Vaccinare i detenuti è una priorità di buonsenso: la buona politica agisce secondo ragione di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2021 La buona politica non segue ma precede. Un grazie dunque al governo per aver preso questa decisione. Non è una decisione popolare quella di includere i detenuti tra le categorie prioritarie rispetto alla vaccinazione anti Covid-19. Il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri, che nei giorni scorsi ha annunciato che subito dopo coloro che hanno più di 80 anni sarà il turno di chi in carcere è recluso e di chi vi lavora, non ha certo puntato su un’affermazione volta a raccoglierei consensi. È tuttavia una scelta di ragionevolezza e buon senso, oltre che una risposta con una precisa valenza etica. Una scelta sollecitata da più parti nelle scorse settimane, primi tra tutti dalla senatrice Liliana Segre e dal Garante Nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Nel Lazio, il Consiglio Regionale si è espresso favorevolmente, grazie al lavoro del Garante regionale Stefano Anastasia. Una scelta che poggia su considerazioni mediche oggettive. Scrive nell’ultimo numero della rivista Antigone dal titolo Have prisons learnt from Covid-19? How the world has reacted to the pandemic behind bars l’infettivologo di fama internazionale Aldo Morrone, direttore dell’Istituto San Gallicano e da sempre in prima linea, in Europa e in Africa, nella lotta alle malattie che colpiscono le fasce meno protette della popolazione: “Tra i gruppi sociali maggiormente a rischio, i detenuti occupano una posizione di primo piano. Le strutture penitenziarie sono epicentri per numerose malattie infettive, a causa di tre fattori macroscopici: 1. inevitabile stretto contatto in strutture spesso sovraffollate, scarsamente ventilate e poco igieniche; 2. scarso accesso al servizio sanitario; 3. rapidissima diffusione degli agenti patogeni tra detenuti, visitatori e staff, all’interno e all’esterno della comunità carceraria (comunicazione interno-esterno). Per questa ragione questi non luoghi costituiscono parte integrante della risposta della sanità pubblica al Covid-19”. Parte integrante della risposta della sanità pubblica. Qualora venga tralasciata, le ricadute sulla collettività intera rischiano di essere pesanti. Come è accaduto negli Stati Uniti d’America, dove le carceri hanno costituito un drammatico epicentro di diffusione del virus nella comunità circostante e dove i 19 focolai più vasti in assoluto si sono verificati in altrettante carceri. L’American Medical Association ha chiesto che i detenuti ricevano il vaccino assieme alle altre categorie identificate quali prioritarie. A oggi sono ben 4.040 i detenuti morti per Covid-19 e sono 242 i morti tra i componenti del personale penitenziario. Vi sono dunque motivazioni scientifiche, condivise tra coloro che la scienza medica la frequentano, per sottoporre le carceri al vaccino in via prioritaria. Ma vi sono anche ragioni etiche, valide per tutti coloro che guardano alla pena non come a uno strumento di vendetta che debba essere solamente afflittivo. Vaccinare le persone detenute permette, da un lato, di superare quello stato di terrore che si prova nel vivere in luogo chiuso, sovraffollato e poco rispettoso di norme igieniche, dal quale non si può uscire ma nel quale il virus può ad ogni momento entrare; dall’altro, permette di far uscire le carceri da quell’immobilismo nel quale la pandemia le ha precipitate, riavviando le attività scolastiche, lavorative, culturali, sportive così come si conviene a una pena che guardi al fine costituzionale del futuro reintegro in società della persona condannata. La decisione governativa annunciata da Arcuri è poco popolare. Nonostante la sua ragionevolezza, si sentirà dire che i detenuti se la sono cercata e che non si possono sprecare dosi di vaccino per loro. È dunque ancor più meritorio che il governo sia andato in questa direzione. La buona politica non rincorre le decisioni popolari ma agisce secondo ragione e spiega le proprie azioni così da spostare l’asse della popolarità. *Coordinatrice associazione Antigone Silenzi di Stato di Sergio Segio dirittiglobali.it, 28 gennaio 2021 Da oltre dieci lunghi mesi è sceso un silenzio pressoché totale sulle 13 persone detenute morte in carcere nel marzo 2020. Una strage senza precedenti. E senza verità e giustizia. Ci sono voluti oltre dieci mesi. Più di quaranta lunghe e strane settimane, di questo periodo così difficile per tutti e non ancora alle spalle. Periodo nel quale, volendo, tutti avrebbero potuto provare a immaginare cosa dev’essere vivere settimane, mesi, anni e addirittura decenni in un lockdown totale e permanente, in spazi angusti e ostili, senza socialità, né svago o diversivi, persino privati della possibilità di vedere i propri cari, costantemente sottoposti a frustrazione e impotenza, talvolta a rabbia e violenza. Certo, è difficile immedesimarsi, anche perché occorrerebbe prima separarsi dai propri pregiudizi, dalla facile scappatoia morale: “se la sono cercata”. Se però ci si riuscisse, si guarderebbe forse con altri occhi al mondo del carcere e anche alle proteste che nel marzo scorso hanno scosso le prigioni, devastandone in particolare una, quella di Modena, e lasciando un perdurante strascico di conseguenze, sofferenze, inchieste, condanne: il 18 gennaio sono cominciate a Milano le udienze nel procedimento che vede imputati 22 detenuti accusati di resistenza, lesioni e incendio che in quei giorni si trovavano nel carcere di Opera. Nessun processo è stato - per il momento - invece istruito e definito per la vicenda più grave di quei giorni: la morte di ben 13 persone recluse. Più grave pensiamo e diciamo noi, ma non pochi, diversamente, sembrano considerare tale la distruzione di arredi e cancelli. Cosa c’è stato dietro le rivolte - Si è trattato di una vera e propria strage, subito attribuita “perlopiù” all’abuso di metadone e psicofarmaci e immediatamente rimossa dall’attenzione pubblica. Anche in quel caso molti avranno pensato: “se la sono cercata”. Alcuni, per la verità, lo hanno pure detto o scritto. Nessuno si è soffermato a riflettere su cosa stia a indicare il fatto che nelle rivolte di quaranta o cinquanta anni fa gli insorti cercavano di arrivare all’armeria o al muro di cinta delle prigioni, mentre in questo caso l’assalto è stato dato alle infermerie, come ha osservato il solo Franco Corleone. Innescata dalla paura del contagio, nella penuria di informazione, e dall’ansia per i parenti all’esterno, con i colloqui sospesi senza troppe spiegazioni, la preoccupazione nelle celle si è tradotta in rivolta. Tesa non tanto a fuggire, come pure è avvenuto a Foggia, quanto, appunto, a ricercare calmanti chimici per lenire o stordire quell’unica dimensione in cui sono costretti a vivere i reclusi: la sofferenza e la disperazione. Senza più sbocchi e illusioni, dopo l’ultima beffa dell’annoso lavoro degli Stati generali sull’esecuzione penitenziaria, e delle proposte riformatrici scaturitene, buttati nella spazzatura dalla pavidità dei governanti di allora. Così la strage del marzo 2020 è stata rapidamente archiviata, con le tante ombre, le contraddizioni, le omissioni, le lacunose e risibili versioni ufficiali. Il muro di gomma e i segreti di Stato - Ora, dieci mesi dopo, pare aprirsi qualche piccola crepa in quel muro di gomma e di indifferenza. Media importanti come il quotidiano “la Repubblica” e la trasmissione “Report” della Rai e, prima di loro, il quotidiano “Domani” e prima ancora l’agenzia Agi, hanno finalmente dedicato inchieste e commenti agli avvenimenti di marzo. Per contribuire a determinare questa novità c’è voluta la determinazione e la costanza di singole persone aggregatesi in un “Comitato per la verità e la giustizia sulle morti in carcere” e di quanti hanno continuato a porre domande scomode e a sollecitare risposte, a cercare testimonianze, a raccogliere informazioni: blog e siti web indipendenti, giornalisti free lance, gruppi locali di attivisti, alcuni piccoli giornali, qualche avvocato. Sono stati loro, siamo stati noi, a tenere aperta e a sollecitare la possibilità che si rompesse almeno un anello della catena di silenzi, omertà, inadempienze, prudenze. Quel che più colpisce di questi tragici avvenimenti, tutto sommato, non è tanto la rocciosa indisponibilità delle istituzioni e dello Stato, delle forze politiche e del governo di ricostruire l’accaduto (va sottolineato, visto che si finge di nulla: di inedita gravità nella storia delle carceri repubblicane, se non altro nella numerosità delle vittime), di attribuire - e di assumersi - le responsabilità, di chiamare a rispondere. Insomma, di fare chiarezza e promuovere giustizia. La storia di questo paese è, difatti, densa di segreti di Stato e di armadi della vergogna. L’impunità è una costante nella storia delle classi dominanti. L’omertà è un collante bipartisan che garantisce la stabilità e la continuità del sistema e dei suoi apparati, specie di quelli repressivi. Nulla di nuovo, dunque e purtroppo, pur se in altre epoche storiche, anche non troppo distanti temporalmente, erano stati sicuramente maggiori i contrappesi e le resistenze: in parlamento, nella società, nei media, nelle professioni, nelle associazioni. Sia pure in aree minoritarie e circoscritte, è sempre esistita la capacità, civile e democratica, di chiedere conto e qualche sporadica volta persino di ottenerlo. Le prudenze, i silenzi e le omissioni - In questa vicenda, invece, spicca la debolezza, l’assenza o l’eccesso di prudenza proprio di quelle aree e di quei soggetti, consuetamente pronti a impegnarsi in battaglie di garanzia, trasparenza e diritto. Le interrogazioni parlamentari si contano sulle dita di una mano, rimaste senza risposta; alla prima, dell’on. Magi, è stato dato un riscontro puramente formale, evasivo nel merito e totalmente insoddisfacente nei contenuti. Mentre il disagio nelle carceri - anche a causa del suo nascondimento - cresceva e, così pure, la violenza illegittima (ma andrebbe definita tortura) contro i reclusi. Nulla è stato fatto per prevenirli. Anzi, l’accantonamento dei fatti di marzo non poteva che essere inteso come un “via libera” da chi pensa che le carceri si governino con la forza e l’arbitrarietà. A denunciarlo, nel merito e con forza, il Garante regionale della Campania, Samuele Ciambriello e di quello di Napoli, Pietro Ioia, che per questo hanno subito attacchi da parte di sindacati di polizia penitenziaria. In specifico, la loro iniziativa - coerentemente con il proprio mandato, funzioni e doveri - ha insistito sul pestaggio di massa, le torture e le spedizioni punitive avvenute a danno dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere, dopo che questi avevano fatto una pacifica protesta all’inizio dello scorso aprile. “La mattanza della Settimana Santa” l’ha definita la locale procura, che ha infine messo sotto accusa ben 144 agenti della polizia penitenziaria: per una volta, i professionisti della minimizzazione avranno qualche difficoltà a parlare di singole “mele marce”. Un episodio che, per dinamica ed estensione, ricorda il massacro di San Sebastiano, avvenuto a Sassari dell’aprile 2000, con decine di detenuti percossi a sangue per interi giorni. Tornando ai morti di marzo, colpisce e stupisce invece non siano note analoghe iniziative da parte di Garanti territorialmente competenti rispetto alle carceri dove vi sono state le rivolte e i decessi. A partire dalla richiesta ed esame della documentazione sui controlli medici, in partenza e in arrivo, sui detenuti trasferiti da Modena e dagli altri istituti penitenziari. Un aspetto centrale e determinante, di cui si è tornati a parlare solo grazie all’esposto di cinque detenuti, che ha riaperto il discorso e costretto i magistrati a riprendere le attività di inchiesta. La loro denuncia, tra le tante cose, mette in evidenza, nero su bianco, quel che era già chiaro a chiunque volesse vedere e capire: l’omissione o la superficialità - sempre non vi sia stata addirittura falsificazione nelle certificazioni - negli accertamenti sanitari, obbligatori per legge. Il coraggio della denuncia - È significativo, e anche triste, che ora la riapertura dell’attenzione dei media e dei magistrati sulla strage di dieci mesi fa sia avvenuta solo grazie all’anello più debole ed esposto: i reclusi stessi. Già vittime di violenza, facilmente minacciabili, ricattabili e soggetti a pressioni, dirette e indirette. Come quella di riportarli inizialmente nello stesso carcere di Modena in cui hanno denunciato di aver subito pestaggi, loro e i loro compagni, compresi quelli poi deceduti. Tace e continua a tacere il ministero e il governo nel suo insieme. Assente il controllo parlamentare. La cappa del silenzio, evidentemente, ha funzionato in un gioco di specchi e di reciprocità negative: la rinuncia a indagare da parte dei media ha indotto e consentito alla politica e alle istituzioni di tacere e di voltarsi da un’altra parte. Le forze, associazioni, singole e autorevoli personalità impegnate sui diritti umani e sul carcere hanno concentrato l’impegno sul promuovere misure deflattive anti-Covid e sulla garanzia di priorità delle vaccinazioni anche per i detenuti. In tutto ciò, la strage di marzo e la denuncia sull’occultamento della verità non hanno trovato spazio e gambe organizzate. Sicuramente ha pesato la subitanea - e priva di riscontri - versione di potenti e ascoltati procuratori antimafia, propagandata e amplificata da tutti i media, che attribuiva la regia delle rivolte alla criminalità organizzata e che è arrivata a costringere alle dimissioni l’allora capo dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini. Una campagna politico-mediatica che ha contribuito al silenzio e alla rimozione della vera e tragica notizia di quei giorni, vale a dire l’eccidio di detenuti, e alle prudenze al riguardo. Questo è il quadro, dieci mesi dopo. I pochi spiragli aperti dal coraggio dei detenuti che hanno mandato ai magistrati l’esposto e dal soprassalto di attenzione di alcuni media, naturalmente, rischiano presto di chiudersi se non si metterà in moto una più vasta capacità di pressione politica, di denuncia, di informazione e di mobilitazione. Si avvicina l’anniversario della strage. È una buona - forse l’ultima - occasione per allargare le poche crepe aperte e provare a fare finalmente crollare il muro della vergogna. Per ottenere quella verità e giustizia indispensabili a confermare una fiducia nella democrazia e nello Stato di diritto che è stata pericolosamente indebolita. A questo stiamo lavorando. Emilia Rossi: “La tutela dei detenuti non è un lusso ma riguarda tutti noi” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 28 gennaio 2021 “La tutela dei detenuti riguarda tutti, nel momento in cui lo Stato prende in custodia delle persone, ha la responsabilità della tutela della loro salute insieme agli altri diritti fondamentali”. Lo ricorda, a ragione, Emilia Rossi, componente del Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Tanto più durante la drammatica emergenza sanitaria che ha spinto il Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma e la senatrice a vita Liliana Segre a firmare un Appello in favore di una tempestiva somministrazione del vaccino all’interno delle carceri. L’appello del Presidente Palma e di Liliana Segre ha sollevato, oltre alla pronta risposta del sottosegretario Dem alla Giustizia Andrea Giorgis, significative riflessioni in merito. Siete soddisfatti delle reazioni ottenute? Possiamo dirci soddisfatti alla luce dell’impegno annunciato dal Commissario Arcuri nella conferenza stampa del 21 gennaio, di prevedere che persone detenute e personale penitenziario possano completare la vaccinazione in un momento successivo a chi ha più di 80 anni. Ora attendiamo la traduzione in pratica di questa previsione ma il punto rilevante è che sono considerate insieme, come soggetti destinatari di priorità per la particolare esposizione al contagio, persone detenute e persone che lavorano negli Istituti. Era il principio dell’appello e constatiamo con soddisfazione che sia stato raccolto dalle Istituzioni. “Il mondo di dentro” va trattato come “il mondo di fuori”: questo sembra essere uno degli approdi delle riflessioni di politici e costituzionalisti. Anche qui, come all’esterno, dovrebbero vigere le stesse regole di somministrazione? L’appello del Presidente Palma e della senatrice Segre ha indicato la necessità di un percorso prioritario: non possono essere accomunate le situazioni delle comunità chiuse a quelle delle comunità aperte e libere. Innanzitutto perché risentono di tutti i rischi determinati dalla necessaria promiscuità. Nel carcere, più che in altre strutture chiuse, stanze e ambienti comuni sono condivisi e non consentono il rispetto delle regole di distanziamento fisico dettate per il mondo libero. Le persone che vi entrano spesso, si portano dietro patologie pregresse e deficit di cure e assistenza. Il carcere, al pari delle Rsa, per citare una situazione che è diventata chiusa con l’emergenza sanitaria, è un mondo permeabile dall’esterno, aperto all’ingresso di tutte le persone che vi lavorano e vi operano. Trova che siano state stanziate risorse sufficienti o introdotte misure adeguate per fronteggiare il sovraffollamento, su cui ha posto l’accento la stessa Consulta... Nei 190 istituti penitenziari sono disponibili circa 47.000 posti. Ad oggi, la popolazione detenuta consta all’incirca di 52.500 persone. Un trend di diminuzione della popolazione carceraria, pur se lieve, c’è stato; non sufficiente, tuttavia, rispetto alle esigenze che il Garante Nazionale ha sempre evidenziato. Le misure adottate hanno portato a risultati relativi che comunque vanno tenuti in considerazione, ma non sono sufficienti. Quando si è trattato di discutere degli emendamenti al decreto legge 130/2020 - che, tra le varie misure di prevenzione della pandemia, ne inseriva nuovamente alcune destinate a diminuire la popolazione penitenziaria - abbiamo presentato diversi emendamenti: fra questi la previsione della liberazione anticipata speciale, estesa a 75 giorni per semestre, e la sospensione dell’emissione dell’ordine di carcerazione, oltre a una serie di correttivi che avrebbero assicurato maggiore efficacia alle norme già introdotte. L’idea di fondo è che la capienza degli istituti penitenziari non vada colmata fino alla saturazione ma ammetta la possibilità di spazi disponibili da utilizzare per affrontare eventuali emergenze. Ad esempio, in piena crisi sanitaria, gli istituti dovrebbero poter disporre di spazi da impiegare per l’isolamento di eventuali contagiati. Come giudica il lavoro dell’informazione sulla situazione sanitaria all’interno delle carceri? Occorre avere molta cura, però - e questo è un compito demandato sia al mondo dell’informazione che alle sue fonti - di evitare che la preoccupazione si trasformi in allarmismo. C’è una comunità dolente, all’interno degli istituti, alla quale corrisponde una comunità altrettanto dolente che si trova all’esterno, costituita dalle famiglie sia delle persone detenute che di quanti vi lavorano: entrambe hanno diritto e bisogno di ricevere informazioni corrette senza essere spaventate da voci d’allarme. Gridare dell’impennata di contagi, come avviene spesso in questi giorni, desta panico e allarme. I dati vanno riportati alla realtà: non c’è un’impennata all’interno delle carceri, c’è un andamento da sorvegliare: il 14 gennaio risultavano 718 positivi, di cui 681 asintomatici, soltanto 11 sintomatici e 26 ricoverati in ospedale. Il 16 gennaio, i detenuti positivi erano 715 - quindi, sia pure di poco, diminuiti -, di cui 679 asintomatici. Oggi, ci sono in tutto 663 casi postivi, di cui soltanto 40 sintomatici, 20 dei quali sono in ospedale. La prevalenza assoluta delle persone asintomatiche, quindi, è il dato che si conferma stabilmente. Tutto questo non vale in alcun modo a diminuire le dimensioni della serietà della situazione che, anzi, richiede misure urgenti proprio perché non diventi incontrollabile. Vale, però, a rappresentare lo stato delle cose come è e a scongiurare l’allarme che danneggia più di tutti proprio le persone che si vogliono tutelare. Come giudica il linguaggio con cui si parla della popolazione carceraria dallo scoppio della pandemia? Il discorso pubblico sul carcere non è cosa legata all’emergenza della pandemia, ma risente di sentimenti e di opinioni radicati nel tempo che lo inquadrano come un corpo estraneo rispetto alla comunità, in cui l’obiettivo da perseguire è la punizione, l’estromissione dal contesto civile, magari per sempre, come si intende quando si parla di “buttare via la chiave”, e non il recupero alla società della persona che ha commesso un reato. Durante la contingenza della pandemia abbiamo riscontrato un inasprimento di questi atteggiamenti e, in particolare, la mancanza d’interesse e di attenzione nei riguardi del carcere, come non vivesse la stessa situazione di dolore e di paura del resto della società e anzi, come alcuni hanno sostenuto, fosse un luogo persino più sicuro, dove il Covid-19 non poteva entrare. Durante la prima fase dell’emergenza abbiamo contrapposto a queste distorsioni la descrizione dell’effettivo stato delle cose e la sollecitazione di riflessioni diverse, con la pubblicazione quasi quotidiana del Bollettino del Garante nazionale, oggi ancora leggibile sul sito. Il recupero di una cultura diversa, rispettosa dei principi di civiltà e dello Stato di diritto, è un lavoro lungo che richiede oltre che tempo, grande impegno, su tutti fronti. Ma il risultato è di importanza fondamentale proprio per la tenuta della nostra civiltà: vale la pena della lunga strada e della grande fatica. Epatite C nel mondo carcerario, la situazione italiana di Davide Cavaleri pharmastar.it, 28 gennaio 2021 Il carcere è un luogo in cui si concentrano problematiche sociali e di salute, in special modo riguardo alle malattie infettive come Hcv e Hbv. Il monitoraggio nel corso degli anni della prevalenza dei virus a trasmissione ematica in questo ambito mostra un trend in netta riduzione, in gran parte dovuto alla disponibilità di farmaci antivirali molto efficaci. Se ne è discusso al recente congresso della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (Simit) 2020. La realtà carceraria italiana è costituita da 189 istituti penitenziari sul territorio nazionale, per un totale di circa 105mila detenuti nell’anno 2019. Al 30 novembre 2020, a fronte di una capienza di 50mila posti letto, erano presenti oltre 54mila soggetti con conseguente sovraffollamento (7,5%). “Una delle poche note positive della pandemia Covid è stata la riduzione degli ingressi in carcere negli ultimi mesi del 2020 (oltre il 20% in meno rispetto ai dati di gennaio 2020)” ha fatto presente il relatore prof Sergio Babudieri, Direttore della UOC Malattie Infettive e Tropicali dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Sassari e Direttore Scientifico della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe). Alto rischio di infezioni virali in carcere - In Italia un detenuto su tre ha commesso reati contro il testo unico per la lotta agli stupefacenti ed è verosimile che abbia o abbia avuto in passato una storia di rischio per infezioni da virus trasmissibili per via ematica e sessuale. La popolazione carceraria differisce da quella generale in quanto costituita da individui che presentano spesso problemi di salute nonostante un’età media non elevata, e allo stesso tempo beneficiano di un accesso ridotto all’assistenza sanitaria prima della condanna. Gran parte dei detenuti hanno una storia di comportamenti sessuali ad alto rischio, uso di droghe per iniezione e tatuaggi. Per questi motivi presentano frequentemente coinfezioni, come epatite B (HBV) e HIV. Considerata l’elevata prevalenza di infezioni e la potenziale adozione di comportamenti a rischio negli istituti di pena (scambio di siringhe, rapporti omosessuali), le carceri sono luoghi che favoriscono la trasmissione di virus per via ematica. In aggiunta, una volta tornati in libertà, i detenuti infetti possono contribuire alla diffusione dei virus nel resto della comunità. “Secondo le stime dalla Simspe, dei 105mila detenuti possono essere positivi all’HCV anche il 20% (circa 21mila), la metà dei quali possono essere viremici (10%), il 5% vengono stadiati e il 4% trattati, con l’auspicio che quindi almeno 4 su 5 vengano avviati alla terapia antivirale” ha affermato Babudieri. Progetto di microeradicazione - Per rispondere agli obiettivi dell’Oms in merito all’eradicazione dell’HCV entro il 2030, la Simpse ha messo in atto un piano di microeliminazione dell’infezione in ambito penitenziario (Figura 1) approvato dall’Istituto Superiore di Sanità. Un’altra criticità in questo ambito era l’infezione da HIV ma, grazie alla disponibilità delle attuali terapie antiretrovirali, dal 2001 al 2018 la prevalenza dei detenuti positivi al virus è passata dall’8,4% all’1,8%. La microeliminazione prevede di operare per singola sezione detentiva (50-60 soggetti) quindi su gruppi ristretti di detenuti, previa un’educazione sanitaria specifica su come si intende procedere e quale messaggio veicolare. Successivamente viene effettuato lo screening tramite i nuovi e più maneggevoli test salivari e vengono supportati in maniera attenta quanti risultano sieropositivi. In questo modo si monitora la prevalenza all’interno di una data sezione, si effettua la stadiazione clinica dei soggetti positivi, si avviano le terapie e si eradica il virus. Sezione dopo sezione si copre l’intero istituto e a quel punto sarà sufficiente effettuare un’attività di screening per i nuovi entrati per avere il controllo totale nel tempo. Su una popolazione studiata di 2.687 soggetti il 4,6% (122) ha rifiutato la fase di educazione e quindi il test rapido e il 7% (189) era disponibile al percorso ma è stato rilasciato prima, così sono stati effettuati un totale di 2.376 test (88,4%), per una risultante siero-prevalenza del 10,4% (248) e una sieropositività a HCV-Rna del 40,7% (101/248). “A testimonianza della bontà del progetto, a fronte degli 84 pazienti trattati, le perdite in un ambiente difficile come quello penitenziario sono state soltanto di due soggetti, perché allontanati dalla detenzione durante la terapia” ha aggiunto. “Questi risultati confermano la bontà della scelta di non operare sin da subito su tutto l’istituto ma per singola sezione detentiva e quindi focalizzandosi di volta in volta su un numero contenuto di persone”. “Dare ai detenuti una corretta educazione sanitaria significa poi avere dei risultati a valle che sono effettivamente fattibili e dimostrano la fattibilità di intervenire anche in un ambito così difficile” ha concluso. “I nuovi farmaci hanno avuto in questo un ruolo importante e lo si evince dal confronto degli studi condotti dal 2013 al 2020, passando quindi dall’epoca degli interferoni in cui il numero dei fallimenti era particolarmente elevato (oltre un terzo) agli antivirali ad azione diretta (DAA) di seconda generazione ma limitati ai pazienti in stadio avanzato (F3-F4), fino a oggi in cui sono impiegabili nei soggetti da F0 a F4 con conseguente azzeramento dei fallimenti”. Cisco Italia: “Pronti a donare sale per videoconferenza a tutte le carceri italiane” Libero, 28 gennaio 2021 Sale videoconferenze in tutte le carceri italiane, per permettere a tutta la popolazione detenuta, in particolare modo le donne, di potere mantenere collegamenti audio video con i propri cari, nel perdurare delle maggiori restrizioni alla socialità imposte da quasi un anno di Covid ai detenuti e alle detenute. È questa l’offerta di Cisco Italia al sistema penitenziario nazionale, totalmente gratuita, in quanto inclusa nel programma di responsabilità sociale dell’azienda leader nel settore del networking e intelligenza artificiale. “Siamo pronti a prendere l’impegno di dotare tutti gli istituti di pena italiani dei servizi di connessione e di formazione a distanza già installati e avviati in 55 carceri”, ha affermato l’amministratore delegato di Cisco Italia, Agostino Santoni, nel corso di un confronto webinar nel ciclo dei “talk resilienti” promossi dalla Vento e Associati. L’azienda è già oggi impegnata in 55 carceri con Cisco Academy, il progetto di formazione a distanza destinato alla popolazione detenuta. Con la proposta dell’Ad Santoni l’iniziativa potrebbe coprire il fabbisogno di contatti e relazioni virtuali delle altre 128 case di reclusione italiane Il Piano per la giustizia diventa un elenco di cifre. Verso l’uscita Bonafede (attore di due crisi) di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 gennaio 2021 Doveva essere il giorno dell’orgoglio e della battaglia: l’autodifesa del ministro della Giustizia che respinge le accuse di giustizialismo e sfida il Parlamento a schierarsi al suo fianco per sfruttare al meglio i 2 miliardi e 700 milioni di finanziamenti europei necessari ad accelerare processi e procedure. E rendere più moderno il Paese, di nuovo appetibile per investitori italiani ed esteri. Poteva essere una trappola per cadere o un trampolino per il rilancio; in ogni caso l’occasione per rivendicare il proprio molo. Invece niente. La relazione del Guardasigilli Alfonso Bonafede sullo stato della giustizia In Italia è diventata una burocratica e asettica elencazione di numeri e interventi - fatti e da fare - buona per gli uffici e per gli archivi, inviata ai presidenti di Camera e Senato senza commenti né considerazioni politiche. Un’uscita di scena dalla porta di servizio, insomma. Giustificata, spiegano in via Arenula, dal fatto che “il ministro di un governo dimissionario può solo limitarsi agli affari correnti e quindi non può spingersi sul terreno dell’attività di Indirizzo”. Così, a parte le cifre, nella relazione è rimasto solo “quello che doveva essere il punto forte del discorso, cioè lo stretto e oggettivo legame fra il Recovery pian e le riforme in tema di giustizia chieste dall’Europa, cui le risorse sono condizionate”. Resta il non detto, che però ieri sera veniva esplicitato nelle stanze del ministero: “Bloccare le riforme rischia di bloccare tutti i fondi del Next Generation Ue, dunque meglio lavorare in Parlamento per approvarle e semmai migliorarle”. Ma più che il programma di Bonafede, diventa la sua eredità. Perché seppure nulla è deciso, sembra assai probabile che non sarà lui il Guardasigilli del prossimo governo, Anche se a Palazzo Chigi dovesse rimanere Giuseppe Conte, il “signor nessuno saltato fuor dal cilindro a cinque stelle proprio su indicazione del deputato grillino di origini siciliane, laurea in Giurisprudenza e studio legale a Firenze, dove ha conosciuto l’avvocato futuro premier. Dovesse nascere un Conte ter con l’appoggio dei “responsabili” di centro o di centrodestra, è presumibile che avverrà con un ricambio alla Giustizia. E figuriamoci se Italia Viva dovesse rientrare in maggioranza, dopo che ne è uscita additando Bonafede come pietra dello scandalo. Strano destino, per l’unico ministro “politico” (l’altro e il “tecnico” Sergio Costa, all’Ambiente) rimasto al suo posto sia nel Conte 1 che nel Conte bis. Il cui operato è stato preso a pretesto per far cadere il governo sia da Salvini nel Conte 1 che da Renzi ora. Battendo sempre sullo stesso tasto: l’abolizione della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado, che doveva accompagnarsi a ulteriori e strutturali modifiche per velocizzare I processi rimaste sulla carta. Da quando fu inserita quasi di soppiatto nella legge che Bonafede battezzò “spazza-corrotti”, con un emendamento dell’ultima ora firmato da una deputata grillina, lo stop alla prescrizione è diventata materia di scontro. Prima con gli ex alleati leghisti, poi con gli ex alleati renziani. Con il Pd meglio disposto a compromessi, ma ugualmente contrariato dalla resistenza del Guardasigilli a difesa della sua “conquista di civiltà”. Con la stessa fermezza ha rivendicato altre contestate norme anticorruzione, come l’utilizzo del trojan; “possiamo andare a testa alta nel mondo”, ha ribadito 15 giorni fa, mentre la scorsa settimana ha fieramente annunciato il decreto che amplia le possibilità di deposito telematico degli atti nel processo penale. Lo avrebbe ripetuto ieri, forse lo farà domani in Cassazione, al l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Resta in dubbio, invece, l’intervento previsto per sabato nella nuova aula-bunker di Lamezia Terme, voluta e realizzata su richiesta del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri; bisogna decidere se rientra negli “affari correnti” oppure no. Un altro guardasigilli o la svolta sulla prescrizione. Le condizioni di Renzi di Errico Novi Il Dubbio, 28 gennaio 2021 Oggi Italia viva salirà al Quirinale con una richiesta chiara: una svolta sulla giustizia penale, oltre che sul Recovery. “Ci siamo battuti senza rete. Sappiamo che d’ora in poi non sarà così, il conflitto sulla giustizia non ci vedrà più isolati nella maggioranza”. Un big di Italia viva parla in questi termini dell’innesco da cui è venuta la crisi: le norme sul processo. Ed è vero: se qualcosa è cambiato, con le dimissioni di Conte, è nei futuri rapporti di forza sulla giustizia. Riscriverli sarebbe la prima richiesta di eventuali nuovi innesti, se il perimetro della maggioranza si ampliasse. Pretenderebbero l’addio all’assolutismo penale del Movimento 5 Stelle. Come ha lasciato intuire ieri, in un’intervista al Corriere della Sera, Luigi Vitali, senatore forzista di frontiera, le ulteriori adesioni centriste a un eventuale Conte ter richiederebbero una svolta sulla prescrizione. Da qui discende tutto il resto. Tutta la storia di una crisi che si è aperta sulla giustizia e si chiuderà solo con una nuova formula magica sul processo penale, o sul nome del guardasigilli. Fin qui ha pesato la fatalità del calendario. Come per la Relazione annuale di Bonafede. Renzi l’ha messa subito nel mirino, e il ministro non poteva cambiare il corso della partita, perché quel passaggio parlamentare deve necessariamente svolgersi prima di domani, giorno in cui è prevista l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Ieri si sarebbe dovuto votare alla Camera e poi al Senato sul documento di via Arenula. Le dimissioni di Conte hanno consentito di evitare lo showdown sulla Relazione del guardasigilli, surrogata dalla semplice presentazione di un testo scritto alle Camere (non ancora avvenuta, peraltro, fino alla prima serata di ieri). Altro snodo temporale suggestivo e fatale: il calendario delle consultazioni. Italia viva sarà ricevuta da Sergio Mattarella alle 17.30 di oggi: chiederà che un eventuale Conte abbia una impostazione nettamente diversa sul processo penale, con un chiaro impegno a rivedere innanzitutto il blocca-prescrizione. Unica alternativa contemplata da Renzi: un nuovo ministro della Giustizia. Il Movimento 5 Stelle incontrerà il presidente della Repubblica esattamente 24 ore dopo, cioè domani alle 17. Dovrà dire come pensa di riavvicinarsi a Italia viva. E se non lasciasse margini sulla giustizia, un nuovo incarico a Giuseppe Conte diventerebbe problematico. In quel preciso istante potrebbe aprirsi la prospettiva subordinata che Renzi ha in mente: un governo davvero diverso, con una base parlamentare diversa, con Italia viva, con il neonato gruppo degli Europeisti responsabili e forse altri berlusconiani borderline. “E a quel punto”, ricorda la fonte renziana evocata all’inizio, “è chiaro che al ministero della Giustizia non potrebbe restare Bonafede”. Dal guardasigilli uscente, insomma, dovrebbe venire per forza una resa. La sua uscita di scena è, certo, ipotesi complicatissima per i 5 stelle. Seppur penalizzato dall’ostilità di diversi parlamentari del Movimento, Bonafede è diventato ancor più un simbolo dopo l’offensiva renziana. E un cedimento sulla sua figura preluderebbe a una ritirata grillina sulla giustizia, quindi sulla prescrizione, cioè su un principio identitario irrinunciabile. Non a caso, un giornale attento all’ortodossia pentastellata sulla giustizia come il Fatto quotidiano ieri ha dato ampio spazio a una lettera sottoscritta dai familiari delle vittime della strage di Viareggio: la norma di Bonafede sulla prescrizione, scrivono, “nasce dalle nostre battaglie, dal sangue dei nostri cari” e “se dovrà essere rimessa in discussione in Parlamento respingeremo ogni forma di solidarietà da parte della politica di ogni colore”. Su quel punto non si transige, è il messaggio. Che sembra dar voce all’elettorato profondo del Movimento. Ma quale concessione potrà fare allora Bonafede a Italia viva? I suggerimenti arrivano ora anche dal Nazareno. È Andrea Orlando, vicesegretario dem, a chiedere che la norma sulla prescrizione venga stemperata da un correttivo efficace: almeno uno sconto di pena per l’imputato sottoposto a un processo troppo lungo, se non quella “prescrizione processuale” suggerita persino dal presidente emerito della Cassazione Giovanni Canzio. L’unica possibile alternativa è sospendere l’efficacia del blocca- prescrizione di almeno un anno, in modo da approvare prima la riforma del processo penale. È il lodo Annibali targato Italia viva. E la sostanziale convergenza fra dem e renziani sul nodo più intricato della crisi lascia intendere quando difficile sia ormai la strada per Conte e per Bonafede. D’altronde ora Renzi non si accontenta più della “commissione Caiazza”. Cioè dell’organismo ministeriale da lui stesso sollecitato al guardasigilli quasi un anno fa, e per il quale aveva indicato come possibile guida Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali. Si dirà: ma tutto ruota attorno alla prescrizione? E il resto? Le crisi si decidono sui simboli, sui totem. Si trovasse l’alchimia complicatissima, per tenere ancora una volta insieme 5 stelle e renziani, potrebbero discenderne interessanti sviluppi proprio in materia di giustizia. Ad esempio sul Recovery, sull’uso di quei 2 miliardi e 750 milioni ottenuti da Bonafede come quota del Piano di ripresa da destinare ai tribunali. Serviranno ad assumere 1.600 magistrati, all’ufficio del processo, all’edilizia giudiziaria e al digitale. Trovata la formula magica sulla prescrizione, potrebbe aprirsi tutt’altro scenario: Renzi che offre un contributo sul Recovery di Bonafede. Cioè sullo sviluppo prospettico di quella Relazione sulla giustizia da cui è nata la crisi. A proporre idee, ha provveduto intanto il Cnf, la massima istituzione dell’avvocatura, con un documento di 111 pagine consegnato nei giorni scorsi al guardasigilli. Chissà che in capo a una delle crisi più indecifrabili del Dopoguerra, la voce degli avvocati trovi interlocutori in grado di seguirne l’esempio. Toghe e politica, una riforma attesa ormai da vent’anni di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 28 gennaio 2021 La candidatura del sostituto procuratore Catello Maresca a sindaco di Napoli riapre il dibattito. L’amarezza del forzista Zanettin: “Il testo per regolamentare queste situazioni c’è già ma abbiamo chiesto invano la sua calendarizzazione in Commissione giustizia”. Il “caso Maresca” ha nuovamente riaperto il dibattito sul rapporto fra politica e magistratura. La storia è nota. Catello Maresca, attuale sostituto procuratore generale a Napoli dopo aver trascorso molti anni alla Dda del capoluogo campano, è il candidato in pectore del centro destra per Palazzo San Giacomo. Le elezioni per il nuovo sindaco di Napoli, emergenza sanitaria permettendo, sono in programma entro i prossimi mesi. La possibile candidatura di Maresca è stata molto criticata in queste settimane dai suoi stessi colleghi. Per Marcello De Chiara, presidente dell’Anm napoletana, si rischia di “appannare” l’imparzialità e l’indipendenza della magistratura. De Chiara ha anche sottolineato la necessità di una legge che impedisca la canditura dei magistrati nella sede di servizio. Per il Csm, interpellato sul punto, non c’è invece alcun problema. Oggi, infatti, non esiste una norma che vieti ai magistrati di candidarsi alle elezioni amministrative nei territori dove operano. A dire il vero un testo che regolamentasse la “discesa in politica” delle toghe era stato approvato all’unanimità dall’aula di Palazzo Madama a marzo del 2014, relatori l’allora senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, già consigliere del Csm, e Felice Casson, magistrato ed esponente del Pd. Trasmesso poi alla Camera era rimasto fermo fino alla primavera del 2017, quando venne fatto oggetto di modifiche che determinarono il suo ritorno in Senato per l’approvazione definitiva. La fine della legislatura, qualche mese più tardi, impedì il voto finale. Il disegno di legge su toghe e politica, comunque, aveva una lunghissima storia alle spalle. Presentato la prima volta nel 2001, governo Berlusconi, venne approvato alla Camera per poi arenarsi in Senato. Venne quindi ripresentato, senza successo, sia nel 2005 che nel 2011. Nell’ultimo decennio, esaurita l’euforia per i magistrati in politica, si erano create tutte le condizioni affinché il Parlamento regolamentasse la materia. Il Csm aveva votato all’unanimità un parere per inasprire il rientro delle toghe dopo l’esperienza politica, prevedendo il loro collocamento in altri ruoli della pubblica amministrazione. Dello stesso avviso, inizialmente, anche l’Associazione nazionale magistrati. Il Greco, l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa, aveva “invitato” l’Italia ad introdurre leggi che ponessero limiti più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica, mettendo fine alla possibilità per le toghe di mantenere il loro incarico in caso di elezione o nomina negli enti locali. Ed anche l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva invitato il Parlamento ad intervenire. Nel testo iniziale un magistrato poteva candidarsi nel rispetto di una serie di restrizioni legate al luogo in cui aveva esercitato le funzioni. Terminato il mandato era previsto il suo transito ai ruoli amministrativi presso il Ministero della Giustizia o al collegio giudicante, con clausola di astensione di fronte a casi riguardanti esponenti politici. Nel testo modificato, gli eletti alla carica di presidente della Regione, consigliere regionale, consigliere comunale o circoscrizionale, una volta cessati dal mandato, rientravano in magistratura non potendo, per i successivi tre anni, prestare servizio in un distretto di Corte di appello in cui è compresa la circoscrizione elettorale nella quale erano stati eletti. Inoltre non potevano esercitare funzioni inquirenti e, una volta ricollocati in ruolo, ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi sempre per tre anni. Laconico il commento di Pierantonio Zanettin: “Invano anche all’inizio di questa legislatura abbiamo chiesto la sollecita calendarizzazione del testo in Commissione giustizia”. La regolamentazione delle candidature dei magistrati, invece, è confluita nel disegno di legge delega sulla riforma dell’Ordinamento giudiziario e del Csm in discussione alla Camera. “Un errore - aggiunge Zanettin - in quanto esisteva un testo già pronto che poteva essere approvato subito”. La crisi di governo ha ora stoppato nuovamente tutto. E chissà se il nuovo esecutivo avrà la forza di approvare una riforma attesa da venti anni. Ecco il software che prevede le sentenze, Veneto apripista di Camilla Gargioni Corriere del Veneto, 28 gennaio 2021 Immaginate di essere una società del Comune che gestisce dei parcheggi, con dipendenti che hanno il compito di verificare il pagamento della sosta e uno di loro, invece di lavorare, passa la maggior parte del suo tempo al bar. Come può agire la società? Se decidesse di licenziare il dipendente, quali potrebbero essere le conseguenze legali? Se il dipendente decidesse poi di fare causa alla società, quante possibilità ha di vincere? A tutti questi quesiti è in grado di rispondere un software, messo a punto su iniziativa della Corte di Appello di Venezia in collaborazione con l’università Ca’ Foscari e con il Dipartimento di intelligenza artificiale di Deloitte, che in pochi secondi dà una previsione del giudizio e il cui funzionamento sarà presentato in un webinar ad-hoc. “La giurisprudenza predittiva, dal cittadino alla Corte di Cassazione: le prospettive” sarà lunedì primo febbraio sulla piattaforma Zoom (dalle 15 alle 16.30, info www.unive.it), moderato dal direttore del Corriere del Veneto Alessandro Russello. Dopo i saluti istituzionali della rettrice Tiziana Lippiello e del direttore del dipartimento di economia, Michele Bernasconi, parleranno la presidente Corte Appello Venezia Ines Maria Luisa Marini, il coordinatore del Centro studi giuridici e ordinario di Diritto del lavoro Adalberto Perulli e il responsabile “Robotic and Intelligent Automation” di Deloitte Consulting Antonio Rughi”.poi la discussione, con le voci del presidente del consiglio dell’ordine Avvocati di Venezia e vicepresidente della Camera arbitrale veneziana Giuseppe Sacco, del presidente della Camera di Commercio di Venezia Massimo Zanon e del presidente di Confindustria Venezia Vincenzo Marinese. Intervento conclusivo affidato al presidente della Corte di Cassazione Piero Curzio. “Lo scopo del progetto è di ridurre la domanda di giustizia fornendo a utenti e avvocati due dati fondamentali per la certezza del diritto e delle relazioni industriali e sociali - spiega la presidente della Corte d’appello Marini - cioè la durata prevedibile dei relativi procedimenti e gli orientamenti esistenti negli uffici del distretto così da disincentivare le cause che hanno scarsa possibilità di successo, con i costi correlati”. Il progetto è nato a metà 2017, appoggiato dal Centro di studi giuridici di Ca’ Foscari, primo ateneo in Italia a esplorare questo tema. “Abbiamo costituito un gruppo di lavoro con dottori e assegnisti di ricerca tra diritto del lavoro e commerciale - Perulli - il cui compito è stato raccogliere le sentenze della Corte d’appello e di tutti i tribunali veneti in merito ai contenziosi di quei settori per il 2018 e il 2019, il 2020 è in lavorazione”. Le sentenze sono state catalogate e suddivise in sottocategorie, estrapolando fatti e principio di diritto. Poi, il “salto”: dar vita a un software che, sulla base di parole chiave che un utente immette, elabori tutta la giurisprudenza raccolta e fornisca una previsione sull’esito di un ipotetico giudizio. “Il sistema, per esempio, dirà quanti documenti ha analizzato su casi simili e qual è la percentuale di vittoria, calcolando anche i tempi di ricorso - conclude Perulli -. Questo progetto, se si interconnettesse con il Ced del ministero della Giustizia, permetterebbe di applicare la giurisprudenza predittiva a tutta Italia” situazione. Ma è evidente che serve grande attenzione”. Una posizione condivisa anche dal collega della Cgil Fabio Zampirolli, che sottolinea come vi sarebbe comunque un forte impegno da parte di Giada per trovare nuovi committenti. In ogni caso, è difficile delineare con precisione quanto accadrà nei prossimi mesi: la ricerca di nuovi contratti potrebbe richiedere diverso tempo e le collaborazioni già in essere, al netto del marchio proprietario “Hand Picked”, non sarebbero sufficienti a garantire un futuro sereno alla società. Parallelamente dovrebbe anche continuare lo scontro legale, con un’impugnazione della decisione del tribunale milanese nella speranza di vedere ribaltata la decisione. Nel frattempo Jacob Cohën parrebbe comunque intenzionata a proseguire per la propria strada, mettendo in moto la nuova macchina produttiva in vista della prossima stagione autunno/inverno. Una notizia accolta con grande favore da un’altra società coinvolta nello scontro, la Blue Service di Cavarzere, guidata da Jennifer Tommasi Bardelle, presidente del consiglio di amministrazione di Jacob Cohën e vedova del fondatore Nicola Bardelle, deceduto nel 2012. Sulla carta, Blue Service avrebbe dovuto collaborare con Giada producendo capi su commissione ma, a causa del contenzioso apertosi con Jacob Cohën, i rapporti tra le due erano cessati. I quaranta dipendenti del laboratorio erano così finiti in cassa integrazione, in attesa di novità. Lo sblocco delle attività della “Jc Industries” porta loro buone notizie: da metà marzo Blue Service tornerà al lavoro in vista di un trasferimento, previsto per l’estate, nel nuovo stabilimento a Piove di Sacco (Padova), che sarà una delle due sedi della nuova macchina produttiva insieme al laboratorio di Schio. Corruzione, Italia impantanata di Lorenzo Allegrucci Italia Oggi, 28 gennaio 2021 Sta dietro Georgia e Rwanda e nella Ue è 20esima su 27. Nella classifica mondiale della corruzione nel settore pubblico, l’Italia mantiene il punteggio, ma perde una posizione. Sopravanzata anche da Botswana, Cipro, Georgia e Rwanda. E ventesima sui 27 paesi dell’Ue. L’indice di percezione della corruzione (Cpi) 2020, che sarà pubblicato oggi da Transparency International, presentato dal presidente della sezione italiana, Iole Savini, classifica l’Italia al 52° posto su 180 stati oggetto della specifica analisi. L’Italia, dunque, pur mantenendo il punteggio (53) attribuitogli nell’edizione 2019, perde una posizione in graduatoria classificandosi 52ª. Il Cpi conferma l’Italia al 20° posto tra i 27 paesi membri dell’Unione europea. La classifica mondiale pone Danimarca e Nuova Zelanda al comando con 88 punti. Al momento risultano inarrivabili. Al contrario, in fondo alla classifica, troviamo Siria, Somalia e Sud Sudan, rispettivamente con 14, 12 e 12 punti. La classifica è redatta valutando 13 strumenti di analisi (misure oggettive) o di sondaggi (misure soggettive) ad esperti provenienti dal mondo del business. Il punteggio finale è determinato in base a una scala da 0 (alto livello di corruzione percepita) a 100 (basso livello di corruzione percepita). Le misure soggettive includono una serie di indicatori aggregati che sintetizzano vari aspetti o manifestazioni della corruzione in un’accezione ampia. Si fondano su sondaggi realizzati con campioni rappresentativi della popolazione o di categorie specifiche di soggetti (imprenditori, funzionari, esperti ecc.). Negli ultimi anni l’Italia ha compiuto significativi progressi nella lotta alla corruzione: ha introdotto il diritto generalizzato di accesso agli atti rendendo più trasparente la pubblica amministrazione ai cittadini, ha approvato una disciplina a tutela dei whistleblower, ha reso più trasparenti i finanziamenti alla politica e, con la legge anticorruzione del 2019, ha inasprito le pene previste per taluni reati, si rileva nel rapporto. Nell’ultimo anno, però, gli interventi migliorativi sono cessati, anche a causa del Covid. Di qui un arresto del trend positivo che aveva visto l’Italia guadagnare 11 punti dal 2012 al 2019. In questo contesto, le sfide poste dall’emergenza pandemia, possono mettere a rischio gli importanti risultati conseguiti se si dovesse abbassare l’attenzione verso il fenomeno corruttivo e non venissero previsti e attuati i giusti presidi di trasparenza e di anticorruzione. Sorge, pertanto, immediatamente, secondo il rapporto, l’esigenza di porre una particolare diligenza e ossequio delle regole, per quanto riguarda l’assegnazione e l’utilizzo dei corposi fondi stanziati dall’Unione europea per la ripresa economica. La corruzione allontana gli investimenti stranieri in misura addirittura maggiore di una elevata tassazione; alimenta la criminalità e l’evasione fiscale, minando la concorrenza; appesantisce l’attività giudiziaria; falcidia le entrate tributarie. Un circolo vizioso che zavorra i processi di sviluppo e deprime l’ambiente economico: meno investimenti, riduzione dell’occupazione, dei redditi e dei consumi, meno entrate fiscali, riduzione della quantità e qualità di servizi e prestazioni pubbliche, lievitazione dei costi burocratici. La pubblicazione del Cpi 2020 offre lo strumento più completo di Transparency International, per la valorizzazione della cultura dell’anticorruzione e della trasparenza al fine di accrescere, operando anche al fianco delle istituzioni, la sensibilità dei cittadini verso il valore della legalità, quale fattore fondamentale per la crescita e lo sviluppo del Paese. Transparency International è l’organizzazione non governativa operante nella lotta alla corruzione, nata a Berlino nel 1993; tra i membri Gherardo Colombo e Carlo Cottarelli. Molestie e violenza sul lavoro, l’Italia ratifica la Convenzione internazionale Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2021 È stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 26 gennaio 2021 n. 20, la legge 15 gennaio 2021 n. 4 di Ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, adottata a Ginevra il 21 giugno 2019 nel corso della 108ª sessione della Conferenza generale della medesima Organizzazione. In Parlamento hanno svolto dichiarazione di voto favorevole i senatori Laura Garavini (IV-PSI), Isabella Rauti (FdI), Loredana De Petris (Misto-LeU), Anna Rossomando (PD), Aimi (FI), Iwobi (L-SP), Alessandra Maiorino (M5S). “Con l’approvazione definitiva del Ddl il Parlamento italiano compie un passo decisivo verso l’adozione di una normativa che preveda strumenti di tutela, di denuncia, di prevenzione”. Lo dichiara la senatrice Pd Valeria Fedeli. “Mi auguro che si possa procedere il prima possibile ascoltando tutti i diversi soggetti in causa per comprendere a che punto siamo e quali azioni concrete mettere in campo per liberare il mondo del lavoro dalla violenza. Ma è fondamentale anche la prevenzione, gli strumenti di tutela come il congedo dato alle donne che denunciano, valorizzare il ruolo delle consigliere e dei consiglieri di parità e individuare nelle aziende figure incaricate di monitorare condizioni e ambiente di lavoro in chiave di rispetto della libertà e integrità delle persone.”. “Nel nostro Paese - afferma Laura Boldrini, deputata PD - una donna su due subisce molestie sul lavoro. E l’81%, per paura, resta in silenzio. Sono orgogliosa di aver presentato, alla Camera, la proposta di legge con cui è stata ratificata questa Convenzione. Con l’approvazione di oggi, compiamo un passo avanti importante sulla strada del pieno riconoscimento dei diritti e della dignità delle donne”. “È sempre una soddisfazione - commenta la vicepresidente del Senato, Paola Taverna (M5S) - quando si fa un passo avanti nella direzione dell’uguaglianza e della maggior tutela dei diritti delle donne, in ogni ambito della vita. Il lavoro, infatti, resta purtroppo un contesto dove ancora troppo spesso avvengono violenze ignobili e abusi inaccettabili. Adesso abbiamo un importante strumento in più”. “Il mio pensiero va, in particolare, a tutte le donne e giovani donne - aggiunge - che quotidianamente devono difendersi da comportamenti vergognosi”. Vota favorevole anche da parti di Fratelli d’Italia. “Abbiamo votato nella convinzione che il recepimento dei suoi tre cardini, protezione, prevenzione e verifica dell’applicazione, permetterà ai lavoratori e alle lavoratrici di poter denunciare le violenze e le molestie subite”, ha dichiarato la vicepresidente FdI, Isabella Rauti, responsabile del dipartimento Pari opportunità al Senato. La senatrice ha ricordato che “questo genere di abusi in Italia riguarda centinaia di migliaia di persone, uomini e donne, con una percentuale addirittura tripla per quest’ultime”. “Ci auguriamo, quindi - ha concluso - che questa Convenzione possa rappresentare un passo importante verso una maggiore tutela della dignità delle persone sui luoghi di lavoro e che il recepimento della normativa internazionale consenta di prevenire e combattere il fenomeno”. Sicilia. “I detenuti non sono abbandonati, sì alla vaccinazione” di Roberto Puglisi livesicilia.it, 28 gennaio 2021 Parla il professore Fiandaca: sui contagi al Pagliarelli e sul resto. “I detenuti non sono abbandonati, comprendo l’apprensione per il Covid, ma non è il caso di creare allarmismi ingiustificati”. Sulla vicenda dei contagi in carcere interviene il garante siciliano dei detenuti, il professore Giovanni Fiandaca. “Non c’è un’emergenza carcere” - “Il punto è questo - spiega il professore - prima che emergessero i positivi al Pagliarelli, la situazione siciliana non è mai stata preoccupante in termini di numeri, fino al diciotto gennaio, quando ho ricevuto il rapporto, e continua a essere sotto controllo. Non si è mai raggiunto un picco, parlo dell’intera popolazione carceraria, superiore alle venti unità e comunque con quadri clinici, per fortuna, non gravi. Per quanto riguarda il personale penitenziario, sempre nel suo complesso, riferendoci sia agli agenti che ai funzionari amministrativi, non ci sono stati più di una quarantina di casi. Numeri piccoli, appunto, che hanno tutta la nostra attenzione, visto che i contatti che teniamo sono quotidiani, ma che, al momento, non presentano una realtà emergenziale”. La situazione al Pagliarelli - Come abbiamo scritto, al Pagliarelli i contagiati sono cinquantacinque, al responso del secondo tampone. Tra sette giorni ne verrà somministrato un terzo. I già positivi sono stati sottoposti al molecolare, i negativi al test rapido antigenico e al molecolare, successivamente, in caso di positività: lo screening riguarda tutti quelli che sono presenti nell’istituto. Risultano quattro casi tra il personale. La selezione e i vaccini - “Tra i cinquantacinque positivi del Pagliarelli - spiega il garante - hanno cominciato a essere selezionate e segnalate alle autorità giudiziarie quelle persone che presentano patologie pregresse che potrebbero dare luogo a una condizione di vulnerabilità per eventuali provvedimenti di collocazione fuori dal carcere. Già l’otto gennaio scorso ho inviato una nota formale all’assessore Razza e al presidente Musumeci per chiedere, sulla scia di quanto rappresentato dal garante nazionale e dalla conferenza dei garanti regionali, di prendere in considerazione, tra le categorie da vaccinare in via prioritaria, detenuti e personale penitenziario, o di prendere in considerazione, in subordine, gli over sessanta e i soggetti affetti da comorbilità. Sappiamo che ci sono ritardi e problemi nella campagna vaccinale. Il commissario nazionale Arcuri, qualche giorno fa, ha dichiarato che dopo gli over ottanta toccherà a detenuti e personale penitenziario. Noi garanti vigileremo”. L’appello del garante - In ultimo un appello: “La consapevolezza del problema esiste - dice il professore Fiandaca. Oltretutto, se il contagio in carcere dovesse espandersi questo rischierebbe di provocare un effetto intasamento negli ospedali. Ai detenuti vorrei dire che non sono abbandonati, che si segue la vicenda con attenzione e sensibilità, costantemente. Per cui, pur comprendendo il momento, consiglierei di avere un po’ di pazienza e di evitare di assumere atteggiamenti di protesta che potrebbero pregiudicare anche il calendario della vaccinazione”. Campania. Covid nelle carceri, il report: 609 casi e 4 vittime tra i detenuti napolitoday.it, 28 gennaio 2021 In Campania dall’inizio della pandemia si sono verificati, correlati alle carceri, sei decessi: quattro detenuti, un agente di polizia penitenziaria, un operatore sanitario. Quattro morti. Sono quelli dovuti al Covid-19 verificatisi tra i detenuti delle carceri campane. A renderlo noto è il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Si contano contagiati e vittime (due) anche tra agenti della polizia penitenziaria e tra operatori sanitari in servizio nelle strutture carcerarie. In questo momento i positivi tra i detenuti sono 22, di cui 19 a Secondigliano, 2 a Santa Maria Capua Vetere e 1 a Poggioreale. Sono 47, invece, le persone positive tra operatori sanitari e polizia penitenziaria. “Dall’inizio della pandemia ad oggi - fa sapere Ciambriello - in Campania sono stati registrati 609 casi di Covid tra i detenuti e sono stati somministrati solo tra Secondigliano e Poggioreale 6022 tamponi su una popolazione, a Secondigliano di 1147 detenuti e a Poggioreale 2019 detenuti. I detenuti morti causa Covid 2019 sono stati 4”. Contagiati e vittime anche gli agenti di polizia penitenziaria e tra gli operatori sanitari. “Dall’inizio della pandemia - sottolinea ancora il Garante - sono stati più di 800 i contagiati e 1 morto [nella polizia penitenziaria, ndR], mentre tra gli operatori sanitari (medici, infermieri, operatori socio sanitari), sono stati 58 i contagiati e 1 morto”. Dei 15 istituti penitenziari per adulti della Regione Campania, in 9 si sono verificati casi di Covid 19, mentre in altri 6 non c’è stato nessun caso. Per quanto riguarda gli Istituti penali per Minorenni, non si sono avuti casi di contagio da Covid-19 per i giovani li ristretti ma solo per alcuni agenti della polizia penitenziaria. “Mi auguro - conclude il Garante - che, dopo gli operatori sanitari e gli agenti di polizia penitenziaria, siano sottoposti a vaccino anti-Covid detenuti ultrasessantenni e malati cronici su richiesta volontaria, e che vengano somministrati più tamponi in tutte le carceri della Campania per consentire un maggiore controllo e contenimento da Covid 19. Altresì mi auguro che, soprattutto in questo periodo emergenziale, nelle carceri vengano incrementate figure professionali quali psicologi, assistenti sociali, infermieri, operatori socio sanitari”. Foggia. Detenuto racconta: “Dopo la rivolta picchiati brutalmente da un centinaio di agenti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 gennaio 2021 Il racconto all’associazione Yairaiha Onlus sui fatti di marzo nel carcere di Foggia di un recluso che, temendo ritorsioni, vuole rimanere anonimo. Nel carcere di Foggia, pochi giorni dopo la rivolta di marzo, finita con tanto di evasione spettacolare, avrebbe fatto irruzione una squadra composta da numerosi caschi blu e ci sarebbe stato un vero e proprio massacro simile a quello che sarebbe avvenuto al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ma andiamo con ordine. L’esposto dell’associazione Yairaiha Onlus con le testimonianze di 5 detenuti - Nei giorni scorsi - secondo quanto ha appreso l’associazione Yairaiha Onlus - agenti della squadra mobile di Roma, su richiesta della procura di Foggia, hanno ascoltato uno dei 5 detenuti citati nell’esposto presentato da Yairaiha lo scorso 29 marzo su delega dei familiari, in base ai loro racconti durante i colloqui telefonici su quanto sarebbe avvenuto la notte del 12 marzo nel carcere di Foggia. Esposto - reso pubblico da Il Dubbio - presentato dopo che sarebbero stati trasferiti e tenuti per oltre due settimane in isolamento totale e senza neanche la possibilità di telefonare alle proprie famiglie, lasciandole in un profondo stato di apprensione e angoscia. Dei 5 detenuti in questione nessuno ha partecipato alle rivolte. L’esposto è di mesi fa, ma molto probabilmente l’input è arrivato grazie al servizio di Report sulle carceri, a firma del giornalista Bernardo Iovene. Sì, perché nella trasmissione di Rai3, condotta da Sigfrido Ranucci, si fa riferimento anche al presunto pestaggio nel carcere di Foggia. Nel frattempo arrivano nuovi dettagli inquietanti e sconvolgenti. L’altra testimonianza inedita di un detenuto che vuole rimanere anonimo - È sempre Yairaiha a ricevere la segnalazione di un altro detenuto, ma che non ha nulla a che fare con i cinque dell’esposto. Si tratta di un’altra inedita testimonianza, ma il detenuto vuole rimanere anonimo per paure di potenziali ritorsioni. Ricordiamo che parliamo di un momento tragico, sfociato in una evasione di massa. Per ricostruire la rivolta avvenuta il 9 marzo del 2020 ci affidiamo all’informativa del Dap, guidato all’epoca da Francesco Basentini, e inviata al ministro della Giustizia. Si legge nell’informativa che intorno alle ore 9,40, i detenuti del carcere di Foggia chiedono insistentemente un incontro con il Direttore e il Comandante di reparto, esternando la preoccupazione di ricevere rassicurazioni sull’emergenza Covid 19. Il comandante di Reparto, unitamente ad alcune unità di polizia, giunge all’interno del cortile passeggi per fornire tutte le informazioni richieste. Nonostante ciò i detenuti iniziano a protestare e in massa escono dal cortile forzando i cancelli degli sbarramenti. Immediatamente viene dato l’allarme e richiesto l’intervento delle altre forze dì Polizia che accorrono sul posto. I rivoltosi, dopo aver forzato il cancello, entrano nell’ufficio Matricola e appiccano un incendio che distrugge la documentazione conservata e tutta la strumentazione informatica. I detenuti proseguono la protesta presso la sezione femminile ove, dopo aver forzato la porta d’ingresso, avrebbero strattonato le poliziotte impossessandosi delle chiavi delle stanze al fine di liberare le detenute, devastando e vandalizzando gli arredi e i dispositivi informatici. Contemporaneamente agli accadimenti in corso alla sezione femminile, altri numerosi detenuti forzano i varchi della portineria centrale sfondando il relativo cancello. Un gruppo tenta di raggiungere il Direttore, che veniva messo in sicurezza all’interno del box portineria. Immediatamente dopo i rivoltosi accedono nel piazzale esterno abbandonando così la zona detentiva. Altri numerosi detenuti giungono nel medesimo piazzale dopo aver sfondato il doppio varco della carraia. La ressa così costituita e formata da oltre 400 detenuti, si è impadronita di tutta l’area. Un gruppo di circa 100 detenuti si sono poi diretti verso il primo dei due cancelli di ingresso buttandolo a terra e favorendo in questo modo la fuga verso l’esterno di numerosi detenuti attraverso la porta pedonale temporaneamente aperta, sempre secondo l’informativa del Dap per mettere in sicurezza avvocati e alcuni operatori che manifestavano segnali di evidente paura. L’irruzione degli agenti con caschi blu e a volto coperto - Ed ecco che arriviamo alla testimonianza di un detenuto raccolta dall’associazione Yairaiha dove emergerebbe un atto violento molto simile a quello che sarebbe accaduto al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. A freddo, qualche giorno dopo la rivolta, e più precisamente il 12 marzo mattina presto, nel carcere di Foggia avrebbe fatto irruzione un centinaio di agenti con caschi blu, con volto coperto, scudi e manganelli. “Mentre stavo dormendo - racconta il detenuto a Yairaiha - non mi hanno dato neanche il tempo di alzarmi dal letto, 2 agenti mi hanno tirato giù dal letto e mi hanno sbattuto con la faccia a terra, mi mantenevano allungato a terra e con la faccia al pavimento, tenendo un piede in testa e l’altro sul corpo con tutto il loro peso”. A quel punto, prosegue il racconto “gli altri 2 pensavano a darmi una scarica di manganellate su tutte le parti del corpo, mentre il quinto agente aveva il ruolo di prendere le fascette in plastica bianche, tenermi le braccia dietro la schiena con forza e legarmi i polsi, stringendo le fascette in modo di non far circolare neanche il sangue. In questo modo non potevo neanche coprirmi sia il volto che il corpo dalle scariche di manganellate, calci e pugni”. Poi avrebbero fatto alzare lui e il suo compagno di cella, e l’avrebbero fatti uscire dalla cella facendolo passare in mezzo al “tunnel”. “Lo chiamo così - racconta il detenuto all’associazione Yairaiha - perché tutti e 300 gli agenti erano posizionati nelle sezioni in 2 file, una fila di fronte all’altra per poi farci passare in mezzo a loro”, e dalla sezione fino a verso l’uscita, avrebbero continuato a dare scariche di manganellate. “Per 10 secondi - prosegue il detenuto nel racconto - ho visto tutto nero sotto quelle manganellate, ho perso i sensi, ma nonostante ciò non si sono mai fermati con i manganelli, i pugni e i calci, che aumentavano sempre di più”. “Manganellato anche durante il trasferimento” - Dopodiché il detenuto sarebbe stato messo su un furgone, dove avrebbe ricevuto altre manganellate, e l’hanno trasferito in un altro carcere scalzo e solo con il pigiama e da lì l’avrebbero trasferito in un altro carcere. La testimonianza prosegue: “Mi hanno chiuso in una stanza blindata dove non c’era niente, era vuota, neanche lo sgabello per sedermi e mi hanno tenuto una giornata senza bere, mangiare e non mi hanno fatto andare neanche in bagno, minacciandomi che se chiedevo qualcosa mi avrebbero continuato a picchiare, peggio di quanto avevo già avuto”. Testimonia sempre il detenuto all’associazione che per 40 giorni avrebbe convissuto con dolori in tutto il corpo, soprattutto la testa dove avrebbe preso più colpi. “Avevo troppi dolori durante la notte - racconta sempre a Yairaiha - non riuscivo neanche a dormire, e quando chiedevo di essere visitato, mi facevano attendere”. La testimonianza raccolta dall’associazione Yairaiha, ovviamente è da vagliare con attenzione. Resta il fatto che ci sono punti di convergenza anche con i racconti denunciati nell’esposto. Com’è detto, grazie soprattutto all’impulso di Report, sembrerebbe che la procura di Foggia si stia attivando. “Si intravvede - commenta Sandra Berardi, presidente di Yairaiha Onlus - lo stesso modus operandi dei presunti pestaggi di Modena, Santa Maria Capua Vetere e altri. Più che ristabilire l’ordine si sarebbe trattato di una spedizione punitiva a freddo, una vendetta!”. Berardi aggiunge anche una riflessione: “Mi rammarica che siano passati 10 mesi dall’esposto e solo ora sembrerebbe che sia dato seguito all’esposto. Temo che senza il servizio di Report e le denunce su Il Dubbio, forse tutto sarebbe rimasto sotto silenzio. Ora ci auguriamo che si faccia chiarezza sul carcere di Foggia, individuando i responsabili”. Siena. Torture nel carcere di Ranza, chieste 10 condanne. Il video dell’aggressione in aula di Laura Valdesi La Nazione, 28 gennaio 2021 L’avvocato del Garante nazionale dei detenuti: “Le immagini ricostruiscono quanto accaduto in carcere”. Dieci condanne per concorso in tortura. A chiederle è stato il pm Valentina Magnini, declinando in quasi tre ore il comportamento degli agenti della penitenziaria che quell’11 ottobre 2018 presero parte a una sorta di spedizione punitiva, questa la convinzione della procura, nei confronti di un detenuto tunisino dentro per droga e una serie di furti. Tutti hanno optato per il rito abbreviato: per otto il pm ha chiesto la condanna a 3 anni, per un assistente capo (l’unico difeso dall’avvocato Stefano Cipriani, gli altri vengono assistiti da Manfredi Biotti) a 2 anni, per un agente scelto ad un anno e 10 mesi. Nell’aula al piano terra di palazzo di giustizia non è stato visto l’intero video, che dura un’ora e 50 minuti, ma ampi spezzoni. Quelli che, secondo l’accusa, consentivano di confortare la tesi del concorso nell’aggressione al carcerato insieme ai cinque colleghi per cui il 18 maggio inizia il processo per tortura, il primo nel quale viene contestato tale reato a pubblici ufficiali da quando è stato introdotto nel 2017. “Il mio assistito era presente all’udienza, quando scorrevano le immagini salienti dove si vede che si dirigono verso la cella per prenderlo. Oltre alle azioni, alle botte, emerge l’animosità e l’aggressività - spiega l’avvocato Raffaella Nardone che ieri ha parlato come parte civile - visionato anche il filmato della telecamera che punta sulla nuova cella, numero 19. Scene a dir poco sconcertanti da parte di persone che indossano una divisa”. Nardone conferma che il detenuto ha già dichiarato che non sarà presente alle prossime udienze, neppure quando verrà letta la sentenza il 17 febbraio prossimo. “Il video ci pare sufficiente per ricostruire quanto è accaduto. Si sono mossi a falange - spiega l’avvocato Michele Passione che rappresenta il Garante nazionale dei detenuti, parte civile con il carcerato picchiato e l’Altro diritto - si vede che viene tirato un pugno, buttato giù. Gli sferrano calci. Le parti viste in aula danno conto, a nostro avviso in modo chiaro, dell’antefatto e dell’episodio da cui è scaturita l’inchiesta”. Nelle quasi sei ore di udienza, metà delle quali occupate dalla requisitoria del pm, è stato composto il mosaico che il gup Rocchi dovrà valutare per la sentenza del 17 febbraio. Anche alla luce, però, delle ragioni della difesa che parlerà il 10. Gli avvocati Cipriani, che assiste uno degli imputati (tra l’altro è stato sentito in incidente probatorio nel troncone madre) e Biotti che difende invece gli altri nove, intendono smontare il concorso in tortura. Come hanno fatto e argomentato anche con indagini proprie già depositate la scorsa udienza. Il tunisino - il suo legale racconta che ancora deve assumere farmaci per dormire e che convive con la paura di essere aggredito - sarebbe stato vittima del “trattamento inumano e degradante” e di “acute sofferenze fisiche”, questa l’accusa. Pensava di andare a fare la doccia, aveva asciugamano e spazzolino in mano. È successo tutt’altro. A stabilire dove sta la verità fra le due posizioni diametralmente opposte di procura e difesa tocca al giudice. Roma. A Rebibbia 90 detenuti contagiati, emergenza sanitaria e processi bloccati di Francesco Salvatore La Repubblica, 28 gennaio 2021 Novanta contagiati fra i detenuti, di cui cinque ricoverati in ospedale. Un agente della penitenziaria di 50 anni che si è tolto la vita due giorni fa mentre si trovava nel suo appartamento in quarantena. Un’altra decina di agenti a casa perché trovati positivi e altri venti in isolamento fiduciario. È il quadro drammatico di Rebibbia nuovo complesso, di per sé già grave dai numeri del sovraffollamento pressoché endemico - 1.400 detenuti su 1.163 regolamentati. Rispetto alla scorsa settimana sale di venti unità il numero delle persone contagiate. Tre reparti sono in quarantena: non si esce dalle celle nemmeno per l’ora d’aria. Quanto alla ricaduta sulla Giustizia, la difficoltà di trasportare chi ha il Covid in tribunale, o di trovare stanze in carcere per le videoconferenze, è alta. Risultato: i processi vengono rinviati, come per gli omicidi del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega e per quello di Luca Sacchi. Tutto è cominciato dopo Natale nel reparto G12, quello dell’alta sicurezza, quando alcuni detenuti si sono sentiti male. Sono scattati i tamponi e rilevate la positività ma la curva epidemica si è impennata. A quel punto sono partiti i tamponi a tappeto su tutta la popolazione carceraria. La scorsa settimana i contagiati erano 70, ieri 90. Sono stati sistemati tutti all’interno di un reparto ad hoc, il G9, lasciato libero perché in manutenzione: quindi infissi vecchi e intonaco rovinato. “Ci sono problemi anche nelle sezioni da cui arrivano i detenuti - chiosa il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia - perché gli altri devono essere messi in quarantena, ma gli spazi non ci sono”. Di conseguenza i detenuti- contatti diretti da Covid sono obbligati a restare in isolamento nella cella in cui si trovano. Al momento sono tre i reparti in quarantena: G9, G11, G12. “È necessario programmare una campagna vaccinale”, aggiunge Anastasia. Le visite faccia a faccia coi parenti sono sospese da marzo 2020, a parte il periodo estivo. Come le attività: scuola, sport e teatro. “Faccio un appello alla magistratura per valutare i casi di incompatibilità e tutte le liberazioni anticipate. Come le misure alternative al carcere anche in fase cautelare”, commenta il Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni. “Il problema Covid è stato sottovalutato dall’amministrazione. Da noi non esiste distanziamento sociale - spiega Donato Capece, segretario del sindacato della penitenziaria Sappe - il nostro collega che si è suicidato non aveva dato alcun segno prima: il padre era morto da poco, lui aveva il Covid. Forse è stato un mix di stress correlato al lavoro e all’isolamento”. Roma. Rebibbia, il focolaio smaschera la fragilità del carcere di Lucio Boldrin* Avvenire, 28 gennaio 2021 In queste settimane, qui a Rebibbia si stanno vivendo momenti di crescenti nervosismo e paura, sia per i detenuti che si sentono sempre più “numeri” e abbandonati, sia per gli agenti penitenziari, pochi e costretti a orari prolungati. Da quasi un anno, poi, i detenuti soffrono per la limitazione degli incontri con i familiari, mentre da fine dicembre è cambiato il gestore delle email causando il rallentamento, quando non la sospensione, della possibilità di inviare o ricevere comunicazioni per giorni. Ma, indubbiamente, la questione più grave riguarda l’inizio di un focolaio di Covid-19 in due reparti. Ciò ha portato a raggruppare i detenuti negativi al tampone in celle piccole: anche 5 persone in 20 metri quadri, in alcuni casi con bagno alla turca anziché water (è da tenere presente che ci sono anche detenuti anziani, con scarsa mobilità o mancanti di qualche arto). Ecco, dunque, un’altra causa di forte tensione. Speriamo bene, ma l’aria che si respira è sempre più pesante. Ogni anno vi è una giornata in carcere dove vengono consegnati degli encomi a quegli agenti che si sono distinti per particolari azioni di coraggio. Quest’anno, se dipendesse da me, l’encomio lo darei a tutti coloro che stanno lavorando all’interno degli istituti penitenziari: difficile da spiegare e capire, se non si vede il modo con il quale stanno operando in situazioni al limite, dagli infermieri ai medici, dagli agenti ai responsabili del carcere. Del resto, le criticità che il “sistema carcere” (e non parlo soltanto di Rebibbia) sta rivelando ora che l’emergenza pandemica lo ha investito in pieno, sono sotto gli occhi di tutti. L’aumento esponenziale del numero dei contagi tra la popolazione carceraria e gli operatori penitenziari costituisce il dato più visibile dell’incapacità di contenere e reagire alla diffusione del virus. Per questo tutta la popolazione detenuta e tutti coloro che nelle carceri lavorano dovrebbero essere vaccinati al più presto, per scongiurare che la situazione peggiori ancora fino a diventare ingestibile. Una nota di biasimo, invece, l’assegnerei di certo alla pachidermica lentezza e “cecità” dell’amministrazione della giustizia: sarebbe bastato mettere in atto quanto la legge già prevede (arresti domiciliari, magari con il braccialetto elettronico; accoglienza in comunità per quanti ne hanno diritto) per alleggerire di molto la situazione. Ma anche gli interventi legislativi adottati sinora per ridurre la popolazione carceraria in chiave anti-Covid - peraltro mal interpretati da gran parte dell’opinione pubblica come un tentativo di aprire le porte del carcere a boss e condannati al 41bis - si sono rivelati del tutto insufficienti a raggiungere gli obiettivi sperati. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Modena. Visita della rappresentante del Garante: “Bisogna ricucire il rapporto con la città” modenatoday.it, 28 gennaio 2021 Dopo il sopralluogo al carcere di Sant’Anna l’incontro con il sindaco Muzzarelli per fare il punto dopo la rivolta del marzo scorso. L’avvocato Emilia Rossi, rappresentante del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, ha visitato oggi il carcere di Modena Sant’Anna, teatro in marzo della tragica rivolta di detenuti su cui la Procura ha aperto un fascicolo per omicidio colposo (con lente sui trasferimenti nel penitenziario di Ascoli di detenuti già in condizioni critiche a Modena). Rossi è arrivata in città per testimoniare l’attenzione, dice, al percorso di superamento dei fatti di marzo e per la volontà di partecipare “ricucire le lacerazioni”. All’incontro in municipio con la rappresentante del Garante, insieme al sindaco Gian Carlo Muzzarelli, hanno partecipato l’assessore al Welfare Roberta Pinelli e la comandante della Polizia Locale Valeria Meloncelli. Sindaco e avvocato hanno individuato come “prioritaria” la necessità di ricostruire non solo la struttura, ma soprattutto le relazioni e il dialogo con la città. “Un percorso difficile - per Muzzarelli - che richiederà un lungo lavoro per riportare serenità al corpo penitenziario, e che necessita anche di investimenti per la struttura e per ripristinare le attività di un volontariato ricchissimo, che svolgeva un’azione fondamentale all’interno del carcere”. Conclude da parte sua Rossi: “Il Garante è presente e partecipa all’opera di ricostruzione. La collaborazione tra le istituzioni può essere la chiave di volta per superare il dramma e fare in modo che il carcere sia in relazione con la città e non considerato come un corpo estraneo e marginale”. Genova. La tipografia ecologica che offre un’occasione di lavoro e recupero ai detenuti di Valentina D’Amora italiachecambia.org, 28 gennaio 2021 Vi raccontiamo la storia della tipografia KC che dal 1987 intreccia l’amore per la stampa a quella per i libri. Nel 2009 ha scelto di rivoluzionare l’intero processo di stampa, diventando la prima tipografia certificata FSC® in Liguria e la prima certificata Eco-print© in Italia. Un progetto ambientale ma anche sociale, perché coinvolge attivamente alcuni detenuti del carcere di Genova Pontedecimo con un progetto formativo. Conosco personalmente Giacomo Chiarella da fine 2018: lo incontro la prima volta per parlare di un progetto editoriale ancora acerbo e mi ritrovo subito ad ascoltare con piacere le sue idee, il suo approccio e a visionare il campionario di carte secondo lui più adatte. Nel tempo mi accorgo che Giacomo è sempre indaffaratissimo, ma è una persona che sa fermarsi ad ascoltare i dubbi e, soprattutto, le visioni dei suoi clienti. L’esperienza prosegue e il libro viene pubblicato da KC Edizioni, la casa editrice integrata alla tipografia. Il risultato è molto curato e il taglio artigianale viene notato da chiunque prenda in mano il volume. Tutt’oggi la tipografia rimane, per me, un punto di riferimento per stampe di qualunque tipo, perché sa coniugare la passione per le arti grafiche con l’amore per l’ambiente, tema su cui sono molto sensibile. L’ho intervistato per raccontarvi la sua storia. Giacomo inizia a lavorare nel mondo delle stampe sin da ragazzo, affiancando il papà, Kicco Chiarella, da cui deriva il nome della tipografia. Mi confessa che, nonostante subito non ne fosse entusiasta, con il passare del tempo, si appassiona sempre di più a questo mestiere, così legato all’arte e alla cultura. Poco più di dieci anni fa, arriva il momento della conversione al green. “Nel 2009 ci siamo ritrovati con i macchinari obsoleti. Le scelte erano due: rinnovarsi o chiudere, perché in questo settore le attrezzature sono fondamentali e si tratta di investimenti piuttosto onerosi. Allora abbiamo deciso di proseguire, pensando al futuro”. Giacomo mi racconta che ora tutta l’energia utilizzata durante il processo di stampa proviene interamente da fonti rinnovabili, gli inchiostri usati sono a base acqua e cera vegetale e i sistemi di lavaggio sono fortemente ridotti e operati evitando solventi chimici. In più, tutte le carte proposte sono certificate FSC®: quelle riciclate sono sbiancate senza l’utilizzo di cloro e provengono da cartiere selezionate personalmente per trasparenza nei cicli produttivi. Un’ecologia a tutto tondo, in una tipografia dove si respira l’amore per l’ambiente e la passione per questa professione. “Per lavorare bene è fondamentale il clima di fiducia e amicizia che si vive qui. D’altronde, passiamo più tempo insieme ai colleghi che a casa, per questo è importante lavorare concentrati, ma sempre con il sorriso”. Nel 2016 Giacomo decide di aprire una succursale della tipografia all’interno della casa circondariale di Pontedecimo. L’obiettivo è quello di formare un gruppo di persone detenute al lavoro di stampa e legatoria, valorizzando l’attività lavorativa all’interno del carcere. “In questi cinque anni, il progetto si sta sviluppando bene, tanto che siamo riusciti a inquadrare e ad assumere anche alcuni di loro e ad aumentare il gruppo di detenuti in borsa lavoro”. Un’idea che riesce concretamente a rendere la detenzione un periodo di recupero, per far sì che chi è dentro possa avere gli strumenti per reinserirsi nel circuito sociale, una volta fuori. “Chi ha lavorato con noi ha imparato molto e sono tanti quelli che, dopo essere usciti, sono venuti a ringraziarci non solo per aver dato loro una base economica, ma soprattutto quella salute mentale che il lavoro ti dà. Questo progetto è davvero un’ancora di salvezza per loro”. “Per me il carcere era un luogo completamente nuovo e non nascondo che è un ambiente molto pesante, per noi che entriamo, per chi ci lavora ma soprattutto per loro, che sono dentro. Bisogna pensare qualcosa che possa aiutarli, altrimenti la loro condizione non può che peggiorare. Per questo sono contento di essere riuscito a proporre questo progetto formativo che sviluppa qualcosa di positivo”. Un’azienda, quella di Giacomo, che non è interessata esclusivamente alla crescita economica, ma si proietta verso il futuro, della società e dell’ambiente. Un bell’esempio di impresa profit che sa lavorare, facendo del bene. Ancona. Agricoltura sociale e prodotti del territorio nel carcere-fattoria di Barcaglione di Antonella Barone gnewsonline.it, 28 gennaio 2021 Quando fu aperto, nel 2006, il carcere di Ancona Barcaglione era circondato da un terreno demaniale di circa due ettari invaso dai rifiuti e popolato da animali selvatici. Oggi al suo posto ci sono 300 olivi di varietà autoctone, un apiario, un ovile con trenta pecore, un caseificio, un frantoio e una serra, dove si coltivano more, lamponi e mirtilli. C’è anche un orto- giardino, irrigato con l’acqua di un laghetto, che alcuni detenuti coltivano con l’aiuto di tutor pensionati della Coldiretti Marche. Un’area verde - dove è possibile trascorrere del tempo con i familiari in visita oppure assistere a spettacoli e a eventi ludico-sportivi - che ha contribuito a trasformare una zona desolata in un luogo accogliente oltre che fertile e produttivo. Neanche le difficoltà e le limitazioni dovute all’emergenza Covid-19 hanno fermato le iniziative della Fattoria Barcaglione, come è ormai conosciuta la casa di reclusione. L’attività zootecnica di allevamento ovini e trasformazione del latte - realizzata in collaborazione con la Regione Marche Assessorato all’Agricoltura, Azienda Servizi Settore Agroalimentare della Regione Marche, il Garante regionale dei detenuti e il Servizio Veterinario Regionale - è stata, infatti, avviata nei mesi scorsi. A dicembre è partito un corso di formazione per detenuti da occupare nel nuovo settore e sono stati allestiti l’ovile e il caseificio Per i primi giorni di marzo è previsto il parto delle pecore e, dopo il periodo di svezzamento, si inizierà la mungitura e la produzione di latticini. Altri corsi su materie legate alla zootecnia sono in programma per formare detenuti addetti alle varie d’intesa per il progetto di fasi di allevamento e produzione. Il progetto rientra tra le attività previste dal Protocollo agricoltura sociale “Orto sociale in carcere” che sarà firmato, nel corso di una conferenza stampa, il 3 febbraio prossimo dal Provveditore dell’Emilia Romagna e Marche Gloria Manzelli e dal Vice Presidente delle Marche e anche Assessore all’Agricoltura Mirco Carloni. L’accordo estende ad altri istituti del territorio, in particolare a quelli di Ascoli Piceno e Pesaro, le iniziative di agricoltura sociale che hanno caratterizzato gli interventi della Regione Marche in ambito penitenziario. Nell’occasione la Fattoria Barcaglione presenterà la sua storia, i suoi progetti e una produzione che ha valorizzato la dimensione locale, dando priorità alle risorse del territorio da rivalutare o tutelare. La Direzione dell’Istituto sta valutando di allestire, in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico dell’Umbria e Marche, la Federazione Regionale della Coldiretti e la Regione Marche un allevamento di galline ovaiole del tipo “Ancona”, una razza autoctona pressoché scomparsa dal territorio. Olio, miele e prodotti dell’orto finora sono stati destinati al consumo interno dell’istituto e, quelli in eccesso, distribuiti a famiglie bisognose della zona ma, in vista di un loro incremento, presto potrebbero essere venduti, sia pure nel circuito della filiera corta, anzi cortissima. Entro il 2021 è, infatti, previsto l’apertura nello spazio antistante il carcere di un piccolo spaccio dove potranno essere acquistati miele (acacia, millefiori e melata), candele in cera d’opercolo, olio di varietà autoctone delle Marche, formaggi e bonsai. Torino. La lettera di una detenuta. Nosiglia: “Il tempo passato in cella non è vuoto” di Marina Lomunno Avvenire, 28 gennaio 2021 L’arcivescovo Nosiglia risponde alla lettera di una detenuta: il dialogo con voi è prezioso. La donna aveva scritto al settimanale diocesano: questo è un ambiente duro, ma ho paura di quel che sarà fuori. Il presule: grazie al Signore può vincere il male con il bene. “Il tempo passato in carcere non è vuoto e inutile, se il cuore si apre al Signore per avviare con lui un dialogo costante, non tanto di parole, ma di sentimenti interiori: la certezza del suo amore che mai viene meno, scaccia ogni timore e infonde forza e coraggio”. Parla direttamente ai detenuti, l’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, e sceglie una donna in particolare per ragionare sulla situazione in carcere. La sua riflessione arriva dopo che la stessa donna, reclusa nel carcere torinese Lorusso e Cutugno, aveva indirizzato una lettera la scorsa settimana alla redazione de “La Voce e il tempo”, il settimanale della diocesi subalpina. “Vorrei ringraziare la redazione e tutti coloro che si ricordano di noi detenuti come persone e pensano a noi con umanità - aveva detto. Ho letto la lettera che monsignor Cesare Nosiglia, tramite il suo giornale, ha voluto inviarci e le chiedo di portargli i miei ringraziamenti per le parole di speranza chi ci ha donato. Ci è mancata la Messa di Natale da lui presieduta che mi ha cresimata, qui in carcere nel 2017 perché è un uomo vicino alla gente comune: questo per me è importantissimo perché ci fa sentire meno soli, dà forza alle persone che stanno perdendo il lavoro, agli ultimi lasciati al freddo, agli anziani soli dona quell’affetto di cui una società troppo egoista spesso ne dimentica l’esistenza”. ?La missiva era contenuta nell’appello “Abbona un detenuto”, a cui hanno risposto finora 60 lettori del settimanale, consentendo al giornale di entrare ogni settimana in altrettante sezioni del penitenziario. “Qui in carcere, il 2020 è stato un anno devastante” aveva scritto la donna. “In un luogo già chiuso e stringente per il corpo e l’anima, il tempo è diventato ancora più lungo e pesante. Solo grazie ai cappellani siamo riusciti a tenere viva la speranza e abbiamo deciso di evitare sterili rivolte e piagnistei ma di rispettarci come persone”. Nosiglia, tramite la rubrica del numero di Natale, aveva già scritto una lettera di auguri per gli adulti e per i giovani reclusi nel carcere minorile Ferrante Aporti, poiché a causa della pandemia non aveva potuto celebrare la consueta Messa nella cappella del carcere. E così ha deciso di proseguire il dialogo, rispondendo alla donna reclusa. “Nella mia lettera l’ho invitata a pensare al suo futuro con serenità perché lo Spirito Santo che ha ricevuto nel sacramento della Cresima che le avevo amministrato, la sosterrà nel suo cammino” ci dice Nosiglia “e le consiglierà le scelte giuste da compiere per vincere il male con il bene e non perdere mai la fiducia in se stessa perché il suo amore scaccia ogni timore”. È quello che si augura anche la donna: “Ho molta paura di tornare fuori nelle “vie del male” e sto facendo del mio meglio per tornare ad essere una donna che si vuol bene e non si spreca. Purtroppo il carcere è un ambiente duro e mi pesa molto stare lontana dai miei affetti, anche se la solidarietà tra alcune di noi non manca e ci unisce. Ma il futuro è carico più di incertezze che di buon auspici specie per chi come me teme l’esclusione da un possibile reinserimento una volta scontata la mia pena”. Fuori c’è una crisi spaventosa, “ma non mi faccio ‘uccidere’ dal vittimismo, lo combatto: con il lavoro di addetta alle pulizie, con lo studio al Polo universitario per i detenuti anche se con difficoltà perché per ora è riservato ai reclusi maschi e con il volontariato presso l’Icam, la sezione speciale dove sono ristrette le mamme con bambini sotto i 6 anni”. E, aggiunge, “tutto ciò mi riempie le giornate e il cuore perché mi sento una persona migliore servendo il prossimo. Ricordo gli insegnamenti dei salesiani quando andavo l’oratorio: rivolgere la mia preghiera a Dio mi aiuta, mi rafforza e non mi fa sentire sola”. Trento. Disuguaglianze, ritorniamo a indignarci di Roberto Pinter Corriere del Trentino, 28 gennaio 2021 La morte per freddo di un clochard a Rovereto ha destato scalpore. Ecco, mi piacerebbe adesso che tornassimo a indignarci per le molte disuguaglianze. Che qualcuno possa morire di freddo al giorno d’oggi è difficile da accettare, ma la domanda è: cosa è invece più facile da accettare? In una società programmata per produrre anche scarti umani ci si può meravigliare che ogni tanto questi scarti siano visibili e ci obblighino a qualche sussulto di coscienza e a qualche buon proposito? Se ci sono 238 posti letto per i senza tetto nel nostro tranquillo Trentino non è un problema, lo è se manca il 239 posto che magari avrebbe salvato una vita, e forse anche no visto che ci sono “scelte” di libertà che si sottraggono all’assistenza. Se si ammazza qualche detenuto per tortura o per rivolte dovute al Covid è un problema, e certo che lo è e pure gravissimo, ma non lo è se riempiamo le carceri di piccoli delinquenti fino a farle scoppiare. Se ogni supermercato ha una presenza fissa di questuanti è perfino fastidioso, ma se vediamo che i ricchi hanno accresciuto la ricchezza anche grazie al Covid non ci da fastidio più di tanto. Non voglio dire che chi si agita per una morte all’addiaccio sia mosso da falsa carità o perché voglia rimuovere i segni della povertà, mi domando solo se è sufficiente questa indignazione mentre non ci si indigna più per la vergognosa crescita delle disuguaglianze. Cosa dovremo fare: preoccuparci che nessuno muoia per strada da solo? Certo che dobbiamo preoccuparci, ma ci basta? Possiamo velocizzare la raccolta dei rifiuti e continuare a produrne di più? Non ha molto senso, o meglio lo ha solo quando anche i rifiuti sono occasione di business. Analogamente possiamo moltiplicare i posti letto per i senza tetto o i beneficiari dei redditi di cittadinanza e continuare a produrre disoccupazione, precarietà e povertà? Ho la sensazione che la povertà, superata l’evidenza della fame, sia diventata normalità nel paesaggio della nostra società contemporanea, ma non per insensibilità, bensì per accettazione del modello di sviluppo che comporta appunto alcuni scarti. La stessa sinistra ha finito per dimenticarsi degli ultimi se non come destinatari delle politiche di protezione sociale, per includerli, ma mai come persone da rappresentare nei loro bisogni di cittadinanza o soggetti di un processo di emancipazione sociale. Includere o emancipare sono due cose differenti. Nel primo caso si parla di meriti e di opportunità e si offre qualcosa agli esclusi dalla corsa allo sviluppo. Nel secondo caso si parla di uguaglianza e di cittadinanza per tutti. Ecco, mi piacerebbe che tornassimo a indignarci non per il caso di cronaca o per ciò che sui social commuove, ma per quello che non va e che non si dice, per una struttura iniqua e di classe che controlla il potere e la ricchezza e per il conformismo che finisce per accettare questa struttura come l’unica possibile e dunque immodificabile. Roma. Lo stato autoritario che se la prende col Centro antiviolenza di Piero Sansonetti Il Riformista, 28 gennaio 2021 L’attacco alla casa delle donne romana, come a tante altre iniziative che hanno fatto dei luoghi occupati risorsa necessaria, non è difesa della legalità ma una risposta vendicativa per salvaguardare ingiustizie e inefficienze. Il pesante retaggio di secoli di dominio maschile, con le sue ricadute culturali, sociali, politiche, è arrivato da tempo alla coscienza storica, ma sono ancora esigue minoranze femministe e femminili, con le loro teorie e pratiche, a far in modo che non ritorni di nuovo in ombra. Anche senza andare troppo lontano nel tempo, basta pensare al radicamento che hanno avuto nel nostro Paese le associazioni, i gruppi, le Case delle donne, i centri antiviolenza, gli archivi e i centri di documentazione, le librerie, le libere università, nati dal movimento delle donne degli anni 70. Si tratta di una enorme produzione di pensiero e di battaglie politiche che sono andate, sia pure lentamente, modificando modi di vivere, relazioni, pregiudizi, visione di sé e del mondo per entrambi i sessi, inscrivendo talvolta il cambiamento anche nelle leggi e nel linguaggio politico. Ciò nonostante, la cultura dominante non sembra esserne stata scossa più di tanto. Nel privato, come nel pubblico, continuano a passare violenze maschili di ogni sorta, manifeste e invisibili, materiali e psicologiche, tanto che non è raro per una donna che denuncia la violenza di un marito o padre, o fratello, trovarsi al medesimo tempo vittima di una giustizia che le ritorce contro ciò che ha subito. Un atto aggressivo, come quello degli agenti di polizia del Commissariato Tusculano che, senza aspettare l’arrivo delle avvocate, identificano le ospiti già gravate da un difficile percorso di uscita dalla violenza, si pone al di fuori di ogni legittimazione e non può che essere interpretato come l’atto arrogante di un potere di alcuni uomini, sostenuto dal silenzio complice dei loro simili. Il contrasto alla violenza contro le donne manca ancora di quella indispensabile assunzione di responsabilità da parte del sesso che, su un dominio trasmesso di padre in figlio, ha costruito la sua visione del mondo, le sue istituzioni, i suoi saperi. Se è vero che anche gli uomini, pur essendo dalla parte dei vincenti, hanno finito per assumere inconsapevolmente ruoli e identità considerati “naturali”, perché è così difficile per loro avviare un processo di “presa di coscienza” come quello che è venuto cambiando la vita di molte donne? A quale “legittimazione”, precedente ogni dispositivo di legge, fanno riferimento quando infliggono violenza a una donna, sia pure solo verbale? Dietro i comportamenti individuali c’è purtroppo ancora una cultura patriarcale che li alimenta e un apparato istituzionale, politico e amministrativo che li incoraggia. L’attacco a Lucha y Siesta, come a tante altre iniziative che hanno fatto dei luoghi occupati una risorsa necessaria e preziosa contro le innumerevoli carenze di chi ci governa, non è la “difesa della legalità”, ma la risposta vendicativa e autoritaria volta a salvaguardare ingiustizie, privilegi e inefficienze rispetto a quello che dovrebbe essere salvaguardato come bene comune. Milano. Storie di donne recluse in cerca di riscatto di Sara Cariglia Libero, 28 gennaio 2021 Valentina, Stefania, Martina: “Oltre gli occhi”, giornale prodotto nel carcere milanese, raccoglie i loro scritti e libera le loro menti. Mentre in Italia e nel mondo infuria la pandemia, dietro le mura di San Vittore imperversa il nuovo numero di “Oltre gli occhi”, il giornale delle detenute che trasforma storie galeotte nate tra le pareti di una cella, in farfalle pronte a volare via lontano fuori dagli scherni del giudizio e del pregiudizio, a bordo di moti vorticosi che segano sbarre e rompono cliché. Il magazine del Reparto femminile - probabilmente l’unico in un carcere italiano - s’inserisce nel cuore della “movida” del penitenziario più chiacchierato di Milano, forse perché capace di far luce e “gossip” su ogni pagina buia di quel luogo così totalizzante e totalitario. Si dice che un nuovo anno sia come un libro bianco e la “gazzetta” di piazza Filangieri ha scelto di aprirlo con uno speciale che getta lo sguardo sul dietro le quinte di uno spazio, al momento, radicalmente stravolto dal virus. Un virus colpevole di aver isolato il sistema detentivo da familiari, volontari e da responsabili di attività lavorative interne. La rivista, raccomanda la direttrice, non va sfogliata, ma sgusciata come tentano di fare ogni giorno loro a loro stesse che scrivono. Essa vanta una storia lunga quasi otto anni e ha già conosciuto la penna di diverse detenute. Valentina è tra queste. La “giornalista” in erba racconta le sue prigioni e lo fa puntando i riflettori sulle condizioni di statico silenzio cui versano gli istituti di pena italiani in tempo di pandemia: “Sono stata arrestata per la seconda volta il 19 giugno 2020. A San Vittore ci sono entrata in piena emergenza Covid. Dentro di me c’era un caos incredibile: l’isolamento, le persone che non potevano avvicinarsi al mio blindo, la poca comunicazione. È stato davvero faticoso non avere un appoggio iniziale, stare sola in cella quasi come una persona infetta, e non poter fare una doccia per giorni”. A distanza di qualche mese la situazione non è cambiata. Anzi, per quanto le carceri italiane siano effettivamente alle prese con l’endemico sovraffollamento dei detenuti nelle celle, al loro interno predomina una sempre più ampia e tenebrosa voragine di solitudine spalancata sul nulla. A testimoniarlo è la storia di Valentina: “Le misure in vigore non permettono che nessuno, neppure per gentilezza, possa offrirti una sigaretta, pena il rapporto disciplinare. Provo una sensazione assurda, di solitudine indescrivibile. Mi sento persa, abbandonata e spaesata, perché il carcere fa paura”. A disarcionare la porta di sicurezza sono anche le parole di Martina, abitante del Raggio femminile di San Vittore. La galeotta piange i suoi amati dal 21 gennaio scorso: “Dissi a mia mamma: non ti allarmare, ma penso che fra poco chiuderanno i colloqui. Non mi sbagliavo, quello fu l’ultimo incontro pre-pandemia. Mai avrei pensato che il mondo, da quel momento, sarebbe profondamente cambiato”. L’annus horribilis ha lasciato un’impronta maledettamente indelebile anche nella vita di Stefania che, tra le pagine chiare e le pagine scure dell’inconsueto giornale, ha scelto di dipingervi quegli sciagurati istanti in cui quel gruppo di reclusi di San Vittore, al fine di protestare le misure preventive resesi necessarie a causa del Coronavirus, diede la struttura in pasto alle fiamme: “Era il 9 marzo 2020. Sembrava un giorno come un altro, anche se ovviamente l’aria era pesante. Verso le 10, mentre stavo facendo le pulizie durante la pausa dello spazio agenti, mi è stato detto che dovevo rientrare di corsa al Femminile. Il carcere stava attivando tutte le procedure d’emergenza, facendo uscire i civili e impedendo nuovi ingressi”. Che cosa stava succedendo? “Chiedevo spiegazioni ma nessuno rispondeva. Solo guardano il tiggì ho capito che al Maschile era in atto una rivolta”. La redattrice-detenuta ora teme che le bieche azione degli accusati possano infangare ancor più il “buon” nome della galera: “Le carceri sono sempre state viste come una sorta di fabbrica del male, chi ne esce è in un certo senso bollato, adesso dopo questi fatti la visione della gente sarà di sicuro peggiorata”. La rabbia di Stefania è un grido che parla al nostro presente: “Sono stati scritti articoli e articoli, ma per quale ragione neppure una riga su chi come noi ha fatto ricorso alla violenza? Allora mi domando e dico: chi sconta una pena, perché deve essere punito per qualcosa che non ha fatto, ma che ha semplicemente subito?”. Con uno sguardo orizzontale, paritario e mai giudicante, ad accogliere le “urla” del popolo femminile di San Vittore è Renata Discacciati, anima fondatrice del laboratorio di scrittura in auge: “Parliamo di una minuscola ma feroce impresa, in grado di liberare ciascuno dai cassetti in cui è rinchiuso”. Non a caso il certamen del Lab firmato “Saint-Victor” è per aspera ad astra. “Non so quando potremo ancora ricominciare le lezioni settimanali interne la casa circondariale, ma il fatto che tutte le redattrici abbiano voglia lo stesso di lavorare da sole mi ha scaldato il cuore e mi ha confermato quanto, a volte, io mi senta più a mio agio con loro che con le persone del mio mondo” conclude la punta di diamante della redazione più sconosciuta di Milano. Quei ribelli del pizzo: vite dimenticate di vittime della mafia di Marta Occhipinti La Repubblica, 28 gennaio 2021 Palermo bruciava come un alambicco sul fuoco. Agosto, 1982. Traversa di via Castelforte, quartiere Pallavicino: dentro una macchina un uomo sta accasciato in una pozza di sangue. Si sentono solo le urla della moglie, nel buio di una via silenziosa. La vittima è Vincenzo Spinelli, ex grossista di corredi di 46 anni, proprietario del raffinato “ValTiz” di via Valderice, oggi via Spinelli. Non è facile fare l’imprenditore a Palermo. Di pizzo non si parlava ancora ma la mappa del potere mafioso della città sviscerata dal “Rapporto 162” parlava già chiaro: chi si ribella, muore. “Non tutti poi cercano la mediazione e Spinelli è uno di questi”, confesserà il boss Francesco Di Carlo, che con Spinelli prendeva il caffè ogni giorno nello stesso bar. Non erano bastate le rapine negli anni precedenti per quel negoziante ribelle, Spinelli aveva denunciato anche un pezzo da novanta della malavita, il nipote di Pino Savoca, uomo d’onore di Brancaccio. Il clan Riccobono di Pallavicino mise a posto così il commerciante che disse no al pizzo. La stessa lezione la impartì due mesi prima a Vincenzo Enea, imprenditore edile di Isola delle Femmine che non volle trasformarsi in garzone della mafia. “Killer per un costruttore”, titolò L’Ora l’8 giugno del 1982 con una foto orribile di Vincenzo riverso davanti al cancello del “ Center Bungalow”, il modesto villaggio di casette prefabbricate realizzato con poca spesa sugli scogli di Isola delle Femmine: chiuso d’inverno ospitava gratuitamente famiglie di extracomunitari. Storie di uomini scomodi, come avrebbe insegnato nove anni dopo Libero Grassi, e di papà coraggiosi come Carmelo Iannì, ucciso due anni prima all’hotel Riva Smeralda. La sua colpa? Avere dato una mano ai poliziotti che utilizzarono l’albergo di cui era titolare per infiltrarsi e seguire i movimenti del perito chimico marsigliese, e noto trafficante, Andrè Bousquet ingaggiato da Cosa nostra per insegnare ai picciotti palermitani la raffinazione della droga. Il suo omicidio fu ordinato dal carcere, la sua morte fu una delle prime “esemplari” di Cosa Nostra. “La mafia è un po’ come un cane che dorme, se non lo importuni ti lascia tranquillo e non ti fa male”. Eppure di uomini e di donne che la importunarono ce ne sono stati tanti; come Carmelo Iannì ci furono Ferdinando Domè e Salvatore Zangara, uomini buoni uccisi “per sbaglio”, “danni collaterali” che come un effetto domino lacerano di colpo le esistenze di affetti e famiglie. Ricorda dieci storie tra oltre mille di vittime di mafia, Alessandro Chiolo, insegnante prestato alla scrittura, che dopo aver esaminato le vicende della Squadra mobile dalla morte di Boris Giuliano al maxiprocesso, continua la sua opera di ricostruzione di biografie dimenticate nel libro “Dietro ogni lapide. Morti per mafia, vivi per amore” (Navarra). È un’antologia-ponte tra vivi e morti, tra memorie lucide e carte giudiziarie sotterrate: “Libri come questo chiudono un’epoca e ne avviano un’altra. Chiudono il capitolo di una storia fin troppo inflazionata, votata alla retorica e cominciano a scriverne un altro”, scrive il giornalista Piero Melati nella sua prefazione alla raccolta. Riavvia tante storie Chiolo e ricordandole ne fa Storia collettiva: l’effetto è un amaro sorriso. La memoria è più forte della morte, perché è presenza. Insegna questo il racconto- intervista di Chiara Frazzetto, figlia del primo imprenditore a ribellarsi al pizzo a Niscemi, Salvatore Frazzetto, detto Totò, ucciso nel suo negozio, “Papillon”, insieme al figlio Mimmo, il 16 ottobre del 1996. Cinque mesi dopo, la moglie Agata si impicca per il dolore. Certi dolori “sono condanne all’ergastolo”, il tempo fa il suo lavoro come il mare che leviga le pietre, la giustizia accelera la maturazione della perdita, anche quando a questa non c’è spiegazione: è il caso di Giuseppe D’Angelo, ‘u patri ri puvirieddi, freddato da dodici colpi di pistola per uno scambio di persona col boss di Tommaso Natale, Bartolomeo Spatola. Chiolo racconta di vittime relegate in serie B, e sceglie il modo più autentico per farlo: attraverso le voci dei loro parenti, racconti in prima persona, interviste dai lunghi silenzi che gettano parole nuove nel racconto sulla mafia. Il risultato è un inedito memoriale di “eroi normali” che hanno amato così tanto da vivere anche dopo la morte. Il “tradimento” del maestro: Palamara contro Pignatone di Giulia Merlo Il Domani, 28 gennaio 2021 Nel libro “Il sistema”, l’ex presidente dell’Anm accusa il magistrato antimafia di aver orchestrato la sua caduta. Il meccanismo gli si sarebbe ritorto contro, nel momento in cui ha provato a scegliere il suo successore. Tutto inizia e finisce con la procura di Roma: l’ufficio più importante d’Italia, che nella gerarchia politico-giudiziaria equivale a due ministeri. Qui inizia il caso Palamara, scoperto con le intercettazioni dell’Hotel Champagne, in cui il magistrato insieme a Luca Lotti, Cosimo Ferri e due membri del Consiglio superiore della magistratura si accorda per il successore a capo della procura. Secondo Palamara, invece, la storia inizierebbe nel marzo 2012, con la nomina a procuratore capo della capitale di Giuseppe Pignatone. “Se vogliamo usare la parola tradimento, possiamo farlo”, ha detto Luca Palamara durante la presentazione del libro-intervista Il sistema, scritto da Alessandro Sallusti e primo tassello della difesa pubblica dell’ex magistrato. Radiato dalla magistratura e imputato per corruzione dalla procura di Perugia, per Palamara il tradimento sarebbe quello compiuto da Pignatone ai suoi danni. Il libro-intervista ha già ricevuto numerose smentite e annunci di querela: il primo è stato l’ex procuratore aggiunto di Roma, Giuseppe Cascini, che ha detto che è “tutto inventato”. Se il libro se fosse un romanzo, Pignatone sarebbe l’amico che si trasforma in regista che ordisce la caduta di Palamara. Nato a Caltanissetta nel 1949 e figlio di un deputato democristiano, Giuseppe Pignatone diventa magistrato e nel 1977 viene nominato sostituto procuratore a Palermo. Negli anni si ritaglia spazio come uno dei più stretti collaboratori del procuratore capo Pietro Giammanco, in forte antagonismo e contrasto con Giovanni Falcone. È il periodo dei veleni nel palazzo di giustizia di Palermo: Falcone annota nei suoi diari del progressivo ostracismo che sta subendo anche da parte dei colleghi, che lo costringono a lasciare il capoluogo siciliano. Proprio questa scelta di campo avrebbe segnato la carriera di Pignatone. Dopo la strage di Capaci viene costretto ai margini e, nonostante i suoi quasi trent’anni di servizio in quella procura e i successi professionali, la sua nomina a procuratore capo nel 2006 sarebbe stata impedita dai colleghi siciliani. Inizia così il suo “esilio” a Reggio Calabria, dove esporta il sistema di indagine applicato a Palermo: qui ottiene visibilità nazionale dopo alcune indagini contro la ‘ndrangheta che lo rendono vittima di intimidazioni e minacce. La più nota, nel 2010, è il ritrovamento di un bazooka “indirizzato” a lui davanti alla sede della procura di Reggio Calabria. “Lo conosco nel 2011, quando come presidente Anm intensifico la mia presenza a Reggio Calabria”, racconta Palamara a Sallusti, “e Pignatone, ben conoscendo il mio ruolo nella politica associativa, inizia a parlarmi delle sue ambizioni future”. Palamara sostiene di essere l’orchestratore della nomina di Pignatone a capo della procura di Roma nel 2012. L’avversario da sconfiggere è Giancarlo Capaldo, il braccio destro del procuratore capo uscente Giovanni Ferrara, che però viene messo fuori dai giochi a causa di una fuga di notizie su una sua cena con un indagato nell’inchiesta Finmeccanica. Pignatone viene nominato all’unanimità procuratore capo e nel libro Palamara rivendica di aver utilizzato di nuovo la sua influenza di “signore delle tessere” per muovere le pedine sulla scacchiera e accontentare Pignatone, che gli avrebbe caldeggiato il trasferimento a Roma dei suoi stretti collaboratori: il magistrato Michele Prestipino e alcuni ufficiali della polizia giudiziaria. “Lo aiuto a circondarsi di investigatori di sua scelta - qualcuno dirà che si era fatto una polizia privata - ma soprattutto mi impegno a portargli a Roma come vice il suo braccio destro di sempre, il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che era rimasto a Reggio Calabria a fare la guardia all’ufficio. Con lui Pignatone - fu una sua confidenza - avrebbe voluto cambiare l’agenda della procura di Roma, sterzare su grosse indagini contro la criminalità organizzata mafiosa, come aveva fatto a Palermo prima e a Reggio Calabria poi”, dice ancora Palamara. Il racconto trascritto da Sallusti è quello di un Palamara che si presterebbe a esercitare il ruolo di braccio esecutivo di Pignatone, assecondandone le richieste attraverso la sua rete correntizia. A questo punto arriva il tradimento: all’indomani del successo di Palamara nella nomina di Riccardo Fuzio a procuratore generale della Cassazione, Pignatone gli avrebbe comunicato che “con la Guardia di finanza abbiamo fatto degli accertamenti su un albergo e risulta che una notte tu hai dormito lì con una donna che non è tua moglie” e ancora “stiamo indagando sul tuo amico Fabrizio Centofanti e c’è il sospetto che lui abbia sostenuto le tue spese”. L’indagine è quella sull’imprenditore Centofanti, amico comune anche di Pignatone ma che il procuratore capo farà arrestare nel 2018 per corruzione. Per riassumerla con le parole di Palamara: “Nel giorno del mio massimo successo, il “Sistema”, con la faccia gentile di Pignatone, mi annuncia che sono arrivato al capolinea”. “L’equivoco di fondo” Ecco dunque che si invertono le posizioni. Pignatone, da maestro e “pezzo pregiato” del sistema, diventerebbe artefice con la sua inchiesta della caduta del padrone delle tessere. Passano quasi due anni tra la conversazione con Pignatone raccontata da Palamara e la successiva fuga di notizie e pubblicazione delle intercettazioni dal cellulare di Palamara. Due anni che Palamara vive con la spada di Damocle di una inchiesta che potrebbe distruggerne la credibilità ma che non gli impediscono di giocare due partite fondamentali: la nomina di David Ermini alla vicepresidenza del Csm e soprattutto la successione alla procura di Roma di cui si discute all’Hotel Champagne. “Da un certo punto in poi il rapporto con Pignatone non ha più funzionato per un equivoco di fondo”, ha raccontato Palamara alla presentazione del libro. L’equivoco avrebbe riguardato proprio la successione dopo il pensionamento di Pignatone. Le intercettazioni dell’hotel Champagne pubblicate indebitamente scoperchiano il vaso di Pandora del “mercato delle nomine”, facendo saltare la nomina ormai quasi fatta di Marcello Viola. L’allusione è chiara: Palamara salta nel momento in cui scavalca Pignatone nella scelta del suo successore. Pignatone vorrebbe che il nuovo procuratore agisca in continuità e il nome sarebbe quello del suo braccio destro, Michele Prestipino (che nel 2020 diventa effettivamente procuratore capo). Palamara, invece, vorrebbe giocare da solo la partita e nominare un nuovo procuratore capo più controllabile, perché scelto con la logica spartitoria che lui governa. Un procuratore capo che avrebbe per le mani anche l’inchiesta su Centofanti, in cui Palamara risultava implicato. Così emerge il disegno che Palamara oggi usa per difendersi: il “sistema” si sarebbe attivato contro di lui, che fino ad allora era stato più strumento che burattinaio, quando si mette in testa di determinare le sorti della procura più importante d’Italia contro il volere di chi fino ad allora la aveva retta. Con la pandemia anche la Costituzione è diventata più fragile di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 28 gennaio 2021 Con la sentenza del 18 novembre 2020, n. 278, la Corte Costituzionale ha ritenuto infondate le questioni di illegittimità costituzionale sollevate a più battute in ordine alla sospensione dei termini di prescrizione così come disposta dall’art. 83, comma 4, del Decreto Legge n. 18 del 2020. Nelle sue intenzioni il decreto, volendo far fronte alla crisi pandemica in atto, ha deciso di congelare tutte le attività del settore Giustizia, disponendo la sospensione dei processi dal 9 marzo us all’ 11 maggio del 2020. L’effetto freezer andava applicandosi, ancorché in forza di una legge intervenuta a posteriori, anche a fatti antecedenti la data di entrata in vigore del decreto, con un evidente vulnus del principio di legalità penale. In particolare, la pronuncia nel respingere le censure elevate, ammette la sospensione in utilizzando quale “Cavallo di Troia” l’art. 159 c. p. p., per il quale “il corso della prescrizione” rimane sospeso “ogni qualvolta la sospensione del procedimento o del processo penale sia imposta da una particolare disposizione di legge”. Secondo la Consulta, infatti, l’art. 159 c. p. p. consentirebbe al Dpcm 18/ 2020 e 23/ 2020 di eludere il principio di legalità, rectius rispettarlo, perché giustificato dal comma 1 del summenzionato articolo. Si legge infatti nella sentenza che l’art. 159 c. p. p. “rispetta il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., avendo un contenuto sufficientemente preciso e determinato, aperto all’integrazione di altre più specifiche disposizioni di legge, le quali devono comunque rispettare - come si dirà infra al punto 14 - il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) e quello di ragionevolezza e proporzionalità (art. 3, primo comma, Cost.)”. Ed è in questo frangente che entra in campo la ragionevole durata del processo che non verrebbe minacciata da una semplice sospensione di pochi mesi. Parimenti rispettato il principio di ragionevolezza, dal momento che la norma interverrebbe per far fronte ad una situazione emergenziale del tutto imprevedibile, singolare e per certi versi traumaticamente ingravescente, che pone in risalto la tutela di un interesse altrettanto meritevole di protezione: la salvaguardia della salute pubblica. Infine il provvedimento è stato giudicato proporzionale - ai sensi dell’art. 3 Cost. - in quanto il congelamento di tutti i termini procedimentali comporta un equilibrio di tutti gli interessi in gioco. Infatti la stasi procedimentale è valida per tutte quante le parti del procedimento: “la pubblica accusa, la persona offesa costituita parte civile e l’imputato. Come l’azione penale e la pretesa risarcitoria hanno un temporaneo arresto, così anche, per preservare l’equilibrio della tutela dei valori in gioco, è sospeso il termine di prescrizione del reato per l’indagato o l’imputato”. Tuttavia in merito a quest’ultimo aspetto va sottolineato che, se da un lato è vero come, almeno proceduralmente, è rispettato l’equilibrio e parità delle parti, non è altrettanto vero che simile bilanciamento intervenga in toto anche dal lato più propriamente sostanziale. La Corte Costituzionale, infatti, omette di evidenziare che il tempo nel quale l’imputato è costretto a trovararsi in virtù della sua condizione, viene inevitabilmente prolungato per scelte, sì condivisibili, ma non giustificabili, dal punto di vista giuridico- sostanziale. La Consulta, insomma, nel rilevare la sussistenza del criterio di “proporzionalità”, non si pone nell’ottica di chi vede il giorno del proprio giudizio sempre più lontano. La criticità era già stata sollevata da chi scrive allorquando si parlò del venir meno dell’istituto della prescrizione con l’effetto a catena del “fine processo mai”. Vi è di più. Ad un occhio allenato non può sfuggire che tale sentenza risulta confliggente con le stesse pronunce della Corte, in particolare con la cd. sentenza “Taricco”, allorquando la Consulta affermava con forza che la prescrizione, quale principio di carattere sia procedurale, ma soprattutto sostanziale, non può soffrire eccezioni. Un Giano Bifronte che guarda al passato ed al futuro quindi? La prescrizione, in allora, veniva incasellata tra tutta una serie di garanzie, tra cui la tassatività, irretroattività, garanzie che oggi parrebbero venir meno. Ne consegue che, l’art. 159 c. p. p., pur essendo stato ritenuto idoneo ad aprire le porte del sistema nei suddetti termini, non è di per sé solo sufficiente, essendo stato il decreto valutato, in subordine, alla luce di ulteriori principi. D’altra parte, è corretto evidenziarlo, il precedente sì creato ha di fatto scalfito quello che fino alla sentenza “Taricco” era uno dei supremi principi dell’ordinamento, ponendo in luce la verità che, ogni principio, anche quelli più elevati nella gerarchia costituzionale, possono venire meno avanti a situazioni di necessità. La pandemia, insomma, ha cancellato la certezza che principi immutabili siano tali, ponendo in luce l’evidenza che anche i presidi più inscalfibili possono essere declassati qualora ve ne siano altri - come la tutela della salute collettiva - sottoposti a rischio. L’esigenza di tutelare il bene primario della salute costringe a realizzare un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali, nessuno dei quali può essere assoluto e inderogabile. Evidente appare il piegarsi del dogma ad esigenze di carattere pragmatico, mettendo a rischio quell’immutabilità di cui la Costituzione da sempre gode, o dovrebbe godere, quale tutela dei diritti di tutti. Ammettere infatti una flessibilizzazione della Carta costituzionale per renderla più accomodante alle esigenze della realtà storica, se da un lato comporta una più agevole capacità di affrontare le emergenze, dall’altra rende il testo costituzionale meno forte a mantenere il ruolo per cui è stato creato che è la tutela dei diritti fondamentali, soprattutto in stagioni di emergenza. A parere di chi scrive, la Consulta pur entrando nettamente in conflitto con il principio di legalità ex art. 25 Cost. e creando per certi versi il precedente di retroattività della legge penale, non apporta eccessivi cambiamenti interni al sistema: è pacifico ritenere che la Consulta sia perfettamente consapevole delle motivazioni e della loro portata e, anzi, è assolutamente probabile la Corte sia solamente mossa da ragioni di estrema necessità, quale la battaglia al Covid- 19 che porta, con lo sforzo di tutti, una tutela rafforzata a salvaguardia degli interessi di salute del Paese. Auschwitz non è solo alle nostre spalle: il mostro è ancora vivo di Eraldo Affinati Il Riformista, 28 gennaio 2021 Il ritorno della lebbra antisemita è sotto ai nostri occhi con la recrudescenza del razzismo neonazista. I testimoni diretti dell’orrore sono sempre meno: loro avevano legittimità di parola, noi dovremo conquistarla. E intervenire qui e ora di fronte all’oltraggio e all’infamia. Per gentile concessione dell’autore e del Quirinale, pubblichiamo qui di seguito il discorso che Eraldo Affinati ha pronunciato ieri alla presenza del presidente Mattarella in occasione del Giorno della Memoria Signor Presidente della Repubblica, autorità politiche, il Giorno della Memoria in ricordo della Shoah è stato istituito in Italia nel 2001, grazie a una legge dell’anno precedente, quindi prima della risoluzione presa dall’Assemblea delle Nazioni Unite, che è del 2005, e questo ho sempre pensato facesse onore al nostro Paese che, come tutti sappiamo, non può chiamarsi fuori rispetto allo “sterminio industriale e amministrativo” (è un’espressione del filosofo Theodor Adorno) di milioni di persone avvenuto alla metà del Novecento nel cuore dell’Europa civilizzata, visto il nostro diretto coinvolgimento nella sciagurata alleanza con il regime nazista che determinò l’emanazione delle leggi razziali nel 1938, quando, per fare un solo esempio, tanti bambini furono costretti ad abbandonare le loro aule da un giorno all’altro solo perché erano ebrei. Ricorderò sempre l’emozione che Piero Terracina, uno degli ultimi testimoni, di cui sono stato amico, scomparso poco più di un anno fa, suscitò nei miei studenti alla Città dei Ragazzi di Roma, quando lo accompagnai di fronte a loro a raccontare la sua storia, dal momento della forzata interruzione scolastica, alla vera e propria deportazione, fino alla terribile esperienza del lager. In questi venti anni dalla prima edizione del Giorno della Memoria dobbiamo ammettere che la consapevolezza dei giovani al riguardo è indubbiamente cresciuta, anche grazie all’opera di tanti insegnanti impegnati a far conoscere ai loro studenti le atrocità degli eventi accaduti. Eppure il ritorno della lebbra antisemita e negazionista è sotto ai nostri occhi con la dolorosa recrudescenza del razzismo neofascista e neonazista spesso amplificato dalla dimensione digitale dove l’offesa e l’insulto, anche per un deficit legislativo che dovremmo superare, sembrano affrancati dall’obbligo del risarcimento. È vero: ogni generazione ricomincia da capo e noi adulti, qui parlo come educatore, non dovremmo mai dare niente per scontato. Soprattutto adesso che i protagonisti diretti sono sempre di meno e noi, venuti dopo, siamo chiamati a raccoglierne il testimone. Ma loro avevano la legittimità per parlare. Noi dovremo conquistarcela. Come possiamo fare? Ci sono due modi: studiare le fonti e guidare i nostri ragazzi alla perlustrazione dei luoghi dove avvennero i massacri: Auschwitz, Birkenau, Mathausen, Bergen Belsen, Sobibor, Treblinka, questi sono “terreni sacri”, come li definì Günther Anders, avvicinabili solo attraverso categorie demoniache, certo, ma anche Fossoli, la risiera di San Sabba, il campo di transito di Bolzano, il carcere di Via Tasso, le Fosse Ardeatine. Soprattutto dovremmo capire che la Shoah si può ripresentare in forme nuove, diverse dal passato, ma non meno efferate. Per la prima volta, nella storia dell’umanità, si è ucciso a catena, come si costruiscono le automobili, è un’immagine evocata da Zygmunt Bauman in un libro intitolato Modernità ed Olocausto. Milioni di persone, ebrei, oppositori politici, cosiddetti asociali, omosessuali, senza dimenticare il popolo rom, vennero gassate e bruciate nei forni crematori all’interno dei campi di concentramento sparsi in tutta Europa. Ma lo sterminio era cominciato già molto prima in Germania con l’eliminazione dei malati mentali mediante iniezioni letali: la famosa operazione T4. La ferocia nazista si mostrò poi con le “eliminazioni caotiche”, come le chiama Léon Poliakov, oppure le “operazioni mobili di massacro”, secondo l’espressione di Raul Hilberg. I reggimenti speciali si spostavano in piccoli drappelli sulla linea del fronte russo, entrando nelle città conquistate dai nazisti insieme alle avanguardie della Wehrmacht. Mitragliarono a sangue freddo migliaia di ebrei davanti a enormi buche. Del resto, i rastrellamenti dei ghetti polacchi implicavano la fucilazione sul posto di vecchi, donne e bambini. Naturalmente sapevamo che gli individui della nostra specie possono commettere i delitti più atroci, ma la Shoah ha rivelato la parte terrificante dell’essere umano. Le selezioni avvenivano sin dal primo arrivo dei deportati sulle banchine ferroviarie e potevano causare la loro morte immediata: il medico nazista si metteva al centro e con un cenno della mano divideva la fila, fra donne e uomini, bambini e adulti, sani e malati. Da una parte si andava al campo, dall’altra al gas. Nel lager tutto era orribilmente organizzato. C’erano le SS, demoni inaccessibili e solenni agli occhi dei reclusi, c’erano i capi-blocco, prigionieri eletti a dittatori assoluti, c’erano i Sonderkommando, ai quali veniva affidata la gestione dei crematori. Il capo-baracca, famigerato Kapò, aveva un potere illimitato sui prigionieri. Controllava i pasti, verificava l’appello, eseguiva le punizioni corporali. I grandi scrittori dell’universo concentrazionario sono diventati punti di riferimento assoluto, non soltanto per chi, come me, è nipote di un partigiano fucilato dai nazisti e figlio di una donna riuscita a fuggire dal convoglio maledetto, anche per ogni essere umano: da Primo Levi a Robert Antelme, da Jean Améry a Tadeusz Borowski, da Margaret Buber-Neumann a Etty Hillesum, da David Rousset a Jorge Semprun, da Eli Wiesel a Ruth Kluger. Grazie a loro abbiamo decifrato i numeri tatuati sulla pelle, le schedature, la fame, le mutilazioni permanenti, la tortura sistematica, gli appelli, le impiccagioni. Sono stati questi straordinari salvati, per usare l’immagine coniata da Primo Levi nel suo libro testamento, a farci comprendere il gorgo dove sprofondarono i sommersi. Senza di loro non avremmo memoria dei pezzi di pane nero, le brodaglie, i calci, le bastonate, le fustigazioni, gli assiderati, i lavori forzati, i cani addestrati ad azzannare i prigionieri, i famigerati esperimenti genetici sui gemelli del dottor Mengele… “Il cupo mistero di quanto accadde in Europa non è per me separabile dalla mia stessa identità”, scrisse George Steiner. Oggi, 76 anni dopo, noi siamo come i giovani soldati russi a cavallo che, alla fine del gennaio 1945, per primi avanzarono fra i reticolati. Continuiamo a procedere guardinghi, oppressi da quello che Primo Levi in La tregua definì “un confuso ritegno”. I carnefici non erano soltanto sadici, altrimenti sarebbe più facile liquidarli oggi. Si trattava, come ci ha spiegato Christopher Browning, di persone ordinarie che aprirono e chiusero una parentesi nella loro vita. Questo ci obbliga a riconsiderare le nostre esistenze. Ricordiamo sempre l’espressione, “banalità del male”, divenuta proverbiale, usata da Hannah Arendt per definire l’azione dell’oscuro burocrate Adolf Eichmann. Dietrich Bonhoeffer, teologo antinazista fatto impiccare da Adolf Hitler nel lager di Flossenburg poco prima della fine della Seconda guerra mondiale, aveva sperato che le generazioni future potessero imparare dalla tragedia del totalitarismo. Così purtroppo non è avvenuto. Alcune sue parole preziose dovrebbero essere al centro di ogni patto educativo: “Per noi il pensiero era molte volte il lusso dello spettatore”, disse, “per voi sarà completamente al servizio del fare”. Si tratta, ancora oggi, di un compito ineludibile. Dovremmo intervenire appena vediamo l’oltraggio dei principi democratici in cui crediamo. Non basta eseguire il mansionario. Bisogna assumere la responsabilità dei contesti in cui operiamo. Adesso, qui ed ora. Nella vita privata e pubblica. Non chissà quando e dove. In tale prospettiva Auschwitz non è solo alle nostre spalle. È anche, sempre più, davanti a noi. Minori e privacy, dopo TikTok il Garante apre un fascicolo anche su Facebook e Instagram di Bruno Ruffilli La Stampa, 28 gennaio 2021 “Dicano quanti e quali profili aveva la bambina morta a Palermo e chiariscano come funzionano le verifiche per l’età di iscrizione”. Presto l’indagine dell’autorità sarà estesa anche ad altri social Minori e privacy, dopo TikTok il Garante apre un fascicolo anche su Facebook e Instagram. Si allarga l’intervento del Garante per la protezione dei dati personali a tutela dei minori sui social dopo il caso della bambina di Palermo e il blocco imposto a Tik Tok. L’Autorità ha aperto ieri un fascicolo su Facebook e Instagram. Nei giorni scorsi alcuni articoli di stampa hanno riportato la notizia che la minore avrebbe diversi profili aperti sui due social network. L’Autorità ha dunque chiesto a Facebook, che controlla anche Instagram, di fornire una serie di informazioni, a partire da quanti e quali profili avesse la minore e, qualora questa circostanza venisse confermata, su come sia stato possibile, per una minore di 10 anni, iscriversi alle due piattaforme. Ma ha chiesto soprattutto di fornire precise indicazioni sulle modalità di iscrizione ai due social e sulle verifiche dell’età dell’utente adottate per controllare il rispetto dell’età minima di iscrizione. Facebook dovrà dare riscontro al Garante entro 15 giorni. La verifica dell’Autorità sarà estesa anche agli altri social, in particolare riguardo alle modalità di accesso alle piattaforme da parte dei minori. Intanto un portavoce di TikTok ha dichiarato: “Abbiamo comunicato al Garante delle linee d’azione in risposta alle preoccupazioni sollevate, che prendiamo con la massima serietà. In TikTok la sicurezza della nostra community - in particolare degli utenti più giovani - è la nostra priorità. Mettiamo a disposizione degli adolescenti e delle loro famiglie solidi controlli di sicurezza e risorse sulla nostra piattaforma e aggiorniamo regolarmente le nostre policy e misure di protezione come parte del nostro continuo impegno nei confronti della nostra community”. Migranti. Strage dei bambini, l’Onu contro l’Italia: “Ritardò i soccorsi” di Leo Lancari Il Manifesto, 28 gennaio 2021 Nel naufragio dell’11 ottobre 2013 persero la vita 200 migranti, 60 dei quali erano minori. E’ stata definita la “strage dei bambini” perché tra i 200 migranti che quel giorno persero la vita, era l’11 ottobre del 2013, c’erano anche 60 minori. Una delle tragedie più gravi del Mediterraneo, preceduta solo 8 giorni prima, il 3 ottobre, da un’altra: l’affondamento a soli 300 metri dalle coste dell’isola di Lampedusa di un barcone stracarico di migranti, 368 dei quali persero la vita. Un dramma così grande che quasi offuscò la sorte di quelle 200 vittime che vennero in seguito e, soprattutto, le responsabilità avute dall’Italia in quanto accadde. Sì perché non lontano da quel peschereccio in difficoltà, c’era un pattugliatore della Marina militare italiana, la Its Libra che sarebbe potuta intervenire. “L’Italia ha fallito”, ha stabilito ieri il Comitato per i diritti umani delle Nazioni unite accogliendo il ricorso presentato da quattro sopravvissuti a quel naufragio, tre siriani e un palestinese. “Avrebbe dovuto tutelare il diritto alla vita di oltre 200 migrati che erano a bordo dell’imbarcazione” e invece “non ha risposto prontamente a varie chiamate di soccorso” partite dalla barca. Tra queste anche quelle fatte da un medico siriano di Aleppo, il dottor Mohanad Jammo, che aveva lanciato l’allarme chiamando Roma con un telefono satellitare. Jammo, che in quel naufragio perse due dei suoi tre figli, due bambini di 6 anni e 9 mesi, è uno dei testimoni del processo in corso a Roma che vede tra gli imputati due ufficiali, il comandante della sala operativa della Guardia costiera e quello della sala operativa della squadra navale della Marina militare. Entrambi devono rispondere di rifiuto di atti d’ufficio e omicidio colposo per non aver ordinato l’immediato intervento del pattugliatore in attesa che a operare fossero le autorità di Malta. Proprio il ruolo svolto dalla Marina è al centro della decisione adottata dai 18 membri indipendenti del Comitato Onu. Il peschereccio era partito il 10 ottobre dalla città libica di Zuwarah con a bordo circa 400 persone, la maggior parte delle quali profughi siriani in fuga dalla guerra. Poche ore dopo la partenza, l’imbarcazione comincia a prendere acqua a causa dei colpi sparati da un’altra nave. In quel momento si trova 113 chilometri a sud di Lampedusa e 218 chilometri a sud di Malta, in zona Sar maltese. Inutili le richieste di aiuto rivolte alle autorità italiane, che rimandano però le chiamate a quelle maltesi. Uno scaricabarile che dura ore, fino a quando il peschereccio non si ribalta e le persone finiscono in mare. Solo a quel punto da Roma arriva l’ordine alla Libra di intervenire in aiuto dei migranti, senza però riuscire a impedire la morte di 200 di loro. “L’incidente è avvenuto nelle acque internazionali, all’interno della zona di ricerca e soccorso maltese, ma il luogo era effettivamente più vicino all’Italia e a una delle sue navi militari”, ha spiegato ieri uno dei membri del Comitato, Helene Tigroudja. “Se le autorità italiane avessero diretto immediatamente la loro nave e le barche della Guardia costiera dopo le chiamate di soccorso, il salvataggio avrebbe raggiunto la nave al più tardi due ore prima che affondasse”. Il fatto che il peschereccio non si trovasse in acque sotto responsabilità italiana non giustifica, per il Comitato Onu, le scelte prese: “Gli Stati interessati sono tenuti, in base al diritto internazionale del mare, a prendere provvedimenti per proteggere la vita di tutti gli individui che si trovano in una situazione di pericolo in mare” spiega infatti Tigroudja, sottolineando come le autorità italiane “avevano il dovere di appoggiare la missione di ricerca e soccorso per salvare le vite dei migranti”. La decisione di ritardare i soccorsi, è la conclusione raggiunta dal Comitato delle Nazioni unite, “ha avuto un impatto diretto sulla perdita di centinaia di vite”. Stati Uniti. Con l’uccisione di un’assassina mettiamo a morte la civiltà di Mattia Insolia Il Domani, 28 gennaio 2021 Dietro ogni pena capitale c’è il fallimento di un sistema che dovrebbe cercare giustizia, non creare altro dolore. Come negli Stati Uniti con l’esecuzione di Lisa Montgomery: ecco perché ha senso ricordare la sua storia. Ci sono tipi umani che il mondo, per un istinto bastardo e inspiegabile, rigetta come pezzi di sé di cui non sa che farsene. Persone che, sfigurate dal fuoco quando ancora la corsa devono iniziarla, sembrano avere il destino già scritto. Lisa Montgomery è cresciuta all’inferno e, nella sostanza di cui era composta, le cicatrici che s’è procurata lì se le è portate addosso per sempre. Quei segni egocentrici e dolorosi, però, non ha mai voluto guardarli nessuno, e il dramma che l’ha marchiata da bimba, alla fine, l’ha consumata tutta, incendiando ciò che la circondava. Il mondo quindi, ineluttabile e cieco, l’ha rigettata. La vita e i traumi Lisa nasce il 27 febbraio 1968 a Melvern, in Kansas. Vive con la sorellastra di quattro anni più grande, Diane, il patrigno e Judy, la madre; donna violenta, dura e alcolizzata che in gravidanza causa una sindrome feto-alcolica a Lisa. Le due bimbe, non del tutto consce di vivere in un orrore allucinato, cercano di proteggersi a vicenda dalle torture a cui sono sottoposte quotidianamente. Una volta Diane è costretta a stare nuda in strada, un’altra Judy uccide il cane di famiglia davanti alle sorelline. Finché una notte, quando la madre è in città ad annegare nell’alcol, Diane viene stuprata da uno dei tanti babysitter saltuari ingaggiati da Judy, un uomo avanti d’età che manco conosceva. Mesi dopo i servizi sociali portano via Diane per darla in affidamento: per lei è la fine degli abusi, ma per Lisa è solo l’inizio. Il patrigno comincia a seviziarla, e va avanti per anni portandola in un rimorchio per roulotte comprato apposta. Chiusi lì, lui e i suoi amici stuprano, picchiano e insultano Lisa per ore e ore; spesso, le orinano addosso. Judy sa cosa succede nel rimorchio vicino casa, ma dà la colpa a Lisa (quando la vede per la prima volta con quegli uomini, la minaccia con una pistola). Inizia quindi a vendere il corpo della bambina, usandola come moneta di scambio, dandola a elettricisti e idraulici. La gente del quartiere inizia a conoscere la storia di Lisa ma nessuno fa niente, neppure chi avrebbe dovuto: assistenti sociali, medici e poliziotti. A diciott’anni sposa il fratellastro, però non cambia niente: le botte e gli stupri continuano, adesso il marito registra sia le percosse, sia le violenze sessuali per poi costringere Lisa a guardarle con lui. La donna rimane incinta quattro volte, ma a 32 anni Judy la fa sottoporre con la forza a una sterilizzazione. Nel periodo successivo, crede più volte di aspettare un figlio, succede anche che si convinca che quel bimbo o quell’altro, incontrato in giro, sia suo. Passa gran parte delle giornate al computer, si allontana da tutti, come fosse in un mondo distante. Non ha relazioni se non con i figli e con il nuovo marito (si è sposata di nuovo). E quel corpo di cui nessuno s’è mai voluto prendere cura, lo abbandona lei stessa al nulla che cerca da anni d’inghiottirla. Finché un giorno, nell’autunno del 2004, un giorno di quiete apparente, Lisa conosce su internet Bobbie Joe Stinnett, ventitreenne all’ottavo mese di gravidanza. E la tragedia di Lisa, tessera di un domino che cade alla prima scossa del terreno, ne innesca un’altra. Il male genera male È il male a generare il male, ed è in questa procreazione che tutto si fa buio. Bobbie Joe Stinnett è stata uccisa da Lisa Montgomery il 16 dicembre 2004. Strangolata a morte, l’assassina le ha reciso l’addome per prenderle la bimba che portava in grembo (bimba che Lisa, nel proprio delirio, era convinta fosse sua; nelle ore in cui l’ha tenuta con sé, l’ha rinominata Abigail). Il corpo di Bobbie è stato trovato il giorno dopo, Lisa è stata arrestata quasi subito e la neonata, Victoria, è ritornata alla famiglia, con cui vive oggi. Condannata a morte nel 2007, Lisa è stata uccisa con un’iniezione letale il 13 gennaio 2021; la prima donna in 67 anni a essere ammazzata dal governo federale degli Stati Uniti, la quarta della sua storia. Psichiatri e avvocati coinvolti nel caso si sono detti certi, e a più riprese tra il 2005 e il 2020, che Lisa non fosse capace d’intendere e di volere sia quando ha strangolato Bobbie sia durante il processo (cinque giorni dopo l’assassinio, aveva già rimosso ciò che aveva fatto). Le sono stati diagnosticati un disturbo bipolare, una sindrome da stress post traumatico, una forte dissociazione e una profonda depressione; gli ultimi giorni della sua vita li ha trascorsi in una zona a parte del penitenziario perché si temeva potesse suicidarsi. Sulla lettiga dove è stata uccisa, sdraiata e legata, le è stato chiesto se avesse delle ultime parole, ma lei ha risposto “No”. Solo “No”. “No” e basta. E dopo sedici anni di carcere è stata messa a morte. Raccontando la storia di Lisa Montgomery il mio intento non è cancellare le sue colpe. Non instillare pena o sentimenti di simpatia nei suoi confronti. Non giustificare i suoi crimini con un trascorso di violenze tremende. Il delitto di Lisa è atroce, e niente e nessuno potrà mai eliminare il dolore che ha causato. Il mio intento non è sgravarle di dosso la colpa, ma umanizzare la colpevole. Lo faccio con lei, ma penso sia un ragionamento valido per tutti. Lisa è un esempio, e i motivi per cui ho deciso di parlare di lei sono due. Primo, perché lei, con la sua esistenza martoriata, con la sua infanzia infranta, fatichiamo a considerarla un mostro: ai nostri occhi rimane un essere umano. Secondo, perché il suo episodio rende chiaro quanto possa essere fallibile un sistema di giustizia e, di conseguenza, quanto orribile sia il meccanismo che prevede che un uomo, imperfetto in quanto tale, possa trovarsi tra le mani la facoltà di uccidere un suo pari. Lisa non doveva essere ammazzata al di là dei problemi psichiatrici, è questo che voglio dire (anche se quelli, come detto, rendono la storia più grottesca). Doveva pagare per i crimini commessi, sì, ma chi l’ha giudicata avrebbe dovuto fare giustizia, non cercare vendetta. È verso un mondo giusto che dobbiamo andare, non un mondo vendicativo, di paura e di dolore. E se non come una vendetta, come giudicare la messa a morte di una donna così sofferente? Insomma, con l’omicidio di Lisa cos’ha ottenuto il popolo degli Stati Uniti, sul cui nome cade l’atto d’esecuzione? Cosa il suo governo? Cosa la famiglia di Bobbie? Ora le donne morte sono due, le famiglie che piangono sono due, i boia colpevoli sono due. Dell’altro dolore, ecco cosa hanno ottenuto tutti. Ma in fondo, la pena di morte porta solo a questo. I paesi che la prevedono sono 56; alcuni per reati gravissimi, altri anche per quelli comuni. Per Amnesty International, nel 2019 sono state messe a morte 657 persone; ma di dati certi non se ne hanno, ed è convinzione di molti che paesi quali la Cina, che uccide più di qualsiasi altro e per di più con processi sommari, non forniscano dati reali. Si tratta, in effetti, di omicidi. Esecuzioni che violano il diritto alla vita. Che s’insinuano tra le maglie labili della società. Che non hanno valore deterrente. Che non leniscono il dolore di chi sulla terra ci rimane e che anzi, come detto, la sofferenza la scaricano su altri individui. Gesti privi di umanità, in apparenza privi pure di coscienza o carica empatica. E per rendersene conto, basta leggere la missiva con cui a Lisa è stato detto che nel giro di qualche giorno sarebbe stata ammazzata dal dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti: “Cara signora Montgomery, lo scopo di questa lettera è informarla che una data per l’espletamento della sua sentenza di morte è stata scelta”. Niente di più. Seguono tre righe inutili di nomi e numeri. In calce, la firma di chi si è occupato del caso e, in fondo, una lunga lista di persone in copia. Stop. Parole che traboccano di burocrazia. Impersonali, deboli e insieme acuminate, fredde, bastarde. E credo sia questa spersonalizzazione istintiva dell’estraneo, il problema più grosso. Ormai siamo abituati a guardarci senza vederci, a riconoscerci a vicenda come nemici fino a prova contraria, a risolverci l’un l’altro in categorie rassicuranti e semplici. Avvertiamo le persone non appartenenti alla nostra cerchia come così distanti da noi da essere diventati incapaci di provare empatia per chi non conosciamo. E così non facciamo che sottrarre valore alla vita altrui. Siamo tutti esseri umani, però, attaccati alla vita, messi qui da chissà chi e per chissà quale ragione a condividere spazi e tempi. Ed è nei nostri gesti e nelle nostre parole e nelle nostre decisioni che risiede l’anima della società, un equilibrio precario a cui si attenta ogni volta che qualcuno viene ucciso. Se le vene in cui è stato iniettato il veleno erano di Lisa, la morte è stata della civiltà tutta.