La rieducazione non compete alla giurisprudenza di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 26 gennaio 2021 Sabato mattina con grande interesse ho seguito un evento organizzato dal professor Giovanni Fiandaca, Garante dei diritti delle persone private della libertà della regione Sicilia per presentare due testi di recente pubblicazione rispettivamente di Luigi Pagano e Giacinto Siciliano; due direttori di carcere, l’uno in pensione e l’altro attualmente direttore della Casa Circondariale “San Vittore” di Milano. Una serie di interventi di taglio giuridico - se si esclude il contributo di Ornella Favero, fondatrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia - con tanti spunti interessanti e la piacevole sorpresa di sentire finalmente riesumare il sostantivo “rieducazione” con un richiamo del professor Fiandaca ai colleghi penalisti che sembrano aver perso fiducia nelle attività volte alla responsabilizzazione e alla rieducazione della persona condannata. Di qui la sollecitazione a porre maggiore attenzione al tema. Oltre a una notazione a mio avviso molto pertinente rispetto alle “misure di comunità” a cui spesso - sostiene lo stesso professor Fiandaca - viene attribuito un valore educativo tout court, come se scontare una sanzione fuori dalle mura del carcere fosse già di per sé una garanzia di responsabilizzazione. Senza alcun contenuto pedagogico, senza alcuna riflessione, contando solo sull’aria aperta e una certa dose di controlli. La questione, però, a mio avviso è un’altra. La giurisprudenza non ha alcuna competenza pedagogica; molto semplicemente non ha titolo per occuparsi di rieducazione, non ha il linguaggio dell’educazione degli adulti, né gli studi e tanto meno l’esperienza. Probabilmente molti giudici, avvocati ma finanche i notai hanno acquisito una profonda conoscenza del genere umano come d’altronde tanti altri professionisti che si relazionano con le persone ma questo, evidentemente, non garantisce la capacità di costruire validi percorsi pedagogici. E la pedagogia, a sua volta, non deve e non può essere l’ancella della giurisprudenza. Sono due differenti discipline di pari dignità che, almeno nell’ambito dell’esecuzione penale, dovrebbero imparare a confrontarsi, integrando le proprie differenti culture e i propri differenti linguaggi. Non v’è dubbio che termini come rimpianto, rimorso, colpa, cambiamento siano di vitale importanza in un serio movimento riflessivo ma è altrettanto certo che non si studino nei codici e nelle leggi. Più facilmente, magari, sui testi di filosofia o di psicologia ma non credo proprio che abbiano molto a che fare con il diritto. La stessa scelta di ibridare e impoverire la figura dell’educatore in carcere chiamandolo funzionario giuridico - pedagogico (dove comunque la competenza giuridica precede quella pedagogica) non ha sicuramente giovato alla funzione educativa, scoraggiando tra l’altro tanti giovani laureati in Scienze dell’educazione che si sono trovati davanti a un concorso con la parte di pedagogia ridotta al minimo necessario. Oltre a disorientare molti professionisti già impegnati negli istituti di pena che faticano evidentemente a incarnare un ruolo così poco chiaro e troppo spesso sottovalutato, quasi siano portatori di competenze accessorie o residuali. Credo che questo impoverimento della funzione rieducativa della pena, questa sfiducia nella possibilità di una riflessione e di un cambiamento sia un tema da porre all’attenzione di chi dirige non solo l’esecuzione penale in carcere ma anche tutte le sanzioni di comunità. Mentre ci si occupa giustamente di edilizia penitenziaria e - ancor più giustamente - di misure deflattive non si dovrebbe scordare il senso profondo della pena per non correre il rischio di ridurla a mero castigo o addirittura a una sorta di vendetta sociale. A discapito di quell’articolo 27 di così ampio respiro. *Redazione Ristretti Parma Carcere e senza dimora, “discriminazioni nell’accesso alle misure alternative” di Alice Facchini redattoresociale.it, 26 gennaio 2021 Da una parte i senza tetto sono in situazione di difficoltà economica e di esclusione sociale, e quindi sono portati a commettere i cosiddetti “reati di povertà”. Dall’altra, non hanno una casa dove scontare pene alternative, e così finiscono più facilmente in carcere. È la denuncia di Avvocato di strada: “Servono strutture apposite riconosciute dalla magistratura”. L’accesso alle misure alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, non e? uguale per tutti i condannati, e ad essere discriminati sono proprio i più emarginati. È la denuncia di Avvocato di strada, che nel seminario “Carcere e senza dimora”, realizzato nell’ambito del progetto “Diritti ai margini”, racconta come sia difficile ottenere misure alternative, come la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova al servizio sociale, per chi vive in strada o in una situazione di estrema povertà, perché non ha una casa dove scontare la pena. “Il rapporto che lega la strada al carcere è molto stretto - spiega l’avvocato Sara Barbesi, di Avvocato di strada -. Da una parte i senza dimora sono in situazione di difficoltà economica e di esclusione sociale, e quindi sono portati a commettere i cosiddetti ‘reati di povertà’, come borseggi o piccoli furti. Ecco che il carcere diventa l’unica possibilità per l’esecuzione di pene anche di bassa entità, perché un soggetto che non ha domicilio non ha altra opzione. Questo comporta uno squilibrio tra i diritti dei senza dimora e chi invece una casa ce l’ha”. Il carcere, però, non sarebbe l’unica forma di esecuzione della pena. Le misure alternative alla detenzione sono state introdotte per la prima volta in Italia nel 1975: “A quel tempo si era capito che il carcere non era uno strumento propriamente rieducativo, e che anzi il detenuto tendeva con il tempo a un’imitazione dei comportamenti malavitosi - racconta Vincenzo Semeraro, magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Verona. Ecco allora che nasce l’idea della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova al servizio sociale: quest’ultimo in particolare era stato pensato per le persone emarginate, che avevano compiuto un reato anche per via della propria incapacità di inserirsi nella società. Oggi, purtroppo, si è perso di vista il motivo per cui questa misura era nata, e l’affidamento al servizio sociale viene concesso anche ai condannati per reati da “colletti bianchi”. Quello che è paradossale è che invece i soggetti come i senza tetto, che avrebbero davvero bisogno di un accompagnamento per essere reinseriti in società, non possono accedervi perché vivono in una situazione di disagio abitativo, e la dimora è il presupposto per ottenere quasi tutte le misure alternative”. In pratica, un soggetto che ha tutti i requisiti per la misura alternativa, tra cui anche delle potenzialità per svolgere attività risocializzanti, ma manca del domicilio, finisce in carcere, per scontare una pena che non può essere eseguita all’esterno. “Tutti avrebbero diritto di poter accedere incondizionatamente e in termini di parità, senza distinzione delle condizioni sociali, alle misure alternative - afferma l’avvocato penalista Simone Bergamini -. Nella pratica purtroppo non è così: sono tanti i casi di persone senza dimora, che spesso sono anche stranieri o senza permesso di soggiorno, che finiscono in carcere per reati minori”. E poi c’è la variabile legata al Covid: il numero delle persone senza dimora aumenta vista la difficoltà di creare meccanismi di inclusione sociale in pandemia. Le attività delle associazioni, delle cooperative e degli enti sono limitate. E anche i servizi sociali che si occupano di pene alternative hanno meno posti. “Bisognerebbe promuovere strutture, riconosciute dalla magistratura, che permettano di scontare una pena all’esterno del carcere anche a persone che non hanno un domicilio - conclude Bergamini -. Solo così si assicurerebbero a tutti uguali diritti, e parallelamente si contrasterebbe il sovraffollamento nelle carceri”. Carceri, la resistenza del teatro di Paolo Foschini Corriere della Sera, 26 gennaio 2021 Continua nonostante le restrizioni della pandemia il programma “Per Aspera ad Astra” in 12 istituti di tutta Italia. In attesa di riprendere spettacoli e prove in presenza si progettano copioni e nuove scene di “cultura e bellezza”. Se il rumore è l’assassino del pensiero - si dice - il silenzio è l’assassino della vita. Non il silenzio della notte stellata evidentemente. Quello del non-racconto, del non dire. Per fortuna, almeno a volte, la regola funziona anche al contrario: se smettere di parlare con una persona o di una cosa riesce a renderle inesistenti è vero che, allo stesso modo, raccontare ciò che esiste anche quando non si vede contribuisce molto a tenerlo in vita. Specie quando per non sparire sta lottando con í denti. E questo vale soprattutto per le attività che si fanno - da mesi purtroppo bisogna dire facevano, nella qui totalità dei casi - dentro le carceri d’Italia. Dove in un anno si è tornati indietro di quasi cinquanta praticamente ovunque - niente volontari, zero attività, celle chiuse tutto il giorno salvo l’ora d’aria, con pochissime eccezioni - ma dove l’impegno di chi continua a “resistere per esistere” andrebbe raccontato caso per caso, se fosse possibile. Ecco perché in questa pagina raccontiamo oggi la resistenza di “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, l’esperienza di teatro che coinvolge dodici carceri italiane e a cui Buone Notizie ha dato spazio già in passato. Ora: il teatro è ciò che la crisi da Covid ha massacrato di più anche nella vita fuori, figuriamoci quanto è difficile tenerlo vivo in una prigione. Ma questa terza edizione del progetto, sempre promossa da Acri e da dieci Fondazioni italiane di origine bancaria, sta comunque continuando a coinvolgere 25o detenuti - con una fatica grandissima - sulla spinta del motore originario: che era stata l’esperienza trentennale della Compagnia della Fortezza fondata e diretta nel Carcere di Volterra dal drammaturgo e regista Armando Punzo. Naturalmente spettacoli sospesi come ovunque, da mesi. E niente prove “in presenza”, per forza. Con qualche prudente accezione, come nel carcere di Milano-Opera. E con qualche parentesi l’estate scorsa che, come altrove, aveva dato l’illusione della ripresa imminente. Ma da allora e tuttora vengono praticati tutti i “surrogati” possibili: con (rare) video-chat quando autorizzate, o con chiavette registrate in entrata per le lezioni dei maestri e in uscita per le letture degli allievi, o con la scrittura di testi e il disegno di bozzetti per le future scenografie, inviati per posta. Il tutto con l’obiettivo, appunto, di resistere e portare in scena appena consentito, anche in streaming, la rappresentazione di quanto in questi mesi è stato progettato. Magari realizzando documentari, e podcast, e registrazioni per la radio, sul percorso compiuto per non morire. “Le Fondazioni di origine bancaria - ha ribadito Giorgio Righetti, direttore generale di Acri che le riunisce - credono fermamente che l’arte e la straordinaria forza liberatoria che essa possiede siano un diritto di tutti, anche di chi si trova in condizioni di privazione della libertà. Per questo da tre anni promuovono il progetto Per Aspera ad Astra che pone al centro l’arte teatrale, nelle sue molteplici declinazioni, all’interno delle carceri. Questo è possibile grazie alle Compagnie teatrali che, con coraggio, tenacia e competenza conducono il progetto anche nel delicato contesto di pandemia che stiamo vivendo”. Le carceri e le compagnie coinvolte nell’edizione 2021 di Per Aspera ad Astra meritano di essere citate tutte: Volterra con Carte Bianche e Compagnia della Fortezza, Milano Opera con Opera Liquida, “Lorusso e Cutugno” di Torino con Teatro e Società, “Pagliarelli” di Palermo con Associazione Baccanica, Vigevano (Pv) con FormAttArt, Padova col Teatro Stabile del Veneto, La Spezia con Gli Scarti, Cagliari con Cada Die Teatro, Perugia Capanne col Teatro Stabile dell’Umbria, Bologna Dozza col Teatro dell’Argine, Saluzzo (Cn) con Voci Erranti e Genova Marassi con Teatro Necessario. Assunzioni e digitale, ma per la giustizia riforme ancora al palo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2021 I Ddl per accelerare i giudizi penali e quelli civili sono fermi in Senato. Una relazione più proiettata sul futuro che ancorata al passato. Per evidenti convenienze politiche. È quella che il ministero della Giustizia sta mettendo a punto e che Alfonso Bonafede si accinge a tenere in Parlamento a crisi ormai aperta dopo la decisione del capo del Governo di formalizzare le dimissioni. Linea, quella del ministro della Giustizia, in qualche modo obbligata, visto che già il passato racconta di tensioni nella passata (?) maggioranza che sui temi della giustizia e sulla figura di Bonafede stesso già era stata più volte sull’orlo della rottura. Ora il baricentro della Relazione graviterà verosimilmente sulle risorse messe a disposizione dal Recovery Plan, in grado (forse) di fare cambiare di segno ai tempi di decisione dei processi, sia civili sia penali, garantendo un recupero di risorse per smaltire anche lo stock di arretrato. Del resto in Italia sono richiesti in media (dati 2018) 527 e 361 giorni per una sentenza di primo grado rispettivamente nel civile e nel penale, mentre nella Ue ne bastano 233 e 144. Intanto, in termini di disponibilità finanziarie, lo staff di Bonafede sottolinea il drastico aumento delle risorse a disposizione, da 750 milioni a 2,7 miliardi di euro. Nella sola prima versione del Recovery si stimava un abbattimento dei tempi del 5o% in appello e del 25% in primo grado nel penale e del 40% complessivo nel civile. La priorità del ministero allora diventano gli investimenti. Innanzitutto sul capitale umano. Oltre alle 16.000 assunzioni previste per il periodo 2018-2023 (5.000 delle quali già effettuate), con i 2,3 miliardi di stanziamenti aggiuntivi sarà finanziato un pacchetto di assunzioni. Nel dettaglio per l’ufficio di staff del magistrato (ufficio per il processo e magistrati onorari aggregati) è previsto l’ingaggio di: 16.000 addetti all’ufficio per il processo, in 2 cicli da 8.000 unità l’uno, assunti a contratto a tempo determinato. 2000 magistrati aggregati, distribuiti in 2 cicli biennali di 1000 unità, incaricati della redazione di sentenze di tribunale civile, 100 magistrati onorari ausiliari presso la sezione tributaria Corte di cassazione, distribuiti in 2 cicli ciascuno per 50 unità, addetti allo smaltimento dell’arretrato nella sezione tributaria. A questi si aggiungeranno 4.200 unità, assunte a tempo pieno o determinato, di personale tecnico (informatici, architetti, ingegneri, statistici) o responsabili di organizzazione, figure considerate fondamentali per l’attività edilizia e per lo sviluppo e il monitoraggio sul territorio dell’avanzamento e dei risultati dei progetti informatici e di edilizia. A questo si aggiungeranno investimenti sulle infrastrutture, soprattutto per favorire in maniera ancora più accentuata, anche per i riflessi della pandemia, la digitalizzazione dei procedimenti e, per 450 milioni, sulle strutture, puntando da una parte alla manutenzione dell’esistente e, dall’altra, alla realizzazione di cittadelle della giustizia, in grado di concentrare, soprattutto in alcuni poli cittadini, i servizi della giustizia. Più sfumati, se non assenti, saranno invece i riferimenti a elementi assolutamente divisivi come la prescrizione che ancora la versione primigenia del Recovery Plan vantava come uno strumento di assoluta efficacia nel limitare le tattiche dilatorie delle difese. In ogni caso, sul punto, va anche ricordato come se la riforma Bonafede potrà naturalmente dispiegare i suoi effetti solo nei prossimi anni, visto che si applica a reati commessi solo dal 1° gennaio 2020, le misure acceleratorie sui giudizi penali, inserite in un complesso disegno di legge delega, sono ferme in commissione Giustizia alla Camera, a circa un anno dalla presentazione, dove solo tra qualche giorno scadrà il termine per la presentazione dei primi emendamenti. E sorte non migliore ha il controverso disegno di legge sul processo civile che, anch’esso da parecchi mesi, langue al Senato. Una mediazione penale per snellire i processi di Massimo Krogh Il Mattino, 26 gennaio 2021 Da non politico, penso e mi sento di dire che la politica è un impulso di vita, vale a dire una tendenza spirituale che interpreta la vita. Vi sono buoni politici come i cattivi e i pessimi, da non confondere però con la politica oggettivamente intesa, la quale è essa stessa vita. Se così è, appare rilevante il rapporto della politica con la giustizia, il quale deve sempre mantenersi al di sopra d’ogni minimo sospetto. Certe opzioni tendenziali della magistratura inquirente suscitano talvolta il sospetto di un fumus persecutionis di segno politico, ma si tratta in realtà di congetture e spesso dipendono dalla impossibilità, per il pm, di adeguarsi integralmente alla richiesta di giustizia, che si moltiplica in un’area multiforme di criminalità comune, organizzata, economica e di pubblica amministrazione. In un simile contesto, non è semplice evitare scelte che possono apparire discutibili, in carenza di oggettivi parametri di priorità. Nasce così il sospetto dell’uso politico della giustizia coltivato da coloro che abbiano sottostanti interessi. Bisogna guardarsi dalla tendenza alla congettura, la quale offusca la conoscenza e rende il discorso sterile e fuorviante su una presunta politicizzazione della magistratura. Il fatto è che nello stato attuale delle cose, il quale peraltro risale nel tempo (“si cambia tutto per non cambiare niente”, ricordate il Gattopardo?), volenti o no i magistrati, l’azione della magistratura esce dai tribunali e irrompe nella vita pubblica, si pensi a Mani Pulite. Se non si trova il freno, non è facile vedere il limite necessario per una moderna convivenza democratica. Il vigente servizio giustizia, soprattutto nel campo penale, mantiene una posizione non troppo equilibrata rispetto ai restanti poteri statuali. Sembra dimenticarsi che il modello democratico non dovrebbe mai prescindere dal frazionamento dei poteri, il cosiddetto checks and balances del mondo anglosassone. È vero che il grande potere che nel settore penale è affidato dalla politica all’ufficio del pubblico ministero dipende dall’importanza in democrazia del controllo di legalità, peraltro non dovrebbe dimenticarsi che ogni potere, in un corretto modello democratico, dovrebbe sempre avere e conservare i necessari anticorpi, a salvaguardia di possibili invasioni. Oggi da noi la giustizia penale, pur essendo divenuta virtuale per la durata ingestibile dei processi, sotto il fuoco dei media può provocare danni umani dolorosi per il singolo che la subisce e danni economici molto gravi negli effetti generali. Bisogna rendersi conto che il Diritto penale, pur essendo un ramo del Diritto, cioè l’ultimo, inevitabile, cui debba ricorrersi, può peraltro pericolosamente divenire un’arma per chiunque e contro chiunque, provocando un esteso fenomeno di erosione sociale e democratica. È auspicabile che l’attenzione della politica si soffermi sull’opportunità di ridurre l’area penale, sia processuale che sostanziale, ritrovando le mediazioni giuridiche intermedie che possono offrire gli altri rami del diritto. Strutture, personale, processi. Che disastro il sistema giustizia di Pieremilio Sammarco* Libero, 26 gennaio 2021 Giovedì il ministro della Giustizia Bonafede dovrebbe presentare la sua relazione sullo stato della giustizia: già immaginiamo gli annunci roboanti con cifre iperboliche sulle risorse da destinare a questo settore, aumenti di organico, programmi di edilizia carceraria, digitalizzazione e snellimento di ogni fase e tipo di processo e così via di seguito. Ma, al netto della propaganda, rimanendo ancorati alla realtà, la fotografia che si ha della giustizia in Italia è impietosa e buona parte la si deve sia a questa guida politica che ai suoi interpreti. Se proviamo a seguire le 4 direttrici che attraversano il campo della giustizia (strutture, personale, norme, processo), arricchite da qualche esempio, il quadro d’insieme che ne esce è sconfortante. 1. Quanto alle strutture, gli edifici - anche carcerari - sono inadeguati e gli spazi insufficienti; i templi della giustizia sono, soprattutto nelle grandi città, un dedalo di corridoi dove giacciono i faldoni ed impera la burocrazia dei funzionari. Le risorse informatiche obsolete e carenti, come evidenziato in questa pandemia quando i processi sono stati per lo più rinviati, anziché essere celebrati in videoconferenza. 2. Si dice da tempo che il personale togato e amministrativo è insufficiente rispetto alla mole di lavoro. Può essere vero, ma perché questa giustificazione non sia un pretesto per non svolgere appieno i propri compiti, e necessitano, come in una qualunque realtà privata, misurare la produttività dei lavoratori attraverso controlli serrati sui tempi di lavorazione degli atti giudiziari e l’emissione delle sentenze. È noto che senza controllo non vi è efficienza. Quanto alla magistratura, si sono registrate numerose ipotesi di corruzione commesse dai magistrati nell’esercizio delle loro funzioni, oltre allo scandalo delle nomine al Csm che ha svelato un sistema capillare di spartizione correntizia che ignorava merito e capacità dei singoli candidati. E tutto questo naturalmente non ha fatto altro che, agli occhi del pubblico, gettare discredito sull’intera categoria. 3. L’apparato normativo, a seconda dei settori, si rivela a tratti inadeguato, a volte farraginoso e altre volte sembra appositamente creato per vessare l’individuo. Con riferimento alle nuove tecnologie o alle questioni bioetiche, le norme stentano: si pensi, ad esempio, alla difficoltà di introdurre la digital fax per i giganti di Internet, o il pagamento dei diritti d’autore agli editori per le news diffuse da Google, o à trattamento di fine vita. Nel settore dei lavori pubblici, il codice degli appalti introduce procedure macchinose e complesse per la pubblica amministrazione e si è visto che senza questa briglia è possibile realizzare grandi opere come il ponte Morandi. Nel penale, l’introduzione di reati vaghi e fumosi come il voto di scambio ed il traffico di influenze attribuiscono una ampia discrezionalità agli inquirenti che consente loro di avviare indagini che spesso non portano a nulla, se non alla rovina della vita politica e professionale dei malcapitati. 4. I processi sono lo specchio finale del disastro sistemico: nel civile la loro eccessiva durata incide sull’andamento del Pil, scoraggiando investitori stranieri e riducendo l’interesse ad avviare iniziative imprenditoriali. Nel penale, il processo è un marchingegno che sembra essere stato creato per stritolare l’imputato: oltre all’abolizione della prescrizione, la prova, a dispetto di quanto previsto dal codice, non si forma più nel dibattimento, ma nella fase delle indagini per lo più mediante strumenti di sorveglianza, i quali anche se attivati senza controlli o con risultanze dubbie, non possono essere utilmente disconosciuti. E prima ancora che arrivi la sentenza del Tribunale perviene, grazie al circuito mediatico, quella dell’opinione pubblica, assetata di trovare un colpevole a cui dare le colpe per le proprie insoddisfazioni. Nel tributario, infine, vi è uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti: non essendoci una banca dati delle decisioni delle Commissioni Tributarie, l’Agenzia delle Entrate ha in casa tutta la giurisprudenza dove e parte necessaria, mentre il contribuente annaspa, dovendo ricostruire da solo principi e soluzioni in un quadro normativo confuso e contraddittorio. Tutto questo (ed altro), per certo, non sarà menzionato nella relazione annuale del ministro Bonafede. *Professore di Diritto Privato Comparato Università di Bergamo Obiettivo Bonafede. Responsabili, renziani e grillini danno il via al regolamento dei conti di Rocco Vazzana Il Dubbio, 26 gennaio 2021 Comunque vada a finire la crisi, Giuseppe Conte sarà chiamato a pagare un prezzo molto salato. C’è un nodo, infatti, che il presidente del Consiglio dovrà sciogliere, e in fretta, per restare in sella: la Giustizia. Tornata al centro dello scontro politico per una coincidenza fatale - la relazione al Senato del ministro Alfonso Bonafede proprio nelle ore più tese della crisi -Via Arenula si è trasformata nella moneta di scambio chiesta al premier da tutti gli ipotetici e futuri compagni di strada. Renziani o responsabili che siano, tutti fanno leva su quello che reputano il punto più debole dell’esecutivo per trattare il loro ingresso in maggioranza. Alcuni chiedono la “testa” di Bonafede per cinico gusto punitivo nei confronti dell’avvocato, altri ne approfittano per regolare qualche conto col ministro, considerato portatore di una cultura giustizialista da spazzare via. Appartengono di certo a questa categoria renziani e forzisti, da anni protagonisti di uno scontro feroce col Guardasigilli sui temi bandiera del Movimento 5 Stelle, primo fra tutti: la riforma della prescrizione. Concepita durante il Conte uno e tramutata in legge col Conte due, la prescrizione targata Bonafede (sospesa dopo la sentenza di primo grado, anche in caso di assoluzione) è diventata l’ossessione di Matteo Renzi, che già nel febbraio scorso aveva minacciato di aprire una crisi di governo su questo tema. Solo la promessa di correggere il tiro attraverso gli emendamenti alla riforma del processo penale (da depositare entro la prossima settimana) aveva scongiurato il rischio di una frattura insanabile già un anno fa. Perché l’ex premier e il Guardasigilli non sono mai entrati davvero in sintonia, e anni di accuse reciproche non hanno certo aiutato a rasserenare il clima. E se a febbraio del 2020 Bonafede veniva definito “ministro del giustizialismo” sulla prescrizione, pochi mesi dopo, a maggio, in piena emergenza Covid nelle carceri era proprio l’ex premier ad abbandonare la barricata “garantista” per unirsi al coro di chi accusava Bonafede di “aver scarcerato boss mafiosi”. Anche in quel caso, solo dopo una intensa mediazione, Italia viva decise di non sostenere la mozione di sfiducia al Guardasigilli presentata dalle opposizioni. Adesso che Conte traballa, sono in tanti a mettere nel mirino il ministro della Giustizia, l’uomo che ha trasformato un professore universitario in presidente del Consiglio. E a puntare le frecce non sono solo avversari storici. Perché è proprio dentro al Movimento 5 Stelle che monta l’insoddisfazione più aspra nei confronti del capodelegazione. Certo, il malumore non traspare dalle dichiarazioni dei vertici, tutti pronti a fare quadrato attorno a Bonafede, è nella pancia del gruppo parlamentare che la voglia di rivalsa cresce. “In tutto questo tempo Alfonso non ha toccato palla”, dice una deputata grillina, “si è limitato a fare il passacarte di Conte”, è l’accusa più pesante. “Crimi e Di Maio lo difendono? Evidentemente qualche ministro si sentirà ben rappresentato, non il gruppo parlamentare, glielo garantisco”, prosegue la “confessione” di chi imputa a Bonafede anche la responsabilità di non aver bloccato Conte, di non averlo invitato “a darsi una calmata”. Insomma, deputati e senatori non sembrano affatto pronti a “scendere in piazza” per difendere il loro ministro. Anzi, se Via Arenula fosse l’unica merce di scambio per garantire il proseguimento della legislatura, in tanti sarebbero disposti a metterla sul banco. E chi lo ammette non lo fa solo dietro garanzia d’anonimato. C’è chi esce allo scoperto senza temere ripercussioni. “Nel governo Conte 2 Bonafede ha fatto molto poco, e qualcosa è stato fatto anche male”, dice senza mezzi termini il deputato M5S Andrea Colletti. “Dal mio punto di vista, sono errate anche le modalità con cui si sta lavorando al Recovery per quanto riguarda le risorse da investire sulla giustizia: così non si migliora e non si innova nulla”, aggiunge Colletti, prima di infierire: “La politica legislativa del ministro è in mano ai burocrati. Per me il grande errore di Bonafede è stato affidarsi ai magistrati del suo ministero e poco ai parlamentari: le Commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno lavorato pochissimo”. Una bocciatura senza appello, dunque, che restituisce l’immagine di un Movimento lacerato da un regolamento di conti interno, in cui gli “esclusi” dalla gestione politica provano a togliersi ora più di un sassolino dalla scarpa. Mentre Conte sale al Quirinale, per Bonafede comincia la battaglia più complicata. Per evitare di “cadere” dovrà guardarsi soprattutto le spalle. Alla Camera primo test per Bonafede di Liana Milella La Repubblica, 26 gennaio 2021 Spunta l’emendamento Costa sulla presunzione di innocenza. A Montecitorio scontro fra garantisti e giustizialisti. L’esponente di Azione chiede di introdurre nella legge di delegazione europea, che si discute a Montecitorio a partire da oggi, i principi garantisti sul processo. Lucia Annibali di Italia viva ha presentato una legge identica ma dice: “Dobbiamo decidere”. Sarà l’antipasto - in scena alla Camera a partire da oggi, ma con il clou domani pomeriggio - dello scontro sulla relazione per la giustizia del Guardasigilli Alfonso Bonafede. Sempre se, crisi permettendo, quel dibattito si svolgerà. Ma prima di mercoledì, ecco un altro appuntamento destinato a provocare una lite sul tema del processo giusto. l titolo del provvedimento, di per sé, non dà nell’occhio - “legge di delegazione europea 2019-2020” - ma basta scorrere gli emendamenti, già a partire dal primo articolo, per accorgersi che sui principi del giusto processo e sul rispetto dell’imputato da non presentare subito come un sicuro colpevole, inevitabilmente, garantisti e giustizialisti affileranno le armi. Anche perché di mezzo c’è Enrico Costa, il deputato ex forzista e ora calendiano di Azione, per giunta di professione avvocato, che ormai da anni non perde occasione per introdurre nei codici tutte le garanzie possibili per l’imputato, prima che un processo definitivo sancisca la sua effettiva colpevolezza. E stavolta saranno tuoni e fulmini, perché lui propone tre emendamenti per tutelare chi viene messo sotto processo, tutti ricopiati di peso dalla direttiva europea. A questo punto gli schieramenti permetteranno già di fare la prima conta dell’aula in vista della relazione di Bonafede. Cosa farà Italia viva? La responsabile Giustizia Lucia Annibali, che ha presentato un progetto di legge dello stesso tenore degli emendamenti di Costa, per ora dice: “Dobbiamo riunirci e decidere”. Costa, per parte sua, è deciso comunque a sfidare la maggioranza: “Ricordo a tutti che già il Guardasigilli Andrea Orlando aveva chiesto di recepire la direttiva europea. Italia viva ha sempre condiviso questi principi tant’è che ha presentato la sua proposta di legge. Quindi mi auguro che prevalgano le convinzioni, e non le convenienze”. Se questo, in sintesi, è lo scenario politico, vediamo in concreto e nel merito di cosa si sta discutendo. E se gli emendamenti di Costa rischiano di essere bloccati e di non essere messi neppure in discussione. La legge di delegazione europea riguarda moltissimi temi e recepisce tutte le direttive della Ue che devono entrare a far parte della legislazione italiana. È stata approvata al Senato a novembre, la maggioranza vuole chiuderla in fretta senza ulteriori rinvii, e per questo è contraria a inserire nuovi emendamenti alla Camera che comporterebbero poi un ulteriore passaggio al Senato, dove, per via del Covid, c’è un forte arretrato. Tant’è che sul processo civile il governo vuole ricorrere a un decreto legge. Su questo, c’è la prima reazione irritata di Costa: “Di fronte a principi costituzionali così importanti sarebbe davvero grave se privilegiassero il calendario rispetto alle garanzie costituzionali”. Ma vediamo quali sono le proposte di Costa che firma gli emendamenti con Riccardo Magi di Più Europa. Con una premessa. Già nel titolo, la direttiva 343 approvata il 9 marzo del 2016 dal Parlamento europeo, ci fa capire quali sono i temi in discussione. Recita così: “Rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Un testo che chiedeva agli Stati europei, già dall’anno scorso, di trasmettere subito, e poi ogni tre anni, “i dati disponibili relativi al modo in cui sono stati attuati i diritti sanciti dalla presente direttiva”. Un ordine preciso dunque, e non solo un’indicazione sommaria o un suggerimento. Ma già a novembre, quando la legge di delegazione europea è arrivata in commissione Giustizia alla Camera, e Costa ha proposto i suoi emendamenti, la sua proposta è stata bocciata. In una riunione molto tesa, è finita in parità, 23 a 23, con il voto determinante del presidente di M5S Mario Perantoni. Le proposte di Costa non sono state inserite nel testo destinato al dibattito in aula. Adesso rieccole, questa volta sotto forma di emendamenti da discutere nell’emiciclo. Il primo, all’articolo uno, chiede semplicemente di recepire la direttiva Ue. Ma già dal secondo, all’articolo due, si entra nel merito. Costa e Magi chiedono di “adottare le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole”. Ancora: i due proponenti chiedono di “regolamentare le forme di comunicazione giudiziaria da parte delle procure della Repubblica durante le indagini preliminari, consentendo esclusivamente e tassativamente la diramazione di comunicati stampa con l’indicazione degli specifici fatti e delle norme contestate ai soggetti indagati”. Ma non basta, Costa e Magi chiedono ancora di “prevedere che, fino alla conclusione delle indagini preliminari, non vengano diffusi dall’autorità giudiziaria, a fini di comunicazione, filmati contenenti riprese di atti di indagine preliminare (intercettazioni, perquisizioni, esecuzione di misure cautelari), né audio di intercettazioni non ancora vagliate nell’apposita udienza stralcio”. Infine chiedono pure che “alle inchieste non venga assegnata una denominazione non prevista dalle norme di legge” e di “ripristinare il divieto di pubblicazione integrale dell’ordinanza di custodia cautelare”. Per chiudere vogliono stabilire anche un altro principio garantista: “La condotta dell’indagato che in sede di interrogatorio si sia avvalso della facoltà di non rispondere, non costituisce, ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, elemento causale della custodia cautelare subita”. Insomma, per dirla in estrema sintesi, Costa vuole tappare la bocca ai magistrati, impedire le conferenze stampa dei procuratori dopo gli arresti, bloccare l’uscita di qualsiasi dettaglio sulle indagini, né foto, né filmati, né brani di intercettazioni, tantomeno quell’ordinanza di custodia cautelare che era stata liberalizzata proprio dalla legge Orlando sulle intercettazioni come elemento di trasparenza in un momento clou dell’indagine. Un’esagerazione di Costa? Una pretesa eccessiva? Il deputato di Azione si fa forte delle parole contenute nella direttiva europea che chiede agli Stati membri di “adottare le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole”. Principio generale - appena citato dalle toghe di Magistratura democratica per criticare le ultime dichiarazioni pubbliche del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri - che poi viene esplicitato in una decina di articoli, tutti dello stesso tenore delle richieste di Costa. A partire dalla seguente premessa: “La presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole. Ciò dovrebbe lasciare impregiudicati gli atti della pubblica accusa che mirano a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato, come l’imputazione, nonché le decisioni giudiziarie in conseguenza delle quali decorrono gli effetti di una pena sospesa, purché siano rispettati i diritti della difesa”. Musica per le orecchie dei garantisti. Alla vigilia del dibattito sulla relazione di Bonafede non poteva cadere, nell’aula della Camera, una discussione peggiore di questa. È stato solo il caso, ma se gli emendamenti verranno votati, questo rappresenterà già un primo screening dei consensi su cui il governo potrà contare in vista del dibattito sulla giustizia del giorno dopo. Crisi di governo: “Difendiamo Bonafede”. Nel M5S la tentazione di mollare Conte di Annalisa Cuzzocrea La Repubblica, 26 gennaio 2021 Ci sono due visioni dietro quello che appare come un unico schema. La prima è di chi pensa che chiedere al premier di salvare Bonafede, dimettendosi prima del suo discorso in aula, fosse inevitabile, ma che nulla cambia riguardo alla linea da tenere: o lui o le urne. C’è però tutto un altro pezzo di Movimento che non crede più nelle possibilità dell’ipotesi ter. Quando in videoconferenza Vito Crimi comincia a dare i numeri del Senato, in quella che ai presenti sembra un po’ la conta delle figurine, “ce l’ho, ce l’ho, mi manca”, i ministri e i sottosegretari del Movimento 5 stelle cominciano a sbuffare. Sono le 18. La riunione è stata indetta per capire il da farsi. E il da farsi è già deciso: il Movimento ha chiesto a Giuseppe Conte di non mandare Alfonso Bonafede in aula senza paracadute. Di salvare il Guardasigilli da una bocciatura certa sulla relazione annuale della Giustizia che, inevitabilmente, sarebbe comunque ricaduta sul premier e sul governo. “Non si è chiuso nessun accordo con nessuna quarta gamba”, esordisce il reggente M5S. Sostenuto dai conti del ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà. Bonafede sta ancora lavorando al suo discorso, sta trattando possibili aperture in senso garantista con il suo predecessore, il vicesegretario pd Andrea Orlando, e con il deputato Pd Walter Verini. L’idea è di convincere a votarlo almeno un pezzo di centristi e gli stessi responsabili della fiducia. I suoi lo fermano: “Non ha senso, non ci voterebbero comunque e ci scopriremmo su un fronte interno”, è il senso del ragionamento dei dirigenti M5S. Che già pensano ai possibili attacchi dei soliti malpancisti, a cominciare dal presidente della commissione Antimafia Nicola Morra, davanti a un Movimento che si sorprende a scoprire il garantismo per far guadagnare un po’ di ossigeno al governo. Prende la parola Stefano Buffagni: “Non possiamo mandare Alfonso a schiantarsi in aula - dice il sottosegretario al ministero per lo Sviluppo economico - dobbiamo difendere i nostri. Difendere Conte, che è il perno fondamentale della maggioranza. Ora però vi chiedo: qual è la strategia?”. Silenzio. Crimi neanche accende il microfono su Zoom. Interviene il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “È inutile che ci giriamo intorno, i numeri non ci sono, dobbiamo trarne le conclusioni e affrontare da domani la situazione”. Parlano anche le sottosegretarie Mirella Liuzzi e Laura Agea, in difesa di Conte. Qualcosa, però, si è spezzato. Perché la mossa del M5S - per la prima volta dopo settimane - non mette Conte davanti a tutto, anzi. Ci sono due visioni, dietro quello che appare come un unico schema. La prima è di chi pensa che chiedere al premier di salvare Bonafede, dimettendosi prima del suo discorso in aula, fosse inevitabile, ma che nulla cambia riguardo alla linea da tenere: o Conte o urne. Così l’hanno detta e la ripetono ministri ed esponenti di governo di rilievo come Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, o Stefano Patuanelli, responsabile dello Sviluppo economico, che ancora ieri all’idea di riaprire a Renzi diceva: “Chi è il problema non può essere la soluzione. Non è una questione personale, ma di affidabilità politica”. C’è però tutto un altro pezzo di Movimento che non crede più nelle possibilità del Conte ter. E che lavorerà per un nuovo governo anche se il presidente del Consiglio dovesse perdere la sua golden share, rimettendola magari nelle mani di chi l’ha avuta per primo, come Luigi Di Maio. Perché non venga fuori troppo presto, l’assemblea congiunta di ieri sera di Camera e Senato è stata rinviata da Crimi “a data da destinarsi”. Non è il momento di dare sfogo ai malumori e alle paure dei parlamentari, che già si sono fatti attrarre dall’idea di maggioranze allargate o di possibili ritorni (uno tra tutti, l’invito ad abbassare “il testosterone” del deputato Sergio Battelli). Ma non si tratta solo di ingovernabili peones, o di viceministri preoccupati del loro futuro come Giancarlo Cancelleri (che alla Stampa è arrivato a dire, poi smentendo: “Nessuno è indispensabile”). Sono dirigenti di peso M5S, ormai, a dire chiaramente: “Il premier sui responsabili ha capito di aver sbagliato. Proverà a fare il Conte ter, ma non ci riuscirà”. Gli imperdonabili silenzi del ministro Bonafede di Giuseppe Sottile Il Foglio, 26 gennaio 2021 La via crucis giudiziaria di Mannino, il circo mediatico di Gratteri, le gogne pubbliche, la prescrizione, il trojan e processi che, nonostante proclami e annunci, sono sempre più lenti. Ma il guardasigilli non sembra accorgersi mai di nulla. Per favore, smettiamola con i luoghi comuni e con la facile ironia. A che vale ricordargli che prima di raggiungere le alte vette del governo se ne stava lì, a Mazara del Vallo a proporre come dj le canzoni di Gigi D’Agostino? Lui vi risponderà che comunque, da ministro della Giustizia, ha varato leggi, come la Spazza-corrotti, destinate a sconvolgere il codice penale, a crocifiggere il malaffare, a snidare la delinquenza che si nasconde tra le pieghe della politica e nelle stanze opache della burocrazia, negli affari dei poteri forti e nelle trame nascoste dei poteri criminali. E vi griderà in faccia uno slogan che va oltre “onestà-tà-tà”. Vi griderà: viva le manette, viva la galera. Sì, perché Alfonso Bonafede, quel simpatico Fofò che ride sempre, nella buona e nella cattiva sorte, non è solo un forcaiolo grillino; non è uno dei tanti giustizialisti che urlano il vaffa e agitano il cappio. È il ministro che ha istituzionalizzato la gogna. Con il taglio sacrilego della prescrizione ha trasformato il processo in un rito infinito, durante il quale un imputato potrà stare appeso al palo finché morte non lo separi. E con l’introduzione del diabolico trojan, la spia più invasiva inventata dalla cultura sbirresca delle intercettazioni, ha fatto in modo che venissero consegnati ai magistrati - soprattutto a quelli più rampanti e spregiudicati - spezzoni di vita non solo degli inquisiti ma anche di persone che con l’indagine non hanno nulla a che fare. Il trojan è un’applicazione che può essere inoculata nel telefonino dell’indiziato, senza che lui se ne accorga ovviamente; e che ha la capacità di catturare le voci di chiunque si trovi a parlare nelle vicinanze dell’uomo “attenzionato” dalla procura. Voci di ogni genere e grado, anche e soprattutto innocenti, che non hanno alcuna valenza penale ma intanto finiscono lì, in un brogliaccio a disposizione dei pubblici ministeri, dei cancellieri, dei difensori, degli ufficiali di polizia giudiziaria e quindi anche dei giornali. Il trojan è l’organo dello sputtanamento. Che si attiva anche quando l’indiziato spegne il telefono e che dunque finisce per registrare ogni dialogo del- l’indiziato, anche quello più intimo con la moglie o con l’amante. Ricordate il caso di Luca Palamara? Ricordate quante nefandezze vennero fuori dal trojan piazzato nel telefonino dell’uomo più potente dell’Associazione nazionale magistrati e del Csm, l’organo di autogoverno dei giudici? Nefandezze e trame di potere, accordi sottobanco e inconfessabili complicità. Il trojan inserito nel telefonino di Palamara ha finito per seppellire la credibilità del Consiglio superiore della magistratura e, se vogliamo, anche del sistema giudiziario. È diventato infatti difficile per chiunque credere nel sacro principio dell’autonomia dei giudici dopo avere letto i traffici che Palamara tramava con gli altri caporioni delle correnti togate per promuovere o emarginare - dentro e fuori il Palazzo dei Marescialli - il capo di una procura, il presidente di un Tribunale, un giudice della Cassazione o un presidente di Corte d’appello. Altro che gogna. Si dirà: che c’entra Bonafede con le scempiaggini di Palamara? Il trojan, pur con l’invasività che lo contraddistingue, ha fotografato una realtà. Al limite ha fatto crollare l’ultima impalcatura o, se volete, il tetto di un edificio - quello della giustizia italiana - vecchio, logoro, ammuffito, diroccato, traballante. Che il ministro Bonafede, in oltre due anni di presenza rumorosa al vertice del palazzo cinquecentesco di via Arenula, ha comunque lasciato tale e quale. Oggi, vigilia di un difficilissimo passaggio parlamentare, il Guardasigilli promette mare e monti: sedicimila assunzioni, riforme mirabolanti e risolutive, interventi decisi e muscolosi contro le lentezze e le storture dell’organizzazione giudiziaria. “La fede - sosteneva san Paolo - è sostanza di cose non viste e di cose sperate”. Ma i fatti dicono una sola cosa: nel gennaio del 2019, dopo il taglio della prescrizione ha promesso di rendere i processi più veloci e più giusti, ma dopo due anni la macchina infernale della giustizia, anche a causa del Covid, è più lenta di prima. Inghiotte vite e onorabilità. Umilia l’imputato. Mortifica lo stato di diritto. Affligge i carcerati. “La giustizia senza castigo è un’utopia, ma il castigo senza misericordia è crudeltà”, annotava cinque secoli fa san Tommaso d’Aquino. Un principio di sacra umanità cristiana che Bonafede stenta a fare suo. E per avere contezza del baratro che si staglia dietro la politica giudiziaria del ministro Fofò basta citare due nomi che hanno infelicemente segnato le cronache di questi giorni. Due nomi contrapposti. Da un lato Calogero Mannino, l’ex ministro democristiano inchiodato per ventisette anni, dai cosiddetti magistrati coraggiosi, a un processo senza fine; e poi definitivamente assolto da tutte le accuse, anche le più infamanti. Dall’altro lato Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, ultimo campione di quei pubblici ministeri che tanto piacciono al circo mediatico-giudiziario: magistrati di prima linea, mandati da Dio in terra per salvare l’umanità dalla mafia, dalla ‘ndrangheta e da ogni altra contaminazione criminale. Non uomini semplici ma eroi che amano i grandi numeri, le maxi retate e i maxi processi; che non chiudono un’indagine se non c’è dentro un nome di spicco, un colletto bianco, un politico di primo piano. Un nome, insomma, che faccia volare l’inchiesta sulle ali delle prime pagine dei giornali, sulle luci dei talk-show, sui palcoscenici seducenti della popolarità. Per favore, smettiamola con i luoghi comuni. Non insistete nel rinfacciare a Bonafede la sua confusione su che cosa e il dolo e che cosa è la colpa. Non mettetelo in difficoltà se in materia di mafia confonde il 41 bis con il 416 bis. Rinfacciategli piuttosto i silenzi su Mannino e Gratteri. La via crucis giudiziaria dell’ex ministro democristiano-incarcerato e incriminato per collusioni con la mafia dai magistrati d’assalto che a Palermo volevano riscrivere la storia d’Italia - avrebbe dovuto spingere il ministro a riflettere sugli effetti che può avere su un innocente un processo senza fine. Con Mannino i giudici non avevano fretta perché la legge antimafia - quella voluta da Giovanni Falcone e portata in parlamento nel ‘91 da Claudio Martelli, allora ministro di Giustizia - raddoppia già i tempi della prescrizione. Se tu vieni accusato di peculato, dopo dodici anni hai diritto alla prescrizione. Ma se il pm ti contesta l’aggravante mafiosa prevista dall’articolo 7 della legge Martelli gli anni necessari per la prescrizione automaticamente raddoppiano: ne serviranno 24. Lo stesso vale per l’abuso di ufficio: in via ordinaria il reato viene prescritto dopo cinque anni, ma con l’aggravante mafiosa di anni ne servono dieci. E così per ogni accusa, per ogni imputazione. Diventa difficile, se non impossibile, per un picciotto o un boss di mafia ottenere una sentenza in tempi ragionevoli. Ma un imputato che con la mafia non ha mai avuto nulla a che fare perché deve essere sottoposto a un identico calvario? La prescrizione, piaccia o no, è quello strumento giuridico - di alta civiltà giuridica - con il quale lo stato dichiara la propria impotenza: se i tribunali non riescono a garantire giustizia entro i termini fissati dalla legge, il processo automaticamente decade: l’imputato non viene né assolto né condannato; saluta i giudici e se ne torna a casa. Invece Bonafede, con la norma inserita nel decreto “Spazza-corrotti” ha voluto infierire e ha esteso il rigore della legge antimafia a tutti i cittadini che inciampano in una colpa o in un reato: superato il primo grado di giudizio, il tempo del processo non ha più un limite. L’imputato qualunque - alla stregua di Mannino, ma anche di Antonio Bassolino, di Mario Ciancio e di altri cento imputati eccellenti - potrà vivere una gogna lunga anche ventisette anni. Dovrà pagare per tutto quel tempo gli avvocati e potrà anche chiudere la propria attività perché non ci sarà una banca che gli concederà un mutuo o un finanziamento. Sarà la morte civile. Viva le manette. Viva la galera. Ancora più grave il silenzio del ministro di Giustizia sulle dichiarazioni di Nicola Gratteri, il magistrato che di questi tempi anima maggiormente il piazzale degli eroi. Dopo l’ultima roboante operazione di polizia contro la ‘ndrangheta e con lo scalpo di Lorenzo Cesa, segretario nazionale del-l’Udc, ancora in mano, il procuratore di Catanzaro si è fatto il consueto giro di giornali e tv per diffondere urbi et orbi le sue accuse agli indiziati, agli indagati, ai complici, ai fiancheggiatori e ai comprimari. Poi in una vampata di orgoglio e di amor proprio ha rilasciato una intervista a Giovanni Bianconi, del Corriere della Sera, durante la quale si è lasciato andare a una risposta che avrebbe meritato da parte di Bonafede più di una attenzione e più di una riflessione. Bianconi gli chiede come mai molte delle sue prodigiose e strabilianti inchieste vengono puntualmente dimezzate se non addirittura azzerate dai giudici di merito. E Gratteri risponde: “Se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”. Bianconi sobbalza. Ci sono ragioni meno nobili? Ci sono prove nei cassetti che prima o poi verranno fuori? Il procuratore si ferma: “Non posso rispondere”, dice. E tra il dire e il non dire finisce l’allusione. Di fronte a un messaggio, così potente e obliquo, inviato a mezzo stampa da Gratteri a tutti i giudici che dovranno valutare - serenamente, terziariamente - il suo operato di procuratore, il ministro Bonafede avrebbe dovuto quantomeno inviare gli ispettori a Catanzaro per vedere se veramente ci sono nei cassetti carte compromettenti. Si sarebbe potuto raccordare con il procuratore generale della Cassazione o con il vicepresidente del Csm. Così, tanto per capire. Oppure si sarebbe potuto porre una domanda sull’insofferenza di certa magistratura inquirente nei confronti dei giudicanti. Diciamolo: l’onnipotenza porta spesso all’insofferenza. I precedenti non mancano: anche la procura di Palermo, negli anni di Gian Carlo Caselli e della sua antimafia chiodata, diede la caccia ai giudici del tribunale che mostravano perplessità sulla linea dura e pura dei pubblici ministeri; o a quelli, sbeffeggiati come parrucconi, che nelle Corti d’assise o d’appello stavano attenti alle forme, più che alla sostanza, convinti che la forma è la massima garanzia di una giustizia giusta. Nella caccia all’uomo fu coinvolto anche uno squadrone di pentiti. I quali, manco a dirlo, coglievano l’occasione per togliersi macigni dalle scarpe e mettere alla gogna chi, magari, li aveva mandati in galera con una sentenza di condanna. Ne fu vittima Pasquale Barreca, un giudice e un galantuomo di altri tempi, assolto dopo essere stato abbondantemente massacrato a Caltanissetta da un processo ingiusto e astioso. Ma la vittima più illustre fu Corrado Carnevale, presidente della prima sezione penale della Corte di cassazione, un maestro del diritto che non aveva alcuna remora nell’annullare condanne prive di solide prove. Contro di lui, rigoroso giudice di legittimità, furono reclutati tra il 1993 e il 1994 pentiti buoni per tutte le accuse e sicofanti destinati a luminose carriere. Uno di questi, Salvatore Cancemi, arrivò a dichiarare che lui si recava a Roma, per aggiustare i processi in Cassazione, con le borse piene di piccioli. Fandonie. Che però paralizzarono il giudice Carnevale - i giustizialisti di allora per sfregiarlo lo chiamavano “ammazzasentenze” -con una gogna lunga e brutale, e con un processo per concorso esterno in associazione mafiosa che si trascinò per molti anni. Fino alla definita assoluzione perché “il fatto non sussiste” e al reintegro, siamo già alla fine del 2007, nel suo ruolo di supremo giudice. La frase torva di Gratteri sui collegi giudicanti rivela che all’interno dell’ordinamento giudiziario c’è una casta bramina che vuole imporre a tutti i costi la propria supremazia. Che non sopporta più la gerarchia dei controlli, che ama fare i processi in televisione e non nelle aule dei tribunali o delle corti d’appello. Una casta fanatica e aggressiva. Che ama il potere. Anche e soprattutto il potere di condizionare la politica, di orientarla, di dettarle l’agenda. Il silenzio su Gratteri, al pari di quello su Mannino, rende automaticamente Bonafede complice di questo casta e di questo sistema. Il ministro, che è anche capo della delegazione grillina a Palazzo Chigi, indossa la grisaglia, il gilet e non dimentica mai, come il premier Giuseppe Conte, la pochette a quattro punte nel taschino della giacca. Ma il vestito serve spesso a coprire o a nascondere le distanze. Per esempio l’abisso che separa un uomo di stato da un forcaiolo a cinque stelle; o un ministro della Repubblica da un manetta-ro. Ricordate quello che arrivò a dire un paio di anni fa durante una cerimonia ufficiale? “Il processo finisce con la condanna”. Il suo amico e collega Di Maio, dopo l’approvazione del reddito di cittadinanza, si è affacciato al balcone di Palazzo Chigi e ha annunciato al mondo che aveva abolito la povertà. Il simpatico Fofò, per non essere da meno, ha annunciato invece di avere abolito l’istituto dell’assoluzione. Tutti in galera. Un manettaro e nulla più. Riforma della giustizia? Per i pentastellati è a suon di manette di Gianluca Perricone L’Opinione, 26 gennaio 2021 Lo scorso 11 gennaio Vito Crimi (reggente pro tempore del malmesso Movimento 5 Stelle) ha pubblicato un post sulle “meraviglie” realizzate dall’attuale governo. Mi è venuta la malaugurata idea di commentare in modo civile quelle righe e, tra gli argomenti, ponevo anche la mancata riforma della giustizia. Non l’avessi mai fatto: decine, centinaia di fiancheggiatori di Crimi e compagnia si sono scatenati accusandomi di tutto: di essere stato complice di chi in 30 anni ha rovinato il Paese, di essere amico di chi si è intascato i famigerati 49 milioni (proprio a me lo dicono...), che il bunga-bunga non mi sarebbe estraneo, di non capire un c…o e di farmi curare: il tutto perché mi sono permesso di mettere sobriamente in dubbio quanto scritto dal Crimi. Tra i tanti attacchi che ho subìto - e arriviamo al tema giustizia - ce ne è stato uno sferrato da un “sommo giurista” che ha stigmatizzato quanto da me scritto, sostenendo che la riforma della giustizia c’è già stata perché il governo è riuscito a far passare la riforma della prescrizione ed il cosiddetto “spazza-corrotti”: ecco, per certi pentastellati, riformare la giustizia vuol dire manette e null’altro. Tempi della giustizia civile e penale? Responsabilità civile dei giudici? Detenzione e condizioni dei detenuti nelle carceri? Nulla di tutto questo (e non solo). Chissà se finalmente mercoledì (o giovedì, a seconda delle volontà del Governo e del ministro) riusciremo finalmente a sapere gli indirizzi che l’esecutivo vuole dare alla giustizia italiana. Il ministro-dj Alfonso Bonafede ha comunque un futuro anche fuori dal ministero di via Arenula: come avvocato o, male che vada per lui, come animatore in qualche discoteca. Corrado Carnevale, il giudice “ammazza-sentenze” che rispettava il diritto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 gennaio 2021 Accusato di aver influenzato il suo collegio per favorire la mafia, dopo dieci anni è stato assolto definitivamente perché “il fatto non sussiste”. Le dichiarazioni del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri sui giudici che “scarcerano nelle fasi successive” ha fatto ritornare alla mente il clima che si respirava negli anni 80, quando salì agli onori delle cronache il giudice della corte di Cassazione Corrado Carnevale. Ispirando la sua azione a uno dei capisaldi dello Stato di diritto, la presunzione d’innocenza, ben riassunta nella massima: meglio un colpevole fuori, che un innocente dentro, Corrado Carnevale, ora 90enne, non è mai stato simpatico a molti dei sui ex colleghi. Senza peli sulla lingua criticò anche il pool antimafia dove c’era Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, perché li definiva “sceriffi”. Una cosa è certa. Non traspare da nessuna parte che Falcone e Borsellino ritenessero “colluso” con la mafia Corrado Carnevale. Non fecero mai nessuna insinuazione di questo tenore. Ma, nello stesso tempo, non nascosero che, a causa della sua proverbiale estrema puntigliosità, lo ritenevano un problema per l’esito del maxiprocesso costruito sul cosiddetto teorema Buscetta. Viceversa, non c’è da stupirsi se i mafiosi riposero le speranze in Carnevale. Oramai è storia che grazie a una idea di Falcone, l’ex ministro della giustizia Martelli attuò la rotazione del collegio giudicante, impedendo nei fatti al giudice Carnevale di presiedere la prima sezione della corte di Cassazione. Fu in quel momento che Falcone, agli occhi di Totò Riina, divenne un nemico da annientare. Corrado Carnevale è una persona che non ha mai aderito ad alcuna corrente della magistratura, e ciò è sconveniente per chi è desideroso di fare carriera. Fino al 1985, la carriera di Carnevale conosce un crescendo impressionante: in pochi anni brucia tutte le tappe e i record della magistratura. Dal 1986 in poi, a seguito della sentenza emessa dalla I sezione penale del Cassazione da lui presieduta nel cosiddetto processo Chinnici (rinviò alla Corte la sentenza per una nuova valutazione), inizia l’attacco e l’isolamento ai suoi danni. Sui giornali nasce il mito del giudice “ammazza-sentenze”. Il primo avviso di garanzia lo riceve dall’allora capo della procura di Palermo Gian Carlo Caselli e dall’allora procuratore Antonio Ingroia, il 23 aprile 1993. L’inchiesta dura dieci anni, fino all’assoluzione del 30 ottobre 2002. Ma per capire bene di che cosa stiamo parlando, dobbiamo analizzare le sentenze. Le uniche che cancellano anni e anni di maldicenze e accuse, riportando il tutto alla giusta dimensione dei fatti. E c’è voluta sempre la Cassazione a sentenziare che Corrado Carnevale non influenzò i giudici del suo collegio per favorire la mafia. La Corte suprema ha scritto nero su bianco che la decisione del giudice di secondo grado è “assolutamente carente nella individuazione di elementi che possano ritenersi davvero idonei a dimostrare che le deliberazioni della I. Cassazione, oggetto di contestazione, non furono espressione della volontà collegiale formatasi liberamente attraverso l’apporto di volontà individuali determinatesi autonomamente, indipendentemente da influenze e condizionamenti altrui, bensì il risultato del comportamento dell’imputato, illecito in quanto volto a favorire l’associazione criminale Cosa Nostra”. Per questo la sentenza di condanna viene annullata dalla Cassazione. Un annullamento senza rinvio, poiché le lacune non possono essere colmate in un eventuale giudizio di rinvio. “Tanto si ricava - si legge nelle motivazioni della sentenza di Cassazione dalla completa e minuziosa disamina degli atti compiuta in sede di merito, in cui si è indagato su ogni circostanza che a tal fine sembra rilevante. Indagine che tuttavia ha proposto o elementi inutilizzabili, o elementi già disattesi, o elementi non dotati di alcuna, rilevante significazione”. In sostanza la sentenza viene annullata senza rinvio perché il fatto ascritto a Carnevale non sussiste. Fine di un incubo, ma le stimmate rimangono, perché - come disse Carnevale stesso in una intervista apparsa tre anni fa nel numero di marzo della rivista della Camera penale di Roma “Cento Undici”, firmata da Valerio Spigarelli e Giuliano Dominici, “facevo il lavoro dell’anatomopatologo, quello che fa l’analisi sul cadavere”. Interessante sempre la sua testimonianza che fa comprendere il clima nel quale operavano i magistrati, il ruolo della stampa che cavalcava certi processi e l’inevitabile indignazione popolare. Corrado Carnevale racconta della lettura del ricorso contro l’ordine di cattura nei confronti di un famoso personaggio dell’epoca per omicidio. La lesse parola per parola davanti al collegio e alla fine il più anziano disse: “È acqua fresca”. Allora Carnevale rispose: “Annulliamo!”. I suoi colleghi però controbatterono: “E che vogliamo andare un’altra volta a finire sui giornali?”. Un aneddoto che fa capire come la pressione politica e mediatica cercava di influenzare l’esito dei processi. L’ex giudice Carnevale se n’è infischiava, pagandone pure le conseguenze. Altri un po’ meno. E oggi, invece? I giudici hanno la forza di decidere sui grandi processi senza farsi influenzare dai mass media con tanto di pressione politica? La storia insegna che ci sono, esistono tuttora. Anche a rischio di finire potenzialmente alla gogna e ricevere insinuazioni di collusione dai propri colleghi. Nel nostro Paese i giudici vanno bene se condannano, ma non se assolvono. Liti, sgravi fiscali alle soluzioni alternative di Claudia Morelli Italia Oggi, 26 gennaio 2021 La carta che il ministro della giustizia Alfonso Bonafede intende giocarsi per salvare la poltrona e con essa il governo Conte-bis, sarebbe quella di un nuovo decreto legge per recuperare al Paese quella capacità attrattiva dissolta in processi civili e penali che durano decenni. Ampliare l’utilizzo di sistemi di Adr incentivandoli fiscalmente, ammissibilità di misure cautelari nell’arbitrato, introduzione nel codice di procedura civile del principio di sinteticità e chiarezza degli atti di parte e del giudice, introduzione di meccanismi premiali se le parti, in casi specifici, concorrano a snellire la fase decisoria in Cassazione. La carta che il ministro della giustizia Alfonso Bonafede intende giocarsi per salvare la poltrona e con essa il governo Conte-bis, sarebbe quella di un nuovo decreto legge destinato a integrare, da una parte, le riforme del processo civile, del processo penale e dell’ordinamento giudiziario, pendenti in Parlamento da prima del Covid 19; dall’altra, a supportare le misure organizzative di rafforzamento delle risorse negli uffici giudiziari, prevista dalla legge di Bilancio 2021. A questa rosa di interventi sarebbe affidata la resilienza e il riscatto del sistema Giustizia, per circa 3 miliardi di euro, per recuperare al Paese quella capacità attrattiva dissolta in processi civili e penali che durano decenni. Il governo Conte è appeso al filo della relazione annuale sull’andamento della giustizia del ministro Bonafede in Parlamento. Ma troppo lontane appaiono le proposte del guardasigilli e il suo approccio giustizialista, tradotto nelle norme sulla prescrizione. Da qui, l’intenzione di accelerare la presentazione di un nuovo decreto legge il quale interverrebbe a mettere qualche pezza dopo che l’esperienza del servizio Giustizia in epoca pandemica si è dimostrata più che rivedibile: cancellerie bloccate nell’accesso da remoto; indecisione verso le udienze da remoto; molti uffici giudiziaria ancora non digitalizzati e collegati alla rete; processo civile telematico ormai vecchio, processo penale e di cassazione solo alle prime battute telematiche (non senza default); scarsa tenuta dei server e continuità della giustizia sempre più in crisi con frequenti blocchi del sistema (a novembre il sistema dei depositi telematici si è bloccato in tutto il Sud). Questi, in sintesi, comunque, alcuni interventi in via di definizione con il provvedimento d’urgenza, che Italia Oggi può anticipare. Adr. Misure di incentivazione fiscale, sia implementando e semplificando l’attuazione di quelle esistenti, sia introducendone di nuove, per estendere l’utilizzo delle Alternative dispute resolution (risoluzione alternativa delle controversie). Processo civile. Misure per migliorare l’efficienza del processo con riferimento ai temi centrali delle preclusioni processuali, ristabilendo le cadenze temporali per la definizione del thema decidendum, affinché alla prima udienza le posizioni delle parti siano complete e il giudice possa valutare le scelte processuali funzionali alla più rapida definizione del giudizio; principio di chiarezza e sinteticità degli atti delle parti e del giudice; ulteriore accelerazione del giudizio di appello. Arbitrato. Agli arbitri conferire il potere di concedere sequestri ed altri provvedimenti cautelari se previsto dalla convenzione di arbitrato o da altro atto scritto separato redatto anteriormente all’instaurazione del giudizio arbitrale. Spese di giustizia. Meccanismi premiali ove le parti, in casi specifici, concorrano a snellire la fase decisoria in Cassazione, e in materia di digitalizzazione dei pagamenti delle indennità di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89, al fine di accelerare il procedimento di liquidazione. Atti persecutori e misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa di Matilde Bellingeri Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2021 La misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa è stata applicata all’indagato per il reato di cui all’art. 612-bis poiché con reiterate condotte quotidiane di molestia, interrompeva la fornitura dell’acqua del fratello ed alzava il volume della musica, disturbando il figlio nei suoi studi ed in generale inducendo nella famiglia della persona offesa un cambiamento apprezzabile delle abitudini di vita. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 1541/21, depositata il 14.1.2021) precisa i limiti interpretativi del delitto di atti persecutori e della misura ex art. 282 ter c.p.p. che spesso ne accompagna l’accertamento La vicenda - La misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa è stata applicata all’indagato per il reato di cui all’art. 612-bis poiché con reiterate condotte quotidiane di molestia, interrompeva la fornitura dell’acqua del fratello ed alzava il volume della musica, disturbando il figlio nei suoi studi ed in generale inducendo nella famiglia della persona offesa un cambiamento apprezzabile delle abitudini di vita. Avverso la pronuncia del Tribunale del Riesame proponeva ricorso per Cassazione l’indagato. La Corte, ritenendo la prospettazione insufficiente a supportare la tesi accusatoria, ha accolto il ricorso e fornito importanti principi di diritto. I principi di diritto - Lo stalking è un reato abituale che si configura esclusivamente quando le condotte di minaccia o molestia sono tali da causare nella sfera della persona offesa almeno uno degli eventi tipici ivi descritti: perdurante e grave stato di ansia nella vittima degli atti persecutori, fondato timore per la propria o altrui incolumità, costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita. Alla stregua del principio di offensività la norma deve essere interpretata restrittivamente sicché dalla sub specie di “apprezzabile cambiamento delle abitudini di vita” devono essere esclusi i fatti che, sebbene percepiti come fastidiosi, abbiano portato la persona offesa a piccoli, ma irrilevanti, cambiamenti delle abitudini di vita. Ai fini della verificazione dell’“apprezzabile cambiamento delle abitudini di vita” occorre considerare il significato e le conseguenze emotive dell’essere costretti a modificare le proprie abitudini, non essendo sufficiente una mera valutazione quantitativa delle variazioni apportate, attraverso un generico riferimento ai disagi conseguenti alla condotta (nella specie intermittente erogazione dell’acqua e difficoltà del figlio nello studio). In ossequio ai principi di tassatività e determinatezza il Giudice deve sempre precisare i termini in cui si manifesta l’evento e illustrare il ragionamento eziologico all’esito del quale detta alterazione risulta conseguenza apprezzabile e inevitabile della condotta persecutoria. Questi profili sono stati ritenuti assenti nella pronuncia del Tribunale del Riesame, il quale avrebbe erroneamente individuato l’evento dell’alterazione delle abitudini di vita nelle reiterate condotte moleste, pur senza indicare gli elementi fondanti il nesso di causa. Ad avviso della Corte di Cassazione i plurimi interventi sull’impianto di erogazione idrica, unitamente alle immissioni sonore, non sarebbero sufficienti a supportare la tesi accusatoria della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza ex art. 612 bis c.p.; Conseguentemente, anche ai fini dell’applicazione della misura del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa ex art. 282 ter c.p.p. non è sufficiente l’accertamento di un quadro indiziario relativo alla sussistenza di reiterati atti molesti occorrendo, altresì, la presenza di elementi idonei a provare la sussistenza del nesso di causa tra la condotta delittuosa e almeno uno degli eventi tipici previsti ai fini della configurazione del reato. Imponendo all’indagato di mantenere una distanza di almeno 10 metri dalla abitazione della persona offesa e dalle sue pertinenze (ivi compreso l’alloggiamento del contatore idrico), il Tribunale del Riesame avrebbe snaturato la funzione della misura cautelare ex art. 282 ter c.p.p., se si considera come sia stata disposta con riferimento al luogo di collocazione dell’impianto di erogazione dell’acqua - con lo scopo evidente di impedirvi l’accesso - e non, come invece avrebbe dovuto, ai luoghi frequentanti dalla persona offesa. Non si deve dimenticare che il divieto di avvicinamento previsto ai sensi dell’art. 282 ter c.p.p., è stato introdotto nel nostro ordinamento proprio in relazione al reato di atti persecutori, per fronteggiare quelle situazioni di persistente ricerca e avvicinamento alla vittima. Il divieto ex art. 282 ter c.p.p. riferendosi alla persona offesa (e non esclusivamente ai luoghi dalla stessa frequentanti) è espressione di una precisa scelta normativa: consentire alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita sociale in condizioni di sicurezza. Semi-abbandono, la Cassazione introduce “l’adozione mite” per non recidere i legami di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2021 L’ordinanza 1476 depositata oggi ha accolto il ricorso di una madre, pur dichiaratasi incapace di occuparsi della figlia, contro lo stato di adottabilità confermato in Appello. La Cassazione, sulla scorta della giurisprudenza della Corte Edu, introduce nel nostro ordinamento “l’adozione mite”, che non recide cioè il legame con la famiglia biologica, e relega “l’adozione legittimante” al ruolo di extrema ratio utilizzabile unicamente in presenza di una irreversibile incapacità di cura da parte dei genitori. In tal modo si intende dare copertura a tutti quei casi in cui il giudice accerti comunque l’interesse del minore “a conservare il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali”. Con l’ordinanza 1.476 depositata oggi ed ampiamente motivata, la Prima Sezione civile individua anche lo strumento normativo nell’“adozione in casi particolari”, e segnatamente nell’articolo 44, lett era d) della legge 184/1983, qualificata come norma di chiusura ed interpretata estensivamente. I giudici hanno così accolto, con rinvio, il ricorso di una madre contro la decisione della Corte di appello che aveva confermato lo stato di adottabilità della figlia. La decisione, si legge nell’ordinanza, si è “sottratta all’obbligo - sulla stessa incombente - di considerare, compiuti gli opportuni approfondimenti istruttori, il ricorso ad una forma di “adozione mite”, ai sensi dell’art. 44, lett. d), che consenta un graduale recupero del rapporto tra quest’ultima e la madre biologica, in considerazione dell’affetto e dell’interesse dimostrato dalla madre nei suoi confronti”. La Corte territoriale si è limitata “a confermare la dichiarazione dello stato di adottabilità della piccola effettuata dal Tribunale per i minorenni”. Mentre come chiarito dalla Cedu in caso di presa in carico del minore, l’Autorità pubblica deve attivarsi rapidamente “per riunire la famiglia biologica non appena ciò sia possibile”. La bambina era stata sottratta alla mamma all’età di cinque mesi e nei successivi due anni si era proceduto soltanto a due incontri. Successivamente il terremoto delle Marche del 2016 aveva reso inagibile il luogo indicato per i successivi contatti. Contro questi impedimenti fisici la donna, che pure riconosceva di non essere in grado di prendersi cura da sola della figlia, si era sempre battuta svolgendo anche incontri preparatori con gli assistenti sociali. La Cassazione ricorda che, con specifico riferimento alla cosiddetta “adozione mite”, la Cedu ha affermato di essere “ben consapevole del fatto che il rifiuto da parte dei tribunali di pronunciare un’adozione semplice risulta dall’assenza nella legislazione italiana di disposizioni che permettano di procedere a questo tipo di adozione” ma anche che alcuni tribunali italiani “avevano pronunciato, per mezzo di una interpretazione estensiva dell’articolo 44 lett. d), l’adozione semplice in alcuni casi in cui non vi era abbandono”. Alla stregua di tali considerazioni, l’ha concluso che “costituisce un obbligo delle autorità italiane, prima di prevedere la soluzione di una rottura del legame familiare, di adoperarsi in maniera adeguata per fare rispettare il diritto della madre di vivere con il figlio, al fine di evitare di incorrere nella violazione del diritto al rispetto della vita familiare, sancito dall’articolo 8 Cedu” (Corte Edu, 21 gennaio 2014, Zhou c. Italia; conf. Corte Edu, 13 ottobre 2015, S. H. c. Italia). “In presenza di situazioni di semi-abbandono - argomenta la Suprema corte -, nelle quali, cioè, la non piena idoneità genitoriale dei genitori biologici non esclude, tuttavia, l’opportunità della loro presenza nella vita del figlio in considerazione dell’affetto e dell’interesse, da essi comunque dimostrato nei confronti del minore - l’adozione che recida ogni rapporto con il genitore biologico può rivelarsi una scelta non adeguata al preminente interesse del minore”. Da qui l’affermazione del seguente principio di diritto a cui dovrà attenersi la Corte territoriale in sede di rinvio: “L’adozione cd. legittimante che determina, oltre all’acquisto dello stato di figlio degli adottanti in capo all’adottato, ai sensi dell’art. 27, primo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184, la cessazione di ogni rapporto dell’adottato con la famiglia d’origine, ai sensi del terzo comma, coesiste nell’ordinamento con la diversa disciplina dell’“adozione in casi particolari”, prevista dall’art. 44 della legge n. 184 del 1983, che non comporta l’esclusione dei rapporti tra l’adottato e la famiglia d’origine; in applicazione degli artt. 8 Cedu, 30 Cost., 1.n. 184 del 1983 e 315bis, secondo comma, cod. civ., nonché delle sentenze in materia della Corte Edu, il giudice chiamato a decidere sullo stato di abbandono del minore, e quindi sulla dichiarazione di adottabilità, deve accertare la sussistenza dell’interesse del medesimo a conservare il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali, costituendo l’adozione legittimante una extrema ratio cui può pervenirsi nel solo caso in cui non si ravvisi tale interesse”. “Il modello di adozione in casi particolari, e segnatamente la previsione di cui all’art. 44, lett d) della legge n. 184 del 1983, può, nei singoli casi concreti e previo compimento delle opportune indagini istruttorie, costituire un idoneo strumento giuridico per il ricorso alla cd. “adozione mite”, al fine di non recidere del tutto, nell’accertato interesse del minore, il rapporto tra quest’ultimo e la famiglia di origine”. Lazio. Covid-19: tutti vaccinati nelle Rems della Asl Rm5 Ristretti Orizzonti, 26 gennaio 2021 Il Portavoce dei Garanti territoriali, Stefano Anastasìa: “Speriamo che sia di buon auspicio per altre decisioni in ambienti penitenziari”. “A tutti gli ospiti che lo hanno accettato (tutti tranne uno), al personale sanitario e di vigilanza delle Residenze per l’esecuzione della sicurezza (Rems) di Palombara Sabina e Subiaco è stato somministrato il vaccino anti-Covid-19”. Lo riferisce Stefano Anastasìa, Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e Garante regionale di Lazio e Umbria. Due sono le Rems a Palombara Sabina e una a Subiaco. Circa una cinquantina gli ospiti in tutto, pazienti autori di reato che stanno scontando una misura di sicurezza detentiva, affidati alla Asl, perché dichiarati (oppure in valutazione) incapaci d’intendere e di volere. “Mi congratulo con i dirigenti del dipartimento di salute mentale della Asl Rm5 - prosegue Anastasìa - per l’iniziativa che riconosce la condizione di vulnerabilità degli ospiti di queste strutture e l’urgenza della loro vaccinazione, anche per la prosecuzione dei loro percorsi terapeutici. Speriamo che sia di buon auspicio anche per altre decisioni, conseguenti alle dichiarazioni del commissario straordinario per il contrasto all’emergenza epidemiologica, Arcuri, secondo cui, dopo gli ultraottantenni verrà il turno dei lavoratori e dei detenuti in carcere”. Emilia Romagna. Fragole, miele e panettoni per sostenere detenuti e persone con fragilità redattoresociale.it, 26 gennaio 2021 Dall’unione di due Cooperative sociali per le persone svantaggiate tra Parma e Piacenza nasce B-coop. L’assessore regionale alle Attività produttive Colla: “In un momento come quello che stiamo vivendo dare una mano ai soggetti più deboli significa fare coesione sociale”. Due cooperative sociali con sede nel piacentino e nel parmense, con l’obiettivo dell’inserimento lavorativo di persone in condizione di svantaggio sociale e a rischio emarginazione e che insieme danno lavoro ad oltre 250 persone, di cui il 40% fragili, si uniscono per dare vita ad un gruppo che consentirà a entrambe le realtà di essere più radicate nel territorio ed efficaci nel raggiungere i propri obiettivi di responsabilità sociale. Dall’unione di “L’Orto botanico” di Fiorenzuola d’Arda (Pc) e “Biricc@” di Parma nasce B-coop, presentata questa mattina in conferenza stampa, alla presenza del sindaco di Fiorenzuola, Romeo Gandolfi, dell’assessore alle attività produttive della Regione Emilia-Romagna, Vincenzo Colla, del presidente di Legacoop Emilia Ovest, Edwin Ferrari, e dei presidenti delle cooperative fondatrici Giancarlo Anghinolfi e Fabrizio Ramacci. “Un ottimo progetto che sta nella logica della cooperazione, e cioè dare risposte sociali e creare lavoro - ha detto l’assessore Colla. Conosco da tempo il ruolo di queste due cooperative, che ora stanno dando vita a un’importante operazione di sistema, che gli consentirà di rapportarsi meglio con le istituzioni e con il sistema delle imprese”. “Un momento difficile, quello che stiamo vivendo, e proprio in un momento come questo dare una mano ai soggetti più deboli significa fare coesione sociale- ha aggiunto-. Stiamo progettando il futuro, nonostante l’impegno nella lotta contro il Covid, e abbiamo bisogno di ricucire le nostre comunità, dando nuove opportunità”. “La Regione continuerà a fare investimenti in quest’ambito, anche attraverso la Legge regionale 14- ha assicurato Colla-. Anche recentemente abbiamo stanziato nuove risorse per dare risposte al sistema sociale e collettivo, perché queste realtà e gli operatori che ci lavorano, che spesso svolgono il loro lavoro come una missione, devono essere sostenuti”. Le cooperative, leader nelle rispettive provincie nei settori di riferimento e con un fatturato complessivo di quasi 10 milioni, operano prevalentemente nei settori della raccolta rifiuti e manutenzione del verde (L’orto Botanico) e della lavanderia, panificazione e pulizie (Biricc@), e si distinguono perché hanno importanti progetti di sviluppo nelle carceri, in particolare in quelle di Piacenza. Biricc@ inoltre aprirà a breve una lavanderia dentro il carcere di Parma. Insieme hanno creato un gruppo “multiservizi”, che mira a rafforzare progetti innovativi ed inediti per la cooperazione sociale, che si inseriscono nell’ambito del rafforzamento della presenza nella filiera agroalimentare. In particolare, si punta a mettere a sistema i progetti ExNovo, premio Ersi-Innovatori responsabili 2019 e il progetto Il Panettone di Ranzano (ammesso al premio Ersi 2020, in attesa di esito finale). Il progetto Ex Novo della cooperativa L’Orto Botanico si realizza nel carcere di Piacenza, in cui i detenuti sono impegnati nella produzione di fragole, ortaggi e miele, prodotti con criteri di sostenibilità e destinati al mercato locale, in un percorso di riabilitazione sociale e trasferimento di competenze utili a essere “spese”, a fine pena, nella comunità e sostenere la riabilitazione sociale dei detenuti). Il Panettone di Ranzano, prodotto secondo una ricetta tradizionale con processi rigorosamente artigianali, è il frutto del lavoro del Forno Cooperativo di Piacenza e del Forno di Ranzano della cooperativa Biricc@ in cui si sviluppano percorsi di inserimento lavorativo di persone in condizioni di svantaggio sociale e si dà un contributo allo sviluppo economico e civile di territori marginali, quali le periferie cittadine di Piacenza e il borgo dell’appennino Parmense. Trieste. Covid al Coroneo, i detenuti chiedono tamponi mensili di Elisabetta Burla* triesteprima.it, 26 gennaio 2021 È trascorso un anno dalle prime avvisaglie della presenza del virus; a marzo 2020 i primi provvedimenti anche a tutela delle “comunità detentive”, non certo eclatanti i risultati: un numero contenuto di persone hanno potuto usufruire delle misure alternative all’esecuzione della pena, principalmente la detenzione domiciliare. A marzo 2020 questo Ufficio redigeva un appello alla responsabilità evidenziando problematiche e criticità, evidenziando alcuni aspetti della detenzione in carcere: gli spazi troppo contenuti ove si svolge la vita quotidiana in una condizione di promiscuità; l’impossibilità a mantenere il distanziamento sociale; il timore di un possibile contagio in un luogo ove sarebbe stato complicato limitarlo, così come sarebbe stato complicato gestire la quarantena; l’incredibile superficialità dell’opinione pubblica. Nulla è cambiato - A distanza di 10 mesi nulla sembra cambiato, salvo che il timore di un possibile contagio, all’interno della Casa Circondariale, è diventato realtà. Il focolaio ha messo in evidenza tutte le difficoltà nella gestione, in spazi e con risorse inadeguate, del contagio. Non si contesta la gestione del particolare momento visto che da parte dell’ASUGI e dell’allora Direzione della Casa Circondariale - dell’allora Direzione perché Trieste, come tutte le Case Circondariale del Friuli Venezia Giulia eccezion fatta per l’Istituto di Tolmezzo, non ha un proprio Direttore ma un Direttore in missione che si trova a dover gestire, anche in questo delicato momento, come molti altri Direttori, più Istituti in diverse Regioni italiane - sono state poste in essere tutte le cautele e le scelte possibili a tutela delle persone. La richiesta di indicazioni più complete - Ci si sarebbe aspettato un intervento maggiormente garantista, delle indicazioni più complete da parte del Ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, una maggiore collaborazione tra Uffici - ad esempio - per istruire le pratiche relative alle richieste di misure alternative. Invece si è data la precedenza al lavoro agile, al lavoro da casa, con riduzione degli orari di apertura degli uffici e di presenza del personale in un Paese dove la digitalizzazione dei documenti è spesso un miraggio, ove molti sono gli uffici che non sono dotati degli strumenti idonei a operare adeguatamente. E a ben vedere non sono neppure dotati di un numero adeguato di personale. La situazione a Trieste - La Casa Circondariale di Trieste non ha un suo direttore; l’area giuridico pedagogica è composta da tre funzionari due dei quali applicati anche negli Istituti di Gorizia (sprovvisto totalmente di personale) e di Udine, manca di una segreteria tecnica; lamenta un inadeguato numero di agenti di polizia penitenziaria. In una situazione confusa ove le notizie trasmesse appaiono spesso contraddittorie, anche tra i detenuti vi è un prevalente sentimento di timore, timore per un eventuale ritorno del contagio e le conseguenze che lo stesso ineluttabilmente porterebbe, timore per le condizioni della detenzione e per una nuova chiusura alle attività formative che garantiscono un impiego fruttuoso del tempo, permettono il confronto e l’apprendimento, una crescita e un cambiamento; evitano stati di depressione e ciò che da essa consegue. La manifestazione di venerdì 22 gennaio - E sembra strano ma, ancora una volta, si reputa opportuno ricordare che i detenuti sono persone, persone che come tutti temono anche per la propria salute, un diritto inviolabile, fondamentale, un diritto che va, anche a queste persone, garantito in termini assoluti, senza compromessi, un diritto che - a Trieste - hanno voluto rivendicare con una manifestazione pacifica venerdì 22 gennaio 2021 con battitura e con uno sciopero del carrello chiedendo di poter donare il cibo, ad essi destinato, alla Comunità di Sant’Egidio come segno di riconoscenza e perché possano impiegarlo a favore di persone che si trovano in difficoltà. Le persone detenute chiedono di poter eseguire dei controlli periodici - effettuare dei tamponi con cadenza mensile come accade ad esempio nella casa circondariale di Udine - per verificare il loro stato di salute e prevenire eventuali futuri focolai. Le richieste dei detenuti - Chiedono di vedersi garantito il diritto alla salute, garanzia che andrebbe anche a beneficio del diritto alla salute di tutte le altre persone che, a diverso titolo, operano nella locale Casa Circondariale. Come accaduto in precedenza si reputa doveroso ricordare che il carcere non è una bolla isolata, non è un mondo altro totalmente avulso dalla società esterna; è una parte della società, è abitato da persone. Alcune ancora in attesa di giudizio. Incomprensibili, inadeguati e feroci i commenti rilasciati sul post relativo al servizio del TG regionale in relazione alla manifestazione di protesta pacifica. Forse una comunicazione più corretta e meno violenta, una consapevolezza generalizzata dei diritti delle persone, potrebbe costituire un primo passo per cercare di limitare un clima d’odio assolutamente inutile. *Garante per i detenuti di Trieste Bologna. “La mia doppia reclusione da Covid” zic.it, 26 gennaio 2021 L’inchiesta sociale di Zic.it sulla sanità pubblica nella pandemia da Covid-19 continua con la pubblicazione della testimonianza di un detenuto del carcere della Dozza. Sono un detenuto del carcere di Bologna che si è trovato coinvolto nel grave focolaio di Covid scoppiato alla Dozza ai primi di dicembre. Il mio compagno di cella fu trovato positivo al coronavirus dopo avere manifestato i sintomi del contagio, soprattutto la perdita dell’olfatto e dei sapori del gusto. Venne fatto anche a me un tampone rapido che diede un esito positivo. A quel punto fummo entrambi trasferiti dalla sezione dove normalmente siamo collocati al repartino di isolamento Covid dove c’erano altri 27 detenuti risultati positivi al virus. Anche in questo braccio fummo messi in cella assieme. Qui, quasi subito, mi venne fatto un tampone molecolare che diede esito negativo. Il mio compagno di branda, invece, risultò essere ancora positivo. Anche dopo questo esito ci hanno lasciati in cella assieme per altre due settimane. Io avevo imparato, seguendo diverse trasmissioni televisive sulla pandemia, che l’isolamento serviva per separare coloro che hanno un’infezione da Covid accertata (con esito positivo del tampone) e le persone sane. In questo modo si possono predisporre le tutele necessarie per prevenire la trasmissione dell’infezione. La presenza nella stessa cella e lo stretto contatto tra una persona positiva e una negativa era in netto contrasto con le disposizioni sanitarie che tutti conoscevano. Terminato questo periodo di clausura forzata, ad entrambi venne fatto un nuovo tampone molecolare. Io risultai negativo, al mio compagno di cella invece venne ancora diagnosticata la positività. Ci comunicarono che avremmo dovuto sottostare a un altro periodo di quarantena stando ancora undici giorni chiusi insieme nella stessa “camera di pernottamento”. Io, a questo punto, iniziai a fare casino. La quarantena si applica a persone sane, ma che potrebbero essere state esposte al virus, avendo avuto contatti stretti con soggetti infetti. Lo scopo del provvedimento è di limitare e restringere i movimenti e i contatti e serve per monitorare l’eventuale comparsa di sintomi, individuare nuovi casi di infezione e limitare il rischio di nuovi contagi. Ma sei io negativo continuavo a stare segregato con uomo contagiato lo scopo della quarantena andava a farsi friggere. Accettarono di spostarmi, ma mi proposero di andare in cella con un’altra persona positiva. Mi rifiutai e protestai ancora più forte, finalmente mi misero in una cella da solo. E lì restai per altri dodici giorni, poi mi venne fatto un altro tampone. Mi venne di nuovo confermato l’esito negativo; a quel punto fui riportato finalmente al reparto penale, dove solitamente sono recluso. Questo isolamento è stato particolarmente duro. Quasi un mese di cella, ventiquattro ore su ventiquattro, senza mai uscire, che va aggiunto al mese di isolamento per il dopo-rivolta di marzo e all’altro mese per il primo lockdown. Questi giorni non finivano più. All’inizio ho cercato di non far sapere ai miei famigliari che ero in isolamento per il Covid, ma poi, dato che i colloqui non li faccio da tempo, il fatto di non utilizzare neppure le video-chiamate li ha fatti angustiare di più. E, quindi, per fare in modo che non andassero nel panico, ho fatto arrivare a loro la notizia. In quei giorni interminabili di reclusione totale vedevo solo il detenuto/lavorante; il medico passava una volta al giorno, ogni tanto due. Poi c’era il giro dell’infermiere la mattina e la sera. Gli agenti si facevano vedere poco, avevano molta paura del contagio e, quando arrivavano, erano tutti bardati con strumenti protettivi. Ho pensato molte volte a mia madre, alle mie sorelle e ai miei nipotini. Spesso ho riflettuto sulla morte e su come sarebbe stata la mia vita se mi fossi ammalato davvero. Non so dire se, effettivamente, avevo paura per la mia vita. Piuttosto temevo di non potere più vedere i miei cari e la cosa mi faceva andare giù di testa. Ho avuto comunque anch’io i miei momenti di panico, pensavo al fatto che qua in carcere non conto niente, che non sono nessuno, perciò vivo o morto sarebbe stato uguale. In quegli attimi mi sono ricordato di un vecchio detto del mio paese: “La carne davanti al macellaio non può dire nulla. Lui la taglia a pezzi e decide solo lui come tagliarla”. Un’altra ossessione è stata la preoccupazione di rimanere infettato dal lavorante. Questo detenuto passava da una cella all’altra del reparto Covid, protetto il giusto. Io tutte le volte che ho potuto non ho preso niente dal carrello della cucina. Compravo qualcosa di confezionato alla spesa del sopravvitto e mangiavo quello. Chi, invece, non aveva quella possibilità, chi non aveva nemmeno gli spiccioli per comprarsi il tabacco, era messo ancora peggio. Tante volte ho sentito le urla di disperazione di chi, in cella, non aveva nulla, perché non aveva soldi per fare la spesa. Quante notti sono stato svegliato da chi gridava per avere una sigaretta. Mettete insieme tutte queste cose e unitele alla paura dell’infezione, non vi sarà difficile capire come farsi prendere dalla disperazione diventi quasi normale. Per esempio, un mio paesano, rinchiuso anche lui al reparto Covid, una sera sbraitava come un indemoniato, gridava che non ce la faceva più, che si voleva uccidere. Le guardie, dal corridoio, gli dicevano di calmarsi e di non fare cazzate, lui, naturalmente, non ne voleva sapere di quei consigli inutili. Chiesi agli agenti di aprirmi e che mi lasciassero andare a parlargli. All’inizio non ne volevano sapere, poi anche loro si convinsero che forse era la cosa più intelligente. Andai davanti alla cella di quell’uomo e gli dissi che la nostra religione, come aveva aiutato me, poteva aiutare anche lui. Se lui si fosse suicidato, la sua vita sarebbe finita lì, ma per la sua famiglia e per i suoi figli come sarebbe stata? Cosa avrebbero pensato di lui? Gli ho parlato e sono riuscito a calmarlo e la cosa è stata molto utile anche a me. Per fortuna questa storiaccia del Covid, qua dentro, non sembra così allargata come lo era un mese fa. I numeri attuali non danno l’impressione di essere molto alti e ci dicono che si riesce a tenere il tutto sotto controllo. Da un po’ di tempo sono stati riaperti gli spazi dell’aria, la palestra invece è ancora chiusa, ma questo succede anche fuori. Questa “mezza normalità” mi permette di riprendere, anche se non a pieno regime, la vita a cui mi ero attrezzato per resistere… E, per passare il tempo, tornerò a contare i giorni che mi mancano alla fine della pena. Il miraggio della libertà è per tutti noi il fondamento delle nostre giornate da reclusi. Spero soltanto che, quando me ne andrò da qua, anche il Covid se ne sia andato, non ce la farei a sottostare ad altre limitazioni. Lettera firmata Rieti. Progetto Freesooner: nella Casa circondariale si lavora per il reinserimento frontierarieti.com, 26 gennaio 2021 Entra nella seconda fase il progetto Freesooner, finanziato dalla Regione Lazio e dedicato al reinserimento socio lavorativo dei detenuti della casa circondariale di Rieti Il progetto Freesooner, finanziato dalla Regione Lazio, è dedicato al reinserimento socio lavorativo dei detenuti della casa circondariale di Rieti. Dopo la prima fase di presa in carico individuale di circa 15 ospiti dell’istituto penitenziario, ora si entra nel vivo con il secondo step, quello dedicato all’orientamento. Collaborano allo svolgimento delle attività l’Associazione Made in Jail, capofila, ed i partner Consorzio Ro.Ma. e Cooperativa Sociale Tiche. Un’Ats di grande valore ed esperienza: da tempo le tre realtà coinvolte si occupano specificatamente delle realtà penitenziarie, delle categorie sociali svantaggiate e di pratiche riabilitative e di reinserimento nell’ambito delle dipendenze. L’attuale macro fase di orientamento, partita a ridosso delle festività natalizie, durerà circa un anno ed accompagnerà il gruppo nella costruzione di un bilancio personale e professionale utile alla stesura del progetto individuale. Le attività principali di questo anno di lavoro saranno sei: ci sarà una sezione dedicata alla conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’ambito delle relazioni personali sia in quello della vita politica e sociale, che oltre ad avere come scopo generale quello di innalzare il livello di autostima dei detenuti, si occuperà di far raggiungere loro obiettivi concreti. Seguirà una fase di accompagnamento finalizzata ad organizzare l’approccio con il mondo del lavoro, dalla stesura del curriculum, alla candidatura per una determinata occupazione, fino alla conoscenza di alcuni aspetti normativi che regolano i rapporti. Accanto a queste attività verranno condotti dei laboratori pratico-inclusivi dedicati al lavoro in organizzazioni cooperative, alla trasformazione di prodotti agricoli e, infine, alla serigrafia intesa anche come mezzo di comunicazione d’impatto. Tutto il percorso sarà accompagnato da un sostegno psicologico e supporto familiare, fondamentale per il reinserimento a 360 gradi del detenuto. Il progetto, infatti, sposa a pieno la convinzione che per assolvere adeguatamente al ruolo rieducativo, è necessario comporre tutti gli elementi del processo reintegrante in una visione ed azione d’insieme. “Purtroppo - si legge in un comunicato stampa di presentazione del progetto - nonostante la riforma penitenziaria del 2018 fosse tesa ad intendere l’esecuzione penale come rispettosa della dignità umana, uniformata ai valori costituzionali ed in linea con le risoluzioni internazionali, gli istituti penitenziari sono travolti quotidianamente da una serie di problemi che ancora non trovano soluzione. L’insufficienza e l’inadeguatezza delle risorse umane e materiali, la presenza di un’utenza penitenziaria diversificata ed eterogenea, l’inefficacia di alcuni approcci rieducativi e la cronica situazione di sovraffollamento determinano, il più delle volte, situazioni esplosive, che non solo generano disorientamento, ma non hanno nessuna finalità rieducativa e di reinserimento sociale”. “Il progetto - conclude la nota - vuole essere incisivo proprio in questa direzione, evitando azioni massive e generalizzate, ma personalizzando gli interventi, avendo bene a mente l’evoluzione individuale del condannato, solo così sarà possibile realizzare un progetto di vita riabilitante e riqualificante della persona e della sua dignità”. Napoli. Al via “Dona un libro a un detenuto”, iniziativa a favore degli ultimi anteprima24.it, 26 gennaio 2021 La Tienda Equosolidale promuove l’iniziativa “Dona un libro ad un detenuto”. Si può quindi regalare un libro a chi si trova in carcere permettendogli di trascorrere del tempo ed evadere dal carcere con la mente per qualche momento. L’iniziativa sta avendo un successo enorme. Arrivano libri da tutta Italia. La raccolta è prorogata a metà febbraio. Una richiesta nobile quindi da parte de La Tienda Equosolidale che per dare più forza all’evento chiede anche un supporto morale. Chiunque decida di donare un libro è infatti invitato a scrivere un piccolo messaggio di speranza ai detenuti. Per partecipare quindi al progetto “Dona un libro a un detenuto” basta recarsi in loco (Vomero, via Solimena 143) oppure inviare il libro per posta. Questi libri saranno poi distribuiti nelle carceri campane. Salvatore D’Amico, che da anni lotta per i diritti degli ultimi ed è riuscito a distribuire ben 30 mila pasti caldi nel corso del suo operato, ha voluto rilasciarci queste dichiarazioni: “Noi come Tienda Equosolidale da anni attiviamo iniziative a favore delle fasce più deboli della popolazione. Un mese fa abbiamo fatto raccolta di coperte per i senza tetto. Un anno fa abbiamo invece fatto una raccolta di farmaci sempre per queste stesse persone. In passato abbiamo ospitato il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello ed il garante cittadino dei detenuti Pietro Ioia. Inoltre anche l’Associazione Giancarlo Siani e la cooperativa Lazzarella del carcere di Pozzuoli. Siamo molto attenti a sostenere e promuovere tutti i prodotti del sud del mondo compresi tutti i piccoli produttori campani che non trovano spazio sul mercato perché il mercato sta in mano ai grandi gruppi capitalistici”. E la toga fu promossa. Palamara: così fan tutti di Valentina Errante Il Messaggero, 26 gennaio 2021 Esce oggi il libro-intervista “Il Sistema”, in cui l’ex pm, radiato a ottobre dalla magistratura, racconta ad Alessandro Sallusti la sua verità sulla vicenda che l’ha coinvolto e svela il lato oscuro del mondo giudiziario italiano. Tra pressioni politiche, carriere e correnti di potere. Parla con Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, Luca Palamara il pm radiato dalla magistratura e attore principale di quel risiko delle nomine che l’ha portato sotto procedimento disciplinare, mentre è anche a rischio processo per corruzione a Perugia. Parla e racconta quello che da mesi vorrebbe che tutti sapessero, perché il sottotitolo di questo volume, edito da Rizzoli (pagg 205, euro 19) è “Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana”. Il concetto, declinato nei dettagli nella lunga intervista, è che, a partire dal 2008, nessuna nomina è sfuggita alle logiche e agli accordi tra le correnti della magistratura: in tutti gli uffici giudiziari. Ma Palamara racconta di più: quanto sulle scelte del Csm pesino le pressioni dello Stato, come sarebbe accaduto per la nomina di Francesco Lo Voi a capo della procura di Palermo, il candidato che ha meno titoli dei suoi avversari, ma è “meno rigido sull’inchiesta che riguarda la Trattativa Stato Mafia”. E ricorda le parole di Nicola Clivio al plenum al momento dell’elezione: “Sono venuto a Roma per vedere come funziona il potere. Oggi l’ho capito e sono rimasto sconvolto”. Nella versione dell’ex pm romano, i dialoghi intercettati all’hotel Champagne a maggio 2019, dal trojan piazzato sul suo telefono dalla procura di Perugia, sono solo un piccolo episodio della cronaca ordinaria. “Normalmente funziona che se le correnti si accordano su un nome, può candidarsi anche Calamandrei, padre del diritto, ma non avrà alcuna possibilità di essere preso in considerazione”, dice Palamara. Racconta di pranzi, cene e incontri, ai quali hanno preso parte proprio le toghe che lo hanno accusato, e durante i quali si decidevano gli incarichi. Incontri anche con persone poi travolte dalle inchieste, come il consigliere di Stato Riccardo Virgilio o l’imprenditore Fabrizio Centofanti. E di come lui stesso abbia avuto un ruolo anche nelle nomine di tre vice presidenti del Csm, del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e di come quest’ultimo, oggi presidente del Tribunale Vaticano, abbia influito sulla scelta del capo dei pm a Palermo e sia riuscito a designare i suoi aggiunti nella Capitale. Ma non c’era incarico che sfuggisse al controllo. Con le alleanze sui nomi che diventavano un segno di forza. L’ex pm avvalora in qualche modo il mantra berlusconiano sulle toghe rosse, spiega però che non c’è una magistratura di sinistra, ma che “il nemico è la non sinistra”, così il Sistema espelle chi viola le regole non dette. Nel dettaglio, Palamara racconta il retroscena nella presa di posizione dell’Anm, che presiedeva all’epoca, rispetto all’allora magistrato Luigi De Magistris, titolare dell’inchiesta Why not. E Palamara dà anche una spiegazione politica alla sua espulsione “Quando ho toccato il cielo, il Sistema ha deciso che dovevo andare all’inferno”. Aveva tradito, pensava di essere così forte da potere dettare le regole. L’errore è stato schierarsi con i renziani, i rottamatori. E persino l’ex premier Matteo Renzi avrebbe commesso un errore fatale, pensare di potere nominare l’attuale capo della procura di Catanzaro Nicola Gratteri, ministro, senza avere consultato le correnti. Per Palamara il sistema al quale è stato organico e che lo ha espulso vive in osmosi con la politica ed è capace anche di condizionarla. Un lungo capitolo è dedicato alle vicende giudiziarie che hanno riguardato Silvio Berlusconi e alla caduta del suo governo, nel 2011. “Tutti quelli - colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni molti dei quali tuttora al loro posto - che hanno partecipato con me a tessere questa tela, erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo” dice Palamara. Il “Sistema”, sostiene, “è il potere della magistratura, che non può essere scalfito: tutti coloro che ci hanno provato vengono abbattuti a colpi di sentenze, o magari attraverso un abile cecchino che, alla vigilia di una nomina, fa uscire notizie o intercettazioni sulla vita privata o i legami pericolosi di un magistrato”. Palamara, a posteriori ricostruisce, e spiega che nel 2017, quando ha pensato di violare gli accordi tra correnti e far nominare al vertice della Cassazione i suoi candidati, è cominciata la caduta. E spiega anche quella sua ultima partita, quando anziché schierarsi con la corrente di centro decide di allearsi con quella di destra per la nomina di Marcello Viola alla procura di Roma. E conclude: “Continuerò a difendermi nel processo e ho rispetto per i pubblici ministeri di Perugia, ma sono convinto che altri abbiano usato me per stoppare una nomina che altrimenti non avrebbero avuto la forza di fermare in altro modo”. Dopo avere ricostruito nel dettaglio le fortune e le sciagure professionali di alcuni suoi colleghi, Palamara conclude: “Con il senno di poi ho fatto un azzardo: smarcarmi definitivamente da quella sinistra ideologica anti-renziana con la quale avevo condiviso la lottizzazione della magistratura, oltre che la gestione politica della giustizia. Il primo ex consigliere del Csm, radiato dall’ordine giudiziario (intanto ha presentato un ricorso) è fiducioso di poter tornare a indossare la toga, almeno così dice a Sallusti. Anche se non crede affatto che le regole del Sistema cambieranno mai. Povertà, le nuove code da Covid: ecco gli aiuti per chi è in difficoltà di Paola Pica Corriere della Sera, 26 gennaio 2021 Logistica d’avanguardia, tracciamento, distribuzione. Le organizzazioni assistenziali come Emergency, Caritas e il Banco Alimentare si sono “reinventate”. Obiettivo: far fronte alla crescente domanda di cibo. Sullo schermo nel suo ufficio di via Santa Croce a Milano millecinquecento segnalatori rossi colorano la cartina della città, dal centro alle periferie: i puntini sono le famiglie che ricevono da Emergency la spesa alimentare e di prodotti per l’igiene. “Il necessario per una settimana a un nucleo di quattro persone. Ogni mese ricontattiamo le famiglie, per sapere come stanno e valutare se sono n grado di uscire dal programma o meno” dice Marco Latrecchina, coordinatore di Nessuno Escluso, il primo progetto di Emergency fuori dall’ambito sanitario. L’onda alta della povertà da precarietà ha incontrato una risposta senza precedenti dell’intero Terzo settore. Che ha saputo aggregare nuovi soggetti, tanti giovani, e fare un salto collettivo di efficienza e “accountability” riconosciuto dalle istituzioni. Racconta Latrecchina: “Non ci sostituiamo a chi si occupa da sempre di sfamare l’umanità, offriamo quello che sappiamo fare in emergenza: 1. Accesso, tutti devono poter ricevere aiuto. 2. Triage, valutazione della vulnerabilità 3. Tracciabilità, lavoriamo sulla nostra piattaforma digitale sappiamo tutto del cibo in transito e del suo corretto arrivo a destinazione”. I numeri della povertà in impennata - Della riorganizzazione in corsa sui nuovi bisogni di chi prima della crisi poteva ancora sbarcare il lunario, mettere i figli a tavola e pagare le bollette, fanno esperienza le migliaia di reti territoriali in tutto il Paese. Reti di aiuto di ultima generazione che rispondono a nuove fragilità: le code per il pane vanno allungandosi con l’affacciarsi, a fianco degli ultimi, dei nuovi “penultimi”, colf e commesse, lavoratori dello spettacolo e dei centri sportivi, non di rado insegnanti di scuole private. Salvamamme, l’associazione nata a Roma una ventina di anni fa per le donne e i loro bambini vittime di violenza domestica ha allargato il raggio d’azione fino ai papà separati, agli anziani, alle intere famiglie. E accanto allo storico trolley, la valigia di salvataggio “per non tornare indietro” che contiene tutto l’occorrente per madre e figli nelle prime 72 ore in fuga, Salvamamme distribuisce ora pacchi alimentari. Spiega Gabriella Salvatore, criminologa dell’associazione: “In pochi mesi abbiamo quadruplicato l’attività, reinventandola per lavorare in sicurezza in sede e nelle consegne a domicilio, o in ospedale, dove recapitiamo pigiami e altro. Alle famiglie forniamo pacchi alimentari per una decina di giorni, in relazioni sempre monitorate e protocollate”. Lo sforzo di Banco Alimentare e Caritas. Il Banco Alimentare uno dei principali fornitori di derrate ha visto crescere del 40%, quest’anno, le richieste delle circa 8 mila strutture caritative servite, una rete che a sua volta assiste 2,1 milioni di persone, tra nuovi poveri e indigenti cronici. In certe zone le famiglie precipitate in povertà sono cresciute anche del 200% come è avvenuto nel profondo Nord della zona di Cernusco sul Naviglio dove da 34 sono balzati a 134 i nuclei che in questo caso la Caritas sta mettendo in sicurezza. Il presidente del Banco Giovanni Bruno conferma come molte nuove realtà di aiuto si siano messe in movimento in questi 10 mesi, solo il Banco Alimentare ne ha accolte 500 in più. “Ma se la risposta è stata fin qui straordinaria - avverte Bruno - non è sempre automatico che quando aumenta la domanda di beni materiali aumenti di conseguenza l’offerta. Specie quando le risorse, come in una pandemia, vengono drenate dal settore sanitario. E quello che è potuto accadere in Italia è frutto di un’alta specializzazione. Non bastano i soldi - argomenta il presidente del Banco - e nemmeno le donazioni di cibo. Bisogna saper recuperare, conservare, stoccare, distribuire, tracciare”. Dal tir di frutta e verdura donato dal produttore al piatto dell’indigente i passaggi della logistica non sono secondi a quelli della grande distribuzione. Nel 2019 il solo Banco Alimentare ha gestito 75mila tonnellate di cibo che nel 2020 sono salite a 95mila. Del numero di coperti ci si può fare un’idea considerando che l’unità di misura convenzionale di un pasto è il mezzo chilo. La paura della fine del blocco dei licenziamenti - La preoccupazione di Giovanni Bruno, come del resto quella dell’intero Terzo settore, è sul “cosa accadrà con la fine del blocco dei licenziamenti e l’avvio alla precarietà di un milione di persone, il numero è una stima di Confindustria”. Intanto si fanno i conti con le risorse a disposizione in Italia e in Europa e qui il quadro si fa complesso. Ma vale la pena di approfondire. Come sono costruiti il sacchetto della spesa gratuita di Pane Quotidiano e il pranzo alla mensa della Caritas? O, ancora, le 120 cene calde che ogni sera, dal lunedì al venerdì, il food truck di Progetto Arca offre ai senza fissa dimora con il cestino di colazione e pranzo del giorno seguente? Le donazioni di derrate delle aziende, il recupero delle eccedenze o dei prodotti in scadenza e il sostegno economico di Fondazioni o filantropi privati sono fonti importanti, non le uniche. L’aiuto materiale si avvale di finanziamenti pubblici dell’Europa e dello stesso governo italiano. Nel primo caso, Bruxelles, il 2020 è stato l’ultimo dei sette anni del Fead (Fund for european aid for the most deprived) che quest’anno - ma la discussione è ancora in corso - verrebbe assorbito dall’Esf+ (European social fund plus). L’obiettivo del “merger” è di integrare i bisogni alimentari con quelli di inclusione sociale. Un passaggio anche culturale importante promosso dalla presidente della Ue von der Leyen in “My Agenda for Europe”. La fusione Fead-Esf, però, sembra portare con sé una diversa distribuzione delle risorse, in misura minore destinate all’alimentazione, e una novità digitale assai controversa. “Diciamo - spiega ancora Bruno - che ci sono correnti di pensiero diverse. Si pensa, a Bruxelles, a introdurre i voucher con i quali i bisognosi possano far la spesa al supermercato. Le reti sul territorio - Ma le reti sul territorio, insieme al cibo, offrono la relazione e lavorano alla ricostruzione del tessuto sociale. Una cosa ben diversa! Per combattere la povertà non basta conoscere i bisogni, bisogna conoscere i bisognosi”. Accanto al fondo europeo, i cui finanziamenti 2014-2020 faranno sentire i loro effetti fino al 2023, c’è il cofinanziamento italiano. Negli ultimi sette anni, ai 670 milioni circa attribuiti dalla Ue all’Italia (uno dei Paesi con il più alto tasso di povertà e di stanziamenti comunitari) il governo ne ha aggiunti 118 circa. Nell’annus horribilis 2020, però, lo sforzo nazionale è stato ben più ampio con circa 300 milioni aggiuntivi contenuti nei decreti Cura Italia e Rilancio 2. E va riconosciuto all’ex ministra Teresa Bellanova di aver blindato il meccanismo circolare che lega la spesa alimentare per i poveri al sostegno della filiera agroalimentare italiana. Gli aiuti nella manovra economica - Altri 40 milioni di aiuti per il 2021 sono stati inseriti nella manovra economica. Le risorse italiane A gestire i flussi sono da una parte il ministero del Lavoro (che riceve i fondi) dall’altro il ministero dell’Agricoltura che attraverso il braccio operativo Agea gestisce acquisti e bandi. Le grandi realtà come Caritas, Croce Rossa, o lo stesso Banco, si approvvigionano direttamente da Agea (Agenzia per le erogazioni) e poi trasferiscono le derrate alle strutture accreditate che sono oggi complessivamente più di 10 mila. Ogni risorsa va impiegata nei tempi previsti e rendicontata e sottoposta ad audit e sebbene il Terzo settore abbia mostrato capacità e trasparenza di gestione, molto del lavoro resta in capo agli uffici della pubblica amministrazione. Da qui la proposta sostenuta da Giampaolo Silvestri, segretario generale di Avsi, Ong che con il Comune di Milano e Croce Rossa Italiana, sta realizzando il progetto Building Hope (finanziato da Usaid), di affidare i fondi del piano Next Generation Eu “direttamente alle realtà del Terzo settore che hanno dimostrato di saperli spendere con trasparenza e documentando i risultati”. I poveri pagheranno la crisi per dieci anni di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 26 gennaio 2021 Rapporto Oxfam “Il virus della democrazia”: “Dieci milioni di italiani non hanno risparmi per sopravvivere allo choc della crisi. Gabriela Bucher, direttrice di Oxfam International: “Potremmo assistere ad un aumento esponenziale delle disuguaglianze, come mai prima d’ora. Una distanza tanto profonda tra ricchi e poveri da rivelarsi più letale del virus stesso”. Gli infermieri chiamati “eroi” perché rischiano la propria salute curando i malati Covid nelle corsie di ospedale dovranno lavorare 127 anni per guadagnare quanto uno dei 36 miliardari italiani la cui ricchezza è aumentata di oltre 45,7 miliardi di euro da quando è stato dichiarato il lockdown totale nel marzo 2020. La proporzione è stata stabilita da Oxfam nel rapporto “Il virus della disuguaglianza” pubblicato in occasione dell’apertura dei lavori del World Economic Forum di Davos. Per i “super ricchi”, un migliaio di persone nel mondo, la recessione non solo è già finita dopo nove mesi, ma è diventata un’occasione di guadagno. Lo dimostra il fondatore di Amazon Jeff Bezos che ha superato i 180 miliardi di dollari in patrimonio personale. I 78,2 miliardi guadagnati nella crisi basterebbero per dare 105 mila dollari a ciascuno dei suoi dipendenti, ha scritto l’ex segretario Usa al lavoro Robert Reich. I 104 miliardi di dollari di profitti realizzati da 32 multinazionali avrebbero potuto garantire l’indennità di disoccupazione a tutti i lavoratori e reddito di base per bambini e anziani nei paesi a basso e medio reddito. Per tutti coloro che sono costretti a lavorare per vivere ci vorranno oltre 10 anni per tornare al modesto livello di reddito precedente alla crisi attuale provocata dalle decisioni prese per mitigare l’impatto del Sars Cov 2. I lavoratori e i lavoratori poveri, già colpiti dall’onda lunga della crisi del 2007-8 dovranno cioè affrontare le conseguenze prodotte dodici anni dopo dalla crisi prodotta dall’agribusiness che ha trasformato il mondo in una fattoria globale e ha prodotto e diffuso il virus, ha messo in ginocchio il capitalismo e ha mostrato la sua iniquità e inadeguatezza. Sfruttamento, razzismo e oppressione sociale stanno potenziando all’inverosimile le diseguaglianze. Il sondaggio realizzato da Oxfam tra 295 economisti in 79 paesi, tra cui Jeffrey Sachs, Jayati Ghosh e Gabriel Zucman, conferma un significativo aumento delle disparità nel reddito, nelle tutele, nella salute, nell’istruzione, nel diritto all’abitare. Senza un ribaltamento dei rapporti di forza entro il 2030 oltre mezzo miliardo di persone in più vivranno in povertà, con un reddito inferiore a 5,50 dollari al giorno, sostiene la Banca Mondiale. “Potremmo assistere ad un aumento esponenziale delle disuguaglianze, come mai prima d’ora. Una distanza tanto profonda tra ricchi e poveri da rivelarsi più letale del virus stesso” sostiene Gabriela Bucher, direttrice di Oxfam International. Sono le donne ad avere subito i danni maggiori dalla crisi, perché impiegate nei settori più duramente colpiti dalla pandemia: le professioni sanitarie e i lavori sociali e di cura. La pandemia uccide in modo disuguale anche a seconda delle etnie. Negli Stati Uniti 22 mila cittadini afro-americani e latino-americani sarebbero ancora vivi se il loro tasso di mortalità fosse stato uguale a quello dei bianchi. Il Focus “Disuguitalia”, diffuso ieri da Oxfam, permette di capire quanto inadeguata sia stata la strategia dei bonus temporanei e occasionali scelti anche dal governo italiano uscente per rallentare gli effetti della crisi, senza però creare le premesse di riforme strutturali universalistiche ispirate alla giustizia sociale. Dieci milioni di italiani più poveri non hanno risparmi sufficienti (sotto i 400 euro) per sopravvivere senza un lavoro precario. La Banca d’Italia ha dimostrato come il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, l’estensione della Cig e blocco licenziamenti, misure estemporanee come il “reddito di emergenza” abbiano contenuto la catastrofe senza fermarla. È in corso un crollo dei redditi, a partire dal lavoro autonomo al quale è stato riservato un simbolico ammortizzatore sociale chiamato “Iscro” inadeguato. La valanga temuta con la fine del blocco dei licenziamenti è già reale tra le partite Iva povere, i precari con contratti a termine non rinnovati, intermittenti e poveri nell’economia sommersa. Sono i conti che saranno fatti pagare a questa e alla prossima generazione. Giorno della Memoria, l’Anpi si mobilita: “Ma non vogliamo che sia solo una celebrazione” di Marino Bisso La Repubblica, 26 gennaio 2021 Testimonianze, dirette on-line, letture e concerti: sessanta appuntamenti da Treviso a Catanzaro. Il presidente dell’Associazione partigiani, Pagliarulo: “Saranno iniziative di memoria attiva”. E anche le Reti di Psicologi per i Diritti Umani in occasione del 27 gennaio organizzano un webinar per celebrare il diritto alla vita. Mentre wikipediani e wikimediani da tutta Italia saranno impegnati in una maratona per tenere vive le voci correlate a Negazionismo e Olocausto. Testimonianze, dirette on-line, letture e concerti. Sessanta iniziative in sessanta città: da Treviso a Catanzaro. Così l’Anpi, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ha mobilitato tutti i comitati provinciali in occasione della Giornata della Memoria. Una ricca programmazione di incontri (tutte le iniziative sul sito: https://www.anpi.it/eventi/) non solo per non dimenticare le vittime del nazismo e del fascismo. Ma anche per guardare avanti, in modo attivo, e denunciare i nuovi pericoli legati al negazionismo e alla formazione di nuovi gruppi che si richiamano a quella ideologia della morte che tra il 1933 e il 1945 provocarono circa 17 milioni di vittime tra ebrei, prigionieri di guerra, oppositori, omosessuali, zingari e gruppi religiosi. “Il 27 gennaio il Paese si raccoglierà intorno a volti e vicende che hanno segnato tragicamente la storia del ‘900. L’Anpi auspica fortemente che questo giorno non si esaurisca in una pur necessaria celebrazione, in una banalizzazione di un evento mostruoso per l’umanità, bensì sia un momento di riflessione coinvolgente, la base di un messaggio di civiltà, antifascismo, e democrazia che proviene dal sangue dei campi di concentramento” sostiene il presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo. “La chiamiamo memoria attiva, perché il ricordo non ha senso se non si esercita la sua portata educativa nel presente - aggiunge Pagliarulo - ogni giorno, ogni incontro, ogni impegno, ogni battaglia. È un dovere, oltreché l’unico omaggio possibile, perché tangibile e duraturo, alle vittime della deportazione e ai combattenti per la libertà”. E guarda avanti anche l’iniziativa promossa dall’Associazione ReDiPsi - Reti di Psicologi per i Diritti Umani. In occasione di mercoledì 27 gennaio, dedicato al settantaseiesimo anniversario della liberazione dei deportati di Auschwitz, ha organizzato il webinar per celebrare il Diritto alla vita, sancito dall’articolo 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948. “Sarà un momento di confronto sul rispetto della vita, sull’uguaglianza, sulla libertà - spiegano dall’Associazione ReDiPsi - sui diritti umani fondamentali, nonché della memoria storica”. Nel corso dell’incontro (il programma è disponibile sul sito: www.redipsi.com) si alterneranno le riflessioni di Pietro Barbetta, Psicologo, Psicoterapeuta e fondatore di ReDiPsi; Manuela Tomisich, Psicologa, Psicoterapeuta e fondatrice di ReDiPsi. Giacinto Di Pietrantonio, Docente di Storia dell’Arte all’Accademia Brera di Milano, Critico e Curatore d’Arte; Corrado Levi, Artista crossover, docente, critico e collezionista. Modererano: Gabriella Scaduto, Psicologa, psicoterapeuta e Presidente di ReDiPsi; Riccardo Bettiga, Psicologo, Psicoterapeuta, Garante Regionale dei Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. E per il terzo anno consecutivo, anche Wikipedia si mobilita per il Giorno della Memoria. Wikipediani e wikimediani da tutta Italia, impegnati sui “Progetti: Persecuzioni, deportazioni e crimini del periodo nazi fascista e Donne e Shoah”, parteciperanno alla Giornata della Memoria. Quest’anno, a causa della pandemia, gli eventi si svolgeranno on-line (https://tinyurl.com/memoria-eventi). Il programma del 27 gennaio è dedicato a: Negazionismo e Olocausto: gli Eichmann di carta. Una maratona di voci sul negazionismo e l’Olocausto che saranno create e alcune migliorate, in diretta, da diversi wikipediani italiani. Giorno della Memoria. Il ricordo non basta, si deve anche narrare di Elena Loewenthal La Stampa, 26 gennaio 2021 Qual è il senso del Giorno della Memoria? La distanza da quel passato segna oggi un momento particolarmente fragile: la voce dei testimoni si va spegnendo a poco a poco. La perdiamo perché il tempo è inesorabile. Come faremo, da domani in poi, ad ascoltare ciò che è stato? Se ogni commemorazione è ipso facto un rituale e come ogni rituale si fonda sulla ripetizione, il rischio che la monotonia conduca verso un inconsapevole ma irreversibile svuotamento di senso è più che mai insidioso. La Shoah è stato un evento tanto assurdo quanto reale, come ha detto Primo Levi: “Comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Quel buco nero della storia esercita l’effetto opposto del suo corrispondente interstellare, dall’invincibile forza di attrazione. La Shoah respinge lontano da sé: è una storia cui nessuno vorrebbe appartenere, riconoscere come propria. “Non ci riguarda!”: la dismissione di quel passato è la reazione più istintiva, immediata. Non si è disposti a immedesimarsi né con le vittime né con i carnefici né tantomeno con la ben più vasta umanità di passivi testimoni, in quegli anni. Tutta l’Europa lo era. Questo istintivo respingimento ha due effetti, deleteri ciascuno a suo modo. Troppo spesso le celebrazioni del Giorno della Memoria diventano un atto di omaggio alle vittime, nel segno dell’alterità. “È capitato a loro, non può capitare a noi”. E invece la memoria della Shoah dovrebbe servire proprio a sentire quella storia come uno scomodo, doloroso e insopportabile ma comune portato. Quella storia siamo noi. L’altro aspetto, ancor più grave, è la deriva di violenza, simbolica, verbale ma anche fisica, che accompagna questo periodo. In questi giorni più che nel resto dell’anno si assiste a scatti di intolleranza, di antisemitismo, di cieco negazionismo. Bisogna, dunque, trovare il coraggio di connettere una cosa all’altra, e provare a capire come mai. Perché la memoria, e più che mai questa memoria, è una cosa fragile, delicata. Terribilmente vulnerabile. Misurarsi con quel passato è difficile: questo dobbiamo sapere. Proprio perché esso non appartiene agli ebrei, ai tedeschi, ai fascisti, ai partigiani. Appartiene a tutti, tutti gli apparteniamo. Allora, con il tempo che spegne le voci dei testimoni, la distanza che ci offre un’illusione di riparo, il rito del ricordo che sistema la coscienza, bisognerebbe provare a fare della memoria qualcosa di diverso. Come quando, ad esempio, diventa narrazione e persino creazione letteraria, e si dimostra capace di innescare un meccanismo di com-passione che è forse l’unico modo vero per vincere ogni distanza e provare a “sentire” quel che è stato. Ma la memoria deve soprattutto diventare interrogazione. Ayekha? “Dove sei?”, è la prima domanda che viene al mondo nella Bibbia. La pronuncia Dio in cerca di Adamo, che si è nascosto dopo aver assaggiato il frutto proibito. “Dove sei?”, è l’insopportabile ma necessaria domanda che l’uomo e Dio si lanciano a vicenda lungo la storia, l’uno in cerca dell’altro, quando il male sembra negare il senso di ogni cosa. Giorno della Memoria. “Si può fermare l’antisemitismo, cancellando l’odio da Internet” di Giovanna Casadio La Repubblica, 26 gennaio 2021 Non solo la negazione della Shoah, ma anche gli hate speech, il disprezzo per Israele e le teorie di QAnon. Milena Santerini spiega la strategia nazionale contro derive vecchie e nuove. “La strategia nazionale contro l’antisemitismo è ora nero su bianco in un dossier appena consegnato a Palazzo Chigi. Raccomanda tra l’altro un chiaro orientamento di lotta all’antisemitismo e al razzismo sul web, non solo punendo i responsabili, ma anche obbligando le grandi piattaforme a rimuovere i contenuti online, con multe salate se non lo fanno, come previsto in Germania. La scuola protagonista, quindi corsi di formazione per gli insegnanti. La richiesta di dare rilievo giuridico autonomo al pregiudizio antisemita anche rispetto ai reati di tipo razziale”. Milena Santerini, coordinatrice italiana della lotta contro l’antisemitismo, sfoglia gli ultimi insulti e le farneticazioni antisemite. Gli esempi sono infiniti: nel 2020 sono stati 230 gli episodi segnalati all’Osservatorio contro l’antisemitismo Cdec, solo la punta dell’iceberg. Nell’ultimo trimestre, 45. E circa l’80% sono online. Alla vigilia del giorno della Memoria, Santerini e il gruppo che coordina (di cui fanno parte tra gli altri Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, giuristi, monsignor Ambrogio Spreafico per la Cei) sono giunti all’approdo. Professoressa Santerini, il consiglio dei ministri Ue ha chiesto a ciascun Paese di dotarsi di una strategia nazionale contro l’antisemitismo, finalmente anche l’Italia ce l’ha? “Sì. Ed è una strategia che riguarda il livello sia politico che culturale: significa norme, regole, contrasto dei reati”. In concreto cosa prevede il piano? “Innanzitutto adotta la definizione di antisemitismo dell’Ihra (l’Alleanza internazionale per il ricordo dell’Olocausto), ovvero ‘L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei’. E aggiunge esempi, che non sono più soltanto le vecchie formule di negazione della Shoah, ma a cui si sommano l’odio contro Israele, l’hate speech, le teorie di QAnon”. Quali pratiche suggerite di mettere in campo? “Innanzitutto rendere il pregiudizio antisemita autonomo dal punto di vista giuridico rispetto ai reati di tipo razziale. Lotta all’antisemitismo e al razzismo sul web, non solo punendo i responsabili, ma anche obbligando le grandi piattaforme a rimuovere i contenuti online, con multe salate. Al Viminale chiediamo un unico centro di segnalazione degli atti di antisemitismo. E poi al calcio e al Coni di inserire nei loro regolamenti e punire le espressioni di antisemitismo. Ricordo l’episodio shock della maglia della Roma con Anna Frank da parte di ultrà della Lazio. Vanno inoltre coinvolte le scuole e gli insegnanti. Pensiamo poi di monitorare: tra un anno facciamo il punto sulla strategia adottata”. Lei con Liliana Segre trasformò nel 2015 il Memoriale della Shoah presso il Binario 21 della Stazione di Milano, in un campo di accoglienza dei profughi siriani. Si vigila contro l’antisemitismo, difendendo tutte le vittime? “Io ritengo la Shoah un evento senza precedenti, ma attraverso quella tragedia abbiamo creato una apertura verso tutte le altre vittime della storia: impariamo una solidarietà verso la sofferenza”. Egitto. Delitto Regeni, l’inchiesta non si ferma: i pm sulle tracce di 13 complici di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 26 gennaio 2021 A cinque anni dal rapimento del giovane ricercatore gli inquirenti romani hanno imputato 5 ufficiali degli apparati di sicurezza ma cercano la collaborazione dell’Egitto per proseguire le indagini. Quattro ufficiali degli apparati di sicurezza imputati di sequestro di persona (uno anche di lesioni e omicidio) in attesa di sapere se saranno processati, e un indagato per il quale c’è una richiesta di archiviazione. Appuntamento davanti al giudice per il prossimo 29 aprile. A cinque anni dal rapimento di Giulio Regeni la Procura di Roma ha tratto un bilancio che nel gennaio 2016 pareva impensabile, ma le indagini non sono finite. O meglio, il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco vorrebbero proseguirle - insieme gli investigatori del Servizio centrale operativo della polizia e del Ros dei carabinieri - se dall’Egitto arrivasse la cooperazione sollecitata nelle rogatorie rimaste senza risposta. Ci sono almeno altre tredici persone da identificare compiutamente, di cui andrebbe approfondito il ruolo perché hanno avuto a che fare con Giulio, la sua tragica fine e tutto quello che si è mosso intorno a un caso che l’Egitto voleva archiviare come una rapina finita male. Proprio nella perquisizione-depistaggio a casa del presunto capo della presunta banda criminale che avrebbe aggredito Regeni per derubarlo, dalla quale sarebbero saltati fuori i documenti del ricercatore italiano, risultano coinvolti almeno 8 appartenenti alle forze dell’ordine ancora da individuare; bisognerebbe acquisirne i tabulati telefonici per verificarne mosse e contatti, e interrogarli. C’è poi un’utenza, della quale un esponente della Direzione generale investigativa del Cairo ha detto di non ricordare a chi fosse in uso, da cui sono partiti e arrivati numerosi sms con il sindacalista Mohamed Abdallah (l’uomo denunciò Giulio alla National Security per una sospetta e poi smentita attività politica anti-governativa), sia con il colonnello Helmy, uno dei quattro imputati di sequestro. Helmy era in contatto anche con l’utilizzatore di un telefono intestato a tale Mustafa Ahmad Khalil, ufficiale che risulta in servizio presso una Unità investigativa che ha intrattenuto messaggi e conversazioni pure con l’avvocato coinquilino di Regeni. Khalil dovrebbe essere rintracciato e ascoltato, hanno scritto i pm romani nella rogatoria inevasa, “per comprendere il suo grado di coinvolgimento nella vicenda”. Al pari dell’appartenente alla National security che ha attivato e disattivato microfono e telecamera forniti a Abdallah per registrare l’incontro con Regeni del 7 gennaio 2016. Tra i collaboratori del maggiore Sharif (imputato del rapimento e dell’omicidio di Giulio) c’è un poliziotto chiamato Ibrahim, che secondo la testimonianza del sindacalista Abdallah “avrebbe contribuito agli approfondimenti investigativi sulla possibile pericolosità di Regeni”: è un altro poliziotto da identificare e interrogare. Così come Muntaser Abdelrahim, ufficiale di cui ha parlato il colonnello Helmy. L’ufficiale ha detto che lavorava nel commissariato di Doqqi, e “si occupava della sicurezza nazionale presso quell’ufficio”. Il 25 gennaio 2016, giorno del rapimento, ci sono almeno cinque contatti, fra le 11.43 e le 17.22, tra il telefono di Helmy e quello di Muntaser. Quella stessa sera, il testimone Delta (indicato così negli atti della Procura di Roma per motivi di sicurezza) ha visto Giulio proprio nella stazione di polizia di Doqqi, mentre chiedeva un avvocato e di poter parlare con il Consolato italiano. “Indossava un pullover, verosimilmente tra blu e grigio, se non ricordo male con una camicia sotto”, ha riferito. Un dettaglio di cui nessuno aveva mai parlato prima, e sul quale non erano mai usciti particolari. Ebbene, gli inquirenti italiani hanno verificato che tra i vestiti di Giulio recuperati manca proprio un maglione di quel colore; evidentemente il ragazzo lo portava la sera in cui fu rapito, e lo portava anche qualche sera prima durante una cena a casa dell’amica Noura. Lì gli fu scattata una foto che ora è agli atti dell’indagine, nella quale si vede che il maglione ha il collo alto, con l’interno bianco, “cosicché il risvolto può essere facilmente scambiato con una camicia bianca”. Questo hanno scritto Colaiocco e Prestipino nell’atto d’accusa contro gli imputati, a dimostrazione dell’attendibilità del testimone Delta. Egitto. La famiglia Regeni: “Dalle istituzioni parole vuote e bugie” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 26 gennaio 2021 Sdegno da Roma a Bruxelles ma nessuno mette in discussione i rapporti con Il Cairo. Di Maio alla Ue: “Ferita europea”. Eppure esiste il modo per non vendere più armi, dice Rete Italiana Pace e Disarmo. Quattro panchine gialle a Fiumicello, paese natale di Giulio Regeni, e una tela con metà del suo volto, realizzata dagli studenti del liceo Petrarca di Trieste, lo stesso frequentato dal ricercatore italiano ucciso al Cairo nel 2016. Sono due delle iniziative che ieri, quinto anniversario dal rapimento, hanno voluto ricordare Giulio e la spinta - mai evaporata - per la verità e la giustizia. Gli studenti, che di loro iniziativa hanno celebrato la vita di Regeni, hanno preso parte alla fiaccolata virtuale insieme ad Amnesty International e Articolo 21, alle 19, seguita da un video messaggio di Paola Deffendi e Claudio Regeni, i genitori: “La verità la intravediamo, com’è dimostrato dall’iscrizione nel registro degli indagati dei quattro ufficiali egiziani - hanno detto ieri sera insistendo a chiedere il ritiro dell’ambasciatore italiano dal Cairo e lo stop alla vendita di armi - La giustizia continuiamo a cercarla”. “Abbiamo sentito tante parole vuote delle istituzioni, ma anche bugie - ha aggiunto Paola - non da ultimo un ex presidente del Consiglio (Renzi, ndr) che ha detto di esser stato avvisato appena il 31 gennaio della scomparsa di Giulio”. In mattinata a Fiumicello erano state inaugurate, alla presenza della famiglia e della sindaca Sgubin, quattro panchine gialle attorno alla farnia che gli amici piantarono nel febbraio 2016 nel parco dedicato al ricercatore, “un luogo della comunità - si legge nel cartello - di incontro ma anche di riflessione, di attesa e di inclusione”. In serata, alle 19.41, l’ora dell’ultimo messaggio inviato da Giulio cinque anni fa, i social si sono “colorati di giallo”, con foto, disegni e candele. Ma ieri è stata anche la giornata delle istituzioni. Il primo a ricordare Giulio è stato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Rinnovo l’auspicio di un impegno comune e convergente per giungere alla verità e assicurare alla giustizia chi si è macchiato di un crimine che ha giustamente sollecitato attenzione e solidarietà da parte dell’Unione europea. Si tratta di un impegno responsabile, unanimemente atteso dai familiari, dalle istituzioni della Repubblica, dalla intera opinione pubblica europea”. Ha parlato il presidente della Camera Roberto Fico, da tempo impegnato al fianco della famiglia Regeni: serve, ha detto ieri all’arrivo a Fiumicello “una revisione della legge per la vendita delle armi che preveda maggiori restrizioni”. Per tutta la giornata sono seguite, come un fiume, le dichiarazioni dei rappresentanti di ogni partito italiano, stridenti: tutti loro, una volta transitati al governo, hanno proseguito nei rapporti diplomatici, commerciali e militari con il regime di al-Sisi, nonostante i risultati raggiunti dalla Procura di Roma che ha potuto dimostrare la responsabilità di almeno quattro agenti della National Security (non mele marce, ma generali e maggiori, i vertici) nel sequestro, le torture e l’omicidio di Regeni. Il 29 aprile si terrà l’udienza preliminare davanti al gup di Roma Pier Luigi Balestrieri in merito alla richiesta di rinvio a giudizio di Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Sharif. Eppure ieri non è mancato nessuno all’appello dello sdegno, neppure l’Unione europea: in mattinata si è svolto il Consiglio degli esteri Ue e il ministro Di Maio ha presentato i risultati della Procura. “Il suo barbaro omicidio è una ferita ancora aperta in Italia, ma oggi sono qui a confrontarmi con voi perché quella stessa ferita è inevitabilmente anche europea”, così Di Maio ha aperto il suo discorso. “L’Italia ritiene l’Egitto un interlocutore cruciale nel Mediterraneo - ha continuato - e ritiene che il nostro compito in Europa sia quello di avviare un dialogo franco, costruttivo e trasparente con Il Cairo, ma non può avvenire a scapito dei diritti umani”. Dagli omologhi europei è arrivata “solidarietà”, ribadita anche dall’Alto rappresentante Ue agli affari esteri Josep Borrell: “Continuiamo a esortare l’Egitto a cooperare in pieno con le autorità italiane sulle responsabilità, e affinché sia fatta giustizia”. Ma di decisioni in merito alle relazioni con il regime egiziano (anche alla luce della risoluzione approvata a metà dicembre dall’Europarlamento che chiede sanzioni ed embargo) non ne sono giunte. Eppure di modi per intervenire ce ne sono. Li sottolinea in una lettera inviata a Di Maio Rete Italiana Pace e Disarmo: bloccare per tre anni le autorizzazioni italiane ed europee all’esportazione di armi all’Egitto. “Non penalizzerebbe il nostro Paese - si legge nella lettera - ma anzi avrebbe l’effetto di coinvolgere tutti gli Stati membri”. Come? Attraverso la Posizione comune del Consiglio 2008/944 che combatte la concorrenza sleale tra i paesi Ue facendo sì che le licenze militari non rilasciate da uno Stato non siano concesse da altri membri. Giustizia per Giulio Regeni e per le migliaia di egiziani torturati e uccisi come lui di Abdullah Noshi Elshamy* La Repubblica, 26 gennaio 2021 L’anniversario della scomparsa di Giulio Regeni, il 25 gennaio, coincide con una data particolare per tutti gli egiziani che credono nella libertà. Il 25 gennaio 2016, quando Giulio scomparve, ebbi sentore di una somiglianza. Mi tornarono in mente i giorni cupi che stavo appena iniziando a elaborare. Era trascorso un anno e mezzo esatto dalla mia partenza dall’Egitto dopo dieci mesi di carcere per il mio lavoro di giornalista. Giorni di solitudine, di isolamento, senza ricevere notizie dei miei famigliari o del mondo esterno: in quello stato avevo vissuto le ultime cinque settimane della mia detenzione. Erano trascorsi quindici mesi da quando mia suocera - avvocata e attivista per i diritti umani - era stata portata via dagli agenti della sicurezza. Ci sono voluti ventuno giorni prima che potessimo scoprire che era ancora viva, ma da quel momento in poi le cose non sono andate meglio. Sono passati lunghi mesi senza ricevere notizie né poterle fare visita, se si escludono le sue apparizioni bimestrali nel tribunale di sicurezza dello stato per rinnovare i termini della sua carcerazione. Questa è la realtà. Le vite degli egiziani sono afflitte da un problema che il resto del mondo non conosce oppure, peggio ancora, tende a ignorare: le sparizioni forzate e gli omicidi extragiudiziari. Di sicuro, posso dire che il caso Regeni ha infuso speranza nel cuore di molti, di coloro che sono stati investiti così da vicino da questi avvenimenti da non essere ancora in grado di alzare la voce o di farsi sentire. La sola idea che la ferocia della macchina della sicurezza possa essere oggetto di indagine e portata in tribunale - anche se in contumacia - potrebbe diventare, se ricordo bene, un precedente per la storia moderna dell’Egitto. Da giornalista ed ex detenuto costretto all’esilio, questo mi infonde speranza. La luce si apre un varco dall’ultimo dei posti che si possa immaginare. Quest’anno ricorre il decimo anniversario di quando gli egiziani hanno fatto un tentativo per avere un futuro migliore. Molti oggi potrebbero definire quel tentativo un’ingenuità o un sogno. Eppure, vedere a che punto siamo arrivati e sotto quale dittatura viva il Paese fa comprendere che, a prescindere da come sarebbero potute andare le cose, la situazione di oggi in Egitto era inconcepibile. Non sarebbe esagerato affermare che l’omicidio di Giulio è stato un monito o, meglio ancora, un messaggio lanciato nel tentativo di incutere paura e finalizzato a stroncare ogni speranza, perché uno stato retto da una dittatura militare si alimenta soltanto di questo e, con smentite continue o accumulando menzogne a non finire e moltiplicando i rifiuti a collaborare al caso, lancia un messaggio ancora più chiaro: l’apparato della sicurezza lavora con la benedizione del regime, proprio di quella dei suoi vertici. In Egitto non può accadere niente - come l’omicidio di Giulio Regeni o gli assassinii extragiudiziari e le sparizioni forzate - senza un coordinamento assoluto e l’approvazione dei funzionari ai vertici. Il regime egiziano ha costruito la sua autorità su una propaganda continua che mira a convincere le masse che il Paese è preso di mira, con riferimenti diretti agli stranieri, ai giornalisti e ai ricercatori. Non si può permettere che il messaggio che nessuno diffonde, fuorché il governo, sia fatto rimbalzare oltre. Per questo motivo, rendere giustizia a Giulio Regeni alla fine porterà sollievo e speranza a decine di migliaia di detenuti egiziani e ai loro famigliari, alla mia famiglia e a tanti altri ancora. Sarà un raggio di speranza in un Paese avvolto dalle tenebre. *Corrispondente da Bruxelles per l’Europa dell’emittente televisiva “Al Jazeera” Russia. Salviamo Anastasia! “L’estradizione sia scongiurata o sospesa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 gennaio 2021 Del caso di Anastasiia Chekaevasi sta interessando Rita Bernardini del Partito Radicale e Roberto Giachetti di Italia Viva. Ogni minuto che passa potrebbe essere troppo tardi. Da giorni, nel carcere Bancali di Sassari, è reclusa Anastasia Chekaeva, madre di una bambina di sette anni, pronta per essere presa dalle autorità russe e spedita in luoghi detentivi dove potrebbe andare incontro anche alla morte. Il governo italiano, come ha raccontato Il Dubbio grazie alla denuncia degli avvocati Pina Di Credico del foro di Reggio Emilia e Fabio Varone del foro di Nuoro, i legali di Anastasia, ha concesso l’estradizione richiesta dalle autorità nonostante che sia anche stata minacciata da un importante politico aderente al partito di Putin. Una concessione ad occhi chiusi, come denunciano gli avvocati, senza nemmeno vagliare il fatto che lei è sottoposta ad atti persecutori e a un procedimento che non assicura il rispetto dei diritti fondamentali, in violazione della convenzione dei diritti dell’uomo e della nostra costituzione che garantiscono il rispetto della libertà personale, il diritto alla difesa e a un giusto processo per Anastasia. Gli avvocati di Anastasia chiedono quindi la sospensione della procedura di estradizione. Del caso si sta interessando Rita Bernardini del Partito Radicale e il deputato Roberto Giachetti di Italia Viva, i quali si sono attivati per scongiurare che l’estradizione avvenga, o quanto meno sospenderla. Vale la pena quindi ripercorre tutta la vicenda di Anastasia, cittadina della Federazione Russa, ricordando che è sottoposta nel suo Paese a procedimento penale per presunti fatti di truffa perché, quale semplice dipendente di una agenzia di viaggi sita all’interno del centro commerciale “Galleria Chizhov” nella città di Voronezh, si sarebbe appropriata di somme pagate dai clienti per l’acquisto di viaggi organizzati poi non forniti. Un importo complessivo inferiore a 20.000 euro. La mancata fornitura sarebbe imputabile a ritardi dei tours operators. Si tratta di una agenzia di viaggi che è di proprietà del marito di Anastasiia, F. Crespi, cittadino italiano, che non avrebbe potuto essere estradato in Russia per tali fatti che comunque rappresenterebbero, secondo quanto è emerso, a un semplice inadempimento contrattuale e non un illecito penale di truffa aggravata che viene punito in Russia con la pena fino a dieci anni di carcere. Sulla base di tali accuse, l’autorità giudiziaria russa ha tuttavia avviato un procedimento penale nei confronti di Anastasia tenendola però all’oscuro dello stesso, al fine di precostituirsi il titolo per poter emettere a suo carico un provvedimento di carcerazione preventiva e domandare la successiva estradizione all’Italia. “Questa vicenda giudiziaria - denunciano gli avvocati Fabio Varone e Pina Di Credico a Il Dubbio- ha anche una matrice politica in quanto il legale rappresentate della “Galleria Chizhov” è Klimentov Andry Vladimirovich, Vice-presidente della Commissione per il Lavoro e la Protezione Sociale della popolazione, e il fondatore della Galleria è Chizhov Sergey Viktorovich, dal 2007 deputato della Duma di Stato della Russia, entrambi noti e discussi esponenti politici del partito “Russia Unita”, il cui leader è Vladimir Putin”. Come mai? “La vicenda del mancato pagamento dei viaggi - spiegano i legali della donna - ha destato discredito sulla Galleria a prescindere dalle motivazioni dei ritardi nella fornitura dei viaggi e per tali ragioni Crespi è stato minacciato da Klimentov a mezzo mails e messaggi documentati con cui si prospettavano pesanti ritorsioni su di lui”. Dal momento che F. Crespi, cittadino italiano, non risulta estradabile, l’attività giudiziaria in Russia si è concentrata su sua moglie Anastasia, la quale in concomitanza con tali fatti era venuta in Italia per trascorrere le vacanze natalizie, senza alcuna intenzione di fuggire dalla Russia. Non solo, Crespi, che è titolare dell’Agenzia, con i propri avvocati aveva nel frattempo iniziato a risarcire tutti i clienti. Anastasiia è da tempo titolare di carta d’identità italiana e di regolare permesso di soggiorno, vive stabilmente in territorio italiano con la figlia minore, cittadina italiana di anni sette, nata dalla relazione con il marito, entrambe domiciliate in Italia dal 4 gennaio 2018. “Ma - osservano gli avvocati Varone e Di Credico - l’autorità giudiziaria italiana, sia nella fase giurisdizionale che in quella amministrativa della procedura di estradizione ha rigettato i ricorsi e le istanze della difesa, nonostante non paiono sussistere le condizioni legittimanti l’estradizione e nonostante fosse palese, dai documenti allegati, la vera motivazione sottesa alla richiesta ovvero la matrice politica derivante dal ruolo e dalla influenza esercitata dal sig. Klimentov”. Si evince che è stato violato sia il diritto al giusto processo, sancito dall’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, sia il diritto a non subire trattamenti crudeli, disumani o degradanti, stabilito dall’art. 3 della stessa Cedu. “La Russia infatti - mettono in chiaro gli avvocati - non ha fornito alcuna informazione, né l’Italia ne ha richieste, in merito al luogo di detenzione riservato alla Chekaeva, oltretutto affetta da una patologia afferente le vie respiratorie che potrebbe cagionar la morte della donna in caso di contagio da virus Covid 19; la Russia non ha fornito alcuna rassicurazione sulle condizioni di detenzione rispettose della dignità umana e che quindi la Chekaeva non sarebbe esposta a trattamenti inumani e degradanti”. Il nostro governo, quindi, non avrebbe preteso alcuna rassicurazione in merito sebbene l’estradanda sia madre di una bimba di 7 anni che, in caso di effettiva estradizione, verrebbe lasciata alle cure esclusive dei nonni paterni essendo il padre emigrato in Svizzera per lavoro e non potendo fare rientro in Russia. D’altronde sono documentate dal Cpt e da Amnesty International le situazioni di sovraffollamento e delle gravissime condizioni igienico-sanitarie della popolazione carceraria della Russia ed in particolare dei centri di detenzione preventiva (Sizos). Non è dato sapere, in quanto non vi sono dati ufficiali certi, come è gestita nei penitenziari russi l’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione dei contagi da Covid-19. Risulta violato, secondo l’articolo 8 della Cedu, anche il diritto della figlia minore, cittadina italiana, a conservare il rapporto con la madre, considerato che la vita della bambina è radicata in Italia, dove risiede da tre anni, né potrebbe trasferirsi in territorio russo, visto che Anastasia - da detenuta - non potrebbe assisterla. “Nonostante i fondati elementi ostativi all’estradizione - osservano gli avvocati Varone e Di Credico - il ministero della Giustizia ha dato corso alla sua esecuzione, poiché la Corte d’appello di Sassari, in data 22 gennaio 2021, su sollecitazione del ministero, ha sottoposto la Signora Chekaeva alla misura della custodia cautelare in carcere al fine della sua consegna alla Federazione Russa”. In sostanza, questa estradizione violerebbe gli articoli 3, 6 e 8 della Cedu. Il ministro della Giustizia dovrebbe come minimo immediatamente bloccare il provvedimento di estradizione, almeno in attesa di chiarimenti sull’effettivo rispetto dei diritti umani fondamentali. Brasile. La Pastorale carceraria denuncia: torture e violenze contro i detenuti in forte aumento agensir.it, 26 gennaio 2021 Tra il 15 marzo e il 31 ottobre 2020, la Pastorale carceraria nazionale della Chiesa brasiliana ha ricevuto 90 denunce di casi di tortura, riguardanti numerose violazioni dei diritti in varie unità carcerarie di tutto il Paese. Lo rivela il rapporto “Pandemia e tortura in carcere”, presentato venerdì scorso. A seguito dell’analisi dei casi e delle denunce ricevute durante il periodo della pandemia dalla Pastorale carceraria, emerge che nel 2020 i casi sono stati quasi il doppio rispetto al 2019, quando erano stati portati alla luce 53 casi di tortura. Per il consigliere pastorale teologico del coordinamento nazionale della Pastorale Carceraria, padre Gianfranco Graziola, sembra contraddittorio parlare di tortura in Brasile nel XXI secolo. Secondo il rapporto, violenze e torture sono amplificate dalla maggiore chiusura delle carceri a causa della pandemia e spesso una denuncia equivale a più di una tipologia di violenza. Nel periodo citato, la Pastorale carceraria ha ricevuto 53 segnalazioni di aggressioni fisiche, 52 legate a condizioni di trattamento umilianti e degradanti, come l’impossibilità di trascorrere dei momenti all’aperto. Soprattutto, oltre a tali situazioni, in tre quarti delle denunce (67 casi si 90) è stata segnalata negligenza nell’erogazione dell’assistenza sanitaria, o di cibo o di generi d’igiene personale. Il referente della Pastorale carceraria, Lucas Gonçalves, ha spiegato che il rapporto, elaborato fin dal 2010, “rivela che la tortura non è una cosa del passato, ma qualcosa di presente nella vita delle persone detenute in Brasile”. Delle 90 denunce ricevute, la Pastorale carceraria ne ha inoltrate 39 alla magistratura, 64 all’Ufficio del difensore pubblico e 38 al pubblico ministero. Nella maggior parte dei casi, secondo Gonçalves, lo Stato rifiuta di dare una risposta adducendo il sospetto che le accuse siano false. Solitamente, lo Stato si rifiuta persino di indagare sulle denunce, tanto che solo in 16 casi la Pastorale carceraria ha ricevuto notizie sulle denunce e solo in 8 casi è stata condotta un’ispezione nelle carceri. Indignazione in Sudafrica, il “Dottor Morte” dell’apartheid ha ripreso a lavorare di Francesco Malgaroli La Repubblica, 26 gennaio 2021 Accusato di macabri esperimenti su attivisti neri ai tempi del regime segregazionista, non è mai stato condannato. L’Ordine dei medici l’aveva accusato di infrazione al codice etico, senza però radiarlo dall’albo. Wouter Basson, 70 anni, il medico sudafricano soprannominato “Dottor Morte” per il ruolo sinistro avuto durante l’apartheid - era capo del progetto segreto di guerra chimica e biologica del Paese, Project Coast - torna a fare scandalo: questa volta perché si è scoperto che l’importante gruppo ospedaliero Mediclinic Southern Africa, che ha varie cliniche nel Paese e in Namibia, lo faceva lavorare in due sue strutture come cardiologo, il suo mestiere. Con un altro cattivo, “Prime Evil”, “Il Diavolo in Persona”, Eugene De Kock, hanno seminato la morte negli anni 80, e per un certo periodo hanno lavorato insieme. Prime Evil, due ergastoli e 212 anni di galera, uscito in libertà condizionata del 2015, si è pentito. “Doctor Death” invece l’ha fatta sempre franca. Una volta, nel 1995, il perdono fu opera di Nelson Mandela, che lo riammise come cardiologo. Arrestato nel ‘97, uscì immediatamente dal carcere. Carismatico, a trent’anni viene fatto entrare nella cerchia ristretta di PW Botha, primo ministro del Sudafrica dal 1978 al 1984 e presidente del Sudafrica dal 1984 al 1989, che sosteneva con decisione il sistema dell’apartheid e mise a punto una strategia di contro-rivoluzione con il silenzio-assenso di inglesi e americani. Il tenente generale Nicolaas Nieuwoudt pensò a Basson per il Project Coast e gli diede carta bianca, come dice un documento della areonautica americana. Nell’ambito di questo progetto con un fondo di 10 milioni all’anno per lavorare, Basson riunisce 200 scienziati e comincia gli esperimenti su attivisti neri: zucchero con tracce di salmonella, cioccolato al botulino, whisky con erbicida. Quando non riesce ad ammazzarli, li fa fuori con una dose di veleno. Ha un fondo di 10 milioni di dollari all’anno per lavorare. Prima del Coast aveva ideato l’Operazione Duel contro la Namibia per la quale è stato accusato di aver buttato in mare da un aereo 200 prigionieri, ma non ci sono prove per condannarlo. Il New Yorker, del 2001, riassume così il suo curriculum: decorato dall’esercito, eminente cardiologo, e a capo del Progetto Coast, il programma di guerra batteriologica top-secret. Al processo, che si era aperto al 1999, ha detto di “essere al servizio del Paese”. Ha chiamato un solo testimone a favore: lui stesso. Ha parlato per 40 udienze e alla fine il giudice l’ha assolto. Alla Commissione per la verità e la riconciliazione ha chiuso la porta in faccia. Wouter Basson, con la barba ormai bianca, non si è mai scusato. È comparso in Libia. Ha fatto conferenze in Svizzera. Nel 1997 vengono trovati in casa di un amico una serie di Cd che contengono il Progetto Coast. Nessuno però sa davvero come si articolava il piano e Doctor Death ha sempre dato la stessa risposta: “Non ho bisogno di amnistia o perdono”, come una volta disse a Desmond Tutu rispondendo alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Nel 2002, Basson era stato assolto dall’Alta Corte di Pretoria da 67 capi d’accusa (tra gli altri, omicidio e traffico di droga) e aveva potuto riprendere a esercitare la professione. Nel 2013 però l’Ordine dei medici l’aveva accusato di infrazione al codice etico, senza comunque radiarlo dall’albo. Il gruppo Mediclinic Southern Africa, in risposta all’indignazione che si è scatenata in questi giorni sui social network, ha affermato di non poter impedire a nessun medico, “compreso il dottor Basson”, di esercitare “a meno che qualcuno glielo impedisca”.