Accorciare la distanza di Grazia Paletta* Ristretti Orizzonti, 25 gennaio 2021 La redazione Ristretti Orizzonti Marassi è nata all’inizio del 2017 in quel grande carcere che respira incessante, come un cuore silente, nella città di Genova, e cerca in vari modi di far sentire il proprio pulsare. Da allora ci incontriamo ogni settimana, con ogni tempo e ogni luna, sempre, tenacemente, incuranti delle difficoltà, delle depressioni, dei trasferimenti improvvisi dei partecipanti, andiamo avanti cercando di aggiornarci su quanto avviene là fuori e tenendoci con forza aggrappati ai nostri processi interiori. Perché là dentro si cambia, si evolve, si cresce insieme. Guidati “da lontano” da Ornella Favero, che con pazienza e garbo ci insegna il linguaggio dell’informazione efficace, scriviamo e andiamo in cerca di comunicazione, di interazione, dentro le mura e nel mondo libero. Fino ad oggi quasi nessuno si era interessato a noi, perché là fuori si corre veloci e manca l’ascolto, manca il tempo per l’attenzione all’altro. Se poi “l’altro” è pure colpevole, veloci si distoglie lo sguardo. Quand’ecco accade l’inopinabile. Ferruccio Sansa, giornalista delle più importanti testate, a suo tempo candidato alle elezioni regionali della Liguria e consigliere comunale, è venuto da noi. Si è avvicinato al nostro tavolo e ha capito, ha ascoltato, ha mostrato interesse alle vite ristrette e si è raccontato, si è seduto al nostro fianco come fosse lì da sempre a cercare ispirazione insieme, a entusiasmarsi per parole emerse da luoghi dimenticati e a darci il suo tempo, come la cosa più ovvia. Accorciare la distanza: penso sia questo il primo irrinunciabile passo verso la conquista della libertà, sia dentro che fuori. Il 23 gennaio 2021, ha pubblicato sul suo profilo Facebook le sue prime riflessioni nate da questa esperienza e le ha inserite come introduzione a un articolo scritto da noi, sui vissuti relativi a quarantena e pandemia. *Redazione Ristretti Marassi Il lockdown visto dal carcere Messaggi dal “popolo ristretto” di Ferruccio Sansa Prigionieri. Così ci siamo sentiti durante il lockdown. Carcerati dentro casa nostra. Chissà se questa condizione - pur vissuta in un luogo familiare, tra le nostre cose, spesso accanto a persone amate - ci ha finalmente avvicinato a un luogo che purtroppo ignoriamo. Il carcere, appunto, questo mondo dimenticato dentro il mondo. In mezzo alle nostre città. Vale ancor di più per carceri come Marassi a Genova che vediamo ogni giorno passando. Che sta accanto allo stadio. Decine di migliaia di persone che guardano la partita, urlano e si divertono, accanto a mille persone - tra carcerati, polizia penitenziaria e personale - che trascorrono la loro vita in un luogo separato dal mondo. Già, chissà se il Covid che ci ha costretti alla solitudine ci ha almeno ricordato chi la separazione la vive come condizione abituale. Ma qualcuno getta ponti tra noi e chi vive in cella. Esiste un sito che ci informa della vita oltre le sbarre (www.ristretti.it e www.ristretti.org). Esiste un giornale realizzato da una redazione combattiva e appassionata composta di detenuti e volontari. La testata si chiama “Ristretti Orizzonti”, perché la gente che vive là dentro si definisce così, il popolo ristretto. Mentre noi saremmo il popolo libero. I giornalisti affrontano temi legati alla vita del carcere, ma discutono anche di grandi questioni comuni a tutti: la gioventù, la libertà, il dolore e la felicità. Parole lanciate verso di noi come messaggi nella bottiglia. Pensieri che ci ricordano cosa sia la vita dei detenuti, certo, ma ci aiutano a capire meglio anche la nostra. Ci spingono a dare un valore a tante cose che noi diamo per scontate. La libertà, appunto. Leggiamoli allora i messaggi dal ‘popolo ristretto’, perché ci aiutano a capire quanto ci dimentichiamo di essere liberi. Eccovi un articolo pubblicato sull’ultimo numero di Ristretti Orizzonti. Racconta come è stata vissuta in carcere la prima ondata del Covid. Gli autori sono Mario Amato, Angelo Genito, Giuseppe Talotta, Bruno Trunfio insieme con le volontarie Fabiola e Grazia. Non buttiamo anche il buono che il Covid ha provocato (Redazione Ristretti Orizzonti Marassi, giornale n. 2 dicembre 2020 - supplemento al n. 05/2020 di Ristretti Orizzonti) All’inizio della pandemia abbiamo avuto la sensazione di un avvenimento apocalittico, quello che sembrava un allarmismo inutile per una semplice influenza è diventato in pochi giorni un evento mondiale, in grado di stravolgere tutti gli equilibri sociali, politici ed economici. Inizialmente le informazioni provenivano solo dai notiziari e dalla telefonata settimanale con i familiari, dopo circa quindici giorni, quando anche fuori la situazione iniziava a diventare preoccupante, la Direzione ci ha rassicurato sul fatto che erano state adottate misure preventive, in grado di salvaguardare la nostra salute. Per arrivare a questo sono stati necessariamente sospesi i colloqui con i familiari, insieme a tutte le attività scolastiche e trattamentali. Siamo rimasti ancora più soli. Dopo quasi un mese di chiusura totale verso il mondo esterno, le uniche persone con cui potevamo rapportarci, oltre a noi stessi, erano l’ispettore e il comandante che in quel periodo sono stati molto presenti e ci hanno sempre tenuti informati sull’andamento della situazione, fino a quando ci hanno comunicato che avremmo avuto la possibilità di effettuare una videochiamata alla settimana, della durata di un’ora e una telefonata di dieci minuti, un giorno sì e un giorno no. A quel punto il nostro stato d’animo è migliorato e la preoccupazione per la salute dei nostri famigliari si è ridimensionata, ci aggiornavamo quasi quotidianamente sulle loro condizioni. Nel corso delle successive settimane si sono amplificati e moltiplicati gli strumenti di comunicazione verso il mondo esterno, nello specifico abbiamo avuto l’opportunità di coltivare in modo costante i nostri affetti. Di norma chi abita lontano riesce a incontrare i propri cari solo una volta al mese, quando va bene, o una volta all’anno in molti casi, sostenendo spese talvolta ingenti, senza parlare delle persone anziane che non si possono muovere. Genitori con cui non si aveva più un rapporto visivo da anni e con cui si parlava raramente, dato che le telefonate erano una a settimana e brevi, in genere dedicate a mogli e figli. Con i nostri anziani in moltissimi casi il contatto era solo epistolare, per non parlare dei bambini troppo piccoli per affrontare lunghi viaggi, figli e nipoti che crescevano senza vedere il proprio padre, zio, nonno. Ed ecco la soluzione semplice, immediata, sicura e a costo quasi zero: la videochiamata e le telefonate infrasettimanali. La domanda è: doveva scatenarsi una pandemia per poter usufruire di tali semplici strumenti in grado di migliorare le condizioni della vita detentiva ed in particolare della sfera affettiva? Il poter parlare con i nostri figli e parenti più volte alla settimana ci ha consentito di monitorare l’andamento della vita familiare e di sentirci parte integrante della loro esistenza, questo ha di fatto alleggerito in molti casi le tensioni e ha aiutato a risolvere problematiche quotidiane. La vita carceraria ci è sembrata meno difficile, abbiamo vissuto in modo migliore e anche i nostri pensieri si sono trasformati positivamente, sono diventati meno cupi. L’atmosfera è divenuta più serena, anche i rapporti con le persone che lavorano qui dentro sono cambiati e finalmente, dopo anni, abbiamo respirato un’aria nuova. Ad oggi la preoccupazione per il contagio si sta di nuovo diffondendo, mentre nelle settimane precedenti avevamo avuto la netta impressione che il virus stesse gradatamente sparendo. Si sono di nuovo accesi dibattiti tra di noi su ciò a cui potremmo andare incontro se la pandemia riprendesse la sua corsa, che comunque di fatto non si è mai definitivamente arrestata, ma la nostra preoccupazione maggiore è quella che le comunicazioni possano tornare all’origine: prima del paziente zero. Una tragedia, quattro ore di colloquio al mese senza l’utilizzo dei tanto amati mezzi tecnologici e quattro telefonate mensili, della durata di dieci minuti l’una. Nelle vaccinazioni dare priorità anche ai detenuti di Denise Amerini sinistrasindacale.it, 25 gennaio 2021 Sull’ultimo numero del 2020 di Sinistra Sindacale avevamo pubblicato un articolo, dal titolo “Garantire la salute dei detenuti”, che parlava, fra le altre cose, delle richieste e delle proposte avanzate, fin dalla prima fase della pandemia, per ridurre il sovraffollamento e intervenire in maniera concreta per abbattere le possibilità di contagio all’interno del carcere. Sono richieste che non sono state accolte dal governo. Le misure previste, quali la detenzione domiciliare limitata a chi ha pene da scontare inferiori a 18 mesi, per di più subordinata alla disponibilità di braccialetti elettronici, di fatto sono assolutamente insufficienti per influire in maniera significativa sulle presenze, e ridurre quindi le possibilità di contagio. Da dicembre ad oggi però è successa una cosa importante, in grado di intervenire sulla propagazione del virus: è finalmente arrivato il vaccino. E sono state stabilite le modalità di somministrazione, a partire come è ovvio che sia dai gruppi più esposti e a rischio, anziani in Rsa, operatori sanitari, ecc. Nonostante gli appelli e autorevoli richiami come quello, fra i tanti, della senatrice Segre, i detenuti non sono stati ritenuti una priorità. È del 13 gennaio scorso la circolare del Dap, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che avvia la campagna vaccinale nelle carceri, ma coinvolge solo il personale. È del tutto evidente come sia parziale una campagna che riguarda solo una parte delle persone che vivono in una realtà chiusa come il carcere, con il rischio di non avere piena efficacia. Il carcere è uno dei luoghi ad altissimo rischio di diffusione del virus, anche verso l’esterno. I detenuti, come affermato anche dal Comitato Nazionale di Bioetica, rappresentano un gruppo ad alta vulnerabilità bio-psico-sociale. Al 16 gennaio venivano riferiti 718 contagi fra i detenuti, e 701 fra il personale. Sono numeri che devono destare attenzione e preoccupazione. Per questo è giusto aver inserito gli operatori penitenziari fra le persone da vaccinare già nella prima fase, ma è necessario che anche le persone ristrette lo siano: proprio per le caratteristiche della popolazione carceraria, oltre che dei luoghi in sé (condizioni igienico sanitarie, impossibilità ad avere spazi dove praticare il distanziamento), devono essere una priorità. Vaccinare i detenuti è uno dei modi che abbiamo per rispettare il dettato costituzionale, sotto ogni punto di vista. La pena per l’autore di un reato, qualsiasi reato, è la privazione della libertà, non del diritto alla salute. E se le pene devono mirare al pieno recupero alla società delle persone, vaccinare i detenuti permetterebbe anche la ripresa di tutte quelle attività, come l’istruzione e la formazione, il lavoro, le attività culturali, indispensabili nel percorso di recupero e reinserimento, che sono state bruscamente interrotte all’insorgere della pandemia. Così come permetterebbe la ripresa delle visite dei familiari, indispensabili per il mantenimento delle relazioni affettive, la cui sospensione ha generato uno stato di profondo malessere. Indubbiamente è tema importante, vista anche la limitatezza delle disponibilità di vaccino e i problemi nella fornitura che si stanno prospettando, ma non può essere questa una ragione per non includere le persone ristrette nella prima fase di somministrazione. E, come ha affermato per esempio il governo canadese (il Canada è uno degli Stati che ha prioritariamente previsto la vaccinazione dei detenuti), il linguaggio del risentimento, della paura, non deve trovare spazio in questa discussione. Nei giorni scorsi la Cgil ha formalmente richiesto al ministero della Salute di inserire le persone ristrette, insieme al personale, nei gruppi prioritari per l’accesso alla vaccinazione. Questo perché crediamo che la giustizia giusta sia solo quella che non cede mai a forme di vendetta, che non perde mai di vista la dignità delle persone, i diritti costituzionalmente garantiti, che non adombra luoghi dove le persone sono discriminate, e vivono vite di scarto. È della serata del 21 gennaio la notizia che il commissario Arcuri ha dichiarato in conferenza stampa che “detenuti e personale delle carceri possano completare la vaccinazione in un momento successivo a chi ha più di 80 anni”. Se alle dichiarazioni seguiranno i fatti, sarebbe questa finalmente una buona notizia, un risultato ottenuto grazie alla mobilitazione e agli appelli di molti, e alla richiesta formale avanzata dalla Cgil. Il Guardasigilli e le tre carte per la riforma della Giustizia di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 25 gennaio 2021 Che quella di Bonafede sia una missione quasi impossibile, nel ministero della Giustizia non sfugge nemmeno alle bugne di travertino a punta di diamante che l’architetto Piacentini volle un secolo fa sul prospetto del palazzo. Chi ha sondato i parlamentari che parleranno alla Camera prevede “un massacro”. Per quanto gran parte del fuoco prescinderà dal suo discorso concentrandosi su dossier preesistenti (prescrizione e carceri), Bonafede ha qualche carta da giocare. Prima: nessun muro contro muro, nessun arroccamento su una trincea ideologica, nessun attacco agli avversari. Cosa non scontata: un anno fa, a Renzi che lo contestava sulla prescrizione (“Occhio, vai a sbattere contro un muro”), Bonafede rispondeva: “Non accetto ricatti e minacce. Dovrebbe rendersi conto di non essere più al governo con Alfano e Verdini”. Secondo: aderire all’appello del vicesegretario Pd Orlando (“Serve un fatto nuovo per non andare a sbattere”) e lanciare segnali di fumo ai “responsabili” (Lonardo, Nencini) che ancora ieri hanno chiesto “garanzie” su un’impostazione “non giustizialista”. Terzo: proporre un patto sulla giustizia che superi gli steccati della vecchia maggioranza legando le riforme (processi, Csm e ordinamento giudiziario) in lisergica discussione in Parlamento al piano Recovery Giustizia, portato da 750 milioni a 2,7 miliardi con 22mila assunzioni (le prime nei prossimi mesi). Insomma le riforme “per garantire la ragionevole durate dei processi” secondo “standard europei” come base di un accordo: chi ci sta le scrive con noi, chi fa saltare il banco ci fa perdere anche i fondi del Next Generation Ue. L’idea più forte è la creazione di staff di assistenti dei magistrati sul modello anglosassone, per aumentare la produttività del 20% e ridurre i tempi dei processi. Difficile che basti nell’immediato. Possibile che serva come seme per successivi frutti. Lo sforzo di recuperare un rapporto parlamentare non conflittuale si vede anche nella scelta di Nicola Morra di convocare la commissione antimafia dopo mesi di stallo per l’Aventino del centrodestra. Appuntamento domani sera, dopo il dibattito su Bonafede. Il ministro Bonafede in Aula tenterà il dialogo: ma se mi bocciate dite no ai fondi Ue di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 gennaio 2021 Il ministro prepara la relazione sulla giustizia alle Camere. Insisterà sul fatto che i finanziamenti sono stati quadruplicati. La domenica di Alfonso Bonafede è trascorsa lavorando a un discorso che potrebbe segnare il suo futuro di Guardasigilli, ma anche di capodelegazione grillino di un governo. La relazione sullo stato della giustizia s’è infatti trasformata in un bivio: da un lato la strada per andare avanti e dall’altro il vicolo cieco che porta alla crisi definitiva. Il ministro continua a scrivere e riscrivere un intervento che parlerà di giustizia ma anche di Europa e piano di rilancio per il Paese. In sintesi, Recovery plan. Perché la sostanza di ciò che dirà il ministro - con toni dialoganti, non ultimativi né di rottura, anche perché non è nel suo carattere - è questa: i provvedimenti già in campo che il Parlamento è chiamato ad approvare sono la risposta all’Unione europea che chiede novità e cambi di passo nei settori della giustizia (come per pubblica amministrazione e concorrenza). Si tratta di nuove regole del processo civile e penale, con annesse modifiche all’ordinamento e a organi come il Consiglio superiore della magistratura; bloccare queste riforme per ostilità verso il Guardasigilli, o un provvedimento-totem come l’abolizione della prescrizione dopo la prima sentenza, significa rischiare di bloccare i fondi per la ripresa. Cioè perdere un’occasione storica. È come se Bonafede rispondesse alla sfida sul suo nome e i suoi progetti rispedendo la palla nel campo di chi l’ha lanciata, Matteo Renzi, ma non solo. Se bocciate me bocciate i finanziamenti europei. Non a caso insisterà sul fatto che i 750 milioni inizialmente previsti sono quadruplicati fino a diventare quasi tre miliardi. Di questi la gran parte (2 miliardi e 300 milioni) saranno investiti “su innovazione tecnologica, recupero dell’arretrato, accelerazione e semplificazione dei processi”. Sono previste oltre 20.000 nuove assunzioni in tutti i settori, di cui 10.000 entro il 2021, un “capitale umano” che dovrebbe consentire di abbattere l’arretrato e ripartire con nuove regole per “garantire la ragionevole durata del processo, attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi e assicurando un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. Su come raggiungere questo obiettivo il ministro sosterrà che i piani sono già in campo. Nel settore penale, quello più spinoso, Bonafede ribadirà che i provvedimenti già approvati dal Consiglio dei ministri e approdati alla Camera hanno introdotto, per dirne una, tempi predeterminati nelle varie fasi del procedimento, dalle indagini preliminari fino all’ultimo grado. E per i magistrati che non li rispettano vengono ipotizzate sanzioni disciplinari e/o ostacoli alla progressione in carriera che dovrebbero costituire un incentivo a raggiungere certi risultati; o un deterrente alle lentezze. Su questo aspetto, l’Associazione magistrati ha espresso perplessità, perché “l’approccio punitivo non è la soluzione al problema”, e “un giudice intimorito non è in grado di prendere le sue decisioni con l’imparzialità e la serenità necessarie”. Critiche che dovrebbero costituire una rassicurazione per il cosiddetto fronte garantista che non gradisce l’approccio di Bonafede alla “questione giustizia”, e continua a chiedere una retromarcia sull’abolizione della prescrizione varata dal governo Conte 1 (con i voti a favore dei leghisti e quelli contrari del Pd, che ora sostiene il Conte 2). Emendamenti per tornare alle regole precedenti - peraltro introdotte di recente, nel 2017, quando il Guardasigilli era l’attuale vice-segretario Pd Andrea Orlando - sono già pronti. Ma ieri Luigi Di Maio ha messo il veto: per i grillini “l’abolizione della prescrizione è una questione sociale”, indietro non si torna. Forse l’ha detto per evitare al suo collega di ribattere sull’argomento davanti alle Camere, si vedrà mercoledì o giovedì. Sul resto però (e forse anche sul nodo-prescrizione, dove un anno fa s’era raggiunto un compromesso con il cosiddetto lodo Conte-bis, dal nome del responsabile giustizia di Leu, Federico Conte) il Bonafede dialogante annuncerà che il Parlamento potrà mediare e anche modificare, per migliorarle, le proposte del governo. Che sono un punto di partenza, non di arrivo, per rispondere alle richieste dell’Unione europea. Un modo per alzare la posta e ribadire che nel passaggio che lo attende al Senato non si gioca solo il futuro di Bonafede e del governo, ma del Paese già piegato dalla pandemia. Chissà se basterà. Giustizia, per sminare il terreno Bonafede apre: “Sì a processi più veloci” di Liana Milella La Repubblica, 25 gennaio 2021 Il Guardasigilli non ha ancora inviato al Pd la bozza della relazione che presenterà al Parlamento. Un decreto contro i tempi troppo lunghi del processo civile è bloccato al Senato. Qual è il problema della giustizia italiana? I tempi troppo lunghi dei processi civili e penali. Solo per i primi si farà un decreto legge perché le norme sono bloccate al Senato. Per gli altri c’è un numero, tutto in 5 anni. Su questo sta lavorando il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Perché “l’accelerazione dei processi smina tutto il testo”. Anche la prescrizione? Sì, anche quella. Se acceleri i processi la prescrizione evapora. Da via Arenula non è ancora partita la bozza della relazione sullo stato della giustizia da cui potrebbero dipendere le sorti del governo. Neppure il vice segretario del Pd Andrea Orlando, che pure ha rivolto un appello a Bonafede a lanciare dei segnali, ha ricevuto nulla, né il sottosegretario Dem Andrea Giorgis, che non ha perso uno solo dei summit sulla prescrizione. Ma da Bonafede giunge però un segnale preciso: sta lavorando per garantire quello che tutti gli italiani chiedono, che l’Europa pretende, che le forze politiche di maggioranza e di opposizione reclamano, che Renzi ha posto come una tagliola: processi brevi. La magica cifra della durata potrebbe essere 5 anni. Su questo sono in corso calcoli al millesimo incrociando tempi e soldi, quelli del Recovery plan che immetterà nella giustizia malata 2,7 miliardi per 1.600 magistrati ordinari in più, 16mila addetti all’ufficio del processo, nonché toghe “di soccorso” per i casi più critici. Ma Bonafede dirà che se i processi diventano brevi lui cancella la sua prescrizione? Quella legge che nessuno vuole, né Salvini, né la Bongiorno, né Renzi, né lo stesso Pd? A quanto trapela il ministro non annuncerà né prometterà di cancellare la legge che M5S considera un vessillo. Spiegherà che se i processi rispetteranno la scansione tra primo grado, Appello, Cassazione, lo stop alla prescrizione non sarà più quell’orco che tutti dipingono. Diventerà inutile. Per dirla con chi gli sta accanto in queste ore - forse le più difficili da quando è Guardasigilli - “la proposta di Bonafede sui tempi dei processi sarà lo strumento per sminare il problema stesso”. Ma quali potranno essere i tempi? Il responsabile Giustizia del Pd, nonché tesoriere del partito, Walter Verini, ha lanciato una cifra, 6 anni, 3 anni per il primo grado, due per il secondo, uno per l’ultimo giudizio. Ma Bonafede vorrebbe tenersi ancora più stretto: processo in 5 anni, una media già lunga rispetto a quelle europee, ma che sarebbe una rivoluzione per i tempi italiani. Fino a ieri sera dal cellulare di Bonafede non era ancora partita la bozza diretta al Pd. Che attende con ansia di leggere dove il ministro ha piazzato l’asticella della durata dei processi. Perché da quella può dipendere la sopravvivenza del governo quando Bonafede si presenterà davanti alle Camere. Alla domanda “ma allora si rinvia a palazzo Madama?” avrebbe risposto: “La valutazione spetta al Senato, al momento non mi risulta”. I centristi si smarcano sulla giustizia. Al Senato voto in bilico senza Italia Viva di Francesca Chiri Il Secolo XIX, 25 gennaio 2021 La base di partenza, già risicata, sono i 156 voti ottenuti sull’ultima fiducia al governo Conte che contengono però anche i voti dei senatori a vita e pare difficile, ad esempio, che la senatrice Liliana Segre torni a votare. Cammina sul filo il pallottoliere dei voti per la maggioranza in vista del prossimo voto al Senato per la relazione sulla giustizia del ministro 5 Stelle Alfonso Bonafede. Allo stato il conteggio dei senatori favorevoli e contrari balla intorno alla parità con una possibile lieve prevalenza dei No nel caso in cui i voti dell’opposizione si dovessero saldare con quelli di Italia Viva. E se i centristi non paiono voler cedere alle sirene della maggioranza (Paola Binetti, ad esempio, stigmatizza il ricorso alle urne ma allo stesso tempo ribadisce il suo giudizio negativo sull’operato del ministro Bonafede), dall’altro la maggioranza guarda con speranza a possibili assenze strategiche che potrebbero salvarla “ai punti”. La base di partenza, già risicata, sono i 156 voti ottenuti sull’ultima fiducia al governo Conte che contengono però anche i voti dei senatori a vita e pare difficile, ad esempio, che la senatrice Liliana Segre torni a votare così come non sono assicurate le presenze di Elena Cattaneo e di Mario Monti. Rispetto alla maggioranza precedente ci sono tuttavia altre incognite da mettere in conto. Pier Ferdinando Casini, ad esempio, che aveva votato la fiducia ha già annunciato che farà mancare il suo voto a Bonafede. Così pure Riccardo Nencini che aveva votato in extremis per la maggioranza ma che ha già annunciato come molto difficile un voto favorevole. Stesso discorso per il 5 Stelle Lello Ciampolillo, anche lui aveva sottoscritto una mozione contro il Guardasigilli. Potrebbero invece essere confermati i voti favorevoli di Andrea Causin e Maria Rosaria Rossi, i due senatori di FI che hanno votato la fiducia al Governo. La maggioranza potrebbe quindi passare così ad un numero oscillante tra i 152 e i 155. A questo punto si apre il capitolo Italia Viva che conta 17 senatori, escluso Nencini, ma che ha un sentore assente sempre a causa Covid: i 16 voti rimanenti potrebbero diventare nuove astensioni o voti contrari. Se il leader Matteo Renzi dovesse optare per il voto contrario non è certo che tutti i suoi sarebbero disposti a seguirlo: c’è chi fa affidamento sul fatto che 3-4 senatori possano scegliere di votare con la maggioranza, che così tornerebbe a quota 156 voti (159 con tre senatori a vita) ma sarebbero numeri allo stato del tutto aleatori. Anche perché se così fosse, parallelamente si alzerebbe parecchio l’asticella dei voti contrari. Ai 136 voti di Lega, FdI, Fi e Udc, vanno infatti aggiunti 3 voti di Idea Cambiamo più quello del 5 Stelle Mario Giarrusso che ha dichiarato il suo voto contrario sulla giustizia, e forse quello della ex 5 Stelle Tiziana Drago. Quindi 140/141 voti a cui andrebbero aggiunti i 12 di Italia Viva. Per un totale di 152/153 voti contrari alla relazione del Guardasigilli. Scarcerazioni, prescrizione e Dap: quello che il Guardasigilli non dirà di Stefano Zurlo Il Giornale, 25 gennaio 2021 In Senato proverà ad ammorbidire i toni giustizialisti per evitare di cadere. Il punto più basso a marzo scorso quando il governo ha perso il controllo delle carceri. Ventuno penitenziari fuori controllo, devastazioni e saccheggi, un bilancio spaventoso da Sudamerica: 107 agenti feriti, 69 detenuti in ospedale, 13 morti dopo aver ingerito metadone e droghe. Un altro ministro si sarebbe dimesso nell’ignominia, Alfonso Bonafede invece è sopravvissuto a tutto: pure all’incredibile evasione dal carcere di Foggia di 77 detenuti, compresi alcuni esponenti della mafia locale, e poi all’altrettanto sconcertante capitolo dei boss di Cosa nostra mandati con sciagurata disinvoltura a casa, in detenzione domiciliare, dopo l’esplosione dell’emergenza Covid. Mai era successo qualcosa del genere nella storia repubblicana e l’ultima rivolta paragonabile a quelle scoppiate da Nord a Sud in tutto il Paese era avvenuta a Trani il giorno di Santo Stefano del 1980. Quarant’anni prima. E invece il ministro siciliano è rimasto incollato alla sua disastrata poltrona, con l’aiuto della maggioranza ha parato non una ma due mozioni di sfiducia, presentate dal centrodestra e da +Europa. In quell’occasione fu Matteo Renzi a salvarlo, evitando di sparare il colpo di grazia. Ora potrebbe essere Renzi a decretare la fine del Guardasigilli, anche se lui proverà ad ammorbidire i toni giustizialisti di sempre dirottando il dibattito sui soldi in arrivo dall’Europa e sulle risorse finalmente disponibili. E però, con tutto il rispetto, il bilancio di questo anno e mezzo di navigazione travagliatissima è scoraggiante. C’è quel che è accaduto dietro le sbarre: un inquietante collasso dello Stato e una sconsiderata politica delle misure alternative che lasciano sbalorditi. Lui se l’è cavata tagliando la testa del direttore del Dap, Francesco Basentini, parafulmine di questa catena di errori imperdonabili. Ma Bonafede, in linea del resto con la sua matrice 5 Stelle, è anche il protagonista dell’inaccettabile riforma della prescrizione, un macigno sui diritti degli imputati. Certo, una rivisitazione dei tempi della giustizia ci poteva pure stare, ma i meccanismi introdotti dal 1 gennaio 2020, peraltro con l’avallo della Lega, fermano ora l’orologio dopo la sentenza di primo grado. Così oggi si può rimanere nel limbo dell’attesa di un ulteriore verdetto per tutta la vita. Si era detto solennemente che la nuova norma sarebbe stata accompagnata da robusti correttivi per sveltire la macchina e non trascinare gli indagati nella palude dei processi a vita. Ma, naturalmente, non si è fatto nulla e i ritmi sono quelli di prima. Il governo è corso ai ripari, varando un pacchetto di proposte per tamponare i guasti, ma la soluzione del doppio binario, che distingue la sentenza di colpevolezza da quella di assoluzione, è cervellotica e ha suscitato un coro di proteste. Il testo è in ogni caso all’esame del Parlamento e ci vuole una buona dose di pazienza e ottimismo per sperare nell’approvazione di una legge meno punitiva. Intanto, il ministro che si presentava come il profeta del rinnovamento e il nemico giurato di vecchi compromessi e opache trame, è riuscito a suscitare le ire e i sospetti più limacciosi di un campione, anzi di un’icona dell’antimafia come Nino Di Matteo, il pm della trattativa Stato-mafia ora approdato al Csm. Di Matteo ha raccontato con una telefonata in tv a Massimo Giletti che nel giugno del 2018 Bonafede gli aveva proposto proprio l’incandescente poltrona di capo del Dap. Poi, dopo 24 ore, mentre lui stava per accettare, ingranò la retromarcia, non si capisce bene sulla base di quali pressioni. Un peccato originale oscuro che fa aumentare il disagio dell’opinione pubblica: il ministro ha perso l’anima barricadiera e il consenso incondizionato degli amici duri e puri, ma ha scontentato anche moderati e garantisti. Senza contare la bandiera bianca alzata nel far west delle carceri. Prescrizione, la sciagurata riforma Bonafede e l’esempio di Tronchetti Provera di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 25 gennaio 2021 A quanto pare, mercoledì prossimo il Parlamento sarà chiamato a fare un bilancio della politica sulla Giustizia adottata nel 2020 dal Governo Conte e, per esso, dal Ministro di Giustizia Alfonso Bonafede. Io nutro dubbi, non fosse altro perché da un anno a questa parte la Politica è sospesa, in questo paese, o meglio essa si risolve integralmente nella guerra al Covid. Si tratta certamente di una priorità assoluta ed imprescindibile, ma da qui a pretendere che non si debba ragionare d’altro, e che chiunque ponga problemi di scelte politiche sia additato a sabotatore della salute pubblica, ce ne corre. Ora, mi permetto sommessamente di ricordare ai nostri rappresentanti in Parlamento che il 2020 è stato l’anno nel quale è entrata in vigore la riforma della prescrizione dei reati, che ha sostanzialmente abrogato l’istituto. Doveva già accadere nel 2019 ma l’allora Governo “Conte 1” ne differì di un anno l’entrata in vigore perché la Lega recalcitrava all’idea di varare la nuova figura dell’imputato a vita. L’accordo fu questo: prima interveniamo sul tema della irragionevole durata dei processi penali italiani, cioè sulla vera patologia, e poi eliminiamo il rimedio (cioè la prescrizione). Ma nell’anno di differimento nulla accade, ed anzi cade il Governo. I nuovi partners di maggioranza, Pd in testa, nell’approssimarsi della fatidica scadenza (gennaio 2020), pubblicamente e ripetutamente dicono: questa riforma non è la nostra e non la condividiamo, comunque blocchiamo ma solo perché da subito inizi il percorso parlamentare di riforma dei tempi del processo penale, altrimenti l’imputato a vita è una incivile assurdità. Mercoledì in Parlamento basterà ricordare queste parole, e questi impegni politici pubblici, a fronte, ancora una volta, del nulla sul fronte della riforma del processo penale (e meno male, considerato che la legge delega per come concepita non risolverebbe nulla sulla durata dei processi, ma stravolgerebbe profondamente garanzie processuali e diritto di difesa dei cittadini). Suggerisco che venga presa ad esempio la vicenda processuale del dott. Tronchetti Provera, che lo ha visto imputato per una ipotesi di ricettazione risalente all’anno domini 2004. L’esempio è calzante perché il noto manager, con scelta coraggiosa e quasi temeraria, rinunziò alla prescrizione nel frattempo maturata, convinto che la sua innocenza sarebbe stata senz’altro riconosciuta dai giudici. Dunque, una situazione che simula perfettamente e senza equivoci cosa possa accadere nella nostra realtà giudiziaria a prescrizione eliminata (cioè la situazione voluta dalla sciagurata riforma Bonafede). Condannato in primo grado nel 2013 (dunque 11 anni dopo il fatto); assolto nel 2015; la Cassazione annulla l’assoluzione nel 2016 su ricorso della Procura; la Corte di Appello bis lo assolve di nuovo nel 2017; nel 2018 (sempre su ricorso della Procura, che non molla) la Cassazione bis annulla l’assoluzione bis; nel 2019 l’Appello tris lo assolve ancora; la Procura ricorre ancora (sissignori!) e la Cassazione ter lo assolve definitivamente nel novembre 2020. Eccola, la civiltà giuridica nell’orizzonte di questo Governo, di questo Presidente del Consiglio, di questo Ministro di Giustizia. Eccolo, il paradisiaco eden civile dell’imputato a vita, perfettamente simulato “in vitro”, al di là delle chiacchiere e delle lodi manettare lisergiche degli strafatti quotidiani. Se ne potrà discutere, in Parlamento? Se ne potrà chiedere conto al Governo, senza essere additati al pubblico ludibrio come gli irresponsabili sabotatori della democrazia? Stiamo molto attenti, questo ricatto della emergenza pandemica sta diventando un autentico pericolo democratico. La pretesa che ogni dibattito, ogni obiezione politica, ogni censura di merito ti iscriva direttamente nella categoria dei sabotatori della salute pubblica e delle istituzioni democratiche non può durare in eterno. Io non mi occupo di crisi di Governo, ma pongo una domanda molto semplice, per rimanere sul tema prescrizione: perché, in nome della responsabilità politica e della necessità di salvaguardare le sorti del Governo in questa fase così delicata, non si chiede semmai alla maggioranza di rispettare i propri reiterati impegni pubblici, sospendendo la riforma Bonafede della prescrizione, invece che agli oppositori della riforma di tacere ed arrendersi, in nome del Covid? I soliti sospetti del pm Gratteri di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 25 gennaio 2021 La protesta degli avvocati delle Camere penali e dei magistrati di Md ha accolto le dichiarazioni del procuratore Gratteri a commento di una nuova maxi-indagine condotta dall’ufficio che dirige a Catanzaro. Gratteri, in un’intervista resa a Giovanni Bianconi, ha risposto alla domanda del perché spesso le sue indagini con decine di arresti vengono ridimensionate dal Tribunale del riesame o dai diversi gradi del giudizio. Il procuratore ha ricordato che è il pubblico ministero che chiede le misure cautelari ed è un giudice che le decide, aggiungendo “se poi altri giudici scarcerano nelle fasi successive, non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”. La domanda successiva è stata ovvia: “Ci sono indagini in corso? Qualche pentito parla anche di giudici?”. E il procuratore ha ritrovato il dovuto riserbo: “Su questo ovviamente non posso rispondere”. Non è la prima volta che le parole di Gratteri - che sarebbe stato ministro della Giustizia nel governo Renzi se il presidente Napolitano non si fosse opposto - suscitano sconcerto. Emerge mancanza di rispetto del ruolo proprio del pubblico ministero nel processo, del valore della presunzione di innocenza per tutti gli indagati, del senso profondo della dialettica tra pubblico ministero e difensori di fronte al giudice. Ma questa volta il procuratore ha lanciato gravissime insinuazioni sui giudici che non seguono le sue indicazioni. E ha fatto intendere che in quei casi potrebbe esserci qualcosa di losco che la storia si incaricherà di mettere in luce. Inaudito. È persino troppo ricordare il codice etico della magistratura o i documenti europei che invitano a impedire che pubbliche autorità rilascino dichiarazioni che fanno intendere che gli indagati siano colpevoli, prima della sentenza di condanna definitiva. Qui siamo sotto il minimo della cultura istituzionale, che comporta la accettazione dei limiti del proprio ruolo, non di oracolo repressivo del male, ma di parte in una procedura che si svolge davanti a giudici secondo le regole del processo. I quali giudici, sentiti i difensori, devono applicare con prudenza le regole di ammissibilità e di valutazione delle prove, con esiti che la legge vuole anche diversi da quelli proposti dal pubblico ministero. Le regole strette del processo penale lo rendono poco adatto alla lotta contro fenomeni, siano essi criminali o di malcostume. Esse sono disegnate per assicurare il giusto processo a ciascuna delle persone contro le quali il pubblico ministero eleva una accusa penale. E menzionando ciascuna persona accusata, il pensiero va ai processi con centinaia di imputati, per chiedersi come sia possibile la doverosa, approfondita valutazione individualizzata. Il codice di procedura, con le sue regole, tende a selezionare il più possibile gli indagati da rinviare a giudizio. La regola è che gli elementi acquisiti non debbono essere insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio e ottenere dal giudice una sentenza di condanna. Il troppo elevato numero di assoluzioni all’esito delle indagini preliminari o nelle diverse fasi del giudizio dimostra che questa regola è scarsamente osservata e che da parte dei pubblici ministeri e dei giudici preliminari vi è un’insufficiente selezione iniziale delle ipotesi accusatorie e una inclinazione ad accuse azzardate, prive del necessario riscontro con le prove. Si tratta di un fenomeno dannoso per gli imputati ed anche per l’opinione pubblica, indotta a credere alle accuse e poi all’oscuro della realtà risultata dal processo. A seguire quanto dice il procuratore Gratteri, ci sarebbe da credere che fondata è l’iniziale accusa e sospetta la finale assoluzione. E i Tribunali vengono ingolfati di processi che non dovrebbero esser portati avanti. Le sentenze di assoluzione spesso giungono dopo anni e dopo che gli imputati hanno subito danni umani e professionali spesso enormi. È di questi tempi la rinnovata denunzia della frequenza di processi, talora persino con iniziali privazioni di libertà, che durano molti anni e si concludono con assoluzioni (non solo con sentenze di prescrizione). Spesso gli indagati sono persone che hanno ruoli pubblici e che vengono indotte alle dimissioni o comunque impedite nella loro normale azione. In quei casi le conseguenze pesano non solo sulle persone, ma anche sull’ordinario funzionamento della cosa pubblica. Non solo la normale prudenza, ma anche la massima rapidità delle decisioni in tutti i gradi del giudizio dovrebbe in quei casi essere obbligatoria. Ora, in una delle riforme pendenti in Parlamento (e riportate nel progetto di Recovery Plan) si propone di modificare il criterio di selezione dei procedimenti da portare a giudizio: non idoneità degli elementi acquisiti a consentire una ragionevole previsione di accoglimento della tesi accusatoria nel giudizio (cioè la condanna). Si tratta di un ritocco della formula del codice vigente. Di per sé non servirà a nulla se dalla magistratura non verrà una convinta adesione culturale e professionale, consapevole del proprio ruolo nel rapporto tra lo Stato e l’individuo, regolato dal giusto processo. Fossero rappresentative, le frasi del procuratore Gratteri non preluderebbero a nulla di buono. Non solo i penalisti. Anche Magistratura democratica si dissocia da Gratteri di Errico Novi Il Dubbio, 25 gennaio 2021 Le parole del Procuratore di Catanzaro sono “un rischio per il libero dispiegamento della giurisdizione”. Non solo l’Unione delle camere penali. Anche le associazioni dei magistrati cominciano a dissociarsi dalle parole rilasciate dal procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, al Corriere della sera. Magistratura democratica, la corrente progressista delle toghe, non apprezza il silenzio dell’Anm in merito alla questione e sceglie di sbilanciarsi. “Siamo ben consapevoli di quanto sia importante la libertà di parola dei magistrati, anche quale prezioso strumento di difesa della giurisdizione. Le parole del Procuratore Gratteri, tuttavia, si trasformano nell’esatto contrario e in un rischio per il libero dispiegamento della giurisdizione”, scrive l’Esecutivo di Md in un articolo pubblicato sul sito della corrente. “Non crediamo che la comunicazione dei Procuratori della Repubblica possa spingersi fino al punto di lasciare intendere che essi siano gli unici depositari della verità, e di evocare l’immagine del giudice che si discosti dalle ipotesi accusatorie come nemico o colluso”, aggiunge l’Esecutivo di Md, richiamando con preoccupazione l’intervista al Corriere della Sera di Gratteri che, “nel rispondere alla specifica domanda sul perché le indagini della Procura di Catanzaro vengano spesso ridimensionate dal tribunale del riesame o nei diversi gradi giudizio, afferma: “Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. Così è avvenuto anche in questo caso. Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazione”. Affermazione oscura e il giornalista incalza: “Che significa? Ci sono indagini in corso? Qualche pentito che parla anche di giudici?” Replica: “Su questo ovviamente non posso rispondere”“. Magistratura democratica, invece, crede nel ruolo del pm che “primo tutore delle garanzie e dei diritti costituzionali, agisce nella consapevolezza della necessaria relatività delle ricostruzioni accusatorie e della necessità di verificarle nel contraddittorio, e non in quello di parte interessata soltanto al conseguimento del risultato, lontano dalla cultura della giurisdizione e dall’attenzione all’accertamento conseguito nel processo”. Invece, “con un tale agire”, aggiunge Md, richiamando ancora l’intervista di Gratteri, il pm “dismette il suo ruolo di primo tutore delle garanzie e dei diritti costituzionali - a partire dal principio di non colpevolezza - e assume quello di parte interessata solo al conseguimento del risultato, lontano dalla cultura della giurisdizione e dall’attenzione all’accertamento conseguito nel processo”. È talmente dura la presa di posizione delle toghe di sinistra da ricevere il plauso di Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali, che prende carta e penna per scrivere una nuova missiva all’Anm che, a suo dire, avrebbe liquidato troppo in fretta le questioni sollevate dagli avvocati con una prima lettera. Il tema posto dall’Ucpi “non ha nulla a che fare né con le legittime certezze degli inquirenti circa la fondatezza delle indagini, né con il diritto di impugnazione dei provvedimenti adottati, che - e ne siamo lieti e risollevati - il dott. Gratteri parrebbe riconoscere come legittimo”, scrive Caiazza. Ciò che contestano i penalisti, statistiche alla mano, è “il sistematico ridimensionamento quantitativo e qualitativo delle ipotesi accusatorie” che sorreggono le indagini condotte dal procuratore di Catanzaro. “Il dato di fatto è a tal punto notorio che l’intervistatore, Giovanni Bianconi, gliene chiede conto, né l’intervistato mostra di poterlo negare; ed il nocciolo della questione sta nella incredibile spiegazione che ne viene data. Di quegli esiti così deludenti per l’Accusa, e tuttavia sanciti dal libero esplicarsi della giurisdizione, il dott. Gratteri invoca un prossimo giudizio della Storia, che sarebbe dunque - o sarà, o starebbe per esserlo - ben diverso da quello descritto nelle sentenze dei Tribunali del Riesame, dei Giudici di primo e di secondo grado e di quelli della Suprema Corte”, argomenta Caiazza. “Allo sbigottito intervistatore, che chiede se la Procura di Catanzaro abbia per le mani emergenze investigative che spieghino quegli esiti in termini di collusioni mafiose nella giurisdizione il dott. Gratteri non liquida certo con sdegno la oltraggiosa intuizione del giornalista, ma anzi la avvalora e la consolida: “A questo ovviamente non posso rispondere”. Che significa: sì, certamente, tant’è che non posso parlarne”. L’Unione delle Capere penali, assicura Caiazza, pensa a tutti quei giudici di merito e della Cassazione che nelle prossime ore saranno chiamati a esprimersi sugli arresti disposti dal gip a seguito delle indagini di Gratteri, che dovranno giudicare sotto pressione mediatica. “Non avvertite alcun problema? Non registrate un qualche possibile disagio? Non ritenete di dover far giungere a quei giudici la piena, solidale vicinanza dell’Associazione nazionale magistrati a difesa della loro indipendenza, integrità e libertà morale? O altrimenti dobbiamo immaginare che il tema della indipendenza e della autonomia della magistratura vale solo a salvaguardia delle iniziative giudiziarie delle Procure, ma non dei Giudici che ne vagliano il fondamento?”, scrive Caiazza. Insinuazioni Gratteri pericolo per la Giustizia, Md si ribella: “Giudici trattati da collusi” di Angela Stella Il Riformista, 25 gennaio 2021 Non si placano le polemiche per le improvvide dichiarazioni del Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri al Corriere della Sera: “Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. Così è avvenuto anche in questo caso. Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”, ha risposto così il pm al collega che gli ha chiesto come mai spesso le sue inchieste vengano ridimensionate. Incalzato dal giornalista, “Che significa? Ci sono indagini in corso? Qualche pentito che parla anche di giudici?”, Gratteri ha replicato: “Su questo ovviamente non posso rispondere”. Poche purtroppo sono state le reazioni in questi giorni, e oggi per fortuna è arrivata anche quella dell’Esecutivo di Magistratura Democratica: seppur “ben consapevoli di quanto sia importante la libertà di parola dei magistrati, anche quale prezioso strumento di difesa della giurisdizione” tuttavia, sottolinea l’esecutivo presieduto dal Segretario Nazionale Mariarosaria Guglielmi, “le parole del Procuratore Gratteri si trasformano nell’esatto contrario e in un rischio per il libero dispiegamento della giurisdizione”. Non è affatto morbida l’analisi che fanno da Md, perché dicono chiaramente quello che a tutti, o quasi, è apparso chiaro, ossia che le parole del pm calabrese sono gravissime perché alluderebbero a pericolose complicità tra giudici e malavita: “Non crediamo - scrivono - che la comunicazione dei Procuratori della Repubblica possa spingersi fino al punto di lasciare intendere che essi siano gli unici depositari della verità, e di evocare l’immagine del giudice che si discosti dalle ipotesi accusatorie come nemico o colluso”. “Con un tale agire - prosegue la nota di Md - il Pubblico Ministero dismette il suo ruolo di primo tutore delle garanzie e dei diritti costituzionali - a partire dal principio di non colpevolezza - e assume quello di parte interessata solo al conseguimento del risultato, lontano dalla cultura della giurisdizione e dall’attenzione all’accertamento conseguito nel processo”. A Gratteri, sostengono da Md, andrebbe ricordato anche che “La Direttiva 2016/343/UE del 9 marzo 2016, all’art. 4, prescrive agli Stati membri di ‘adottare le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole”. Crediamo - conclude la nota - nel ruolo del Pubblico Ministero che agisce nella consapevolezza della necessaria relatività delle ricostruzioni accusatorie, della necessità di verificarle nel contraddittorio, e del ruolo del giudice terzo e indipendente”. Temiamo purtroppo che questa indignazione, arrivata se non erriamo nel silenzio delle altre associazioni di magistrati, non servirà a smuovere le giuste coscienze e i giusti organi che potrebbero invece aprire una seria riflessione, prodromica chissà anche ad un richiamo disciplinare, in merito a quanto affermato da Gratteri. Dal Csm tutto tace ovviamente, mentre l’Anm ha già seppellito la questione e lo ha fatto con una dichiarazione del Presidente Santalucia, giunta dopo che Gratteri aveva commentato a sua volta il durissimo comunicato dell’Unione delle Camere Penali. Ecco ricostruita la sequela di dichiarazioni. I penalisti italiani hanno fortemente stigmatizzato le dichiarazioni di Gratteri: “Queste affermazioni rappresentano un attacco di inaudita gravità all’autonomia e indipendenza dei giudici. L’Unione scrive al CSM per le sue opportune valutazioni, e ad ANM per conoscere quali iniziative intende porre in essere a tutela dei giudici che non hanno condiviso, o eventualmente non condivideranno, le ipotesi accusatorie a fondamento delle indagini del Dott. Gratteri”. A ciò è seguita una nota all’Ansa del Procuratore di Catanzaro che si è rivolto proprio all’Ucpi: “Sono a conoscenza della nota inoltrata dalle camere penali, ma ribadisco nuovamente, come fatto anche in passato, che il riferimento alle scarcerazioni e a quello che accadrà in futuro sta a significare che io e il mio ufficio siamo assolutamente convinti, sulla base delle indagini fatte, della bontà delle nostre richieste nel pieno rispetto delle norme processuali ivi compreso il diritto all’impugnazione dei provvedimenti riconosciuto ad entrambe le parti processuali”. Non occorre commentare l’antinomia di questa dichiarazione con quanto affermato invece al Corsera. Comunque a mettere una pietra sul “Caso Calabria”, come lo ha intitolato Md, è arrivato proprio il Presidente dell’Anm, Santalucia che in maniera pilatesca ha dichiarato: “La nota oggi diffusa (ieri da Gratteri, ndr) nella parte in cui sottolinea il rispetto delle norme processuali e fa richiamo agli strumenti delle impugnazioni come legittima reazione, dentro il processo, a provvedimenti non condivisi, sembra poter dissipare perplessità e chiarire equivoci”. A Repubblica Santalucia si è spinto oltre e, commentando l’altra incredibile dichiarazione di Gratteri sull’intreccio tra la sua inchiesta e la crisi di governo, ha detto: “Anzi, sa cosa penso? Che forse ha ecceduto nel giustificarsi al contrario quando ha parlato delle regionali e dell’esigenza di aspettare”. Nel pomeriggio di domenica, è di nuovo l’Unione delle Camere Penali ad intervenire chiedendo che il “caso Gratteri non sia frettolosamente liquidato”. Lo fa indirizzando una lettera proprio al Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “Crediamo sia doveroso mettersi tutti nei panni di quei Vostri Colleghi (Giudici del merito e della Corte di Cassazione) che già dalle prossime ore saranno destinatari delle iniziative di impugnazione avverso questa ennesima infornata di arresti; e magari, già che ci siamo, anche in quelli degli avvocati che dovranno patrocinarle. Ed è questa la ragione per la quale ci siamo permessi di rivolgerci a Voi. Non avvertite alcun problema? Non registrate un qualche possibile disagio? Non ritenete di dover far giungere a quei giudici la piena, solidale vicinanza dell’Associazione nazionale magistrati a difesa della loro indipendenza, integrità e libertà morale? O altrimenti dobbiamo immaginare che il tema della indipendenza e della autonomia della magistratura vale solo a salvaguardia delle iniziative giudiziarie delle Procure, ma non dei Giudici che ne vagliano il fondamento? Mi consenta di esprimere l’auspicio che questa vicenda, lungi dall’essere così frettolosamente liquidata, possa costituire l’occasione per un franco e leale dibattito pubblico, come merita la cruciale rilevanza delle questioni che essa implica”. Non possiamo non concludere quindi con la domanda retorica (?) che si è posto l’avvocato Valerio Spigarelli in un suo dialogo con il professor Giorgio Spangher in un video sulla pagina Facebook L’Asterisco: “Perché Santalucia non vede questa enormità? In questo contesto manca la difesa della giurisdizione proprio da chi la dovrebbe difendere”. Il ricorso per Cassazione proposto a mezzo pec è inammissibile di Anna Larussa altalex.com, 25 gennaio 2021 Per la Cassazione è modalità non consentita, stante il principio di tassatività e inderogabilità delle forme per la presentazione delle impugnazioni (sentenza n. 487/2021). “In assenza di norma specifica che consenta nel sistema processuale penale il deposito di atti in via telematica, è inammissibile il ricorso per cassazione proposto a mezzo posta elettronica certificata, trattandosi di modalità non consentita dalla legge, stante il principio di tassatività e inderogabilità delle forme per la presentazione delle impugnazioni”. In questi termini si è espressa la I Sezione della Corte di Cassazione con la sentenza 8 gennaio 2021, n. 487 (testo in calce), ribadendo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità in ordine al divieto di uso della posta elettronica certificata per la trasmissione degli atti di parte nel processo penale. Il fatto - Nel caso sottoposto all’esame della Corte il ricorso per cassazione, a mezzo pec, era stato proposto avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di sorveglianza di Bari aveva rigettato le istanze avanzate dal proposto, in regime custodiale per altra causa, volte ad ottenere misure alternative alla detenzione per il titolo già in esecuzione. Con esso la Difesa si doleva della celebrazione dell’udienza in presenza del difensore d’ufficio in luogo del rinvio d’ufficio della stessa a data successiva al 31 maggio 2020 ai sensi dell’art. 1 comma 2 lett. g del d.l. n. 11/2020. Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione eccepiva l’inammissibilità del ricorso in considerazione del fatto che il detenuto aveva richiesto espressamente la trattazione dell’udienza. La sentenza - In disparte l’inammissibilità del motivo proposto, comunque dichiarato tale, avuto riguardo alla richiesta espressa di trattazione dell’udienza da parte del detenuto (ancorché si trattasse di detenzione per altra causa e, quindi, a stretto rigore, non rientrante nell’eccezione alla regola generale del rinvio d’ufficio: arg. Ex art. 2 comma 2 lett. G d.l. 11/2020), la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso perché proposto con un mezzo non consentito. La statuizione ribadisce un costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il ricorso alla pec, nel processo penale, non è consentito alle parti per la trasmissione dei propri atti alle altre parti né per il deposito negli uffici, poiché si tratta di un mezzo riservato alla sola cancelleria per le comunicazioni richieste dal Pubblico ministero e per le notificazioni disposte dall’Autorità giudiziaria. La mancanza, nelle disposizioni che regolano il processo penale, di norme che consentano l’inoltro per via telematica degli atti confermerebbe tale assunto, ad onta della equiparazione del valore legale della pec a quello della raccomandata con ricevuta di ritorno prevista dal Codice dell’Amministrazione digitale (art. 48). A riguardo la Corte ha richiamato una recente pronuncia (Cass. Pen., 32566/2020) che, nel dichiarare in quel caso inammissibili i motivi nuovi di ricorso trasmessi mediante posta elettronica dal Procuratore generale nell’ambito del giudizio ex art. 311 c.p.p., ha statuito che l’equiparazione di cui sopra non ha diretta applicazione all’uso di tale strumento nel processo penale se non nei limiti del Decreto del Ministero della Giustizia 44/2011 (Regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi dell’articolo 4, commi 1 e 2, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella legge 22 febbraio 2010 n. 24) e solo a seguito dell’adozione del decreto dirigenziale previsto dall’art. 35 del detto DMG (che, prima dell’attivazione della trasmissione dei documenti informatici, accerti l’installazione e l’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici nel singolo ufficio). Nel processo penale, in materia di impugnazioni, vige, come noto, il principio di tassatività e inderogabilità delle forme per la presentazione dell’atto di impugnazione previste dagli articoli 582 e 583 c.p.p. la cui inosservanza è sanzionata con la inammissibilità dell’impugnazione dall’art. 591 lett. c). Ne consegue che, in difetto di una norma specifica che consenta il deposito telematico, il ricorso per cassazione non può essere proposto a mezzo pec. Tale norma specifica la Corte non ha individuato neppure nella normativa di emergenza posto che l’art. 83 comma 11 bis d.l. 18/2020 ha previsto tale possibilità solo per i ricorsi civili sino al 31 luglio 2020 e subordinatamente all’adozione di un provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi automatizzati mentre l’art. 24 comma 4 del d.l. n. 137/2020 (che ha previsto la possibilità di trasmissione via pec per atti, documenti e istanze diversi da quelli indicati nei primi due commi della stessa norma ovvero memorie, documenti, richieste ed istanze indicate dall’articolo 415-bis, comma 3, c.p.p. per i quali è previsto il deposito dal portale del processo penale telematico) trova applicazione esclusivamente in relazione agli atti di parte per i quali il codice di procedura penale non disponga specifiche forme e modalità di presentazione (Cass. Pen., 32566/2020). In forza di tali assunti la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento della somma di tremila euro alla Cassa delle ammende. Social network: uso improprio da parte dei minori e dovere di vigilanza dei genitori di Antonella Dario* Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2021 I pericoli ai quali il minore è esposto nell’uso della rete telematica rendono necessaria una tutela specifica degli stessi e un rafforzamento degli obblighi inerenti alla responsabilità genitoriale. La tragica morte di una bambina di dieci anni - parrebbe, dalle cronache, a seguito di un c.d. challenge su un popolare social network per giovanissimi - ha riacceso nuovamente i riflettori sulle delicatissime dinamiche della rete, quando sono interessati i minori: oggi è sempre più frequente, anche per loro, l’utilizzo di internet e, in generale, degli strumenti di comunicazione telematica, al fine di acquisire notizie e di esprimere le proprie opinioni. La prima generazione digitale (“digital natives”) si è sviluppata in un contesto in cui la tecnologia pare essere diventata non solo un supporto ma addirittura una necessità, attraverso cui si manifesta il bisogno di esprimerci, comunicare, intrattenerci e, in definitiva, di evitare la solitudine. L’impiego di tali mezzi consente l’esercizio di un diritto di libertà, ossia del diritto di ricevere e comunicare informazioni e idee: in particolare, il diritto all’informazione e alla comunicazione, è riconducibile alla libertà di espressione ai sensi del primo comma dell’art. 10 della Convenzione di Roma del 1950 e costituisce un interesse fondamentale della persona umana. La libertà di espressione, al livello sovranazionale, è tutelata dall’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre del 2000 e nella Costituzione la libertà di comunicazione trova garanzia e riconoscimento nell’art. 21 che sancisce il diritto di ogni persona di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto e con ogni altro mezzo di diffusione. Il diritto alla libertà di espressione trova tuttavia alcuni limiti. Occorre considerare che, dall’anomalo utilizzo dei suddetti mezzi, derivano enormi pericoli per gli stessi minori che sono soggetti deboli e, non avendo raggiunto un’adeguata maturità ed essendo ancora in corso il processo relativo alla loro formazione, necessitano di apposita tutela. Oggi, quindi, si presenta come necessaria una regolamentazione specifica della responsabilità dei genitori in relazione ai possibili illeciti civili e penali che i minori possono compiere utilizzando gli strumenti elettronici connessi a Internet e questo pone la necessità di una specifica formazione all’utilizzo della rete telematica. Sotto tale profilo, si deve osservare che l’anomalo utilizzo da parte del minore dei mezzi offerti dalla moderna tecnologia, tale da lederne la dignità cagionando un serio pericolo per il sano sviluppo psicofisico dello stesso, può essere sintomatico di una scarsa educazione e vigilanza da parte dei genitori. Il diritto alla libertà di espressione trova un primo limite nella tutela della dignità della persona, in particolare quando si tratta di minore di età. A questo proposito la Corte di Cassazione civile, sez. III, con sentenza del 5 settembre 2006, n. 19069, ha affermato la necessità di tutelare il minore nell’ambito del mondo della comunicazione, facendo riferimento in particolare all’art. 16 della Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989, che sancisce il diritto di ogni minore a non subire interferenze arbitrarie o illegali con riferimento alla vita privata, alla sua corrispondenza o al suo domicilio e a non subire lesioni alla sua reputazione e al suo onore. L’art. 3 della Convenzione di New York prevede poi che, in ogni procedimento davanti al giudice che coinvolga un minore, l’interesse superiore di quest’ultimo deve essere senz’altro considerato preminente. Tale preminenza ha quindi luogo anche nel giudizio di bilanciamento con eventuali e diversi valori costituzionali, quali il diritto all’informazione e la libertà di espressione degli altri individui. Il bilanciamento con eventuali e diversi valori costituzionali, quali il diritto all’informazione e la libertà di espressione degli altri individui. I pericoli ai quali il minore è esposto nell’uso della rete telematica rendono, quindi, necessaria una tutela specifica degli stessi e un rafforzamento degli obblighi inerenti alla responsabilità genitoriale, che impongano ai genitori non solo il dovere di impartire al minore un’adeguata educazione all’utilizzo dei mezzi di comunicazione, ma anche di compiere un’attività di vigilanza sul minore per quanto concerne il suddetto utilizzo. Questo al fine di prevenire, da un lato, che i minori siano vittime dell’abuso di internet da parte di terzi e, dall’altro, a evitare che i minori cagionino danni a terzi o a sé stessi mediante gli strumenti di comunicazione telematica. E questo è il secondo limite alla libertà di espressione tramite internet. Il dovere di vigilanza dei genitori è, quindi, strettamente connesso all’estrema pericolosità di quel sistema e di quella potenziale esondazione incontrollabile dei contenuti. La responsabilità civile dei genitori - La responsabilità del compimento di eventuali illeciti da parte dei minori ricadrà conseguentemente sui genitori. La responsabilità dei genitori varia a seconda che si tratti di illecito civile o penale. In ambito civile, al pari di qualsiasi altra tipologia di illecito, anche quello commesso sulla rete internet implica una responsabilità dei genitori ex art. 2048 c.c. connessa ai doveri inderogabili ex art. 147 c.c., che è “attenuata” solo nel caso in cui i genitori diano prova di aver impartito una buona educazione e di aver predisposto ogni ragionevole misura di sicurezza al fine di evitare la commissione dell’illecito, nonché di non essere riusciti a impedire il fatto nonostante l’adeguata vigilanza espletata. Si applica la cosiddetta “responsabilità oggettiva” (Cass. 2413/2014 e 3964/2014). La Suprema Corte ha infatti specificato che deve ritenersi presunta la culpa in educando dei genitori, qualora il fatto illecito commesso dal figlio minore sia di tale gravità da rendere evidente la sua incapacità di percepire il disvalore della propria condotta, confermando il principio per cui i genitori di un figlio minorenne con essi convivente possono sottrarsi alla responsabilità ex art. 2048 c.c. solo nel caso in cui dimostrino l’assenza di una loro culpa in vigilando e in educando, con la precisazione che, in talune fattispecie, è possibile ritenere in re ipsa la culpa in educando e, pertanto, non è sufficiente un’allegazione generica, bensì è necessario fornire una prova specifica e rigorosa sulla correttezza dell’educazione impartita. La responsabilità penale dei genitori - In ambito penale invece, in ossequio alle disposizioni codicistiche, il minore di quattordici anni è sempre non imputabile e la relativa responsabilità ricadrà, dunque, sui genitori o sugli esercenti la relativa responsabilità. Per quanto attiene, invece, al minore di diciotto anni che abbia compiuto i quattordici anni, questo sarà imputabile, a meno che non si fornisca la prova della sua incapacità (artt. 97 e 98 c.p.). Il nostro sistema normativo prevede un regime rigoroso di responsabilità dei genitori verso i terzi per il fatto illecito commesso dai figli minorenni, con presunzione di responsabilità per culpa in vigilando e culpa in educando. Il dovere di educare secondo la giurisprudenza di merito - Caso emblematico è quello sottoposto all’attenzione dei giudici del Tribunale di Caltanissetta, chiamati a valutare l’incidenza delle azioni di stalking attuate dal minore e perpetrate ai danni di una sua compagna di classe. Nel caso appena citato era emerso che il ragazzo “in concorso con altri minori (...), con condotte reiterate e utilizzando il sistema di messaggistica istantaneo WhatsApp, molestava un’altra minorenne, in modo tale da cagionarle un perdurante e grave stato di ansia e di paura, costringendola a modificare le proprie abitudini di vita, per il fondato timore per l’incolumità propria e dei propri cari”. I giudicanti hanno ritenuto che la condotta implicasse il supporto dei Servizi Sociali in relazione all’incapacità dei genitori di impartire una sana e corretta educazione, nonché una adeguata attività di vigilanza. Il Tribunale, con sentenza depositata l’8 ottobre 2019, ha affermato che gli obblighi inerenti alla responsabilità genitoriale impongono non solo il dovere di impartire al minore un’adeguata educazione all’utilizzo dei mezzi di comunicazione, ma anche di compiere un’attività di vigilanza sul minore per quanto concerne il suddetto utilizzo. A ciò ha aggiunto che “l’educazione deve essere, inoltre, finalizzata a evitare che i minori cagionino danni a terzi o a sé stessi mediante gli strumenti di comunicazione telematica; sotto tale profilo si deve osservare che l’anomalo utilizzo da parte dei minori dei social network e, in generale, dei mezzi offerti dalla moderna tecnologia tale da lederne la dignità cagionando un serio pericolo per il sano sviluppo psicofisico degli stessi, può essere sintomatico di una scarsa educazione e vigilanza da parte dei genitori; i genitori sono tenuti non solo ad impartire ai propri figli minori un’educazione consona alle proprie condizioni socio-economiche, ma anche ad adempiere a quell’attività di verifica e controllo sulla effettiva acquisizione di quei valori da parte del minore; riguardo all’uso della rete telematica l’adempimento del dovere di vigilanza dei genitori è, inoltre, strettamente connesso all’estrema pericolosità di quel sistema e di quella potenziale esondazione incontrollabile dei contenuti”. Il dovere di vigilanza dei genitori - Al riguardo la stessa giurisprudenza di merito, richiamando alcuni principi già consolidati, ha affermato che “il dovere di vigilanza dei genitori deve sostanziarsi in una limitazione sia quantitativa che qualitativa di quell’accesso, al fine di evitare che quel potente mezzo fortemente relazionale e divulgativo possa essere utilizzato in modo non adeguato da parte dei minori (dello stesso avviso già il Tribunale di Teramo che, con sentenza 6 gennaio 2012, ha affrontato la questione relativa alla responsabilità civile dei genitori ai sensi dell’art. 2048 c.c. nell’ipotesi di danno cagionato dal minore attraverso Facebook)”. Considerata, nel caso di specie, l’anomala condotta posta in essere dal minore, avuto riguardo anche alla pericolosità del mezzo utilizzato, il Tribunale ha ritenuto opportuno svolgere un’attività di monitoraggio e supporto del giovane e della madre anche al fine di verificare le capacità educative e di vigilanza della stessa. Tale compito è stato affidato al Servizio Sociale competente sul territorio e il Tribunale ha, quindi, dichiarato decaduta dalla responsabilità genitoriale la madre nei confronti del figlio minore. Ancor più recentemente, il Tribunale di Parma, con sentenza del 5 agosto 2020, ha ribadito che il diritto-dovere dei genitori di educare i propri figli comprende anche l’educazione digitale dei minori, precisando nel caso di specie che “I contenuti presenti sui telefoni cellulari dei minori andranno costantemente supervisionati da entrambi i genitori, evitando la comparsa di materiali non adatti all’età ed alla formazione educativa dei minori. La stessa regola vale per l’utilizzo eventuale del computer, al quale andranno applicati i necessari dispositivi di filtro”. Uno sguardo alla realtà - Per utilizzare i social network, secondo la normativa vigente, occorre aver compiuto almeno 14 anni. Fra i 13 e i 14 è possibile farlo, ma con la supervisione dei genitori. Sotto i 13 anni è semplicemente vietato usare Facebook, Instagram, Twitter, Snapchat o WhatsApp. Ma non è davvero così nella realtà. Secondo dati statistici, l’85% dei ragazzi tra i 10 e i 14 anni possiede un profilo social. Nessuno al momento dell’iscrizione ha indicato la sua vera età, neppure quel 22% che lo ha fatto con un genitore presente, mentre il 91% non parla con i genitori di quelle che vede o che dice su internet. Regole di comportamento in internet - È opportuno insegnare agli adolescenti e ai bambini ad avere un comportamento corretto e sicuro quando si usa internet. Alcune semplici regole sono: rispettare gli altri; non diffondere mai informazioni personali; non accettare mai appuntamenti con gli amici “Internet”; spegnere il computer se ci si sente a disagio. Decalogo per un uso consapevole della rete e dei media -tenere il pc sempre aggiornato. Gli antivirus e gli aggiornamenti sono la miglior difesa contro i virus; -porre attenzione alla scelta della password e alle funzioni di ripristino; -stare molto attenti alla propria privacy; -rispettare anche quella degli altri; - imparare ad usare il browser e navigare sempre tramite programmi sicuri per evitare insidie e siti pericolosi; -anche per gli acquisti on line, bisogna imparare a capire quando un sito è sicuro; -se vi sono dubbi, chiedere sempre ai genitori o un adulto. Considerazioni finali - La prima generazione digitale è nata con il World Wide Web. I bambini sono in grado di comprendere il funzionamento di internet meglio dei genitori: tuttavia, proprio perché non hanno ancora acquisito la maturità necessaria per discernere ciò che è bene e ciò che è male, né per avvertire insidie e pericoli, nel rispetto dei propri doveri formativi, i genitori non possono permettersi di restare dei semplici osservatori. Questi hanno il dovere di stabilire le regole base e per farlo devono in primo luogo conoscere ciò di cui si parla. Solo così le regole date saranno comprese e accettate dai bambini. È molto importante stabilire anche disposizioni precise sul tempo concesso ai bambini per la navigazione online e sui siti web cui possono accedere, anche utilizzando specifici programmi e funzioni di “controllo genitori”. Questo consente di vigilare i minori e controllare che non abbiano libero accesso ad alcune categorie di siti come quelli di violenza, pornografia, giochi online ecc., regole fondamentali senza le quali i bambini possono sviluppare una dipendenza da computer con danni anche psicologici e allo sviluppo emotivo. Il bullismo sul web e i filmati violenti sono un’altra preoccupante tendenza in crescita e qui le conseguenze sono, purtroppo, troppo spesso drammatiche. Per questo è fondamentale anche approfondire e rafforzare la collaborazione dei genitori con le scuole e le altre autorità e, soprattutto, creare un solido rapporto di fiducia coi propri figli basato su una costante comunicazione bidirezionale. *Avvocato Campania. Con il Covid meno ingressi in carcere: “Stop alla reclusione per i fatti meno gravi” di Francesca Sabella Il Riformista, 25 gennaio 2021 L’arrivo e il protrarsi della pandemia hanno fatto abbassare la curva degli ingressi nelle carceri campane, ma il numero di nuovi detenuti resta comunque molto alto. Secondo i dati diffusi dal Ministero della Giustizia, nel 2020 sono stati 3.680 gli ingressi dalla libertà (cioè i casi di persone entrate in cella per la prima volta) negli istituti di pena regionali. Così la Campania diventa la quarta area per ingressi in carcere dopo la Lombardia, che nel 2020 ne ha registrati 5.378, il Lazio che ne ha fatti segnare 3.964 e il Piemonte con 3.828. Nel 2019 il bilancio di fine anno aveva fatto segnare numeri decisamente più alti: al 31 dicembre di quell’anno ben 5.113 persone avevano varcato per la prima volta la porta di una prigione campana. Anche il 2018 si era concluso con un numero molto alto di ingressi in cella: 5.195 i nuovi detenuti. Nello stesso anno anche la Lombardia raggiungeva cifre ragguardevoli: addirittura 7.528 le persone entrate in prigione. Le restrizioni, la vita sociale pressoché azzerata, lo stop alla mobilità e il coprifuoco hanno senz’altro frenato la delinquenza, ma il sovraffollamento degli istituti di pena resta comunque uno dei principali problemi del sistema carcerario. “La diminuzione dei nuovi detenuti è stata avvertita relativamente poco all’interno delle carceri - spiega Antonio Fullone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria - Certo, meno ingressi vuol dire più spazio per i reclusi, ma non bastano questi numeri a risolvere il problema del sovraffollamento e della necessità di osservare il distanziamento sociale, misura precauzionale molto difficile da seguire per chi vive in cella”. Gli ultimi numeri rivelano, infatti, che nelle carceri campane ci sono circa 600 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Poggioreale ospita più di 2mila detenuti a fronte di un numero massimo di mille e 600. E, per il futuro, c’è il timore che il ritorno alla vita normale faccia aumentare i reati, anche alla luce della crisi che stritola la popolazione. “Già da un po’ di tempo gli ingressi stanno per raggiungere i livelli “ordinari”, quindi precedenti rispetto all’emergenza sanitaria, perché la seconda ondata della pandemia è stata caratterizzata da misure meno restrittive - continua Fullone - Preoccupa la nascita di una classe di “nuovi poveri” e il rischio concreto che quei soggetti che già vivevano ai limiti della legalità superino quel confine labile. La sensazione è che le ultime persone arrestate abbiano commesso il reato a causa delle gravi difficoltà del momento”. Più ingressi in carcere vorrebbe dire far scoppiare le celle, se si considera anche che le scarcerazioni procedono a singhiozzo. “I provvedimenti finora adottati per decongestionare le carceri non sono serviti a molto - spiega Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane - Occorre un provvedimento che blocchi gli ingressi in carcere per i reati minori e non socialmente pericolosi. I tribunali sono in tilt, i giudici di sorveglianza riescono a fare poco o niente per concedere misure alternative ai detenuti anche perché manca lo strumento principale: una legge che consenta davvero di svuotare i penitenziari. Se a questo aggiungiamo la legge sulla nuova prescrizione, la situazione peggiora ulteriormente e non è ancora chiaro come si riusciranno a fare tutti questi processi in tempi ragionevoli”. La soluzione? “Resettare il sistema approvando indulto e amnistia”. Secondo Polidoro un’altra questione da risolvere è anche di stampo culturale e affonda le sue radici in una profonda disinformazione: “Morti ritengono che la giustizia funzioni se tanti non sanno nulla di tribunali e penitenziari. Se sapessero quanto sono ingiusti certi processi e certe inchieste che vanno avanti per anni e anni, o quanto costa un processo e quante risorse umane e finanziarie impone un detenuto, credo che cambierebbero idea”. Piemonte. Situazione critica nelle carceri, il Garante: “Recuperare le strutture esistenti” iltorinese.it, 25 gennaio 2021 “Occorre valutare attentamente come utilizzare al meglio le strutture esistenti e le risorse in campo, a cominciare da quelle del personale. Siamo ancora in tempo: meglio puntare sul recupero degli spazi esistenti nelle carceri di Alba, Cuneo e Alessandria. Senza contare che i progetti faraonici di Savona e l’ipotesi di convertire in carcere una caserma di Casale Monferrato rischiano di rivoluzionare il panorama carcerario piemontese senza risolvere le criticità da noi denunciate”. Lo ha dichiarato il garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano al termine dell’incontro, svoltosi nella sede del Comune di Asti, tra il sindaco Maurizio Rasero e il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Pierpaolo D’Andria, alla presenza della garante comunale dei detenuti Paola Ferlauto. Focus della riunione: il progetto del nuovo padiglione da 120 posti, da edificare al posto dell’attuale campo da calcio della Casa di reclusione di Asti. Mellano ha auspicato che l’ipotesi di costruzione del padiglione venga riconsiderata e alle sue perplessità si sono unite quelle dall’Amministrazione comunale, preoccupata che il progetto non sia utile a risolvere le criticità già note, andando a peggiorare una situazione già di per sé precaria e già nota a livello nazionale. Al termine dell’incontro Mellano ha chiesto a Rasero “un aiuto da parte del Comune per interventi di accoglienza dei familiari dei detenuti, dal momento che il carcere di Asti ospita detenuti appartenenti a circuiti di diversi livelli di sicurezza e provenienti da altre zone d’Italia”. I garanti hanno inoltre chiesto che l’Ufficio detenuti del Provveditorato fornisca numeri ed elenchi di detenuti astigiani presenti nelle altre carceri del Piemonte per poter dare la migliore assistenza possibile alle situazioni di fragilità sociale magari ancora sconosciute all’Amministrazione comunale. Termini Imerese (Pa). Muore in carcere tunisino condannato per traffico di migranti ilsicilia.it, 25 gennaio 2021 È giallo sulla morte, nel carcere di Termini Imerese (Palermo), di Chiheb Hamrouni, 29 anni, tunisino, residente a Marsala, tra i principali imputati nel processo scaturito dall’indagine “Scorpion Fish” (traffico di migranti e contrabbando di sigarette), portata a termine da Dda e Guardia di finanza il 6 giugno 2017. Lo scorso 4 giugno, la seconda sezione della Corte d’assise d’appello di Palermo (presidente Angelo Pellino), confermandone la condanna, gli aveva ridotto la pena da 7 anni e 4 mesi di carcere a sei anni e mezzo più 116 euro di multa. A divulgare la notizia della morte di Chibeb Hamrouni è stato il suo legale, Fabio Sammartano, del foro di Trapani, che dice: “La salma è stata posta sotto sequestro, a disposizione dell’autorità giudiziaria di Termini Imerese, il pm Giacomo Barbara, e verrà eseguita l’autopsia. La direzione del carcere ha avvisato questa mattina il difensore riferendo di un arresto cardiaco. Tuttavia gli stessi uffici hanno avvisato anche i familiari abitanti nel trapanese precisando loro di un’aggressione subita in cella con circostanze ancora da chiarire. Il detenuto - conclude il legale - aveva da poco reso importanti dichiarazioni nell’ambito di altre indagini della Dda palermitana in materia di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e contrabbando transnazionale di tabacchi lavorati esteri nell’ambito delle operazioni Scorpion fish 2 e Scorpion fish 3”. Nel corso dei processi in cui era imputato, Hamrouni ha ricostruito uomini e meccanismi dei traffici di migranti e sigarette contribuendo con le sue dichiarazioni alle indagini “Scorpion fish 2” e “Scorpion fish 3”. Recentemente era stato ascoltato dai pm della Dda di Palermo nell’ambito di un’indagine tuttora in corso. Palermo. “Istituire Garante detenuti per l’area metropolitana”. Intervista a Pino Apprendi antudo.info, 25 gennaio 2021 Intervista a Pino Apprendi, Presidente di Antigone Sicilia e membro del comitato “Esistono i Diritti”, sulla necessità di istituire un garante dei detenuti per l’area del palermitano. Qualche giorno fa è arrivata la notizia di un nuovo focolaio all’interno della casa circondariale Pagliarelli di Palermo. Sembrano essere 48 i detenuti attualmente positivi al Covid-19. Che il virus sarebbe arrivato anche dentro le carceri lo si temeva da tempo, e già alcuni casi in Sicilia erano stati registrati nei mesi scorsi. Gli istituti penitenziari siciliani sono 23; per tutti c’è un’unica figura di riferimento: il garante dei detenuti siciliani Giovanni Fiandaca (lo abbiamo sentito qui) che si fa carico di monitorare le condizioni detentive e di raccogliere le istanze dei detenuti. Il comitato Esistono i Diritti crede che un solo garante non sia sufficiente e sostiene che sia necessario nominarne uno che operi esclusivamente nell’area di Palermo. Abbiamo intervistato Pino Apprendi, membro del comitato e Presidente di Antigone Sicilia, per saperne di più. Un garante per Palermo - Da oltre un anno il comitato Esistono i Diritti si è intestato la battaglia per istituire nella città metropolitana di Palermo il garante dei detenuti. Questo alla luce del fatto che nella città insistono tre carceri: la casa circondariale di Pagliarelli, il carcere dell’Ucciardone, il carcere minorile di Malaspina; si aggiunge, compreso nell’area metropolitana, l’istituto di Termini Imerese. Sono quattro realtà molto importanti. Il Pagliarelli da solo conta 1100 detenuti; l’Ucciardone quasi 500; una ventina di ragazzi si trovano al carcere minorile; un centinaio nell’istituto di Termini Imerese. Riteniamo sia necessario istituire questa figura e, per questo, sollecitiamo il consiglio comunale di Palermo affinché approvi un regolamento che consenta di nominare un garante che possa interloquire con i detenuti nell’arco del mese o, sicuramente, visitare almeno una volta al mese tutte e quattro le carceri. Un garante regionale non basta - Quanto detto sopra è una cosa quasi impossibile da fare per il garante regionale, conoscendo il territorio siciliano e le difficoltà che ci sono negli spostamenti. Se il garante deve andare da Palermo a Ragusa, a Siracusa o a Catania piuttosto che ad Agrigento, non basta nemmeno una giornata per gli spostamenti. Riteniamo che istituire i garanti in quelle comunità di cittadini dove c’è un carcere possa essere d’aiuto al lavoro importante che già fa il garante regionale. La detenzione durante il Covid - Questo anche alla luce di quanto succede tutti i giorni. Da quando c’è il Covid i colloqui non si effettuano più con regolarità come prima, viene meno il supporto delle associazioni di volontariato, viene meno la didattica a distanza (questo per fortuna non in tutte le carceri). Manca, insomma, un collante tra l’interno e l’esterno. La vita in carcere di un detenuto è già molto complicata, non avere persone con le quali interloquire la rende drammatica. Non avere con chi parlare, a chi chiedere qualcosa, significa per esempio non poter richiedere una medicina urgente (che arriva quasi sempre in ritardo), non poter comunicare il proprio disagio psichico. Questo lo diciamo anche per agevolare, per certi aspetti, il rapporto che c’è tra il detenuto e la polizia penitenziaria. Perché queste tensioni che si accumulano probabilmente poi vanno a scaricare nel contatto giornaliero fra detenuto e agente. Avere un’interfaccia che si occupa del detenuto può servire sicuramente a migliorare le condizioni generali in carcere, quindi per noi è importante la figura del garante. È un lavoro indispensabile. Un ritardo ingiustificato - Il comitato Esistono i Diritti l’anno scorso ha messo su un’iniziativa davanti all’Ucciardone in cui tutti erano vestiti da Babbo Natale, sperando di poter portare ai detenuti la bella notizia dell’istituzione del garante. Ma è passato già un anno e questo consiglio comunale - per una serie di problemi che spero e credo non siano legati alla cattiva volontà dei singoli - non ha ancora comunicato il regolamento. Noi esercitiamo la nostra pressione pacifica tramite il comitato, che al suo interno peraltro ha ben quattordici consiglieri comunali tra maggioranza e opposizione. Quindi è veramente ingiustificato questo ritardo nell’approvazione del regolamento. “Non diamo la colpa alla DaD: il problema è sempre la formazione” di Luigi Bruschi L’Espresso, 25 gennaio 2021 Il disagio dei giovani non è causato dalla didattica alla distanza in quanto tale. Perché è solo un metodo. E come tale non si improvvisa. “La DaD non funziona”, “È una sciagura”, “I ragazzi soffrono a causa della DaD”, “Imparano meno”, “Basta con la DaD”. Di questo tenore è il coro di voci critiche che risuonano - sin dall’inizio - tra le mura di molti edifici scolastici nonché, negli ultimi giorni, tra quelle del palazzo ministeriale dell’Istruzione. Persino il Presidente dell’Ordine degli Psicologi ha dichiarato: “Stare in classe non è solo studiare, i giovani in casa diventano più apatici e irritabili. La didattica digitale è meglio di niente, ma è un palliativo. Il guaio è che è stata portata avanti troppo a lungo”. Per di più, pare che i dati sull’apprendimento in mano agli esperti del Ministero non siano rassicuranti: i ragazzi avrebbero imparato meno e sarebbero particolarmente ansiosi. Dunque? Dunque, a sentire il Ministro Azzolina e il Presidente degli Psicologi, per l’appunto, “La DaD non funziona”. Seppure mosso senz’altro da buoni propositi, questo tipo di conclusioni rischia di confondere il dibattito - troppo a lungo rinviato - sulle nuove tecnologie didattiche e sulla dimensione della formazione digitale e, in definitiva, distoglie da un importante quesito che in questa situazione drammatica, forzosamente sperimentale, dovrebbe alimentare le riflessioni in ambito scolastico (ma anche universitario): come funziona la DaD? Se non si discute su questo, diventa difficile trarre conclusioni su dati che potrebbero essere ricondotti a qualsiasi cosa, anziché all’inaffidabilità della DaD. Tanto per fare qualche esempio: non è verosimile che l’ansia e il minore apprendimento siano riconducibili piuttosto allo stravolgimento della vita quotidiana in sé, alla reclusione e alla privazione sociale, ai timori per il futuro? E paradossalmente: senza la DaD - cioè con la sola reclusione e la didattica completamente sospesa - i nostri ragazzi sarebbero stati meglio? Facile dubitarne. Ecco perché un conto è affrontare la tematica del disagio dei giovani, altro è attribuire il disagio alla DaD, che è nulla più che un metodo, con i suoi principi e i suoi strumenti, e che pertanto, come ogni metodo didattico, va conosciuto a fondo, saputo progettare, saputo gestire. E qui verrebbe da dire “hic sunt leones”. Perché la domanda è: come siamo arrivati all’appuntamento con la didattica digitale? Quando giocoforza si è scelto questo metodo come alternativa alla presenza, quanti docenti erano formati sulla didattica digitale? E quanti ne sono stati formati in itinere, una volta compreso che la situazione di emergenza sanitaria non sarebbe terminata così presto come tutti speravamo? La DaD, come ogni metodo didattico complesso e articolato, non si improvvisa, né tantomeno si inventa. I princìpi legati all’apprendimento digitale seguono le loro regole, gli strumenti vanno saputi usare. È lecito ad esempio fare a distanza la medesima lezione che si sarebbe fatta in presenza - nei tempi, nella quantità di contenuti, nella densità semantica degli argomenti - semplicemente mettendo tutti davanti a uno schermo? No, non è lecito, perché il ‘carico cognitivo’ degli studenti - cioè la quantità di informazioni che la memoria è in grado di elaborare - è profondamente diverso: per via del mezzo usato, per l’ambiente in cui ciascuno è (diverso per ciascuno), per la comunicazione “sfocata” dal punto di vista relazionale essendo a distanza. “In aumento tentati suicidi e autolesionismo tra i giovani: col Covid numeri da brivido” di Sara Dellabella L’Espresso, 25 gennaio 2021 L’allarme lanciato da Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Bambino Gesù: “L’isolamento mette a grave rischio la tutela della loro salute mentale. Stiamo negando ai ragazzi una parte affettiva che fa parte del loro diventare adulti”. “Si tagliano gli avanbracci, le cosce, l’addome. Altri tentano il suicidio. Mi viene in mente una ragazzina di 12 anni che si è buttata dalla finestra che è il modo più usato tra i ragazzi tra i 12 e i 15 anni. Buttarsi dalla finestra o l’ingerimento di un numero congruo di farmaci, a volte si impiccano, eccezionalmente usano armi da fuoco come invece avviene frequentemente in altri paesi come, ad esempio, gli Stati Uniti. Gli adolescenti tendono a emulare quanto vedono sulla rete ed è per questo, probabilmente, che un metodo molto utilizzato in questo periodo è l’assunzione di grandi dosi di tachipirina oppure rastrellano tutti i farmaci che trovano in casa e ingeriscono un mix”. Ecco come rischiano di morire gli adolescenti e la cronaca la fa il Prof. Stefano Vicari, Ordinario di Neuropsichiatria Infantile presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e Responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Il suo racconto è accorato e preoccupato perché con il Covid le cose sono peggiorate e di molto: “Sicuramente c’è una coincidenza molto sospetta e siamo certi che la rapida crescita a cui assistiamo in questi ultimi mesi di alcuni disturbi in particolare come l’ansia, l’irritabilità, lo stress, i disturbi del sonno sono legati direttamente all’isolamento”. Tra i giovani è vera e propria emergenza. Per esempio a dicembre il Reparto di Neuropsichiatria infantile dell’ospedale Regina Margherita di Torino ha lanciato l’allarme: i ricoveri per Tentativi Suicidio (TS) sono passati da 7 nel 2009 a 35 nel 2020 e nello stesso periodo (2009-2020), nel Day hospital psichiatrico, l’ideazione suicidaria è passata dal 10% all’80% dei pazienti in carico. Numeri che fanno rabbrividire, soprattutto se si pensa che riguardano i giovanissimi. E al Bambino Gesù di Roma com’è la situazione? “Vediamo negli anni un incremento notevolissimo delle attività autolesive e dei tentativi di suicidio: nel 2011 i ricoveri sono stati 12, nell’anno appena concluso abbiamo superato quota 300. Sebbene le statistiche ufficiali ci dicano che il numero dei suicidi è in leggero calo tra gli adolescenti, l’attività autolesiva è in rapido aumento. Mai come in questi mesi, da novembre a oggi, abbiamo avuto il reparto occupato al 100 per cento dei posti disponibili, mentre negli altri anni, di media, eravamo al 70 per cento. Le diagnosi che predominano sono quelle del tentativo di suicidio. Ho avuto per settimane tutti i posti letto occupati da tentativi di suicidio e non mi era mai successo”. Ma una volta curati nel fisico, questi ragazzi come motivano questi gesti? “Le motivazioni non sono così determinanti. È un atteggiamento figlio di uno psicologismo vecchia maniera: se arrivi in pronto soccorso con l’infarto, ti importa poco sapere il perché quello che conta è di essere curato. Le cause sono importanti ma secondarie. Le malattie mentali sono malattie, hanno una base biologica e sono il risultato di processi lunghi. La familiarità è il primo fattore di rischio. La leggenda del trauma di psicanalitica memoria è stata ridimensionata da un pezzo”. E allora? “Dobbiamo iniziare a pensare ai disturbi mentali come a vere e proprie malattie, come lo sono il diabete e l’ipertensione, con una base biologica e genetica e fattori ambientali che possono favorirne la comparsa. Non si tratta tanto di come uno viene allattato al seno o del rapporto con la madre, ma è legato molto di più all’esposizione durante la gravidanza ad agenti inquinanti, alcol o fumo durante la gravidanza, nascere prematuri, andare male a scuola, farsi le canne in età precocissima. E poi c’è l’incuria. Il vero maltrattamento, il trauma vero che da un impatto sulla salute mentale non è neanche tanto la violenza, ma l’indifferenza e l’abbandono da parte dei genitori. Forme moderne di incuria sono anche la ipostimolazione, come lasciare un bambino di due o tre anni molte ore davanti la tv o con il tablet.” A cosa lo riconduce questo aumento? Sappiamo dai dati di letteratura che il lockdown, la chiusura totale e la chiusura delle scuole ha determinato un aumento degli stati d’ansia e depressione nei ragazzi e un disturbo del sonno. I cinesi lo scrivevano già ad aprile - maggio. Talvolta vediamo un disturbo post traumatico da stress perché i ragazzini vivono con forte preoccupazione le preoccupazioni dei genitori. Ci sono adolescenti che sono ancora più estremisti dei genitori, che non toccano niente e non escono più per la paura del contagio. Lei che consiglierebbe ai genitori? Di mantenere i ritmi pre Covid: svegliare i figli alle 7:30 - 8:00 del mattino e non lasciarli dormire fino alle 11:00, perché questo vuol dire che la sera non vanno a letto. La deprivazione del sonno è un fattore di rischio a cui fare attenzione: alcuni ragazzi passano l’intera notte a chattare o a giocare online. Ma quando le famiglie arrivano al pronto soccorso, che atteggiamento hanno? “In alcuni casi cadono dalle nuvole, sono spaventati perché non si erano mai accorti del malessere dei figli. Ma i genitori non hanno colpe, piuttosto responsabilità. Hanno il dovere di monitorare quello che fanno i ragazzi, chi frequentano. Vuol dire interessarsi alla loro vita, mantenendo un dialogo aperto. Non certo fare i carabinieri. I genitori non sono la causa, ma hanno la grande possibilità di ridurre il rischio, così come la scuola”. Qual è il ruolo della scuola nella prevenzione della malattia mentale? “La scuola favorisce le relazioni tra coetanei e, in questo senso, è un ammortizzatore dei conflitti adolescenziali. Nella scuola tutti abbiamo sperimentato relazioni positive e con gli amici, solo con essi, parlavamo delle cose che andavamo scoprendo. Chi è che di noi non ha avuto un professore che è stato un elemento di salvezza? Perché gli adolescenti sperimentano e violano i limiti che gli vengono posti dai genitori, e se non c’è qualche altro adulto che ha con il ragazzo un rapporto affettivo valido, rischi che si perda. Oggi questo cuscinetto sociale sta mancando, per questo i ragazzi “sbroccano”, diventano aggressivi e violenti, oppure si chiudono sempre di più nella loro stanza e non vogliono più uscire. E chi dice che questa è una prova che aiuterà i ragazzi a crescere? “Dice balle. Perché chi avrà gli strumenti sicuramente ce la farà, ma a me preoccupano tutti gli altri. Penso a chi vive in pochi metri quadrati, senza internet, che si deve svegliare molto presto anche solo per poter fare una doccia. A me è andata bene, faccio il Primario e il Professore Universitario, ma vengo da una famiglia economicamente modesta. Il mio riscatto sociale lo devo alla scuola. Senza il mio destino era segnato. Ma oggi chi nasce povero per l’80 per cento rischia di morire povero. Cosa pensa di tutto questo dibattito sulle scuole chiuse e la Dad? “Pensare che la scuola sia solo didattica è un errore drammatico. La didattica è una parte marginale della scuola. Bisogna smettere di pensare che la scuola deve formare i futuri lavoratori, trasferendo competenze, la scuola deve trasmettere conoscenze di vita. È una palestra educativa, non un avviamento al lavoro. Questa è una concezione autoritaria della scuola”. I suoi colleghi virologi però dicono che non è ora di tornare a scuola. Le scuole chiuse la preoccupano? “Moltissimo. Lei cita i virologi che hanno dato ampio spettacolo di dichiarazioni anche contrastanti tra loro. I dati della letteratura ci dicono che ci si infetta a scuola per il 2 per cento. La scuola quindi è un luogo sicuro, ma è poco sicuro tutto quello che c’è intorno, come i trasporti. Stiamo mettendo a grave rischio la tutela della salute mentale degli adolescenti. Ci vorrà molto tempo, una volta finita l’emergenza, per far uscire di casa questi ragazzi che si sono chiusi e ci vorrà tempo per ricostruire relazioni positive. Stiamo negando ai ragazzi una parte affettiva che fa parte del loro diventare adulti”. Mi dà qualche numero di come viene affrontata la malattia mentale degli adolescenti in Italia? “Sulla salute mentale nei minori in Italia si investe zero. L’OMS dice che “non c’è salute senza salute mentale”. Se lei pensa che il 20 per cento degli adolescenti ha un disturbo mentale, c’è da chiedersi come mai i posti letto dedicati alla psichiatria dei minori in Italia siano soltanto 92. I ragazzini non hanno dove essere ricoverati. Io gestisco 8 posti di questi 92, quasi il 10 per cento Ma si rende conto?”. Bastano questi posti per curare i minori di 18 anni? “No, e quello che succede è che spesso i ragazzini che hanno bisogno di assistenza ospedaliera per un disturbo mentale si ritrovano con gli adulti già cronicizzati o nei reparti di pediatria, insieme a chi ha la bronchite. Lo trovo scandaloso. I servizi territoriali non esistono più. Le Asl hanno impoverito fortemente i servizi di neuropsichiatria infantile. Perché se ne parla così poco? “Perché la malattia mentale fa paura. Avere un figlio con un disturbo mentale fa sentire i genitori colpevoli. Se cominciassimo a parlarne come parliamo delle altre malattie, saremmo già un passo avanti. Chiedo che venga posta la massima attenzione su un fenomeno ad oggi completamente ignorato”. “Legalizzare le droghe leggere toglierebbe spazio alle mafie. Le norme sono vetuste” di Massimiliano Coccia Il Manifesto, 25 gennaio 2021 “In questo modo si sottrae terreno al traffico internazionale e potremmo concentrarci sul livello alto delle organizzazioni criminali”. Parla il Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho. Federico Cafiero De Raho, 68 anni, Procuratore Nazionale Antimafia dal 2017, si muove da figlio di un tempo dove si diventava un modello per gli altri non nella convegnistica ma sul campo. Collegialità, equilibrio e memoria i postulati della modalità operativa e di elaborazione, forse anche per questo per superare gli strascichi di un anno orribile per la magistratura attraversata dal caso Palamara, De Raho auspica all’inizio di questo dialogo una “riforma necessaria del Csm, in grado di garantire l’imparzialità, dove le correnti sino laboratori di idee e non strumenti per un conflitto. Anche per questo servono regole chiare per le nomine dei dirigenti, valorizzando l’attività giudiziaria svolta, la professionalità e l’imparzialità del magistrato, che è specularmente manifestata dalla indipendenza dalla politica come da qualunque altro centro di potere”. Da investigatore di lungo corso è affezionato alla riservatezza, valore spesso tralasciato e per questo “la riforma sulla giustizia deve, anche, poter garantire il valore costituzionale della presunzione di non colpevolezza e, al tempo stesso, l’obbligo della riservatezza delle iniziative giudiziarie, fino a sentenza definitiva. Una garanzia anche per evitare condizionamenti esterni”. Dottor De Raho, riavvolgiamo il nastro, è passato molto tempo dal suo ingresso in magistratura, come ha visto mutare il sistema investigativo e la lotta a mafie e terrorismo? “Presi servizio a Milano con le funzioni di sostituto procuratore nel settembre 1979: il giudice Emilio Alessandrini era stato ucciso da Prima Linea a gennaio di quell’anno, scelsi quella sede anche nella convinzione di dire chiaramente che la magistratura non accetta intimidazioni. Era stato ucciso perché la sua azione spaventava, per il grande apporto investigativo contro il terrorismo rosso e per aver compreso che lo Stato vince solo se agisce applicando i principi dello Stato di diritto e osservando i valori della nostra Costituzione. A Milano ho avuto subito consapevolezza che la lotta al crimine organizzato e al terrorismo avrebbe potuto compiersi sviluppando un modello investigativo condiviso dalle procure, fondato sull’assoluto rispetto delle regole; ieri come oggi il crimine si contrasta con la “squadra Stato”, dalle forze dell’ordine alla magistratura: è una lezione che si rinnova. La coesione crea vittorie e avanzamenti”. Simbolica e importante appare la capacità di generare dal dolore e dalla lotta alle mafie nuovi modelli operativi. “Nella mia carriera mi sono occupato di camorra e di ‘ndrangheta, affrontando anche i collegamenti di queste organizzazioni con Cosa nostra: le indagini sui Nuvoletta, sui Bardellino, sul clan dei casalesi, sulla strage di Casapesenna, come sull’omicidio di Francesco Imposimato, il fratello del giudice, ucciso per ordine di Pippo Calò, oltre che sulla partecipazione della ‘ndrangheta all’attacco allo Stato con le stragi continentali. Le indagini sulle organizzazioni mafiose hanno prodotto un’esperienza che ha portato la magistratura ad impegnarsi al meglio, individuando il modello che Giovanni Falcone, da Direttore generale degli Affari Penali, ha poi tradotto in quel circuito giudiziario antimafia giunto attualmente ad un altissimo livello di specializzazione, con le 26 Procure distrettuali e la Procura Nazionale che dirigo”. Attualmente qual è la proiezione delle organizzazioni criminali? “È quella delle grandi attività che possono dirsi più redditizie. Fra tutte - estorsione, usura, contrabbando - è il traffico di droga che moltiplica per tre ad ogni passaggio il valore della merce: è fonte di una ricchezza straordinaria, e quando questa si traduce in danaro contante si comprende l’esigenza di reinvestire nell’economia legale. Le organizzazioni criminali reinvestono in società di capitali. Non utilizzano più violenza e intimidazione per infiltrarsi, ma lo strumento della convenienza, mediante l’offerta di servizi illegali. Le false fatturazioni, ad esempio, costituiscono il mezzo per avvicinare e, quindi, aggregare imprese “sane” che, in momenti di difficoltà come questo che viviamo, possono trovare opportuno l’utilizzo di falsa documentazione”. Le mafie come stanno sfruttando questa pandemia? “La crisi offre nuove opportunità ai gruppi criminali, i settori sono quelli in cui le mafie si sono specializzate sull’onda delle emergenze, come le multiservizi (mense, pulizie, disinfezione), intermediazione della manodopera, filiera del ciclo dei rifiuti, imprese di costruzione; ma anche in quelli che appaiono particolarmente lucrosi, come il commercio di mascherine, oltre che il turismo (bar, ristoranti, alberghi). Le mafie devono collocare liquidità e la loro necessità è acquisire la gestione dei soggetti economici già esistenti, tramite meccanismi di controllo informale, non registrati in studi notarili o camere di commercio. Difendiamo l’economia legale anche col disvelamento dei modi coi quali i gruppi criminali si appropriano delle imprese tramite il versamento di denaro contante, coperto nei modi più disparati come false fatturazioni o prestito a breve termine. Questo consente alle mafie di entrare con i propri capitali assicurandosi il controllo successivo della gestione con i tradizionali mezzi mafiosi, per recuperare il prestito aumentato dall’interesse usurario”. Nel contrasto all’usura in questa fase c’è collaborazione tra soggetti investigativi e mondo della finanza? “Sarebbe necessaria una maggiore collaborazione dei mondi imprenditoriali, del commercio e della finanza anche nel segnalare al circuito giudiziario antimafia i soggetti a rischio usura. Ci sarebbe bisogno di una cooperazione internazionale più larga, perché l’attenzione che mettiamo in Italia all’analisi dei flussi economici non è presente in eguale misura negli altri paesi, soprattutto alcuni, ove non ci si domanda troppo da dove proviene il denaro. Nel panorama globale la disarmonia dei sistemi è fonte di gravissime anomalie e favorisce la criminalità. È sempre più necessario occuparsi dei paradisi normativi, e non solo dei paradisi fiscali”. Ciclicamente torna invece di attualità il dibattito sulla legalizzazione delle droghe leggere che però sembra sempre a un punto morto. “Credo che sia opportuno, come ho ribadito in commissione Giustizia alla Camera, cambiare la legge sulle droghe perché è vetusta. La legalizzazione delle droghe leggere, con altri interventi, potrebbe sottrarre terreno al traffico internazionale, e avrebbe il vantaggio di far concentrare la fase investigativa sul livello alto delle organizzazioni criminali e sulla filiera economica che ne deriva”. Tra i fenomeni che emergono dalle relazioni della Direzione investigativa antimafia si nota una recrudescenza del gioco illegale, un problema che sembrava accantonato. “È necessario incrementare il gioco legale per sottrarre risorse alla criminalità organizzata e monitorare in modo puntuale tutta la filiera. Molteplici inchieste hanno dimostrato quanto il gioco illegale sia un indotto gestito dalle mafie e dalla ‘ndrangheta; per questo occorre rafforzare la rete di controllo anche online per riuscire a determinare una rete di monitoraggio coordinata”. Le mafie sono entrate anche nel mercato dei dispositivi di protezione contro il Covid-19 e dei vaccini. Come state agendo su questo versante? “Ad oggi sono oltre trenta le situazioni sospette intercettate, con società che addirittura sono state costituite all’estero, che commerciano in dispositivi di protezione, riconducibili a organizzazioni mafiose e ‘ndraghetiste, grazie al tavolo tecnico della Dia composto da Uif, Agenzia delle Dogane e Nucleo speciale di polizia valutario che ha monitorato transazioni anomale. C’è poi un altro tavolo con i Ros dei Carabinieri, Sco della Polizia di Stato, Scico della Guardia di finanza in cui si monitorano i settori economici per individuare i settori più esposti al rischio di infiltrazione mafiosa, ‘ndranghetista e camorrista”. Sul versante del terrorismo di matrice islamista che momento viviamo? “In Italia non è stato commesso alcun attentato di matrice islamista non perché siamo fortunati, ma perché viene svolta un’attività di monitoraggio straordinaria e costante, che tocca vari livelli di prevenzione dal monitoraggio delle moschee alle carceri e ai flussi di denaro”. E su quello interno? “Le minacce dell’eversione dell’estrema destra e dell’anarchismo insurrezionalista sono le urgenze. I primi minano la convivenza civile e i secondi fanno leva sul malcontento popolare per la crisi economica determinata dalla pandemia e il disagio rischia di divenire il serbatoio della criminalità”. Per quest’anno appena iniziato quali sono i terreni di sfida secondo lei più urgenti che questa pandemia ha generato? “Assieme al contrasto delle infiltrazioni mafiose nell’economia, è la scuola il fronte più urgente. Non mi riferisco alle lezioni in presenza o a distanza, ma ai contenuti. Ritengo che i giovani debbano essere formati ad una società democratica e solidale, capace di svilupparsi rispettando la dignità di tutti secondo i valori della Costituzione. La pandemia sta lasciando indietro i ragazzi e le loro famiglie: stanno perdendo, di pari passo, potere di acquisto ed educativo. Se non si torna alla centralità educativa prevista dalla Carta, il rischio di regalare le giovani generazioni alle mafie è altissimo e questo dobbiamo impedirlo”. Egitto. Caso Regeni, l’Italia cerca la sponda europea: “Ue compatta sui diritti” di Francesca Paci La Stampa, 25 gennaio 2021 Oggi il Consiglio Esteri a Bruxelles. Borrell: “Linea comune per la verità”. A dieci anni dalla rivoluzione che lo aveva entusiasmato fino al punto da scegliere di studiare al Cairo e a cinque dal rapimento, le torture, lo strazio di un corpo irriconoscibile dalla madre se non per “la punta del naso”, Giulio Regeni arriva a Bruxelles, dove oggi, per la prima volta, l’Italia cerca una sponda europea contro l’impermeabile arroganza egiziana. È un tentativo, l’estremo forse dopo le tante testate a vuoto contro il muro di gomma eretto dal regime di Abdel Fattah al Sisi. Forte però delle polemiche internazionali scatenate dalla consegna della Legione d’onore francese al presidente egiziano, spiega una fonte interna, la Farnesina ha messo sul piatto la sua posta: “Bene il dialogo con tutti ma non a scapito dei diritti umani”. La verità è che al di là delle Alpi il caso è poco noto prima ancora che poco sentito. Raccontano da Bruxelles che finora Berlino e Parigi, già in passato felpatissima sul pestaggio mortale del professore francese Erik Lang, hanno fatto orecchie da mercante all’appello italiano, privilegiando la realpolitik del rapporto con il gigante nordafricano emancipatosi negli ultimi anni dalla condizione di paria in cui era finito all’indomani dell’assassinio Regeni e impostosi come partner mediterraneo fondamentale per i dossier libico, energetico e africano. Se l’Italia, con grande sdegno della famiglia Regeni, ferma nel chiedere il ritiro dell’ambasciatore, ha ultimato la vendita delle due famigerate fregate al Cairo più pattugliatori e 24 cacciabombardieri, la Germania, dal canto suo, si è assicurata il piazzamento di 9 motovedette e una nave per la difesa costiera, mentre la Francia, ancor più che al commercio bellico, tiene al sodalizio sulla sicurezza, con l’Egitto a fare da cane da guardia contro l’islamismo bestia nera della Republique. Roma, con la Procura che tira dritto e si prepara a processare i quattro 007 egiziani ritenuti responsabili del massacro (l’udienza preliminare è attesa per la primavera), è decisa a farsi sentire a Bruxelles. Nulla di formale, nessuna dichiarazione comune prevista o conclusione scritta ma “una prima discussione” sul tema dei diritti umani in Egitto, sul caso di Giulio Regeni e su quello di Patrick Zaki, la cui sorte, appesa dal febbraio scorso al rinvio kafkiano della custodia cautelare, ha poco a che vedere con il nostro connazionale ma tutto con il paese in cui dal 2013 a oggi sono svaniti 1058 dissidenti. Per ora l’alto rappresentante dell’Ue per la politica estera Josep Borrell “ha dato disponibilità e massima apertura”. Emerge la volontà di trovare “una linea europea” a fronte di “una forte solidarietà con l’Italia”, si spera di fare massa critica “se non per il passato quantomeno per il futuro”. Di certo, pare, non si parlerà di sanzioni e il ministro degli esteri Luigi Di Maio non ne ha fatto cenno ieri, quando si è detto disponibile a sostenere quelle contro la Russia per il caso Navalny. L’Europa sembra però l’ultima spiaggia, “l’unica, fuori tempo massimo forse ma meglio tardi che mai” osserva l’ex ministro degli esteri Emma Bonino, sostenitrice dalla prima ora della necessità di internazionalizzare il caso Regeni, il caso Zaki e il caso di milioni di persone come loro in cella senza processo. Quel che restituisce l’Egitto a questo rullar di tamburi diplomatici è indifferenza. Uno dei quattro ufficiali indagati dagli inquirenti romani, Tariq Sabir, è stato spostato dalla Sicurezza Nazionale all’ufficio passaporti del ministero dell’Interno, ma tant’è. Due mesi fa il regime reagì a un incontro sui diritti umani organizzato al Cairo dai messi dell’Ue arrestando i loro ospiti, i leader della Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr). “Non una parola su Regeni, non una parola sull’incontro dei ministri degli esteri europei, i media egiziani ignorano la storia” racconta una fonte al Cairo. L’anniversario della rivoluzione di Tahrir, nonché quello del rapimento di Regeni, cade in una città spettrale, ossessionata dallo spettro di una nuova rivoluzione: chiuse le piccole strade, blindate come in guerra le grandi, aperti i negozi ma deserti. La festa della polizia, in calendario il 25 gennaio, è stata spostata al 28 ma le scuole sono chiuse. Per capire l’aria basta cercare i protagonisti di 10 anni fa: Ziad el Eleimy, Abul Fotouh, Ramy Shaat, Alaa Abdel Fattah e Sana Seif sono in prigione. Ahmed Maher ha l’obbligo di firma e il divieto di espatriare. Wael Ghoneim è in America a recuperare i problemi di droga. Chi non è in cella si dedica ai cani abbandonati per tenere vivo l’impegno anti-governativo, gli atri sono in esilio a Dubai, in Germania, a Washington. “La vicenda Regeni riguarda tutti, non solo l’Italia” scrive il presidente della Commissione Affari esteri della Camera Piero Fassino in una lettera ai suoi omologhi europei, riferendosi alla risoluzione sull’assassinio di Regeni e la detenzione di Zaki approvata a dicembre dal parlamento di Strasburgo. Dopo la scorta mediatica quella europea, se fosse. Un segnale. Spagna. Italiano morto in cella: “Impossibile si sia suicidato, lo abbiamo visto il giorno prima” di Lucia Portolano il7 Magazine, 25 gennaio 2021 “Tra un po’ ci vediamo, vengo a vivere lì”. Sembrava tranquillo Marco in quell’ultima video chiamata con la mamma ed alcuni suoi parenti in cui annunciava un suo ritorno in Italia, a Brindisi. Avrebbe detto proprio così il giorno prima di morire. Per questo la famiglia di Marco Celeste, brindisino di 36 anni, non si dà pace, non riesce a credere che si sia suicidato in quella cella del carcere di Ibiza. “Lo avevamo sentito il 29 dicembre - racconta una parente - aveva fatto una video chiamata con la mamma ed alcuni familiari, stava bene, sembrava tranquillo. Tra poco tempo sarebbe anche uscito dal carcere, per questo aveva detto che sarebbe tornato presto in Italia. Come poteva suicidarsi. Abbiamo troppi dubbi”. Esattamente all’indomani di quella video chiamata, il 30 dicembre intorno alle 19 la mamma di Marco ha ricevuto una telefonata dai carabinieri che l’avvertivano che lui era morto. “Abbiamo immediatamente chiamato l’avvocato - dice la donna - che a sua volta ha contattato l’avvocato spagnolo. Purtroppo ci è stato confermato che Marco era deceduto. Prima ci hanno detto che era morto per cause naturali, poi dopo hanno parlato di suicidio. Ci hanno riferito che è stato trovato senza vita sul letto della sua cella, dicono che si sarebbe impiccato con un laccio della tuta. Ma come è possibile questo? Vogliamo chiarezza. Vogliamo capire cosa realmente è accaduto quel giorno, cosa è accaduto in quella cella dove da qualche giorno era stato messo da solo”. Marco Celeste era stato arrestato il 26 giugno di quest’anno, accusato di aver appiccato l’incendio in un bosco, le fiamme avevano provocato dei danni bruciando diversi ettari dell’isola. In primavera si sarebbe dovuto svolgere il processo. Ormai era in carcere da sette mesi. In Spagna per questi reati sono molti severi. Il legale della famiglia, l’avvocato Giacinto Epifani, insieme ad un avvocato spagnolo, aveva preparato un’istanza per chiedere la scarcerazione in attesa del processo. Ma Marco è morto prima di conoscere l’esito di quella richiesta. Sua madre, chiusa in un profondo dolore, lo ha rivisto 20 giorni dopo la sua morte. La salma del 36enne è arrivata all’obitorio del cimitero di Brindisi la sera del 19 gennaio dopo una lunga procedura burocratica. Il pubblico ministero della procura brindisina, Pierpaolo Montinaro, ha disposto l’esame autoptico sul corpo dell’uomo per il 25 gennaio. In quella stessa data sarà conferito l’incarico al medico legale, e sarà eseguita l’autopsia che potrà fornire importanti elementi sulle cause del decesso. La mamma e il fratello avevano incaricato l’avvocato Epifani ha presentato una denuncia contro ignoti affinché la procura potesse aprire un’indagine. Il legale ha chiesto che venisse acquisita tutta la documentazione sulla morte dell’uomo. “I rapporti tra Italia e Spagna sono buoni, non stiamo parlando dell’Egitto - dice il legale - sarà facile ottenere tutta la documentazione dalla polizia spagnola. La famiglia ha dei dubbi ed è giusto che riceva risposte davanti ad una tragedia simile”. Marco Celeste viveva ad Ibiza da oltre 4 anni, aveva raggiunto un suo parente che aveva aperto una pizzeria sull’isola. Era rimasto lì a fare il muratore, lavorava in una ditta, poi con l’arrivo della pandemia era stato messo in cassaintegrazione. “Era bravissimo nel suo lavoro - dice ancora la parente - aveva preso in affitto una casa in campagna e viveva bene sino quando non è accaduto l’incendio. Nei primi giorni dell’arresto era caduto in depressione, poi si era ripreso, aveva intrapreso un percorso con uno psicologo ed era molto tranquillo. Aveva anche peso 20 chili. Sua madre lo sentiva ogni giorno, ed una volta a settimana si collegavano in video chiamata. Non ha mai dato segni di squilibrio psicologico. Mai una frase fuori posto. Lui è sempre stato un ragazzo forte, che non ha mai dato fastidio a nessuno. È incomprensibile quello che è accaduto”. I suoi parenti lo hanno visto per l’ultima volta a Natale del 2019, era venuto a Brindisi per trovare la mamma, poi a causa del lockdown è dovuto restare in Spagna per questo aveva promesso che sarebbe ritornato una volta uscito dal carcere. La sua famiglia ora si pone tanti interrogativi ai quali forse l’autopsia potrà dare qualche risposta. Ma c’è un altro passaggio sul quale ha sempre dubitato la mamma di Marco. “A novembre il direttore del carcere ci ha chiamato - aggiunge ancora la donna - per comunicare che Marco era in ospedale in quanto si era rotto la tibia giocando a calcio con gli altri detenuti. Ci siamo sempre chiesti come fosse possibile che in tempo di Covid facessero giocare i detenuti in carcere, soprattutto con i numeri dei positivi in Spagna. Marco non ha mai comunque negato di essersi rotto la gamba. Ma a noi i dubbi restano. Intanto lui non c’è più e noi ora non possiamo fare più nulla. Solo cercare la verità”. Russia. Oltre 3.500 arresti alle proteste pro-Navalnyj: record di sempre di Rosalba Castelletti La Repubblica, 25 gennaio 2021 Aperti diversi procedimenti penali contro i manifestanti. Ue e Usa condannano la prepressione. Mosca minimizza i cortei e accusa Washington di ingerenze, ma si dice pronta al dialogo con Biden. Oltre 3.500 dimostranti sono stati arrestati ieri in Russia alle manifestazioni indette dall’oppositore Aleksej Navalnyj: il numero più alto di sempre nella storia della Russia moderna, segno che le autorità non cederanno di un millimetro, soprattutto in vista delle elezioni legislative che si terranno il prossimo settembre. Cortei si sono tenuti in centinaia di città da Mosca a Vladivostok nell’Estremo Oriente russo per chiedere la liberazione dell’attivista sopravvissuto all’avvelenamento da Novichok e arrestato e condannato a 30 giorni di carcere una settimana fa al suo rientro in Russia dopo la convalescenza in Germania, ma anche per denunciare la corruzione al potere cristallizzata dal cosiddetto “palazzo di Putin”, una residenza lussuosissima sul Mar Nero che secondo il Fondo anti-corruzione di Navalnyj sarebbe costata 100 miliardi di rubli finanziati dai fedelissimi del presidente. Le proteste non erano state autorizzate e sono quasi ovunque sfociate in arresti, spesso brutali, e - fatto inedito - in scontri tra manifestanti e forze di polizia. Sono state 3.512 le persone arrestate in tutto il Paese, secondo l’ong Ovd-info che segue raduni e cortei, di cui 1.396 a Mosca, 525 a San Pietroburgo e oltre 90 a Novosibirsk, Kazan e Voronezh. La maggior parte sono stati rilasciati, ha fatto sapere Valerij Fadeev, presidente del Consiglio consultivo per i diritti umani vicino al Cremlino. Ma, anche grazie alle leggi restrittive approvate a fine 2020, il Comitato investigativo russo ha aperto numerosi procedimenti penali in particolare sul presunto uso della violenza contro le forze di polizia. A San Pietroburgo, tuttavia, la procura ha aperto anche un’inchiesta sulla violenza perpetrata dalle “forze incaricate di far rispettare la legge”. Ha fatto molto scalpore il caso di una donna colpita allo stomaco dai poliziotti anti-sommossa dopo aver chiesto loro perché stessero arrestando un giovane manifestante disarmato. La donna, identificata come Margarita Judina, sarebbe ora ricoverata “in uno stato grave”. Amnesty International ha accusato la polizia di avere “menato indistintamente e arrestato arbitrariamente” i manifestanti. Anche l’unione Europea e gli Stati Uniti hanno condannato la repressione. Il Cremlino ha minimizzato la portata delle manifestazioni. “Poca gente è scesa in piazza, molti votano per Vladimir Putin”, ha detto il portavoce Dmitrij Peskov, denunciando un tentativo di “minare la situazione interna” nel Paese. In particolare ha criticato l’ambasciata Usa a Mosca che aveva evitato i suoi concittadini a non partecipare ai cortei, specificando tuttavia i luoghi dei raduni. Gesto già interpretato da Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russi come un tentativo di promuovere le “marce contro il Cremlino”, che Peskov ha definito “ingerenza assoluta nei nostri affari interni”. “È una mera pratica di routine” come le varie allerta lanciate ai cittadini nel mondo, ha invece precisato l’ambasciata Usa. Il Cremlino si è detto tuttavia pronto al dialogo con la nuova amministrazione Biden, ha detto sempre Peskov citato da Interfax. “Ci sarà un dialogo dove, naturalmente, le differenze dovranno essere enunciate. Ma allo stesso tempo, un dialogo è la possibilità di trovare i noccioli della ragione, quelle parti dove le nostre relazioni possono aumentare”, ha aggiunto. “E se la nuova amministrazione è pronta a tale approccio sono sicuro che il nostro presidente risponderà alla stessa maniera”. Egitto. Torture, diniego di cure mediche e pandemia: nelle prigioni è l’inferno di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 gennaio 2021 In occasione del decimo anniversario dell’inizio della rivolta del 2011 in Egitto, Amnesty International ha pubblicato un rapporto che dipinge un quadro fosco della crisi dei diritti umani in atto nelle prigioni del paese, stipate fino al doppio della capienza dal governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi. Il personale e la direzione delle carceri - si legge nel rapporto - ostentano un totale disinteresse per la vita e il benessere dei detenuti e ignorano in larga misura le loro esigenze sanitarie. Lasciano alle famiglie dei prigionieri l’onere di fornire loro medicinali, cibo e denaro per comprare beni di prima necessità, come ad esempio il sapone, e infliggono loro ulteriori sofferenze negando le cure mediche adeguate o il tempestivo trasferimento negli ospedali. Le autorità si spingono anche oltre, negando intenzionalmente assistenza sanitaria, cibo adeguato e visite familiari alle persone detenute per aver esercitato i propri diritti umani e ai detenuti politici. Il rapporto racconta le storie di 67 prigionieri, detenuti in tre prigioni femminili e 13 prigioni maschili in sette province. Dieci di loro sono morti in carcere e due poco dopo il rilascio, nel 2019 e nel 2020. Gli ex detenuti hanno raccontato di essere stati rinchiusi in celle non ventilate, sovraffollate e in pessime condizioni igieniche. Inoltre, gli agenti penitenziari hanno negato loro biancheria e indumenti adeguati, cibo sufficiente, articoli per l’igiene personale, compresi gli assorbenti igienici, e l’accesso all’aria fresca e all’esercizio fisico. A molti sono state crudelmente negate le visite delle famiglie. Le rappresaglie comprendono l’essere tenuti in isolamento prolungato e a tempo indeterminato in condizioni disumane per più di 22-23 ore al giorno, non ricevere visite dei familiari per periodi fino a quattro anni e l’essere privati di pacchi di cibo o di altri prodotti essenziali inviati dai parenti. Le ricerche di Amnesty International hanno rivelato che le direzioni delle carceri non forniscono ai detenuti un’assistenza sanitaria adeguata, sia per negligenza che per scelta. Le infermerie sono generalmente poco pulite e mancano di attrezzature e di professionisti sanitari qualificati; i medici somministrano solo antidolorifici a prescindere dai sintomi e addirittura aggrediscono verbalmente i detenuti, accusandoli di “terrorismo” e “delinquenza morale”. Due ex detenute hanno dichiarato di aver subito molestie e abusi sessuali. Gli ex detenuti hanno anche lamentato l’assenza di procedure chiare per chiedere assistenza medica in caso di emergenza e di essere stati completamente alla mercé degli agenti e degli altri funzionari del carcere, che spesso hanno ignorato le loro richieste. A fronte dell’inesistenza di servizi di salute mentale all’interno delle carceri, l’accesso all’assistenza esterna è stato reso disponibile solo per pochi detenuti che avevano tentato il suicidio. Le autorità carcerarie spesso rifiutano di trasferire i detenuti politici che necessitano di cure mediche urgenti verso ospedali specializzati fuori dal carcere e non mettono a disposizione i farmaci, anche quando i loro costi potrebbero essere sostenuti dalle famiglie. Oltre alle 12 persone morte descritte nel rapporto, Amnesty International è a conoscenza di altri 37 decessi verificatisi nel 2020, per i quali l’organizzazione non ha ottenuto il consenso delle famiglie per paura di rappresaglie. I gruppi egiziani per i diritti umani stimano che dal 2013 centinaia di persone siano morte in carcere, a causa delle terribili condizioni detentive e al diniego di cure mediche. Le autorità rifiutano di rivelare i dati o di condurre indagini efficaci, approfondite, imparziali e indipendenti su questi decessi. Le autorità egiziane si rifiutano di rivelare il numero dei detenuti presenti nei centri penitenziari del paese. Si stima che sia di 114.000, oltre il doppio della capienza massima carceraria di 55.000 persone indicata dal presidente al-Sisi nel dicembre 2020. Il numero dei prigionieri è aumentato dopo la deposizione dell’ex presidente Mohamed Morsi nel luglio 2013, dando luogo a un grave sovraffollamento. Nelle 16 carceri esaminate da Amnesty International, centinaia di detenuti sono ammassati in celle sovraffollate, con una superficie media stimata di 1,1 metri quadrati per detenuto, molto inferiore al minimo di 3,4 metri quadrati raccomandato dagli esperti. C’è poi la questione della pandemia da Covid-19. Le autorità continuano a ignorare gli appelli a ridurre la popolazione carceraria. Nel 2020, a seguito di grazie presidenziali e rilasci condizionali, sono uscite dalle prigioni 4000 persone in meno rispetto al 2019. Le direzioni delle carceri non sono riuscite a distribuire regolarmente prodotti igienizzanti, a tracciare e controllare i nuovi arrivati, né a testare e isolare i casi sospetti. Problemi di lunga data, come la mancanza di acqua pulita, la scarsa ventilazione e il sovraffollamento, hanno reso impossibile l’attuazione di misure igieniche preventive e di distanziamento fisico. I detenuti con sintomi da Covid-19 non sono stati sottoposti a test sistematici. In alcune carceri i sospetti positivi sono stati posti in quarantena in celle piccole e buie, utilizzate per la detenzione in isolamento, senza accesso a cure adeguate. In altre prigioni sono stati lasciati nelle loro celle, mettendo in pericolo la salute degli altri detenuti. Afghanistan. Così i Talebani addestrano i bambini soldato di Pierluigi Bussi Corriere della Sera, 25 gennaio 2021 Accade nella provincia di Kunar. I bambini vengono spinti ad usare le armi dagli insorti. Nonostante gli accordi di Doha, gli attacchi non sembrano subire pause, anzi sono aumentati in maniera esponenziale. E con loro sono in forte crescita i reclutamenti dei “bambini soldato”, sempre più utili a stanare le forze di sicurezza afghane senza eccessivi controlli. In Afghanistan la guerra di propaganda dei Talebani negli ultimi mesi non dà tregua. I bambini delle zone rurali e sperdute del Sud Est afghano sono sempre più presi di mira. Nell’ultimo anno i fondamentalisti islamici hanno il pieno controllo delle provincie al confine con il Pakistan: nonostante gli accordi di Doha, gli attacchi non sembrano subire pause, anzi sono aumentati in maniera esponenziale. E con loro sono in forte crescita i reclutamenti dei “bambini soldato”, sempre più utili a stanare le forze di sicurezza afghane senza eccessivi controlli. In questo video i talebani sono in un villaggio della provincia di Kunar situata nella parte sud-orientale dell’Afghanistan al confine con il Pakistan. Incitano i bambini ad usare le armi. Le loro parole in lingua pashto sono inequivocabili. “Questi sono i soldati di Dio e si sacrificheranno per l’amore di Dio, scacceranno via gli infedeli dall’Afghanistan. I bambini a questa età sono pronti per il sacrificio in nome di Allah, il popolo afghano è con i talebani, sia le donne che gli anziani e soprattutto i bambini aiuteranno i talebani. Con il loro sostegno sconfiggeremo gli infedeli. Allah accetterà il loro sacrificio”. I bambini rispondono con grande fervore. “Allahu Akbar. Viva i talebani e morte al governo afghano e alle milizie locali”. Le forze talebane in Afghanistan hanno aggiunto decine di bambini ai loro ranghi negli ultimi anni in violazione del divieto internazionale sull’uso dei bambini soldato, hanno utilizzato scuole religiose islamiche per addestrare i bambini fin dalla giovane età. Spesso iniziano a studiare materie religiose all’età di sei anni e apprendono le abilità militari intorno ai 13 anni. Di solito, questi ragazzi non vengono presi con forza. Le madrase talebane attraggono molte famiglie povere perché i talebani coprono le loro spese e forniscono cibo e vestiario ai bambini. In alcuni casi offrono anche denaro. Il diritto internazionale umanitario, proibisce il reclutamento e l’arruolamento di bambini di età inferiore ai quindici anni in forze armate o gruppi o utilizzarli per partecipare attivamente alle ostilità. Si tratta di un crimine di guerra ai sensi dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, a cui appartiene l’Afghanistan. Coloro che commettono, ordinano, assistono o hanno responsabilità di comando per crimini di guerra sono soggetti ad azione penale da parte della Corte penale internazionale o dei tribunali nazionali.