Braccialetti elettronici. La beffa sulle forniture: ci sono ma non si usano di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 gennaio 2021 Gratta gratta, alla fine la telenovela del contratto tra ministero dell’Interno e Fastweb per i braccialetti elettronici è un po’ come la storia dei vaccini: comprati a dosi o a fiale? Sui dispositivi di sorveglianza a distanza il tema, ora si comprende, è lo stesso: fornitura “di” mille al mese, o servizio di monitoraggio “fino a” mille al mese, in cambio di 7,7 milioni l’anno da dicembre 2018 a dicembre 2021? Mille al mese è ciò che veniva inteso, se le parole hanno un senso, in tutte le risposte date nel corso del tempo dai ministeri dell’Interno (che fece il contratto) e della Giustizia (i cui magistrati poi usano i braccialetti) alle varie interpellanze parlamentari, da ultimo il 15 gennaio il viceministro all’Interno Vito Crimi all’onorevole Roberto Giachetti: “Il contratto ha per oggetto l’affidamento di un servizio di monitoraggio con correlata attivazione mensile di 1.000 braccialetti elettronici, fino ad un surplus pari al 20%, per un massimo di 1.200 mensili”. Incuriosiva allora la ragione per cui dopo i primi 24 mesi di contratto fossero “attivati 10.155 dispositivi”, con “un residuo di 4.215 attivi”, anziché 24.000 (mille al mese per 24 mesi). Al punto da indurre Giachetti a sbottare in Aula evocando persino l’intervento della Corte dei Conti. In realtà, se ci si attiene alla parte non segreta del contratto, si ricava che la prestazione alla quale Fastweb appare tenuta non è fornire 1.000/1.200 braccialetti al mese, ma “consentire l’attivazione media di 1.000 dispositivi al mese, con la capacità di attivarne anche il 20% in più”. Se vengono chiesti. Ma le richieste di attivazione da parte dei magistrati nella pratica sono state molte meno del previsto: ecco perché sui primi due dei tre anni di contratto, quando cioè sarebbero potuti essere attivati appunto fino a 24.000 braccialetti, il Viminale conteggia in tutto 10.155 attivazioni e 5.940 disattivazioni. Ed ecco perché il 15 gennaio sempre Crimi assicurava che “non risultano richieste pendenti da parte dell’autorità giudiziaria, tutte sono state gestite o programmate”. Braccialetti ce n’è insomma a iosa, a differenza di anni fa, ma i magistrati li utilizzano poco, mentalmente preferendo i domiciliari puri (se fanno affidamento sull’arrestato) o altrimenti il carcere. Ma allora lo Stato paga 7,7 milioni l’anno anche se per assurdo viene attivato 1 solo braccialetto? L’azienda dice di essere vincolata a riservatezza dal ministero, che, interpellato sul punto, sinora non risponde. Ma, per quel che pare ricavarsi dal contratto, la risposta è no: oltre a due quote fisse (75.000 per il piano di lavoro e 400.000 per le postazioni di polizia), Fastweb è pagata a consuntivo bimestrale sul numero di attivazioni e di loro monitoraggi. Quindi, se su un tetto teorico triennale di 36.000 dispositivi attivabili il massimo da pagare sarebbe 23 milioni, è presumibile che i 10.155 sinora attivati siano costati circa 6,5 milioni. Contratto diverso e ulteriore è invece quello in base al quale il io aprile 2020 il Commissario straordinario all’emergenza Covid, Domenico Arcuri, per conto del Dap-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, ha affidato a Fastweb l’attivazione secca (non al mese) e aggiuntiva (in più rispetto al contratto 2018-2021) di 1.600 braccialetti per far fronte ad eventuali picchi derivanti dai decreti legge varati per ridurre i contagi nelle carceri. Qui sia la struttura commissariale sia l’azienda non hanno sinora comunicato il corrispettivo. “Memento”, un’ora di camminata sotto il ministero della Giustizia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 gennaio 2021 Ieri Rita Bernardini, di nuovo in sciopero della fame, era con Sandro Veronesi. Ieri alle 13, sotto al ministero della Giustizia c’era Rita Bernardini del Partito Radicale con lo scrittore Sandro Veronesi. È un’azione di un’ora di camminata giornaliera che serve per ricordare a Bonafede quali sono i suoi obblighi nei confronti dei detenuti. Oggi, invece, a farle compagnia sarà l’ex senatore e presidente dell’associazione “A Buon Diritto” Luigi Manconi. Hanno dato disponibilità anche Roberto Saviano e Giovanni Maria Flick, oltre alle centinaia di docenti di diritto penale e penitenziario guidati dai professori Giovanni Fiandaca e Massimo Donini autori dell’Appello “Per un carcere più umano”. L’iniziativa giornaliera si chiama ‘memento’ per ricordare al titolare di Via Arenula che ci sono diritti umani fondamentali che è obbligatorio rispettare sempre. Ricordiamo che dalla mezzanotte di lunedì, l’esponente radicale ha ripreso lo sciopero della fame rivolto a governo, ministro della Giustizia e Parlamento affinché intervengano con immediati provvedimenti nella drammatica situazione penitenziaria sempre più estranea ai fondamenti costituzionali che richiedono un’esecuzione penale ‘umana’ e finalizzata alla ‘rieducazione’. “Pur non sapendo quale potrà essere l’esito della strisciante crisi di governo - spiega Rita Bernardini - ritengo che ormai il tempo per un intervento urgente sia abbondantemente scaduto”. Dopo 36 giorni, l’esponente del Partito Radicale, aveva sospeso il digiuno prima di Natale, per l’incontro programmato con Giuseppe Conte. A lei dal 10 novembre scorso si erano uniti a staffetta circa 4.000 detenuti, docenti di diritto penale, personaggi del mondo della cultura come Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano. “Solo chi non frequenta le carceri può dire che è tutto sotto controllo - ha commentato Bernardini - se Conte si riferisce al Covid e ai contagi al momento in Italia ci sono 800 detenuti positivi e 600 agenti di polizia penitenziaria. Non è tutto sotto controllo, soprattutto per quanto riguarda i diritti umani. Da quell’incontro aggiunge - pensavo si potesse solo andare avanti, invece ci è stato un blocco totale”. Il 22 dicembre la presidente di “Nessuno Tocchi Caino” ha esposto le sue ragioni al presidente del Consiglio, a Palazzo Chigi, quindi dell’urgenza di ridurre la popolazione carceraria e dell’amnistia. In quell’occasione Bernardini ha mostrato lo schema che contiene istituto per istituto penitenziario, i dati del sovraffollamento, tenendo presente le stanze detentive, cioè le celle e i posti inagibili. Ma a quanto pare, il messaggio non è stato recepito. Tutto fermo. Mentre l’emergenza rimane e i posti in carcere sono tuttora sovraffollati. Rita Bernardini: “Bonafede o un altro, ci troverà qui a lottare” di Angela Stella Il Dubbio, 27 gennaio 2021 Per un’ora al giorno la leader radicale (in digiuno) camminerà sotto il ministero per ricordare al Guardasigilli, chiunque sarà, i suoi obblighi verso i detenuti. Con lei Veronesi poi Manconi, Saviano, Flick. “Memento: chiunque tu sarai, noi saremo qui ad aspettarti per il rispetto dei diritti umani dei detenuti”: queste sono le parole scritte su un grande post-it affisso ieri da Rita Bernardini e Sandro Veronesi sulla facciata del Ministero della Giustizia. Giunta oggi al suo terzo giorno di sciopero della fame, la Presidente di Nessuno tocchi Caino e membro del Consiglio Generale del Partito Radicale ieri ha camminato per circa un’ora sotto il Ministero a via Arenula proprio insieme al noto scrittore “per ricordare a Bonafede quali sono i suoi obblighi nei confronti dei detenuti. Giustizia e carceri sono stati i punti critici di questo Governo, soprattutto per la mancanza di volontà di dialogo. Finora mentre Conte ci ha ricevuto, da Bonafede non c’è stata nessuna volontà di dialogo”. Quel messaggio sul post-it, dopo poco rimosso dagli agenti della polizia penitenziaria, vuole significare che a prescindere da chi sarà fra qualche giorno il Ministro della Giustizia - se ancora l’attuale o un altro più illuminato in tema di esecuzione penale - lei sarà lì a vigilare, insieme a chiunque voglia sposare la battaglia radicale. L’iniziativa “Memento” era stata preannunciata insieme alla ripresa del digiuno nonviolento e proseguirà oggi con Luigi Manconi sempre a partire dalle ore 13, seguito nei prossimi giorni da Roberto Saviano e Giovanni Maria Flick, oltre ai garanti regionali dei detenuti, come Samuele Ciambriello della Campania, e alle centinaia di docenti di diritto penale e penitenziario guidati dai professori Giovanni Fiandaca e Massimo Donini autori dell’Appello “Per un carcere più umano”. Pur nell’incertezza che sta vivendo il Governo in questi giorni, Bernardini annuncia al Riformista che comunque “proseguirò lo sciopero della fame perché durante la crisi politica purtroppo non si sospende la violazione dei diritti umani dei detenuti”. Della sua passeggiata con lo scrittore due volte vincitore del premio Strega Sandro Veronesi, che si può rivedere su Radio Radicale, ci dice: “Sandro ha una conoscenza incredibile del carcere, ma soprattutto conosce i meccanismi della sofferenza della pena”. Mentre parliamo con Bernardini, l’Ansa batte una notizia relativa ai braccialetti elettronici in cui si rende noto un comunicato di Fastweb che avrebbe “eseguito con diligenza e tempestività tutte le attività previste, attivando e disattivando i braccialetti secondo le indicazioni ricevute dalle Forze di Polizia e in nessun caso è stata disattesa da parte di Fastweb una richiesta di attivazione di braccialetto elettronico”. Secondo Fastweb “il numero di braccialetti in uso dipende non da una carenza di dispositivi ma esclusivamente dalle attivazioni e disattivazioni disposte dalle Autorità competenti”. A conferma della risposta tempestiva alle richieste delle autorità competenti, Fastweb cita le dichiarazioni fatte il 15 gennaio scorso dal Viceministro Crimi in risposta a una interpellanza dell’onorevole di Italia Viva Roberto Giachetti: “alla data odierna, non risultano richieste pendenti da parte dell’Autorità Giudiziaria, in quanto tutte le istanze presentate sono state gestite o programmate”. Per Rita Bernardini “che Crimi dica che non ci sono stati problemi nella fornitura dei braccialetti mi sembra strano visto che più volte quando servivano non erano a disposizione per concedere le misure alternative. Mi pare che qui ci sia il solito rimpallo di responsabilità”. Comunque secondo l’aggiornamento di ieri del Ministero della Giustizia, sono 615 i detenuti attualmente positivi al covid-19, 51 in meno rispetto alla settimana precedente; 592 invece gli agenti di polizia penitenziaria positivi, anche loro diminuiti di 20. Sul fronte dei vaccini Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio, chiarisce: “siamo riusciti ad ottenere una dichiarazione pubblica del commissario per l’emergenza Domenico Arcuri per cui detenuti e personale carcerario possono completare la vaccinazione in un momento successivo a chi ha più di 80 anni, quindi prima dell’estate come inizialmente previsto. Però ora da un lato il ritardo della consegna generale dei vaccini inciderà ovviamente anche sul piano vaccinale della popolazione carceraria, dall’altro lato le Regioni stanno aspettando indicazioni scritte per provvedere fattivamente a quanto annunciato da Arcuri”. Un altro passo importante è comunque essere riusciti a porre sullo stesso piano delle tempistiche vaccinali operatori, agenti e detenuti perché ad un certo punto si era pensato di lasciare indietro i reclusi: “qui parliamo di comunità fatte di chi vive e di chi lavora in carcere. È essenziale dunque vaccinare tutti senza discriminazioni. Comunque ricordiamo che si tratta di circa 100.000 persone che su 50 milioni è una bassa percentuale”. Un risultato importante è però stato raggiunto per le Rems nel Lazio: “è stato compiuto il secondo ciclo di vaccinazioni in tre Rems della regione, mentre è terminato il primo ciclo nelle altre due rimanenti”, conclude Anastasia. Purtroppo si deve registrare il suicidio di un Assistente Capo Coordinatore del Corpo di Polizia Penitenziaria, in servizio nel carcere di Rebibbia. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. L’uomo, 48 anni, si è impiccato in casa ieri notte. Negli ultimi due anni, sostiene il Sappe, sono stati 15 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita, questo è il primo caso del 2021. Ferrara e oltre. Prisoners lives matter di Susanna Ronconi dirittiglobali.it, 27 gennaio 2021 In Italia abbiamo una emergenza democratica: il problema della violenza istituzionale che si esercita sui corpi di chi è recluso appare ormai drammaticamente routinaria e fuori controllo. Basta scorrere i titoli degli ultimi mesi per rendersi conto che in Italia abbiamo una emergenza democratica: chiamerei così, e mi pare appropriato e non retorico, il problema di quella violenza istituzionale che si esercita sui corpi di chi è recluso, e che appare ormai drammaticamente routinaria e fuori controllo. Mi pare si debbano leggere in questa prospettiva, e non come una mera sommatoria di singoli accadimenti, le tante violenze avvenute nelle carceri e approdate a una visibilità, anche solo considerando gli ultimi tre anni, vuoi attraverso denunce, vuoi tramite la segnalazione in procura di qualche garante, vuoi per un’azione di singoli, famiglie e associazioni che hanno strappato il velo del silenzio. Sono troppo personalmente esperta di carcere per non sapere che è così da sempre: che le celle di sicurezza delle caserme hanno pareti imbrattate di sangue e merda, che da sempre esistono le “squadrette” che irrompono e picchiano, che speciali e massime sicurezze e 41 bis sono il regno della violenza impunita, che se mai qualcuno si sogna di denunciare dopo due minuti si trova una denuncia per oltraggio e offesa e magari violenza a pubblico ufficiale - in una asimmetria di potere destinata a un esito ovvio. Che il corpo di chi è recluso, reclusa arriva ultimo, ultimo oggetto di cui preoccuparsi dopo la sicurezza e dopo tutto: sono ancora qui a piangere le mie compagne morte nell’incendio delle Vallette dell’89, morti “accidentali” in assenza di responsabilità, morti, pertanto, da cui non si è imparato nulla. E però, questi mesi dopo le 13 morti del 9 marzo dello scorso anno, mi paiono aver segnato un passaggio, una accelerazione, un crescendo che dovrebbero suggerire alla politica, almeno a quella attenta a una cultura costituzionale, la chiara percezione appunto di una emergenza democratica. La procura di Santa Maria Capua Vetere - non esattamente un gruppo di antagonisti… - non ha esitato a battezzare la sua inchiesta sui pestaggi nel locale carcere “La mattanza della settimana santa”, e non per vezzo retorico, ma basandosi sui fatti: 144 agenti sono stati denunciati per aver massacrato i detenuti rei di aver protestato pacificamente, con una battitura delle sbarre, il 6 aprile a causa della preoccupazione per il dilagare del Covid-19 dietro le sbarre; per averli torturati, con pratiche lesive dei corpi ma anche della dignità; per averli minacciati in caso di denuncia; per aver simulato, a loro discolpa, una rivolta che non c’è mai stata (ricorda qualcosa, a Genova…). Mattanza istituzionale, non schegge impazzite, se è vero come è vero che allo scopo il Provveditorato campano aveva tempestivamente approntato un nucleo speciale di intervento, strumento extra-ordinario, evidentemente valutando non sufficiente la ordinaria “legittima violenza istituzionale” adottata fino ad allora. A gennaio, a Sollicciano, scatta la denuncia per tortura e le misure cautelari per nove agenti, accusati di pestaggi e violenza avvenuti nel 2018 e nel 2020, all’inizio fatti passare sotto silenzio con il noto meccanismo della contro denuncia per oltraggio e offesa, che ora implica una denuncia anche per falso ideologico. I fatti del 2020, in particolare, rivelano una violenza inaudita e gratuita, scattata per una protesta verbale per una telefonata ai famigliari non autorizzata. La sproporzione tra il fatto in sé e la reazione degli agenti lascia allibito lo stesso magistrato: ma è proprio anche questa mancanza di misura la cifra di un potere incontrollato e di una violenza arbitraria. E, ancora, emerge un “sistema”, quando il medico collude, minimizza, non vede, certifica la idoneità del detenuto a restare in isolamento, fino a quando una collega non interviene. A San Gimignano, nel 2018, pestaggi e torture a un detenuto in isolamento, arrivano oggi dieci rinvii a giudizio, e anche qui un medico connivente, anch’egli denunciato. Nel 2019 a Torino, grazie alla garante dei diritti, emergono violenze e torture, questa volta non episodiche ma continuative, notte dopo notte, dal 2017 al 2019, quasi un rito, nelle celle di detenuti spesso tra i più fragili psicologicamente. Una prassi senza ragione alcuna, mero esercizio sadico di potere, conclusosi con un rinvio a giudizio di 25 persone, direttore incluso. E fino ai nostri 13 morti e ai pestaggi che hanno seguito i trasferimenti, e sono continuati nel tempo, anche a rivolte finite e sedate, pestaggi a freddo, punitivi e deterrenti, di cui abbiamo qui dato via via conto e notizia. Infine, arriviamo a Ferrara: il tribunale ha emesso la prima sentenza italiana per tortura, in primo grado, in relazione a fatti del 2017, ai danni di un detenuto in isolamento, denudato, maltrattato, umiliato e picchiato senza ragione, durante una perquisizione. Imputati tre agenti, uno condannato per tortura e, anche qui, una infermiera connivente. Il reato, precisamente, è quello di tortura di stato, il più grave, perché a opera di un pubblico ufficiale. Avere anche in Italia, buona ultima tra i paesi europei e pur con una formulazione limitativa, istituito nel 2017 il reato di tortura ha colmato una imperdonabile falla del nostro Codice penale, che ha coperto, lasciato nel silenzio o banalizzato fatti gravissimi. Si sta aprendo uno squarcio nell’opacità vigente sino a ieri circa la “qualità” della violenza istituzionale agita nelle nostre carceri. E però questo non basta, i processi giudicano fatti specifici e condotte individuali. Qui, siamo di fronte a “ordinarie questioni di sistema”, per la frequenza degli episodi, certo, ma anche per il copione che si ripete, la falsificazione dei fatti con cui si è convinti di farla franca, la connivenza di altre figure, e che siano spesso figure sanitarie deve fare scandalo, i silenzi e la cecità dei dirigenti e delle direzioni. Come sempre, il diritto penale faccia il suo lavoro, ma non può fare quello che spetta alla politica. Che questa violenza istituzionale sia il portato strutturale dell’istituzione totale, lo sappiamo bene; ma mentre si intraprende il viaggio per “liberarsi dalla necessità del carcere”, si devono organizzare, sulla via, dei presìdi a tutela della vita di chi in carcere è rinchiuso, rinchiusa. C’è una emergenza democratica, e non riguarda solo la polizia penitenziaria ma tutte le polizie: il minimo sarebbe una Commissione parlamentare di inchiesta sullo stato delle cose, delle culture, della formazione e delle prassi, del monitoraggio e del controllo, e soprattutto sul sistema di accountability, cioè della responsabilità attiva che le istituzioni competenti devono agire a tutela e garanzia di diritti fondamentali, mettendo in campo tutte le risorse e i poteri che possono su questo giocare, ed essendone chiamate a rispondere. Sarebbe già qualcosa. Il debito verso le persone che priviamo della libertà di Iuri Maria Prado Il Riformista, 27 gennaio 2021 Nel togliere quel bene supremo, una comunità civile si sentirebbe responsabile di una sopraffazione mostruosa. Ciò la indurrebbe a rendere decenti le condizioni di vita dei detenuti. Ma non ne siamo capaci. Ecco perché. Tra i tanti slogan del luogo comune giustizialista c’è quest’altro: che i detenuti devono saldare il proprio debito con la società. Nell’idea, dunque, che il rapporto tra la comunità dei rinchiusi e quella che li rinchiude sia di tipo risarcitorio, appunto con la società in posizione di credito. Ci si può indurre in questa barbara prospettiva solo trascurando il valore del bene che la società sottrae al detenuto, e cioè la libertà. Una comunità civile che avesse senso liberale della vita e di se stessa si sentirebbe responsabile di una sopraffazione mostruosa nell’arrestare la libertà altrui: anche - direi soprattutto - nel caso in cui quell’espediente fosse davvero indispensabile piuttosto che gratuitamente afflittivo, qual è praticamente sempre. E nel ricorrervi, allora, quella comunità meno arretrata percepirebbe se stessa in posizione di debito, non di credito, nei confronti delle persone deprivate perlopiù senza necessità di quel bene supremo. Questa diversa impostazione preparerebbe la società a un inevitabile progresso civile e normativo: e cioè la riconduzione a decenza delle condizioni di vita dei detenuti, sempre che possa considerarsi decente una vita non libera. Quella società diversa parlerebbe così: “Noi non siamo ancora capaci di pensare a un sistema diverso, e dunque ti imprigioniamo. Sentiamo tuttavia di renderci in tal modo responsabili di una incommensurabile ingiustizia, e la privazione cui ti sottoponiamo sarà risarcita con l’assicurazione che a sofferenza non si aggiungerà sofferenza. Per il tempo che sarà, vivrai dunque non libero: ma abiterai luoghi almeno gradevoli e sarai alimentato bene, sarai assistito nella malattia e se vorrai potrai studiare, lavorare, giocare e fare sport, e avere spazio e tempo per condividere la tua vita limitata con le persone a te care. Tutto questo è poco, è nulla a petto di quel che ti togliamo: e proprio per questo è il minimo che ti dobbiamo”. È chiaro che non sapremo mai fare un discorso simile. Perché siamo deboli. Perché non troviamo forza nel godimento della nostra libertà, ma nel potere di impedirla agli altri. E la libertà, questa cosa di cui spesso non sappiamo che fare, questa cosa di cui facciamo per noi un uso frequentemente così trascurato e infruttuoso, la sequestriamo ad altri perché ci è intollerabile l’idea che essa possa essere usata meglio di quel che sappiamo fare per noi stessi. La rinuncia alla libertà che imponiamo ai detenuti è il risarcimento per la nostra incapacità di fruirne degnamente. La giustizia è la vera chiave per risolvere la crisi di Giuseppe De Filippi Il Foglio, 27 gennaio 2021 Concentrate i vostri sforzi di comprensione dei fatti politici (è dura per tutti, non bisogna abbattersi) sulla questione giustizia. Come bussola avrebbe funzionato per tutti gli ultimi 30 anni, consentendo di capire a sufficienza degli sviluppi nella competizione per il potere e anche di quelli economici, sociali e della possibilità di riformare le istituzioni. Insomma non proprio tutto poteva leggersi attraverso il codice della giustizia, ma una gran parte del lavoro sarebbe stata acquisita. Allora proviamoci anche adesso, perché non serve un retroscenista (professione in disuso nei tempi recenti in cui succedono più cose sulla scena che sul retro) per legare la crisi di potere con l’appuntamento fatale della relazione del ministro Alfonso Bonafede. Oggi il Foglio ne tratteggia un ritratto al quale non c’è niente da aggiungere e che descrive un politico e una linea sulla giustizia incompatibili con un governo che si dichiara liberale, europeista e tutto il resto che sapete. Bonafede sembra essere rimasto impigliato nel primo grillismo, fuso com’era (anche per il momento storico in cui è nato) con il giustizialismo mediatico e specialmente televisivo, e con quel piano di lavoro non si può governare, ma al massimo ci si può scalmanare all’opposizione per acchiappare voti, cioè quello che facevano i grillini prima maniera. A questo punto, per seguire le convulse ore che ci portano alla cena, proviamo solo a guardare le cose che hanno a che fare con la giustizia e con Bonafede. Tra le prime in cui andiamo a incappare c’è l’apertura di disponibilità da parte di esponenti di Forza Italia verso l’appoggio a una nuova maggioranza, sufficientemente contiana, cioè a partire dalla quasi-maggioranza attuale, a condizione di avere una riforma della giustizia in cui si rimettano in discussione gli eccessi persecutori della linea mutuata da Bonafede ma proveniente da altri ambienti (ribadiamo: quel primo grillismo un po’ scopiazzava in giro, sentiva quello che c’era nell’aria, era manettaro perché c’era la moda del giustizialismo, ma nella sua anti-politicità avrebbe potuto assumere, senza scossoni, anche altri atteggiamenti). La stessa cosa vale per gli altri centristi, per di più ora colpiti nel loro leader da un’inchiesta proveniente da uno dei campioni della giustizia spettacolarizzata. La domanda politica è se Giuseppe Conte e, con un’altra decisione, i 5 stelle, riescono a superare non tanto la figura di Bonafede quanto quei legami culturali e opportunistici con cui una decina di anni fa si celebrò il matrimonio tra grillismo e uso politico della giustizia. L’impressione è che poi quella roba passasse sempre un po’ sopra la testa dei grillini, non completamente credibili quando tentavano di intestarsi (onestà, onestà) le battaglia degli schieramenti tipicamente legati all’attività di un certo potere giudiziario. Un sussulto, un barbaglio, di questa condizione lo ebbe a sperimentare anche Bonafede, quando si vide esposto a improvvisi attacchi per aver scelto, con una discreta quota di autonomia, il direttore del Dap, scelta per la quale venne pubblicamente attaccato da Nino Di Matteo nientemeno che dagli studi di Massimo Giletti. Allora si tratterebbe di recuperare un po’ di quell’autonomia di decisione e provare a lavorare con o forse al posto di Bonafede. Se qualcosa si muove lungo questo asse allora ci saranno notizie anche per il governo e la maggioranza. Seguite e parlatene a cena. Sul dibattito, intanto, si potrebbe prendere tempo con soluzioni creative. Cosa succede ora con la Relazione sulla giustizia di Bonafede? Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2021 Dopo la crisi aperta da Matteo Renzi la relazione del ministro Bonafede si è trasformata in una mina pericolosa in grado di fare saltare in aria tutto il governo. Per questo motivo il premier ha deciso di dimettersi prima della discussione in Aula sulla giustizia. In passato ci sono due precedenti di relazioni non votate dal Parlamento: ecco quali ed eccome come andrà questa volta. Doveva essere la prova che doveva suggellare l’allargamento della maggioranza di Giuseppe Conte. Dopo la crisi aperta da Matteo Renzi si è presto trasformata in una mina pericolosa in grado di fare saltare in aria tutto il governo. Ed è per questo che il presidente del consiglio si è dimesso. Una settimana dopo aver incassato la fiducia alle Camere, infatti, la maggioranza avrebbe dovuto passare la prova sulla giustizia. Il guardasigilli, Alfonso Bonafede, avrebbe dovuto relazionare alla Camera e al Senato a partire da mercoledì 27 gennaio. Un intervento alla quale sarebbe seguito il voto sulle risoluzioni: una a favore e una contro la relazione del ministro della giustizia. L’impressione è che soprattutto al Senato la maggioranza sarebbe andata sotto. Significava una sfiducia in Parlamento per Conte, soprattutto dopo che domenica Luigi Di Maio ha definito quello su Bonafede come “un voto su tutto il governo”. Per questo motivo il premier ha deciso di dimettersi prima, senza correre il rischio di farsi sconfiggere in Aula sulla giustizia. In questo modo conserva la possibilità di riottenere l’incarico e lavorare a un nuovo esecutivo. Ma cosa succede ora con la relazione sulla giustizia? Bonafede avrebbe dovuto comunicare al Parlamento quanto fatto nel 2020, quando al governo c’era pure Italia viva. E dunque la riforma della prescrizione, del processo penale e di quello civile. Ma nella relazione sulla giustizia saranno riassunte anche le linee guida per il 2021. Vuol dire essenzialmente quanto è contenuto nel Recovery Plan, che stanzia quasi 3 miliardi di euro proprio per la giustizia. Soldi che serviranno soprattutto - 2,3 miliardi - per assumere magistrati, cancellieri, dipendenti che fanno parte del personale tecnico. In totale si tratta di 16mila persone che avranno come obiettivo quello di eliminare l’arretrato che grava sui giudici, velocizzando i processi. Che fine fa ora quella relazione, visto che il governo si è dimesso? Sarà con tutta probabilità inviata alle Camere, senza alcuna discussione e ovviamente alcun voto. Col governo dimissionario e in carica solo per gli affari correnti, infatti, si ferma tutta l’attività parlamentare, eccetto che per gli atti urgenti come la conversione dei decreti legge in scadenza. La relazione però alle Camere deve essere trasmessa. In base alla riforma della legge sull’Ordinamento giudiziario del 2005, infatti, è di fatto propedeutica alla inaugurazione dell’Anno Giudiziario in Cassazione. Si registrano due precedenti di relazioni presentate ma non votate. Il primo è stato nel 2008, quando l’allora guardasigilli Clemente Mastella si recò a Montecitorio per tenerla a poche ore dall’arresto (ai domiciliari) della moglie Sandra Lonardo. Mastella parlò alla Camera ed andò a dimettersi, per cui non ci fu un voto sulla relazione. L’unico precedente di relazione tenuta durante un governo dimissionario risale, invece, all’epoca di Mario Monti nel 2013. Si decise in quella occasione di dare per assolto l’obbligo con la semplice trasmissione della relazione dell’allora guardasigilli Paola Severino senza svolgere le comunicazioni in Aula. Strada che verrà con tutta probabilità percorsa anche questa volta. Carlo Cottarelli: “Sulla giustizia conciliare diritti ed efficienza è possibile” di Simona Musco Il Dubbio, 27 gennaio 2021 Il progetto per la giustizia contenuto nel Recovery Plan va rafforzato. E non si tratta di risorse - tre miliardi non sono pochi - ma di visione: puntare sulla digitalizzazione dimenticando i processi decisionali è il grande errore che rischia di far sprecare un’occasione. Ed è per questo che la soluzione, secondo l’economista Carlo Cottarelli, è il manager dei tribunali. Una figura che potrebbe restituire efficienza alla macchina e lasciare al centro della giustizia le persone. Quali sono i problemi principali per la giustizia italiana? Il problema generale è quello della lentezza. Bisogna riconoscere che qualche progresso è stato fatto negli ultimi anni. Secondo l’ultimo rapporto Cepej (Commissione europea per l’efficacia della giustizia, ndr) la durata media dei processi che arrivano al terzo grado di giudizio in Italia si è ridotta a sette anni e quattro mesi, contro gli otto del 2016. Anche la giustizia amministrativa ha accelerato i tempi, però sempre con un certo ritardo rispetto ad altri Paesi con i quali ci dobbiamo confrontare. In Germania, ad esempio, i processi civili durano due anni e quattro mesi. C’è poi un forte arretrato per ridurre il quale si vogliono assegnare risorse straordinarie. La riforma punta a favorire conciliazioni giudiziali o transazioni extragiudiziali per snellire l’accesso alla giustizia. Si trova d’accordo? Ci deve essere maggiore attenzione per queste procedure e credo anche ci debba essere, anche se mi rendo conto che questo potrebbe essere molto controverso, qualche freno maggiore a iniziare cause che sono frivole e a portarle avanti soltanto con lo scopo di ritardare la sentenza. I costi di accesso alla giustizia non devono essere impeditivi, tutt’altro, ma portarli alla media europea potrebbe essere un’idea. Questo è quello che io e Alessandro De Nicola, Leonardo D’Urso e l’ex giudice del Tribunale di Torino Mario Barbuto abbiamo proposto in uno studio per l’Osservatorio Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica. In quel documento veniva proposto anche l’aumento del contributo unificato per disincentivare il ricorso in giudizio e la resistenza temeraria. Ma così non si rischia di trasformare la giustizia in una roba solo per ricchi? La proposta era di adeguarlo alla media europea. Ed è per questo che bisogna vedere cosa si fa all’estero, per avere un criterio ragionevole. Siamo stati molto attaccati su questo aspetto, perché mediaticamente funziona meglio, ma la nostra proposta si basa su molto altro, come ad esempio l’introduzione di una cultura manageriale nella gestione dei tribunali, che credo sia la parte fondamentale. Non bisogna fare propaganda inutile: tradizionalmente abbiamo una litigiosità più elevata che all’estero e dobbiamo chiederci perché. Quindi lei è d’accordo con la proposta del Cnf del “court manager”? Sì: i tribunali sono enti pubblici che producono sentenze e la bontà delle sentenze dipende ovviamente dalla qualità della decisione finale, ma anche dai tempi. E il tempo di conclusione dei processi e di “consegna” delle sentenze è molto alto. Bisogna introdurre, quindi, delle figure che abbiano una preparazione manageriale. E non si deve rifiutare il concetto che il tribunale, in qualche modo, sia un’azienda. È un ente pubblico di cui si deve valutare la performance e devono essere introdotti dei criteri di gestione e valutazione del personale che dipendono dalla puntualità con cui si gestiscono i processi. È abbastanza evidente che ci sono tempi diversi da tribunale a tribunale e tra diverse aree del Paese. Nel Recovery plan non si parla espressamente di “manager”, ma di un nuovo modello organizzativo... È solo un accenno, non mi sembra che sia un aspetto prioritario, mentre dovrebbe essere considerato un punto fondamentale. Bisogna premiare chi gestisce bene i tribunali. Attualmente abbiamo una situazione a macchia di leopardo, proprio perché non si presta abbastanza attenzione a questo aspetto. Invece bisogna applicare su tutti i tribunali i criteri che si applicano in quelli che hanno le migliori performance. Serve una figura esterna? Non è necessario, può essere anche il presidente del Tribunale, però deve avere un addestramento e una formazione di tipo manageriale, nonché i poteri necessari. Il piano del Cnf punta ad una giustizia che non sia solo efficiente ma che al centro metta le persone, per garantire i diritti ai cittadini. Come si concilia ciò con la celerità? È certo che al centro debbano esserci le persone. Ma non c’è contrapposizione tra le garanzie dei cittadini e l’economia, perché quello che crea problemi all’economia e ai cittadini è l’incertezza. L’economia è fatta di cittadini e processi troppo lunghi fanno male a tutti. L’obiettivo è avere sentenze più rapide, che invece fanno bene a tutti. Altro capitolo del piano è la digitalizzazione, che in tempi di Covid si è rivelata utile ma ha anche mostrato la fragilità delle strutture italiane. Siamo pronti a questo passaggio? Scordiamoci che, sia nel campo della giustizia sia nella riforma della Pa, la digitalizzazione possa risolvere tutto. Deve esser fatta, certo, però alla fine a rallentare le cose sono i processi decisionali e quelli non possono essere digitalizzati. Non posso far fare delle sentenze ad una macchina. Quindi è contro le “derive robotiche”? Assolutamente. Mi preoccupano. Servono più persone, dunque? Servono più cancellieri e addetti ai servizi segretariali. Ma non si tratta di cifre enormi. Il costo della giustizia non è particolarmente alto in Italia. Ma l’importante è agire su diversi piani, non pensare che ci sia una soluzione magica. Ci sono a disposizione circa tre miliardi. Possono bastare per fa sì che la giustizia migliori? Non sono pochi. Il problema principale è di organizzazione, di procedure, di incentivi agli strumenti di soluzione extragiudiziale. Qual è il giudizio complessivo su questo piano? C’è un’attenzione importante per alcuni settori come la pubblica istruzione, anche se forse bisognerebbe investire di più, sulla sanità, sugli investimenti pubblici, assumendo che poi si riescano a fare. Non c’è abbastanza impegno per ridurre la burocrazia, le norme e le procedure inutili, per introdurre elementi di gestione moderna del personale, delle attività produttive, con chiari indicatori di risultato, obiettivi definiti ogni anno e responsabili per quegli obiettivi, cosa che in teoria facciamo dal 2009 ma che in pratica non avviene. La giustizia è da rafforzare e non si parla abbastanza di concorrenza, perché un’economia di mercato che non ha abbastanza concorrenza finisce per favorire le lobby, i monopoli e le posizioni di potere. Queste cose sono essenziali per la crescita italiana: creare un ambiente in cui il settore delle imprese private venga a investire facilmente senza troppi intoppi. Puntare soltanto sull’investimento pubblico è esagerato. “Il blocca-prescrizione? È deleterio”. Parola dell’esperto voluto dai 5S di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 gennaio 2021 Giacinto della Cananea, ordinario di Diritto amministrativo alla Bocconi, è componente laico del Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria. Nel 2018 venne scelto da Luigi Di Maio come capo del Comitato del M5S per il “contratto di governo”. Professore, il dibattito sulla riforma della giustizia rischia di condizionare il destino del Recovery italiano? Può condizionarla in due modi. Da un lato, da molti anni le raccomandazioni della Commissione europea segnalano che il settore pubblico è d’ostacolo all’incremento della crescita economica, segnatamente per “la lunghezza delle procedure, tra cui quelle della giustizia civile” e “i tempi di esaurimento dei procedimenti penali presso i tribunali d’appello”, come si legge nella “Raccomandazione sul programma nazionale di riforma 2020 dell’Italia” ai punti 25 e 27. Sono stimoli che vanno tenuti nel debito conto ai fini della predisposizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, finalmente presentato alle Camere il 12 gennaio. Dall’altro lato nelle prossime ore dovrebbe essere presentata, seppur in forma solo scritta, la Relazione del ministro sull’amministrazione della giustizia. Al di là del rischio di un giudizio parlamentare negativo, che alcuni temono possa compromettere il processo di approvazione del Piano, c’è un dato certo: il Piano va in ogni caso completato. Come ha osservato il presidente della Repubblica l’8 agosto scorso, “il Piano rappresenta un impegno ineludibile; un appuntamento da non perdere per incidere su nodi strutturali”. Alfonso Bonafede aveva annunciato, appena insediatosi a via Arenula, che avrebbe realizzato una riforma “strutturale della Giustizia”. A distanza di oltre due anni, però, siamo ancora a una fase non avanzata dell’iter parlamentare. Dipende da una mancanza di volontà politica o da altro? Molti hanno notato i ritardi, pochi si sforzano di comprenderne le cause. La prima è che la classe politica italiana coltiva, con poche eccezioni, il mito della “grande riforma”, che è inevitabilmente di tipo legislativo e richiede lunghi negoziati tra i parlamentari, molti dei quali mostrano una passione non per il decidere, ma per “lo stare per decidere”. La seconda causa riguarda l’attuale Parlamento. Dallo studio che coordinai poco dopo le elezioni del marzo 2018 emerse chiaramente che la giustizia era, unitamente alla politica estera, il tema su cui si più differenziavano i programmi elettorali dei tre partiti che avevano più eletti. Lo ha confermato il dibattito parlamentare dell’anno scorso sulla giustizia. La terza causa è l’autoreferenzialità di molti giuristi, poco inclini a dare ascolto alle osservazioni altrui - come quelle esposte da Daniela Marchesi nel volumetto “Litiganti, avvocati e magistrati” quasi venti anni or sono - e, come ha notato Francesco Giavazzi, a dare spazio a chi ha capacità gestionali. Come lei ha ricordato, la Commissione Ue chiede all’Italia riforme finalizzate in particolare alla “riduzione della durata dei processi civili e penali nei tre gradi di giudizio” e alla “riduzione del carico della sezione tributaria della Cassazione”. Il governo, invece, ha risposto con il blocco della prescrizione. Una riforma che, a detta di tutti, aumenterà ancora di più la durata dei processi. Può dirci qual è la sua opinione? Il problema si manifesta con particolare intensità nell’ambito tributario: “Presso la Corte suprema di Cassazione l’elevato numero di cause in entrata, combinato ai tassi di smaltimento inferiori della sua sezione tributaria, incide negativamente sull’efficienza generale della Corte e solleva preoccupazioni per la qualità del sistema della giustizia tributaria”, si legge nella Raccomandazione del 2019, al punto 27. La Cassazione è, quindi, parte del problema, oltre che della soluzione, perché è un’istituzione fondamentale, che va restituita al suo ruolo. Sul blocco della prescrizione, la mia opinione è sempre stata critica, per ragioni di costituzionalità, evidenziate dall’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, e di opportunità, per il venire meno d’uno stimolo a celebrare tempestivamente i processi. Al settore Giustizia sono stati destinati 3 miliardi di euro. In particolare 2,3 miliardi per assunzioni di personale e 450 milioni per nuove cittadelle giudiziarie e riqualificazione “green” e antisismica degli edifici esistenti. Qual è il suo giudizio? Temo che ci sia un errore d’impostazione, ossia pensare che la modernizzazione della giustizia sia un’attività ad alta intensità di lavoro, mentre richiede investimenti soprattutto sulla formazione dei magistrati e sulla loro produttività. Non ci si può limitare ai procedimenti disciplinari, occorrono gli incentivi economici e di tipo reputazionale. Vanno richiamati nei tribunali magistrati adesso destinati ad altri compiti. Sulla riqualificazione antisismica, molti architetti e ingegneri evidenziano i ritardi dell’Italia rispetto al Giappone e ad altri Paesi. Lo scoppio della pandemia ha messo in luce tutte le criticità del Paese sul fronte dell’innovazione e della digitalizzazione. La giustizia ha pagato lo scotto maggiore. Faccio un esempio: il personale amministrativo (a iniziare dai cancellieri), nonostante fosse obbligatorio lo smart working, non poteva lavorare da remoto in quanto impossibilitato ad accedere alla rete e al Registro generale. Come spiega questi ritardi? Il sistema amministrativo italiano è stato colto alla sprovvista sul piano normativo, e non basta qualche tardiva circolare della Funzione pubblica, ma prima ancora su quello culturale. Ricordo che alcuni anni fa la mia proposta di utilizzare i collegamenti telematici per alcune riunioni del Consiglio di presidenza della Corte dei conti fu accolta dai più con stupore. C’è anche un forte e ingiustificabile ritardo negli investimenti sulla rete delle comunicazioni elettroniche, rispetto ai nostri partner europei. Mi sono sempre chiesto come mai non se ne chiedesse conto pubblicamente ai manager che l’hanno gestita. Un’ultima domanda. Se fosse il ministro della Giustizia, quale sarebbe il suo primo provvedimento? Chiederei immediatamente d’inserire nel Piano nazionale di ripresa e resilienza una serie di obiettivi intermedi, le modalità per controllarne l’attuazione, le misure da prendere in caso di ritardi e discostamenti. La nemesi contro il partito dei pm e la giustizia-spettacolo di Dimitri Buffa L’Opinione, 27 gennaio 2021 Alla fine, se un governo non si occupa in maniera seria della giustizia, sarà la “giustizia” a occuparsi di lui. È la nemesi. La terribile dea greca della vendetta che, in realtà, è una trasposizione occidentalizzata della orientale legge del Karma. Ne sa qualcosa il ministro Alfonso Bonafede: ogni qual volta qualcuno gli ha chiesto conto delle mancanze del suo ministero - in primis sulla situazione quasi tragica delle carceri per segnalare la quale, da qualche giorno, è ricominciato il digiuno di dialogo di Rita Bernardini del Partito Radicale - si è limitato ad affermare che è “tutto sotto controllo”. Davvero? Compresa l’epidemia di Covid alla fine divampata in tutti e 192 gli istituti penitenziari italiani, con buona pace di chi come Marco Travaglio si ostina a scrivere contro ogni evidenza che in quei posti si sarebbe più al sicuro che altrove, per il solo fatto di essere isolati dal resto del mondo? La realtà si è presa la responsabilità di smentire le prese di posizioni ideologiche dei manettari. Che hanno fallito su tutto. Tanto che adesso Bonafede viene indicato come il più sacrificabile persino da parte dei grillini sull’altare di un agognato esecutivo Conte ter. Fin qui la “nemesi”. Poi c’è lo “Stato di diritto” che i quasi tre anni di governi con i Cinque Stelle in posizione dominante - e con lo stesso su citato ministro a un posto che non faceva per lui, conquistato solo perché essendo stato allievo e assistente universitario di “Giuseppi” Conte e avendolo per questo presentato a Beppe Grillo e a Luigi Di Maio come possibile premier aveva in cambio ricevuto la importante carica - hanno ridotto in poltiglia. Ebbene, anche lo Stato di diritto improvvisamente viene rivalutato e quasi “vendicato” grazie sempre all’intervento della dea Nemesi, che come in una tragedia greca viene fuori dal coro di lagnanze da parte di altri magistrati contro lo strapotere mediatico di alcuni pm, che ancora si illudono che l’Italia voglia farsi rivoltare come un calzino o smontare come un Lego. Il “malcapitato” che adesso si trova, all’improvviso, ad affrontare questo cambio di vento è il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Criticato ferocemente non più solo dagli ex imputati, poi assolti, di alcune sue inchieste o dalla “corporazione” degli avvocati - sempre sospettata di nefandezze nell’immaginario malato del meraviglioso mondo a Cinque Stelle - ma addirittura dalla corrente di Magistratura democratica, che nel proprio sito internet praticamente sollecita un intervento da parte del Csm (Consiglio superiore della magistratura) a tutela di quei magistrati calabresi e non che potrebbero essersi sentiti accusati di chissà quali connivenze con la criminalità organizzata. Il contrasto contro la quale lo stesso Gratteri ha apparentemente assunto come “missione per conto di Dio”. “Non crediamo che la comunicazione dei procuratori della Repubblica possa spingersi fino al punto di lasciare intendere che essi siano gli unici depositari della verità, e di evocare l’immagine del giudice che si discosti dalle ipotesi accusatorie come nemico o colluso - si legge nel comunicato durissimo emanato dall’esecutivo di Md (Magistratura democratica) in un articolo pubblicato sul sito della corrente in questione - con un tale agire, il Pubblico ministero dismette il suo ruolo di primo tutore delle garanzie e dei diritti costituzionali, a partire dal principio di non colpevolezza, e assume quello di parte interessata solo al conseguimento del risultato, lontano dalla cultura della giurisdizione e dall’attenzione all’accertamento conseguito nel processo”. Parole che avrebbero potuto sottoscrivere politici che hanno fatto del garantismo la loro battaglia più importante come Marco Pannella o Enzo Tortora. E anche questa è una nemesi, stavolta per Magistratura democratica, che negli anni del proprio furore politico si presentava al pubblico come l’ispiratrice del “sostanzialismo” nella giustizia. Un sostanzialismo che però ha finito per degenerare con la Weltanschauung secondo cui “il fine giustifica i mezzi”. Infatti, quando il pubblico ministero si sostituisce alle forze dell’ordine, invece di coordinarle e controllarne la legalità dell’agire nella ricerca delle prove, e “lotta insieme a loro” ecco che la giustizia piano piano - e neanche tanto piano - diventa la divoratrice del diritto. Manca la nemesi di tutte le nemesi? No, non manca. Un Governo che ha approfittato della pandemia per tenersi a galla con qualunque mezzo possibile, conculcando la libertà dei cittadini con quella stessa cultura del sospetto già ampiamente collaudata da tutti quei pm d’assalto - e non è giusto gettare la croce solo su Gratteri che in fondo è l’ultimo arrivato - che sono stati per decenni idolatrati dalla sinistra di forca e di Governo e che poi sono diventati i totem intoccabili della variante impazzita rappresentata dal grillismo, eccolo cadere proprio su quel terreno che si credeva amico. La classica partita persa “in casa”. E la goccia che ha fatto traboccare il vaso ed impazzire le reazioni di chi oggi vede crollare la propria pseudo-ideologia improvvisata e basata tutto sommato sull’antico motto borbonico di “feste, farina e forca” (quest’ultima delegata a fare la parte del leone) l’ha versata il deputato Enrico Costa di Azione chiedendo in un più che opportuno emendamento che l’Italia recepisca una direttiva europea, che vaga per il Parlamento italiano dal lontano 2016 e che impone ai pm che fanno inchieste un contegno più riservato, e meno esibizionista, nel presentare i propri arresti all’universo mondo. Basta, quindi, con la giustizia-spettacolo che sembra fatta apposta per trasformare i pm d’assalto nei futuri detentori di diritti d’autore per libri e serie televisive. Basta con conferenze stampa in cui l’imputato viene condannato in televisione, prima che in aula e con la difesa ridotta a convitato di pietra. Un affronto incredibile per quei magistrati dell’accusa finora intoccabili e che hanno scelto questa strada para mediatica (e a volte “paracula”) come scorciatoia per l’avanzamento in carriera, a prescindere dai risultati processuali delle proprie inchieste. Arrivando magari a ingenerare il sospetto che le assoluzioni siano dovute alla presunta corruzione, o collusione, con le mafie dei loro colleghi giudicanti. Questi ultimi quasi mai difesi con le famose “azioni a tutela” da parte del Consiglio superiore della magistratura. Anni fa c’è stato che credeva di potere risolvere questo corto circuito mediatico giudiziario vietando per legge che venissero fatti i nomi dei pubblici ministeri che conducevano le indagini. Oggi ci si accontenterebbe di vietare loro di dare nomi accattivanti e ammiccanti alle indagini. E di comportarsi come le “influencer” su Instagram. Penalisti: troppe disfunzioni, stop all’obbligo del deposito telematico di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2021 In una lettera al Ministero, il Presidente dell’Ucpi Caiazza esprime “sconcerto” per l’emissione di decreti ministeriali derogatori di norme del codice di procedura penale. Troppe le disfunzioni del Portale Telematico del penale che generano limitazioni all’esercizio dell’attività difensiva. Il Presidente dell’Unione delle camere penali Gian Domenico Caiazza scrive al Capo Dipartimento dell’Amministrazione Giudiziaria, Barbara Fabbrini, per chiedere un periodo congruo - di almeno un anno - nel quale l’utilizzo del Portale sia previsto come facoltà e non come obbligo, in attesa di veder risolte le molte problematiche di utilizzo. Ed esprime “sconcerto” per l’emissione di decreti ministeriali “ai quali di fatto si attribuisce forza normativa di fonte superiore - poiché derogatoria - rispetto alle norme del codice di procedura penale”. Il riferimento è al decreto 13 gennaio 2021 “Deposito di atti, documenti e istanze nella vigenza dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 (GU n. 16 del 21-01-2021). “Più che potenziare il processo penale telematico per decreto - scrive Caiazza - andrebbero eliminati per legge tutti gli ostacoli all’esercizio del diritto di difesa che il Portale sta creando”. “Ogni disfunzione, ogni criticità, ogni malfunzionamento - si legge nella missiva -, si traduce inevitabilmente in un pregiudizio per il compiuto e sereno esercizio del diritto di difesa”. Ragion per cui “finché non saranno risolte tutte le numerose problematiche che stiamo riscontrando, risulta indispensabile sospendere l’obbligo di utilizzo in via esclusiva del portale per il deposito degli atti”. Segue l’elenco delle disfunzioni. Per esempio: il difensore, nei procedimenti in cui è già nominato prima della conclusione delle indagini o all’atto della notifica dello stesso, non risulta automaticamente autorizzato all’accesso dal Portale a quel determinato procedimento, né vi è alcuna sospensione dei termini processuali. Inoltre, effettuato il deposito della nomina sul portale, occorre attendere un riscontro che può tardare anche settimane per procedere con le attività difensive previste dell’articolo 415 bis Cpp Altre volte invece il portale va in blocco, con un “rallentamento esasperante” nel suo funzionamento. I penalisti definiscono poi “sorprendente” che ogni Procura segua un proprio “approccio” al Portale. Mentre la stesura di numerose “circolari” interpretative o organizzative hanno prodotto “una vera e propria Babele giudiziaria”. Mandato d’arresto Ue al test della Consulta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2021 La disciplina italiana sul mandato d’arresto Ue non tutela a sufficienza il diritto alla salute. Non prevede infatti un esplicito motivo di rifiuto nel caso la consegna della persona interessata ne possa verosimilmente compromettere l’equilibrio psicofisico. Per queste ragioni la Corte d’appello di Milano ha rinviato alla Corte costituzionale la legge n. 69 del 2005, con la quale è stata recepita nel nostro ordinamento penale la decisione quadro sul mandato d’arresto europeo nella parte in cui non prevede tra i motivi di rifiuto, (ma solo eventualmente di sospensione) le ragioni di salute croniche e di durata indeterminabile con gravi conseguenze per la persona oggetto della domanda di consegna. Nel caso approdato alla V sezione infatti (richiesta di consegna avanzata dalla Croazia nei confronti di una persona con gravi disturbi psichici accusata da traffico e spaccio di stupefacenti), al di là delle eventuali condizioni “inumane o degradanti” cui la persona interessata potrebbe essere sottoposta, la tutela della salute psichica verrebbe danneggiata o messa in serio pericolo dalla stessa attivazione del procedimento di consegna: la peculiarità della malattia psichiatrica, l’interruzione del rapporto terapeutico con il medico che lo ha in cura, Io sradicamento anche solo temporaneo dalla famiglia, “sono tutti elementi che, come attestato dalla perizia svolta su incarico di questa Corte renderebbero molto concreto il pericolo suicidario”. Il sistema previsto dalla legge n. 69, centrato “solo” sulla possibilità di sospensione, appare irragionevole alla Corte d’appello sotto una pluralità di profili: l’eventualità di una sospensione della consegna successiva alla pronuncia favorevole alla consegna medesima, “sottrae alla fase giurisdizionale la valutazione circa l’analisi di un’eventuale lesione al diritto fondamentale della salute quale motivo che consenta di rifiutare la consegna; rimette alla fase esecutiva (eventuale) la verifica - con atto peraltro non impugnabile - della sussistenza di gravi ragioni di salute consentendo la sospensione del procedimento; sospensione del procedimento che tuttavia avrebbe, nel caso che ci occupa, una durata indeterminabile”. Ancora, il regime della sola sospensione si porrebbe poi in contrasto anche co in principi del giusto processo, perché, nel caso di malattie croniche o comunque non risolvibili in tempi anche solo medi, espone il procedimento penale a una sostanziale paralisi. Inoltre, sia pure comprensibile in termine di maggiore affidamento tra gli Stati dell’Unione europea, l’assenza del rifiuto per tutela della salute, in Italia ma anche nella decisione quadro, introduce un elemento di diversità rispetto al regime giuridico dell’estradizione, valido tra Paesi non appartenenti alla Ue, dove invece questo motivo è espressamente stabilito. Basta agonia: salvate la Calabria o uccidetela di Gioacchino Criaco Il Riformista, 27 gennaio 2021 Se le disgrazie altrui si utilizzano a mo’ di consolazione, si capisce che l’utilizzatore non versi in splendide condizioni. La disgrazia per eccellenza, in Italia, è diventata la Calabria, quotidianamente c’è un suo male che arriva mediaticamente a lenire il male nazionale: dalla sanità, alla politica, all’assetto idrogeologico, ai rifiuti. È un laboratorio infinito, in cui si produce l’orrore. E lei, la Calabria, se ne sta appesa per il collo al pendolo di un orologio sfasato, che oscilla per gran parte del tempo da un solo lato: quello della tragedia. Di tanto in tanto spezza il blocco e passa nell’altro campo: quello della farsa. Sta fra un necrologio e una cartolina: si legge male la Calabria in bilico fra le Procure e il cinema, il gotico e il pacchiano. Poiché queste sono le sole lenti di lettura, ovviamente si legge male, con un unico giudizio: irredimibile Calabria. E non si può fare un torto a chi, da fuori, veda una terra perduta: da parecchi anni è sull’orlo di un burrone, sul perché la lascino in bilico, sulla mancanza dell’ultimo calcio bisognerebbe interrogarsi. Basterebbe poco, un colpo e cesserebbe il battito. Al contrario, servirebbe un impegno eccezionale per allontanarla dal dirupo, portarla lontano dal pericolo e trarla in salvo. Invece: nessuno vuole ammazzarla e nessuno vuole salvarla. C’è chi si nutre della sua agonia e chi trae giovamento dalla sua sopravvivenza. Massima calabrese infallibile recita: nulla è come sembra, trova a chi giova e troverai il colpevole. Se la si usasse avremmo una narrazione diversa dal racconto fasullo in uso. Sull’abisso, prossimi all’irredimibilità, i calabresi, non ci sono arrivati di colpo, vi sono stati condotti passo dopo passo. Ora, è vero, è inutile rivedere gli errori, il passato è passato, ma la condizione di prossimi agli inferi dipende tutta da ciò che hanno fatto loro e da ciò che loro si sono lasciati fare. Ognuno si prenda le colpe che ha, dopo i calabresi ci andranno all’inferno, ma non è che dovranno farlo chiedendo pure scusa ai carnefici? Gli hanno fatto, e si sono lasciati fare: che il popolo calabrese dopo millenni di stanzialità sia finito preda della irresistibile partenza, si è svuotato un mondo, che ovvio non era felice. Da metà Ottocento, a oggi, le nuove generazioni sono state mandate via. Una terra senza sangue giovane non cambia. Non è questione sia migliore chi parta o chi resti, è questione della mancanza della parte vitale di un corpo, che non c’è stata per lottare, lavorare, costruire. Ai rimasti è stato insegnato l’arrangiarsi, il piegarsi e, senza inalberarsi, in tempi recenti o remoti, tutti hanno avuto qualcuno che si sia piegato. I rimasti si sono trovati schiacciati fra uno Stato lontano, e indifferente, e un potentato locale spregiudicato e spietato, dotato di un formidabile cane da guardia: la ‘ndrangheta. Si è vissuto così, fra la costrizione a partire e la necessità di compromettersi per vivere, e un padre o un nonno o un bisnonno si è piegato pure per gli integerrimi di oggi, pure per i moralizzatori. La Calabria non ha mai vissuto la normalità in nessun settore: lavoro, sanità, giustizia, viabilità, istruzione. Per decenni tutto è viaggiato in un certo modo. E non è che nel resto del Paese abbia imperato la perfezione, anzi, il Sud ha subito di tutto, ma certo non ha imposto totalitarismi politici o economici. Certo è che oggi la Calabria sia un fenomeno da baraccone, buona per divertire, consolare. I calabresi hanno la colpa gravissima di non aver lottato da subito per la propria libertà. Dopo sono diventati cani alla catena che cialtroni di fuori e traditori di dentro hanno condotto dove fosse utile a loro. E adesso sono prossimi all’irredimibilità, e ancora gli vengono impartite lezioni sulle loro colpe, e ancora gli inviano Messia con la promessa di salvezza; e ancora, loro, si lasciano raccontare, irretire. Ancora non trovano la forza di fare l’unica cosa che abbia davvero dignità. Lottare, provare a essere liberi da nemici esterni e traditori interni, che sono ancora gli stessi, che lì portano ancora gli stessi nomi di famiglia. E l’Italia potrebbe provare a far qualcosa, invece di consolarsi dondolando il capo davanti al quadro dell’orrore: come l’ambasciatore di Hitler a Parigi, davanti alla Guernica di Picasso, senza capire che la Germania aveva determinato l’orrore. Canta ai detenuti e scatta la gogna: “Sei mafiosa!” di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 27 gennaio 2021 Sotto accusa l’artista calabrese Teresa Merante, “cantante della malavita”, che ora rischia un procedimento giudiziario per le strofe dedicate ai carcerati. “Bon capudannu e bon capu di misi / speramu l’annu novu sia felici / bon capudannu a tutti i carcerati / chi alli galeri siti segregati / speramu mu tornati in libbertà / ‘nte vostri casi gioia e serenità”. Sono queste le strofe incriminate di Teresa Merante, la calabrese “cantante della malavita”. Quelle che stanno suscitando un putiferio. A dicembre 2020, Nicotera, ridente paesino della costa tirrenica in provincia di Vibo Valentia, si veste un po’ a festa, di luci e addobbi, forse per alleviare un Natale già triste per via della pandemia. L’iniziativa ha successo e le foto della “via del vischio”, un breve tratto del corso che attraversa il centro del paese illuminato e addobbato, fanno il giro della regione. Diverse persone, famiglie e bambini, vengono a vedere, a fare i selfie - vicino la slitta di luci, o la stanza con le pareti di candeline luminose nella piazzetta del mercato. Il sindaco è contento. Teresa Merante vede le foto e decide di fare la location per la sua clip di capodanno a Nicotera. Telefona all’amministrazione, chiede il permesso di girare alcune scene con la sua troupe - permesso accordato. Viene, gira le scene, sistema il montato, manda nel suo canale YouTube - dove registra milioni di visualizzazioni per le sue canzoni. Passa qualche giorno e quella strofa - bon capudannu a tutti i carcerati - diventa la pietra dello scandalo. Ma che succede, a Nicotera - si fanno gli auguri agli ndranghetisti? Il sindaco corre ai ripari - lui non sapeva nulla, non aveva mai sentito la canzone, non aveva mai letto il testo; lui - è noto - è in prima fila nella lotta alla ndrangheta, chiede scusa perché nel filmato si vede che brinda con la cantante: sono stato ingannato. Se potesse, farebbe cancellare dal video-clip quella frase in coda: “Si ringrazia per la cortese ospitalità l’amministrazione comunale e il sindaco, dott. Giuseppe Marasco”. Il quale sindaco, che dottore non è ma ha sempre svolto con competenza e premura il suo lavoro di infermiere, aveva da poco partecipato a un evento con Nicola Gratteri, e si fa subito fotografare nel suo ufficio dove campeggia la foto di Falcone e Borsellino - tanto per mettere le cose in chiaro. Va detto: Nicotera è terra martoriata, come buona parte della Calabria. Ci sono stati tre scioglimenti del Consiglio comunale - benché non ci siano state mai iniziative penali nei confronti degli amministratori e in generale la questione è che “il contesto è mafioso”. Ma davvero basta un augurio ai carcerati - in un testo nel quale peraltro si fanno anche gli auguri “all’emigrati, chi sunnu ccchiù luntanu” e “a tutti i sufferenti e li malati” - per suscitare questa civica indignazione? Qualcuno dice - ma Teresa Merante non è come il papa che fa la messa di Natale a Rebibbia: ascolta le sue canzoni. Io ascolto le sue canzoni. Ce ne sono di una estrema ingenuità testuale e musicale - una sorta di neo-melodico su una trama di folk - e poi ci sono quelle “incriminate”: ‘U latitanti, ‘U capu di capi. “Li lupi quann’è ura comuncianu a gridari / na luci vascia vascia cumincia a lampeggiari. / Fuiti giuvanotti, chista è la polizia / sparati a tutta forza a sta brutta compagnia. / Nun aviti paura chi su’ quattru pezzenti / nui simu i latitanti, nui simu cchiù putenti”. È la storia di Rocco Castiglione, latitante per anni, che Teresa Merante ha poi musicato. Peraltro sono storie che finiscono sempre male, li prendono tutti e languiscono in galera: “ciangiu nta sti quattru mura, ciangiu a la me mamma”. Non c’è redenzione - ma è come un destino che va percorso, fino in fondo. Le canzoni della malavita non sono un fenomeno recente - ancora negli anni Ottanta a ogni mercatino di paese c’era il banco con le cassette, ora c’è il video su YouTube. Ma sono radicate nella cultura popolare meridionale, nella sceneggiata napoletana, nel neo-melodico che si canta da Palermo a Napoli. Uno può chiedersi perché - ma questo è un altro discorso. E sarebbe come chiedersi perché tra i giovani neri andava fortissimo il gangsta rap o l’hip hop più violento - che le strofe della Merante sono acqua fresca. Un paio d’ani fa fece a sua volta scandalo una trap di un giovanotto di Rosarno - terra di ndrangheta - che si chiama Glock21 e canta cose tipo “A noi non ci fotte nessuno / noi siamo i numero uno”. Il video mostrava un gruppo di ragazze e ragazzi che in posti abbandonati si vestono e si muovono come “quelli americani”, buona parte dei quali aveva chi uno zio, chi un cugino, in galera o latitante. Anche loro, YouTube, migliaia di visualizzazioni: Non è il mondo che piace, ma, frate’, è il nostro mondo - così dicevano. Portiamo roba pesante addosso, abbiamo i borselli pieni - così dicevano. E si vedevano ragazzi con mitra, fucili, Glock21, l’orologio d’oro Gucci, il macchinone.C’è ora chi chiede una qualche iniziativa giudiziaria contro la Merante. Per quella “culturale” si sono già mossi i Sud Sound System, che si sentono oltraggiati che una musica salentina sia stata usata per queste cose. Per quella istituzionale ha già tuonato la presidente del Consiglio regionale pugliese, Loredana Capone. Qualcuno accuserà la cantante di “incitamento alla criminalità”? Per una canzone? Per una compilation? Dovremmo perciò censurare film come Il Padrino o il più recente The Irishman, perché incitano alla criminalità? Oppure, che so - le musiche di Nicola Piovani per Il camorrista di Giuseppe Tornatore, centrato sulla vita, benché romanzata, di Raffaele Cutolo? Dice - ma che c’entra, qui si parla di arte, di estetica e le canzoni della Merante invece sono sub-cultura. È questo l’approccio; a leggere i resoconti di un tentativo della cantante di “circoscrivere” l’accaduto - “l’occhio le scappa spesso sul testo che lei o altri hanno preparato allo scopo e legge in maniera non poi così disinvolta” - viene sempre in mente quanto, proprio pochi giorni fa, Corrado Augias diceva della Calabria: è una terra perduta, irrecuperabile. Termini Imerese (Pa). Detenuto 29enne morto in cella, il pm dispone l’autopsia ilsicilia.it, 27 gennaio 2021 La procura apre inchiesta contro ignoti per omicidio colposo. La Procura di Termini Imerese ha aperto un fascicolo contro ignoti, quindi senza indagati, per omicidio colposo sulla morte del detenuto tunisino di 29 anni, Chiheb Hamrouni, trovato senza vita nella sua cella due giorni fa. Il sostituto Giacomo Barbara ha disposto l’autopsia che sarà eseguita domani, alle 17, all’istituto di Medicina legale di Palermo. L’uomo era tra i principali imputati nel processo scaturito dall’indagine “Scorpion Fish” della guardia di finanza coordinata dalla Dda su un presunto traffico migranti e contrabbando di sigarette estere del giugno 2017. Lo scorso 4 giugno, la seconda sezione della Corte d’assise d’appello di Palermo gli aveva ridotto la pena da 7 anni e 4 mesi di carcere a sei anni e sei mesi. Per l’autopsia, chiedendo l’accertamento delle cause della morte del detenuto, il pm Giacomo Barbara ha nominato come periti i medici legali Antonina Argo e Ginevra Malta, dell’Istituto di Medicina Legale del Policlinico “Paolo Giaccone” di Palermo. Il carcere di Termini Imerese ha notificato l’atto con cui viene fissata la data dell’autopsia anche al difensore di Chiheb Hamrouni, l’avvocato trapanese Fabio Sammartano, che aveva reso noto la notizia della morte in carcere del suo assistito che, ha ricordato, “aveva da poco reso importanti dichiarazioni nell’ambito di altre indagini della Dda palermitana in materia di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e contrabbando transnazionale di tabacchi lavorati”. Roma. Poliziotto penitenziario si toglie la vita. Il Sappe: “In 2 anni 15 agenti morti così” di Andrea Ossino Il Tempo, 27 gennaio 2021 L’assistente Capo, in servizio nel carcere di Rebibbia, era in isolamento a casa perché positivo al Covid. Un lavoro opprimente. Il dolore per la perdita del padre. E l’isolamento dettato dalla positività al Covid. Una concomitanza di cause dal risultato drammatico: lunedì scorso un assistente Capo della Polizia Penitenziaria, in servizio nel carcere di Rebibbia, si è suicidato. Il lento logorio della vita carceraria fiacca anche gli animi più forti. Una triste realtà a cui non sono sottoposti soltanto i detenuti, ma anche i secondini, servitori dello Stato che trascorrono la loro vita all’interno di un penitenziario. All’oppressione dettata da una vita lavorativa faticosa spesso si sommano piccoli e grandi drammi personali, in un mix di difficoltà che troppo spesso sembrano essere insormontabili. E il suicidio, erroneamente, appare come l’unica via per fuggire da quel male interiore. A.G., cinquant’anni, si è impiccato nel suo appartamento, tra quelle mura dove era rinchiuso da quando il tampone gli ha rivelato un responso nefasto. Era positivo al Covid, ma asintomatico. Il virus non lo ha ferito fisicamente, ma lo ha ulteriormente indebolito psicologicamente. Da solo, l’uomo ha avuto tutto il tempo di alimentare una depressione che si è aggravata da quando il padre, recentemente, è morto. In servizio nel braccio G11 del penitenziario di Rebibbia, uno dei tre reparti dove è esploso un focolaio, trascorreva le sue giornate in carcere. Una vita difficile, una condizione che accomuna tutti i secondini. Il suo dramma non è un caso isolato. “Negli ultimi due anni sono stati 15 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita - afferma Donato Capece, segretario del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria - questo è il primo caso di quest’anno. Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del personale di Polizia Penitenziaria. È necessario strutturare un’apposita direzione medica, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria. Non si perda altro prezioso tempo che potrebbe costare altre vite umane”. Gli appelli negli anni sono stati numerosi, e sempre inascoltati. Adesso al sindacato non resta che rivolgere un pensiero: “Ci stringiamo intorno ai familiari”. Napoli. I familiari dei detenuti contro il ministro Bonafede: “Si deve dimettere” di Rossella Grasso Il Riformista, 27 gennaio 2021 Covid: 60 contagi nel carcere di Secondigliano, cresce la preoccupazione per chi ha problemi di salute. “A questi ragazzi li tengono come gli animali, eppure la loro pena la stanno pagando. Malafede (così definiscono il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ndr) dovrebbe dimettersi perché non sa fare il suo lavoro”. Così un gruppo di familiari e amici dei detenuti hanno deciso di far sentire la loro voce radunandosi fuori ai cancelli del carcere di Secondigliano a Napoli. La notizia dei 60 contagi nel carcere preoccupa. Ma il gruppo di familiari non ci sta e alza la voce per far sentire da fuori il loro sostegno e denunciare le condizioni di vita all’interno del carcere. “Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si deve dimettere perché è un ignorante, è un dilettante - grida uno dei manifestanti - la tutela della salute è un diritto di tutti, che sia o non sia un detenuto. Chi è in carcere è un popolo di serie C?”. “La legge non è uguale per tutti, è solo un abuso di potere - ha detto la mamma di uno dei detenuti di Secondigliano - In carcere ci sono persone invalide, che stanno male, che non hanno la possibilità di far sentire la loro voce per paura di ritorsioni da parte delle guardie. Non abbiamo una legge ma solo delinquenti seduti al parlamento che non prendono in considerazione i problemi delle carceri”. Ad allarmare i parenti, oltre all’incalzare della pandemia, sono i sovraffollamenti che peggiorano la situazione e rendono più facile il contagio. Molti segnalano le difficili situazioni di salute dei loro cari e temono che in carcere possano contrarre il virus. “Non vediamo papà da diversi mesi a causa del Covid, nelle videochiamate lo vediamo molto sofferente, sta malissimo - racconta tra le lacrime Carmela Polverino, scesa in piazza per suo padre - Ha 77 anni ed è affetto da Parkinson, varie patologie e una bronchite. Noi familiari siamo in angoscia per lui, stiamo morendo dal terrore che possa prendere il Covid dentro e non capiamo nemmeno se riceve cure adeguate”. La difficoltà nei colloqui di persona scoraggiano molto i detenuti che si sentono privati anche degli affetti. Ma il garante dei detenuti di Napoli, Pietro Ioia, ha confortato tutti: “Ho parlato con la direttrice del carcere e con la dirigente sanitaria - ha detto al pacifico gruppo di manifestanti - Ci sono 60 positivi al Covid, di cui 3 in ospedale, ma stanno già meglio. La situazione è sotto controllo: i contagiati stanno in celle isolate in una sezione apposita. Dobbiamo aspettare che passi il tempo e tutti guariscano. Oggi iniziavano anche i tamponi. Siamo fiduciosi, siamo qui fuori per far sentire la nostra vicinanza ai detenuti, per far sì che non si sentano soli. Speriamo che la Sanità non sia per loro di serie B, ma di serie A per tutti”. Palermo. Al Pagliarelli 55 i detenuti positivi al Covid: aumenta la tensione di Roberto Puglisi livesicilia.it, 27 gennaio 2021 Cresce il focolaio dei detenuti positivi al Covid al ‘Pagliarelli’: sono cinquantacinque, al secondo tampone. Tra otto giorni verrà somministrato un terzo. I già positivi sono stati sottoposti al molecolare, i negativi al test rapido antigenico e al molecolare, successivamente, in caso di positività: lo screening riguarda tutti. Alcuni si sono negativizzati, ma ci sono altri casi di contagio. Il Covid, in una comunità ristretta come un istituto penitenziario, presenta, oltre alla straordinaria angoscia della normalità, qualche motivo di tensione in più. L’Usca e la protesta - C’è chi, per esempio, avrebbe rifiutato la visita del medico dell’Usca che è dedicata proprio al Pagliarelli. Appunto, le ulteriori complicazioni che una pandemia comporta in carcere non spingono alla serenità degli animi. Si avverte una palpabile tensione che riguarda sia il personale sia i detenuti, sono i sintomi del logorio, amplificato dal contesto. Personale positivo - C’era già stato un piccolo cluster, tra il personale, nei mesi scorsi. Ora, ci sono quattro positivi. Ed è un altro dato da tenere sott’occhio, anche se l’origine del contagio dovrebbe essere esterno al carcere. La buona notizia è che non ci sarebbero quadri clinici pesanti, in generale. Tra chi lavora è in corso la campagna di adesione volontaria al vaccino. Finora hanno risposto sì più di cinquecento, su una platea di circa settecento. “Vacciniamo i detenuti” - Sulla questione sono intervenuti, nei giorni scorsi, Rita Barbera, anima sensibile che, con il suo impegno, ha cercato di fare entrare il carcere nel mondo e viceversa. Ecco le sue parole: “In un istituto penitenziario c’è promiscuità e c’è il sovraffollamento, due situazioni gravi. Ecco perché i detenuti e il personale andrebbero vaccinati subito”. Ed ecco la posizione di un’altra figura impegnata come Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia: “Il problema fondamentale riguarda sempre i diritti umani, ma siccome la gente è poco attenta, aggiungerei un dato: se i contagi dilagheranno, la popolazione carceraria finirà per occupare le terapie intensive degli ospedali e il sistema sarà ulteriormente a rischio per tutti. Non possiamo girare la testa dall’altra parte. Il carcere non è un luogo sicuro”. Palermo. Tutta “colpa” di quel mazzo di chiavi di Maurizio Artale* Ristretti Orizzonti, 27 gennaio 2021 Stefano oggi ha 64 anni. Il suo non è un nome di fantasia. Il suo è il nome di battesimo. Non si è mai voluto nascondere e non si è mai fatto sconti. Ha attraversato interamente la sua pena: nel 1990 la Corte d’Assise d’Appello di Torino lo condanna all’ergastolo ostativo: fine pena mai. Sono trascorsi 14 mila e 600 giorni da quella data, dal giorno della sua condanna all’ergastolo per omicidio a causa di una rapina finita in tragedia. La psicologa del Centro di Accoglienza Padre Nostro, fondato a Brancaccio dal Beato Giuseppe Puglisi, conobbe il Sig. Stefano a Palermo, 30 anni dopo quella condanna, in occasione di un Progetto di Inclusione Sociale denominato “Second Life”, un progetto di orientamento lavorativo e sociale che a partire dal titolo rimandava proprio ad una seconda chance. E lui, Stefano, detenuto “modello”, che in carcere aveva preso il diploma di ebanista, partecipando a decine e decine di corsi, durante quel colloquio disse: “Dott.ssa, ma quale “Second Life”?! io sono marchiato, non perché sono un detenuto, ma perché sono un ergastolano con un marchio scritto addosso: su di me c’è scritto “fine pena mai”. Lei lo sa, dott.ssa, che vuol dire MAI?” E da quel giorno, circa 10 anni fa, Stefano ha ricevuto in consegna un mazzo di chiavi: le chiavi dei sogni di un piccolo prete di periferia, un prete che lui non ebbe mai modo di conoscere personalmente. Eppure, i volontari del Centro da lui fondato consegnarono a Stefano proprio un mazzo di chiavi: chiavi che aprono e chiudono campi sportivi, stanze per i colloqui psicologici o per la consulenza legale, chiavi che custodiscono beni di prima necessità per i più bisognosi, chiavi che aprono le porte del futuro ai giovani in cerca di un titolo di studio, di una ambizione da coltivare. E così, come accade a volte, il destino inverte le parti. Stefano, da un giorno all’altro, si trova dall’altra parte: lui, si proprio lui, è diventato per i ragazzi di Brancaccio il custode. Potremmo dire che per quasi 10 anni Stefano è stato “l’agente per la sicurezza” al Centro Polivalente Sportivo, al Centro Aggregativo minori e adolescenti, al Pronto Soccorso Sociale. Le sue funzioni principali sono state infatti quelle di garantire l’ordine e la sicurezza all’interno delle numerose sedi del Centro, partecipando al contempo a tutte le attività, osservando i ragazzi ed impegnandosi, a suo modo, per la loro crescita ed educazione. Racconta spesso ai giovani di non aver visto crescere né i suoi figli, né i suoi nipoti. Eppure i ragazzi di Brancaccio si fidano di lui, ascoltano i suoi consigli. Stefano non ha cancellato nulla: descrive la sua vicenda umana e parla di una vita durissima. Questa storia lui la percorre passo dopo passo, e forte di questo dice ai ragazzi di non cercare i soldi facili, di non perdersi. Ripete loro di doversi creare un futuro. Lui, si lui, Stefano parla del tempo, parla di futuro…proprio lui che da 40 anni porta incisa addosso la parola MAI. A dicembre 2020 Stefano riceve un altro mazzo di chiavi: l’art. 176 comma terzo del Codice Penale stabilisce che Stefano può essere ammesso alla liberazione condizionale: saranno i frutti di un percorso personale di ravvedimento, segnato dalla crescita, ma sarà anche il frutto dell’incontro, negli ultimi 10 anni, con il volto del martire attraverso i volontari ed operatori che ne hanno continuato l’opera a Brancaccio di cui lo stesso Stefano ha pitturato i contorni. A lui Stefano dedica la sua scarcerazione condizionale ed è per questo che tiene, nel suo portafoglio, la sua immagine come si usa fare a Palermo con un caro defunto o con un santo. A questo punto, adesso, con questa ennesima chance, mentre Stefano dorme a casa con la sua famiglia, una serratura è ancora chiusa. È questa la sua pena eterna, quella umana, dice Stefano, non quella della legge: “poter chiedere perdono ai familiari della persona che non c’è più a causa mia. È questa la mia fine pena mai. Fin quando non si realizzerà questo incontro il mio cuore non si darà pace”. *Presidente Centro di Accoglienza Padre Nostro Palermo. Una nuova vita dopo 40 anni in cella. “Aiuto i ragazzi di Brancaccio a salvarsi” di Claudia Brunetto La Repubblica, 27 gennaio 2021 Stefano Taormina, condannato all’ergastolo per una rapina finita in omicidio, ha ottenuto la scarcerazione condizionale. Ha lavorato per quasi un decennio al centro Padre Nostro. “Dedico la libertà a don Pino Puglisi: è sempre qui con me”. L’immagine di padre Pino Puglisi è sempre nel suo portafoglio. Non l’ha mai conosciuto, ma il suo messaggio gli è arrivato forte e chiaro nei nove anni in cui si è dato da fare come volontario in mezzo a bambini e ragazzi del centro di accoglienza Padre Nostro, a Brancaccio. Per Stefano Taormina, 64 anni, 40 dei quali passati in carcere, condannato all’ergastolo per omicidio dopo una rapina finita in tragedia, all’inizio di dicembre è arrivata la libertà condizionale. Per uno che nel suo destino aveva scritto “fine pena mai”, l’unica parola che conta è “libertà”. “Sono libero - dice Taormina - e ancora non ci credo. L’avvocato continuava a ripetermi “sei libero”, ma io non capivo. Anche perché in passato me l’avevano negata diverse volte. Provo una gioia immensa. Una nuova vita che inizia. La dedico anche a padre Puglisi che è sempre con me”. A salvarlo è stata la condotta virtuosa dentro e fuori dal carcere, ma anche una lunga lista di encomi ricevuti nel tempo in tutta Italia. “Mi sono diplomato come ebanista, ho fatto decine di corsi. Mi sono appassionato alla pittura, dipingo anche il volto di padre Pino Puglisi e ho esposto i miei quadri, ma non mi viene mai bene come vorrei, come me lo immagino. E poi nei nove anni al centro ho dato il massimo. Mi sono occupato dei campetti sportivi, ne sono stato custode e manutentore, ma quello che mi ha gratificato di più è stato il rapporto con i ragazzi. Alcuni li ho incontrati a cinque anni e oggi sono adolescenti”, dice Taormina. E a modo suo li ha educati, forte della sua storia. “Gli ho detto che a inseguire i soldi facili si sbaglia e si rischia grosso, come è successo a me, gli ho detto che la forza e la sopraffazione non sono gli unici modi per rapportarsi agli altri. Gli ho detto di non perdersi in strada e di cercarsi un vero lavoro”, racconta. A Brancaccio è nato e cresciuto, così come i suoi due figli, i tre nipoti e gli altrettanti pronipoti. Il quartiere lo conosce a memoria, fiuta e scruta ogni cosa, riconosce l’illegalità anche quando è ben nascosta. I ragazzi stessi lo fermano, conoscono la sua storia. Per loro è un esempio. “Se vedo due ragazzi in motorino uscire di zona, già mi preoccupo - dice Taormina - temo si spostino per qualche colpo. Quando li fermo per strada, gli chiedo dove hanno preso il motorino che guidano e gli faccio un sacco di raccomandazioni. A Brancaccio perdersi è un attimo. La mia vita lo dimostra”. Brancaccio, però, gli ha anche offerto la possibilità di riscattarsi. E adesso gli ha dato un vero lavoro nella casa di riposo per anziani “Il giardino dei racconti”, dove fa il cuoco e si occupa della manutenzione. “Nel mio percorso durissimo che mi ha costretto a rinunciare a tutto, alla vita, a mia moglie lasciata sola a 16 anni, ai miei figli che non ho visto crescere, ho incontrato anche tante persone che hanno creduto in me, che mi hanno dato fiducia. È anche grazie a loro che ho raggiunto questo traguardo. La vita in carcere è stata durissima, ma ho dimostrato di meritarmi anche altro”. Dai primi di dicembre la sua vita è fatta di lavoro, di affetti, del centro Padre nostro e anche delle rigide regole da seguire ogni giorno. “Ci abbiamo creduto fortemente - dice Giuseppe Inguaggiato, il suo avvocato - La libertà condizionale di Taormina è il risultato del contributo di tutti. Ciascuno ha fatto la sua parte, partendo da un punto certo: lo straordinario impegno di quest’uomo che ha commosso tutti noi”. La libertà condizionale ha una serie di vincoli: anzitutto l’obbligo di presentarsi in questura tre volte alla settimana e il divieto di uscire di casa dalle 21,30 alle 7 del mattino. “Ma non devo tornare più in carcere”, dice Taormina. Dopo cinque anni senza sbagliare mai, lo aspetta l’estinzione della pena. Un fatto più che eccezionale. “Un miracolo - dice Taormina - Adesso l’unica cosa che mi manca per sentirmi libero davvero dentro di me, nel mio cuore, è poter chiedere perdono ai familiari della persona che non c’è più per causa mia. Soffro maledettamente, ho avuto anche un infarto per il dolore. Penso sempre a quello che ho fatto e mi pesa non essere riuscito, in tutti questi anni, a raggiungere i suoi familiari, anche se ci ho provato tante volte. Spero di farcela in questa nuova vita, attraverso l’assistente sociale che mi segue”. Per il centro Padre Nostro, Stefano Taormina è “l’ennesimo frutto di padre Pino Puglisi”. “Per nove anni è diventato il perno di tante nostre attività - dice Maurizio Artale, presidente del “Padre Nostro” - il centro è stato creato per questo, per seguire le persone singolarmente in un percorso di rinascita, per provare a concedere loro un’altra possibilità, nonostante tutto”. Siracusa. In carcere ogni pasta di mandorla ha una storia di Alessandro Puglia Vita, 27 gennaio 2021 Dal primo pane biologico distribuito nei mercati, alle paste di mandorle con il marchio Dolci Evasioni realizzate nel laboratorio del carcere di Siracusa e oggi distribuite in Italia e in Europa. Ecco come la cooperativa L’Arcolaio ha portato avanti un modello di economia carceraria e di rilancio di un territorio che crede nell’unicità della sua natura Ogni pasta di mandorla ha la sua storia dentro e fuori le mura del carcere di Siracusa. È qui, nella casa circondariale di Cavadonna, che dal 2005 gruppi tra gli otto e i dieci detenuti con regolare contratto di lavoro contribuiscono a far apprezzare in Italia e in Europa alcuni tra i più tipici dolciumi siciliani, specialmente quelli a base di mandorle. Perché la loro squisitezza è frutto di un lavoro meticoloso e attento fatto direttamente da un rapporto esclusivo con la terra, tra gli alberi di mandorlo che costellano le strade della provincia aretusea. A lavorarle sono mani che oggi costruiscono legami di pace perché hanno accettato quella proposta educativa che genera il cambiamento, sempre più necessaria tra le carceri italiane. Progetti che già dal 2003 vengono portati avanti dalla cooperativa L’Arcolaio, inizialmente con un piccolo forno che produceva pane biologico di casa, successivamente con una vasta produzione di prodotti a base di mandorle che dal 2005 con il marchio di Dolci Evasioni conquista in breve tempo il panorama nazionale del commercio equo e solidale. Una storia di economia carceraria e di rilancio del territorio che oggi continua attraverso progetti già avviati come quello della lavorazione dei frutti iblei fino all’ultimo arrivo della sontuosa macchina per pelare le mandorle all’interno del progetto Fuori, la vita oltre il carcere, avviato con il sostegno della Fondazione Con il Sud. In un carcere dove le mandorle vengono declinate in ogni lora forma: dalle paste di mandorla, al pesto alle mandorle, alle mandorle tostate o pelate, agli amaretti. Da un punto di vista tecnico il macchinario permetterà di risparmiare i costi di pelatura, garantirà anche in termini di tracciabilità il processo di filiera ai clienti e aprirà le porte alle aziende del territorio che ne faranno richiesta. Il tutto all’interno di un carcere. Il progetto Fuori permetterà così a 12 detenuti di seguire un corso formativo per ottenere la qualifica di addetto panificatore-pasticcere. Quattro di loro svolgeranno un tirocinio di sei mesi in pasticcerie del territorio, mentre altri tre detenuti che magari hanno qualche anno in più di pena da scontare saranno assunti all’interno del laboratorio della struttura carceraria. “È un progetto che mira a potenziare le attività del nostro laboratorio in un contesto di reinserimento socio-lavorativo che portiamo avanti da anni oggi pensato per assistere i detenuti soprattutto nella fase di passaggio dal carcere al regime di libertà”, spiega Valentina D’Amico, 40 anni, responsabile Area Sociale della cooperativa L’Arcolaio. “Noi facciamo da garante perché quando loro cercheranno un lavoro non possano portarsi addosso lo stigma di dire: io sono un detenuto” aggiunge Valentina che si sente ripetere spesso una frase: “il carcere mi ha salvato”. A ripeterla oggi è Max Coshman, 44 anni, ucraino, responsabile del laboratorio di essiccazione Frutti degli Iblei ed ex coordinatore dei pasticceri nel laboratorio di Dolci Evasioni. “Ho scontato una lunga pena e sin dal primo momento in carcere, prima a Verona e poi a Padova ho incontrato persone che volevano aiutarmi. Non parlavo neanche l’Italiano ed ero convinto che a 8 anni si diventa già uomini. Mi sbagliavo. A Siracusa ho conosciuto quella che io chiamo la famiglia de L’Arcolaio. Hanno creduto in me. Ho imparato a gestire le cose, le mie cose, con amore e rispetto. E ho capito che la vera libertà dipende soltanto da noi, dentro o fuori il carcere. Se penso all’esperienza nel laboratorio di Dolci Evasioni penso ai tanti compagni che ho incontrato, nessuno di loro avrebbe mai pensato di ritrovarsi in quel luogo. Sì il carcere mi ha salvato”, racconta Max che nel laboratorio di Canicattini Bagni sta preparando una spedizione contenente sali minerali aromatizzati, risultato del progetto Frutti degli Iblei, sostenuto dalla Fondazione di Comunità Val Di Noto. Per realizzare prodotti in cui il sale marino della riserva naturale di Trapani e Paceco viene miscelato con le essenze delle erbe dei monti Iblei occorre organizzare un imponente lavoro con la terra. Giorgio Nichele, 53 anni è il responsabile delle attività nei terreni del progetto Frutti degli Iblei. E con Max hanno raccolto e trasportato con la carriola tonnellate di rosmarino. Giorgio è arrivato in Sicilia da Desenzano e ci è rimasto anche per amore. Nelle sue vite precedenti aveva una ditta d’antiquario e operava in una comunità per tossicodipendenti. Oggi indossa ancora quel vecchio cappello di boyscout dove sono custoditi i suoi valori intramontabili, tra cui quella frase di Baden Powell che ripete tutte le sere prima di andare a dormire: “Sii felice, rendendo felice gli altri”. Le attività si svolgono in contrada Piano Milo, in un vasto terreno di 13 ettari che la Diocesi di Siracusa ha concesso in comodato d’uso alla cooperativa l’Arcolaio, nel comune di Noto. Due di quegli ettari oggi sono coltivati. “Abbiamo dovuto fare il lifting a questa zona, costruito una strada, creato un pozzo. Prima della pandemia la giornata tipo era così strutturata: ritrovo alle 7 del mattino, poi li caricavo tutti nella mia auto e arrivavamo nei terreni dove in genere facciamo attività fino alle 12,30 con una pausa di 15 minuti. Ogni prodotto e tecnica utilizzata per la raccolta si basa su principi sostenibili: per fare un esempio per la raccolta delle erbe usiamo sacchi in cotone”. Dalle prime distribuzioni di pane biologico in piazza Santa Lucia a Siracusa di anni ne sono passati. Giovanni Romano, 67 anni, fondatore della cooperativa L’Arcolaio spiega che alla base di tutto c’è una proposta educativa: “Noi crediamo nei detenuti e chiediamo a loro di accettare il cambiamento”. Su questa scia sono nate in Sicilia altre esperienze positive di economia carceraria da Sprigioniamo Sapori a Ragusa a Cotti in fragranza nel carcere minorile Malaspina a Palermo. Oggi i prodotti di Dolci Evasioni arrivano non soltanto in tutto il territorio nazionale, ma anche all’estero attraverso il lavoro di distribuzione del Consorzio Le Galline Felici di cui Dolci Evasioni è tra i soci fondatori. “Abbiamo un mercato di riferimento in Francia, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Austria, Germania, Svizzera, Italia. All’interno 40 soci e altrettanti fornitori esterni. Abbiamo iniziato con il classico viaggio in furgone all’estero con i nostri prodotti. Oggi abbiamo una mailing list con migliaia di utenti. Raccontiamo cosa c’è dietro un prodotto, in questo caso dietro a una pasta di mandorla. Il consumatore diventa parte integrante del processo produttivo. Crede in un progetto per l’impegno sociale che c’è dietro e lo sostiene”, spiega Michele Russo, responsabile dell’area Comunicazione del consorzio Le Galline Felici. Una rete che potrebbe far nascere la prima filiera della mandorla in Sicilia, ispirandosi a un’agricoltura inclusiva e sostenibile che rigenera una terra, davanti a questi progetti, mai stata così fertile. Padova. I detenuti diventano aiuto-cuochi e nasce un brand Il Mattino di Padova, 27 gennaio 2021 L’istituto penitenziario padovano ospita un percorso formativo volto a favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti, con la mansione di addetto cucina / aiuto-cuoco, sotto la guida dello chef e formatore abilitato Italo Cristofani. Il laboratorio è stato avviato a settembre 2019, il 18 gennaio scorso è potuta iniziare la terza edizione. Il progetto e il tirocinio sono promossi dalla coop sociale Coislha, con il sostegno del Ministero di Grazia e Giustizia e il co-finanziamento di Fondazione Cattolica. I primi due cicli formativi si sono conclusi: 10 detenuti hanno conseguito l’abilitazione di aiuto cuoco, mentre in questo terzo ciclo appena iniziato, altri cinque soggetti impareranno a destreggiarsi tra i fornelli sotto la guida di Italo Cristofani. Dalla seconda metà di febbraio sarà possibile acquistare le conserve e le preparazioni prodotte alla Casa Circondariale direttamente dagli scaffali della Bottega del Parco, al Parco Etnografico di Rubano. Sarà solo il primo test per il progetto più ampio di Coislha Food: riunire sotto un unico brand i prodotti naturali del territorio lavorati alla Casa Circondariale, per valorizzare il progetto sociale e le realtà agricole del padovano. Saluzzo (Cn). Polo universitario in carcere, 14 detenuti iscritti al primo e secondo anno corrieredisaluzzo.it, 27 gennaio 2021 Sono 14 i detenuti del carcere “Morandi” di Saluzzo iscritti all’Università di Torino, 9 al primo anno e 5 al secondo, 10 iscritti ai corsi del dipartimento di Cultura politica e società e 4 a Giurisprudenza. Dopo i primi due anni avviati in via sperimentale il progetto di Polo universitario nel carcere di Saluzzo (il secondo in Piemonte dopo Le Vallette di Torino), istituto penitenziario di alta sicurezza, è stato formalizzato martedì 25 gennaio con la firma della convenzione con Università di Torino. Gli studenti detenuti possono fruire fin d’ora delle lezioni registrate, l’accordo prevede la possibilità di dialogo tra docenti, tutor e studenti e di sostenere gli esami al completamento del percorso. “Grazie al sostegno della Compagnia di San Paolo agli studenti vengono forniti gratuitamente i libri e l’università rinuncia alla parte di tasse che le compete” ha spiegato il prof. Franco Prina, delegato dal rettore per il Polo universitario per studenti detenuti. I problemi ancora da risolvere riguardano la dotazione tecnologica dell’istituto penitenziario di Regione Bronda che, come ha spiegato la direttrice Giuseppina Piscioneri, “per la sua posizione dispone di poca copertura”. Dal punto di vista logistico è stata individuata la nona sezione dove saranno riuniti tutti gli iscritti, sezione che però al momento è occupata da otto detenuti comuni. “Studiare in carcere può essere molto difficile - ha osservato il garante regionale dei diritti dei detenuti Bruno Mellano - sono indispensabili spazi ed attenzione dedicati”. Mellano ha auspicato che la necessità di rafforzare la rete infrastrutturale possa contribuire a consolidare la filiera della formazione didattica anche di primo e secondo livello, citando l’esperienza esemplare e di assoluta qualità del Liceo artistico “Soleri Bertoni” presente da anni con un corso all’interno del carcere saluzzese. Torino. Presidio No-Tav per le donne del movimento in carcere di Francesco Falcone La Stampa, 27 gennaio 2021 Al carcere Lorusso e Cotugno Dana Lauriola e altre attiviste stanno facendo lo sciopero della fame. Dalle 10 di ieri mattina fino a mezzogiorno. Poi ancora nel pomeriggio. E nei giorni a seguire, sempre mattina e pomeriggio, un presidio di attivisti del movimento No-Tav presidierà l’incrocio di piazza del Moro, nel cuore di Bussoleno, per esprimere solidarietà a Dana Lauriola (portavoce del movimento valsusino) e alle altre donne detenute alle Vallette in sciopero della fame da alcuni giorni. L’iniziativa, nata in risposta all’appello lanciato ieri dalle “Fomne contra il Tav”, mira a sostenere l’azione nonviolenta delle carcerate che protestano per la “riduzione” di alcuni loro diritti, a partire dai tempi abitualmente concessi per le videochiamate ai famigliari. Le detenute chiedono, inoltre, che la visita ad un parente in carcere sia riconosciuto quale valido motivo di spostamento al di fuori dei confini dei Comuni, per evitare che chi si trova recluso debba rinunciare a questo momento di socialità a causa delle restrizioni anti-Covid. Per l’intera settimana il presidio nella piazzetta di Bussoleno che ospita la panchina rossa contro la violenza sulle donne sarà punto di riferimento del presidio a sostegno delle detenute. Invece sabato 30 l’appuntamento sarà davanti al carcere Lorusso e Cotugno di Torino, dove Dana Lauriola e le altre donne animatrici della protesta proseguono il loro sciopero della fame. Bologna. Si ritorna a parlare di carcere con “Liberi dentro-Eduradio” bandieragialla.it, 27 gennaio 2021 Fare informazione dal carcere e sul carcere è già un’impresa difficile in un panorama mediatico poco attento all’argomento eccetto che per i soliti temi (evasioni, suicidi, il detenuto famoso…) e con un’opinione pubblica di conseguenza poco informata. Figurarsi farlo in questo periodo di pandemia quando tutte le attività educative e formative all’interno del carcere sono state sospese o sono state riprese in modo limitato, eppure a Bologna qualcuno ci prova, come è il caso dell’esperienza di Eduradio. Ne abbiamo parlato con frate Ignazio, monaco della comunità fondata da Giuseppe Dossetti, che è uno dei due conduttori (l’altra è Caterina Bombarda) della rubrica radiofonica “Buongiorno con Liberi dentro”, trasmessa su radio Fujiko (103.100 MHz) dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 9.30. Ignazio ha vissuto per 12 anni in Medio Oriente dove si è specializzato in islamistica: “Il mio incontro con il carcere è stato proprio per la presenza lì di centinaia di musulmani. Sapevo l’arabo, conoscevo la loro cultura e allora ho dato una mano per le relazioni con i detenuti musulmani, facendo soprattutto i colloqui individuali”. La sua attività lo ha portato a leggere la Costituzione italiana in arabo per farla conoscere ai detenuti dato che “Non si dà integrazione se non passando per il territorio culturale delle persone a cui ci si rivolge”. Quella italiana veniva confrontata con le costituzioni dei paesi di origine dei detenuti arabi in un percorso di lettura e discussione che è durato due anni e che è stato raccontato nel docu-film Dustur, che in arabo significa appunto costituzione. Un successivo progetto “Constitution on air” che vedeva degli studenti universitari impegnati in un progetto di educazione alla cittadinanza in carcere, era diventato un documentario radiofonico a causa della pandemia ed è così che è nata l’idea di trasformare in un programma radiofonico e televisivo tutte le attività educative fatte all’interno del carcere e che non potevano essere fatte in presenza. “Eduradio è nata come emergenza ma lo sviluppo che sta avendo adesso è sorprendente - afferma frate Ignazio - è l’idea di un cambio di paradigma, di trasformare la radio accesa 24 ore da strumento generalista e anestetizzante per i detenuti in uno strumento integrato del progetto rieducativo”. Il programma radiofonico, promosso dal Comune di Bologna, Asp città di Bologna e con il sostegno dell’associazione Insight, è partito a fine gennaio 2021 e continuerà fino al 18 aprile. Trasmetterà per l’intera settimana per circa un’ora al giorno e avrà una replica anche su Tele Tricolore una televisione che copre tutta l’Emilia Romagna, presente sul canale digitale terrestre numero 366. Mentre la rubrica “Buongiorno con Liberi dentro” è un programma di intrattenimento con musica e ospiti, l’altra mezz’ora quotidiana (che va in onda su Radio Fujiko alle 6,30) è condotta dai responsabili dei vari laboratori che si svolgevano dentro il carcere (teatrale, scrittura autobiografica, giornalismo…). A questi si sono aggiunti nuovi laboratori che prima non esistevano come quello dedicato alla salute. La scelta del canale radiofonico e di quello televisivo ha lo scopo di raggiungere il maggior numero di persone fuori e dentro al carcere, sì perché questo tipo di informazione ha sempre il duplice obiettivo di far parlare chi sta dentro al carcere ma anche di sensibilizzare il comune cittadino che spesso è carico di pregiudizi. Anche se l’iniziativa è partita da Bologna la vocazione di questo progetto è chiaramente regionale - già esiste la collaborazione con il carcere di Parma - e si stanno cercando accordi con altre radio locali per replicare le trasmissioni e coprire così l’intera Emilia Romagna. La radio in particolare è un mezzo molto adatto, sostiene frate Ignazio, “Mentre per vedere la televisione in carcere ci si deve accordare con i compagni di cella, la radio, è personale, si ascolta con le cuffie durante la passeggiata o di notte”. Del resto l’utilizzo della radio per parlare di carcere ha dei precedenti illustri in Europa. Il caso più famoso è quello inglese dove dal 2007 esiste Prison Radio Association che copre 100 case circondariali con il 75% dei detenuti che l’ascoltano, ha due studi di produzione (uno femminile e l’altro maschile) con uno staff di 80 persone tra detenuti e professionisti. In Italia invece è nota l’esperienza di Paolo Aleotti, giornalista Rai, che a Bollate fa da anni un laboratorio di giornalismo radiofonico dal titolo Jail Houserock e che va in onda su Radio Popolare. In futuro frate Ignazio spera che anche a Bologna i detenuti possano partecipare direttamente alla realizzazione del programma radiofonico. “Capiamo tutte le difficoltà di far uscire le voci dei detenuti. Portare la voce dei detenuti all’esterno è un fattore di integrazione molto forte. Ma sappiamo che il canale può essere manipolato, può essere usato per messaggi in codici, occorre avere una grande attenzione”. Questo tipo di difficoltà non deve sminuire però l’importanza di un’esperienza come Eduradio, come testimoniano le numerose lettere che i detenuti scrivono su carta e fanno arrivare a frate Ignazio, lettere dove esprimono gratitudine di non essere lasciati soli soprattutto in questo momento. Ma una volta che finirà l’emergenza sanitaria cosa succederà a Eduradio? “Noi siamo tutti operatori in carcere - dice frate Ignazio - quindi l’idea è quella di portare i volti e le voci che sono famigliari alla popolazione detenuta, in prospettiva vorremmo essere l’aggiunta delle attività che si fanno in presenza, una volta che finirà la pandemia”. Grosseto. Il Comune sostiene Sobborghi Onlus per il progetto teatrale dei detenuti grossetonotizie.com, 27 gennaio 2021 La Giunta comunale di Grosseto ha approvato la delibera per la concessione di un contributo economico all’associazione culturale Sobborghi Onlus. La volontà è quella di promuovere il progetto teatrale, svolto anche nella casa circondariale di Grosseto, utile a favorire la socializzazione della popolazione detenuta attraverso le attività teatrali e musicali e, conseguentemente, anche per il reinserimento dei detenuti nella società una volta scontata la pena detentiva. “Siamo particolarmente orgogliosi di poter contribuire all’iniziativa - dichiarano Antonfrancesco Vivarelli Colonna, sindaco di Grosseto, e Luca Agresti, vicesindaco ed assessore alla cultura -. È molto importante investire sul recupero e la crescita sociale anche di si trova all’interno di una realtà carceraria. Inoltre, promuovere l’arte è sempre un’ottima scelta”. “La chiamano giustizia ma è ciò che il giudice ha mangiato a colazione”, di Morena Gallo Il Riformista, 27 gennaio 2021 La cultura per salvare la giustizia: il monito dei professori di penale alla presentazione del libro. La giustizia penale è un’emergenza incrollabile, che rischia di divenire “una emergenza definitivamente incontrollabile con danni individuali e sociali a carico dei cittadini irreversibili”. È questo il grido d’allarme lanciato nel corso della presentazione del libro “La chiamano giustizia ma è ciò che il giudice ha mangiato a colazione”, scritto dalla giornalista calabrese, Morena Gallo. L’incontro, organizzato dalle Camere penali di Catanzaro e Cosenza, dall’Ordine degli avvocati di Catanzaro e Cosenza, dall’Accademia cosentina e dalla rivista “Critica del diritto”, ha messo in luce in maniera inequivocabile il rischio, ormai sempre più concreto, di una giustizia affidata a magistrati che si sentono “tribuni”. “È cosa nota che quello a cui stiamo assistendo negli ultimi anni è un imbarbarimento del nostro sistema giudiziario. Alla sospensione di alcuni fondamentali principi costituzionali - ha detto l’autrice del libro Morena Gallo - I figli della mia generazione avallano la deriva giustizialista: come se in campo vi fossero solo due schieramenti: il male e il bene, e come se il bene si trovasse sempre e comunque da una parte, quella parte rappresentata dalla magistratura, in particolare quella d’accusa. Con questo ovviamente non voglio dire che nella magistratura si trova il male, ma dobbiamo uscire da questa logica manichea. Anche i magistrati sbagliano perché non hanno la verità in tasca. E un giornalismo che si dica tale oltre a magnificare il lavoro dei magistrati, lo deve anche, e forse soprattutto, criticare quando vi sono i presupposti”. Per il professore Giovanni Fiandaca, “uno dei grossissimi problemi della giustizia penale oggi è quello del tipo di cultura giurisdizionale. Del tipo di cultura penale che predomina nell’ambito della magistratura o almeno in alcuni dei settori più attivistici, più interventistici della magistratura. In un contesto nel quale punire non solo in Italia è diventato una passione contemporanea bisogna contrapporre antidoti culturali di segno diverso e impegnarci più di quanto abbiamo fatto”. E, in riferimento alla vicenda di Giuseppe Caterini, condannato in primo grado per aver adempiuto ad un suo dovere, precisa che “le cause vere del diffuso fenomeno di malagiustizia sono cause che stanno a monte, sono cause di ordine culturale che attengono alla concezione che il magistrato penale - e quando dico magistrato ovviamente mi riferisco sia il pm che al giudice e in particolare mi riferisco al magistrato che esercita un ruolo di accusa - ha del proprio ruolo, alla concezione che il magistrato ha degli scopi del processo penale, alla concezione che il magistrato ha delle indagini preliminari, alla concezione che il magistrato ha della notizia criminis”. Anche per il professore Giorgio Spangher è un problema culturale: “con questo convegno noi cerchiamo di dare voce ai tanti Caterini - ha esordito nel suo intervento - A tutti i Caterini che non hanno voce, perché le persone che vengono assolte a seguito di un processo penale sono tantissime, se non vengono assolte in primo grado vengono assolte in appello; lo Stato paga fior di denari per la carcerazione preventiva, che permetterebbero annualmente non so quante assunzioni di personale. Dobbiamo migliorare sul piano culturale: il discorso è che dobbiamo migliorare sul punto di vista culturale non soltanto noi, non soltanto l’avvocatura, non soltanto anche la magistratura, ma il Paese, perché il mio timore è che del processo penale si pensa sempre che è una brutta bestia e lo è, perché costa, costa moralmente, costa socialmente, costa economicamente agli imputati anche quando vengono assoluti”. E sugli effetti del processo penale, ricorda che “si pensa sempre che il processo penale tocchi agli altri e non tocchi a te; invece la convinzione che noi dobbiamo realizzare è che il processo penale può toccare a chiunque ed è una bestia soprattutto per chi è innocente, che subisce un danno doppio, perché almeno il colpevole ha una ragione per capire che è sottoposto a processo penale; l’innocente, come Caterini, non riesce a cogliere, perché non riesce a capire e ne subisce gli effetti nella famiglia, negli affetti, nella società. Non c’è un’esigenza sociale che riguarda gli altri. Il processo penale riguarda noi”. Il popolo sembra disconoscere il termine garantisco. Per il professore Luigi Stortoni “la volontà popolare non è educata al garantismo e ai principi, plaude il giudice che condanna e insulta e beffeggia il giudice che assolve e il giudice fa sempre più fatica - anche perché la sua cultura non è garantista - a capire che la sua posizione è quella di chi si frappone fra la voce della gente che chiede il linciaggio e l’imputato reo, magari colpevole, e che la folla non faccia giustizia con il linciaggio, ma sia la legge a giudicarlo, secondo i principi che valgono per tutti”. È stanco di sentire la parola garantismo il professore Sergio Moccia, secondo cui “il problema allora riguarda il non garantista, perché garantista significa applicare la legge; uno o è giurista o è giudice o non è, non è niente se non applica la legge”. Sulla vicenda giudiziaria trattata nel libro, invece, si interroga il consigliere della Corte di Cassazione, Antonio Bevere: “mi chiedo se ci siano state reazioni nei confronti dei magistrati che hanno mal ricostruito il fatto, senza tenere conto del fatto che era in corso un reato che è stato interrotto da un cittadino, un pubblico ufficiale encomiabile; c’era un dato di fatto che lo rendeva eroico e invece lo hanno reso un imputato ed anzi un condannato. Vittima di un errore giudiziario, ma vittima anche di un piccolo imprenditore che vive in Calabria”. Migranti. “Soldi pubblici ai Centri di tortura in Libia”. L’esposto che imbarazza la Farnesina di Gaetano De Monte e Giovanni Tizian Il Domani, 27 gennaio 2021 Progetti per milioni di euro destinati a migliorare le condizioni dei migranti detenuti nelle prigioni libiche sarebbero finiti anche alle bande che controllano quei luoghi. L’atto d’accusa degli avvocati dell’Asgi, che chiedono l’intervento della magistratura contabile. Il rischio è che il denaro pubblico proveniente dai bandi dell’Agenzia della Cooperazione Internazionale (Aics) del ministero degli Esteri italiano, destinato al miglioramento delle condizioni di vita dei migranti ospitati nei centri di detenzione in Libia, sia stato usato anche per l’esatto opposto: rendere più sicure con cancelli e recinzioni esterne i campi di tortura: “Interventi di natura ambivalente, con funzione contenitiva, in quanto volta a limitare la libertà delle persone detenute nella struttura”. È uno dei passaggi dell’esposto presentato alla corte dei Conti del Lazio nel novembre scorso dall’avvocato Lorenzo Trucco, in qualità di presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, Asgi, l’organizzazione più autorevole in materia. Tra i centri “teatro di interventi con fondi Aics” anche quello di Zawiya, che indagini giornalistiche e della magistratura hanno rivelato essere in mano al clan Al Nasr, al cui vertice c’è il trafficante, con un passato nella guardia costiera libica, Abdurahman al Milad: più noto come “Bija”, presente persino a un tavolo tecnico organizzato in Italia con funzionari del ministero per discutere di immigrazione sulla rotta mediterranea, all’epoca in cui ministro dell’Interno era Marco Minniti e da pochi mesi era stato firmato il memorandum Italia-Libia con il quale si prorogavano aiuti a Tripoli per frenare le partenze dalle coste da quel paese. Bija è stato arrestato dalle autorità libiche a ottobre scorso, sul suo ruolo restano ancora molti misteri. Il viaggio del trafficante con la delegazione governativa nei palazzi romani è avvenuto a maggio 2017. Quattro mesi più tardi, l’Aics ha stanziato svariati milioni di euro per i centri di detenzione libici con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei reclusi. Tra i documenti dell’Agenzia consultati da Domani c’è un bando con il codice 11242 che aveva previsto 2,3 milioni per progetti umanitari “salute, igiene, protezione”. Quasi un milione è finito ai centri dell’”area geografica di Zuara e Sabratha”, dove ricade anche il lager di Zawya. La conferma che parte di quel denaro sia finito anche nel campo controllato dalla milizia di Bija è in un articolo pubblicato dall’associazione Helpcode che ha curato la distribuzione dei kit per i migranti detenuti: sul proprio sito è ancora visibile l’annuncio della distribuzione, nell’ambito del progetto sostenuto con i fondi Aics, “il 28 novembre (2019)” di beni “di prima necessità nel centro di Zawiya, ai migranti presenti sono stati consegnati 1160 kit per l’igiene personale e 1.000 coperte. Le donne, infine, hanno ricevuto 382 dignity kit contenenti 3 confezioni di assorbenti. È poi stato consegnato al direttore del centro un kit con materiali per la pulizia”. L’esposto - “Le organizzazioni internazionali operanti in Libia sono ben consapevoli della possibilità di malversazioni e sviamento degli aiuti umanitari: secondo una comunicazione interna delle Nazioni unite esiste un “alto rischio” che gli aiuti umanitari destinati ai detenuti vengano incamerati da gruppi armati. Nel centro di Zawiya, gestito dal clan del noto trafficante conosciuto come “Bija” e teatro di un intervento da 1 milione di euro con fondi Aics, gli aiuti finirebbero metà ai detenuti metà alle guardie, molti beni vengono poi rivenduti sul mercato nero” si legge nella denuncia presentata alla corte dei Conti. Che il centro di Zawia sia un luogo di abusi e torture lo conferma una sentenza del tribunale di Messina di maggio 2020: sono stati condannati tre guardie di quella prigione. “L’ipotesi che gli interventi abbiano una natura anche contenitiva è suffragata dalle affermazioni del direttore di una Organizzazione non governativa libica, secondo il quale i migranti detenuti nel centro di Sabaa sarebbero stati addirittura obbligati a costruire un’ala aggiuntiva del centro con fondi del governo italiano”, è scritto nel documento inviato ai giudici contabili. Attività che appaiono in netto contrasto con la finalità istituzionale dell’Aics e con “lo scopo dei progetti, che è di migliorare le condizioni di vita della popolazione dei centri migranti e rifugiati e delle comunità ospitanti limitrofe ai centri”, scrivono gli avvocati di Asgi. Bandi sotto accusa - I bandi di gara la cui gestione è finita all’attenzione della magistratura contabile, sono quelli previsti “a valere sul fondo Africa” approvati a ottobre e novembre del 2017 dalla Farnesina. In particolare, sotto la lente della magistratura contabile è finita l’attività di alcune Ong che avrebbero dovuto realizzare dei progetti in favore della popolazione migrante in Libia con un fondo disponibile di qualche milione di euro. I bandi escludono la presenza di personale italiano sul campo, così l’attuazione degli interventi è affidata a subappaltatori libici. “Da un esame dei documenti ottenuti dall’Aics”, scrivono i legali nella denuncia, “emerge una preoccupante mancanza di controlli sull’operato delle Ong e dei subappaltatori libici”. Sapone carissimo - C’è poi il capitolo spese. La Ong Helpcode, si legge nell’esposto “rendiconta attività che appaiono di importo manifestamente eccessivo. Il costo unitario di cinque o sei euro per saponi appare manifestamente sproporzionato rispetto al prezzo di mercato della merce stessa”. Helpcode è la stessa attiva nel campo di Zawya: il lager delle torture come hanno raccontato numerosi testimoni. Tutti i rendiconti, sostengono gli avvocati di Asgi nell’esposto, sono stati approvati dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo. Da parte sua, un’altra Ong tirata in ballo, Emergenza sorrisi, ha evidenziato che “i rendiconti sono stati puntualmente consegnati con dettaglio dei costi all’Aics”. L’Agenzia tuttavia non ha concesso all’Asgi, denunciano i firmatari dell’esposto, di leggere i documenti certificati sulle spese. Abbiamo chiesto un commento all’ufficio stampa della Farnesina, ma non abbiamo ancora ricevuto risposta. Emergenza sorrisi avrebbe dovuto richiamarci ma non lo ha ancor fatto. Droghe, lo scoop di provincia offende tre eroi di Fabio Scaltritti Il Manifesto, 27 gennaio 2021 Un episodio di giornalismo di provincia ci riporta alle argomentazioni di una subcultura moralistica che pensavamo archiviata e legata alla esperienza arcaica di Muccioli: consumatori di sostanze tacciati come deboli da imprigionare e da stigmatizzare. Nel 2019 in una frazione vicina ad Alessandria, Quargnento, i Vigili del Fuoco intervengono per spegnere un incendio sviluppato all’interno di una tenuta, che ha coinvolto un locale adiacente la Villa padronale. I proprietari, una coppia del paese, sono chiamati dai Vvff e avvisati che le fiamme sono domate e che le squadre operative stanno facendo un sopralluogo negli altri locali per verificare che non vi siano altri focolai. Purtroppo dopo pochi minuti un’esplosione inattesa e di proporzioni devastanti rade al suolo l’intera proprietà e provoca la morte di tre giovani pompieri e il ferimento di altri colleghi. Si scoprirà che all’interno della villa erano state posizionate sette bombole di GPL con un innesco e, nel corso delle indagini, emerge la colpevolezza della coppia che confessa di aver agito per incassare il premio dell’assicurazione. Alessandria si stringe così a fianco del Corpo dei Vigili e, in particolare, accanto alle famiglie dei tre “pompieri” uccisi: Marco, Matteo e Antonio che avevano tra i 30 e i 40 anni e che erano conosciuti e amati per il loro impegno sociale e culturale. Durante il processo per omicidio colposo e per più di un anno tutta la popolazione sostiene, ricorda e commemora i tre ragazzi uccisi nello scoppio. Per i media locali e nazionali diventano “I nostri Eroi” e tutti noi, ancora oggi, li ricordiamo come “eroi normali”, lavoratori instancabili. Il Comune di Alessandria decide di intitolare una via alla loro memoria, in deroga ai regolamenti che prevedono dieci anni di tempo dalla scomparsa. Un fulmine a ciel sereno, una sorpresa odiosa, è rappresentato dalla pubblicazione la settimana scorsa su Il Piccolo, bisettimanale locale, di un servizio che denuncia la presenza di tracce di stupefacenti nei cadaveri dei tre Vigili del fuoco e di un editoriale dal titolo “Se gli eroi perdono il loro mantello”. La reazione della cittadinanza è immediata e fragorosa, i social media de Il Piccolo vengono inondati di messaggi di disapprovazione, molti chiedono le dimissioni del direttore e qualcuno arriva a proporre il boicottaggio verso il giornale. L’indignazione per l’offesa subita è profonda: non si contesta la pubblicazione della notizia e la libertà di stampa, o il dovere di cronaca, ma la scelta di enfatizzare un elemento conosciuto da più di un anno, delicato e personale, per gettare discredito immotivato e per colpire tre vittime del dovere e del lavoro. Uno schiaffo alla memoria, alle famiglie e a chi li ha amati. Si scopre che la notizia era già emersa durante gli esami autoptici di fine 2019 e che i media locali avevano scelto di non rendere pubblico il ritrovamento delle “tracce di sostanze”, cannabis e cocaina, anche perché non influente ai fini delle indagini e delle fasi processuali. Secondo il direttore del giornale lo scoop invece rimette in discussione l’immagine che ci si era fatta dei tre pompieri morti nell’adempimento del loro dovere: non tre eroi quindi, ma tre giovani, vittime anch’essi della fragilità e facenti parte di quella umanità che trova nelle sostanze il modo di alleviare le proprie debolezze. E per di più positivi a sostanze mentre erano al lavoro. Le evidenze scientifiche testimoniano con certezza che il rilevamento di tracce di sostanze nelle urine o nel sangue o nel capello non vuol dire di essere sotto l’effetto di sostanze; questa semplificazione è puro terrorismo mediatico. Questo episodio di giornalismo di provincia ci riporta alle argomentazioni di una subcultura moralistica che pensavamo archiviata e legata alla esperienza arcaica di Muccioli: consumatori di sostanze tacciati come deboli da imprigionare e da stigmatizzare. Per fortuna il confronto nel mondo è cambiato dopo la sconfitta della war on drugs. Negli Stati Uniti la legalizzazione della cannabis per uso ricreativo e/o per scopi terapeutici si diffonde. In Italia si guarda ancora al passato. Egitto. “Cosa importa se muori”, un viaggio nell’incubo delle prigioni di Chiara Cruciati Il Manifesto, 27 gennaio 2021 L’ultimo rapporto di Amnesty International: per i detenuti politici celle sovraffollate e sporche, assenza di cure mediche e pestaggi. Una forma di tortura volutamente coltivata dal regime Prigionieri in Egitto. Come da tradizione, lunedì, giornata nazionale della polizia, il presidente al-Sisi ha graziato migliaia di detenuti. Ieri il ministero dell’interno ha dato i numeri: 3.022 i prigionieri tornati a casa domenica. Saranno sottoposti a cinque anni di sorveglianza speciale. Tra loro non ci sono prigionieri politici, o meglio non ci sono condannati per “terrorismo”, categorie che nell’Egitto post-golpe spesso coincidono: è tramite la legge anti-terrorismo che dal 2013 le carceri si sono riempite (si stima) di 60mila detenuti per ragioni politiche. Tanto piene da costringere a costruirne un’altra decina, senza tuttavia risolvere il problema enorme dell’affollamento. Che è di per sé una forma di tortura. Lo spiega bene l’ultimo rapporto di Amnesty International dedicato alle carceri egiziane, alla carenza voluta di assistenza medica, alle condizioni disumane delle celle, piccole, senza aerazione sufficiente, buie e umide. Condizioni talmente pessime da aver condotto in troppi casi alla morte dei detenuti: tra gli ultimi in ordine di tempo c’è il decesso del regista e fotografo Shady Habash, lo scorso maggio (24 anni, da due nel carcere di massima sicurezza di Tora, era stato arrestato per il video della canzone Balaha); e quello del noto giornalista Mohamed Monir, arrestato con l’accusa di aver diffuso notizie false, e morto per Covid-19 a luglio. “Cosa mi importa se muori?” è il titolo scelto dall’organizzazione internazionale per il rapporto dedicato alle prigioni. Un viaggio nell’incubo, raccontato in questi anni da chi esce, dopo anni di detenzione preventiva o condanne in processi di massa: prigionieri privati di tutto, costretti a farsi acquistare dalle famiglie cibo e sapone e a dire addio a cure mediche di base e spesso alle visite familiari, di fatto messe al bando con la scusa del Covid-19. “È deplorevole che le autorità egiziane cerchino di intimidire e tormentare difensori di diritti umani, politici, attivisti, oppositori veri e presunti negando le cure mediche”, si legge nel rapporto, basato sulle testimonianze e le storie di 67 detenuti sparsi in tre carceri femminili e 13 maschili. Di loro dieci sono morti in cella, altri due appena usciti. Storie che Amnesty ha presentato al governo egiziano lo scorso dicembre senza ricevere risposta. Dopotutto, aggiunge il direttore di Ai per Medio Oriente e Nord Africa, Philip Luther, “c’è la prova che le autorità carcerarie, citando gli ordini giunti dalla National Security, prendono di mira determinati prigionieri e li puniscono”, con isolamenti prolungati (l’ex candidato presidenziale Aboulfotoh è isolato da tre anni), divieto alle visite familiari fino a 4 anni o a ricevere da fuori cibo e medicine. Al resto pensa una sanità inesistente: infermerie sporche, senza medicinali se non antidolorifici, dove si arriva solo se una guardia decide che si è abbastanza meritevoli. Così si muore in prigione: secondo Amnesty, è successo centinaia di volte dal 2013. E chi protesta, rifiutando il cibo, viene picchiato selvaggiamente. Paesi Baschi: la pace tra Eta e Spagna passa anche dalle carceri di Alessandro Pirovano osservatoriodiritti.it, 27 gennaio 2021 Le condizioni dei detenuti dell’Eta e la controversa politica di “dispersione dei prigionieri” attuata dalla Spagna pesano ancora come un macigno sul processo di pace dei Paesi Baschi. Nel corso degli anni, gli scontri tra terroristi, militari e paramilitari hanno provocato più di 800 morti. A dieci anni dal “cessate il fuoco” dell’Eta, 238 località tra Spagna e Francia hanno manifestato per chiedere il rispetto dei carcerati e la pace per i Paesi Baschi. In particolare, Sare e Artisan de la Paix, le organizzazioni che hanno indetto gli eventi, vogliono che termini al più presto la politica di “dispersione dei detenuti” e che si torni a rispettare i diritti umani dei carcerati. La situazione. Alla fine del 2020 in prigione c’erano 218 detenuti del Collettivo politico dei prigionieri baschi: 163 in Spagna (dati Etxerat), 30 in Francia e 25 nei Paesi Baschi. Nel dettaglio, poco meno della metà dei detenuti dell’Eta in Spagna è stato collocato a oltre 400 km dai Paesi Baschi e quasi un terzo a oltre 600 km. Distanze che si allungano, naturalmente, per chi è in Francia, dove il 23% si trova tra i 600 e i 1.100 km. A questo si aggiunge che in oltre il 50% dei casi è utilizzato il carcere duro per questi detenuti. Le violazioni. Centri di ricerca e varie personalità parlano esplicitamente di violazioni dei diritti umani, tenendo conto anche delle accuse di maltrattamenti e sevizie ai danni dei prigionieri in carcere per motivi politici emerse nel corso degli anni. I membri dell’Eta sono stati mandati lontano dalla propria regione, isolati e trasferiti spesso da una struttura all’altra per tagliare qualunque possibilità di relazione, così da indebolire qualunque possibile rinascita del movimento terrorista. La fine delle ostilità. Il 10 gennaio di dieci anni fa l’Eta, sigla che sta per “Patria Basca e Libertà”, dichiarò un “cessate il fuoco permanente”, “generale” e “verificabile”. Un passo verso la fine delle violenze che, col tempo, si rivelò essere quello definitivo (la dissoluzione dell’organizzazione risale al 2018). Le persone che sono morte nel corso del conflitto tra gli indipendentisti baschi e militari e paramilitari spagnoli sono oltre 800. La storia. L’organizzazione era nata alla fine degli anni Cinquanta, in opposizione al regime franchista e con l’obiettivo di difendere la cultura e la lingua basca. In breve l’Eta si organizzò militarmente, promuovendo attentati contro le forze franchiste, che proseguirono anche dopo la fine del regime. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, infatti, i terroristi dell’Eta colpirono politici, militari, ma anche civili. Tra gli attentati, il più cruento fu quello del 6 giugno dell’87, a Barcellona, dove una bomba ammazzò 21 persone. Dal canto loro, le autorità spagnole misero in prigione migliaia di sostenitori dell’Eta, bandirono diversi partiti legati all’organizzazione e finanziarono formazioni paramilitari, come il Gruppo antiterrorista di liberazione (Gal). Salviamo Anastasia! Sospesa l’estradizione in Russia e scarcerata di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 gennaio 2021 Anastasia Chekaeva sarebbe dovuta essere consegnata alle autorità russe domani. Ieri è arrivata la comunicazione del Dipartimento della pubblica sicurezza dell’interno e l’ordinanza della corte di Appello di Sassari. Due buone notizie per Anastasia Chekaeva. Il ministero della Giustizia ha sospeso l’estradizione in “zona cesarini”, visto che la donna sarebbe stata estradata domani presso gli uffici della Polizia Giudiziaria di Roma Fiumicino. “A seguito della pregressa corrispondenza concernente l’esecuzione della procedura in oggetto, si comunica che il ministero della Giustizia ha sospeso la consegna ai fini estradizionali della nominata in oggetto”, si legge nella comunicazione del Dipartimento della pubblica sicurezza dell’interno. In seguito a questa disposizione la corte d’Appello di Sassari ha revocato la misura della custodia cautelare in carcere, disponendo per la donna l’obbligo di dimora nel comune di Arzachena. Una vicenda dai contorni inquietanti - Un sospiro di sollievo per una vicenda che Il Dubbio ha portato alla luce grazie alla segnalazione dei difensori di Anastasia, gli avvocati Fabio Varone e Pina Di Credito. Importante l’interessamento da parte di Rita Bernardini del Partito Radicale e Roberto Giachetti di Italia Viva. La vicenda ha, comunque, contorni inquietanti. Una vera e propria persecuzione di sapore politico nei confronti di una donna che dovrebbe essere protetta dal nostro Paese. Tutto ha avuto inizio tre anni fa, quando Anastasia vive e lavora a Voronezh, in Russia, insieme al compagno (ora marito) Fabrizio Crespi, titolare dell’agenzia di viaggi dove lei è impiegata. L’agenzia si trova all’interno del centro commerciale Galleria Chizhov, il cui legale rappresentante è Klimentov Andry Vladimirovich, vicepresidente della Commissione per il Lavoro e la Protezione Sociale della popolazione, e il cui fondatore è Chizhov Sergey Viktorovich, dal 2007 deputato della Duma di Stato della Russia - entrambi noti esponenti politici del partito “Russia Unita”, il cui leader è Vladimir Putin.Un tour operator cancella una serie di viaggi che l’agenzia aveva venduto, ma Anastasia e Fabrizio Crespi, pur non essendo responsabili delle cancellazioni, si trovano costretti a prendersi carico dei rimborsi. A questo punto inizia una campagna di diffamazione nei loro confronti, per cui la coppia decide di fare ritorno in Italia - dove vive legalmente dal gennaio 2018, e dove la loro bambina inizia a frequentare le scuole elementari. Seppure la vicenda amministrativa sia conclusa, Chizhov e Vladimirovich decidono di avviare un procedimento penale nei confronti di Anastasiia, a detta loro giustificato per vendicarsi della “cattiva pubblicità” causata dall’agenzia situata nella loro galleria. Ottengono - grazie alla loro posizione politica - che venga emessa domanda di estradizione all’Italia, quando in realtà il rappresentante legale dell’agenzia di viaggi è Fabrizio Crespi, marito della Chekaeva e cittadino italiano, che non avrebbe potuto essere estradato in Russia. A lui viene diretta una forte campagna di intimidazione e minacce, iniziata immediatamente e motivo principale per cui la coppia torna in Italia - per assicurarsi l’incolumità della famiglia. Il ministero della Giustizia ha deciso di sospendere l’estradizione - Eppure, secondo quanto denunciato dagli avvocati Fabio Varone e Pina Di Credico, il governo italiano non ha considerato nessuno di questi elementi, non opponendosi minimamente al processo di estradizione. Fino a venerdì 22 gennaio, quando Anastasia viene prelevata e reclusa nel carcere di Sassari in attesa del trasferimento in Russia. Ma ora, finalmente, il ministero della Giustizia ha deciso di sospendere l’estradizione in attesa di nuovi accertamenti. La condizione delle carceri russe è drammatica -Quali? Se è stato violato sia il diritto al giusto processo, sancito dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ratificata dall’Italia e dalla Russia, sia il diritto a non subire trattamenti crudeli, disumani o degradanti, stabilito sempre dalla stessa Cedu, tenuto conto della situazione di sovraffollamento e delle gravissime condizioni igienico-sanitarie della popolazione carceraria della Federazione Russa, in particolare dei centri di detenzione preventiva (Sizos), come risulta dalla documentazione prodotta nei vari giudizi. La situazione è ulteriormente aggravata dalla emergenza sanitaria dovuta alla diffusione dei contagi da Covid-19 nelle carceri russe, circostanza documentata anche in relazione alle particolari condizioni di salute di Anstasiia Chekaeva che è affetta da asma allergica con broncospasmi e rischio di contrarre la polmonite. Altro punto da vagliare e se, con l’eventuale estradizione, risulterebbe violato anche il diritto della figlia minore, cittadina italiana, a conservare il rapporto con la madre, in violazione dell’articolo 8 della Cedu, considerato che la vita della bambina è radicata in Italia. Bisogna dare atto al Ministero della Giustizia di aver sospeso l’estradizione, affermando in questo modo il nostro Stato di Diritto. Quello che è carente nella Russia di Putin. Tunisia, un rimpasto di governo e 1.200 arresti arbitrari di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 27 gennaio 2021 Crisi su crisi. Piazze in fermento dal parlamento alla periferia della capitale. A Sbeitla la prima vittima. La Tunisia vive una seconda ondata di mobilitazioni per chiedere conto dei 1.200 arresti arbitrari avvenuti in queste settimane e protestare contro il rimpasto di governo voluto dal premier Hichem Mechichi. Nonostante il lockdown dovuto all’epidemia di Covid-19, dal 15 al 20 gennaio il paese è stato attraversato da numerose manifestazioni notturne. Per cinque giorni si sono registrati scontri con la polizia nelle principali città della costa e dell’entroterra. Le organizzazioni della società civile hanno denunciato il comportamento delle forze dell’ordine e le modalità dei fermi, avvenuti principalmente di giorno e senza garanzie legali, che hanno interessato soprattutto i minori. In seguito il Paese ha vissuto tre giorni di calma apparente, salvo poi riaccendersi da lì a poco. Sabato 23 gennaio più di mille persone si sono ritrovate in avenue Bourguiba, nel pieno centro di Tunisi. “Abbiamo fatto la Rivoluzione nel 2011. Siamo scesi in piazza per anni e non è successo niente. Siamo qui oggi e continueremo a esserci fino a quando non cambierà qualcosa in questo paese”, dice Sirine, una ragazza di Kasserine che dieci anni fa non ha vissuto la Rivoluzione perché troppo giovane. La manifestazione ha toccato i luoghi simbolo del vecchio regime e di chi lotta ancora con le ferite del passato. Di fronte alla Banca centrale della Tunisia e all’Istanza dei martiri e dei feriti della Rivoluzione sono riapparsi i vecchi slogan rivoluzionari. Sono il segnale di un malessere che coinvolge le aree marginalizzate della capitale e dl Paese. A Sbeitla, città dell’entroterra tunisino, è stata registrata la prima vittima. Si tratta di Haikel Rachdi, un giovane manifestante colpito da un lacrimogeno alla testa e deceduto lunedì 25 gennaio. La notizia ha causato la ripresa degli scontri notturni nell’area. Scontri che sono all’origine anche della marcia di ieri a Cité Ettadhamen, una delle aree più periferiche della capitale, per richiedere il rilascio degli arrestati. Qui per giorni le proteste notturne sono state continue, così come gli arresti. Centinaia di persone hanno deciso di intraprendere una marcia pacifica in direzione dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo (Arp) al Bardo, dove un’altra manifestazione era impegnata a contestare Hichem Mechichi e la sua nuova compagine di governo. La marcia è stata fermata dopo pochi chilometri da un ingente schieramento di forze dell’ordine. Molti i minorenni presenti. Mohamed Aziz ha 16 anni e in poche parole riassume la situazione della sua municipalità: “Qui non c’è niente e non ci sono speranze”. Tra le mani però tiene un cartello con scritto in inglese: “Lotta oggi per un domani migliore”. Nel frattempo, a una manciata di chilometri da dove la marcia si è bloccata, il Bardo è completamente militarizzato e i poliziotti sorvegliano ogni accesso alla zona del parlamento, sotto l’occhio vigile di blindati e cannoni ad acqua. Alla fine circa mille persone sono riuscite a ritrovarsi vicino all’Assemblea dei rappresentanti del popolo, molte altre sono state fermate preventivamente. A poche centinaia di metri dalla manifestazione il parlamento è impegnato a discutere il rimpasto voluto dal premier Mechichi. Tra i posti chiave interessati ci sono il ministero degli Interni, uno dei luoghi meno riformati dopo la cacciata di Zine El-Abidine Ben Ali nel 2011, e il ministero della Sanità per non avere saputo gestire al meglio la pandemia di Covid-19. Tra i manifestanti c’è Fouad, di poche parole ma con le idee molto chiare: “Siamo qui per chiedere i nostri diritti. Oggi non abbiamo più paura di scendere per strada anche se questa è la sola differenza rispetto a prima. Per il resto non è cambiato nulla, sappiamo bene che ci sono stati 1.200 arresti. Oggi comunque resta una bella giornata, ci sono molti giovani che non hanno visto il 2011”. Azerbaijan. Diritto di difesa fatto a pezzi dal regime: avvocati messi all’angolo di Ezio Menzione* Il Dubbio, 27 gennaio 2021 In Azerbaijan il diritto di difesa è considerato assai poco. Anzi, in certi casi, è addirittura una faccenda pericolosa. Basta andare a Baku e cominciare a muoversi fra un piccolo centro antico un po’ troppo restaurato e un centro nuovo ipermoderno con edifici costosissimi e griffati da archistar, fra le ville e i boulevard inizio ‘900 (il primo boom del petrolio) e i molti quartieri, chiari e dignitosi anche se non lussuosi costruiti dagli anni 90 ad oggi e proprio lì, ormai defilati e quasi sottratti alla vista, si trovano gli edifici popolari dell’epoca dei soviet, venuti su dagli anni ‘ 30 fino agli anni ‘ 70. Palazzoni senza forma, intensamente grigi, che già dall’esterno lasciano capire le ristrettezze e le tristezze di una vita lì dentro. Ecco, proprio quei palazzi danno l’idea di quanto fosse considerata negli anni sovietici ogni umana aspirazione alla libertà e alla felicità. Sarebbe però legittimo pensare che crollato il regime sovietico e riacquistata la propria indipendenza nel 1991 l’Azerbaijan si fosse slanciato in avanti sul tema dei diritti, considerato anche che un certo diffuso benessere il petrolio e il gas lo hanno portato a tutti, almeno nella capitale, dove infatti sono affluiti a centinaia di migliaia i montanari caucasici. Ma non è stato così. La democrazia non è cresciuta nemmeno quanto il reddito pro capite. Ma riflettiamoci: la democrazia, oltre ad una forma di governo, è una forma mentale che si deve man mano impiantare nelle teste dei cittadini e non è un’impresa facile. La democrazia è faccenda difficile. Nell’Azerbaijan indipendente questo faticoso processo non è stato per niente aiutato dalle scelte di una politica che ha visto al potere ininterrottamente prima Aleijev padre e poi Aleijev figlio (nonché sua moglie, vicepresidente, ma per molti il vero capo dello Stato). Il nuovo ordinamento sociale e politico sembra, per molti versi, la continuazione del sistema vigente durante l’era sovietica. Un esecutivo all’epoca lontanissimo, oggi vicino, ma ugualmente accentratore, che coltiva alcuni diritti sociali, ma nessun diritto umano, del singolo. E ciò per decadi e decadi, generazione dopo generazione: così la democrazia e i diritti non possono affermarsi. Che la costruzione dello Stato di diritto sia faccenda complicata lo dimostrano anche i paesi usciti dalla “primavera araba”, dove in nessuno stato, eccetto che in Tunisia, si è insediata una forma di compiuta democrazia: non in Egitto, non in Siria, men che meno in Libia. La Tunisia è lì a dimostrare che un cammino verso la democrazia sarebbe stato possibile, ma che esso è molto difficile. Così tutta la fascia torno alla nostra Europa occidentale attesta che il deficit di riconoscimento dei diritti umani è ben difficile da superare. Lasciamo stare i paesi arabi e proviamo a prendere come parametro per misurare il rispetto dei diritti umani il contenzioso che approda alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Muovendoci fra i dati relativi al 2019 (quelli del 2020 non sono stati ancora elaborati) vediamo che ben il 64,2% del contenzioso proviene dalle repubbliche ex sovietiche, e fra queste spicca la Russia con il 22,7%. L’Azerbaijan incide con il 3,3%. Abbastanza ma non poi così grave, si dirà, considerato che l’Italia (prima fra i paesi dell’Europa occidentale quanto a gettito per la Corte Edu) ammonta al 5,5 %. Ma consideriamo che l’Italia ha una popolazione di più di 60 milioni, mentre l’Azerbaijan ha raggiunto appena i 10 milioni. Facile il conto se anche l’Azerbaijan avesse la stessa popolazione dell’Italia. Si viene così al diritto di difesa, indice e presidio della tutela di ogni altro diritto, e al modo in cui sono trattati gli avvocati. In Azerbaijan ci sono meno di 1.000 avvocati e questo costituisce motivo di debolezza della loro compagine. Per di più è radicata nella prassi e nella mentalità comune, così ci ha detto il collega Ermin Aslanov, l’abitudine di bypassare l’avvocato trovando un accordo diretto col procuratore o addirittura col giudice. E consideriamo che i magistrati, tutti i magistrati, sono nominati dall’esecutivo. A ciò si aggiunge un punto cruciale: in tutto il paese c’è un solo consiglio dell’ordine nazionale, e, verrebbe da dire, nazionalizzato, tanto è subalterno al potere esecutivo. In questo assetto è facile per il governo colpire quegli avvocati, non molti in verità, che reclamano diritti fondamentali per i propri assistiti o si ergono a difesa dell’opposizione al regime politico. Per il regime il Consiglio Nazionale Forense azero funziona da strumento sicuramente obbediente. E ciò, nonostante che nel 1999 sia entrata in vigore una nuova legge sulla professione forense. Ma la novità legislativa non è riuscita evidentemente a cambiare la subalternità ordinamentale della professione rispetto al governo. Non sembra esagerato rinvenire un vago sapore staliniano in questa linea diretta fra il Presidente - il governo - il consiglio nazionale degli avvocati - la repressione contro gli avvocati scomodi. Che vengono colpiti infatti per lo più attraverso provvedimenti disciplinari, che vanno dalla sospensione per uno o più anni, fino alla radiazione. Spesso alla radiazione consegue anche la confisca dei beni. Talora per essi c’è anche la galera: 7 anni e mezzo inflitti nel 2015 a Intigam Alijev, noto difensore dei diritti umani, con la scusa di reati tributari, di cui la Corte Edu, investita del caso, non ha trovato alcuna traccia. Nello stesso 2015 il Consiglio degli Ordini Forensi Europei lo ha insignito del premio per i diritti umani. Ma è ancora in carcere. *Osservatore Internazionale Ucpi