perché almeno la pubblica opinione sappia quali sono i valori, i diritti e le libertà in gioco. So per certo una cosa: un Parlamento, un legislatore che intenda nuovamente riformare (o controriformare) la giustizia penale ignorando senza riserve - come è accaduto con la riforma della prescrizione - l’opinione ed i moniti dei giuristi di tutte le Università italiane, si assumerebbe una responsabilità senza precedenti. Vorrei ricordare al Ministro Alfonso Bonafede, dalle cui idee sulla giustizia penale siamo esattamente agli antipodi (e lui dalle nostre), ma che ha sempre mostrato nei nostri confronti attenzione e rispetto non solo formali, che nel 2019 egli aveva raccolto nelle sue mani una occasione letteralmente impensabile, date le premesse di cui sopra. Un accordo tra Anm (allora presieduta dal dottor Mìnisci), ed Ucpi, valutata con sostanziale favore dalla stessa Associazione degli Studiosi del processo penale, che individuava - in un grande, reciproco sforzo di mediazione - aree congennaio divise di intervento di una riforma in grado di ridurre grandemente i tempi irragionevoli del processo penale italiano, senza pregiudicarne le fondamenta costituzionali disegnate dall’articolo 111. L’attuale legge delega ha letteralmente dilapidato quel patrimonio di idee condivise, e sarebbe utile che qualcuno ce ne spiegasse la ragione. Al tempo stesso, vorrei ricordare alla componente non grillina della attuale maggioranza che i suoi esponenti dichiararono di non ostacolare la entrata in vigore della sciagurata riforma della prescrizione solo a condizione che la riforma dei tempi del processo penale entrasse in vigore in pochi mesi. Era il 2020, la cambiale è scaduta. Coerenza ed onestà intellettuale impongono di intervenire immediatamente per riformare quella riforma, bollata come sciagurata pressoché da tutti i giuristi italiani. Per quello che è nelle nostre forze, state certi che non vi daremo tregua. Buon anno di lotte civili e di passione democratica a tutti i penalisti italiani, e ai tanti cittadini italiani che condividono e sostengono le nostre battaglie ed il nostro impegno. *Presidente Unione Camere penali italiane “Se Renzi vuole processi più veloci, voti il ddl penale” di Errico Novi Il Dubbio, 2 gennaio 2021 “Se lo vedessi per un caffè gli chiederei caro Renzi, intendiamoci sugli obiettivi, a te cosa interessa? Sei anche tu dell’idea che i processi debbano andare più veloci in modo che il nodo della prescrizione non si ponga neppure?”. Mario Perantoni dev’essere stato scelto per lo spirito zen. È presidente della commissione Giustizia della Camera in un momento pazzesco: il 21 gennaio scade il termine degli emendamenti al ddl penale, e i renziani hanno già detto molto chiaramente che, se Bonafede non aprirà il tavolo per rivoltare la prescrizione come un calzino, loro proporranno di bloccare la norma del 2019 attraverso l’emendamento Annibali. Sembra un rischio fatale, insomma, per la riforma, e Perantoni è lì, nel mezzo, fra la sua maggioranza, il Movimento di cui è “orgogliosamente” parte, e la sua funzione di garante. Esposta al rischio che fra Renzi e le opposizioni la riforma vada per aria, e magari pure la maggioranza di governo. Visto l’altolà di Italia viva sulla prescrizione, è pessimista sul futuro del ddl penale? No, sono ottimista per natura, e lo sono a partire da un principio molto chiaro, che è ispiratore dell’intero disegno di legge presentato dal ministro Bonafede: rendere più veloci i tempi dei processi in modo che neppure ci si trovi dinanzi al rischio che un reato si estingua. Quindi vorrei chiedere a Matteo Renzi e agli amici di Italia viva esattamente questo: la pensate anche voi così? Pensate anche voi che si debba dare priorità a uno snellimento della giustizia atteso anche dai partner europei? Volete processi veloci o volete che vadano in prescrizione? Se tifate per la prima opzione, allora bloccare la riforma, e tutto il progetto della maggioranza sulla giustizia, non ha senso. Intanto il suo voto sull’emendamento Annibali rischia di essere decisivo... Siamo 46 in commissione, certo, l’equilibrio dei numeri è abbastanza sottile. Sa, che il mio voto in commissione, durante l’esame degli emendamenti risulti decisivo è una cosa che non mi auguro. D’altra parte sono alla Camera per volontà degli elettori del Movimento 5 Stelle: non c’è motivo di pensare che non debba esprimere, anche col mio voto, le convinzioni per le quali mi sono candidato e sono stato scelto. Ma se il suo voto sul lodo Annibali fosse decisivo, non sarebbe un grande auspicio per il cammino della riforma: al Senato Italia viva è determinante... Mi permetto di essere ottimista anche qui, e ho diversi motivi. Innanzitutto io credo che gli equilibri nei prossimi mesi potrebbero cambiare. Una pace con Renzi? O pensa che una parte dei senatori di Iv non lo seguirebbe? Diciamo che ci sono diversi elementi tutti plausibili. Intanto al Senato siedono alcuni parlamentarti oggi non annoverati nella maggioranza ma comunque eletti con il Movimento 5 Stelle: immagino che su questioni importanti qual è la giustizia penale voterebbero in coerenza con il mandato ricevuto. In secondo luogo non mi sento di escludere un atteggiamento più coerente da parte della Lega. La Lega? A cosa si riferisce? Nel precedente governo la Lega condivise l’idea che si dovesse tentare di rendere più veloci i processi e che in un quadro del genere la riforma della prescrizione fosse più che sostenibile. Mi aspetto che si ricordino di questa loro posizione e votino in coerenza. È accettabile indebolire le garanzie difensive per rendere più veloci i processi? Non ci sono moltissimi strumenti disponibili su cui poter fare leva, per assicurare maggiore rapidità. Certo non si possono introdurre tout court tempi predeterminati per la definizione delle diverse fasi del processo, dunque la tempistica non può essere semplicemente scaricata sui magistrati, se non rispetto a casi di negligenza grave, cioè in circostanze davvero estreme. La via stretta ha finito per orientare alcune delle modifiche previste dal ddl penale verso soluzioni che impattano piuttosto sull’imputato e la difesa. Come i tanti appelli che non verrebbero più decisi da un collegio o l’addio quasi totale alla rinnovazione del dibattimento in caso di sostituzione del giudice? Ecco, le posso dire che la commissione ha prestato grande ascolto ai rilievi avanzati su questi aspetti durante le audizioni, innanzitutto dall’avvocatura. Come presidente della commissione mi sento di dire che nella fase emendativa è plausibile possa esserci modo di tenere in conto quei rilievi. La norma che più forse può snellire riguarda i maggiori poteri del gup: Italia viva la critica. È per la poca fiducia nell’autonomia del gup dal pm? Io capisco che qui si è dinanzi a un tema serio, ossia il peso che le ipotesi dell’accusa assumono anche nell’udienza preliminare per via della risonanza mediatica, per il contorno che sembra rafforzarle. Devo dire molto sinceramente che, per cultura personale, per la mia estrazione di avvocato e anche per le mie origini sarde, io sono molto legato a un’idea di sobrietà nella comunicazione. Credo serva misura, discrezione. Mi piacerebbe molto vedere maggiore rispetto della riservatezza delle indagini. Credo anche che quanto è conoscibile debba essere conosciuto, ma insomma sono convinto che il giudice dell’udienza preliminare abbia diritto di trovarsi meno accerchiato dalle aspettative esterne. L’autonomia del giudice è però sottovalutata, probabilmente. In che senso? Nella magistratura è in corso e sta per completarsi un cambio generazionale e culturale. Chi è entrato da non molti annoi è probabilmente più in sintonia con la cultura del codice dell’ 89, dunque se si tratta di un giudice è tendenzialmente più consapevole della distanza, aumentata, fra le funzioni sue e quelle del pm. Quindi questa norma dell’udienza preliminare può essere la novità più utile a deflazionare il carico? Sì, tra l’altro potrebbe anche contribuire a superare un aspetto che va comunque risolto: la tendenza della difesa a preferire il dibattimento all’udienza preliminare, nel senso che al gup spesso arrivano pochi elementi della difesa, rispetto all’accusa. Anche per questo va a dibattimento un numero di procedimenti superiore al dovuto, con tutto ciò che ne viene in termini di rallentamento. A proposito di garanzie: questi anni in Parlamento hanno indotto un po’ il M5S a preservarle di più? Credo che il nostro Movimento non abbia mai disconosciuto i diritti dell’imputato. Siamo convinti assertori dell’intangibilità dei diritti per tutti i cittadini, e certo chi è sotto processo non può essere escluso. C’è stata però una battaglia suscitata da un fenomeno a nostro giudizio disfunzionale: l’uso legittimo di alcune garanzie in vista di una impunità altrettanto legittimamente conseguita ma che mortificava l’aspettativa di giustizia. Vogliamo sciogliere questo nodo, ma non certo smantellare il diritto di difesa. Procura europea, i dubbi del Csm: incompatibile con il modello italiano di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 2 gennaio 2021 Passato sotto silenzio il parere del Consiglio superiore della magitratura sull’istituzione di “Eppo”. Non piace l’idea di un pm alle dipendenze del potere politico. Il rammarico del togato Cascini: “Non si è tenuto conto delle specificità delle nostre Procure”. È passata sotto silenzio questa settimana la votazione del parere del Csm sull’istituzione della Procura europea “Eppo”, a regime da quest’anno. Un ufficio che, usando le parole del pm Nino Di Matteo, sarà il “cavallo di Troia” nell’ordinamento italiano, prevedendo la figura del pm alle dipendenze del potere politico. La Procura europea, prevista con il Trattato di Lisbona del 207, è un organismo indipendente dell’Ue incaricato di indagare, perseguire e portare in giudizio i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione (ad esempio, le frodi ai danni del bilancio dell’Unione, comprese le operazioni finanziarie quali l’assunzione e l’erogazione di prestiti, i reati contro il sistema comune dell’Iva compiuti in due o più Stati membri ed il cui danno complessivo sia almeno pari a 10 milioni di Euro, il riciclaggio). A tal proposito Eppo svolgerà indagini, eserciterà l’azione penale ed esplicherà le funzioni di pubblico ministero davanti agli organi giurisdizionali degli Stati membri. Attualmente gli Stati membri partecipanti a Eppo, fra cui l’Italia, sono 22. La sede della Procura europea e del procuratore europeo è a Lussemburgo. La novità, e quindi il “cavallo di Troia” come dice Di Matteo, riguarda la nomina, prettamente politica, del procuratore capo europeo e dei procuratori europei. In particolare, per il procuratore capo, la competenza è del Consiglio e del Parlamento europeo. Per i procuratori europei della Commissione europea. Nel 2019 la scelta del Consiglio e del Parlamento europeo è caduta sulla 47enne rumena Laura Codruta Kövesi, prima procuratrice capo europea. Gli interessati a ricoprire questa posizione avevano presentato direttamente la propria candidatura, senza alcuna designazione preventiva da parte degli Stati membri. Lo scorso luglio la Commissione ha provveduto alla nomina dei procuratori che supervisioneranno le indagini e le azioni penali e formeranno il collegio di Eppo, insieme alla procuratrice capo europea. I procuratori europei sono stati nominati per un mandato di sei anni non rinnovabile. Alla fine di tale periodo, il Consiglio potrà decidere di prorogare il mandato per un massimo di tre anni. I candidati dovevano essere membri attivi delle Procure o della magistratura degli Stati membri. Dovevano poi possedere le qualifiche necessarie per essere nominati ad alte funzioni a livello di Procura o giurisdizionali nei rispettivi Stati membri e vantare una rilevante esperienza pratica in materia di sistemi giuridici nazionali, di indagini finanziarie e di cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale. Gli Stati, per la nomina del loro procuratore europeo, dovevano fornire una terna di nomi al Consiglio per la successiva designazione. L’Italia è rappresentata dal pm Danilo Ceccarelli, già sostituto a Savona, Imperia e Milano. Ogni Stato membro dell’Unione avrà, infine, i suoi procuratori europei delegati. La rivoluzione della Procura europea è, dunque, relativa alla selezione dei magistrati che la compongono: non più nomine da parte del Csm ma nomine politiche. Un altro aspetto importante è relativo al coordinamento investigativo con l’Autorità nazionale, nel caso italiano con la Direzione nazionale antimafia ed antiterrorismo. “Chi ha rappresentato l’Italia per Eppo in sede europea non conosceva la realtà delle Procure italiane”, ha commentato il togato di Area Giuseppe Cascini, già aggiunto alla Procura di Roma. “Non si è tenuto conto della nostra specificità”, ha ricordato, sottolineando che tale sistema “va bene per i Paesi dove l’attività inquirente dipende dall’esecutivo: il nostro modello ordinamentale è diverso”. In concreto si tratta dell’inserimento di ‘ un corpo estraneo” nella “felice anomalia” del pm italiano che è un magistrato e non un funzionario. Anche il laico della Lega Stefano Cavanna ha criticato l’impostazione generale di Eppo, incompatibile con la Costituzione italiana. Fra le criticità il fatto che i pm europei saranno collocati “fuori ruolo” pur continuando ad esercitare l’azione penale nei confronti dei cittadini italiani. Dove non sono mai arrivate le iniziative delle Camere penali sulla separazione delle carriere, arriva ora l’Europa. Patrocinio a spese dello Stato, fondo annuo aumentato di 40 milioni con la Manovra Il Dubbio, 2 gennaio 2021 “La legge di Bilancio per il 2021 porterà forze fresche e ingenti capitali nei settori di competenza del ministero della Giustizia”. È il dato che il guardasigilli Alfonso Bonafede ha tenuto a rivendicare nell’ultimo giorno dell’anno, poche ore dopo il via libera definitivo del Parlamento alla Manovra, con un post su Facebook. Un riassunto dell’investimento previsto soprattutto sul carcere (e che in buona parte erano stati segnalati su queste pagine sull’edizione del 31 dicembre, ndr) e che il ministro della Giustizia definisce “straordinario”, considerate le “risorse disponibili da subito e quelle che saranno assicurate nei prossimi anni”. Ma tra le voci da segnalare, Bonafede cita anche l’incremento di 40 milioni l’anno previsto per lo “stanziamento delle spese di giustizia”. Un fondo a cui, come lui stesso ricorda, si attinge anche per pagare gli onorari degli avvocati che assumono il patrocinio a spese dello Stato. Un segnale di attenzione, che fa seguito alla “mobilitazione” dei 92 milioni di euro utilizzati, negli ultimi mesi, per saldare i tanti debiti sofferti dallo Stato proprio nei confronti di chi aveva assicurato, negli ultimi anni, la difesa dei meno abbienti. “Solo con l’immissione di risorse consistenti, adeguate assunzioni e investendo sulle strutture e infrastrutture”, scroive il guardasigilli, “saremo nelle condizioni di garantire un servizio giustizia che possa rispondere in modo efficiente alle istanze di cittadini e imprese. Penso ai Tribunali e alle Procure che potranno contare su ulteriore personale, ma anche al sistema penitenziario, per adulti e minorenni, e di comunità che potrà beneficiare di sempre crescenti risorse umane e finanziarie per aumentare la sicurezza delle strutture, il trattamento dei detenuti e la funzionalità dei servizi dell’esecuzione penale esterna”. Il ministro passa, quindi, a elencare nel dettaglio le risorse messe a disposizione dalla legge di Bilancio: si tratta di “420 milioni (anni 2021- 2026) per investimenti nel campo dell’edilizia giudiziaria e dell’informatizzazione; 80 milioni di euro per potenziare le infrastrutture penitenziarie (anni 2021- 2026)”. Si passa quindi alla “assunzione straordinaria di 1.935 agenti di Polizia penitenziaria nel piano quinquennale (anni 2021- 2025) per tendere alla copertura della pianta organica del Corpo; assunzione di 330 magistrati ordinari vincitori del concorso; incentivi per i magistrati destinati alle piante organiche flessibili distrettuali”. E ancora: “Assunzione di 3.000 unità di personale amministrativo da inquadrare nell’amministrazione giudiziaria a partire dal 2023; assunzione di 200 unità per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria; aumento di organico di 100 unità, con relativa assunzione, dell’Amministrazione penitenziaria per quanto riguarda il personale destinato al trattamento dei detenuti”. Viene ricordato, ancora, l’”incremento di 1 milione di euro per la rete di assistenza alle vittime di reato; fondo di 4,5 milioni destinato alle case famiglia protette per diminuire la presenza di bambini in carcere al seguito di genitori detenuti”. Fino, appunto, al ricordato “incremento di 40 milioni di euro all’anno dello stanziamento delle spese di giustizia da destinare agli ausiliari del giudice e agli avvocati del patrocinio a spese dello Stato”. Napoli. Poggioreale Covid Free, i penalisti: “Ora il vaccino come nelle Rsa” di Viviana Lanza Il Riformista, 2 gennaio 2021 Il carcere di Poggioreale è Covid free. Il più grande e più affollato penitenziario d’Italia ha chiuso l’anno con un bilancio positivo sul fronte della gestione dell’emergenza epidemiologica. Considerato che i contagi a Poggioreale superavano i cento fino a circa un mese fa, c’è da riconoscere un merito al lavoro svolto per contenere il diffondersi della pandemia nelle celle da parte del direttore Carlo Berdini, del direttore sanitario Vincenzo Irollo, del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone, ma anche l’impegno dei detenuti a rispettare le regole anti Covid all’interno della struttura nonostante la mancanza di spazi, le carenze e le rinunce che il periodo emergenziale ha imposto, dalle attività trattamentali e ai colloqui con i familiari. Zero contagi a Poggioreale è un risultato che consente, quindi, di tirare un sospiro di sollievo ma guai ad abbassare la guardia. Proprio il carcere di Poggioreale ha pagato un tributo pesantissimo durante la seconda ondata della pandemia, con due detenuti morti per Covid. E siccome la pandemia è ancora in atto e nelle carceri campane ancora si fanno ancora i conti con contagi ed emergenze, è più che mai necessario un intervento per non vanificare gli sforzi e i sacrifici fatti finora. Ne sono convinti anche i penalisti napoletani. Il carcere è un mondo chiuso e ad alto rischio pandemico, proprio come le Rsa. Ma a differenza delle Rsa, il carcere non è stato inserito dal Governo tra i luoghi dove avviare con priorità il piano di vaccinazioni. “Le carceri - osservano i penalisti dei direttivi guidati dall’avvocato Marco Campora, presidente della Camera penale di Napoli, e dall’avvocato Anna Maria Ziccardi, leader del Carcere possibile - presentano notevolissime similitudini con le Rsa, essendo luoghi in cui di fatto è impossibile mantenere il distanziamento fisico e la cui popolazione è in larghissima misura portatrice di gravi e croniche patologie. Riteniamo doveroso, pertanto, anche in ossequio all’articolo 3 della Costituzione che impone di trattare situazione che presentano le medesime caratteristiche in modo eguale, che agli istituti penitenziari si assegni la medesima priorità già prevista per le case di cura: tale iniziativa assumerà reale significato solo se seguita dall’effettiva immediata adozione di tutte le misure idonee ad affrontare la grave e nota situazione epidemiologica che affligge gli istituti penitenziari della Campania”. I dati sullo stato delle carceri (sovraffollamento, carenza di educatori e personale sociosanitario, problemi di edilizia penitenziaria, Covid) non possono essere ignorati. “Occorre peraltro avere ben chiaro che il piano di vaccinazione nelle carceri impone necessariamente anche l’adeguamento delle piante organiche sanitarie negli istituti penitenziari (allo stato talmente carente da non consentire di fatto il diritto di cura dei detenuti) per evitare di distogliere il già limitato personale sanitario dallo svolgimento di tutte le attività ordinarie”. “L’atteggiamento del Governo in questi mesi di pandemia è stato di totale disinteresse verso il carcere e la sua popolazione lasciata completamente al suo infausto destino - sottolineano gli avvocati osservando come tardiva, rispetto agli appelli lanciati dall’avvocatura e da varie associazioni, sia stata la visita di mercoledì a Poggioreale del ministro Alfonso Bonafede - Non si è voluto, di fatto, incidere sul sovraffollamento come la situazione avrebbe imposto e, nel contempo, non si è previsto alcun piano specifico per consentire anche negli istituti penitenziari il rispetto delle regole che vigono nel mondo di fuori”. “È possibile però un cambio di rotta”, affermano i penalisti napoletani. “L’esecuzione immediata di un piano di vaccinazione dei detenuti, ultimi tra gli ultimi, indicherebbe una nuova rotta in cui lo Stato, recuperando un principio di lealtà nei confronti dei suoi cittadini, torni a farsi garante di chi non ha voce e non può proteggersi da solo”. Il governo Conte e il ministro Alfonso Bonafede, questa volta, accoglieranno per tempo l’appello? Savona. “Vogliono fare il nuovo carcere nell’area dell’ex fabbrica dei veleni” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 gennaio 2021 “Si apprende di una proposta degli enti locali per la collocazione di un nuovo carcere nell’area piemontese dell’ex fabbrica “dei veleni”, l’Acna di Cengio”. A denunciarlo attraverso il dossier di fine anno è Bruno Mellano, il garante dei diritti dei detenuti del Piemonte. Come mai? Tutto parte dalla chiusura del vecchio carcere di Savona avvenuta nel 2016. Anche se parliamo della città ligure, come ha ben spiegato il garante Mellano nel dossier, l’ambito territoriale del Prap di Torino comprende anche la Liguria e la Valle d’Aosta ed inevitabilmente le scelte del distretto ricadono direttamente o indirettamente anche sulle strutture penitenziarie e sui ristretti piemontesi. Per questo motivo, sia in termini di gestione del personale, sia nei trasferimenti che sul distretto vengono decisi a Torino, sia negli sfollamenti fra istituti, di cui usufruiscono frequentemente case circondariali molto grandi, come Torino. Ecco perché Mellano fa un riferimento al vecchio carcere di Savona. L’ex istituto sorgeva in centro a Savona sulla collina del Monticello, dove nella seconda metà del trecento vennero eretti la Chiesa ed il convento di Sant’Agostino. Il complesso, articolato su tre livelli, subì nei secoli trasformazioni e modifiche. Ad inizio dell’ottocento, a seguito della soppressione degli ordini monastici operata dalle leggi napoleoniche, il convento diventa sede di carcere giudiziario, funzione che ha ricoperto per più di due secoli per venire - finalmente - chiuso solo nel 2016. L’ex fabbrica dei veleni - Ebbene, il Garante Mellano ora apprende della proposta degli enti locali per la collocazione di un nuovo carcere nell’area dell’ex fabbrica “dei veleni”, l’Acna di Cengio, su un’area gestita dalla Syndial, ora Eni-Rewind. “Le ragioni che spingono il Ministero di Giustizia e quello delle Infrastrutture per l’acquisizione e la costruzione di un istituto penale in quel sito sono certamente rispettabili (riutilizzo dell’area, posti di lavoro, mercato immobiliare, ecc.) - denuncia il garante del Piemonte - ma non hanno nulla a che fare con i problemi di un’esecuzione penale volta al reinserimento sociale, ad assicurare una pena dignitosa, a contatto con le famiglie e con i servizi del territorio”. Mellano segnala però una possibile alternativa. Ovvero la presenza “dell’imponente ed adeguato complesso di edifici della Scuola di Polizia Penitenziaria di Cairo Montenotte (Sv), che ha ampi spazi e significative strutture di servizio, e che - con lungimiranza della Direzione - sta già sperimentando sia il lavoro all’esterno dei detenuti della Casa di Reclusione a custodia attenuata di Fossano (Cn), sia l’utilizzo di stanze per l’accoglienza sul territorio di soggetti in misura alternativa, accettando una sfida di senso e di prospettiva, per un carcere davvero “nuovo”!”. Quando l’inquinamento ritornò a galla - La denuncia del garante Mellano è seria e desta preoccupazione. Sembrava che l’idea di costruire un nuovo carcere in quella zona fosse stata cestinata e invece è di nuovo in auge. Parliamo di terre fortemente inquinate, dove la bonifica non è tuttora completata, frutto di un disastro ambientale, forse uno dei più terribili che ha coinvolto l’Europa. A fine novembre 2016, un periodo di piogge intense è culminato con una grande piena dei corsi d’acqua del Piemonte meridionale. In alcuni fiumi la piena ha assunto carattere di vera e propria alluvione, testimoniata anche dall’emergenza in termini di protezione civile che ha caratterizzato quei giorni. Gli abitanti del posto hanno testimoniato la presenza di un odore acre, a tratti nauseabondo. L’alluvione è stata così dirompente che interi tratti di fascia ripariale sono rimasti stravolti e persino distrutti, con abbattimenti di alberi anche di grosse dimensioni. Inoltre, i sedimenti fluviali sono stati depositati nell’ampia fascia pianeggiante ai lati del fiume e grazie alla colorazione diversa del suolo dei terreni agricoli sono rimasti chiaramente visibili anche per diversi mesi dall’evento alluvionale. Da più parti sono state fatte segnalazioni di odori caratteristici dei sedimenti tipicamente associati alla pluridecennale vicenda dell’ex- Acna. In quell’anno, quindi, è ritornato a galla la memoria storica del grande disastro ambientale. Il 23 luglio di più di 30 anni fa una grande nube tossica si sollevò dallo stabilimento Acna di Cengio: in poche ore raggiunse numerosi comuni sul confine tra Liguria e Piemonte, causando intossicazioni e forti preoccupazioni tra la popolazione. La fuoriuscita di gas tossici era solo l’ultima di una lunga serie di incidenti e danni ambientali causati dall’Acna, contro la quale si battevano da tempo i comuni della val Bormida, valle che dall’entroterra di Savona si estende fino al Basso Piemonte lungo il corso del fiume Bormida. La vicenda dell’Acna e dei decenni che furono necessari per riuscire a chiuderla è esemplare nella storia dell’ambientalismo in Italia: l’incidente del 1988 contribuì alla fine dello stabilimento nel 1999, mentre i danni ambientali per la val Bormida e i suoi comuni sono evidenti ancora oggi. Ora vogliono costruirci addirittura un carcere sopra? L’Aquila. Il carcere di massima sicurezza rischia di chiudere: sarebbe abusivo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 gennaio 2021 Il carcere di massima sicurezza de l’Aquila rischierebbe di chiudere perché abusivo? Mercoledì scorso, il Consiglio di Stato ha ributtato la palla al Tar sulla decisione del Commissario per gli usi civici che da tempo ha riconosciuto che i terreni su cui è stato costruito il carcere di massima sicurezza de L’Aquila sono di proprietà dei ‘ naturali’ della frazione di Preturo. Parliamo di un terreno occupato abusivamente dal 1 luglio 1982. Un terreno dove sorge, appunto, il carcere de L’Aquila (ospita anche la sezione del 41bis) e che quindi, astrattamente, potrebbe essere chiuso. Nel 2014 la Corte d’Appello di Roma sezione speciale usi civici accertò però la natura dei terreni annullando di fatto tutto ciò che era stato realizzato fino ad allora, espropri compresi. La sentenza condannò l’Agenzia del Demanio Abruzzo e Molise al rilascio dei fondi interessati da uso civico e cioè i 4 ettari di terreno rimandando per l’esecuzione alla Regione Abruzzo che intraprese tutti i passaggi necessari con una determina del marzo 2015 per reintegrare i terreni. L’Amministrazione separata, successivamente, fece reintegra e voltura. L’Agenzia del demanio, che era stata condannata al rilascio dei fondi, non fece nulla. Qui si inserisce il ricorso al Tar dei beni separati per ottemperanza: un anno fa aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del Tribunale amministrativo a decidere sulla vicenda dichiarando competente in materia il Commissario per gli usi civici della Regione Abruzzo. Il Consiglio di Stato, com’è detto, ha ributtato la palla al Tribunale amministrativo regionale. Chiaro però che non si arriverà mai all’abbattimento del carcere, quindi si potrebbe prospettare un accordo fra amministrazione separata di Preturo e Agenzia del demanio col riconoscimento dell’indennizzo economico La struttura del carcere de L’Aquila è stata ultimata nel 1986, ma l’istituto è entrato in funzione nel 1993. La particolarità che su un centinaio di detenuti sottoposti al 41bis, sette sono donne. Le loro celle si trovano alla fine di un lungo tunnel sotterraneo, sono grandi due metri per due e si affacciano sul nulla. Tra di loro, ricordiamo, c’è l’unica detenuta al 41bis non appartenente alla criminalità organizzata. Parliamo di Nadia Desdemona Lioce, la leader delle ex nuove Brigate Rosse, condannata a tre ergastoli per gli omicidi, commessi con finalità di terrorismo, dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi e del sovrintendente di Polizia Emanuele Petri. Parliamo di una organizzazione brigatista che è stata completamente smantellata nel 2003 con gli arresti. Ed è dal 2005 che il 41bis le viene applicato di proroga in proroga, nonostante le cosiddette nuove brigate rosse siano state smantellate dal 2003. Novara. “Usare i fondi Ue per recuperare l’ex carcere femminile” di Marco Benvenuti La Stampa, 2 gennaio 2021 La proposta del Garante regionale dei detenuti: la palazzina chiusa da dieci anni potrebbe ospitare i servizi sanitari e risolvere alcune criticità. Sovraffollamento delle celle, criticità strutturali e logistiche, ma anche sanitarie e trattamentali, cui si è aggiunto, ultima in ordine di tempo, la pandemia. Sono tanti i problemi delle carceri piemontesi contenuti nel Quinto dossier presentato il 30 dicembre dall’onorevole Bruno Mellano, garante regionale delle persone detenute. Alla vigilia del nuovo anno il deputato lancia una proposta: “Come non pensare di utilizzare parte dei fondi Ue destinati all’Italia per far compiere un salto di qualità alla sanità e all’edilizia penitenziaria?” E se non ora quando?” Nel sottolineare alcune priorità per il 2021, Mellano fa cenno anche ad alcune necessità della casa circondariale di Novara: “È urgente e indispensabile il recupero e la rifunzionalizzazione della palazzina interna alla cinta muraria, un tempo destinata alla sezione femminile, struttura che risulta chiusa da oltre 10 anni”. Secondo il garante dei detenuti, “la collocazione in tale palazzina di tutti i locali adibiti ai servizi medico-infermieristici valorizzerebbe il presidio sanitario regionale interno al carcere, consoliderebbe e razionalizzerebbe l’accesso delle ambulanze, servizio erogato dall’Asl di Novara, e potrebbe rispondere, con sempre maggior efficacia ed efficienza, a una responsabilità propria del servizio sanitario, cogliendo anche la particolare esigenza della casa circondariale connessa alla presenza del circuito detentivo speciale del 41bis, con la presenza molto particolare di circa 70 ristretti del regime di “carcere duro”“. Il carcere di via Sforzesca ha una capienza di 159 posti. Al 28 dicembre erano presenti 178 detenuti, in calo rispetto ai mesi di novembre (185) e settembre (192). Nel corso del 2020 il numero non è mai sceso sotto le 173 persone, a testimonianza, come ha sottolineato di recente anche la Camera penale di Novara, che persiste il problema del sovraffollamento. Un problema che poco si concilia con un’epidemia come quella da Covid 19. Per i penalisti è necessario aumentare i dispositivi di sicurezza anti contagio e i controlli, e sono fondamentali norme per prevedere la libertà anticipata o per scarcerare i detenuti non pericolosi e chi ha una pena breve da scontare, sotto i due anni, così da evitare sovraffollamenti nelle celle. Il garante Mellano va oltre. Ritiene che “in una stagione complessa come quella degli ultimi mesi, dove la crisi che si sta attraversando può rappresentare anche un’opportunità per un cambiamento radicale, lo specifico contesto dell’esecuzione penale deve essere un terreno su cui misurare la capacità di un cambio di passo. Le sentenze della Cedu e i monitoraggi degli organismi di garanzia offrono ai decisori politici e istituzionali l’occasione di un intervento di prospettiva e di innovazione”. Le criticità in Piemonte sono tante, e vengono elencate: strutture fatiscenti e strumentazioni vecchie, ascensori e montacarichi fuori uso, acqua piovana che entra nelle stanze e nelle infermerie, stanze di osservazione psichiatrica con il wc alla turca in bella vista. In regione sono detenute complessivamente 4.164 persone, 381 in più rispetto alla capienza regolare. Nel 2020, nel nostro Paese, 157 persone sono morte in carcere, di cui circa un terzo (55) per suicidio. Fra loro anche un egiziano detenuto a Novara, che si è tolto la vita a marzo. È il primo decesso in via Sforzesca dal 2016 (quando due italiani morirono di malattia) a oggi. Ariano Irpino (Av). Maraia (M5S) visita il carcere: “Il 2021 sia anno di rinascita umana” orticalab.it, 2 gennaio 2021 Ieri, giorno di Capodanno, ho fatto visita ancora una volta alla Casa Circondariale “Pasquale Campanello” di Ariano Irpino. I primi auguri di buon 2021 li ho voluti fare di persona ai detenuti ed al personale di polizia penitenziaria. Tutti stiamo soffrendo la pandemia Covid, ma vi assicuro che c’è chi non solo soffre più di noi ma, cosa peggiore, ha perso anche la speranza. Ebbene, il 2021 dovrà essere l’anno della speranza, della solidarietà e della rinascita, in primis per gli anziani, i sanitari, i pazienti, i detenuti e tutte quelle persone che sono sole. Ma il 2021 non lo vivrò come una semplice speranza, bensì come un impegno, quello di realizzare la solidarietà e la rinascita. Ho potuto apprezzare i miglioramenti apportati nella vita carceraria e mi sono state ribadite le difficoltà oggettive di tipo organizzativo di cui il personale penitenziario ancora soffre. Ho, inoltre, potuto salutare ed ascoltare alcuni detenuti di vari padiglioni che mi hanno esposto varie problematiche personali. Ho ribadito la massima vicinanza da parte mia per questo momento di difficoltà e ho promesso un maggiore impegno per la risoluzione delle criticità illustratemi. La visita è servita per verificare il lavoro svolto in termini di potenziamento del personale di polizia penitenziaria. Abbiamo, inoltre, fatto il punto sul ruolo svolto dal presidio ospedaliero di Ariano Irpino nell’assistenza ai detenuti, nonché sulla mancanza di personale, come i ragionieri, nelle funzioni amministrative. Un dato positivo è attualmente rappresentato dall’incremento del numero degli educatori, benché, purtroppo, siano costretti ad operare in modalità a distanza, ma si cercherà di metterli in condizione di lavorare in presenza. Abbiamo, ancora, affrontato la questione relativa ai vari progetti che si stanno mettendo in campo per i detenuti, attraverso l’organizzazione di laboratori, attività culturali e formative, ed attività lavorative fuori dal carcere con la collaborazione di imprese locali. Non c’è un giorno da perdere, nemmeno il primo dell’anno, per realizzare quella rete di rapporti istituzionali ed umani necessari a tutti noi. Un semplice gesto di solidarietà arricchisce non solo chi lo riceve. Oggi devo dire grazie ai detenuti, alla Direttrice Maria Rosaria Casaburo ed agli agenti penitenziari, perché questi auguri hanno arricchito la consapevolezza che avevo di questo angolo di umanità. Grazie di vero cuore e a presto. Venezia. Fuochi sul carcere, il sospetto: forse l’omaggio ad un “boss” detenuto Il Gazzettino, 2 gennaio 2021 Aperta un’indagine per i botti di Capodanno a S. Maria Maggiore. Si sospetta un’azione organizzata. Notte di fuoco nel veneziano quella fra San Silvestro e Capodanno. Sia in senso figurato che concreto. A base sempre di botti. Esplosi in aria ma anche dentro i cassonetti. Costringendo in quest’ultimo caso i pompieri a una ventina di interventi in mezza provincia. Ma l’episodio che avrebbe provocato più scalpore tanto da far aprire un fascicolo in Procura sarebbe stato una sorta di spettacolo pirotecnico del tutto illegale andato in scena qualche secondo dopo la mezzanotte proprio sopra il carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia, tramite l’utilizzo di un cannoncino posizionato nell’immediata vicinanza dell’ingresso. In una zona che dire sorvegliata è ancora poco. Particolare questo che fa sembrare poco probabile che si sia trattato di una casualità o di una bravata ma anzi che autorizza a pensare a un atto organizzato in ogni dettaglio. Tanto che c’è qualcuno che ipotizza un messaggio destinato a qualche detenuto eccellente o anche un gesto di sfida nei confronti delle forze dell’ordine. Chiunque abbia organizzato l’impresa infatti ha messo in conto che poteva anche essere sorpreso, se non all’opera, anche nella fase di allontanamento, dato che in centro storico come in terraferma i controlli erano stato intensificati come da direttiva della Prefettura. In ogni caso nonostante i fuochi d’artificio abbiano fatto scattare l’allarme della struttura penitenziaria non si sarebbero registrati disordini interni tali da mettere a rischio la sicurezza e degli agenti e dei reclusi. Milano. Il teatro sociale e l’arte dentro e fuori il carcere di Guido Peparaio mentinfuga.com, 2 gennaio 2021 Delle donne e degli uomini rinchiusi in un carcere difficilmente si parla. E quando si parla di carcere spesso si dimenticano anche tutte le persone, anche bambini, che soffrono delle condizioni dei reclusi. Parlare di carcere lo imporrebbe anche l’esplosione della crisi sanitaria, insieme a tutto il resto, sovraffollamento in primis. Di questi tempi c’è voluta tutta la forza drammatica di uno sciopero della fame portato avanti per 35 giorni. A metterlo in atto è stata Rita Bernardini, esponente di spicco del Partito radicale e presidente di Nessuno tocchi Caino. A darle una mano concreta c’è stata la staffetta circa 3.500 detenuti, 200 docenti di diritto penale e personaggi di primo piano. Il 22 dicembre scorso Rita Bernardini è riuscita ad incontrare il Presidente del Consiglio al quale ha chiesto provvedimenti immediati sulle carceri in questo momento di emergenza sanitaria. Proviamo a tenere viva l’attenzione sul mondo delle carceri cambiando angolazione, quella di attività che possono aiutare l’inclusione e dare qualche opportunità per il futuro. Abbiamo seguito il seminario “Pratiche e arti performative tra carcere e territorio. Inclusione e opportunità” svoltosi lo scorso 18 dicembre. Un vero e proprio convegno ospitato da Pareti ispirate e introdotto e coordinato da Iris Caffelli, responsabile organizzativo ForMattArt. Il ruolo del teatro, delle arti e in genere delle attività che detenute e detenuti possono svolgere è più di una speranza per il futuro. Cristina Valenti, docente all’Università di Bologna nel suo intervento, “L’età adulta del teatro in carcere”, dopo aver ripercorso la storia del teatro in carcere, dalla sua invenzione negli anni 60 e 70 agli anni 90 quando la Legge Gozzini ne favorì la crescita, ha spiegato che la recidiva si abbassa al 20% in caso di esperienze lavorative rispetto ad una media del 68%/70% e addirittura diventa un 6% per coloro i quali hanno svolto attività artistiche culturali e in particolare di teatro. In questi anni, nel 50% delle carceri si fa teatro e nel 33% lo si fa da dieci anni almeno. Per gli attori detenuti è stata riconosciuta con l’articolo 21 il loro lavoro anche eventualmente con la paga sindacale e la possibilità, se ci sono i requisiti, di farlo fuori dal carcere. Sono stati costruiti teatri o addirittura edifici come al Beccaria e, a Volterra, si sta lavorando ad un teatro stabile di prossima costruzione. Come ha detto sempre Valenti siamo in un’età in cui i detenuti non sono “non attori” ma “attori”, pur non avendo avuto una formazione accademica. E gli spettatori sono più preparati, non vanno più in carcere per vedere i “tatuaggi dei detenuti” ma per assistere ad una forma d’arte. Il convegno ha visto la partecipazione di dirigenti della direzione generale delle politiche della famiglia, genitorialità e pari opportunità della Regione Lombardia, che hanno sottolineato la centralità della programmazione per la tutela delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria. Centralità tornata a manifestarsi con forza attraverso la legge 25/2017 che ha disposto sostegno ai piani territoriali e alla realizzazione di interventi di rete sul territorio tesi al dialogo e alla collaborazione fra le istituzioni della giustizia penitenziaria, i servizi sociali e socio sanitari, gli enti del terzo settore e l’associazionismo. I direttori delle carceri di Vigevano, di Opera, di San Vittore che hanno evidenziato come l’attività teatrale, ormai adulta nei loro istituti, si sia dimostrata capace di creare quella distanza da certe logiche criminali, da parte di chi vi ha partecipato all’interno del contesto penitenziario, con effetti tangibili negli anni, in termini di misure alternative e di ricadute sul territorio. Aggiungendo inoltre che, essendo il compito di prendere per mano una persona che ha fallito nella vita propria e accompagnarlo su percorsi virtuosi qualcosa di entusiasmante al punto da far tremare i polsi, il carcere ha bisogno di fare rete essendo composto di relazioni a cominciare da quella tra il detenuto e la struttura penitenziaria fino ad arrivare a quella con l’esterno e soprattutto con le istituzioni. Su tema della vita fuori e con il fuori dalle mura, Claudio Bernardi, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel suo intervento “Carcere e comunità”, ha sottolineato quanto sia necessario e importante il ruolo della comunità che dovrebbe aprirsi e consentire di andare oltre anche rispetto, ad esempio, alle semplici visite settimanali dei familiari. La comunità non può essere solo spettatore del teatro sociale. Infatti, quando si esprime al meglio durante le feste gli eventi giochi collettivi dovrebbe includere, sospendendo le regole del carcere, le relazioni con i detenuti che partecipano. Come accade, ad esempio a Brescia dove la Festa della Repubblica a Brescia diventa un momento di partecipazione e incontro collettivo tra i detenuti e il resto dei cittadini con i quali si mangia si fa laboratorio, arte stabilendo relazioni. Esplorare per tutto l’anno i momenti collettivi di partecipazione è fondamentale per espandere positività per i detenuti. Organizzare e creare eventi continuativi aiuta la comunità ad accettare e preparare il futuro dopo il carcere per l’inclusione nella normalità. L’interessante punto sullo stato dell’arte del teatro sociale fatto da Stefano Locatelli professore all’Università La Sapienza di Roma ha messo in luce quanta strada ci sia da fare in questo settore, facendoci tornare con i piedi per terra. Per quanto siano scarsi i dati a disposizione, si può dire che, come accade per molte altre realtà, ci troviamo di fronte ad un mondo tipico “del lavoro neoliberista: i lavoratori del teatro sociale hanno competenze elevate, spesso istruzione post-laurea, i contratti sono brevi se non casuali, le collaborazioni sono strettamente connesse all’ottenimento di fondi pubblici o privati, le protezioni legislative di welfare sono sostanzialmente assente, i pagamenti possibili in certi casi solo a consuntivo…”. E per il teatro sociale, quindi, anche per quello che lavora nelle carceri e per i detenuti la strada resta dura da percorrere. Secondo Fabrizio Fiaschini professore dell’Università di Pavia l’unica via per ridare ruolo primario al teatro nella cultura e nella comunità bisognerà passare prima per l’accettazione della realtà. La pandemia ha amplificato “radicalmente gli esclusi”; le esclusioni di molte persone ha di fatto provocato una situazione generale di isolamento e di “regressione psicosociale”. Tra tutti gli esclusi, per la prima volta in maniera così evidente, il mondo delle arti e degli artisti diventano parti di questa vasta realtà delle esclusioni. Quindi “se dobbiamo pensare a processi di inclusione da parte dell’arte e degli artisti nel futuro non si può non avviare un’alleanza con tutti gli esclusi perché solo così di potrà essere emancipati tutti. Bisogna uscire da ogni “cornice di referenzialità” degli artisti e dei performer. E poi provare continuamente a creare “forme di vita, possibilità di vita, che di fatto siano inclusive”. Il convegno ci ha dato l’opportunità di conoscere le attività in altre nazioni, esperienze di teatro e di performance con detenute e detenuti come quella in Polonia raccontata da Diego Pileggi della Compagnia Giubilo Teatro esperienza dove la situazione è meno rosea di quella italiana per quantità e qualità di lavoro essendo partiti anni dopo. Maria Joao del collettivo artistico Pele Associação ha portato l’esperienza di due lavori, uno al maschile e l’altro al femminile nelle carceri di Porto in Portogallo. Un passaggio è stato istruttivo e significativo per l’importanza di fare teatro in strutture carcerarie. Lo spettacolo, una metafora dell’essere in prigione, ha richiesto un anno di lavoro per l’allestimento, I trenta detenuti “si sentivano alla fine forti - tutti all’inizio, quando abbiamo iniziato a parlare delle attività che avremmo fatto con loro, non avevano mai sperimentato il teatro nelle loro vite, non avevano mai sperimentato un processo creativo, […]. Dopo il riconoscimento del pubblico, dei media, della televisione per la quale abbiamo fatto un breve documentario. Poiché la performance era un percorso all’interno della prigione l’idea era quello di cambiarla in uno spettacolo teatrale perché anche gli altri detenuti potessero vederlo”. In Portogallo, non è stato possibile far diventare questa esperienza un gruppo di attori per continuare il processo e far diventare lo spettacolo visibile da altri detenuti perché le istituzioni non possono accettare una condizione di tale forza espressiva, di autonomia nel lavoro. Lo stesso direttore del carcere che ha assistito a lavoro solo alla fine quando è stata rappresentato è rimasto spaventato dalla potenza che esprimevano gesti e parole. In Germania i progetti artistici e i risultati per uomini e donne detenute sono migliori come avuto modo di spiegarci Holger Syrbe della società indipendente aufBruch che lavora con tutte le prigioni di Berlino e lo fa organizzando performance di ogni genere. Non solo ma ci sono interazioni con attori provenienti dall’esterno e agli spettacoli possono assistere spettatori provenienti da ogni dove. Organizzano anche performance e spettacoli all’esterno delle strutture carcerarie. Una realtà che è nata nel 1996 cercando di dare concretezza all’obiettivo di ridare una vita socialmente responsabile ai detenuti, preparandoli alla libertà. Non è semplice perché a parte tutte le problematiche connesse alle circostanze di un mondo recluso si trovano di fronte a persone che in gran numero sono migranti, hanno un basso livello di istruzione, un’alta percentuale di recidive. La loro organizzazione che ha prodotto più di 90 spettacoli lavora proprio coinvolgendo tutti senza distinzione di razza, cultura, educazione e sostenendo, attraverso l’interazione, l’integrazione anche con l’esterno. Spari, manette, cabaret. In una parola Milano di Tiziana Maiolo Il Riformista, 2 gennaio 2021 Potrebbe chiamarsi “Milano ti amo”, l’ultimo libro di Davide Steccanella, avvocato e scrittore. Invece il titolo sembra parlare di tutt’altro: “Milano e la violenza politica 1962-1986”. E non vuol dire che si ami una città “nonostante” quel che è successo in quei vent’anni, ma “anche” per quello. Perché ogni evento ha una sua spiegazione, una propria logica, e la ritrovi in ogni angolo, in ogni viuzza che prima conoscevi perché lì c’era un piano bar o un cabaret, e dopo perché sul selciato era rimasto il corpo di qualcuno. Un periodo di storia che non si è mai voluto veramente elaborare, come fino a delegare tutto alla magistratura. Questo libro finalmente ci aiuta a farlo. Un atto d’amore per la nostra Milano. Scritto da uno nato a Bologna e raccontato, in questo momento, da una nata a Parma, che è a cento chilometri da Bologna e 130 da Milano. Gliene hanno dette di tutti i colori, a ‘sta città, che c’era la nebbia e il cemento, e piazzale Loreto con Mussolini a testa in giù e la Petacci scomposta, e i calabresi con la valigia di cartone chiamati terùn mentre i milanesi si ingozzavano di panettone. E poi la strage e poi gli anni di piombo e poi la città da bere e i paninari, poi la moda, il design e l’Expo precipitati infine nel contagio più contagioso d’Italia. E quattordicimila cittadini milanesi che se ne sono andati nell’ultimo anno. Potrebbe chiamarsi “Milano ti amo”, l’ultimo libro di Davide Steccanella, avvocato e scrittore. Invece il titolo sembra parlare di tutt’altro: Milano e la violenza politica 1962-1986 (Milieu edizioni, euro 18,40). E non vuol dire che si ami una città “nonostante” quel che è successo in quei vent’anni, ma “anche” per quello. Perché ogni evento ha una sua spiegazione, una propria logica, e la ritrovi in ogni angolo, in ogni viuzza che prima conoscevi perché lì c’era un piano bar o un cabaret, e dopo perché sul selciato era rimasto il corpo di qualcuno. Ammazzato dalla polizia o da qualcuno cui era parso naturale, un certo giorno, prendere le armi. Un periodo di storia che non si è mai voluto veramente elaborare, che si è tenuto lontano dalle nostre mani come fosse un tizzone ardente, fino a delegare tutto alla magistratura. La quale ha fatto i suoi conti: 269 sigle armate attive alla fine del 1979, 36.000 cittadini inquisiti, 6.000 condannati, 7.866 attentati e 4.290 gesti di violenza a persone. Cui andrebbero aggiunte le leggi speciali e il nascente uso del “pentitismo”. Cioè le prove generali di quel che sarà in seguito, con la fase di tangentopoli e quella dei processi per fatti di mafia, lo sviluppo di un uso politico della giustizia che prenderà la tangente dell’aggressione ai fenomeni criminali e anche sociali come prevalente rispetto al giudizio sul singolo fatto e sul singolo sospettato. Non è un caso se Armando Spataro, che degli anni Settanta milanesi fu protagonista nel suo ruolo di pubblico ministero, rivendichi il fatto che “il terrorismo perse nei tribunali” ed esalti le leggi del ministro dell’interno Rognoni e, da parte dei magistrati, la “capacità di gestione di un fenomeno divenuto quasi ‘di massa’ come quello dei cosiddetti pentiti”. E dall’altra parte Cecco Bellosi, che fu militante della colonna Walter Alasia delle Brigate rosse, ricordi che “negli anni Settanta c’era un mondo attorno a noi, che voleva cambiare il mondo. La lotta armata -questo è il mio pensiero netto- ne è stata la parte estrema, non estranea. Ma di quegli anni è stato rimosso il contesto: un movimento denso di lotte, di condivisione, di appartenenza”. Sono un po’ i due poli di una stessa realtà. Un corno del problema, quello espresso da Spataro, che chiede la resa, l’altro, quello di Bellosi, che dice “ma non eravamo solo criminali”. Poi però c’è anche, nella Milano di ieri e di oggi, una come Claudia Pinelli. La quale, nell’introduzione del libro, spiega quanto per lei, sua sorella Silvia e sua madre Licia, sia stato “importante perseverare e rimanere nella città a cui sentiamo di appartenere, la città di mio padre, Giuseppe Pinelli, nato, vissuto e morto a Milano, il suo nome inciso in alcune di quelle lapidi che segnano il lungo itinerario di morti e dolore di questo territorio”. Per noi è stato importante, concludono, decidere di resistere e di rimanere a Milano. Non solo la città della strage, la città della morte violenta di un anarchico, la città degli anni di piombo (espressione quanto mai strampalata, assunta da un bellissimo film di Margaret von Trotta, che si riferiva agli anni del post nazismo in Germania), degli anni Sessanta che si aprirono con l’uccisione in piazza Duomo dello studente Giovanni Ardizzone, dei Settanta con le morti di Calabresi e Feltrinelli, gli Ottanta che riassumevano quindici anni di guerriglia urbana e di morti sul selciato. Dietro e prima e durante c’è Milano, tutta intera, capace di tutto contenere, tutto amare e farsi amare. C’è la città dove è concentrato un quarto del capitale economico del Paese, dove si tengono insieme il Teatro alla Scala, lo stadio di San Siro e il Corriere della sera, dove nel 1950 riapre dopo la guerra La Rinascente e si inventa il panettone (“Non c’è Natale se non c’è Motta”, “Si scrive Natale, si pronuncia Alemagna”) e nel 1954 partono le prime trasmissioni della Televisione di Stato e un anno dopo va in scena Lascia o raddoppia. E possiamo aggiungere la grandiosità del Palazzo del ghiaccio che con i suoi 1800 metri quadrati è la principale pista di ghiaccio coperta d’Europa). Sono gli stessi anni in cui viene inaugurato il primo supermercato d’Italia, ideato dal genio Caprotti, quello dell’Esselunga. E anche del concerto di Billie Holliday e della grande stagione milanese del jazz. Può stupire il fatto che, in questi anni di meraviglia dopo due guerre e il fascismo, e in un contesto di sviluppo ma anche creatività di artisti come Lucio Fontana, architetti come Gio Ponti, scrittori come Umberto Eco, e giornalisti fotografi musicisti e cabarettisti, e il bar Giamaica e il santa Tecla e il negozio di Elio Fiorucci, Milano creasse dentro di sé anche tutte le sue contraddizioni sociali? E anche una certa voglia di illegalità? Basterà ricordare la famosa rapina di via Osoppo, quella che ispirerà il film Audace colpo dei soliti ignoti di Nanni Loy. Non fu un fatto politico. Ma il primo sasso era tirato, anche se non pareva. La forza della polizia non fu inferiore a quella degli “altri”. Nel 1962 lo studente Giovanni Ardizzone fu schiacciato da una camionetta della polizia durante una manifestazione. E gli anni Sessanta si chiuderanno in modo tragico, con la morte di Antonio Annarumma durante una manifestazione davanti al teatro Lirico, poco lontano e poco prima della strage di piazza Fontana. Non so se sia vero quel che disse qualcuno, e cioè che noi giovani di allora perdemmo la verginità quel 12 dicembre del 1969. So che sicuramente cambiò tutto. E so che i nomi di quelle vie, dove prima andavamo al cabaret a vedere Jannacci, i Gufi o Cochi e Renato, o a ballare il rock con Adriano Celentano e Bruno Dossena, erano diventati i luoghi bui dove qualcuno era caduto. Milano città grande, o Milano grande città? La sua ricchezza, le sue contraddizioni. C’è Primo Moroni, il “libraio del movimento”, che ha aperto la sua Calusca e Andrea Valcarenghi che ha fondato “Re Nudo” e Mauro Rostagno “Macondo”. E Dario Fo e Franca Rame sfondano con più spettacoli al giorno di Morte accidentale di un anarchico e nasce la Palazzina Liberty, luogo di vita quotidiana di migliaia di giovani. Ma Milano era stata anche la città di Pietro Secchia e della Volante Rossa, e dell’album di famiglia di cui parlò in anni successivi Rossana Rossanda. Le immagini parlavano da sole. Andavi una sera al bar Oreste di piazza Mirabello e vedevi qualcuno che giocava a boccette e qualcun altro seduto a un tavolino che mostrava un disegno ai suoi amici, ed era il tracciato del percorso per una rapina di banca. La città teneva insieme tutto. I gruppi armati delle Brigate rosse e di Prima linea sono nati nelle fabbriche, ma cresce anche qualche forma di “spontaneismo armato”. A Milano a un certo punto “nei giovani militanti si produce una sindrome terribile… le scelte paiono essere solo di tipo estremo e radicale”, scrivono Nanni Balestrini e Primo Moroni. E si arriva al triennio 1978-1981, il più sanguinoso per la città di Milano, con un bilancio di 28 morti, “da una parte e dall’altra”. Il libro dell’avvocato Steccanella meriterebbe ben altro approfondimento. Per esempio sulle tante riforme che comunque in quegli anni il Paese seppe fare, anche e soprattutto per merito dei tanti movimenti, a partire da quello delle donne, e poi degli studenti e dell’”autunno caldo”. E di persone come il mio indimenticabile amico Primo Moroni. È morto nel 1998, sono andata al suo funerale, anche sfidando qualche “intransigente”, che lui avrebbe incenerito con la sua ironia, e che non mi voleva. Anche in questo Milano fu protagonista, qui abitarono i buoni e i cattivi. Ma qui “è ancora possibile ritrovare i luoghi di una storia che racconta di chi, nel corso di quel lungo e violento conflitto ha perso la vita. Da una parte e dall’altra, compresi quelli delle targhe che non ci sono e che nessuno ricorda”. Un libro per capire, per ricordare. San Patrignano, un caso la serie tv “SanPa”. La comunità protesta: “Racconto di parte” di Silvia Morosi Corriere della Sera, 2 gennaio 2021 Fa discutere la docuserie sul centro di recupero per tossicodipendenti, su Netflix dallo scorso 30 dicembre. I dirigenti: narrati solo pochi episodi critici. Il regista: raccolte 25 testimonianze e 180 ore di interviste. Ha fatto subito discutere la serie SanPa - Luci e Tenebre di San Patrignano, uscita il 30 dicembre su Netflix, dedicata alla comunità di San Patrignano fondata a Rimini nel 1978 da Vincenzo Muccioli, destinata a diventare il più grande centro di riabilitazione per tossicodipendenti in Europa. “Il racconto che emerge è unilaterale, sommario e parziale, con una narrazione che si focalizza in prevalenza sulle testimonianze di detrattori, qualcuno anche con trascorsi di tipo giudiziario in cause civili e penali conclusasi con sentenze favorevoli alla Comunità stessa”, sottolinea in una nota la Comunità, senza che venga mostrata allo spettatore “la vera natura delle fonti”. Quella che viene mossa dalla Comunità al documentario è - soprattutto - una critica alla ricostruzione della vicenda: “Si tratta di un racconto sbilanciato, che ha voluto spettacolizzare alcuni episodi drammatici che non raccontano la storia della Comunità in quasi 40 anni e più di vita”, sottolinea Alessandro Rodino Dal Pozzo, presidente di San Patrignano da settembre 2019, entrato come ospite in Comunità nel 1985. “Metodo di accoglienza e non di violenza” - Per trasparenza e correttezza - sottolinea - “abbiamo ospitato per diversi giorni la regista della serie, che è stata libera di parlare con chiunque all’interno della comunità, e abbiamo fornito l’elenco di un ampio ventaglio di persone che hanno vissuto e tuttora vivono a San Patrignano e della quale conoscono bene storia passata e presente”. Un elenco - chiarisce - “totalmente disatteso”, ad eccezione del responsabile terapeutico Antonio Boschini. “Quello che condanniamo - quindi - non è l’idea di realizzare un prodotto sulla nostra esperienza, ma il metodo con cui è stato proposto: la comunità in questi anni è cresciuta, e alcune vicende che vengono raccontate nel video - che si conclude nel 1995 e non va oltre - sono già state condannate. Il nostro è un metodo di accoglienza, non di violenza, e non è forse un caso se nel 2020, in piena emergenza Covid, abbiamo accolto circa 150 persone”, chiarisce Rodino Dal Pozzo. “Dannoso - conclude - è riassumere meno di vent’anni di storia della comunità così, generalizzando alcuni episodi, e dimenticandosi di raccontare cosa ha significato quest’esperienza, che - se non fosse stata fondamentale per l’Italia - non sarebbe in piedi ancora oggi. Temo - confessa - l’impatto che questo racconto così parziale potrebbe avere oggi sui nostri ragazzi”. Le 25 testimonianze e le interviste - La docu-serie è stata realizzata con venticinque testimonianze, 180 ore di interviste e immagini tratte da oltre 50 differenti archivi. A rispondere alle critiche è Carlo Garardini, co-autore del prodotto con la regista Cosima Spender: “Mi addolora il giudizio dato dalla Comunità, certo non mi sarei aspettato non ci fossero obiezioni. Se San Patrignano ci avesse riempito di lodi dicendoci “grazie, avete realizzato uno splendido spot per le nostre convention”, sarei stato preoccupato. La nostra idea era - chiarisce - realizzare un prodotto documentaristico, raccontando la storia nella sua complessità, senza compiacere una delle mille parti in causa che, comunque, saranno sempre scontente”. Abbiamo voluto proporre - chiarisce - “una storia più grande, che aveva bisogno ed era doveroso raccontare anche nei confronti di quanti ne sono stati protagonisti - anche nelle zone buie. Una storia che parla del l’Italia del 1978 e dell’l’Italia di oggi. Dal tema della droga e del ruolo dell’uomo forte in una società”. Molte persone - conclude Gabardini - “anche se contattate, non hanno voluto essere intervistate. San Patrignano ha rappresentato e rappresenta una pagina importante della nostra memoria collettiva. Non si può essere neutrali se si è vissuto o si vive dentro una storia come questa, e abbiamo voluto raccontare tutto senza fascinazioni”. Il mistero di Muccioli salvatore o padre-padrone di Luciano Nigro La Repubblica, 2 gennaio 2021 Nel 1980 trovarono dei giovani incatenati e lo arrestarono. Rimase in carcere un mese ma molti erano con lui. Ha costruito la più grande comunità per tossicodipendenti, d’Europa. Una città con più di duemila ragazze e ragazzi che si ricostruiscono una vita lavorando la terra, producendo vino, formaggi e pellicce, stampando riviste e allevando polli e cavalli di razza. Una città visitata da capi di governo e ministri in pellegrinaggio alla ricerca di una politica sulla droga. (È su quella collina a due passi da Rimini che nacque la legge che aprì il carcere ai tossicodipendenti). Personaggio straordinario, carismatico, grande comunicatore, Vincenzo Muccioli è stato una delle figure più controverse degli anni Ottanta e Novanta. Un santo, per le famiglie che vedevano in lui e nella sua San Patrignano l’unica speranza per strappare i figli da un vicolo cieco fatto di carcere, prostituzione e morte. Un truffatore, per altri, un megalomane che ha costruito un impero sulla violenza. Chi era davvero Vincenzo Muccioli e qual è la verità su San Patrignano? Domande che hanno spaccato in due l’Italia per vent’anni, rese terribilmente attuali in questi giorni dalla docuserie “Sanpa” di Netflix. Una produzione avvincente e di alta qualità che esce in un momento in cui l’eroina e i cocktail di droghe tornano a dilagare e a uccidere. C’è un limite ai metodi di cura o per salvare un tossicodipendente è ammessa qualunque cosa, non solo la privazione della libertà, ma anche la violenza? E se lo si ammette, chi controlla che il terapeuta non abusi del proprio potere? Non c’è il rischio che metodi del genere sfuggano di mano? In quella serie sono finito anch’io quando gli autori e la regista Cosima Spender hanno scoperto che San Patrignano era un pezzo della mia vita perché ero stato tra i primi a scriverne. Avevo 22 anni e lavoravo per radio e giornali locali. Attorno a me vedevo gente che aveva fatto politica, ragazzi della mia età distrutti dall’eroina, quando seppi di una comunità di drogati, così li chiamavano tutti allora. Li curano con il lavoro, diceva qualcuno. Un posto strano gestito da un santone con 12 apostoli che si fa dare denaro dai Vip, secondo altri. Curioso, ci andai. Trovai i figli di Enrico Maria Salerno, di Paolo Villaggio... Ma c’erano anche decine di ragazzi, in quella casa colonia tra i campi con l’aggiunta di qualche roulotte, che guardavano Muccioli con ogni sognanti. E al centro Vincenzone, un po’ padre padrone e un po’ mamma. Che voleva bene a quei ragazzi e spiegava che la scimmia si cura anche con la forza. Io non li lascio perché vadano ad ammazzarsi, diceva. In tanti scappavano, correvano le voci più disparate. Santo o santone? Me lo chiedevo, volevo capire. Un giorno di ottobre, era il 1980, la notizia: hanno arrestato Muccioli. La polizia aveva trovato dei giovani incatenati nel canile e nella piccionaia, tra lo sterco, al freddo. E quel mattino tirava un gelido vento di tramontana. Rimase in carcere un mese, Muccioli. E in quel mese andai spesso a San Patrignano: mi colpiva la forza di quei quaranta ragazzi. Che si arrabbiavano perché avevo scritto un articolo dal titolo “Faceva vedere persino le stimmate il santone di San Patrignano”. Divenni amico di alcuni di loro. E quando Muccioli uscì di galera, ero lassù e discussi con lui animatamente per ore. “Io li salvo, lo Stato non fa niente”. “Sì, ma tu non puoi incatenarli e dire lo Stato qui non entra”. “Lo Stato sa solo distribuire metadone”. Mi sfidò a un duello televisivo su una tv locale. Lui, col suo vocione, stravinse. Ma gli spettatori chiamarono fino alle 3 di notte, si toccava con mano quanto fosse sentito quel dramma. Un giudice, Vincenzo Andreucci, disse che avevano sbagliato, ma non li mandò a processo. Ordinò però il rispetto di alcune regole, prima tra tutte il controllo dello Stato. Altre fughe. Altre denunce di violenze. Lo stesso giudice, due anni dopo, chiese il processo. Il famoso processo delle catene. Finì nell’85. Muccioli fu condannato, ma l’opinione pubblica era con lui. E due anni dopo fu assolto. Ormai era una star. La sua comunità era diventata una città. E c’era la fila fuori. Delle mamme, ma anche di ragazzi disposti a farsi rinchiudere e persino picchiare pur di liberarsi della droga. Io lasciai Rimini e per molto tempo non mi occupai più di Sanpa. Finché nel 1993 salta fuori il caso Maranzano: un ragazzo pestato a morte, nella macelleria, torturato con le scariche elettriche per i maiali. Il suo cadavere era stato gettato in una discarica vicino a Napoli. Dissero che era scappato. E invece era stato massacrato di botte nella macelleria. Lo sapeva Vincenzo? Quella morte era figlia del metodo Muccioli? Cosa era accaduto? Troppo grande la Comunità? La violenza di piazza ritornava nella gestione dei capetti? Un incidente di percorso, rispondeva Sanpa, migliaia di giovani qui si salvano. Era vero. Come erano vere le morti e le violenze, forse sfuggite di mano. E di nuovo la domanda: qual è il limite di una terapia? E chi controlla, se non lo Stato? Domande che sono tornate ad affiorare nel documentario di Netflix. E che anche oggi fanno discutere. Muccioli fu condannato a 8 mesi per favoreggiamento, ma la vicenda lo colpì nel profondo. Pochi mesi dopo morì. C’è chi giura che fosse Aids, ma la comunità smentisce. E anche la sua morte rimane Quelle uscite segrete di Papa Francesco una volta al mese per parlare con gli ultimi di Paolo Rodari La Repubblica, 2 gennaio 2021 Le visite a sorpresa a case, ospedali, carceri raccontate nel docufilm “Solo Insieme” su Rai Tre il 4 gennaio. “Perdono per il male che avete subito anche da uomini che dicono di essere cristiani”, dice papa Francesco mentre benedice una prostituta piangente. Scena inedita, come tante altre, che andrà in onda nel docufilm “Solo Insieme” su RaiTre il 4 gennaio prossimo, in seconda serata. Nel documentario per la prima volta saranno trasmessi i filmati sulle visite che, a sorpresa, papa Bergoglio dal 2015, l’anno del Giubileo della Misericordia, svolge in privato una volta al mese, lontano dalle telecamere e dalle migliaia di fedeli e pellegrini che in genere seguono le sue celebrazioni pubbliche. Si tratta dei Venerdì della Misericordia nell’ambito dei quali Francesco, accompagnato dal vescovo Rino Fisichella, suo stretto collaboratore e presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova evangelizzazione, visita e benedice case private, carceri, ospedali, case famiglia, ex prostitute, migranti, tossicodipendenti, soffermandosi a parlare come un amico della porta accanto, un “vecchio” parroco qualsiasi, spesso sedendosi a tavola intorno ad una bibita, un caffè, scherzando con bambini ed anziani, generando emozioni, pianti di gioia, sorprese. Ma anche momenti di riflessione, specialmente quando, incontrando un gruppo di ex prostitute salvate dalla strada dai volontari della Comunità “Papa Giovanni XXIII” fondata da don Oreste Benzi, chiede con la voce rotta dall’emozione “umilmente perdono per le violenze che avete subito anche da chi si professa cristiano e cattolico”. Sono scene e momenti mai visti dal grande pubblico, riprese solo dalle telecamere del Ctv (Centro televisivo vaticano), ma mai trasmesse, gelosamente custodite nell’archivio di Vatican Media. Il docufilm inizia dalle immagini dell’ultimo Venerdì della Misericordia prima della chiusura per la pandemia, quelle del 27 marzo, quando papa Francesco, nella solitudine di Piazza San Pietro, sotto la pioggia, dice al mondo che adesso più che mai non potremo “andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme”. Mentre il suono delle campane scandisce un tempo sospeso, le sirene delle ambulanze ci ricordano il terribile momento che stiamo vivendo. Immagini che resteranno nella Storia, e che fanno da apertura e da naturali compagne di viaggio a tutto il racconto successivo sui momenti in cui il Papa ha incontrato, a sorpresa, gli “altri”, la gente comune, gli ultimi, senza essere atteso, senza essere annunciato. Quando ha abbracciato, ha carezzato, ha parlato, ha guardato, ha ascoltato il prossimo come un amico, incontrando il dolore, ma trovando anche la gioia e il sorriso negli occhi di chi lo ha accolto nella propria casa o in carcere, in comunità, nei luoghi del bisogno e dell’emarginazione. Da queste immagini è nato “Solo insieme - la sorpresa di Francesco” diretto da Gualtiero Peirce. La voce narrante è di Nicole Grimaudo. Il racconto è arricchito anche da una intervista a monsignor Fisichella, che spiega il “perché” e la Genesi dei Venerdì della Misericordia. La produzione è di Cyrano New Media per Rai 3, il progetto è di Beppe Attene ed è stato scritto da Gualtiero Peirce con Orazio La Rocca, vaticanista di Repubblica e di Famiglia Cristiana. “Un’intima convinzione”, legal-thriller francese sulla giustizia ingiusta di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 2 gennaio 2021 Per una strana cabala nel saltabeccare tra piattaforme d’intrattenimento in questo tempo sospeso, mi è capitato di vedere in sequenza due film, due thriller giudiziari su casi di uxoricidio. Il primo, su Netflix, è “Il caso Thomas Crawford”, con Anthony Hopkins nella parte di un ricco ingegnere aeronautico di Los Angeles, California - che mette in piedi un piano diabolico che parte da una confessione, la propria, di avere sparato alla testa alla moglie, che è in coma, e che mira non solo alla propria assoluzione ma a incastrare il detective incaricato delle indagini, che lui sa essere stato l’amante della moglie; il piano verrà sventato da un procuratore e porterà alla condanna di Hopkins. È tutto inventato, ma sembra maledettamente vero. Il secondo, su Amazon, è “Una intima convinzione”, sulla improvvisa scomparsa di una donna di cui viene accusato il marito, professore di diritto all’università di Tolosa, Francia, soprattutto dopo che si è fatto avanti l’amante di lei per dire che voleva il divorzio ma il marito non glielo concedeva. Il film ruota intorno la figura di Nora, una madre e lavoratrice che assiste al processo di primo grado, si convince dell’assoluta innocenza dell’accusato tanto che diventa per lei una sorta di ossessione per cui trascura tutto, fino a coinvolgere un avvocato di prestigio a patrocinare la causa quando la procura ricorre in appello. Dopo dieci anni, il marito verrà definitivamente scagionato. È tutto vero ma sembra maledettamente inventato. Invece si tratta proprio de l’affaire Suzanne Viguier. E se il personaggio di Nora è una finzione narrativa, l’avvocato di prestigio è un uomo reale in carne e ossa. Anzi, in tanta carne e tante ossa, perché lo chiamano - per la stazza, per la voce, per il carattere e per il suo “stile d’arringa” - “l’ogre du Nord, l’orco del Nord (è bretone)”: Éric Dupond-Moretti. Così, mi sono incuriosito (d’altronde, Il Dubbio ne ha già parlato tempestivamente): Dupond-Moretti non è solo l’avvocato più famoso in Francia - dove è noto con il nomignolo di “l’Acquittator”, l’assolutore, visto che ha vinto circa 150 delle cause patrocinate - una notorietà costruita anche sulla capacità di “intercettare” processi molto mediatici: l’Acquittator ama dire che lui difende persone e non cause, e che avrebbe difeso anche Hitler se glielo avesse chiesto, e anzi che lui difende proprio “lo zingaro che ha sventrato la vecchia signora per rubarle 40 euro”, ma tra i suoi clienti, oltre lo zingaro, ci sono stati il calciatore Benzema, Julian Assange, Abdelkader Merah, fratello di quel Mohamed, le “tueur au scooter” che uccise sette persone, alcuni imputati del “caso Outreau”, un processo per abuso su minori in cui erano coinvolte diverse persone, tenute in detenzione per anni, tredici dei quali sono andati assolti dopo un lungo calvario. Da luglio Dupond-Moretti è ministro della Giustizia; anzi, nel cambio voluto da Macron e che eufemisticamente potremmo definire un “rimpasto”, la sua nomina (era dai tempi di Mitterrand che un avvocato non ricopriva quel ruolo, con Robert Badinter, a cui si deve l’abolizione della pena di morte nel 1981) è quella che ha creato più allarme e più scandalo. Scandalo tra le femministe, che lo accusano di una cultura “sessista”: nei giorni in cui veniva approvata la legge contro le molestie per strada Dupond-Moretti sparava frasi come: “Da giovane ho fischiato qualche ragazza che attraversava la strada... E una sciocchezza simile costerebbe 90 euro? Ma è una cosa da pazzi, queste cose vanno affidate alle buone maniere, non alla legge”, oppure: “Un’anziana signora che adoro mi ha detto “A me dispiace che nessuno mi fischi più”. Hanno anche fatto una petizione internazionale contro Dupond-Moretti, con firme di premi Nobel. Allarme invece tra i magistrati: Céline Parisot, presidente dell’Unione sindacale dei magistrati, ha considerato la sua nomina come una “dichiarazione di guerra alla magistratura”. Parisot aveva poi rincarato la dose dicendo che il nuovo ministro della Giustizia “sembra detestare i magistrati, che peraltro non si priva di insultare regolarmente”. In verità, Dupond-Moretti nel suo libro di successo, Le dictionnaire de ma vie, 2016, in cui parla della Francia come una “Repubblica dei giudici”, proponeva addirittura di abolire l’École nationale de la magistrature, “incapable” di formare i futuri magistrati sia sul piano professionale che umano, deplorando che i giudici mancassero proprio di umanità. Ma al momento di ringraziare per la nomina Dupond-Moretti, con sobrietà, si era limitato a ricordare le sue umili origini - la madre, di origine italiana, emigrata in Francia per lavoro, era una cameriera, e il padre, un operaio, era morto prematuramente quando lui aveva solo quattro anni - per dire che la Francia repubblicana offre a tutti una possibilità, e che il suo ministero sarebbe stato segnato da due cose: l’antirazzismo e i diritti dell’uomo. In realtà, per quanto impegno riformatore il neo-ministro si possa proporre, davanti ha solo due anni, poi si andrà al voto. E Dupond-Moretti lo sa benissimo: in una recente intervista circoscriveva le possibilità di intervento “almeno” a due campi: la separazione delle carriere e il miglioramento delle condizioni dei detenuti (su questo aspetto, la Francia è stata messa spesso sotto critica a livello europeo). Molti hanno pensato che una nomina così “bollente” possa essere stata una mossa mediatica di Macron: Dupond-Moretti è un personaggio molto popolare, perché non le manda a dire e questa sua ruvida franchezza piace ai francesi (poco prima di essere nominato ministro stava per condurre una trasmissione radiofonica). Forse nei francesi rimane anche una sorta di rispetto e reverenza verso quelle battaglie giudiziarie in cui certi verdetti “già decisi” vengono poi ribaltati. Però, con i magistrati non si tratta solo di schermaglie: benché il neo- ministro avesse subito dichiarato “Je ne fais de guerre a personne, Non faccio la guerra a nessuno”, a dicembre due sindacati di magistrati lo hanno citato davanti alla Corte di giustizia della Repubblica per “conflitto di interessi”. In una conferenza stampa, l’Union Syndicale des Magistrates (USM, maggioranza) e il Syndicat de la magistrature (SM, sinistra), hanno dichiarato: “Un ministro della Giustizia ha il diritto di intervenire in un caso che lo riguarda o dei suoi ex clienti? L’USM, lo SM e la stragrande maggioranza dei magistrati pensano di no. Éric Dupond- Moretti, pensa di sì”. I due sindacati accusano in particolare l’ex-avvocato di aver avviato procedimenti amministrativi contro magistrati che in qualche modo avevano “incrociato” l’attività di Dupond-Moretti come difensore. Dall’entourage del ministro parlano di “obsession et acharnement”, ossessione e accanimento, da parte dei magistrati. Sembra un vero e proprio scontro, tra Dupond-Moretti e i magistrati, di quelli che lui è abituato a combattere nelle aule dei tribunali - solo che questo trasforma tutta la Francia in un’aula di tribunale. Export di armi italiane, segreti e silenzi di Stato di Giorgio Beretta* Il Manifesto, 2 gennaio 2021 Egitto e non solo. La legge 185/90 fu approvata grazie alla forte mobilitazione della società civile e dell’associazionismo laico e cattolico che promosse la campagna “Contro i mercanti di morte” e che sostituì la norma di epoca fascista che impediva trasparenza. Ora è bene che intervenga la magistratura. Ma è innanzitutto compito del Parlamento richiedere che il governo riferisca alla Camere. Segreto di Stato. È questo il principio che per quasi 50 anni, ha regolato le esportazioni di sistemi militari dell’Italia. Sancito nel Regio decreto n. 1161 dell’11 luglio 1941 - siamo in piena epoca fascista e guerrafondaia - firmato da Mussolini, Ciano, Teruzzi e Grandi, il principio vietava categoricamente la divulgazione di notizie su movimenti, esportazioni e trasferimenti di materiali militari. Un principio che gli apparati e l’industria militare hanno sempre apprezzato. Anche per questo la legge n. 185 che il 9 luglio del 1990 ha introdotto in Italia “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” è sempre risultata indigesta alle aziende militari. Come noto, la legge fu approvata, dopo due legislature di intenso confronto parlamentare, grazie alla forte mobilitazione della società civile e dell’associazionismo laico e cattolico che promosse la campagna “Contro i mercanti di morte”. La 185/1990 si caratterizza per tre aspetti. Innanzitutto, richiede che le decisioni sulle esportazioni di armamenti siano “conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia” e vengano regolamentate dallo Stato “secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. E su questo punto andrebbe aperto un ampio dibattito politico perché non è stato mai spiegato al parlamento come le esportazioni di due fregate Fremm e le trattative in corso per esportare all’Egitto 11 miliardi di euro di sistemi militari - facendo dell’Egitto il primo Paese acquirente di armamenti italiani - sia conforme alla politica estera e di difesa dell’Italia. In secondo luogo la legge ha introdotto una serie di specifici divieti e un sistema di controlli da parte del governo, prevedendo specifiche procedure di rilascio delle autorizzazioni prima della vendita e modalità di controllo sulla destinazione finale degli armamenti. Infine, richiede al governo di inviare ogni anno al parlamento una Relazione annuale predisposta dal Presidente del Consiglio dei Ministri che comprenda le relazioni dei vari ministeri a cui sono affidate diverse competenze in materia di esportazioni di armamenti. La legge riporta numerosi divieti ed in particolare due che attengono direttamente la questione delle esportazioni di sistemi militari all’Egitto. Innanzitutto il divieto ad esportare armamenti “verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere”. Ed è proprio a questo articolo che la Rete Italiana Pace e Disarmo ha fatto riferimento per evidenziare che la fornitura delle due fregate militari Fremm all’Egitto è in chiaro contrasto con la norma vigente. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, nella sua risposta al Question Time lo scorso 10 giugno ha infatti affermato che “oltre al vaglio di natura tecnico-giuridica, il governo ha ritenuto di svolgere una valutazione politica, in corso a livello di delegazioni di governo sotto la guida della presidenza del Consiglio dei ministri”. Ai sensi della legge, questa valutazione da parte del governo può essere adottata solo “previo parere delle Camere”. Ma in questi mesi - l’annuncio della possibile fornitura delle due Fremm è del febbraio scorso - non risulta alcuna consultazione né parere del parlamento. Inoltre la legge prevede il divieto ad esportare materiali d’armamento (tutti e non solo le cosiddette “armi leggere” “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa”. Nei confronti dell’Egitto, c’è una duplice chiara documentazione. Il Rapporto inviato nel maggio del 2017 dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riporta che in Egitto la tortura è “praticata sistematicamente” ed è “abituale, diffusa e deliberata in un’ampia parte del Paese”. Inoltre la Risoluzione approvata lo scorso 18 dicembre dal Parlamento europeo evidenzia numerose gravi violazioni dei diritti umani in Egitto e che “gli arresti e le detenzioni in corso rientrano in una strategia più generale di intimidazione delle organizzazioni che difendono i diritti umani”. La famiglia Regeni ha annunciato un esposto contro il governo in carica per violazione delle norme della legge 185/1990. È bene che intervenga la magistratura. Ma è innanzitutto compito del Parlamento richiedere che il governo riferisca alla Camere circa le esportazioni di sistemi militari all’Egitto. Se non vogliamo che il “segreto di Stato” si tramuti nel “silenzio di Stato”. *Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) La famiglia Regeni denuncia il governo per le armi all’Egitto di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 gennaio 2021 Esposto per la violazione della legge italiana 185/90 dopo il boom di vendite degli ultimi anni. Nel 2016 e nel 2019 Sardegna Pulita fece lo stesso per le bombe Rwm usate in Yemen e ci ha raccontato come è andata a finire. Poche ore dopo l’attracco della prima fregata Fremm di Fincantieri ad Alessandria, Claudio Regeni e Paola Deffendi su La7 a Propaganda Live hanno presentato la loro ultima iniziativa. Un esposto alla procura incentrato proprio sulla vendita di armi, che prosegue indisturbata, dall’Italia all’Egitto: “Assieme alla nostra legale abbiamo predisposto un esposto-denuncia contro il governo italiano per violazione della legge 185/90, che vieta l’esportazione di armi verso paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani accertati dai competenti organi della Ue, dell’Onu e del Consiglio d’Europa. Il governo egiziano rientra certamente tra quelli che si sono macchiati di queste violazioni”. Nel pomeriggio di giovedì era ben altro il clima dall’altra parte del Mediterraneo con i media egiziani impegnati a celebrare l’arrivo di Al-Galala, dopo un viaggio di 6mila miglia marittime, e a citare il capo della Marina militare egiziana, Ahmed Khaled, durante la cerimonia al porto: la fregata (inizialmente destinata alla Marina italiana, poi dirottata insieme a una seconda nave da guerra sull’Egitto) partirà per Suez dove sarà impegnata “contro ostilità e sfide nella regione”. Quella fregata, ex Spartaco Schergat F598, è parte di un pacchetto da 1,2 miliardi di euro che prevede per il 2021 la consegna di una seconda nave, la Emilio Bianchi F599. Non solo: il boom nell’esportazione militare all’Egitto del presidente golpista al-Sisi è dovuto anche all’autorizzazione alla vendita di 20 pattugliatori, 24 caccia Eurofighter e 20 aerei addestratori M346, per un valore complessivo che oscilla tra 9 e 11 miliardi di euro. Un record che segue ad anni di incremento costante nel business bellico, coincisi con quelli della battaglia per la verità sul sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni: 7,1 milioni nel 2016, 7,4 nel 2017, 69 nel 2018 e ben 871,7 nel 2019. La famiglia del ricercatore chiede di fermare il flusso, richiesta che si aggiunge al ritiro dell’ambasciatore dal Cairo: “Chiediamo questo come atto forte. È importante che l’Italia dia l’esempio”. Una battaglia condivisa con tanti altri, da Rete Disarmo che fece lo stesso nel 2016 contro la vendita di armi dalla Rwm di Domusnovas all’Arabia saudita (un esposto per violazione dell’articolo 1 della 185/90 depositato alle Procure di Roma, Brescia, Verona e Pisa tra le altre) e dalle realtà pacifiste sarde che nel 2016 e di nuovo nel 2019 hanno denunciato i ministri competenti per concorso in strage. La Rwm si conferma un pivot, punto di contatto tra due abusi, quelli commessi in Yemen dai sauditi e quelli subiti da Giulio Regeni: come riportavamo mercoledì su queste pagine, dalla provincia di Cagliari a giugno sono stati esportati 8,1 milioni di euro di munizionamento pesante all’Egitto. La Rwm è ovviamente la prima e unica sospettata. L’ultimo esposto presentato da Sardegna Pulita risale al 27 febbraio 2019, diretto alle Procure della Repubblica presso i tribunali di Roma e di Cagliari: indagare per concorso in strage commessa in Yemen contro i civili i ministri di Esteri (all’epoca Moavero Milanesi), Interni (Salvini), Difesa (Trenta), Sviluppo economico (Di Maio) e Ambiente (Costa). “Quei ministri sono responsabili perché è tramite il comitato interministeriale che danno il via libera all’Uama che poi autorizza le esportazioni - ci spiega Angelo Cremone di Sardegna Pulita - Li abbiamo denunciati come in passato denunciammo la ministra della Difesa Pinotti del governo Gentiloni. In quel caso l’esposto fu trasmesso per competenza da Cagliari a Roma e poi archiviato senza che ci venisse comunicato nulla”. “Anche questo secondo esposto contro i ministri del Conte 1 è stato trasmesso al Tribunale di Roma, ma non abbiamo notizie. Non sappiamo se sia stato archiviato, se così fosse avremmo potuto fare opposizione. La famiglia Regeni può rimettere in discussione quanto fatto da noi, parla di un problema che c’è. Ce n’è anche un altro: il ruolo della magistratura che non ha ascoltato le nostre denunce. La Procura della Repubblica non può archiviare violazioni di leggi da parte di chi dovrebbe essere il primo a rispettarle, i ministri di un esecutivo”. “Di fronte alla denuncia dei Regeni - conclude Cremone - il tribunale ci dica che fine ha fatto il nostro esposto e dove sono le bombe della Rwm. Si indaghi: i codici di quegli ordigni li conosciamo, vogliamo sapere chi è l’utilizzatore finale, dove e contro chi li ha usati”. Giovanni Maria Flick: “Trovo giusta l’ansia di verità, ma arduo fermare patti tra Stati” di Alessandro Di Matteo La Stampa, 2 gennaio 2021 L’ex presidente della Corte Costituzionale: “Lascia perplessi che si debba ricorrere sempre al giudice per una possibilità di soluzione”. L’esposto della famiglia Regeni contro il governo italiano è “comprensibile”, secondo Giovanni Maria Flick. Per l’ex ministro della Giustizia e presidente emerito della Corte costituzionale è “giustissima l’ansia di verità dei genitori”, ma dal punto di vista giuridico la vicenda è di “elevata complessità”. Non basta una violazione dei diritti umani come quella nei confronti di Regeni per far scattare il divieto di legge? “La legge prevede un’autorizzazione alla vendita di armi ad altri Paesi, che deve essere rilasciata dal ministro degli Esteri dopo un’istruttoria notevolmente complessa. L’articolo 1, poi, vieta le esportazioni “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani”. Ma queste violazioni devono prima essere “accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa”. Ci vuole un pronunciamento formale di uno di questi tre soggetti. E la violazione deve poter essere ascritta al governo di quel Paese...”. Cioè, l’omicidio deve essere attribuito direttamente alla responsabilità del governo, non basta che sia stato commesso da servizi o polizia? “Esatto. Inoltre, è ragionevole presumere che in questa vicenda un’autorizzazione alla vendita di armi vi sia stata a suo tempo. Se l’autorizzazione è stata rilasciata prima della vicenda del povero Regeni sarebbe presumibilmente legittima; dovrebbe semmai essere oggetto di revoca o sospensione da parte del ministro degli Esteri se ricorrano le condizioni specificate prima, valutando anche la rilevanza delle prese di posizione del Parlamento europeo sulla vicenda. In tal caso il problema riguarderebbe non tanto l’autorizzazione per l’esportazione, quanto l’illegittimità sopravvenuta di essa; in altre parole sarebbe in gioco l’autorizzazione e non l’esportazione come tale”. Insomma, la questione potrebbe non essere facilmente risolvibile con un esposto... “Io ho grande comprensione per il giustissimo e sacrosanto desiderio dei genitori di Regeni di arrivare ad accertare le responsabilità, anche di fronte al comportamento della magistratura egiziana rispetto alle conclusioni di quella italiana. Ma sarei attento nella valutazione: è una questione di notevole complessità sotto il profilo giuridico internazionale e nazionale. Peraltro, non entro sulle modalità con cui è stata annunciata questa iniziativa - in tv - che forse possono essere giustificate dal desiderio di verità e dalla necessità di continuare a tener vivo l’argomento; ma che rischiano di trasformarsi in una spettacolarizzazione, non certo per volontà della famiglia Regeni”. La famiglia Regeni ha voluto compiere un atto forte, anche mediatico, per evitare che tutto finisca nel nulla... “Esatto, dà il senso della delusione di chi dice “ho chiesto giustizia e non la sto ottenendo”. Sarebbe forse stato più opportuno prima un colloquio con la competente autorità che possa restituire fiducia. E verificare se l’autorità giudiziaria italiana non si stia già occupando di questi aspetti della vicenda. Lascia perplessi che si debba sempre e solo ricorrere al giudice per intravedere una possibilità di soluzione, anche in una controversia fra Stati”. La morte di Welby e la Chiesa. Sul fine vita piccole conquiste di Luigi Manconi La Stampa, 2 gennaio 2021 Prima scena. Roma, 20 agosto 2015. Lo sguardo della signora Mina Welby, mentre passa davanti alla chiesa di San Giovanni Bosco, nel quartiere Tuscolano-Cinecittà, viene attratto da due giganteschi manifesti attaccati alle colonne della cancellata d’ingresso. C’è scritto: “Hai conquistato Roma, ora conquisterai il paradiso”. È in corso il funerale religioso di Vittorio Casamonica, patriarca di una famiglia abruzzese di origine rom responsabile di ingenti affari criminali nel territorio romano. Mina Welby non può non ricordare un altro funerale religioso che, in quella chiesa, doveva essere celebrato e mai fu celebrato. Ora, che di questi fatti funebri si parli a Natale e nei giorni intorno a Natale, può sembrare a qualcuno fuori tempo e fuori luogo: quasi un’ombra sottile di blasfemia. E, invece, le cose possono essere viste anche in senso completamente rovesciato: è proprio nei giorni che ricordano la Natività che si può meglio pensare alle “cose ultime”. E meglio capirne il senso profondo. Seconda scena. È il 24 dicembre 2006. Nella piazza di quella stessa chiesa si celebrano i funerali di Piergiorgio Welby: “un povero cristiano”, per dirla con Ignazio Silone, che narrava delle lacerazioni insanabili tra messaggio evangelico e imperativi del potere ecclesiastico negli ultimi anni del XIII secolo. Mina Welby aveva chiesto a un sacerdote di quella chiesa, che visitava il marito nei mesi della più atroce sofferenza, di celebrare le esequie religiose, ma questi le comunicò che non sarebbe stato possibile. Di conseguenza, i funerali si svolsero in piazza San Giovanni Bosco, che costituisce come il lungo e ampio sagrato di quella chiesa. Su un lato della piazza, un palco modesto con sopra la bara di Welby e, accanto, la moglie, i parenti, gli amici, Marco Pannella, Emma Bonino e Marco Cappato, e qualche parlamentare. Faticherei a definirla laica, quella cerimonia, perché il sentimento che circolava tra quel migliaio e oltre di persone era segnato da una tonalità sacra, da un senso forte di condivisione del dolore e della speranza e dalla ricerca di qualcosa che andasse “oltre”, secondo la sensibilità e la cultura di ognuno. Tra quella folla c’era don Filippo di Giacomo, sacerdote e oggi valentissimo giornalista. All’epoca, don Filippo, dopo undici anni da missionario nella Repubblica Democratica del Congo, era giudice presso il Tribunale del Vicariato di Roma e così ricorda: “con me c’erano due sacerdoti dello stesso Vicariato e riconoscemmo almeno una decina di confratelli”. E numerose suore, come quelle della Congregazione Ancelle del Santuario (fondata nel 1882), accompagnate dalla Madre superiora, succeduta in quel ruolo alla cugina di Welby, e quelle della Scuola Santa Maria Ausiliatrice. E molti parrocchiani e moltissimi, radicali e non, tra coloro che avevano seguito, per giorni e giorni, la dolente vicenda di Piergiorgio Welby. Non c’era il parroco di San Giovanni Bosco e nemmeno quel prete che aveva chiesto di poter uscire dalla chiesa con i paramenti sacri per benedire la salma, ricevendo un categorico rifiuto dal superiore. Come si vede, una delle tante manifestazioni di quello “scisma sommerso”, di cui scrisse il filosofo Pietro Prini in un importante libro, pubblicato da Garzanti, e molto citato da Pannella. Terza scena: ma perché venne negato a Piergiorgio Welby il rito religioso? In un comunicato del Vicariato di Roma si attribuì il motivo al fatto che “il dottor Welby” (“in realtà non era laureato”, sorride la moglie) aveva parlato pubblicamente di diritto all’eutanasia. In effetti, quel rifiuto si dovette a una scelta pienamente politica. Esclusivamente politica. Lo conferma il teologo Silvano Sirboni, intervistato da Famiglia Cristiana (agosto 2015): “né nel rito delle esequie né nel diritto canonico” si trova motivazione per negare la cerimonia religiosa al suicida, a meno che “il darsi la morte non sia stato un segno di esplicito ateismo” o una manifestazione di “odio verso la Chiesa”. Nulla del genere, nel caso di Welby. Il no della Chiesa si spiega con il fatto che la vicenda era diventata “un caso politico” e, dunque, con “ragioni di opportunità”. Formulata così, la questione risulta davvero avvilente. Innanzitutto perché viene teorizzato il rifiuto “politico” - in base a considerazioni tutte extrareligiose - della richiesta estrema di un cristiano alla sua Chiesa; e perché l’intera controversia si svolse intorno a un equivoco, certamente non involontario. Ovvero, il fatto di considerare la scelta di Welby un gesto eutanasico. Ma così non era in alcun modo. Al contrario: il suo fu l’atto di chi sottrae al proprio corpo un presidio sanitario meccanico precedentemente applicato, perché esso, col tempo, era diventato intollerabile, provocando sofferenze non lenibili. “Dal punto di vista della volontà del paziente, in nulla differisce dalla scelta di un cardiopatico che rinuncia a una pillola antipertensiva”, commenta oggi Mario Riccio, responsabile della Rianimazione e Anestesia dell’ospedale di Casalmaggiore, che all’epoca si rese disponibile ad aiutare Welby a liberarsi del ventilatore meccanico. L’aspetto più significativo di questa vicenda è che ciò che esprimevano quei sacerdoti e quelle suore presenti in piazza a San Giovanni Bosco, era condiviso da una parte delle gerarchie ecclesiastiche e da alcune personalità del Vaticano. E, infatti, non fu certo un caso che, proprio in quei giorni, il cardinale Javier Lozano Barragàn, Presidente del Consiglio Pontificio degli operatori sanitari, interpellato sulla vicenda, mentre ribadiva la netta opposizione della Chiesa all’eutanasia, insisteva sulla liceità del rifiuto dell’accanimento terapeutico. E, sottolineando l’importanza del parere di medici e sanitari, mai esprimeva un esplicito giudizio critico su Welby. Fatto sta che quella ferita non si rimarginò. Essa, fu l’esito di una decisione presa da quella che era la componente “più politica” della gerarchia ecclesiastica italiana, ispirata dall’attuale Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, Rino Fisichella, allora autodefinitosi “cappellano di Montecitorio”, attivissimo nelle relazioni con la classe politica e assai presente nella vita pubblico-mondana. A sostenerlo - o forse solo ad assecondarlo, a parere dei più informati - fu il Cardinale Camillo Ruini, all’epoca presidente della Conferenza Episcopale Italiana. Ma meno di un anno dopo, i funerali di Giovanni Nuvoli, la cui vita si concluse esattamente nelle medesime circostanze, vennero celebrati solennemente nella chiesa di San Giuseppe, ad Alghero. E queste furono le parole del parroco: “Giovanni è stato schiodato dalla croce che ha portato per sette anni”. Sono passati quasi tre lustri e il comportamento tenuto al tempo dal Vicariato di Roma non sembra destinato a ripetersi. Molti i mutamenti intervenuti nella dottrina e nella pastorale; e, soprattutto, nel “popolo di Dio”. Nel 2017, quando venne approvata la legge sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento, numerosi furono i voti di parlamentari cattolici a favore di un testo che prevede la possibilità di sospensione di nutrizione e idratazione artificiali (pratica sempre osteggiata dalla Chiesa). Ribadito che l’eutanasia è tutt’altra cosa, va anche ricordato che, in Spagna, lo scorso 17 dicembre, la Camera dei deputati ha approvato una legge sull’eutanasia, senza che ciò provocasse una particolare mobilitazione della Chiesa di quel paese da sempre definito “cattolicissimo”. Molte le ragioni, ma ha contato certamente una più sensibile attenzione - da parte dell’attuale Presidenza “bergogliana” di quella Conferenza episcopale - verso il “fattore umano”. Quasi che il messaggio di Marco Cappato di quel 24 dicembre, rivolto al Vaticano, fosse stato - un miracolo? - ascoltato: “Che cosa vi siete persi di questa piazza, che cosa vi siete persi di questo sole, che cosa vi siete persi di questa festa, di questo Buon Natale per tutti, per e con Piergiorgio Welby”. Libia. Il segretario generale Onu Guterres vuole schierare osservatori La Repubblica, 2 gennaio 2021 Lettera ai paesi membri per nominare “monitor” per il cessate il fuoco. Non sarebbero armati. Fonti libiche: ok solo da paesi con “posizione e ruolo chiari” in Libia. Questo escluderebbe Turchia, Egitto, Qatar, Russia, ma anche Italia e Francia perché considerati troppo vicini a una parte o all’altra. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha inviato una lettera ai Paesi membri per chiedere di indicare loro osservatori da inviare in Libia con il compito di sovrintendere al cessate il fuoco e per indurre i leader politici del Paese a mettere a punto un meccanismo per designare il nuovo primo ministro. Lo riferisce il Guardian, sottolineando che si tratta della “prima volta che l’Onu intraprende iniziative attive sul terreno” in Libia per garantire il rispetto del cessate il fuoco. L’invito di Guterres a nominare osservatori è rivolto in particolare a “blocchi regionali”, che potrebbero essere Unione europea, Lega Araba e Unione Africana. Questi osservatori dovrebbero sovrintendere alla tenuta del cessate-il-fuoco, sottoscritto il 23 ottobre scorso, e al rispetto dell’embargo sulle armi, che si ritiene venga violato in particolare dalla Turchia, schierata con il governo di Tripoli di Fayez al-Serraj, e da Emirati arabi uniti, Russia ed Egitto, sostenitori del cosiddetto “Esercito nazionale libico” del generale Khalifa Haftar. Si tratterebbe di osservatori disarmati. I libici hanno chiesto che gli osservatori provengano solo da paesi con “posizione e ruolo chiari” nella crisi libica. Questo secondo fonti consultate da Repubblica, di fatto escluderebbe paesi come Turchia, Qatar, Emirati, Egitto, Arabia Saudita, Russia, ma anche Francia e Italia, tutti paesi verso i quali una delle parti potrebbe avere obiezioni. Se l’invio di osservatori dovesse concretizzarsi, l’operazione partirebbe nel quadro della formazione di un nuovo “Governo di unità nazionale” al quale parteciperebbero le forze di Tripoli e quelle di Bengasi, con l’obiettivo di superare l’attuale divisione in due del paese. Attualmente le Nazioni Unite hanno solo una piccola missione politica in Libia con 230 rappresentanti. L’iniziativa di Guterres cade in un momento critico poiché il cessate il fuoco include una clausola che chiede a tutte le forze straniere di lasciare la Libia entro tre mesi, quindi entro il 23 gennaio, ma finora non vi è alcun segnale che ciò stia avvenendo. L’inviata speciale dell’Onu ad interim per la Libia, Stephanie Williams, ha detto che attualmente sono 20.000 i militari stranieri nel Paese, inclusi soldati regolari e mercenari. Giappone. L’odissea di Iwao Hakamada: 50 anni nel braccio della morte di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 2 gennaio 2021 La confessione di 4 omicidi estorta con la forza, l’attesa del patibolo, la svolta del Dna Oggi, all’età di 84 anni, ottiene la revisione del processo per avere piena giustizia. L’anno in cui lo arrestarono Leonid Breznev prende le redini dell’Unione sovietica, Aldo Moro diventa per la terza volta presidente del Consiglio, la Francia di De Gaulle abbandona la Nato e i Beatles pubblicano Revolver, il loro settimo album. Era il 1966 e Iwao Hakamada aveva appena vent’anni; l’accusa che le autorità giapponesi gli rivolgono è pesantissima: l’incendio della fabbrica in cui lavorava e l’omicidio del suo principale, della moglie e i due figli. Il movente? Il furto dei 200mila yen chiusi nella cassaforte della fabbrica. Hakamada viene interrogato per giorni e giorni in sedute lunghe 16 ore senza la presenza di un avvocato: lo picchiano a sangue, lo privano del sonno, del cibo, dell’acqua, una tortura incessante che lo piega e lo spinge ad ammettere i delitti. Nessun sistema democratico potrebbe tener conto di quella confessione estorta con la forza, ma per la giustizia giapponese è sufficiente per stabilire la sua colpevolezza. Due anni dopo la sentenza del tribunale di Shizuoka: condanna all’impiccagione. La data? Da stabilire. Tanto che Hakamada ha passato quasi mezzo secolo nel braccio della morte in attesa dell’ora fatale che secondo la prassi del paese nipponico viene comunicata al condannato il giorno stesso: mai nessun prigioniero ha subito un simile trattamento nella storia della giustizia moderna. Nel frattempo l’ex pugile, recluso sotto un regime di isolamento speciale (niente tv, visite limitate e sorvegliate, divieto di uscire dalla cella) ritratta la confessione, accusa la polizia di aver utilizzato la forza per farlo parlare. I suoi avvocati chiedono la revisione del processo che non viene accordata, ma almeno l’esecuzione slitta di proroga in proroga. Fino alla svolta: nel 2008 viene effettuato un test del Dna raccolto dai corpi delle vittime che risulta incompatibile con quello di Hakamada che, al contrario, è del tutto assente dalla scena del delitto; la traccia appartiene a qualcun altro. Il caso finisce prima sui media giapponesi, poi su quelli internazionali. La pressione sulle istituzioni diventa continua e nel 2014, a 48 anni dall’arresto, l’alta corte di Tokyo proscioglie Hakamda per insufficienza di prove. La sua libertà viene salutata dall’opinione pubblica e accompagnata dalle scuse dell’ex capo della polizia e poi deputato Shizuka Kamei, che si inchina personalmente davanti l’ex detenuto. L’incubo sembra ormai finito, anche se nessuno potrà mai restituirgli mezzo secolo di crudele detenzione in cui è stato fiaccato e umiliato, vittima di persecuzione giudiziaria e di crudeltà. Ma a Hakamada non basta avere riavuto la sua libertà, vuole che la sentenza di omicidio sia cancellata e tramite i suoi legali la scorsa settimana è riuscito ad ottenere dalla Corte suprema giapponese la revisione completa del processo fino a quel momento negata dai giudici: “Siamo davvero contenti di questa notizia, ci tremano le mani perché finalmente abbiamo ottenuto la giustizia che ci è stata negata per mezzo secolo”, ha commentato il suo legale Yoshiyuki Todate. Cina. L’attivista Gulshan Abbas condannata a 20 anni di carcere di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 2 gennaio 2021 La donna, medico di etnia uigura, portata in un campo di detenzione. Ora anche le autorità cinesi hanno confermato ciò che le organizzazioni per i diritti umani e i familiari andavano dicendo da tempo, Gulshan Abbas, una dottoressa cinquantottenne di etnia uigura, è stata rapita e portata in un campo di detenzione. Pechino ha detto che il medico è in custodia anche se non ha specificato, come invece ha rivelato la famiglia che si trova negli Stati Uniti, se è stata condannata a venti anni di carcere. Si apre dunque uno squarcio su una vicenda che ha preso le mosse nel 2018 quando Gulshan Abbas è scomparsa al suo ritorno in Cina dopo aver visitato i parenti negli Usa. La sorella, Rushan Abbas, in particolare è impegnata nella causa del suo popolo, gli uiguri. Minoranza musulmana che parla una lingua turca ed è il principale gruppo etnico dello Xinjiang, una vasta regione nel nord- ovest della Cina che ha confini comuni con Afghanistan e Pakistan. Proprio per l’attivismo familiare che risale già alla giovinezza del nonno, Gulshan è stata prelevata e condotta in un luogo ancora sconosciuto. Forse uno dei grandi campi di rieducazione che Pechino ha instituito nello Xinjiang proprio per detenere gli indipendentisti uiguri. La Cina in realtà parla di centri di “formazione professionale” che servono a debellare l’estremismo religioso. In questi campi, secondo le informazioni raccolte da diverse organizzazioni in difesa dei diritti umani, vi sarebbero rinchiuse almeno un milione di persone anche se le cifre arrivano anche a tre milioni. Appresa la notizia il governo statunitense ieri ha ne ha chiesto ufficialmente il rilascio. Durante un incontro organizzato con la Commissione esecutiva del Congresso sulla Cina degli Stati Uniti (Cecc), Ziba Murat, figlia del Gulshan Abbas, ha specificato i dettagli della vicenda rendendo noto che la famiglia ha solo recentemente (Natale) appreso che la madre ha ricevuto la sentenza nel marzo dello scorso anno per accuse legate al terrorismo. Il portavoce del ministero degli Ester, i Wang. Wenbin ha detto che la donna “è stata condannata secondo la legge per aver partecipato al terrorismo organizzato, aver aiutato attività terroristiche e minato seriamente l’ordine sociale. Chiediamo ai politici americani di rispettare i fatti, di smetterla di fabbricare bugie che diffamano la Cina e di astenersi dall’usare la questione dello Xinjiang per interferire negli affari della Cina”. Sembra così ripetersi il copione dello scontro tra Usa e il gigante asiatico così come è stato per Hong Kong.