63 pazienti psichiatrici chiusi in cella abusivamente di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 29 gennaio 2021 Lo Stato italiano non riesce ad assicurare l’accoglienza nelle Rems. Nel 2020 la lista di attesa era di oltre 700 persone e c’è chi è costretto a subire una detenzione illegittima in carcere. Ma ora si è mobilitata la Cedu. Il 21 gennaio, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha emesso un provvedimento cautelare in favore di un paziente psichiatrico da tempo in lista di attesa per il collocamento in una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) e attualmente detenuto nel carcere di Regina Coeli. I giudici di Strasburgo hanno ordinato al Governo italiano di provvedere all’immediato trasferimento del ricorrente presso una struttura idonea ad assicurargli un trattamento adeguato alle sue condizioni di salute. Non è la prima volta che la Corte europea interviene sul problema delle carenze strutturali di posti nelle Rems. Un provvedimento del genere era stato adottato nell’aprile dello scorso anno a tutela di un giovane affetto da gravi disturbi della personalità, che era detenuto da oltre un anno e mezzo presso un altro carcere romano per indisponibilità di posti nelle Rems, sebbene il giudice penale ne avesse ordinato la scarcerazione, applicando a suo carico la misura di sicurezza. Entrambi i casi sono ancora all’esame della Corte di Strasburgo, che dovrà ora pronunciarsi sul merito delle violazioni lamentate dai ricorrenti, attinenti al divieto di trattamenti e pene inumani e degradanti e al diritto alla libertà personale. Violazioni che, oltre a essere di particolare gravità, rivelano l’esistenza di un problema strutturale dell’ordinamento italiano, cui nonostante tante belle parole le istituzioni non sono ancora riuscite a porre rimedio. Non si tratta, infatti, di casi isolati. Sono molti i pazienti psichiatrici non imputabili detenuti in carcere in attesa di andare nelle Rems, attesa che potrebbe richiedere mesi o addirittura anni. Con la conseguenza di tenere dietro le sbarre senza limiti di tempo soggetti che, invece, dovrebbero essere curati in strutture adeguate. Stando ai dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), nell’aprile del 2019 i soggetti internati nelle Rems erano 629, mentre quelli in lista d’attesa ammontavano a 642, di cui 63 risultavano detenuti illegittimamente in carcere. Nel febbraio 2020, secondo il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, i soggetti internati nelle Rems erano scesi a 600, quelli in lista d’attesa saliti a 714, quelli detenuti in carcere sempre 63. Nello spazio di un anno la situazione è rimasta pressoché invariata, se non peggiorata. Le lunghe liste d’attesa sono destinate a rimanere tali in mancanza di interventi strutturali volti a incrementare i posti delle Rems. Rendendo così vano il diritto dei pazienti psichiatrici a ricevere cure adeguate alla loro condizione psicopatologica. Nella sua relazione annuale relativa all’anno 2020, lo stesso Dap riconosce candidamente che i soggetti detenuti in carcere in attesa del trasferimento in una Rems sono di fatto ospitati illegittimamente. Nonostante le denunce, le segnalazioni e gli interventi delle giurisdizioni sovranazionali, le istituzioni italiane non hanno ancora assunto alcuna iniziativa concreta volta a risolvere il problema. Sembra, al contrario, che l’unica preoccupazione delle autorità coinvolte sia quella di giustificare la propria condotta, scaricando sulle altre la responsabilità di quanto sta avvenendo. Quando è evidente che non spetta certo al singolo direttore di un carcere né al giudice di sorveglianza il compito di adeguare le strutture delle Rems in modo che esse possano accogliere tutte le persone bisognose di cure. Così come è altresì evidente che creare poco più di 600 posti nelle Rems non è certo un’impresa titanica per uno Stato come l’Italia. A pagarne le conseguenze sono i soggetti deboli, affetti da gravi patologie psichiatriche e spesso esposti a un serio rischio suicidario. E le vittime già si contano, a partire dal noto caso di Valerio Guerrieri, giovane paziente psichiatrico illegittimamente detenuto in carcere a causa della mancanza di posti nelle Rems il quale, nell’attesa di essere trasferito, si è tolto la vita. Su questa storia incredibile si sono ora accesi i riflettori di Strasburgo. I ricorrenti sono difesi dinanzi alla Corte europea dagli avvocati Andrea Saccucci, Giulia Borgna e Valentina Cafaro dello studio Saccucci & Partners, leader nel contenzioso dei diritti umani, i quali già annunciano di voler chiedere l’adozione di una sentenza “pilota” per la risoluzione del problema sistemico, oltre che ovviamente un cospicuo risarcimento per le vittime. “La celerità eccezionale con la quale la Corte di Strasburgo ha ritenuto di dare seguito alle nostre istanze - ha dichiarato l’avv. Valentina Cafaro - conferma la rilevanza delle questioni sollevate e la particolare sensibilità del giudice europeo per il problema del trattamento sanitario dei soggetti affetti da psicopatologie. Confidiamo, pertanto, che attraverso la nostra azione lo Stato italiano ponga fine alla detenzione illegittima di pazienti psichiatrici e si impegni in modo concreto per migliorarne le condizioni di vita”. Un nuovo anno in viaggio lottando per lo Stato di diritto di Sergio D’Elia Il Riformista, 29 gennaio 2021 Nel 2021 continua il nostro “Viaggio della speranza”, tra detenuti dai diritti violati, ergastolani, vittime delle misure antimafia. Domani si svolgerà il primo Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem del 2021. È un anno che vogliamo vivere intensamente come abbiamo vissuto il 2020, nonostante i divieti, la paura, l’esercizio autoritario del potere che il governo della pandemia ci ha imposto e ci impone. È proprio in momenti come questo che occorre essere speranza contro ogni speranza. Trasformare la condizione di “chiusura” esterna in un’occasione di “apertura” interiore, di incontro e dialogo per essere così forza di cambiamento. Lo abbiamo fatto nel 2020, con il “Il viaggio della speranza” che da libro curato da Sabrina Renna, Antonio Coniglio e Lorenzo Ceva Valla sul Congresso tenuto nel Carcere di Opera è diventato un viaggio vero e proprio che ci ha portati ad attraversare la Puglia, la Calabria, la Sicilia. Lo abbiamo fatto con Rita Bernardini che ha dato corpo a 35 giorni di sciopero della fame, ripreso lunedì scorso, per nutrire la speranza e portare un po’ di “ristoro” nelle carceri e a tutta la comunità penitenziaria, ai detenuti e ai detenenti altrimenti naufraghi nel mare di dolore che rischia di inghiottirli, in spregio dei principi costituzionali. Immersi come ancora siamo in uno “stato di emergenza” in cui a emergere è sempre lo Stato con il suo armamentario di norme e procedure eccezionali, mezzi e poteri speciali, noi vogliamo che ad emergere e affermarsi siano invece gli stati di coscienza e di diritto orientati ai valori umani universali. Anche nelle terre del nostro Paese come la Calabria e la Sicilia che il potere considera “irredimibili” e, quindi, ha condannato a una pena senza speranza, dove sono bandite idee, opere e imprese che non siano quelle della mafia e dell’antimafia. Il viaggio, quindi, continua anche nel 2021, perché sia “l’anno della speranza contro ogni speranza”. Partiremo, come sempre, dal vissuto delle persone. I nostri compagni di viaggio saranno anche quest’anno gli imprenditori perseguitati da misure interdittive e di prevenzione antimafia, i Sindaci di Comuni sciolti per mafia, i detenuti e i detenenti, gli ex detenuti e le loro famiglie, i cittadini cultori dello stato di diritto, gli avvocati difensori dei diritti umani dentro e fuori le aule dei tribunali. “Il viaggio della speranza” è anche un modo di vivere e organizzare la lotta politica. Nel deserto che hanno creato nel nome della legalità, non ci occorrono basi materiali, strutture e mezzi pesanti. Nella traversata del deserto possono bastare una tenda, un cammello, una freccia, mezzi leggeri, essenzialmente immateriali, di organizzazione, movimento e lotta nonviolenta. Nel 2021, a cinque anni da Spes contra spem-Liberi dentro, vedrà la luce un altro docufilm di Ambrogio e Luigi Crespi, Spes contra spem-La colpa e il perdono. Se nel primo, i detenuti condannati all’ergastolo esprimevano il “senso di colpa” e la consapevolezza del danno arrecato, nel secondo saranno testimoni e artefici del “senso della colpa” e della conversione di un sistema di punizione in un sistema di riparazione. Quest’anno, nascerà anche un libro frutto della collaborazione con Il Riformista che, oltre a questa pagina, da mesi pubblica storie di vittime innocenti delle misure interdittive e di prevenzione antimafia. Sui loro casi realizzeremo una docu-fiction e, grazie anche alle “cliniche legali” del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, forniremo il supporto legale per i ricorsi incardinati davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Organizzeremo anche una grande “Marcia del sale” degli oppressi da leggi, codici e regimi detti antimafia ma usati contro il Diritto e contro la Costituzione: la Marcia dei proposti, degli intervenienti, dei terzi interessati, dei dissequestrati e indebitati, dei prevenuti, degli interdetti, dei disciolti per mafia, dei condannati alla pena di morte, alla pena fino alla morte, alla morte per pena. Come faremo a fare tutto questo? Faremo come abbiamo sempre fatto. Vivendo nel modo e nel senso in cui vogliamo vadano le cose. Chiamando tutti e ciascuno alle armi della lotta nonviolenta per la Giustizia e la Libertà, per la vita del diritto per il diritto alla vita. Negato a un detenuto al 41bis il libro di Marta Cartabia: aumenta il “carisma criminale” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 gennaio 2021 L’autorità giudiziaria ha vietato a un recluso al 41bis di Viterbo l’acquisto del libro scritto dall’ex presidente della Consulta Marta Cartabia. “Il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti, aumenterebbe il carisma criminale”, così l’autorità giudiziaria ha vietato l’acquisto din un libro a un recluso al 41bis di Viterbo. Parliamo della biografia di Totò Riina, oppure del romanzo “Il padrino” che narra le vicende americane di una famiglia mafiosa di origini italiane? No, si tratta di “Un’altra storia inizia qui”, il libro a firma di Marta Cartabia, l’ex presidente della Corte costituzionale, e Adolfo Ceretti, docente di Criminologia, nel quale si confrontano con il magistero del compianto arcivescovo Carlo Maria Martini. Non solo. Vietato anche l’acquisto del libro di Luigi Manconi e Federica Graziani - Al detenuto al 41bis gli hanno vietato anche l’acquisto del libro di Luigi Manconi e Federica Graziani “Per il tuo bene ti mozzerò la testa”. Chissà, forse si saranno allarmati per il titolo “minaccioso”? Fatto sta, anche in questo caso la richiesta di acquisto è stata respinta in quanto giudicata “non opportuna” dalla direzione del carcere. Puntualmente, la decisione è stata confermata dalla Procura. Due libri, insomma, considerati pericolosissimi in mano a un detenuto al 41bis. Una storia raccontata dallo stesso detenuto, T. C., che ha inviato tutta la documentazione al parlamentare di Italia Viva Roberto Giachetti, che ha parlato della vicenda anche a Rita Bernardini del Partito Radicale. Roberto Giachetti ha presentato un’interrogazione parlamentare - Roberto Giachetti ha, quindi, presentato una interrogazione parlamentare a risposta scritta per chiedere al ministro della Giustizia di adottare interventi di chiarimento normativo, “al fine di evitare interpretazioni palesemente arbitrarie, che si traducano nella negazione del diritto all’informazione dei detenuti”. Giachetti ripercorre quindi tutta la vicenda. Nella lettera, T.C. fa presente che la direzione del carcere, a cui aveva fatto richiesta, gli ha negato la possibilità di acquistare due libri: quello di Luigi Manconi e Federica Graziani “Per il tuo bene ti mozzerò la testa” e quello di Marta Cartabia e Adolfo Ceretti “Un’altra storia inizia qui”; la direzione dell’istituto di Viterbo, esprimendo parere contrario, si è rivolta all’autorità giudiziaria per avere o meno il nulla osta all’acquisto dei due libri. Il deputato di Italia Viva, nell’interrogazione, approfondisce le motivazioni del rigetto di ambedue i libri da parte dell’autorità giudiziaria: per il libro di Manconi e Graziani, con la motivazione che “la sottoposizione al regime del 41bis comporta la sospensione alle regole di trattamento degli istituti, specificatamente indicate al comma 2-quater della suddetta disposizione; considerato che la direzione della casa circondariale di Viterbo ha evidenziato la non opportunità dell’autorizzazione all’acquisto del libro indicato, con motivazione alla quale si aderisce integralmente “; per quello di Cartabia e Ceretti, si documenta sia il parere contrario del pubblico ministero perché “il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti aumenterebbe il carisma criminale “, sia il rigetto dell’istanza da parte del giudice con la motivazione che “il possesso del libro determinerebbe una posizione di privilegio rispetto agli altri detenuti”. Per Giachetti le censure sarebbero arbitrarie - Secondo Giachetti, queste censure da lui definite “arbitrarie”, violerebbero ben due articoli della corte costituzionale. Questa affermazione, però, l’argomenta nell’interrogazione. Parte dalle mosse della sentenza n. 122 del 2017, dove la Corte Costituzionale ha stabilito che “i detenuti sottoposti al regime speciale del 41bis possono ricevere libri solo attraverso l’amministrazione e non dall’esterno, confermando in materia circolari emanate dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria”. Il deputato di Italia Viva osserva che la citata sentenza della Corte Costituzionale ha due punti fermi : 1) “ …la misura che, secondo il “diritto vivente”, può essere adottata dall’amministrazione penitenziaria in base alla norma denunciata non limita il diritto dei detenuti in regime speciale a ricevere e a tenere con sé le pubblicazioni di loro scelta, ma incide solo sulle modalità attraverso le quali dette pubblicazioni possono essere acquisite”; 2) “Resta fermo, peraltro, che la misura in discussione, nella sua concreta operatività, non deve tradursi in una negazione surrettizia del diritto. Nel momento stesso in cui impone al detenuto di avvalersi esclusivamente dell’istituto penitenziario per l’acquisizione della stampa, l’amministrazione si impegna a fornire un servizio efficiente, evitando lungaggini e “barriere di fatto” che penalizzino, nella sostanza, le legittime aspettative del detenuto. La corte di Cassazione si è, del resto, già espressa chiaramente in tal senso: i libri e le riviste - tutti i libri e tutte le riviste - dovranno pervenire ai detenuti richiedenti in un tempo ragionevole”. Una violazione degli articoli 3 e 21 della Costituzione - Da ciò si evince, si legge sempre nell’interrogazione parlamentate, che “il potere dell’autorità giudiziaria di “censurare” la corrispondenza, i libri, le riviste o qualunque contenuto informativo, sussiste solo qualora sia ravvisabile un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblici; il diritto all’informazione, allo studio, alla cultura deve essere mantenuto nella sua massima espansione costituzionale, a meno che, ai sensi dell’articolo 18ter dell’ordinamento penitenziario, sia possibile individuare nel contenuto informativo elementi di sospetto in ordine alla veicolazione di messaggi potenzialmente criminali”. Ecco perché, secondo Giachetti, quanto accaduto si palesa come una “censura arbitraria” in violazione degli articoli 3 e 21 della Costituzione, come declinati in materia da specifiche pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione. Non rimane altro che un intervento normativo da parte del ministro della Giustizia per evitare, com’è accaduto, che un libro a firma dell’ex presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, venga considerato un’insidia per la sicurezza del nostro sistema penitenziario. Istruzione in carcere: siglato il nuovo protocollo nazionale di Ada Maurizio* epale.ec.europa.eu, 29 gennaio 2021 L’emergenza sanitaria ha imposto anche in carcere la didattica a distanza, spesso ostacolata dall’assenza e/o dalle difficoltà di connessione a internet negli istituti. Il Ministero dell’Istruzione ha curato una rilevazione sull’attivazione di corsi a distanza in carcere nel periodo dal 7 al 14 maggio 2020. I dati, seppur riferiti a un periodo limitato, indicano che il 95% dei Centri Provinciali per l’istruzione degli adulti ha garantito il proseguimento dei corsi di alfabetizzazione e di primo livello all’interno dei penitenziari. Il Ministero della Giustizia ha realizzato un monitoraggio delle attività didattiche a distanza nel periodo di sospensione della didattica in presenza a partire dal mese di marzo 2020, attraverso la collaborazione dei Provveditorati Regionali (Prap) che conferma il dato rilevato dal Ministero dell’Istruzione ed evidenzia l’elevata eterogeneità delle realtà territoriali. L’accendersi di focolai in alcuni istituti e la necessità di limitare i rischi di contagio hanno impedito in molti casi la ripresa della didattica in presenza nei primi mesi dell’anno scolastico in corso. Per garantire la continuità dell’istruzione e della formazione in carcere e il diritto allo studio di adulti e minori reclusi e in area penale esterna è necessaria la collaborazione tra i due ministeri coinvolti, a partire da un costante dialogo tra le due amministrazioni sia a livello politico che operativo. In questa direzione, il nuovo Protocollo di Intesa tra il Ministro dell’Istruzione e il Ministro della Giustizia “Programma speciale per l’istruzione e la formazione negli istituti penitenziari e nei sevizi minorili della giustizia”, rappresenta la cornice normativa essenziale per il perseguimento del diritto costituzionale all’istruzione anche quale leva di pieno reinserimento sociale. Il Protocollo è stato rinnovato il 19 ottobre 2020 e segue quello del 2016, siglato nella data simbolica del 23 maggio, ricorrenza della strage di Capaci, e quello originario del 23 ottobre 2012. Negli otto anni intercorsi tra il primo Protocollo e il più recente, sia il mondo della scuola che quello del carcere hanno vissuto importanti e significativi cambiamenti. Per il sistema penitenziario ricordiamo la Legge 103/2017 che ha introdotto la riforma dell’ordinamento penitenziario e i successivi decreti legislativi 121, 123 e 124 del 2018. Per quanto riguarda il sistema scolastico, ci riferiamo al DPR 262/2012 che ha istituito i Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti e alle Linee guida per il passaggio al nuovo ordinamento (decreto interministeriale 12 marzo 2015). Alle Leggi e ai decreti hanno fatto seguito circolari e note emanate dai rispettivi Dipartimenti ministeriali che hanno reso operative le disposizioni normative. Tra le novità introdotte dal nuovo Protocollo segnaliamo in premessa l’attenzione del Ministero della Giustizia al principio dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita (life long learning) che supera una visione prevalentemente compensativa dell’azione educativa. In questa direzione, il Ministero della Giustizia favorisce la realizzazione di percorsi di istruzione e di formazione che siano in grado di accompagnare la persona in un percorso di riconoscimento e ridefinizione delle proprie componenti personali e sociali con lo scopo di facilitare il riconoscimento delle proprie capacità e dei propri bisogni. Tra i riferimenti citati in premessa scompare il programma Paideia del Ministero dell’Istruzione (nota 2276 del 18 marzo 2015), nato per sostenere l’avvio della riforma del sistema di istruzione degli adulti anche attraverso la creazione di dispostivi e di misure di sistema. Tra le finalità dell’intesa, c’è un esplicito richiamo alla valorizzazione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, al fine di colmare il divario digitale dei soggetti in esecuzione pena detentiva e non detentiva, in considerazione del fatto che la conoscenza in campo digitale è ormai indispensabile per ogni tipo di attività lavorativa, di istruzione/formazione, economica ed associativo/relazionale, con conseguente permanere di un significativo svantaggio sociale per chi non ha i mezzi o le possibilità per accedervi. È interessante notare, poi, che nel nuovo testo dell’accordo, l’organismo deputato all’attuazione del Protocollo cambia nome (il Comitato paritetico diventa Comitato attuativo) e il numero dei componenti non è più limitato a cinque rappresentanti dei rispettivi Dipartimenti ministeriali. Tra i compiti del Comitato attuativo scompare quello della ricognizione di eventuali risorse finanziarie da destinare alle attività. La comunicazione dei contenuti del protocollo ai Cpia è affidata agli Uffici Scolastici Regionali che al momento non è ancora avvenuta. *Dirigente del Cpia 3 di Roma, Ambasciatrice Epale “Per aspera ad astra”: obiettivo la riqualificazione del carcere attraverso la cultura e la bellezza italpress.it, 29 gennaio 2021 “Per aspera ad astra” è un progetto promosso da Acri insieme ad un gruppo di Fondazioni di tutta Italia, compresa la Fondazione Con il Sud, che ha come obiettivo la riqualificazione delle carceri attraverso la cultura e la bellezza. Il progetto coinvolge 12 carceri e circa 250 detenuti, che partecipano a percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro, non solo attori e drammaturghi quindi, ma anche scenografi, costumisti, truccatori, fonici, addetti alle luci. Ne parliamo con Giorgio Righetti, direttore generale di Acri. Come nasce il progetto? “Il progetto nasce sull’onda di un convegno organizzato a Volterra nel giugno 2017 da Acri e dalla locale Fondazione dal titolo “Il sipario oltre la grata”. A quel convegno presero parte molte Fondazioni che sostenevano attività culturali e artistiche all’interno degli istituti di pena italiani ma anche alcuni operatori, tra cui Armando Punzo della Compagnia della Fortezza che da più di trent’anni svolge la sua straordinaria attività teatrale all’interno del carcere di Volterra. Da successive interlocuzioni, stimolati dall’esperienza della Compagnia della Fortezza, Acri decise di dare vita a una iniziativa che mettesse a sistema le migliori esperienze di teatro in carcere. Nasce così la prima edizione di Per Aspera ad Astra che coinvolse 6 Fondazioni e altrettante compagnie teatrali e istituti di pena. Oggi siamo giunti alla terza edizione che coinvolge 10 Fondazioni e 12 compagnie teatrali e istituti di pena”. Quale è la portata innovativa del progetto? “Le Fondazioni hanno una lunga tradizione di interventi svolti all’interno delle carceri con l’obiettivo di favorire i percorsi di reinserimento dei detenuti. Per questo, tra le tante attività, anche il teatro è stato utilizzato quale strumento per perseguire questo obiettivo rieducativo. Ma la novità e la forza di Per Aspera ad Astra è che da strumento, il teatro diventa, nel percorso che abbiamo intrapreso, un fine in sé. L’arte, il teatro, in questo caso, è il cuore dell’iniziativa, è al centro, ne è la parte fondante. Questo progetto vuole promuovere l’arte nella sua complessità e straordinaria forza culturale e umana. Non è uno strumento, ma un fine. Questo progetto innova perché capovolge il paradigma dei numerosi interventi, assolutamente apprezzabili e utili, che spesso si realizzano negli istituti di pena. Mettendo al centro l’arte, si dà dignità e ancora maggiore valore all’attività, difficile e impegnativa, che i detenuti praticano partecipando alle attività teatrali da noi promosse. E ridando dignità e valore, indirettamente, si persegue con ancora maggiore forza ed esito positivo quello scopo rieducativo e di reinserimento dei detenuti che tutti noi perseguiamo. Siamo convinti che, per un reale percorso di recupero, non ci si possa limitare alla “recita di Natale”. Noi siamo convinti che anche i detenuti abbiano diritto all’arte e alla straordinaria forza liberatoria che essa possiede e per questo vogliamo perseguirne l’utopia anche all’interno di contesti difficili o al limite del possibile. L’arte, che è un diritto anche per coloro che si trovano in condizioni di privazione della libertà”. Oggi chi coinvolge? “La terza edizione di Per Aspera ad Astra sta coinvolgendo complessivamente circa 250 detenuti in 12 istituti di pena in tutta Italia, da Nord a Sud: a, Bologna, Cagliari, Genova, La Spezia, Milano, Padova, Palermo, Perugia, Saluzzo (Cn), Torino, Vigevano, Volterra. Promosso da Acri, è sostenuto da: Fondazione Cariplo, Fondazione Carispezia, Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione Con il Sud, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Fondazione di Sardegna”. Che attività e ruoli anche lavorativi svolgono? “Il progetto offre percorsi di formazione professionalizzante nei mestieri del teatro. Quindi non solo per attori e drammaturghi, ma anche per scenografi, costumisti, truccatori, fonici, addetti alle luci. Tutti i detenuti partecipanti vengono coinvolti nella costruzione degli spettacoli”. Cosa succede dopo la “prima”? “Il panorama è piuttosto variegato e cambia a seconda degli istituti di pena. In alcuni casi ci sono stati spettacoli all’interno delle carceri con spettatori provenienti dall’esterno, in altri sono state organizzate piccole tournée nei teatri fuori. Spesso sono stati coinvolti gruppi di studenti. In alcuni casi sono stati attivati anche periodi di tirocinio per alcuni detenuti, che hanno lavorato insieme alle compagnie nei teatri. Quest’anno la pandemia ha costretto le compagnie ad attivare formule alternative per proseguire le attività. Le lezioni si sono trasferite in modalità telematica: i detenuti, in piccoli gruppi, si collegano in videochat, i docenti utilizzano diversi supporti multimediali per sopperire alla lontananza. Insieme alla formazione, i partecipanti stanno lavorando alla redazione di un testo drammaturgico, attraverso scambi epistolari che stanno innescando veri processi creativi condividendo testi, immagini bozzetti, ipotesi di scenografie. Gli spettacoli si tengono in diretta streaming, vengono realizzati documentari, podcast, libri fotografici, e tante altre forme per raccontare i percorsi avviati per restituire bellezza e dignità a luoghi che ne sono spesso privi come gli istituti di pena”. Relazione sulla giustizia: processi civili in calo. Ma nel penale meno cause definite di Liana Milella La Repubblica, 29 gennaio 2021 Il ministro Bonafede: “Solo approvando le riforme già in Parlamento potremo avere la garanzia dei fondi”. Le 220 pagine inviate ieri sera e pubblicate oggi sui siti di Palazzo Madama e Montecitorio. Testo istituzionale perché il governo è dimissionario. La relazione sullo stato della giustizia del Guardasigilli Alfonso Bonafede è in Parlamento da ieri sera. E oggi è stata digitalizzata e pubblicata sui siti della Camera e del Senato. Doveva essere l’oggetto di un grande scontro parlamentare, dove i numeri traballavano al Senato. Invece il testo di Bonafede, depurato da ogni riferimento politico poiché il governo è dimissionario, è solo una radiografia tecnica sullo stato della giustizia. Da una parte i numeri, ossia i processi arretrati nel civile e nel penale, le prescrizioni maturate; dall’altro l’elenco delle leggi presentate in Parlamento, in particolare la riforma del processo penale e quella del processo civile, nonché le nuove norme sull’ordinamento giudiziario e sulla riforma del Csm. Nonché le previsioni, fatte dal governo, sui fondi del recovery plan per la giustizia, quei 2,7 miliardi di euro che dovrebbero consentire di assumere 2mila magistrati aggregati e 16mila figure ausiliarie. Recovery solo dopo riforme - Ma chi si aspetta una relazione politica resterà deluso, perché lo stesso Bonafede, nella stesura finale del testo, è stato costretto a sbianchettare ogni programma che suonasse come il frutto di un governo divenuto nel frattempo dimissionario. Di politico ci saranno ovviamente le leggi di Bonafede, attualmente divise tra Senato (accelerazione del processo civile) e Camera (le modifiche penali e il Csm). Tant’è che nel testo integrale della relazione si può leggere questo passaggio: “Non soltanto gli investimenti richiesti dal ministero della Giustizia, ma l’intero Piano nazionale di Ripresa e Resilienza sarà scrutinato tenendo conto della capacità di affrontare con riforme normative, investimenti e misure organizzative i problemi del processo civile e penale e di apprestare un’efficace prevenzione della corruzione. La confidence delle istituzioni europee verso le prospettive di rilancio del nostro Paese è dunque fortemente condizionata dall’approvazione di riforme e investimenti efficaci nel settore della giustizia. Non può del resto sfuggire come qualsiasi progetto di investimento - anche estraneo al settore giustizia strettamente inteso - per essere reputato credibile dev’essere immunizzato dal rischio che un lungo contenzioso giudiziario ne ostacoli la realizzazione entro le scadenze stabilite dal Regolamento Ngeu. I progetti di riforma del processo penale, del processo civile e dell’ordinamento giudiziario, approvati dal Consiglio dei ministri nell’anno 2019 e nel 2020, sono attualmente all’esame del Parlamento”. Il binomio risorse e giustizia - Bonafede parte da questa premessa: “Nessuna riforma può essere efficace senza l’immissione di risorse umane e strumentali adeguate, senza mettere benzina nella macchina della giustizia”. Ed ecco che succede con il Recovery, partendo dal seguente presupposto: “Lo scopo è quello di assorbire, nell’orizzonte previsto al 2026, l’arretrato che rappresenta il principale fattore di rallentamento dei processi e l’ostacolo pratico all’attuazione del diritto alla ragionevole durata”. Ecco la mappa della distribuzione dei finanziamenti: “Dei circa 3 miliardi di euro attribuiti dalla bozza di Pnrr trasmessa al Parlamento al settore della giustizia, 2,3 miliardi sono destinati ad assunzioni a tempo determinato dedicate in larga parte al rafforzamento e alla riqualificazione dell’Ufficio per il processo”, un modello organizzativo varato nel 2014 e che ha potuto contare finora su risorse insufficienti: potrà ora essere alimentato da 16mila addetti all’Ufficio per il processo con contratto a tempo determinato (8mila per due cicli, ognuno dei quali della durata di due anni e mezzo) e da 2mila magistrati onorari aggregati (mille per ogni ciclo, della durata di due anni e mezzo). Si prevede che i primi supporteranno il giudice nello studio della controversia, dei precedenti giurisprudenziali e della dottrina pertinente e collaboreranno alla raccolta della prova dichiarativa nel processo civile, sul modello dei clerks presenti in altri Paesi. I magistrati onorari aggregati collaboreranno con i giudici professionali che operano nelle sedi gravate da arretrati significativi nel settore civile, elaborando bozze di sentenze. Inoltre, 4.200 operatori a tempo determinato saranno chiamati a rafforzare la capacità amministrativa del sistema”. Infine un contingente di cento magistrati onorari ausiliari supporterà la sezione tributaria della Corte di Cassazione, che è gravata da un numero di pendenze superiore al dato globale di tutte le altre sezioni civili della Corte di legittimità. Investimenti sull’edilizia giudiziaria - Ecco il passaggio della relazione sull’edilizia giudiziaria: “Altro settore di particolare attenzione attiene all’obsolescenza degli edifici, al degrado degli spazi della giustizia e all’inadeguatezza dimensionale delle strutture, esasperata dalle esigenze di distanziamento imposte dalla pandemia. Una delle linee di finanziamento, dell’ammontare di circa 470 milioni di euro, è perciò dedicata alla realizzazione di nuove cittadelle giudiziarie e alla riqualificazione delle strutture esistenti, in un’ottica green e di sicurezza sismica”. L’aumento del personale - Scrive la relazione: “È importante inquadrare l’intervento straordinario nella cornice del piano di assunzioni di personale amministrativo, senza precedenti, finanziato e deliberato nel 2018 per circa 13.313 unità. In attuazione di tale piano sono state già assunte 4.836 persone mentre è in corso il reclutamento, entro il prossimo triennio, di 8.287 persone. Sulla stessa linea si muove l’incremento della dotazione organica dei magistrati. Si tratta di 600 unità. Una parte di questa dotazione è stata già distribuita negli uffici di legittimità nell’anno 2019. Le toghe per l’emergenza - Un’innovativa misura organizzativa è inoltre costituita dalla “pianta organica flessibile”, un contingente di magistrati destinato ad ovviare alle “criticità di rendimento” rilevate in determinati uffici giudiziari, sulla base di indicatori che hanno riguardo anche all’accumulo delle pendenze, oltre che alle scoperture provvisorie. La proposta di distribuzione delle risorse flessibili, trasmessa nell’ottobre del 2020, attende di essere riscontrata dal parere del Csm, mentre l’ultima legge di bilancio ha già stanziato risorse per incentivare la copertura di tali posizioni. I prossimi concorsi - La relazione spiega che “nei giorni 25, 26 e 28 maggio saranno espletate, nel rispetto di tutti i protocolli di sicurezza, le prove scritte del concorso per l’accesso alla magistratura bandito nell’ottobre 2019 e rinviato a causa dell’emergenza sanitaria”. Inoltre “è allo studio degli uffici ministeriali la pubblicazione nella prossima primavera di un nuovo bando di concorso, con prove scritte da espletarsi nell’autunno in modo da ridimensionare l’impatto negativo dell’epidemia sulle scoperture della pianta organica del personale di magistratura”. Il personale amministrativo - Per quanto riguarda il personale amministrativo, la relazione spiega che sono stati reclutati “mille operatori giudiziari a tempo determinato (bando pubblicato il 15 settembre 2020), 400 direttori a tempo indeterminato (bando del 17 novembre 2020), 150 funzionari giudiziari (bando del 27 novembre 2020) e 2.700 cancellieri esperti (bando dell’11 dicembre 2020); mentre 1.163 dipendenti sono stati assunti attraverso lo scorrimento della graduatoria dei candidati risultati idonei all’esito di un precedente concorso per assistenti giudiziari”. La digitalizzazione - Ecco quanto si può leggere nel testo di Bonafede: “L’intento è di reingegnerizzare e rafforzare l’infrastruttura che sorregge i sistemi del processo civile (Pct) e del processo penale telematico (Ppt), già interamente finanziati con risorse interne ed europee diverse dal Ngeu e intensamente utilizzati da operatori interni (circa 40 mila tra magistrati, personale amministrativo e polizia giudiziaria) e utenti esterni abilitati (1milione e 200mila professionisti, di cui 250 mila avvocati). I flussi telematici del settore civile sono cresciuti, nell’anno 2020 anche rispetto all’anno precedente: 21,2 milioni di depositi in Pct contro i circa 18 milioni del 2019; 2.502.084 depositi di professionisti esterni nel 2020 (avvocati, consulenti) in Pct contro gli 11.177.899 del 2019; 8.755.209 provvedimenti telematici depositati dai magistrati in Pct nel 2020 contro i 6.917.670 del 2019; 33,4 milioni di notifiche telematiche civili nel 2020 contro i quasi 28 milioni del 2019. Sono stati infine dematerializzati nel 2020, anno di sostanziale avvio del processo penale telematico, circa 1.300.000 fascicoli; mentre sono stati acquisiti al gestore documentale (Tiap) dal portale delle notizie di reato 1.369.000 documenti digitali”. Covid e processi - Ampio il passaggio sulla pandemia: “Ammonta a 31 milioni la spesa degli uffici per acquisto di dispositivi di protezione (mascherine, barriere para-fiato, sanificazioni, materiale igienizzante). Al fine di rendere effettivo il lavoro a distanza, 13 mila dipendenti sono stati autorizzati alla gestione da remoto dei sistemi amministrativi e giudiziari e riforniti di appositi pc (oltre 17.000 in corso di distribuzione), mentre è già interamente coperta la platea dei magistrati ordinari e onorari”. La relazione sottolinea come “è degno di nota come il personale amministrativo, la magistratura ordinaria e la magistratura onoraria abbiano continuato a svolgere il loro lavoro in condizioni difficili, non facendo mai mancare la loro professionalità”. Seguono i dati sui processi definiti e iscritti: “I tribunali e le Corti di appello nel settore civile hanno definito più di quanto sia stato iscritto: sia in primo che in secondo grado le pendenze del civile al 31 dicembre 2020 sono diminuite anche rispetto al dato del 2019 (229.959 nel 2020 contro i 241.673 del 2019 per la Corte e 1.988.477 contro i circa 1.989.905 per i Tribunali). Soprattutto nel secondo semestre dell’anno (fase 2 dell’emergenza sanitaria) la produzione degli uffici del settore civile è stata tale da determinare un indice di smaltimento dell’arretrato (clearance rate) di segno positivo: 1,12 nelle Corti d’appello; 1,08 nei Tribunali”. Le carceri - Ecco i dati del settore penitenziario: “Al 31 dicembre 2019 i soggetti in carico per misure erano 60.372, mentre al 31 ottobre del 2020, il loro numero è pari a 57.991. Alla stessa data dell’anno precedente era invece pari a 60.184. Per rafforzare questo settore, si è ottenuto, nell’ultima legge di bilancio, uno stanziamento per l’assunzione di 80 unità di personale presso il Dipartimento della giustizia minorile e di comunità. Nel 2020 sono stati immessi in servizio ben 1122 agenti di polizia penitenziaria”. Dati e analisi della giustizia civile - Al termine delle 220 pagine la relazione fa il punto e fornisce i dati sui processi civili e penali. Partiamo dai primi: “Il totale dei fascicoli pendenti del settore civile nel 2020 risulta complessivamente stabile rispetto al 2019. Nel dettaglio, presso la Corte di Cassazione, in linea con la tendenza registrata negli anni precedenti, si mantiene un andamento crescente (+2,9%); in Corte d’Appello prosegue il trend decrescente degli ultimi anni (-4,8%); i Tribunali ordinari presentano un dato stabile rispetto allo scorso anno, i Tribunali per i Minorenni mostrano una decrescita pari all’1,3% e, da ultimo, la pendenza dei Giudici di Pace evidenzia una lieve crescita (+1,2%)”. Ecco la cifra complessiva: “Al 31 dicembre 2020 il numero totale di fascicoli civili pendenti era pari a 3.292.218. Le pendenze erano pari a 2.818.575, con una variazione positiva dello 0,4% rispetto al minimo registratosi nel 2019 (che rappresentava il dato migliore dal 2003), connessa al rallentamento dell’attività dovuta all’emergenza epidemiologica. In media, nel 2020 il rapporto tra procedimenti definiti e iscritti è stato pari a 1,01, un valore di sostanziale stabilità. Tuttavia, occorre considerare che l’andamento è il risultato di una riduzione sia dei procedimenti sopravvenuti (-18%) che di quelli definiti (-20%) rispetto al dato del 2019”. Seguono le considerazioni sull’arretrato: “L’erosione dell’arretrato cosiddetto “patologico” o “a rischio Pinto” si arresta nel 2020, con un incremento marcato in Corte di Cassazione, pari al 12,2%, una crescita evidente anche in Tribunale (+3,1%) e più contenuta in Corte d’Appello (+1,1%). Rispetto al 2013, tuttavia, la contrazione è pari al 46% in primo grado ed al 50% in secondo grado”. Segue ancora una “breve rassegna ragionata dei dati indicatori per tipologia d’ufficio giudiziario”: “La Cassazione mostra un aumento stimato delle pendenze (120.473 al 31 dicembre 2020) sia pure lieve rispetto allo stesso periodo del 2019 (117.033). Il dettaglio delle materie trattate in Corte d’Appello permette di evidenziare la riduzione stimata a 10.892 procedimenti pendenti in tema di pubblico impiego che costituisce una marcata riduzione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (11.732). Di rilievo la riduzione delle pendenze in materia di contenzioso commerciale (65.913 stimata al 31 dicembre 2020 rispetto ai 73.372 del 31 dicembre 2019) e di contenzioso ordinario (92.121 alla data del 31 dicembre 2020 rispetto a 95.144 al 31 dicembre 2019). Presso i Tribunali ordinari, nell’ultimo anno giudiziario si osserva un calo dei procedimenti pendenti per il contenzioso commerciale (325.732 stimato al 31 dicembre 2020 rispetto ai 351.944 del 31 dicembre 2019) ancor più accentuato nei procedimenti esecutivi immobiliari (184.033 stimato al 31 dicembre 2020 rispetto ai 204.602 del 31 dicembre 2019). Calano, alla data del 31 dicembre 2020, le iscrizioni di tutti i procedimenti del settore civile. Dati e analisi della giustizia penale - Per chiudere i dati sui processi penali. “Nel corso dell’ultimo anno il numero complessivo di procedimenti penali pendenti presso gli Uffici giudiziari è rimasto stabile, attestandosi a 2.676.750 procedimenti alla data del 30 settembre 2020. Nei primi nove mesi del 2020, in relazione con il rallentamento delle attività dovuto all’emergenza epidemiologica, il totale dei procedimenti penali pendenti presso gli uffici giudicanti è cresciuto del 4,3%. Nello stesso periodo si è, invece, ridotto il numero di procedimenti pendenti dinanzi agli uffici requirenti (-2,7%)”. Segue una dettagliata analisi dei flussi: “L’analisi dinamica su scala nazionale del dato - elaborata comparando il periodo 1.10.2019-30.09.2020 al periodo 1.1.2019-31.12.2019 - mostra che ad un generalizzato calo del numero delle nuove iscrizioni (-11,71% sul totale), corrisponde un altrettanto generale calo delle definizioni (pari al -16,40%). Globalmente, si registra un aumento delle pendenze pari all’1,51%”. La relazione riporta anche i dati sui diversi uffici del settore penale. Procura della Repubblica - “I procedimenti con autore noto iscritti nell’anno giudiziario 2019/2020 sono diminuiti del 2,57% rispetto all’anno precedente con un andamento diversificato: analogamente a quanto registrato negli anni passati, crescono i procedimenti di competenza della DDA (+2,74%), mentre diminuiscono quelli ordinari (-2,11%) e quelli di competenza del giudice di pace (-5,63%). Il trend delle definizioni, fortemente influenzato dalla situazione pandemica, evidenzia una generalizzata riduzione pari, rispettivamente, al 17,59% per i reati di competenza della DDA, al 10,74% per i reati ordinari e al 17,29% per i reati di competenza del giudice di pace. Tribunale: per gli uffici di Tribunale, nel complesso, l’anno giudiziario 2019/2020, rispetto al precedente, evidenzia una diminuzione delle iscrizioni (in calo del 14,35%) e delle definizioni (in calo del 19,43%)”. Giudice di Pace - “Anche per questi uffici è confermato l’andamento generale con la diminuzione di procedimenti iscritti e definiti nel dibattimento nella misura del 15,55% e del 25,51%”. Cassazione - “Parimenti per la Corte di Cassazione si registra una diminuzione delle iscrizioni e delle definizioni, rispettivamente nella misura del 18,62% e del 28,78%. Corte di Appello - “Anche presso tali uffici il dato tra iscrizioni e definizioni segue un trend convergente. Ad un calo delle iscrizioni pari al 15,79% corrisponde una riduzione delle definizioni nella misura del 25,08 per cento”. Bonafede sceglie la cautela: solo Covid e Recovery, nessun accenno politico di Giulia Merlo Il Domani, 29 gennaio 2021 Il ministro interviene oggi all’evento con tutti i vertici della giustizia in Cassazione. Sarà un discorso breve e istituzionale, senza accenni alle riforme del 2021. In attesa di sapere se il Guardasigilli rimarrà a via Arenula. In tempo di pandemia e di crisi di governo, anche l’inaugurazione dell’anno giudiziario si celebra in scala ridotta e senza la consueta enfasi. Il momento solenne in cui le più alte cariche dello stato e della magistratura si ritrovano nell’aula magna della corte di Cassazione per fare il bilancio dell’anno appena concluso e dare prospettiva a quello che comincia si svolge in forma ridotta: un’ora e mezza appena di durata, delegazioni ridotte al minimo indispensabile e nessun giornalista ammesso al Palazzaccio di piazza Cavour. Colpa del covid, ma che per una volta potrebbe venire in aiuto del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: il suo intervento sarà breve, in linea con il complessivo contingentamento dei tempi della cerimonia, e si concentrerà sulla giustizia alla prova della pandemia e su come verranno spesi i fondi del Recovery plan. Nessun afflato di prospettiva futura, nessun auspicio per il 2021 appena iniziato e soprattutto nessun accenno politico. Istituzionalmente inappuntabile, vista la situazione di un governo dimissionario, ma anche strategicamente cauto. Il guardasigilli, infatti, è reduce da una settimana di tensione: era atteso in parlamento a metà settimana per presentare la sua relazione sulla giustizia, ma proprio quel passaggio d’aula rischiava di essere la Waterloo del governo scampata pochi giorni prima e il sacrificio pubblico del capo-delegazione Cinque stelle. Capita l’antifona delle opposizioni (in testa Italia viva, che aveva annunciato già il voto contrario alla relazione ed era tornata a battere sul tema della prescrizione) e realizzato che il gruppo dei responsabili non sarebbe stato sufficiente, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha scelto di non parlamentarizzare la crisi e dunque la strada obbligata delle dimissioni. Questo ha salvato Bonafede dalla gogna dell’aula, ma non ha tolto dalle sue spalle il bersaglio di ministro in bilico, anche nel caso di una conferma di Conte a palazzo Chigi. È in questo clima infuocato che oggi il Guardasigilli si presenta in Cassazione: conscio della sua situazione di debolezza politica e consapevole anche che il suo discorso sarà passato al setaccio, in cerca di ulteriori elementi per affossarlo. È per questo che punta a non lasciare alcun margine di attacco ai suoi detrattori. Dunque il suo discorso sarà conciso, con al centro due soli punti: l’attuale situazione della macchina giustizia, affaticata da un anno di pandemia che ne ha rallentato il funzionamento ma anche dotata di nuovi strumenti informatici; i fondi del Recovery fund messi a disposizione di via Arenula e per quali interventi e riforme già in cantiere i 3 miliardi verranno spesi. A mancare, invece, saranno tutti i passaggi più politici: il discusso stop della prescrizione da pochi mesi entrato in vigore con una legge che porta il nome dello stesso Bonafede; le riforme del processo civile e penale ancora ferme in commissione ma incluse dell’ultima bozza di Recovery plan; la riforma del Consiglio superiore della magistratura che sta facendo molto discutere proprio i magistrati a cui Bonafede di rivolge. In sintesi: nessuna rivendicazione di quel programma di governo per la giustizia, che è proprio il punto su cui il Conte bis ha rischiato di cadere in aula. La relazione - Bonafede ripeterà a grandi linee i punti delle 200 pagine di relazione sull’allocazione dei fondi del Recovery, anche quelle depurate da qualsiasi considerazione di merito politico. Il dato di partenza, però, rivendica la centralità del dicastero di via Arenula: non solo quelli per la giustizia, ma tutti i 209 miliardi del Recovery fund sono vincolati a una velocizzazione dei processi e alla lotta alla corruzione. La misura portante riguarda le assunzioni: “2,3 miliardi sono destinati ad assunzioni a tempo determinato dedicate in larga parte al rafforzamento e alla riqualificazione dell’Ufficio per il processo”, con l’obiettivo di rendere più efficiente la macchina e di smaltire la mole di arretrato che affossa il lavoro delle corti. Poi ci sono gli interventi di edilizia giudiziaria, “Una delle linee di finanziamento, dell’ammontare di circa 470 milioni di euro, è perciò dedicata alla realizzazione di nuove cittadelle giudiziarie e alla riqualificazione delle strutture esistenti, in un’ottica green e di sicurezza sismica”. Infine, la digitalizzazione: “L’intento è di reingegnerizzare e rafforzare l’infrastruttura che sorregge i sistemi del processo civile (Pct) e del processo penale telematico (Ppt), già interamente finanziati con risorse interne ed europee”. La relazione, poi, contiene i numeri dell’arretrato civile e penale. Nel civile “il numero totale di fascicoli civili pendenti è pari a 3.292.218”, cifra leggermente più alta rispetto al 2019 a causa del rallentamento dell’attività dovuta all’emergenza epidemiologica. Lo stesso aumento vale anche per il penale: 2,6 milioni di procedimenti pendenti e “nei primi nove mesi del 2020 il totale delle pendenze penali è cresciuto del 4,3 per cento”. Numeri che graveranno sulle spalle del successore di Bonafede, o almeno così sembra probabile alla luce delle ultime schermaglie politiche: esiste l’ipotesi di una staffetta con l’ex ministro dem Andrea Orlando, ma si ragiona anche su profili tecnici e considerati “garantisti” come quello di Marta Cartabia e Sabino Cassese, graditi anche a Italia Viva. Giustizia: in 4 processi su dieci assoluzione in primo grado di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 gennaio 2021 Tra le cause il “produttivismo” dei pm. Nel 2019 le sentenze monocratiche in ordinario sono state 271 mila, 90 mila in riti alternativi, 27 mila le sentenze collegiali. Processi che finissero con il 90% di condanne sarebbero non un sistema efficiente, ma un incubo che negherebbe la ragione stessa del giudizio come luogo di verifica dell’accusa. Ma forse neppure è sano che, almeno per la maggioranza dei reati (quelli davanti al giudice monocratico), già in primo grado i processi si concludano in media con assoluzioni nel 35-40% dei casi. Eppure è quanto emerge se si ha la pazienza e si fa la fatica di provare a cercare, tribunale per tribunale, questo dato qualitativo che altrimenti non è contenuto nella pur copiosa statistica quantitativa che proprio oggi e domani verrà come al solito riversata nelle cerimonie di apertura dell’anno giudiziario, in un tripudio di quanti processi siano sopravvenuti, quanti definiti, in quanto tempo, ad onta di quante carenze di organico, e via ingrossando i vari indici. Tutti tranne uno: ma come finiscono questi processi in primo grado? Numeri sparsi - Una risposta seria non è facile per svariate ragioni. Intanto non esiste appunto un posto dove sia possibile attingere questo dato aggregato. Molti dei tribunali interpellati, come pure dei distretti giudiziari (ad esempio Napoli e Trieste) di Corti d’Appello raggruppanti più tribunali, rispondono di non essere in grado di ricavarlo. Altri non rispondono, altri ancora si sforzano invece di fare una ricerca apposita per non incorrere nella fallacia statistica (che in passato aveva inficiato le prime timide attenzioni al tema) di non depurare il numero delle assoluzioni dalle tante prescrizioni, o dalle (invece non tantissime) tenuità del fatto e messa alla prova. Inoltre c’è differenza tra la mole di procedimenti in cui la Procura esercita (per lo più a citazione diretta) l’azione penale per reati di competenza in Tribunale del giudice monocratico, e la più ristretta quota di dibattimenti (dove il tasso di assoluzione è più basso) per i reati ben più gravi giudicati dal Tribunale in composizione collegiale (tre giudici): nel 2019 le sentenze monocratiche in ordinario sono state 271 mila, 90 mila in riti alternativi, 27 mila le sentenze collegiali. Riflessione - Pur con tutti questi distinguo, i numeri trovati consentono una riflessione attendibile almeno appunto sui processi monocratici, che ad esempio annoverano furti, ricettazioni, lesioni personali (salvo le gravissime), spaccio di droga (salvo le forme aggravate e il narcotraffico), frodi informatiche, truffe sulle erogazioni pubbliche, traffico illecito di rifiuti, auto-riciclaggio. Qui, su cento volte nelle quali la Procura ritenga di non archiviare ma di mandare a processo qualcuno, l’assoluzione è subito l’esito già nel 35% dei casi nel distretto di Roma (con punte in tribunale del 47% a Civitavecchia o Viterbo); 40% nel distretto di Palermo; 40% in tribunale a Firenze; quasi 40% nel distretto di Milano (27% in tribunale a Milano come a Lodi e Busto Arsizio, 35% a Monza, ma con picchi del 50% in tribunale a Como e del 72% a Varese); 34% nel distretto di Reggio Calabria; 30% nel tribunale di Torino; pure 30% nel distretto di Bologna (con punta del 40% a Reggio Emilia); 41% nel distretto di Bari (con tribunali al 38,5% a Bari o al 46% a Trani). Nuovi occhiali - Assoluzioni in questa quantità, subito al primo colpo, sembrano andare ben oltre il fisiologico esito della prova di resistenza di una ipotesi d’accusa, e fanno temere che molte persone affrontino i danni collaterali (personali, lavorativi e anche economici per il costo della difesa) per la sola pendenza di procedimenti forse non tutti così granitici già in partenza. Prezioso sarebbe disporre di “occhiali” statistici più raffinati (nell’estate 2020 i dirigenti ministeriali hanno assicurato che “la soluzione di questo problema è uno degli obiettivi ipotizzabili nell’arco di un anno”), ad esempio per distinguere i vari tipi di assoluzione (piena o per prova insufficiente, perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, ecc.): in modo da comprendere se un così elevato tasso di cedimento dell’accusa dipenda dal ricorrente meteorite di un fatto nuovo sempre e solo nel dibattimento, o se sia l’onda lunga e deleteria di un’idea sbrigativamente efficientista e rozzamente “aziendalista”, che magari spinge i pm a un produttivismo seriale e scadente ma funzionale a vantare poi doti manageriali al momento delle progressioni in carriera, misurate solo sulla quantità prima dai Consigli giudiziari locali e poi dal Csm. Possibili cause - Se si parla con i giudici, la loro impressione è che le imputazioni spesso siano firmate dal pm ma in realtà redatte dal suo staff, peraltro in fascicoli non di rado istruiti poco (tipico il caso delle bancarotte con solo la relazione del curatore e l’identificazione errata di amministratori di fatto). Per i pm, invece, sarebbero i giudici a utilizzare poco i poteri istruttori integrativi; peserebbe il cambio in corsa di interpretazioni giuridiche sull’utilizzabilità delle prove; e non marginale sarebbe il fatto che nelle udienze monocratiche quasi sempre a sostenere l’accusa siano magistrati onorari (i vpo-viceprocuratori onorari). Costoro, a loro volta, rigettano l’accusa di essere meno “pm” in udienza dei pm titolari, che peraltro da anni gli hanno subappaltato l’intero ruolo monocratico, al punto da faticare a mandare avanti la quotidianità nei periodi in cui i vpo scioperano per chiedere di non essere più trattati dallo Stato come “precari” pagati a cottimo, senza pensione e malattia. E a sentire gli avvocati sarebbe l’ipertrofia dell’esercizio dell’azione penale a intasare i tribunali. Effetti e alibi - Su tutto aleggia il circolo vizioso tra arretrato, lunghezza dei processi e loro esito: nel senso che più esiste un arretrato che schiaccia taluni tribunali, più tardi (a distanza di mesi e in qualche caso anche di anni) vengono fissati i processi a citazione diretta chiesti dai pm, più sbiadiscono i ricordi dei testi a distanza di così tanto tempo, e più è facile che così si sgretolino elementi anche solidi all’inizio... Somigliano però ad alibi autoconsolatori le minimizzatrici litanìe intonate in magistratura appena si sfiora il tema: in questi dati sulle assoluzioni non sono infatti contate le prescrizioni, e neanche le sentenze “promiscue” (che assolvono una persona su alcune imputazioni ma la condannano su altre). E anzi, se davvero i procuratori della Repubblica sono statisticamente “ciechi” sull’esito in primo grado dei processi che promuovono, viene da chiedersi come facciano allora a rispettare la circolare Csm sulle Procure che a loro impone, nella redazione del progetto organizzativo dell’ufficio, di tenere conto degli “esiti dei diversi tipi di giudizio”. Appunto quelli che, al riparo delle statistiche solo quantitative, un po’ tutti sembrano contenti di non (poter) conoscere. La riforma che non serve a migliorare la giustizia di Carlo Nordio Il Messaggero, 29 gennaio 2021 “Nessuna riforma può esser efficace senza l’immissione di risorse umane e strumentali adeguate, senza mettere benzina nella macchina della giustizia”. Con queste parole, apparentemente convincenti, il Ministro Bonafede ha licenziato la sua “relazione sullo stato della giustizia” prima che la crisi in atto licenzi lui. Il documento, depurato con vereconda parsimonia, di ogni riferimento politico, è un evanescente surrogato del programma originale, sul quale il Parlamento si sarebbe dovuto pronunciare ieri, e che avrebbe consacrato, visti i numeri, la fine del governo Conte. Il risultato è un caotico sincretismo di aspirazioni enfatiche che per di più, e questa è la parte che ci interessa, inverte i termini della questione. Perché è vero che le risorse destinate alla giustizia sono insufficienti, ma è ancor più vero che la loro destinazione, senza le adeguate riforme normative, assomiglierebbe al nutrimento forzoso di un organismo malato, il quale distrugge il cibo che non riesce ad assimilare. E il nostro sistema giudiziario è minato da un morbo che lo corrode dal di dentro, e che dev’essere estirpato prima di pensare al recupero dell’organismo. Questo morbo è la complessità e l’inadeguatezza di entrambi i codici che disciplinano il processo, quello civile quanto quello penale. I sintomi più allarmanti sono, come ormai è stucchevole ripetere, i tempi biblici della loro durata. Partiamo dalla giustizia civile. La sua lentezza impatta sui costi delle imprese, sull’allocazione e sul costo del credito, e più in generale sulla certezza dei rapporti contrattuali. Il danno approssimativo è pari al due per cento del Pil, perché nessun investitore accetta il rischio che l’adempimento di un’obbligazione, la risoluzione di un rapporto di lavoro, o comunque una qualsiasi controversia su interessi economici si trascini per anni con esiti incerti. Ma perché le nostre cause durano il doppio, e talvolta il triplo rispetto alla media europea? Non tanto, e non solo, perché le risorse sono insufficienti, quanto e soprattutto perché le procedure sono ingarbugliate e farraginose, come la gran parte delle nostre leggi. Che fare allora? Dopo averle tentate tutte, con risultati deludenti, proviamo a copiare. Il sistema tedesco, ad esempio, è molto razionale ed efficace. Prendiamolo in blocco, e senza vergognarsi: anche loro hanno copiato dal nostro diritto romano. E ora quella penale. Non ripeteremo qui le consuete litanie sulla politicizzazione della magistratura, l’abuso della custodia cautelare e delle intercettazioni, l’invadenza delle procure, il protagonismo di alcune toghe, la violazione del segreto istruttorio ecc. ecc. Tutte cose che vulnerano la credibilità della nostra civiltà giuridica, o di quel che ne rimane, ma che esulano dai nostri propositi. Parliamo invece della sua inefficienza. Essa dipende da una contraddizione insanabile tra il codice attuale e la Costituzione. Il codice Vassalli è nato con un impianto anglosassone, (non per nulla si parlò di processo alla Perry Mason) di impronta garantista e liberale. Al contrario, i nostri padri costituenti, nel lontano ‘48, avevano davanti il codice Rocco e, paradossalmente, vi adattarono la Costituzione, inserendovi le caratteristiche tipiche del processo inquisitorio: obbligatorietà dell’azione penale, unità delle carriere, impugnazione delle sentenze assolutorie ecc. Tutte cose che fanno rabbrividire un giudice inglese o americano. E poiché nella gerarchia delle fonti la Costituzione, benché più vecchia, prevale sul codice più recente, quest’ultimo, modellato come s’è detto su principi affatto diversi, si è rivelato con essa incompatibile, e oggi è un pasticcio di cui nessuno capisce più nulla. Anche il profano può rendersene conto spulciandone gli articoli dove modifiche, soppressioni e integrazioni sono più numerose del testo originale. Ecco perché questa sgangherata 500, con il motore truccato di una Ferrari, non può funzionare per quanta benzina ci si metta, come suggerisce Bonafede. Bisogna cambiare veicolo. E se si vuole una Ferrari vera, costosa ma veloce come il sistema anglosassone, bisogna modificare la Costituzione. E le risorse? Certo che sono necessarie: non perché siano in sé scarse - anche se purtroppo lo sono - ma perché sono insufficienti rispetto ai fini ambiziosi che questa politica si propone: punire tutto inventandosi una marea di reati, e mantenendo l’obbligatorietà dell’azione penale. Concludo. Il fallimento della nostra giustizia non è certo colpa di Bonafede. Esso risiede nel dilettantismo indifferente e opaco con il quale la politica ne ha da tempo trascurato le esigenze. E tuttavia è quasi una Nemesi che il governo Conte sia caduto proprio per evitare un dibattito parlamentare sulla prescrizione, che ne costituisce la macchia più indelebile. Ferri (Iv): “Per la Giustizia nessun nome. Ma si riparta dalla riforma Orlando” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 29 gennaio 2021 “Servono sia la riforma dell’ordinamento penitenziario che quella del processo civile e penale, garantendo tempi certi. Poi occorre tornare alla riforma Orlando sulla prescrizione, coinvolgendo avvocatura e magistratura nel monitoraggio pregnante del suo funzionamento da un posto all’altro”. Cosimo Ferri, deputato di Italia Viva ed ex magistrato, auspica che la strategia sulla giustizia di un eventuale nuovo governo “riparta dalla riforma Orlando” e non si tira indietro quando viene ipotizzata la presenza proprio dell’esponente dem a via Arenula al posto di Alfonso Bonafede. Onorevole Ferri, cosa chiederete in tema di giustizia a chi arriverà a palazzo Chigi affinché abbia il vostro sostegno? Non sta a me fare richieste né al Presidente della Repubblica né al presidente del Consiglio, ma certamente il governo che verrà dovrà dare un segnale di discontinuità rispetto agli ultimi due esecutivi. Il segnale che chiedete coincide con la rimozione di Bonafede da ministro della Giustizia? Bonafede ha fatto il ministro sia nel Conte uno che nel Conte bis, che come è facile immaginare anche per chi non si occupa di giustizia avevano visioni diverse su questo tema. Ma la debolezza dell’operato del Conte bis sulla giustizia è nei fatti, perché pur essendosi salvato su diversi passaggi critici come la Tav, poi sulla giustizia ha fatto un passo indietro dimostrando di non essere sicuro. Aver aperto la crisi dopo il voto di fiducia ma prima della relazione sulla giustizia è il riconoscimento che questa politica non ha avuto consensi in Parlamento. Dice che non è questione di nomi, eppure la distanza tra le vostre proposte e quelle pentastellate è abissale. Il problema è Bonafede? Il problema non è Bonafede ma quello che ha portato avanti, dall’ordinamento penitenziario alla magistratura onoraria. Veti sui nomi abbiamo sempre detto che non si faranno, perché non sono corretti. Ma sui temi sì e lui non ha affrontato nessuna di queste questioni. Un settore molto tecnico come la giustizia, nel quale occorre confrontarsi ad esempio con la magistratura e l’avvocatura, chiede risposte adeguate che non sono state date. La discontinuità più forte che chiedete è quella sulla prescrizione? La riforma della prescrizione è certamente uno dei punti fondamentali. Io ci ho lavorato con il ministro Orlando e avevamo trovato punto di equilibrio allungando i tempi della prescrizione tenendo conto delle garanzie dell’imputato e della persona offesa attraverso la giusta durata del processo. Tutti hanno interesse a un processo veloce, anche gli stessi testimoni. Ne va della ricerca della verità. I “non ricordo” dei testimoni a otto anni dal fatto perdono di quella genuinità tipica anche della prova. Crede sia opportuno che il nuovo governo riparta da quella riforma? Sì, perché non sappiamo ancora se funzioni o no. Avevamo chiesto a Bonafede di monitorarla e modificarla in caso non avesse funzionato. Lui si era preso l’impegno di istituire una commissione e aveva assicurato di pensare a una riforma che garantisse i temi celeri del processo penale. Se rendiamo veloci i processi, il dibattito sulla prescrizione diventa un tema superato. Ma anche qui tanti annunci e pochi fatti. Magari la persona giusta per ripartire dalla riforma Orlando è lo stesso Orlando. Farete il suo nome come futuro ministro della Giustizia? Le decisioni sui ministri non spettano a me ma al futuro presidente del Consiglio incaricato, che li propone, e al Presidente della Repubblica, che li nomina. Posso però dire di aver lavorato molto bene con Orlando e di essere stato impressionato dalla sua capacità di ascolto, dimostrata ad esempio in occasione degli stati generali sulle carceri che facemmo alla presenza di Napolitano prima e di Mattarella poi e aprendo il dialogo alla società civile. Un ministro della giustizia deve saper ascoltare e poi decidere. E lui lo sa fare. Da quali punti programmatici chiedete di ripartire? Sarò schematico. Servono sia la riforma dell’ordinamento penitenziario che quel del processo civile e penale, garantendo tempi certi. Poi occorre tornare alla riforma Orlando sulla prescrizione, coinvolgendo avvocatura e magistratura nel monitoraggio pregnante del suo funzionamento. Infine, bisogna investire sulle garanzie del processo penale e civile telematico, puntando sulle notifiche, migliorare quello che si è già fatto sulla depenalizzazione e rafforzare ulteriormente i riti alternativi. Un programma vasto e impegnativo. Servirà un governo stabile e duraturo per portarlo a termine, non crede? Come quando si parla di Recovery plan, anche in tema di giustizia occorre ragionare come Paese e non come interesse di partito. Ci vogliono maggioranze allargate perché chi verrà dopo deve condividere un certo programma, dal momento che su alcune questioni non si può tornare indietro. Lo stesso Bonafede a volte ha portato avanti le nostre politiche, il problema è che non ha saputo implementarle. Sulla politica delle assunzioni del personale ad esempio c’è stata collaborazione. A una mia interrogazione di qualche giorno fa ha risposto parlando del nostro concorso come di un “passaggio epocale”. Lei ha parlato di Recovery Plan. Come devono essere investiti per la giustizia i denari messi a disposizione dall’Unione europea? Il Recovery plan serve per fare investimenti strutturali che diano discontinuità e lascino un segno. Le urgenze sono la digitalizzazione (che non deve diminuire le garanzie) e l’edilizia giudiziaria, con il recupero di posti nelle carceri e interventi strutturali (non credo molto nella creazione di nuove carceri, la pena deve essere certa ma umana e dignitosa) e degli uffici giudiziari. Poi occorre investire nella formazione del personale amministrativo e nell’organizzazione: non si possono aspettare mesi per spostare i fascicoli da un posto all’altro. Lanzi: “Dal Csm no alla cacciata di Maresca: la Costituzione tutela pure i magistrati” di Errico Novi Il Dubbio, 29 gennaio 2021 “A volte non servono sforzi interpretativi: la legge è chiara. Anzi, è chiaro il diritto. Che è definito dalla legge e prima di tutto dalla Costituzione”. Alessio Lanzi, consigliere laico del Csm, fino al giorno prima di essere eletto (su indicazione di Forza Italia) a Palazzo dei Marescialli ha svolto attività da avvocato penalista, oltre a tenere una cattedra alla Bicocca. Ieri ha difeso un magistrato: Catello Maresca. Lo ha fatto come relatore della pratica relativa all’ipotesi di “incompatibilità ambientale” per il pm napoletano. Maresca, in servizio presso la Procura generale, da mesi è indicato sui giornali come possibile candidato sindaco del centrodestra nel capoluogo campano. “Ma lui non ha formalizzato alcuna candidatura, e sarebbe stato impossibile visto che neppure c’è la data del voto, né l’ha mai annunciata”, ricorda Lanzi. “Ritenerlo incompatibile con l’esercizio delle funzioni a Napoli avrebbe semplicemente privato il dottor Maresca del diritto a partecipare a elezioni riconosciuto a tutti i cittadini dall’articolo 51 della Costituzione. Ecco perché ho votato per l’archiviazione della pratica, approvata dal plenum”. Tanto per fare ordine: se non ha formalizzato alcunché, su quale base poteva essere trasferito? Non c’era alcuna base giuridica, infatti. La pratica è stata aperta dopo la segnalazione trasmessa al Csm dal capo dell’ufficio presso cui Maresca è in servizio, il pg di Napoli Luigi Riello. Abbiamo esaminato il caso in prima commissione, e abbiamo approvato una delibera con proposta al plenum di archiviazione, appunto. Eppure in plenum è finita 12 a 9, con un astenuto. C’è mancato poco che su Maresca si aprisse una procedura di trasferimento... Le ragioni di un trasferimento non esistono. È stata compiuta l’unica scelta compatibile col diritto vigente. Da una parte l’articolo 51 riconosce a tutti, magistrati inclusi, la possibilità di partecipare a elezioni politiche o amministrative. Dall’altra la legge preclude la candidatura nel luogo in cui il magistrato abbia esercitato le proprie funzioni fino a 6 mesi prima, ma solo per il Parlamento. Nelle istituzioni locali è prevista semplicemente l’aspettativa dopo aver formalizzato la candidatura. In plenum i consiglieri Cascini e Marra hanno detto: ormai Maresca è un candidato di fatto... Primo: lui non ha mai confermato di volersi candidare. Lo dicono altri, e in ogni caso non si può rispondere per altri. I giornali hanno scritto che lo avrebbe contattato Silvio Berlusconi, alcuni articoli hanno dato rilievo alle parole del parroco che ne conoscerebbe gli intenti profondi... Una cosa è certa: non si può limitare un diritto costituzionale sulla base di una legge che non esiste. Sarebbe pericoloso tentare di forzare il quadro normativo, per almeno due motivi. Quali? Prima di tutto, se bastano voci sulla possibile candidatura di un magistrato perché il Csm lo trasferisca, chiunque può decidere di colpire un pm o un giudice sgradito con illazioni simili: lo fa mandar via dall’ufficio in cui lavora. Con buona pace dell’autonomia e indipendenza. Secondo: se la legge non preclude quanto l’articolo 51 della Carta in linea generale consente, allora al magistrato interessato a candidarsi al Comune o alla Regione devono essere consentite anche le attività prodromiche: cioè le interviste, le dichiarazioni, o anche semplicemente le interlocuzioni di cui poi magari la stampa dà conto. Il consigliere Nino Di Matteo ha definito preziosi i candidati che provengono dalla magistratura ma anche dall’avvocatura. Allora non è vero che l’area più intransigente del mondo giudiziario considera gli avvocati inaffidabili... Il consigliere Di Matteo non potrebbe mai condividere le illazioni rivolte agli avvocati da qualche esponente politico inavveduto. Da quanto ho potuto osservare in prima commissione, dove siamo entrambi, non la pensa affatto in quel modo. La sua esperienza di magistrato gli ha consentito di comprendere quanto sia essenziale la funzione del difensore. Maresca che candidato sindaco sarebbe? L’ho visto solo in foto. Mi sono impegnato nella discussione sul caso in difesa di un principio. Non ne ho idea, francamente. Chiamato in audizione dai 5 stelle in commissione Giustizia, spiazzò tutti: fu assai critico sulla riforma della prescrizione... Allora sono ancor più contento di aver affermato il principio, perché evidentemente mi sono impegnato per una persona davvero dotata di indipendenza. A proposito: sulla prescrizione c’ è appena caduto un governo... Sono compiaciuto delle critiche rivolte dal dottor Maresca a quella norma proprio perché io stesso ho scritto in questi anni numerosi contributi per sostenere che la modifica sulla prescrizione è di stampo sostanzialmente medievale. Non è il giusto processo: è la santa inquisizione. A proposito di principi costituzionali da rispettare: l’articolo 111 non solo stabilisce che il processo deve avere durata ragionevole, ma anche che la legge deve concorrere a tale esito. E invece la nuova prescrizione fa in modo che avvenga esattamente l’opposto, e cioè che il processo abbia una durata non ragionevole. Il Medioevo, appunto. Toghe sempre promosse. Falcone criticò, l’Anm lo bastonò di Giuseppe Di Federico Il Riformista, 29 gennaio 2021 Accolgo volentieri l’invito del Riformista a partecipare al dibattito sulle valutazioni di professionalità dei magistrati avvenuto su questo giornale nei giorni scorsi. Dibattito cui hanno contribuito avvocati delle Camere penali ed un magistrato di grande esperienza ed ex componente del Csm, Nello Rossi. Da entrambe le parti si segnala l’inattendibilità di quelle valutazioni e l’esigenza di riformarle al fine di meglio garantire la qualità della giustizia ai cittadini e l’efficienza della giustizia. Difficile non essere d’accordo con loro. I dati delle ricerche da me condotte analizzando i verbali del Csm a partire dagli anni 1960, dati periodicamente da me pubblicati, mostrano che la percentuale dei magistrati valutati positivamente ha variato tra il 99,1% ed il 99,5%. Di regola, cioè, negli ultimi 50 anni il Csm ha deciso di sua iniziativa (non lo prevede nessuna legge) di promuovere tutti i magistrati fino al vertice della carriera in base all’anzianità salvo i casi di grave e documentato demerito (come le più elevate sanzioni disciplinari o condanne penali). Anche i pochissimi magistrati che vengono “bocciati” di regola vengono poi promossi con due o tre anni di ritardo. Non avviene in nessun altro paese europeo con magistrature reclutate burocraticamente (non in Francia, non in Germania, non in Olanda, non in Spagna, ecc.) che sono tutte più efficienti della nostra. Solo una coincidenza? Molte sarebbero le cose da aggiungere sulle modalità con cui il Csm (non) effettua le valutazioni di professionalità. Ne segnalo solo due. Una riguarda la modalità con cui il Csm valuta e promuove i magistrati fuor ruolo e l’altra il contenuto delle valutazioni positive. Quanto al primo aspetto occorre ricordare che sono stati sistematicamente valutati positivamente e promossi numerosi magistrati che non avevano esercitato funzioni giudiziarie per molti anni, a volte decenni (parlamentari, titolari di incarichi amministrativi, e altro). Ciò facendo il Csm, nella frenesia di promuovere tutti, ha implicitamente, ma chiaramente, affermato, che nel nostro Paese neppure l’esperienza giudiziaria è più necessaria per ottenere valutazioni positive e fare carriera in magistratura. Quanto al secondo aspetto: avendo personalmente letto molte centinaia di valutazioni di professionalità dei magistrati nel corso delle mie ricerche e della mia esperienza di consigliere del Csm, non posso non essere d’accordo con quanto scritto nel suo articolo dal magistrato Nello Rossi quando dice: “Dalle valutazioni di professionalità i magistrati emergono quasi sempre come puntuali, laboriosi, competenti, addirittura geniali. È perciò legittimo chiedersi perché nelle valutazioni di professionalità non affiorano quei profili critici del modus operandi di alcuni giudici e pubblici ministeri che in molti conoscono e di cui molto si parla negli uffici giudiziari...”. Nei loro articoli né il presidente della Camere Penali, Gian Domenico Caiazza né il magistrato Nello Rossi offrono credibili proposte di riforma. In particolare, nessuno dei due ci dice come superare il principale ostacolo alla riforma da loro auspicata che deriva dallo stretto collegamento che esiste tra valutazione della professionalità e trattamento economico dei magistrati. Per spiegare di cosa si tratta dobbiamo ricordare che fino agli anni 1960 l’assetto della carriera dei nostri magistrati era simile a quello degli altri paesi dell’Europa continentale riguardo alle valutazioni di professionalità ed allo svolgimento della carriera: non potevano essere promossi ai livelli superiori della carriera un numero di magistrati superiore al numero limitato dei posti che si rendevano vacanti ai livelli superiori della giurisdizione. Di conseguenza le valutazioni dovevano essere di necessità reali e selettive. Solo un numero molto limitato di magistrati poteva raggiungere i livelli più elevati della carriera e del trattamento economico: i dati da noi raccolti per il decennio 1952-62 mostrano infatti che più della metà dei magistrati (il 52,2%) andava in pensione senza aver superato il livello intermedio della carriera (quello di magistrato d’appello) e del relativo trattamento economico. Negli altri paesi europei con reclutamento burocratico simile al nostro l’assetto delle valutazioni e della carriera è ancora quello. Da noi invece, a partire dagli anni 1960, il Csm ha deciso di sua sponte (non lo prevede nessuna legge) di promuovere ai vari livelli della carriera tutti i magistrati in base all’anzianità e, al contempo, di attribuire loro un trattamento economico che di regola consente a tutti di raggiungere, nel corso degli anni, anche il livello più elevato del trattamento economico. In altre parole il Csm assicura a tutti i magistrati di raggiungere, nella parte finale della loro carriera, uno stipendio mensile netto di oltre 8000 euro per 13 mensilità, con i conseguenti vantaggi che questo comporta per i livelli delle liquidazioni e delle pensioni. Proporre di rendere più rigorose le valutazioni di professionalità vuol quindi anche dire che una parte dei magistrati non potrebbero più raggiungere i livelli più elevati della carriera e della retribuzione. Chi propone riforme di questo genere dovrebbe anche indicare come si potrebbe convincere la magistratura a rinunziare ai vantaggi dell’attuale sistema e convincere il Csm ad essere più rigoroso nelle sue valutazioni a dispetto della suo attuale assetto, un assetto in cui la maggioranza dei componenti magistrati sono eletti con l’appoggio delle varie correnti del sindacato della magistratura e quindi comprensibilmente contrari a contrastare le consolidate aspettative dei propri associati (ed anche le proprie). A riguardo di queste difficoltà è forse significativo ricordare che di regola i soli magistrati che criticano il sistema di valutazione della professionalità e le disfunzioni che ne derivano sono magistrati già andati in pensione o già al vertice della carriera. I magistrati che hanno osato farlo anzitempo sono stati poi osteggiati dall’Anm e penalizzati dal Csm. Solo due esempi. Quelli di Giovanni Falcone e di Corrado Carnevale. Corrado Carnevale venne denunziato per vilipendio della magistratura dalla procura di Agrigento e certamente fu poi in vario modo osteggiato nella sua carriera dal Csm. Giovanni Falcone subì una dura reprimenda da parte del Direttivo centrale dell’Anm (Bollettino della Magistratura, ottobre 1988) per aver ricordato, in un suo scritto, che gli automatismi di carriera “sono causa non secondaria della grave situazione in cui versa attualmente la magistratura. La inefficienza dei controlli sulla professionalità cui dovrebbero provvedere il Csm ed i consigli giudiziari, ha prodotto un livellamento della magistratura verso il basso”. Come si sa anche la carriera di Falcone fu gravemente penalizzata dal Csm in varie occasioni nonostante l’elevata professionalità che gli veniva riconosciuta anche a livello internazionale. Una postilla. Tutti coloro che sono stati componenti del Csm, tranne me, hanno contribuito col loro voto ad effettuare valutazioni positive della professionalità generalizzate (circa 4000 per ogni consiliatura). In rare occasioni alcuni componenti si sono opposti. Ne voglio ricordare una avvenuta nel corso di una delle centinaia di sedute del Csm cui ho assistito prima di divenire Consigliere e che riguarda proprio il dott. Rossi. Nella seduta del 7 aprile 2000 egli si oppose ad una promozione esibendo una sentenza del candidato che era scritta con calligrafia quasi illeggibile, con numerose cancellature e scarsamente e motivata. Venne accusato da altri consiglieri togati di avere indebitamente criticato il contenuto di una sentenza e rimase in assoluta minoranza. Il Dott. Rossi meglio di altri dovrebbe quindi conoscere le difficoltà di modificare il sistema delle valutazioni ed anche la limitatissima efficacia che potrebbero avere le proposte di riforma che egli fa nel suo articolo. Palamara: “La Procura di Roma si oppose alla nomina di Gratteri a ministro della Giustizia” di Errico Novi Il Dubbio, 29 gennaio 2021 L’ex presidente dell’Anm ripercorre le fasi della mancata nomina di Nicola Gratteri a ministro della Giustizia con l’allora governo Renzi: “La magistratura è più potente della politica e può condizionare la riforma della politica”. “La magistratura è più potente della politica e può condizionare la riforma della politica”. Lo ha detto l’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara, intervenendo alla trasmissione Buongiorno Regione della TgR Calabria. L’ex magistrato, che ha origini calabresi, ha sottolineato che in Calabria “ci sono degli importanti investigatori e importanti magistrati che si battono per la legalità”, quindi ha ripercorso le fasi della mancata nomina di Nicola Gratteri a ministro della Giustizia con il Governo Renzi. “Nicola Gratteri - ha detto - è una persona troppo indipendente. Con lui ho condiviso l’inizio della mia carriera. Basta prendere l’ultimo documento di pochi giorni fa di Magistratura Democratica per capire che Gratteri all’interno della magistratura, quanto meno, non è benvoluto dalla parte che conta della magistratura. Ho sempre apprezzato, al di là del merito delle inchieste, comunque il suo coraggio”. L’ex presidente dell’Anm ha aggiunto: “Nella vicenda della mancata nomina a ministro della Giustizia, sicuramente all’interno della magistratura e nell’allora mio ufficio, la Procura di Roma, c’era timore che potesse diventare Ministro. Per la mia esperienza, quando si mettono in moto questi meccanismi, difficilmente la politica può accettare una cosa del genere. Successivamente - ha concluso Luca Palamara - ho avuto modo di sapere in alcuni incontri politici che non era voluta da alcuni magistrati della Procura di Roma”. I fatti risalgono al 2014. L’anno in cui Matteo Renzi era presidente del Consiglio: appena incaricato dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il leader di Italia viva voleva a tutti i costi Gratteri alla guida del ministero della Giustizia. Gratteri al tempo era procuratore aggiunto a Reggio Calabria ma si era già fatto notare per la sua lotta alla criminalità organizzata e una popolarità sempre crescente anche al di fuori della magistratura Per questo Renzi voleva affidargli la guida di via Arenula, ergendolo a “segnale più importante della discontinuità che intendo dare al mio esecutivo”. Gratteri era pronto ad accettare ma, disse, “soltanto se avessi la libertà di realizzare le cose che ho in testa”. Voleva carta bianca, insomma, e l’allora neo inquilino di palazzo Chigi era disposto a dargliela. Ma non finì bene, perché a mettersi di traverso fu proprio Napolitano, che storse la bocca quando Renzi presentò la lista dei ministri. Si parlò di una regola non scritta, ma praticamente sempre rispettata, per cui un magistrato ancora in servizio non potesse ricoprire il ruolo di ministro della Giustizia. Non tutte le ricostruzioni di quei momenti convergono, fatto sta che dopo tre ore di colloquio la lista dei ministri cambiò e quella casella venne occupata da Andrea Orlando, democratico garantista, pro abolizione dell’ergastolo e contrario all’obbligatorietà dell’azione penale. Lombardia. Carceri: il sistema regge all’emergenza Covid, in attesa del vaccino dire.it, 29 gennaio 2021 Continua l’emergenza Covid nelle carceri lombarde, in attesa della definizione del piano vaccinale. Nella seconda ondata, la popolazione carceraria contava 7.600 persone (a fronte di una capienza regolamentare di 6.143), di cui 1.220 sono stati i detenuti affetti da Covid 19 dal 1° ottobre ad oggi, con un picco di contagiati (442) registrato l’11 dicembre, mentre il totale dei casi da inizio pandemia ammonta a 1.329 pazienti positivi, 45 sono stati i ricoveri e 3 i detenuti morti a causa del virus, con oltre 32mila tamponi. Attualmente ci sono ancora 139 detenuti positivi, ricoverati nei due hub Covid di San Vittore (55 persone) e Bollate (42), mentre gli altri casi derivano dal focolaio del carcere di Bergamo. Questa la fotografia dell’evoluzione della pandemia nelle carceri lombarde, illustrata nell’ultima seduta della Commissione speciale Carceri, presieduta da Antonella Forattini (PD). A raccontare l’emergenza sanitaria vissuta dietro le sbarre, il dottor Roberto Ranieri, responsabile Sanità Penitenziaria di Regione Lombardia e il dottor Pietro Buffa, provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria lombarda, che hanno illustrato le principali problematiche: la convivenza tra detenuti, personale sanitario, personale di polizia penitenziaria; la situazione di sovraffollamento con difficoltà di applicazione di misure di distanziamento sociale; il rischio di diffusione rapida della catena di contagio con coinvolgimento di pazienti fragili (anziani, immunodepressi) e le conseguenze sul sistema sanitario esterno; l’impatto negativo su misure rieducativo-trattamentali, particolarmente in pazienti tossicodipendenti e portatori di patologie psichiatriche. “La situazione carceraria durante l’epidemia è stata senz’altro un’emergenza nell’emergenza - ha dichiarato la presidente Forattini. Auspichiamo che l’esperienza maturata e le buone pratiche adottate in Lombardia, grazie allo sforzo, all’impegno e alla creatività dei dirigenti penitenziari e dei responsabili della sanità, venga messa a sistema e possa fornire indicazioni per l’organizzazione dei vaccini, somministrazione che speriamo possa avvenire quanto prima”. Tra le soluzioni adottate, e che secondo il dottor Ranieri rappresentano un modello di sanità territoriale, la creazione di una task force multidisciplinare, che ha consentito la diagnosi precoce dei casi asintomatici contribuendo alla circoscrizione dei focolai epidemici, il contact tracing. “Tutte misure e trattamenti clinici - ha sottolineato il provveditore Buffa - che sono stati congrui e omogenei rispetto a quelli del cittadino comune, e non ulteriormente restrittive della libertà individuale, come richiesto dalle normative”. Il provveditore ha, inoltre, sottolineato anche il grande contributo avuto dai servizi di telemedicina, elemento che rimarrà anche dopo la fine della pandemia. Durante la seduta si è anche parlato della non facile organizzazione del piano vaccinale che per gli agenti di Polizia penitenziaria dovrebbe avvenire, secondo le ultime notizie, nella fase 1 bis, mentre per i detenuti è prevista la somministrazione alla fine della fase 2, che invece dovrebbe essere anticipata. Roma. Focolaio Covid nel carcere di Rebibbia: 110 detenuti positivi Il Messaggero, 29 gennaio 2021 Il Garante: “Situazione grave”. Covid e carcere, numeri che spaventano. “Sono 110 i detenuti positivi questa mattina nella Casa circondariale di Rebibbia Nuovo complesso. Il fatto che la grande parte di essi siano asintomatici e non abbiano bisogno di assistenza sanitaria, se non del monitoraggio costante delle loro condizioni di salute, non toglie nulla alla gravità della situazione”. Lo comunica il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. Una nota divulgata dalla Pisana sottolinea che, secondo l’assessorato regionale alla Sanità, lunedì scorso erano 51 i detenuti positivi al Covid-19 nei 14 istituti di pena del Lazio. Sulla vicenda interviene Monica Cirinnà, responsabile Diritti del Pd: “Si sta realizzando quello che si sarebbe dovuto prevedere: non può essere l’isolamento fisico dei detenuti a contenere il rischio di contagi: non solo perché in carcere non può essere garantito il distanziamento, a causa del sovraffollamento, ma anche perché un rafforzamento delle condizioni di isolamento ha effetti collaterali pesanti sulla concreta condizione di vita e sulla tenuta psicologica dei detenuti. E anche perché gli enormi problemi in materia di tutela della salute in carcere rendono davvero drammatica la prospettiva di focolai nella popolazione carceraria”. “Per questo - conclude Cirinnà - auspico che in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, che avverrà il prossimo 29 gennaio, venga posta grande attenzione sul dare indicazioni precise e linee di intervento per disinnescare la bomba ad orologeria che sono le carceri, ad iniziare dalla gestione dei detenuti in attesa di giudizio”. “Lo ripetiamo quotidianamente - prosegue Anastasìa nel comunicato: le carceri sono luoghi a rischio per la diffusione della pandemia. Questa situazione non può proseguire ancora per mesi, in attesa che arrivi il vaccino o che si prendano il Covid tutti i detenuti. Servono iniziative e disposizioni immediate, a partire dalla scarcerazione di tutti coloro che possano beneficiare di alternative al carcere e dei detenuti in attesa di giudizio per reati non violenti, in modo che si possa gestire nel migliore dei modi l’isolamento, il monitoraggio e l’assistenza di chi contrae il virus in carcere. Serve il vaccino subito, come è stato fatto nelle cinque Residenze per le misure di sicurezza (Rems) del Lazio”. Bologna. La direttrice della Dozza: “prorogare misure emergenziali, scadono il 31 gennaio” di Ambra Notari Redattore Sociale, 29 gennaio 2021 Clementi: “Non abbassare la guardia: la proroga delle misure alternative “straordinarie” scade il 31 gennaio, il governo intervenga subito”. Garante: “Priorità vaccinare tutta la popolazione carceraria”. Il boom di contagi registrato tra la seconda metà di novembre e fine dicembre sembra essere definitivamente alle spalle, ma anche se “al momento non registriamo particolari criticità, non possiamo abbassare la guardia, perché con la ripresa di alcune attività ovviamente i rischi aumentano”. Questo il quadro della situazione relativa al Covid-19 tracciato, ieri nel corso di una seduta di commissione in Comune a Bologna, dalla direttrice del carcere della Dozza, Claudia Clementi. Nel suo intervento, Clementi spiega che al momento “abbiamo un solo detenuto positivo, e si tratta oltretutto di una persona giunta di recente”, aggiungendo che anche i contagi tra gli operatori “si contano sulle dita di una mano, e sono comunque dovuti a contatti extra-lavorativi”. Sul fronte del personale, ricorda poi la direttrice, “a tutti viene fatto mensilmente il tampone molecolare a personale, e ora è in corso screening gennaio”, mentre per quanto riguarda i detenuti la situazione è più problematica. Infatti, anche se “ora raramente superiamo le 700 presenze”, i dati di fine dicembre, precisa poi l’avvocato Elia De Caro di Antigone, parlano di 671 detenuti, cifra comunque ben superiore alla capienza della Dozza, che non dovrebbe ospitare più di 500 persone. E anche se “applichiamo le norme sulla detenzione domiciliare speciale e sui permessi in deroga, siamo sempre sul filo del rasoio, perché queste misure scadono il 31 gennaio e ad oggi non sappiamo se saranno rinnovate”. Quanto poi ai rischi connessi alla ripresa di parte delle attività, Raffaella Campalastri, referente dell’Ausl per la sanità penitenziaria, cita come esempio il caso di un’insegnante che segue diverse classi di detenuti e che due giorni fa è risultata positiva. Questo, dettaglia, “ci ha imposto di isolare i detenuti in questione e i loro compagni di cella, e anche se il primo tampone è risultato negativo per tutti, dobbiamo comunque aspettare 10 giorni in attesa di fare il secondo tampone”. In ogni caso, assicura, “in generale la situazione relativa alla salute dei detenuti è molto buona”. Anche il Garante comunale dei detenuti, Antonio Ianniello, pone l’accento sulla necessità di non abbassare la guardia e auspica una proroga delle misure alternative alla detenzione, così come De Caro, che sottolinea “l’impossibilità di mantenere il distanziamento in strutture sovraffollate” e rileva “l’inefficacia dei provvedimenti del Governo nello sfollare le carceri”. Si spinge oltre, sul punto, Stefania Pettinacci dell’Osservatorio carcere della Camera penale bolognese, che spera addirittura in “amnistia e indulto, perché le attuali misure alternative sono inique, risibili e inefficaci, in quanto toccano una platea molto ristretta di detenuti e sono difficilmente applicabili a causa, ad esempio, della scarsità di braccialetti elettronici”. Sul fronte dei lavoratori, invece, i sindacati Sappe e Fp Cgil chiedono che venga rispettato scrupolosamente il calendario degli screening, e Salvatore Bianco della Fp Cgil auspica anche che “vengano adottate le mascherine Ffp2, più protettive, per tutte quelle attività in cui non è possibile mantenere il distanziamento”. Milano. Maisto: “La sofferenza in carcere sta aumentando” di Andrea De Lotto pressenza.com, 29 gennaio 2021 Intervista al garante dei detenuti Francesco Maisto. “Nella mia vita ho fatto giocare tanti bimbi, tanti. C’è un gioco di una facilità estrema e di un successo sicuro, credo peschi lontano tra i nostri gesti primordiali. Prendete una bella corda forte, mettetevi in mezzo, gridate ai bimbi che la prendano da una parte e dall’altra e in un attimo daranno anima e corpo, suderanno e si faranno male alle mani pur di tirare la fune dalla loro parte”. Francesco Maisto dà l’impressione di aver speso tanto tempo a tirare la corda. Una vita trascorsa come magistrato di sorveglianza, si occupa di carceri da sempre; ora è in pensione, ma è garante dei detenuti qui a Milano. Gli chiedo che cosa si stia facendo in questo periodo per mettere in sicurezza i detenuti e chi lavora nel carcere: “Pochissimo!” risponde. “La cosa da fare era soprattutto una: sfoltire, guadagnare spazio e distanza. Si è fatto troppo poco. Dal ministero una commissione pletorica. Non vi sono quasi più parlamentari che entrano nelle carceri, che si spendono per questa vicenda. Con il Covid il sovraffollamento delle nostre carceri è diventato ancora più evidente e drammatico. Credo che si dovrebbero alleggerire le carceri a livello nazionale di almeno 4/5mila unità. Deve anche aumentare il cablaggio, in modo da avere migliori connessioni per i colloqui o la scuola. La rete internet attualmente spesso non regge. Non è solo questione di soldi da investire; c’entrano anche i troppi intralci burocratici per la realizzazione immediata di alcuni cambiamenti urgenti”. Le rivolte sono state pagate a prezzo altissimo. Quali forme di pressione possono attuare i detenuti e i loro familiari? Le carceri italiane hanno visto moltissime forme di protesta civile, che devono poter continuare; sono uno sfogo utile e necessario. È stata bloccata per esempio la richiesta di un detenuto di iscriversi all’associazione “Nessuno tocchi Caino” e questo non va bene. Voleva unirsi allo sciopero della fame promosso da Rita Bernardini e al quale mi sono partecipato anch’io. Una lotta per fare pressione rispetto alla criticità della situazione delle carceri italiane. Se manca la trasparenza nelle carceri, questa danneggia tutti: i detenuti, la comunità penitenziaria e anche la popolazione civile. E invece sta tornando questa volontà di chiudersi a riccio. A tratti sembra di tornare al pre-riforma 1975, quando le carceri erano avulse dalla società. Si rischia di tornare a “girachiavi e camosci” (gergo carcerario con il quale si chiamano gli agenti e i detenuti), come vorrebbero alcuni sindacati di polizia penitenziaria e alcuni partiti politici, ma non è possibile. Come procede la richiesta che nelle carceri arrivino al più presto i vaccini? Noi garanti stiamo facendo tutte le pressioni possibili, abbiamo firmato appelli ai parlamentari, ai singoli ministri e al governo, abbiamo messo in evidenza i pericoli di contagio nelle carceri, per tutti coloro che vi entrano. Se qualche pubblico ministero diceva che si era più sicuri in carcere che in piazza Duomo, bisogna invece sapere che il Covid è arrivato anche all’interno del reparto 41bis di Opera. Anche oggi è scoppiato un focolaio a Rebibbia. Molti gli appelli anche dal mondo del volontariato e invece i membri del governo non mostrano alcuna intenzione di dare una minima priorità alle vaccinazioni dei detenuti e di chi lavora in carcere. Attualmente i volontari nelle tre carceri milanesi sono più di mille, la maggior parte dei quali in questo momento è bloccata. Qualcuno è riuscito a mantenere la propria attività, ma non è affatto facile. In questo momento gli arrestati sono soprattutto clochards, tossici e persone con problemi di salute mentale, quelli che non hanno nulla da perdere (apro una parentesi: San Vittore è quasi diventato un vecchio ospedale psichiatrico giudiziario!). Spesso non hanno abiti adeguati, hanno freddo… La situazione è delicata, bisogna fare molta attenzione. Se spesso durante questa emergenza Covid vi è una situazione “oscillatoria” del contagio nella società esterna, questo avviene anche nel circuito penitenziario. Per esempio a Milano c’è un luogo di grande eccellenza come l’Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri), dove queste vivono con i loro bambini in una struttura ben diversa da un carcere. Attualmente è vuota e il Comune ipotizzava di chiuderla definitivamente, ma chi ci dice che passato questo periodo non si tornino ad avere mamme con bambini? E allora sarà bene avere questa struttura. Rischiamo regressioni. Torniamo pure al decreto legge che avrebbe dovuto contribuire a ridurre l’affollamento: sono previsti una quantità di motivi ostativi che ne limitano grandemente l’efficacia. La maggior parte delle persone che ne potrebbe beneficiare sono fragili, spesso senza casa, senza lavoro e senza assistenza sanitaria. Non si può far finta di nulla. È vero che la cassa delle ammende ha messo a disposizione dei fondi per affrontare queste situazioni, ma la Regione Lombardia ha voluto spendere quei soldi a favore della polizia penitenziaria. È assurdo, quella ha altri canali per avere aiuti! Ma intanto si perde tempo; queste strutture hanno dei tempi troppo lunghi. Il Parlamento avrebbe dovuto mettere in atto delle misure quasi automatiche per sfoltire la popolazione carceraria di quei soggetti non pericolosi che possono tranquillamente espiare la pena in misure alternative. E questo non è stato fatto. Le suggerisco un gioco: se lei fosse Ministro di Grazia e Giustizia proporrebbe subito una misura del genere? Il dottor Maisto ride… “Io ho 74 anni, ero arrivato al massimo della mia carriera e ora sono un magistrato in pensione che fa il garante. In passato ministri che non erano particolarmente progressisti, nel momento in cui l’Italia, per la sentenza europea Torregiani, fu accusata di sovraffollamento, attuarono delle misure speciali che sfoltirono le carceri. Un aumento delle riduzioni di pena per tutti coloro che avevano tenuto una condotta regolare. In quell’occasione tanti poterono uscire, altri videro una riduzione della pena. A maggior ragione oggi si dovrebbe fare un’azione di questo genere, anche a livello simbolico. Si parla di Ristori e Ristori, ma per le carceri niente? La sofferenza sta solo aumentando. Durante il primo lockdown, quando fummo costretti a restare in casa, qualcuno disse che forse avremmo capito di più le condizioni dei detenuti. Le sembra che sia avvenuto? No, mi sembra invece che cresca una cattiveria punitiva, un egoismo non fondato. In Italia è ancora forte e diffusa la cultura del “buttare le chiavi e farli marcire dentro”. C’è però ancora molta voglia di lavorare, lo vedo dal mondo dei volontari, che restano attivi nel dare speranza. Le risposte del mondo della politica sono spesso false e inadeguate. In questo momento è più frustrato o più arrabbiato? Sono più arrabbiato…. anche se preferisco dire “reattivo”. La rabbia non mi appartiene. Lei il carcere di San Vittore lo raderebbe al suolo? Per niente, bisogna conoscere e mantenere la memoria per sapere quanta sofferenza c’è stata là dentro. Per i nazisti fu un parcheggio prima di mandare gli ebrei verso i campi di sterminio. È un monumento storico all’interno della città, dove ci sono ancora persone detenute che soffrono perché hanno sbagliato o perché forse hanno sbagliato. Potrebbe essere trasformato rispondendo in parte alle esigenze originarie, in parte a nuove funzioni sociali. San Vittore potrebbe diventare un luogo per semi-liberi e anche un museo; sarebbe davvero significativo. Che si ricordi come là dentro migliaia di persone hanno sofferto, a ragione o a torto. A me non va fatta questa domanda. Io ho speso tanto della mia vita lì dentro, da magistrato e alla fine anche da volontario. Ho visto i morti bruciati, ho visto di tutto, mi hanno chiamato per convincere a scendere detenuti che si erano rifugiati nelle bocche di lupo, sono riuscito a far buttar giù quelle finestre da cui non si vedeva fuori, ora sostituite da finestroni. A San Vittore c’erano delle celle sotterranee dette “ai topi” e io le ho fatte chiudere. Ogni giorno mi arrivavano i rapporti giudiziari di infortuni sul lavoro riguardo ai detenuti con le dita tagliate, non c’era la minima sicurezza. Io non sono oggettivo su San Vittore. Io mi ritengo un riformista democratico, un riduzionista; non sono un abolizionista del carcere, ma sono sicuramente per la de-istituzionalizzazione. La Costituzione italiana dice che la pena, e quindi in sostanza il carcere, deve avere una funzione riabilitativa, rieducativa. Da 1 a 100, come classificherebbe in questo senso il carcere in Italia? Direi 10. Molto poco. La maggior parte dei fondi viene investita in sorveglianza, struttura, vigilanza, architettura e non in alternative. Bollate resta una struttura “virtuosa” dove la recidiva guarda caso è molto più bassa. Bergamo. Una guida pratica per accogliere gli autori di reato di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 29 gennaio 2021 Dalle messe alla prova ai lavori di pubblica utilità: arriva il vademecum per le associazioni. La guida del Centro di servizio per il volontariato di Bergamo dà consigli alle associazioni che accolgono autori di reato, facendoli lavorare per estinguere pene o reati. È un tema su cui chi lavora attorno al mondo della giustizia insiste, e insiste: l’efficacia delle pene alternative al carcere, in primo luogo per abbattere la recidiva. Per scontare una pena non esiste solo la detenzione: negli ultimi anni anche sul territorio della provincia di Bergamo abbiamo assistito ad una crescita del ricorso a misure alternative al carcere. Misure che spesso si traducono in esperienze di volontariato, riconosciute come riabilitative e allo stesso tempo educative e di inserimento nella comunità. Di conseguenza è cresciuta anche la ricerca di enti ed associazioni disponibili ad accogliere le persone sottoposte a provvedimenti di natura giudiziaria per un periodo più o meno lungo, affinché possano portare a termine il proprio percorso riparativo. Il CSV di Bergamo, attraverso i progetti Pit Stop e Gioco di squadra 2 con capofila il Comune di Bergamo, ha mappato sul territorio della provincia 484 enti che tra il 2014 e il 2020 hanno accolto autori di reato. Tra questi il 30% sono Comuni, il 27% associazioni e il 23% parrocchie. Presenti in forma minore anche le cooperative sociali (12%), le strutture sanitarie residenziali (5%), le scuole (2%) e altri soggetti (1%). I soggetti ospitanti sono equamente distribuiti all’interno dei diversi Ambiti territoriali, con una presenza più marcata nell’Ambito di Bergamo (16%) e un picco più basso nell’Ambito di Dalmine (7%). In sei anni 452 delle realtà mappate hanno accolto persone in messa alla prova, altre 149 hanno ospitato lavori di pubblica utilità come conversione pena e 17 hanno inserito al proprio interno persone per l’affidamento in prova al servizio sociale. Sono numeri che danno la misura di come il ricorso a questi istituti giuridici sia sempre più diffuso e che chiedono ad associazioni ed enti di essere pronti ad accogliere sia adulti che minori in situazioni di fragilità, che si avvicinano al volontariato non per scelta ma per “obbligo”. Un richiamo che porta il volontariato a riscoprire la propria vocazione originaria di soggetto che promuove inclusione sociale e riconoscimento della dignità di ogni uomo. un volontariato che deve però essere capace di accogliere queste persone e di gestire il loro inserimento con cautela e competenza, rispettando norme, procedure, dispositivi. Per aiutare associazioni ed enti ad accogliere gli autori di reato, Csv ha quindi realizzato una “Guida pratica per l’accoglienza degli autori di reato”: un vademecum composto da diverse schede ognuna delle quali dedicata ad una specifica misura alternativa alla detenzione. La guida contiene una descrizione semplice e comprensibile dei principali dispositivi incontrati dall’associazionismo e mette a disposizione suggerimenti, strumenti operativi, consigli utili per superare dubbi e difficoltà. La “Guida pratica per l’accoglienza degli autori di reato” verrà presentata giovedì 28 gennaio 2021 alle ore 17.00 online sulla piattaforma Zoom. Durante l’incontro interverranno: Oscar Bianchi, presidente CSV Bergamo; Marcella Messina, assessore ai Servizi Sociali del Comune di Bergamo e presidente dell’Assemblea dei Sindaci; Lucia Manenti, direttrice Ulepe (Ufficio Locale Esecuzione Penale Esterna); Valentina Vielmi, agente di rete penale minorile Ambito di Bergamo. Ferrara. Detenuti picchiati, agenti in aula di Cristina Rufini Il Resto del Carlino, 29 gennaio 2021 Si è aperto ieri mattina, con l’udienza filtro, il processo a carico di un ispettore di Polizia penitenziaria al tempo dei fatti e dell’allora collega Sovrintendente della stessa Penitenziaria. I fatti che vengono loro contestati sarebbero accaduti tra la fine del 2016 e giungo 2017 nei confronti di un detenuto nel carcere di via Arginone. Secondo le contestazioni che sono mosse dal pubblico ministero Isabella Cavallari, i due in concorso sono accusati di aver percosso e minacciato un detenuto, in modo tale da indurlo a raccontare fatti relativi ad altri carcerati “il tutto aggravato dall’odio razziale”, secondo la tesi sostenuta dal pm Cavallari. Sempre in concorso abusavano del loro potere di controllo sui detenuti con eccessive ‘misure di rigore reiteratè, che comprendevano anche le percosse. La stessa accusa che viene mossa, questa volta al solo ispettore della Penitenziaria, nei confronti di un altro detenuto, sempre per riuscire a fargli raccontare fatti che riguardassero altri carcerati. Ispettore che è anche accusato di avere danneggiato, in concorso con un detenuto che è poi deceduto, il vetro che si trovava a protezione del televisore installato nella cella. All’Ispettore, in questo particolare episodio, viene imputato il concorso morale, “avendo istigato il detenuto, a compiere il danneggiamento”. Ieri si è aperto il processo davanti al Tribunale in composizione collegiale, con fissazione della prossima udienza al 24 marzo. Entrambi sono assistiti dall’avvocato Denis Lovison. Benevento. Il Garante regionale dei detenuti Ciambriello visita il carcere anteprima24.it, 29 gennaio 2021 Benevento - Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, nel pomeriggio di oggi ha visitato il carcere di Benevento dove sono attualmente reclusi 354 detenuti di cui 56 donne. La visita é stata effettuata con i volontari e il presidente della cooperativa “I Care” Don Giuseppe Campagnuolo della diocesi di Cerrito Sannita (BN) che si occupa del disagio giovanile, di una casa di accoglienza per donne e bambini e ragazzi con disabilità. “I Care” nel carcere di Benevento gestisce un progetto finanziato dal garante campano dei detenuti, che prevede un percorso introspettivo dei detenuti accusati di reati a sfondo sessuali, sia nel reparto femminile che maschile. Per il garante Ciambriello “questi progetti nelle carceri sono importanti sia per far riappropriare delle proprie responsabilità i diversamente liberi, sia per aiutarli a soffermarsi su un loro presente e a riconoscere i propri limiti e a saperli gestire. Prima di entrare in carcere ho incontrato don Nicola De Blasio della Caritas diocesana di Benevento. Ho finanziato un suo progetto di attività di recupero per detenuti e ho firmato un protocollo di intesa per accoglienza e lavori socialmente utili per 5 detenuti. La Caritas dal mese di febbraio attiverà un centro di ascolto psicologico e di sostegno morale nel carcere di Benevento. Sono grato a quanti istituzioni pubbliche e del privato sociale nel Sannio hanno attivato percorsi di solidarietà e di reinserimento socio-lavorativo per detenuti ed ex detenuti”. Il garante Ciambriello ha regalato ai detenuti sex offender una confezione contenerne un libro e alcune mascherine. Convinto, come ha detto all’uscita, che “la cultura libera, la conoscenza aiuta a superare le disuguaglianze e a riappropriarsi dei propri sogni”. Bari. Carceri, un webinar per discutere di libertà e dignità dell’uomo imgpress.it, 29 gennaio 2021 Oggi, 29 gennaio 2021, ore 15.00, si terrà, sulla Piattaforma COA Bari - Gotowebinar, il convegno sul tema di: “Metavalori e Carcere. La mancata giurisdizionalizzazione dell’esecuzione”, organizzato in partnership con il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bari; la GP4AI Global Professional for Artificial Intelligence e con il Coordinamento scientifico del Prof. Giovanni Neri, Prof.ssa Francesca Iole Garofoli, Avv. Michele Curtotti, Prof. Fabrizio Pompilio, Avv. Claudio Caldarola, Avv. Clemi Tinto, Dott.ssa Annalisa Turi, Avv. Nicola Gargano, Avv. Gabriella Panaro. ll webinar sarà moderato da Tommaso Forte, giornalista. L’incontro di studio si propone di orientare i riflettori, attraverso la pluralità del sapere giuridico, sul valore della Giurisdizione nell’attuale contesto di emergenza, affinché i Metavalori possano trovare adeguato rispetto nel sistema penale e processuale. Sembra che il “vento di maestrale” continui a soffiare, quando libertà e dignità dell’Uomo sono in antitesi, sull’effettiva condizione penitenziaria. Peraltro, Il tema del carcere, impone riflessioni sul ruolo della Giurisdizione, non solo nella verifica delle condizioni sanitarie indotte dall’emergenza, ma in maniera più dettagliata, sulle condizioni di vita comune nella restrizione detentiva. Invero, un’attenta valutazione delle tematiche indicate, dovrebbe sollecitare il Legislatore, a occuparsi delle dinamiche di prevenzione all’ interno degli istituti penitenziari. Peraltro, si dovrebbe rivalutare l’intero sistema delle misure cautelari de libertate, in ragione del mutato quadro di riferimento dei pericula libertatis e delle presunzioni di pericolosità. Non appare superfluo evidenziare come le scelte legislative d’emergenza siano connotate da indifferenza verso la regola della non considerazione di colpevolezza poiché, con l’intervenuta sospensione dei termini della custodia per la pandemia, si sono inevitabilmente aggravati tempi e condizioni delle vicende cautelari. Se, si preferisce navigare a vista, si lasciano da parte quelle scelte processuali calibrate su altre misure restrittive non custodiali e, l’idea di un carcere quale extrema ratio, diventa un’inutile finzione. Insomma, se da un lato la logica sottesa alla normativa d’urgenza si muove su piani slegati e senza progettualità, consegnando al nostro Paese tutte le problematicità esistenti, dall’ altro lato, sul fronte del carcere, si impone un confronto leale sui meta-valori e sul ruolo della pena, tra funzione retributiva e dimensione rieducativa. Viceversa, dovremmo essere pronti ad accettare che la custodia cautelare resti, per sempre, contrassegnata nel suo Dna, come un’anticipazione della colpevolezza e della pena. La partecipazione al Convegno è gratuita e richiede l’scrizione sulla Piattaforrma COA Bari - Gotowebinar (max 500 posti) al seguente link: https://register.gotowebinar.com/register/8564470314972924944. Ferrara. Un altro Amleto, la webserie dei detenuti attori Corriere di Bologna, 29 gennaio 2021 Un album di famiglia, con i protagonisti degli scatti che sono tutti detenuti-attori nel carcere di Ferrara. Per dieci giovedì i loro ritratti, intrecciati drammaturgicamente all’Amleto, si avvicenderanno nel corso delle dieci puntate di una webserie sulla pagina Facebook di Teatro Nucleo e del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna. Liberamente ispirata a Amleto e alle sue varie riscritture, da Laforgue a Heiner Muller, la drammaturgia di Album di Famiglia si è andata componendo attraverso uno scambio di suggestioni fornite dai registi di Teatro Nucleo ai detenuti, che le hanno rielaborate in scritture biografiche sull’eredità familiare, sulla colpa e sul perdono. La composizione ha preso ispirazione da Hamlet Machine di Heiner Muller, il cui primo movimento si intitola proprio Album di famigli”. Album di famiglia, Ferrara, 11 febbraio alle 18, in streaming sulla pagina Facebook di Teatro Nucleo. “Barre - Rap, sogni e segreti in un carcere minorile” ilreggino.it, 29 gennaio 2021 Raccontare l’esperienza di “insegnante di rap” nelle carceri minorili tramite le parole di un libro e la musica di uno street album: questo l’obiettivo del rapper e scrittore calabrese Francesco “Kento” Carlo che giovedì 28 gennaio pubblica “Barre”. Il libro “Barre - Rap, sogni e segreti in un carcere minorile”, edito da minimum fax, è disponibile in tutte le librerie, mentre lo street album intitolato “Barre Mixtape” è su tutte le piattaforme digitali e, nelle prossime settimane, uscirà su vinile per Aldebaran Records. Nelle 177 pagine del volume, Kento racconta la sua esperienza maturata in oltre dieci anni di laboratori in vari istituti penitenziari italiani, a contatto con centinaia di ragazzi detenuti, insieme ai quali ha scritto strofe, ritornelli e punchline. Nei suoi laboratori, Kento stimola a incanalare nella creatività la rabbia, la frustrazione e la tentazione di fare del male agli altri e, più spesso, a sé stessi. Barre racconta queste esperienze - con gli strumenti della narrativa, perché la legge impone di non rivelare nulla che possa collegare le vicende narrate ai protagonisti reali - e insieme riflette sul classismo insito nel sistema della giustizia minorile italiana, in cui a finire dentro spesso non sono i più colpevoli ma semplicemente gli ultimi per condizione economica, culturale e sociale. Barre, come quelle di metallo alle finestre della cella. Barre, come vengono comunemente definiti i versi di una strofa rap. Barre, come i segni di penna sui nomi dei ragazzi che non frequentano più i laboratori. Perché sono usciti, finalmente liberi. Perché sono diventati grandi e devono trasferirsi nel carcere degli adulti. Perché non sono mai rientrati dai permessi premio, e chissà che fine hanno fatto. Il disco è stato registrato e masterizzato allo storico Quadraro Basement e vede le produzioni di Shiny D, Goedi, DJ Fuzzten, Gian Flores, Dj Dust, Giovane Werther e un feat. di Lord Madness. Tredici tracce dove la poesia incontra il boombap e le classiche rap ballad si alternano a incursioni nelle sonorità più moderne, senza mai perdere l’attenzione al messaggio che è da sempre il tratto distintivo dell’MC reggino. Un lavoro legato a doppio filo al libro perché nato dalla stessa ispirazione, e scritto in buona parte nel periodo in cui - per colpa del lockdown - i laboratori in carcere hanno subito un’interruzione forzata, così come i concerti. In attesa di poterlo sentire dal vivo, è prevista quindi un’edizione in vinile di sole 100 copie numerate a mano e autografate, su supporto in formato 180 grammi nero con effetto marmorizzato giallo, che richiama la copertina del libro. Il vinile di Barre Mixtape è disponibile in pre-ordine sul sito di Aldebaran Records in bundle con il libro stesso e, per chi vorrà, anche con una t-shirt realizzata in esclusiva dalla cooperativa Jailfree, che si occupa del reinserimento lavorativo dei detenuti. “Minimum fax è un editore che ho sempre stimato, e vedere il loro logo accanto al mio nome in copertina è un traguardo importante e uno stimolo per il futuro - dichiara Kento - Trovo particolarmente significativo abbinare quest’uscita a quella del vinile per Aldebaran Records, protagonista di alcune delle uscite su supporto analogico più significative degli ultimi anni”. Covid, l’altra pandemia: il virus ha portato 1 milione di nuovi casi di disagio mentale di Valeria Pini La Repubblica, 29 gennaio 2021 Lutti, crisi e paura all’origine del malessere. I dati emergono dal XXII congresso nazionale della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia. La pandemia non colpisce solo il corpo, ma anche la mente. La paura del contagio e la crisi economica in atto moltiplicano esponenzialmente il disagio psichico. In chi è entrato in contatto con il virus aumenta fino a 5 volte la probabilità di sintomi depressivi e si stima che nei prossimi mesi possano emergere fino a 800 mila nuovi casi di depressione. Una condizione che riguarderà anche i circa 10 mila italiani che hanno perso un proprio caro per colpa del virus, senza contare le almeno 150 mila persone non colpite da SAR-Cov-2 ma che manifesteranno sintomi depressivi a causa della crisi economica e della disoccupazione. È quanto emerge dal XXII congresso nazionale della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia, online da oggi al 29 gennaio. La sindemia - È quello che gli esperti definiscono ‘la tempesta perfetta’. Per i suoi effetti sulla salute, le abitudini sociali e l’economia mondiale sta provocando infatti una sindemia: l’epidemia cioè non è soltanto sanitaria, ma ha ripercussioni economiche, emotive e culturali tali da agire come un moltiplicatore senza precedenti del malessere psichico. Un male che non sembra guardare in faccia nessuno e che colpisce sia chi ha avuto il Covid sia chi invece non si è ammalato. Metà delle persone contagiate manifesta disturbi psichiatrici con un’incidenza del 42% di ansia o insonnia, del 28% di disturbo post-traumatico da stress e del 20% di disturbo ossessivo-compulsivo. Inoltre il 32% di chi è venuto in contatto col virus sviluppa sintomi depressivi, un’incidenza fino a cinque volte più alta rispetto alla popolazione generale. La sindemia da Covid-19 e disagio psichico riguarda anche chi non è stato toccato direttamente dal virus: fra i familiari dei circa 86.000 pazienti deceduti, almeno il 10% andrà incontro a depressione entro un anno. La crisi economica provocata dalla pandemia incrementa a sua volta il disagio mentale in tutta la popolazione: il rischio di depressione raddoppia in chi ha un reddito inferiore ai 15.000 euro all’anno e triplica in chi è disoccupato. 150.000 nuovi casi di depressione - Si stima che saranno almeno 150.000 i nuovi casi di depressione dovuti alla disoccupazione da pandemia, ma la situazione potrebbe perfino peggiorare perché tutte le condizioni di fragilità sanitaria, emotiva, sociale che si stanno creando nel Paese non sommano, ma moltiplicano esponenzialmente le loro conseguenze negative sul benessere psicofisico della popolazione. Ad alto rischio soprattutto donne, giovani e anziani; le prime già più predisposte alla depressione e più toccate dalle ripercussioni sociali e lavorative, i secondi che hanno visto modificarsi la loro vita di relazione e patiscono gli effetti della crisi sull’occupazione, e gli anziani, più fragili di fronte ai contagi e disturbi mentali. I riti svaniti - “Le condizioni sanitarie, economiche, sociali che si sono create a seguito della pandemia di Covid-19 hanno portato a una vera sindemia: alla malattia connessa all’infezione si è aggiunto un impatto enorme sul benessere psichico di tutta la popolazione, sia di chi è venuto a contatto col virus in maniera diretta, sia di chi non è stato contagiato ma vive sulla sua pelle le conseguenze della crisi in corso - spiega Claudio Mencacci, co-presidente della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia e direttore del Dipartimento Neuroscienze e Salute Mentale ASST Fatebenefratelli-Sacco di Milano - In chi è venuto a contatto col virus la probabilità di disagio mentale è più elevata, con un’incidenza di sintomi depressivi che cresce dal 6 al 32%; fino al 10% di chi ha perso un proprio caro per il Covid-19 andrà incontro a un lutto complicato che si protrarrà oltre 12 mesi, anche a causa delle regole di contenimento del contagio che hanno impedito a molti di poter elaborare il dolore, rivedendo un’ultima volta il congiunto per l’estremo saluto”. Un problema che con il tempo sembra aggravarsi. Anche oggi che il vaccino ha riaperto una speranza nelle nostre vite, in molti si rendono comunque conto che il cammino verso la normalità sarà lungo. “Con il prolungarsi dello stato di emergenza e delle restrizioni alla socialità, al lavoro, alla possibilità di programmare un futuro, anche chi non è stato contagiato è sull’orlo di una crisi di nervi: dopo una fase iniziale in cui si è fatto il possibile per resistere e si combatteva soprattutto la paura del virus, ora sono subentrati l’esaurimento, la stanchezza, talvolta la rabbia - spiega “Non solo - aggiunge Matteo Balestrieri, co-presidente della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia e professore ordinario di Psichiatria all’Università di Udine -. E ciò che preoccupa è soprattutto l’ondata di malessere mentale indotta dalla crisi economica: le condizioni ambientali e socio-economiche hanno infatti un grosso peso sul benessere psichico della popolazione e la pandemia di Covid-19 sta creando le premesse per il dilagare del disagio”. La disoccupazione - Le stime indicano infatti una perdita del 10% del Pil per il nostro Paese e un forte incremento dell’impoverimento e della disoccupazione, elementi che agiscono letteralmente come moltiplicatori dei disturbi mentali: in Italia la probabilità di ammalarsi di depressione raddoppia fra le persone a basso reddito (<15.000 euro/anno), triplica fra i disoccupati. Oggi i disoccupati sono il 10% della popolazione, ma alcune stime prevedono un incremento fino al 17% per il 2021. “Significa avere 1.800.000 disoccupati in più e un aumento di circa 150.000 casi di depressione soltanto a causa della perdita di lavoro generata dalla crisi economica in corso - prosegue Mencacci -. Oggi inoltre le famiglie che versano in stato di povertà assoluta sono 2,1 milioni, in continuo aumento, mentre un milione di famiglie vive esclusivamente di lavoro non. Il disagio economico innesca il malessere psichico, come certifica anche il notevole incremento delle vendite di psicofarmaci registrato negli ultimi mesi’. Le donne più fragili - Ad alto rischio sono soprattutto le donne, più predisposte alla depressione e più toccate dalle ripercussioni sociali e lavorative del Covid-19: più degli uomini infatti sono state costrette a lasciare l’impiego, più degli uomini hanno sopportato e stanno sopportando il carico doppio del lavoro e della cura della famiglia durante i lockdown più o meno rigidi che si sono susseguiti nell’ultimo anno. Rischiano tuttavia anche i giovani dai 16 ai 34 anni, che hanno visto modificarsi la loro vita di relazione con la chiusura di scuole superiori e università e patiscono gli effetti della crisi sull’occupazione e la possibilità di entrare nel mondo del lavoro, e gli anziani, più fragili di fronte a contagi e disturbi mentali. Le terapie - Siamo quindi realmente di fronte a una sindemia di proporzioni senza precedenti, a cui reagire migliorando l’assistenza e le cure dei pazienti. “Al contrario di quanto è accaduto nei primi mesi di pandemia, quando le visite e le prestazioni sanitarie nei Centri di salute mentale si sono ridotte, occorre puntare a rafforzare i servizi ed è indispensabile essere più vicini possibile ai cittadini. A partire dai medici di famiglia, - aggiunge Mencacci - che possono intercettare per primi il disagio inviando poi i pazienti dallo specialista”. Un problema in una sanità travolta dal Covid che stenta a trovare spazi adeguati per la sofferenza mentale. “Nel settore della salute mentale esistono terapie che hanno cambiato volto e sono oggi in grado di migliorare enormemente la qualità della vita dei pazienti con disturbi psichici. A patto però - conclude Balestrieri - che i farmaci, se necessari, siano sempre prescritti dal medico specialista, che poi deve gestire le cure assieme al medico di famiglia. Il fai da te, che temiamo sia adottato da molti in un momento difficile come quello attuale, rischia di non risolvere i problemi e di esporre anche a rischi per la salute”. Lockdown, tolta la multa al clochard. “Come può stare a casa chi non l’ha?” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 29 gennaio 2021 Purtroppo è solo un caso fra i tanti: senzatetto multati, per importi superiori anche ai 500 euro, per esser stati “sorpresi in strada” durante il lockdown. Questa volta la contravvenzione è stata annullata dalla prefettura di Bologna grazie all’associazione “Avvocato di strada” di Antonio Mumolo e Paola Pizzi. “Come faceva a restare in casa chi una casa non ce l’aveva? Un’altra multa ingiusta, l’ennesima, è stata annullata e siamo molto felici per il nostro assistito”. Antonio Mumolo, Presidente dell’Associazione Avvocato di strada, e l’avvocato Paola Pizzi commentano così la decisione della Prefettura di Bologna che ha accolto la richiesta dell’associazione e ha annullato la multa comminata lo scorso marzo a un uomo senza dimora trovato in strada durante il primo lockdown. “Molte persone - dice ancora Mumolo - in genere minimizzano queste cose: “Una multa a un senzatetto? che problema c’è, tanto non la pagherà mai!”. Invece non è assolutamente così. Le multe rimangono, si accumulano. E, se non le si può pagare perché si è nullatenenti, gli importi negli anni si moltiplicano fino a raggiungere cifre considerevoli”. “Il Dpcm del marzo 2020 che stabiliva il lockdown totale e multe e denunce per chi veniva trovato in strada - dice ancora il Presidente - è stato pubblicato in un periodo di gravissima emergenza e le misure rigide erano senz’altro giustificate. Come abbiamo fatto subito notare con una nostra campagna, tuttavia, il Dpcm dimenticava quelle migliaia di persone che in quei mesi erano senza una casa e, per via di tutte le chiusure dei servizi e delle associazioni, prive di qualsiasi supporto”. In effetti le multe ai senzatetto, ancorché paradossali, sono state nel corso del 2020 tantissime. Come quella inflitta il 20 novembre a un signore di Como, conosciutissimo da tutti i residenti del centro da almeno dieci anni come l’angolo di strada ove dormiva, a cui un inflessibile controllore dell’ordine pubblico aveva consegnato un verbale da 400 euro. E ancora a Bologna si era verificato uno degli altri casi di contravvenzioni già annullate grazie all’associazione di Mumolo, il cui importo aveva toccato i 533 euro (e 33 centesimi, per l’esattezza). “Quando erano state decise le sanzioni per chi veniva trovato in strada durante il lockdown - aveva detto Mumolo già in quell’occasione - avevamo denunciato la situazione paradossale in cui si sarebbero trovate le persone senza dimora con la campagna “Io resto a casa. E se una casa non ce l’ho?”. Eravamo stati facili profeti”. “Negli ultimi mesi siamo riusciti ad annullare già 4 multe che risalgono al primo lockdown, ma chissà quante sono le persone senza dimora multate in quel periodo che non si sono rivolte a noi e che continueranno a essere gravate da quel debito. Noi - conclude il presidente dell’associazione - continueremo nel nostro lavoro e ci auguriamo che nella malaugurata ipotesi di un nuovo lockdown gli ultimi non vengano dimenticati ancora una volta”. Minori, applichiamo ai social i limiti imposti ai libri e ai fumetti di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 29 gennaio 2021 L’articolo 14 della legge sulla stampa del 1948 punisce chi pubblica opere destinate a fanciulli e adolescenti quando costituiscano incitamento al delitto o al suicidio. L’Italia sembra incapace di far fronte a fenomeni illeciti, spesso assai gravi e diffusi, con leggi e provvedimenti adeguati, senza un fattore scatenante, un fatto di cronaca, meglio se tragico, che attiri l’attenzione dei mass media e porti la questione all’ordine del giorno, rendendo impossibile temporeggiare ancora. Fu la drammatica scomparsa di Tiziana Cantone nel 2016, a scuotere un Parlamento dormiente e mettere in moto l’iter, culminato nel 2019 con l’inserimento, nel codice penale, del reato riduttivamente definito, con stucchevole anglofilia, revenge porn; e che, in realtà, punisce non solo chi, per vendetta appunto, diffonde immagini o video sessualmente espliciti, che riprendono anche compagni più o meno consenzienti, ma soprattutto chi lo fa per noia, per esibizionismo o chissà per quale altra ragione malata. Il reato è inserito nel c.d. Codice Rosso, che tutela le vittime di violenza domestica e di genere, intervento anch’esso non più procrastinabile, di fronte al dilagare della violenza domestica, spesso con la voglia di deturpare le vittime con lesioni permanenti al viso, di cui Lucia Annibali è stata il più efficace testimone. Oggi ci risiamo: la morte della bimba palermitana, mentre partecipava a quello che è criminale definire un gioco, ha messo in moto il solito coacervo di opinionisti, psicologi ed esperti, che sembrano aver scoperto solo ora che di social si può anche morire, specie quando sei talmente piccolo, da non percepire neppure i rischi che corri a metterti al collo una cintura e a stringere forte, per dimostrare che resisti più degli altri senza respirare. Questa volta, però, non ci potrà essere una legge, figlia dell’emergenza, a dare una risposta, a punire i cattivi ed a salvare le vittime, come efficacemente hanno scritto Daniele Manca e Gianmario Verona, ricordando che vigono oggi regole analogiche, in un mondo digitale e attraversato da questioni transanazionali: è la globalizzazione, bellezza! Il Garante, il solo che possa far qualcosa e lo sta facendo, è intervenuto già due volte: ha tempestivamente, ma fin qui inutilmente, ordinato al social cinese TikTok di interrompere il trattamento dei dati degli utenti italiani, dei quali non abbia accertato l’età, senza alcuna apprezzabile reazione; ha chiesto a Facebook, che controlla Instagram, indicazioni sulle modalità con le quali viene verificata l’età dell’utente ed il rispetto dell’età minima di iscrizione ed ha in programma di estendere la verifica anche agli altri social. Forse qualcosa farà anche l’Europa, finora piuttosto in affanno, anche sulle inadempienze contrattuali dei produttori di vaccini, ma l’educazione digitale, di cui c’è un gran bisogno, deve partire dai genitori, troppo spesso analogici al punto da non riuscire a fronteggiare i rischi, perché neppure li conoscono bene. Ma poi, è davvero necessario mettere in mano ai bambini uno smartphone e consentire loro di accedere liberamente ad un mondo, che travolge ed uccide a volte anche gli adulti, incapaci di distinguere tra realtà e fantasia? Non sarà un modo comodo di tenerli impegnati, spesso senza immaginare neppure quel che potrebbe accadere loro? Una volta, si sa, era il motorino a 14 anni l’incubo dei genitori, che resistevano per mesi, prima di cedere e cominciare ad aspettare, con angoscia ed ogni sera, qualche volta invano, il rientro del figlio. Oggi è il cellulare, l’oggetto del desiderio, il cui uso, anche se può indurre il suicidio o instillare propositi criminali, è sottratto alle vecchie regole analogiche esistenti, retaggio di antiche e saggie paure e di un più attento ascolto dei problemi dei minori. È ancora sanzionato penalmente, infatti, dall’art. 14 della legge sulla stampa, scritta nel 1948 dall’Assemblea costituente - e si vede! - la cui permanenza in vigore è stata ritenuta indispensabile ancora nel 2005, chi pubblica libri, destinati “ai fanciulli ed agli adolescenti” quando “per la sensibilità ed impressionabilità ad essi proprie” costituiscano incitamento al delitto o al suicidio; oppure fumetti destinati all’infanzia, se vincono sistematicamente o ripetutamente i cattivi così favorendo “il disfrenarsi di istinti di violenza o di indisciplina sociale”: meglio Diabolik, fermato da Ginko, di Kriminal, spietato criminale. Certo il linguaggio è un po’ retrò, ma che nostalgia per l’attenzione quasi maniacale, riservata da quegli insigni giuristi alla tutela dell’armonico sviluppo dei fanciulli, oramai fuori dai radar del nostro Parlamento - se ne è occupato solo per vietare giustamente la divulgazione delle loro immagini e generalità su giornali e siti- e di cui si sente ancora oggi un gran bisogno. Ora siamo ad un bivio e il legislatore, presa coscienza degli innumerevoli quesiti che il libero accesso dei minori ai social può generare, potrebbe prendere spunto dal passato per adattare quelle regole digitalizzandole, perché è su quell’accesso che si deve intervenire e non a posteriori e, volte troppo tardi, sul singolo contenuto. Sembrano scritte oggi, quelle regole e sarebbero perfette, se fosse possibile aggiornarle ed applicarle ai social, che certo più dei fumetti e dei libri possono impressionare e condizionare i nostri bambini. Migranti. Caso Gregoretti, Conte al gip: “Indirizzo politico condiviso ma a decidere fu Salvini” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 29 gennaio 2021 Il premier ha risposto a tutte le domande del giudice Sarpietro e delle parti civili. Il Gip: “Responsabilità politica e penale vanno divise”. L’indirizzo politico, quello di coinvolgere preventivamente l’Europa nella redistribuzione dei migranti soccorsi nel Mediterraneo, era condiviso dal governo ma le decisioni sugli sbarchi erano di competenza del ministero dell’Interno. E anche nel caso Gregoretti a decidere se e quando far scendere i 131 migranti a bordo della nave della Guardia costiera fu Matteo Salvini. Questa, in sintesi, la deposizione del premier Conte sentito questa mattina a Palazzo Chigi dal giudice di Catania Nunzio Sarpietro davanti al quale si svolge l’udienza preliminare che vede Matteo Salvini accusato di sequestro di persona. Due ore e mezza di deposizione, alla presenza dello stesso Salvini, in cui il premier ha risposto a tutte le domande che gli sono state rivolte dal giudice e dagli avvocati di parte civile. E naturalmente anche a quelle dell’avvocato Giulia Bongiorno, legale di Salvini, che ha insistito per dimostrare l’assoluta condivisione da parte del governo di quello che stava accadendo. “Il premier ha una posizione chiave. È l’unico che ci possa dare indicazioni fondamentali per l’eventuale rinvio a giudizio di Matteo Salvini”. Le parole pronunciate dal giudice Nunzio Sarpietro all’ingresso a Palazzo Chigi che spiegano meglio di ogni altra cosa l’importanza del passaggio romano dell’udienza preliminare del processo Gregoretti a carico del leader della Lega. Ed è stato proprio il giudice, all’uscita da palazzo Chigi, a fare una sintesi della testimonianza di Conte che ha definito “molto collaborativo e profondo nelle risposte. Ottima testimonianza che mi ha chiarito molti elementi sulla politica di governo e sulla ricollocazione dei migranti”. Il giudice ha chiarito che, se è vero che dalla documentazione acquisita al processo su richiesta del legale di Salvini, emerge l’indirizzo politico condiviso dal governo, è anche vero che “le responsabilità politiche e penali vanno distinte”. E i legali di parte civile hanno aggiunto che “il premier Conte ha chiarito che la decisione di assegnare alla Gregoretti il porto è stata presa esclusivamente da Salvini”. In aula, a sentirlo, innanzitutto lui, Matteo Salvini, sul banco degli imputati per sequestro di persona aggravato e abuso d’ufficio, difeso dall’avvocato Giulia Bongiorno che, dopo le domande del giudice e delle parti civili che rappresentano alcuni dei migranti e Legambiente, ha interrogato Conte chiedendogli spiegazioni su una decina di mail partite da Palazzo Chigi in quei giorni, indirizzate agli ambasciatori italiani in Europa e agli altri primi ministri, proprio per sollecitare il meccanismo di solidarietà che l’Italia ha sempre sostenuto. Mail e documentazione, tra cui alcune informative parlamentari, di cui l’avvocato Bongiorno ha ottenuto l’acquisizione e che dimostrano che le trattative per il reinsediamento dei migranti erano in capo a Palazzo Chigi. Oltre a un video, relativo alla conferenza stampa di fine 2019, in cui il premier dice chiaramente: “Prima i ricollocamenti, poi lo sbarco” Secondo la difesa di Salvini “il premier ha confermato di essere stato protagonista nella politica della redistribuzione prima degli sbarchi”. Gli avvocati di Salvini si sono basati anche su nuovi documenti ottenuti dopo la precedente udienza di Catania e che - a loro giudizio - confermano che Salvini operò in linea con la politica governativa: il ministro si opponeva in attesa della redistribuzione dei migranti. Una prassi, ricorda la difesa di Salvini, proseguita anche con il governo giallorosso. E infatti, sempre all’uscita, Sarpietro risponde alla domanda se c’è continuità tra la politica migratoria di Salvini prima e quella di Lamorgese poi: “C’era il ministro Salvini prima, la ministra Lamorgese dopo. Non parliamo ancora di reati, stiamo parlando di un processo in cui bisogna accertare se c’è un reato. Ma nella politica generale del governo quella della ricollocazione era una costante, un leitmotiv generale”. Nel corso dell’esame di Conte, i legali hanno evidenziato un altro aspetto: il premier aveva scritto a Salvini per sollecitare lo sbarco dei minori a bordo della Open Arms (episodio successivo alla Gregoretti, ma consumato negli ultimi giorni del Conte 1) senza fare cenno ai maggiorenni e senza aver mai preso iniziative simili in precedenza. L’ennesima dimostrazione - secondo la difesa dell’allora ministro - della piena consapevolezza e condivisione del governo. A Conte il giudice Sarpietro ha chiesto innanzitutto del patto di governo del Conte 1, per avere delucidazioni sui contenuti della politica migratoria del governo a cui Salvini fa riferimento per dimostrare che le sue decisioni altro non erano che attuazione di quanto stabilito nel programma di governo e dunque condiviso da tutta la coalizione. Ma il premier sarà chiamato anche a fornire spiegazioni sulla sua posizione, apparentemente diversa, in tre casi che presentano molte similitudini ma verificatisi in momenti politici diversi: il caso Diciotti innanzitutto, nell’estate 2018, vicenda analoga alla Gregoretti ma per la quale il tribunale dei ministri di Catania non ottenne l’autorizzazione a procedere e per la quale Conte espresse pubblico apprezzamento per l’operato di Salvini; il caso Gregoretti, un anno dopo, con l’esecutivo prossimo alla crisi e il premier in silenzio a spingere per far scendere subito i minorenni, e il caso Ocean Viking, due mesi dopo, secondo sbarco con Luciana Lamorgese al Viminale e i migranti ugualmente costretti ad attendere più di una settimana a bordo senza che venisse aperta alcuna inchiesta. Del caso Gregoretti, è la risposta ufficiale fornita da palazzo Chigi agli atti del processo, il consiglio dei ministri non si è mai occupato. Risposta analoga a quella fornita, tra i tanti non ricordo, dall’ex ministro ai Trasporti Danilo Toninelli, già sentito a Catania insieme alla collega Elisabetta Trenta. Ma delle tante mail e atti formali partiti da Palazzo Chigi Conte dovrà dare una spiegazione. E chiarire soprattutto se, a fronte di una inequivocabile attività sua e del suo staff per ottenere il coinvolgimento dell’Europa, la decisione di bloccare i migranti a bordo anche in condizioni fisiche e sanitarie non idonee come stabilito da un’ispezione a bordo, sia stata condivisa o sia stata invece solo di Matteo Salvini. Il processo riprenderà a Catania il 19 febbraio con le testimonianze del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e di quello degli Esteri Luigi Di Maio. Egitto. Regeni, le menzogne di al-Sisi dicono che il regime è condannato di Francesco Strazzari Il Manifesto, 29 gennaio 2021 Il nuovo conflitto sociale in Egitto è la prova che crediti sauditi e opere faraoniche non bastano. Il Paese è come mai lacerato e i militari sono accusati di essere solo dei profittatori. A cinque anni dal brutale assassinio di Giulio Regeni, dopo un anno di carcerazione di Patrick Zaki fra i sessantamila oppositori che languono nelle celle egiziane, cosa abbiamo capito delle speranze che hanno acceso il Mediterraneo e il mondo arabo nell’ultimo decennio? Il quadro investigativo ricostruito dalla Procura di Roma è tale ormai che anche gli avvoltoi hanno smesso di volteggiare. Le insinuazioni sono evaporate alla luce dei fatti: a nessuno sfugge come parlare di Giulio oggi significhi parlare dei molti che ancora vengono fagocitati dalla repressione. Contrariamente alle aspettative del regime, la memoria di Giulio è più viva che mai: le scritte gialle riappaiono sulle facciate dei palazzi pubblici, e le istituzioni spendono parole senza ambiguità. E tuttavia nulla si muove sul piano giudiziario. Ormai allo stremo, Patrick Zaki resta crudelmente esposto alla continua, reiterata conferma dei termini di detenzione, seguendo il copione che vuole nell’esibizione del potere di arbitrio la conferma della peggiore deriva autoritaria. Davanti alla richiesta della Procura di Roma e a dispetto delle testimonianze dirette, le autorità egiziane insistono sulla pista del rapimento criminale di Giulio: pur ammettendo che fosse sorvegliato, definiscono ‘falso e illogico’ che sia mai stato in mano alle polizie. Eppure non tutto è immobile: poco prima della Festa della Polizia - quel 25 gennaio che coincise con l’inizio della rivoluzione - è giunta dal Cairo la notizia di un rimpasto interno agli apparati di sicurezza. Ad essere spostato è, fra gli altri, quel generale Tarek Saber che compare fra i quattro per cui la Procura romana chiede il processo. L’opacità dei regimi militari rende impossibile farsi un’idea chiara dei motivi dietro le singole decisioni: è però evidente il fastidio che suscita l’attenzione internazionale, fastidio si nutre della predilezione che la dittatura mostra per quanto le consente di riprodursi - tritacarne della repressione incluso. La figura di Saber, ad esempio, è associata anche alla decisione di arrestare i tre dirigenti di Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), di fatto l’ultima realtà di difesa dei diritti umani rimasta, e con cui collaborava Zaki. L’opinione pubblica internazionale e le diplomazie si sono prontamente mobilitate. È dunque plausibile che l’arresto sia parso un’inutile provocazione anche al Cairo. Nell’information age, il regime è infatti molto sensibile alla propria immagine quale baluardo di fermezza benevolente, che opera nel giusto contro la barbarie terrorista: cerca lusinghe e non tollera l’immagine di sé come golpista, nato con una carneficina e dedito alla repressione incivile. Si rasenta il parossismo: passa un minuto fra la notizia della scarcerazione dei tre dirigenti di EIPR con un ‘atto dall’alto’, e l’annuncio da parte dell’Eliseo del ricevimento di al-Sisi in pompa magna a Parigi, con tanto di imbarazzante conferimento della Legion d’Onore. In Egitto è pressoché impossibile usare telecamere: piazza Tahrir oggi non può essere ripresa, ma l’architettura è stravolta, a significare un nuovo inizio. La dittatura ha bisogno delle nostre tv che decantano il nuovo museo archeologico auspicando un ritorno del turismo, e di energy companies nostrane che promuovono l’immagine dell’”Amico Egitto”. All’indomani del ritrovamento del corpo di Giulio, scrivevo con Marina Calculli (il manifesto, 10.2.2016) che avevamo davanti una catena di comando segnata da rivalità, ma che vede la propria sopravvivenza come coesione fondata su un patto di omertà e impunità: in assenza di terzietà, verità e giustizia sarebbero state proporzionali al solo grado di determinazione dell’azione italiana. Ogni idea ispirata al tradizionale ‘cinismo di controllo’ realista avrebbe generato contraddizioni a cascata, sempre più insopportabili per l’interesse nazionale stesso. Molte voci si sono levate in questi anni a condannare come ipocrita la disgiunzione fra la pressante richiesta di cooperazione giudiziaria, e il business is business che guida la politica estera, incluso il boom delle forniture militari all’Egitto denunciato dai genitori di Giulio. In realtà non è solo una questione commerciale: c’è un malaccorto bisogno dell’Italia di ‘contare nel Mediterraneo’, producendo ‘geopolitica mediterranea’ (Di Maio) in uno scenario di accresciuta competizione, sullo sfondo dello scontro fra il fronte pro-islamista (Turchia, Qatar) e quello autoritario-tradizionale (Egitto incluso) guidato dagli altri paesi del Golfo e appoggiato da parte dell’Occidente (Francia) e Russia. È forse presto, oggi, per capire quanto reale sia il rapprochement fra Qatar e le altre monarchie del Golfo per decifrare l’impatto della politica estera trumpiana nella regione, o l’esito dello scontro fra Egitto ed Etiopia per le acque del Nilo. A dieci anni dalle rivolte arabe è però possibile dire che dove i militari hanno infine preso il sopravvento (dall’Egitto all’Algeria, dal Mali al Sudan) la situazione è precaria, e resta più instabile di quanto molti vogliano credere. Il riacutizzarsi del conflitto sociale in Egitto è la prova che crediti sauditi e opere faraoniche non bastano in un paese sempre più lacerato, nel quale proprio i militari sono accusati di perseguire nient’altro che il proprio interesse economico. È un errore strategico dare lo status quo per assodato. Il cambiamento sociale e politico era, in fondo, l’oggetto dello studio sul campo di Giulio: per quanto militari avvezzi a reclutare e reprimere potranno contenere, per esempio, le soggettività femminili scese in campo nell’ultimo decennio? Un tetro sottobosco di informatori, spie e agenti di sicurezza non poté credere che Giulio fosse uno studente, per quanto scrupoloso, capace ed acuto gli deve essere apparso: ed è paradossalmente proprio per questa incapacità che possiamo credere che il regime sia in fondo condannato. Le “primavere” giunsero inaspettate, dopo che gli alleati occidentali avevano per decenni riempito i dittatori di turno di aiuti e prebende. Nella storia il cambiamento procede per dinamiche carsiche che non sono esaurite. È grave che, alla luce di questo, manchi in Italia una visione strategica su come trattare con le dittature militari di cui si è circondata. Chi oggi, nel nome del realismo più trito, predica l’abbraccio calloso alle relazioni internazionali come eterna ripetizione, assenza di principio e cambiamento, mostra scarsa conoscenza della realtà e dei propri interessi. Ucraina. Omicidio Rocchelli, così un errore formale ha portato all’assoluzione del soldato di Giuliano Foschini La Repubblica, 29 gennaio 2021 Depositate le motivazioni della sentenza sull’assassinio del fotoreporter italiano: inutilizzabili le dichiarazioni di alcuni testimoni di accusa. A sparare contro Andy furono i soldati ucraini ma non è possibile stabilire chi. I genitori del giornalista: “Non ci arrendiamo. Attendiamo ancora giustizia”. Spararono dalla collina. E spararono contro dei “civili inermi”, il reporter italiano Andrea Andy Rocchelli e l’attivista per i diritti umani e interprete Andrej Mironov, era il 24 maggio del 2014 e Rocchelli e Mironov erano lì per documentare le difficoltà della popolazione del Donbass, durante la guerra civile ucraina. Spararono i soldati ucraini per “eliminare” quei civili: volvevano “difendere strenuamente quella posizione”, visto che sulla collina c’era un’antenna televisiva, affinché “nella zona circostante, nel raggio di uno o due chilometri, nessuno potesse avvicinarsi”. Non c’erano, però, abbastanza prove per confermare la condanna del soldato della guardia civile ucraina Vitaly Markiv, condannato in primo grado a 24 anni di reclusione per concorso in omicidio, e poi assolto in primo grado. Un’assoluzione, scrive però la Corte di appello di Milano nelle motivazioni alla sentenza, che arriva per un errore formale: le dichiarazioni prese dei militari e dei superiori di Markiv erano state raccolte senza la possibilità, che era loro dovuta, di non rispondere alle domande. “Dunque la prova va annullata”. “Non ci arrendiamo. Attendiamo ancora giustizia” spiegano i genitori di Andrea, Rino ed Elisa, assistiti dall’avvocato Alessandra Ballerini. “Si era gridato all’innocenza, dopo l’assoluzione - dicono - ma la sentenza d’appello mette invece una serie di punti fermi nella messa a fuoco della verità storica atto fattuale”. “La ricostruzione dei fatti - si legge nella sentenza - così come emerge dalle prove processualmente utilizzabili e dalle considerazioni svolte ai paragrafi che precedono, porta questa Corte a concordare con le conclusioni della Corte d’Assise di Pavia in merito alla provenienza dei colpi che hanno ucciso Rocchelli e ferito Roguelon e cioè dei colpi di mortaio sparati dalla collina Karachun ad opera dei militari dell’armata ucraina, dove erano nascosti i fotoreporter, il tassista e il civile […] essi erano quindi lì per svolgere la loro attività di fotoreporter […] L’attacco ha avuto luogo senza alcuna provocazione e offensiva né da parte loro né dei filorussi”. La Corte ritiene inoltre che, correttamente, lo “Stato ucraino era stato citato in giudizio in qualità di responsabile civile”. Un passaggio, dicono i Rocchelli, “che riteniamo straordinario: significa che l’immunità prevista per gli Stati non vale nel caso di violazione di diritti umani e crimini contro l’umanità. Sul testimone oculare, il francese William Roguelon, che era scampato per miracolo all’attentato, la Corte lo ritiene “pienamente attendibile”. Ma questo non basta per condannare Markiv: l’accusa, infatti, non è riuscita a provare che fosse in servizio sulla collina al momento dell’attacco, e che fosse proprio nella posizione da cui è arrivata la raffica di spari che ha ucciso Rocchelli e Mironov. I suoi colleghi avevano raccontato circostanze che, in primo grado, erano state considerate cruciali. Ma che, poiché raccolte “con vizio di forma”, non sono state considerate utilizzabili in Appello. Che per questo ha assolto Markiv. “Ma qui fatti esistono, non sono evaporati” dicono i Rocchelli. “In definitiva, a noi, parte civile nel processo, già da quasi sette anni impegnati, malgrado le strategie di elusione, di insabbiamento e di depistaggio perseguite dallo Stato ucraino, pare che, con questa sentenza e in virtù delle motivazioni ora rese pubbliche, si possa concludere che la nostra ricerca di verità abbia centrato il suo bersaglio, restando per la seconda volta accertate la dinamica fattuale e le responsabilità dell’attacco mortale contro inermi. Attendiamo ancora che sia fatta pienamente giustizia”. “Dopo aver letto la sentenza ritengo doveroso chiedere al governo italiano di reclamare dalle autorità ucraine le prove e le testimonianze. Ora tocca all’Italia far sentire la voce delle istituzioni”, rileva il presidente della Federazione nazionale della stampa, Giuseppe Giulietti. “Noi, di intesa con la famiglia e con i suoi legali, continueremo a chiedere verità e giustizia per Andy Rocchelli, perché - aggiunge - persino questa sentenza conferma che Rocchelli e Mironov sono stati uccisi dal fuoco ucraino. Sarà il caso di tornare a ripercorrere gli ultimi passi di Andrej e Andy”. Il Libano si infiamma, con proteste e feriti: “O si muore di fame o di Covid” di Pasquale Porciello Il Manifesto, 29 gennaio 2021 Terza notte di scontri ieri a Tripoli, tra le aree più colpite dalla crisi economica. I feriti sono in totale circa 200, alcuni sono in ospedale. Manifestanti con pietre e molotov, polizia con idranti, proiettili di gomma e lacrimogeni. Martedì altri blocchi sulle arterie principali nel resto del paese. Il premier incaricato Hariri in un tweet ha messo in guardia dalle strumentalizzazioni politiche della protesta. Costretto a scegliere tra morire di fame o di Covid, il popolo libanese viola le strettissime misure anti-contagio che hanno bloccato ulteriormente il Libano e quello che resta della sua economia disastrata. L’11 gennaio la Difesa ha indetto lo stato di emergenza sanitaria: dal 14 chiusura di tutte le attività - supermercati e ristoranti possono solo effettuare consegne a domicilio - eccetto quelle essenziali, divieto totale di spostamenti e coprifuoco dalle 17 alle 5. Durerà fino all’8 febbraio, ma non si esclude un prolungamento. All’emergenza si è arrivati dopo una pessima gestione sanitaria specie nel periodo natalizio quando per far girare l’economia c’è stato in pratica un liberi tutti che ha portato a un’impennata di contagi, ricoveri e morti. I numeri sono impressionanti - solo ieri 76 morti e 3906 contagiati in un territorio di 10mila km² - nonostante le stime siano al ribasso poiché la sanità è privata e sia cure che tamponi sono cari. I primi 50mila vaccini arriveranno solo dall’8 febbraio. Il ministro della salute Hasan si è impegnato a somministrare gratuitamente due milioni di vaccini nei prossimi mesi a libanesi e stranieri residenti e di raggiungere l’80% della popolazione entro la fine dell’anno. Il vaccino non sarà obbligatorio, ma altamente consigliato. Si protesta contro il governo che avrebbe dovuto provvedere ad aiuti prima di implementare le restrizioni. Il ministro ad interim per gli affari sociali Musharrafieh ha dichiarato martedì che tre quarti della popolazione, che è di sei milioni di abitanti, ne ha bisogno. Lo Stato avrebbe già cominciato a distribuire le 400mila lire libanesi mensili promesse a 230mila famiglie. Cifra in ogni caso irrisoria dato che la crisi cominciata nel 2019 ha portato il cambio lira-dollaro da 1500 lire a circa 9mila per un dollaro. L’inflazione è alle stelle, visto anche che il Libano produce solo il 20% del proprio fabbisogno. Generi di primissima necessità a prezzi proibitivi, quando reperibili. L’Onu stima che oggi metà della popolazione libanese è in stato di povertà, metà della quale è estrema povertà. C’è una forte e ampiamente prevista emergenza alimentare: nei casi migliori malnutrizione, negli altri fame. Intanto lo stallo politico non accenna a sbloccarsi. Dopo un momento di euforia iniziale, il 22 ottobre, per la nomina di Hariri appoggiata da Francia e Stati Uniti nel quale la formazione del governo sembrava questione di minuti, il gelo tra il quattro volte premier e il presidente Aoun non dà segni di scioglimento. Il Movimento Futuro, il partito del premier designato Hariri, che ha sempre sostenuto la necessità di un governo di tecnici al fine di uscire dall’impasse economica con il sostegno della Francia, accusa Bassil, capo del Partito libero patriottico e genero del presidente Aoun, di volere invece un governo o puramente politico o tecnico, ma con i partiti che abbiano potere di veto. L’Eliseo è intervenuto con un comunicato nel quale si dichiara la disponibilità di Macron e Biden a “lavorare insieme per il raggiungimento di pace e stabilità in Medio Oriente, in particolare riguardo alla questione del nucleare iraniano e alla situazione in Libano” e annuncia la visita a breve di Durel, consigliere di Macron per il Medio Oriente, mentre Hariri è atteso a Parigi. Nella telefonata di domenica sera il premier francese ha anche invitato il neo presidente americano ad avere un approccio “più realistico” su Hezbollah, data la situazione attuale. Nel mentre esplode la rabbia e la frustrazione di un popolo allo stremo. Abir Moussi, una leader per la nuova Tunisia: “Liberiamoci dall’Islam politico” di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 29 gennaio 2021 Parla la presidente del partito che ha raccolto l’eredità di Bel Alì, cacciato dalla rivoluzione del 2011: “Deve essere fatta una distinzione fra le proteste legittime dei cittadini affamati e le violenze dei criminali”. Abir Moussi è la conferma di una leggenda, quella che racconta le tunisine come donne forti e decise. Ha raccolto i cocci dell’eredità politica scomoda del presidente Ben Ali, cacciato dalla piazza dieci anni fa, rivendicando il mandato della tradizione laica di Habib Bourguiba, anche a costo di allontanare gli entusiasti della Rivoluzione del 2011. E oggi il Partito destouriano libero che guida è in testa ai sondaggi. Così una buona fetta del Paese guarda a questa avvocatessa di 45 anni con la speranza che possa traghettare la Tunisia fuori dalla crisi. Presidente, che cosa c’è dietro il malcontento dei tunisini? “La situazione è catastrofica. Lo dicono le cifre dell’economia: il Paese è indebitato fino al collo, lo Stato può destinare appena il tre per cento del bilancio agli investimenti, e questo significa che non c’è speranza di miglioramento. Oltre un quinto della popolazione vive sotto il livello di povertà. Ci mancava solo il Covid. E tutto in un contesto di grave instabilità politica, con un governo nuovo ogni trimestre”. Ma come valuta le manifestazioni e le proteste? “Bisogna distinguere: ci sono le proteste di chi ha fame, e ci sono le violenze dei delinquenti. Il ministero della Difesa ha già avvertito sulle possibili infiltrazioni di terroristi fra i manifestanti”. Qual è la via d’uscita per la Tunisia? “Noi abbiamo un programma preciso, ma il primo punto, il più importante, per uscire dalla crisi è chiudere del tutto con l’Islam politico. La situazione di oggi è frutto delle loro politiche, loro non credono nello Stato, lo vogliono sostituire. Abbiamo sentito persino l’offerta con cui proponevano di schierare i giovani militanti accanto alla polizia, contro i dimostranti”. Ma come si fa a eliminare dalla vita politica una fetta significativa del Paese? “Con la democrazia: le forze laiche e progressiste possono costituire una maggioranza e isolare gli islamisti. Se facciamo un’ampia alleanza, le riforme si possono fare senza di loro”. Resta il fatto che loro oggi rappresentano una realtà importante, non è così? “Senza le pressioni che fanno sulla giustizia, il loro peso sarebbe ridimensionato. Costruiscono alleanze sulla base dei dossier. In più, senza i finanziamenti illegali di Paesi come il Qatar e la Turchia non potrebbero andare lontano”. Che cosa comprende il resto del vostro programma? “Riforme economiche e sociali, spinta sull’industria pubblica, sul riequilibrio dei bilanci, sull’aumento della produzione. E riforma dell’istruzione, minacciata dall’oscurantismo degli islamisti”. Che cosa bisogna fare per attirare investimenti stranieri? “Serve stabilità politica, più sicurezza”. Lei non ha mai preso le distanze dall’esperienza di Ben Ali. Come la valuta? “Noi non facciamo riferimento al passato per nostalgia della persona Ben Ali, ma per la Tunisia che tutti conoscevano, con vocazione euromediterranea, stabile, sicura. E questa è stata dimenticata negli ultimi dieci anni”. Come si spiega la forza delle donne tunisine? “Dobbiamo essere forti perché siamo sotto la minaccia dell’oscurantismo”. Lei sottolinea l’esigenza di maggior sicurezza. Basterà per fermare i disperati sui barconi? “Solo se ci sarà un miglioramento sociale, con l’aiuto dei Paesi amici. Vogliamo ampliare i meccanismi di partnership che prevedono permessi di lavoro temporaneo, sulla base delle esigenze produttive dei Paesi europei. Fermare i meccanismi di traffico di persone, per esempio aumentando le pene per gli scafisti, vuol dire anche tagliare le fonti di finanziamento del terrorismo. Per batterlo dobbiamo anche prosciugarne le risorse”. Che pensa della Tunisia esportatrice di jihadisti? “È il risultato dell’influenza islamista. Dobbiamo tornare a esportare datteri, arance e cultura della tolleranza”.