Quei libri negati a chi è in carcere: così la giustizia vuole controllare la fantasia di Luigi Manconi La Stampa, 24 gennaio 2021 Rifiutato un testo di Cartabia e Ceretti: “Darebbe più carisma criminale al detenuto”. La professoressa Marta Cartabia, Presidente emerita della Consulta, ordinaria di Diritto Costituzionale all’Università Bocconi, ha scritto con Adolfo Ceretti, geniale criminologo, un libro dal titolo “Un’altra storia inizia qui”, pubblicato dalla Bompiani qualche mese fa. È una densa riflessione sul sistema delle pene e sull’istituto del carcere, che prende le mosse dalla meditazione del cardinale Carlo Maria Martini, a partire da quando, nel 1979, ordinato arcivescovo di Milano, volle iniziare la sua visita pastorale proprio da San Vittore. Perché, così disse, quel carcere rappresenta il “segno delle contraddizioni e delle sofferenze della società”. La lunga testimonianza di Carlo Maria Martini sul senso della pena non poteva non lasciare una traccia profonda in una cattolica fervente come l’ex presidente della Corte Costituzionale e in un uomo sensibile e appassionato come Ceretti. Quel libro, per la sua forza argomentativa, interessa quanti, a vario titolo, hanno a che fare con il carcere: perché vi sono reclusi o perché vi lavorano, perché studiano gli effetti della questione carceraria sulla mentalità collettiva o perché ritengono che gli standard di tutela dei diritti all’interno di una cella costituiscano il segno del livello di civiltà giuridica e di qualità democratica del nostro Paese. Dunque, il libro di Cartabia e Ceretti può legittimamente interessare anche un detenuto come T.C., sottoposto al regime di 41-bis nel carcere di Viterbo: e partecipe, di conseguenza, di quello stato di privazione della libertà su cui i due saggisti riflettono. Da qui la richiesta di T.C. di poter acquistare quel libro. La domanda ha ottenuto un netto rifiuto, che ha riguardato anche un altro volume, Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale, pubblicato da Einaudi e scritto da Federica Graziani, studiosa di filosofia e letteratura, e dall’autore di questo articolo. La richiesta di quest’ultimo libro è stata respinta in quanto giudicata “non opportuna” dalla direzione del carcere, e la decisione è stata confermata dalla Procura di Reggio Calabria e dal gip. Le ragioni del provvedimento devono essere sembrate talmente ovvie da non meritare ulteriori spiegazioni. Diversa la sorte di Un’altra storia inizia qui. Secondo la Procura di Reggio Calabria, al detenuto T.C. non deve essere consentito l’acquisto del libro in quanto il suo possesso lo “privilegia” e ne “accresce il carisma criminale”. Dalla documentazione disponibile, riassunta in un’interrogazione al Ministro della Giustizia del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, uno dei pochi parlamentari che segue assiduamente la vita delle carceri, non sono in grado di dire se la motivazione del rifiuto si debba alla direzione del carcere di Viterbo o alla sola Procura di Reggio Calabria. Resta il fatto che quest’ultima e, con essa, il gip della città calabrese, l’hanno ribadita e confermata. Ed è una motivazione che lascia senza parole. Innanzitutto perché la giurisprudenza della Corte Costituzionale sul tema è costante e univoca, affermando il diritto dei detenuti, anche se sottoposti a regime speciale, “a ricevere e a tenere con sé pubblicazioni di loro scelta”; e che il controllo dell’amministrazione su quelle stesse pubblicazioni non deve tradursi in “lungaggini e barriere di fatto” che penalizzino “le legittime aspettative del detenuto”. Ma, a parte queste considerazioni generali (che torneranno utili più oltre), sorprende e fa amaramente sorridere l’identità delle persone oggetto di questa maldestra censura: due pacifici e civilissimi studiosi e, in particolare, la donna considerata - a parere degli osservatori più informati - la candidata ideale per le più alte cariche istituzionali (compresa quella che ha come sede il Quirinale). La lettura e, magari, l’adesione alle tesi di Cartabia e di Ceretti, rappresenterebbero, secondo il parere di Procura e Tribunale di Reggio Calabria, un vero e proprio pericolo sociale. Di più: un’insidia per la sicurezza del nostro sistema penitenziario, dal momento che il possesso di quel libro, come si è detto, potrebbe “accrescere il carisma criminale” del detenuto. Questo episodio, francamente grottesco, va considerato insieme a un altro: e mi perdoneranno Cartabia e Ceretti se accosterò la loro pensosa elaborazione sul senso della pena a una pubblicazione non proprio dello stesso genere letterario e che tuttavia ha conosciuto un medesimo destino di interdizione. Accade infatti che, tra qualche mese, la Corte di Cassazione è chiamata a decidere su un ricorso presentato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) contro una sentenza del Tribunale di Sorveglianza di Roma. Quest’ultimo ha accolto il reclamo di un detenuto a proposito di un divieto da parte della direzione del carcere, e dello stesso Dap, all’acquisto di una rivista pornografica. La questione è, a mio avviso, di grande rilievo, pur se l’oggetto, evidentemente considerato imbarazzante, induce troppi a una vereconda distrazione. In sintesi: un detenuto, sottoposto al regime di 41 bis nel carcere romano di Rebibbia, chiede di sottoscrivere l’abbonamento a una rivista pornografica, incontrando l’opposizione della direzione dell’istituto, poi confermata da un’ordinanza del Magistrato di sorveglianza. Vi si legge che, quello di acquistare la rivista in questione, non corrisponderebbe a un diritto, ma a “un mero interesse alla visione delle immagini”. Contro questo diniego, il detenuto si appella al Tribunale di Sorveglianza che accoglie il reclamo; ma ora è il Dap a opporsi e, di conseguenza, la decisione definitiva spetterà alla Corte di Cassazione. Nella sentenza del Tribunale di Sorveglianza si afferma che la richiesta del detenuto rientra “nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero riconosciuto dall’art. 21 Cost.” e, in particolare, “nella tutela dell’affettività in carcere, all’interno del diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancito dall’art. 8 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo”. In gioco è, dunque, la tutela di quella forma essenziale di libertà di espressione che rimanda alla sfera intima e privata dell’individuo recluso. Questo richiede di valutare nel merito le restrizioni imposte alla libertà di corrispondenza, motivate da ragioni di organizzazione interna e da esigenze di sicurezza. Secondo il Tribunale di sorveglianza il rifiuto opposto dalla direzione non è congruo, né proporzionato, in quanto non si intende quale sia il nesso tra le “finalità di tutela dell’ordine interno” e il “contenimento del diritto alla sessualità del detenuto da esercitarsi acquistando e trattenendo la stampa (pubblicazione o rivista) di genere”. Come si vede, partendo da una controversia giuridica su una rivista pornografica, si arriva a una disputa intorno al senso della pena: e intorno alle sue conseguenze sulla struttura del pensiero e sulla personalità di chi vi è sottoposto. Quando il magistrato di sorveglianza, nel negare la rivista, scrive che la visione di quelle immagini non è “essenziale per l’equilibrio psico-fisico nella sfera sessuale”, offre la misura di quale illimitato potere di interferenza possa esercitare l’autorità giudiziaria. Un’interferenza nella dimensione più riservata della persona in stato di privazione della libertà. Capite? Un magistrato ritiene di poter giudicare l’essenzialità, o meno, del ricorso a immagini e dell’esercizio della fantasia nel determinare una “equilibrata soddisfazione erotica” della persona reclusa. E, per ciò stesso, amputata della sua sfera emotiva e sessuale. Vaccinazione Covid in carcere prioritaria per personale e per detenuti tuttosanita.com, 24 gennaio 2021 I detenuti sono da considerarsi una popolazione fragile sotto il profilo sanitario, nel caso di una positività sintomatica al Sars-CoV-2, condizionerebbero una gestione in sicurezza. Durante il Lockdown il virus nei fatti è entrato negli istituti penitenziari con assoluta marginalità, dimostrando che le misure di cintura allora adottate attorno alle persone detenute hanno funzionato, anche perché erano forzosamente efficienti anche su quanti accedevano al carcere per motivi di lavoro. “Oggi la situazione è assolutamente differente - sottolinea il professor Sergio Babudieri, direttore scientifico Simspe - il virus circola con grande velocità anche all’interno delle famiglie e nessuno può ritenersi escluso dal potenziale contagio. Abbiamo riscontrato all’interno detenuti positivi al Coronavirus, con prevalenze maggiori nelle regioni in cui maggiore è stata la presenza della diffusione virale; da ciò anche casi di detenuti sintomatici ed ospedalizzati e, purtroppo, anche di alcuni decessi”. I servizi sanitari delle aziende sanitarie territoriali hanno intercettato i positivi fra i nuovi giunti in ambiente detentivo, che sono stati immediatamente isolati secondo protocolli ed ammessi in comunità solo una volta che si fosse definitivamente negativizzato il tampone. Tuttavia, resta il problema di chi in carcere si trova già. “I detenuti sono una coorte di popolazione confinata con limitate possibilità di interscambio con l’esterno - evidenzia il presidente Simspe Luciano Lucanìa - da questa considerazione appare prioritaria la vaccinazione del personale - inteso nella globalità ed indipendentemente dall’amministrazione di provenienza - che accede all’interno degli istituti di pena ed ha contatti diretti con i reclusi. Per questi, credo che vi sia una via razionale di proposizione della vaccinazione, cioè quella legata ai fattori clinici. Nell’insieme dei detenuti vi è una percentuale non indifferente di persone in età avanzata e pluripatologie. Questi, accuratamente identificati in ciascuna sede detentiva, dovrebbero essere sottoposti a vaccino, soprattutto se, sotto il profilo giuridico, sono detenuti in espiazione di pena detentiva ed indipendentemente dalla durata della pena residua”. Ad oggi, i detenuti in eccesso nelle nostre carceri sono poco più di 3mila, e, secondo i dati del Ministero della Giustizia aggiornati all’11 gennaio, i detenuti positivi al Covid-19 erano 624, con un trend in aumento. Gli agenti della polizia penitenziaria positivi al coronavirus, alla stessa data, erano 708 i positivi tra il personale amministrativo e dirigenziale dell’amministrazione penitenziaria. “I detenuti sono da considerarsi una popolazione fragile sotto il profilo sanitario, a rischio oggettivo, ma le cui implicazioni giuridiche, nel caso di una positività sintomatica al Sars-CoV-2, condizionerebbero una gestione in sicurezza complessa ed in sé potenzialmente patogena, soprattutto in relazione alle esigenze di piantonamento ospedaliero - aggiunge Lucanìa - infine, non possiamo non segnalare la necessità che tutti gli operatori della salute e della sicurezza collettiva, nel caso specifico tutti gli operatori penitenziari, adottino, mai come in questo momento, stili di vita personali che siano protettivi nei confronti di questa malattia per ciascuno di loro e dei loro familiari, ma che siano parimenti protettivi nei confronti dello specifico ambiente di lavoro e delle persone che sono chiamate a custodire”. Il tema è molto dibattuto. Uno studio della rivista pubblicato su The Lancet il 12 dicembre ha criticato molti governi (Ue e Usa compresi) che tendono a escludere chi vive in prigione dalle priorità del piano vaccini: le carceri sono focolai naturali di contagio, vista anche l’elevata età media di molti detenuti, le numerose patologie croniche diffuse, l’ambiente spesso sovraffollato. Anche dal mondo politico è in atto un’azione volta a porre al centro la situazione delle carceri. A fine dicembre, in corrispondenza dell’inizio della campagna vaccinale, la senatrice a vita Liliana Segre, la presidente del gruppo Misto del Senato Loredana De Petris e il senatore delle Autonomie Gianni Marilotti hanno promosso un’interrogazione parlamentare urgente al presidente del Consiglio e al ministro della Giustizia chiedendo che oltre al personale di polizia penitenziaria anche i detenuti siano vaccinati. Il 12 gennaio si è aggiunta una mozione al Senato con oltre 20 firmatari per promuovere una richiesta analoga. L’avvio della campagna vaccinale può diventare la base per una maggiore prevenzione anche su altri fronti. Contestualmente al vaccino, infatti, possono essere attuati anche screening per accertare la presenza di virus come HCV e HIV, causa rispettivamente di Epatite C e Aids. I detenuti rappresentano infatti una delle cosiddette “key populations”, ossia uno dei principali serbatoi di questi virus. L’individuazione del “sommerso” permetterebbe di intervenire tempestivamente e di arginare il diffondersi delle infezioni e delle loro devastanti conseguenze. Per l’Epatite C, infatti, l’innovazione garantita dai nuovi farmaci antivirali ad azione diretta (Daa) permette di eradicare il virus in maniera definitiva, in tempi rapidi e senza effetti collaterali. L’HIV invece oggi si può controllare, garantendo ai pazienti una qualità di vita sostanzialmente sovrapponibile a quella della popolazione generale. Il carcere è un osservatorio privilegiato e l’opportunità offerta da questa fase non va sprecata. Nel 2020 già sono state implementate diverse iniziative finalizzate a favorire programmi di prevenzione, come il progetto “HCV & Carcere_Linkageto Care”, realizzato grazie anche al contributo non condizionato di AbbVie. Protagoniste sono state le carceri di Novara, Pavia, Sanremo, Genova, Alessandria, Siena, Pescara, Terni, Frosinone, Lecce, Avellino, Sassari, Alghero. Il progetto, volto a far emergere il “sommerso” dell’Epatite C, si è sostanzialmente sviluppato intorno a tre momenti cardine: l’organizzazione di un workshop istituzionale interno al carcere per favorire il confronto; la realizzazione di una campagna di consapevolezza su questa patologia nella popolazione carceraria; l’implementazione dell’attività di screening attraverso test salivari. Bambini dietro le sbarre, le case-famiglia che ci sono (e non ci sono) di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 24 gennaio 2021 Sono ancora 28 bambini rinchiusi in cella con le loro madri in Italia. La nuova legge di bilancio ha stanziato un fondo da 4,5 milioni di euro per sviluppare soluzioni di detenzione alternative. Nelle carceri italiane entrano anche piccoli innocenti: i figli e le figlie di donne detenute. Le madri possono scegliere di portare con sé i bambini fino a un’età di sei anni e, al momento, sono 26 donne e 28 bambini a trovarsi in una struttura carceraria, con tutto quello che questo comporta, soprattutto per i piccoli. La tendenza è in calo: il 31 agosto 2018 i minori erano 62, con 52 mamme; nell’ottobre del 2020 erano 33. È comunque un segnale positivo, ma va interpretato. Calo dei bambini in carcere. Daniela de Robert fa parte del Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Spiega le ragioni del calo degli ultimi mesi: “Di fronte all’emergenza imposta dalla pandemia, sono state prese delle misure per ridurre la pressione sulle carceri. Subito sono state alleggerite le pene inflitte alle madri con bambini al seguito. Questo significa che non era necessario che fossero lì”. Ci sono due diritti sul piatto: quello alla maternità, tutelato dalla Costituzione, e quello dei bambini ad avere un’infanzia libera. “La soluzione ideale è quella di far scontare pene in strutture che assomiglino il meno possibile ad un carcere, affinché possano crescere i propri figli in un ambiente “normale”, accogliente”. Cosa dice la legge in materia? Misure alternative al carcere secondo la legge. La legge ha affrontato la questione dieci anni fa, con la legge 62 del 2011. Il testo prevede misure alternative al carcere per le madri con figli fino ai sei anni di età, salvo esigenze eccezionali. Misure alternative rappresentate dagli Istituti a custodia attenuata per le madri (Icam) e le case-famiglia protette. La ragione della legge è evidente: evitare a tutti i costi che i bambini affrontino i primi anni di vita dietro le sbarre. Tuttavia, il sistema non funziona come dovrebbe. Come riporta Osservatorio Diritti, lo scopo della legge era quello di favorire gli arresti domiciliari e la creazione di case-famiglia-protette, mentre la soluzione più utilizzata rimane quella degli Icam, un’istituzione carceraria a tutti gli effetti seppure attenuata. Gli spazi nido nelle carceri. All’interno dei penitenziari c’è, o dovrebbe esserci, la sezione nido per i bambini. “Quella di Rebibbia è grande e sufficientemente adeguata, anche se è pur sempre una stanza all’interno di in un carcere. Ci sono alcune strutture dove invece esistono solo “celle nido”, come nel carcere di Salerno. Che in fondo altro non sono che delle celle con bambini dentro. È evidente a tutti che quei ragazzini non dovrebbero stare lì”, sottolinea De Robert. Gli istituti a custodia attenuata. (Icam) in Italia sono solo cinque: San Vittore a Milano, la Giudecca a Venezia, Lauro (in provincia di Avellino), Torino e Cagliari, che però “è talmente isolato dal mondo che non ci va nessuno”. Nel Lazio, curiosamente, non c’è nessun Icam. Qual è la differenza con il carcere? “È presente personale carcerario, ma non è in divisa; l’ambiente risulta complessivamente più neutro.” C’è un limite di ospiti, la presenza di volontari, di operatori e operatrici: un luogo tutto sommato più vivace, insomma. “Anche l’accoglienza è diversa e c’è più attenzione ai dettagli. Tutto questo aiuta i bambini a non sentirsi in reclusi, anche se le regole restano le stesse in vigore nel penitenziario”. Inoltre, gli istituti di solito si trovano al di fuori del perimetro carcerario (tranne quello di Torino). “Non è pensabile che un bambino non veda mai, o quasi mai, un filo d’erba, una strada, un cane, un paesaggio abitato”. Case-famiglia protette. La terza opzione, che dovrebbe essere la prima, è la casa-famiglia protetta, una struttura destinata ad ospitare solo donne agli arresti domiciliari e i loro bambini. “La differenza sostanziale è che le misure restrittive e le regole della detenzione qui si applicano solo alle donne. Non c’è personale di polizia, c’è solo il controllo esterno. Se un bambino vuole invitare un amico o fare una festa può farlo liberamente”. Per la legge questa è la prima scelta ma non è affatto così. In Italia ne esistono solo due. “A Roma è stata inaugurata nel 2017 la Casa di Leda, voluta dal Comune di Roma. Si tratta di un bene sottratto alla criminalità nel quartiere Eur, può ospitare sei donne con figli. La seconda è a Milano ed è privata”. Il problema, riporta ancora Osservatorio Diritti, è che l’accesso rimane limitato perché gli oneri di spesa non sono a carico statale. Significa che sono i privati o gli enti locali a dover costruire e gestire questi spazi, e spesso i fondi mancano o manca la volontà. Adesso però la situazione potrebbe cambiare. Stanziato fondo nella nuova legge di bilancio. Sono molte le associazioni che tengono alta l’attenzione sul tema e sono in dialogo costante con la politica e la società civile. Frutto di questo dialogo è l’approvazione nella nuova legge di Bilancio di un fondo di 4,5 milioni di euro, da utilizzare nel corso di tre anni, destinato al potenziamento delle strutture alternative al carcere. “Questo è un risultato importante che si iscrive lungo un percorso ancora non breve, per rendere l’ordinamento penale italiano pienamente rispondente ai livelli di civiltà”, ha detto Gustavo Imbellone di A Roma Insieme - Leda Colombini. Il carcere e la società. “È una buona notizia, anche dal punto di vista culturale: significa che se ne parla, che è una questione di tutti”, commenta De Robert che ritiene il carcere una parte della comunità a tutti gli effetti. “La legge italiana consente una grande permeabilità della società civile alla vita dell’istituto, ed è giusto che sia così. Tutti devono fare la propria parte: gli enti locali devono costruire le strutture, la società civile deve entrarci per contribuire e osservare ciò che succede”. Anche chi è fuori ha un ruolo importante, anche se è spesso poco sensibile al tema. “Tutti dicono fuori i bambini dal carcere, poi nessuno vuole il figlio di carcerati in classe. Non si può pensare di delegare tutto a qualcun altro”. Non solo volontariato. D’altra parte, il volontariato da solo non può bastare. “L’istituto deve garantire figure specifiche: pediatri, pedagogisti, nutrizionisti”. Inoltre, affidarsi prevalentemente all’impegno volontario non garantisce le stesse possibilità a tutti i bambini, perché non tutte le città o tutte le strutture carcerarie hanno lo stesso scambio con il tessuto sociale. L’affido diurno, ad esempio, dipende spesso dalla presenza di volontari e volontarie in zona. “Dove ci sono gli Icam o una sezione nido più sviluppata, come a Rebibbia, c’è più attenzione. Altrove non è così”. “Non lasciamo le case-famiglia vuote”. Infine, costruire più strutture non rappresenta un vantaggio automatico per le donne condannate. “Se da una parte servono le strutture, dall’altra serve attenzione affinché non rimangano vuote”. E torniamo alla considerazione iniziale: occorre fare tutto il possibile perché i bambini non varchino più la soglia del carcere. Giustizia, 24 ore in più per salvare il governo di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 24 gennaio 2021 La spinta del Pd su Bonafede: dia un segnale o sbattiamo. Il voto sulla relazione del ministro al Senato potrebbe slittare a giovedì per dare fiato alla trattativa. Dai dem l’invito al Guardasigilli: dialoghi e non rivendichi solo il passato. Un giorno in più per salvare il governo o dirsi addio. Martedì la conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama potrebbe decidere di spostare di 24 ore la relazione in Senato del Guardasigilli Alfonso Bonafede (M5S) sullo stato della giustizia, prevista per mercoledì. Una prova decisiva per il governo perché la risoluzione di maggioranza potrebbe andare incontro a una sonora sconfitta in Aula dopo lo strappo di Italia Viva. Di certo oltre giovedì, però, non si potrà andare perché venerdì 29 c’è l’inaugurazione dell’Anno giudiziario. Del resto i numeri per andare avanti e arrivare a fine legislatura oggi non ci sono. Lo testimonia il fatto che al Senato si rischia addirittura di non avere i voti neanche per far slittare di un giorno la votazione sulla giustizia. Alla base del possibile slittamento, comunque, nessun impegno istituzionale da parte del titolare del dicastero di via Arenula, che ieri ha smentito le voci circolate in tal senso. Il Guardasigilli, martedì alle 16, sarà comunque alla Camera, secondo il calendario già stabilito, per presentare la sua relazione: lì però il governo Conte non corre rischi. Invece, per superare la “prova Bonafede” in Senato (Italia viva ha già fatto sapere di voler votare contro la relazione del ministro), ecco che potranno tornare utili 24 ore in più di trattative per provare a puntellare il governo con una pattuglia di 8-10 senatori “responsabili”. “Il passaggio in Senato sarà decisivo - ha detto ieri il vicesegretario del Partito democratico, Andrea Orlando -. Il Guardasigilli dia un segnale sulla giustizia o si va a sbattere. E il segnale che chiedo a Bonafede è quello di una relazione di apertura alle forze a cui si chiede di dialogare, una relazione che non sia solo di rivendicazione sull’operato del passato. Abbiamo detto che vogliamo aprire la maggioranza alle forze che condividono il nostro europeismo; anche nella giustizia si può proporre un impianto europeista”. Orlando vorrebbe convincere i senatori renziani a ripensarci, chiudendo comunque la porta a Renzi. Di certo, il Pd lavora per allargare la base che sostiene il presidente del Consiglio. Goffredo Bettini, intanto, torna ad invocare quelle forze europeiste, moderate e liberali a disagio nel centrodestra. Ma il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, è perentorio: “Noi avevamo avanzato la proposta di un governo di unità nazionale, subito esclusa però da Pd e Movimento 5 Stelle. È chiaro che questo rifiuto avvicina il ricorso alle elezioni anticipate”. Già, le elezioni. “Una sciagura”, per Orlando. Per Bettini, “l’ultima risorsa”. Ma rimangono un’ipotesi sempre sul tavolo. Non a caso anche il capo politico M5S Vito Crimi, secondo l’Ansa, chiamando al voto gli iscritti per la nuova governance, sembra lanciare un segnale al Movimento: farsi trovare pronto a un’eventuale campagna elettorale. “Non un allarme vero e proprio”, suggerisce una fonte 5 Stelle di primo piano, ma comunque “l’attivazione delle azioni preliminari per farsi trovare preparati”. Giustizia, Orlando a Bonafede: “Lanci un segnale”. Il nodo resta quello della prescrizione di Liana Milella La Repubblica, 24 gennaio 2021 Martedì alla Camera il forzista Costa presenterà un emendamento anti-procuratori. Il tema della separazione delle carriere incombe nella commissione Affari costituzionali di Montecitorio: Renzi in dissenso con la sua ex maggioranza e la partita è tutta da giocare perché i voti al momento a favore al momento sono 24, come quelli dell’opposizione. Quando ieri, a metà pomeriggio, il vicesegretario del Pd Andrea Orlando ha mandato ad Alfonso Bonafede il consiglio di lanciare “un segnale sulla giustizia alle forze a cui si chiede di dialogare”, tutti hanno pensato solo a una cosa, la prescrizione. Quella norma che, prima ancora del conflitto con Renzi, ha diviso anche Orlando e Bonafede. Ministro della giustizia in carica il secondo, ex ministro il primo. Tutti e due autori di una legge sulla prescrizione, ma il dem Orlando in chiave garantista, il grillino Bonafede in chiave “davighiana” (da Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani pulite che ha sempre detto “siamo l’unico paese in Europa ad avere una legge così”). Per l’ex Guardasigilli la prescrizione non si ferma, ma si sospende soltanto per 36 mesi in Appello e in Cassazione, 18 mesi in ogni fase, per chi è stato condannato. Per l’attuale ministro della Giustizia invece la prescrizione si blocca definitivamente dopo il primo grado, sempre per i condannati. È uno spartiacque. La legge Orlando è del 2017, Bonafede annuncia la sua l’anno dopo col governo gialloverde, nella legge Spazza-corrotti. Gliela blocca Giulia Bongiorno, già in veste leghista. Rinviata di un anno, entra in vigore il primo gennaio del 2020. Ma parte la querelle, poi bloccata dal Covid, in cui i renziani con Lucia Annibali vogliono fermarla con il “lodo” che rinvia la tagliola al 2021. Prevale Bonafede. Conte sta dalla sua parte. Tant’è che la legge di Bonafede è in vigore, anche se non ha avuto effetti perché vale solo per i reati commessi dopo il suo ingresso nella Gazzetta ufficiale. La maggioranza rumoreggia. Cinque vertici tra gennaio e febbraio si susseguono. Renzi è contro, il Pd è garantista. Si arriva al lodo Conte-bis con degli aggiustamenti. Tutto si ferma per il Covid, e per fortuna, perché già in quel momento Renzi vuole sfiduciare Bonafede. Ma - per intenderci e capire gli schieramenti - con Renzi e la Annibali c’era l’allora forzista Enrico Costa, che dava il tormento a Bonafede e proponeva a sua volta il rinvio dell’entrata in vigore della nuova prescrizione. E Orlando, di certo, non stava con Bonafede, ma chiedeva già allora una norma più garantista. Tifava perché restasse in vigore la “sua” legge. Certo non era a favore di quella “davighiana”. Adesso siamo allo showdown e sulla testa di Bonafede potrebbe pendere la “colpa” della definitiva caduta del governo Conte. Può, Bonafede, “sacrificare” la sua prescrizione? Può ammorbidirla? Può annunciarlo in Parlamento mentre legge la sua relazione? Può lanciare questo segnale? Sarebbe un sacrificio molto duro, dopo tre anni di resistenza. E c’è da dubitare che Bonafede voglia e possa farlo mantenendo la sua coerenza. Ma sarebbe sicuramente un passo che metterebbe Renzi in seria difficoltà e aprirebbe una strada verso i “costruttori”. Certamente verso chi, non solo in Forza Italia, critica la sua politica definendola “giustizialista”. Una politica di cui la prescrizione è una sorta di simbolo. Caduta quella, o almeno fortemente ridimensionata, Bonafede per i “costruttori” che arrivano dal centrodestra può diventare potabile. Ma voler percorrere la strada della giustizia, il percorso è pieno di mine. Come quella che, già martedì pomeriggio, potrebbe piazzare Costa quando arriva in aula la legge di delegazione europea, per essere votata addirittura mercoledì mattina. E Costa si è già attrezzato per piazzarci dentro uno dei suoi colpi, un emendamento sulla presunzione d’innocenza, per cui nessuno, tantomeno un procuratore - e non può non venire in mente quello di Catanzaro Nicola Gratteri - può presentare le persone come colpevoli, può tenere conferenze stampa, ma deve limitarsi a brevi comunicati, nei quali gli indagati sono indicati soltanto con le iniziali e l’elenco dei reati. Non basta, impossibile passare ai giornalisti i filmati né degli arresti, né tantomeno di eventuali attività investigative. Ancora: vietato pubblicare le intercettazioni, vietato pure battezzare le inchieste con un nome attraente. E infine, tanto per colpire pure i cronisti giudiziari, fare marcia indietro perfino sulla legge Orlando sulle intercettazioni che ha consentito ai procuratori di dare le ordinanze du custodia cautelare ai giornalisti. Un emendamento, quello di Costa, che sicuramente piace non solo ai renziani e al centrodestra, ma anche all’ala garantista della maggioranza. Se il voto dovesse effettivamente essere segreto, il governo potrebbe andar sotto ancora prima della relazione di Bonafede. Questo tanto per dire che, tra i tanti temi in ballo, quello della giustizia si presta molto più di altri a mettere in crisi il governo. Basti pensare alla separazione delle carriere su cui, anche in questo caso, Renzi stava con Costa e con Forza Italia. E adesso, con il suo abbandono della maggioranza che resta risicata nei numeri, ecco che la separazione, tuttora in commissione Affari costituzionali della Camera, dove tra maggioranza e opposizione siamo 24 a 24, la débâcle è dietro l’angolo. Il presidente della commissione, il grillino Giuseppe Brescia, non ha ancora messo in calendario la separazione delle carriere che, giova ricordarlo, nasce da una legge di iniziativa popolare lanciata dall’Unione delle Camere penali presiedute da Gian Domenico Caiazza. Sì, proprio lui, l’avvocato super garantista che Renzi aveva proposto come partecipante alle riunioni di maggioranza sulla giustizia prima che il Covid fermasse tutto. E non basta neppure, perché la legge di Caiazza, arrivata alla Camera, ha visto affollarsi firme di ogni partito, tra cui anche quelle dei garantisti del Pd. Quindi, appena la separazione delle carriere arriva in discussione nella commissione Affari costituzionali, la maggioranza è destinata ad andare sotto. Perché mai nessun “costruttore” in arrivo dal centrodestra potrà votare contro una legge vessillo dai governi Berlusconi in poi. A questo punto, più che di segnali da Bonafede, come vorrebbe Orlando, c’è il rischio di dovergli chiedere un’abiura. I Cinque Stelle mollano il Guardasigilli: “La testa di Bonafede sarà la prima a cadere” di Federico Capurso La Stampa, 24 gennaio 2021 “La testa di Bonafede sarà la prima a cadere”. A dirlo non è un nemico giurato del ministro della Giustizia. Il tono, anzi, è rassegnato. Sono i suoi stessi compagni di partito del Movimento e, per di più, membri dell’esecutivo che gravitano nella stessa corrente governista del Guardasigilli, a credere che ormai sia questione di tempo: “Si dovrà solo capire quando e come lascerà, ma non riusciremo a difenderlo”. Perché i destini del ministro e quelli del governo sono incrociati, ma difficilmente potranno avere entrambi un esito positivo. Mercoledì il primo banco di prova, quando verrà illustrata ai deputati la relazione annuale sulla giustizia. I numeri della maggioranza, alla Camera, sulla carta ci sono e si sono consolidati con l’ultimo voto di fiducia, ma inizia a sollevarsi qualche perplessità sulla loro tenuta. Tra i responsabili che hanno rinfoltito le file della maggioranza nell’ultima settimana, infatti, molti sono moderati che non hanno mai visto di buon occhio l’anima giustizialista del ministro grillino. Con il possibile voto contrario dei deputati di Italia viva, poi, Bonafede rischia di ballare sul filo. L’appello lanciato dal vicesegretario del Pd Andrea Orlando va proprio in questa direzione: “Sarà difficile non solo allargare, ma tenere i voti. Ci vuole una iniziativa politica del governo e di Bonafede, altrimenti si rischia di andare a sbattere”. E il fatto nuovo sarebbe la “svolta garantista”. Senza una virata decisa sulla giustizia, in Senato la maggioranza non resterà in piedi perché nuovi senatori responsabili, all’orizzonte, non se ne vedono. Bonafede sta pensando di rinviare di un giorno l’informativa a palazzo Madama, fissandola per giovedì. Darebbe così il tempo di saggiare i numeri alla Camera, tutt’altro che scontati. Ma se la maggioranza perdesse pezzi già a Montecitorio, nel Movimento e nel Pd spingerebbero - fanno sapere da entrambi i partiti - per un immediato Conte ter, in modo da rinviare il test al Senato e cambiare la guida a via Arenula. Deve ancora essere convinto Giuseppe Conte, cosa non da poco, ma se cadesse sul voto di giovedì Bonafede, che è capodelegazione del M5S, affonderebbe tutto il governo. E si sta cercando di persuadere il premier ad anticipare le sue dimissioni addirittura a martedì, così da evitare un possibile indebolimento della maggioranza a Montecitorio. Di Conte ter ha anche parlato, non a caso, Bruno Tabacci al termine del suo incontro a palazzo Chigi con Luigi Di Maio. Per l’area moderata un cambio di passo nel segno di una nuova stagione garantista è un elemento cardine dell’operazione di allargamento della maggioranza. E per il cambio alla guida del dicastero di via Arenula il Pd vorrebbe proprio Orlando, che potrebbe gestire la riforma della giustizia inserita dall’Europa tra le condizioni da soddisfare per poter accedere ai fondi del Recovery plan. A rischiare, tra i big del Movimento, non c’è però solo Bonafede. Iniziano a farsi insistenti, infatti, le voci che vedrebbero il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Riccardo Fraccaro, sostituito da Stefano Patuanelli, di cui Conte si fida molto. Patuanelli lascerebbe lo Sviluppo Economico a Stefano Buffagni, da tempo in corsa per una promozione, come il capogruppo Pd alla Camera Graziano Delrio, che tornerebbe al ministero dei Trasporti, lasciando le Infrastrutture al viceministro M5S Giancarlo Cancelleri. La musica del valzer dei ministeri si inizia a sentire più forte. L’ostacolo insormontabile del Guardasigilli di Marcello Sorgi La Stampa, 24 gennaio 2021 Conte è assolutamente contrario. Ma l’ipotesi delle dimissioni del premier, per l’apertura di una “crisi pilotata”, un reincarico per un Conte-ter, continua a stare sul tavolo. Soprattutto su quelli dei vertici del Pd, che ieri con Bettini e Orlando ha ribadito che è difficile ricucire con Renzi, malgrado la disponibilità espressa dal leader di Italia viva, ma ha avvertito il presidente del consiglio sulla difficoltà di superare il passaggio di mercoledì o giovedì al Senato, quando il ministro di giustizia Bonafede presenterà la sua relazione annuale a Palazzo Madama e sarà quasi impossibile per la maggioranza restare tale se Renzi voterà con l’opposizione e gli aiuti dei “responsabili” su quella materia dovessero rivelarsi più complicati da conquistare. La giustizia è infatti un argomento divisivo e Bonafede è percepito come un alfiere dell’ala giustizialista dei 5 stelle. Imprevedibile, ad esempio, aspettarsi a votare in suo favore la senatrice Sandra Lonardo Mastella, vittima di un’inchiesta giudiziaria conclusa dopo lunghissimo tempo con l’assoluzione; o il segretario del Psi Nencini, che aveva votato “no” già la volta scorsa. E sono solo due esempi di “responsabili”. Conte insiste a non voler passare attraverso il percorso naturale della crisi per la gravità del momento - l’allarme Covid ancora molto alto, i ritardi dei vaccini - e perché teme le incognite delle trattative per la formazione del nuovo governo. Non ha tutti i torti: nel Pd accanto al sostegno dichiarato dai vertici, che lo considerano “l’unico punto di equilibrio per tenere insieme la coalizione” si va affacciando una fronda sempre più larga (il capogruppo alla Camera Del Rio, l’economista Nannicini, l’ex-ministra Madia) che non condivide la linea “o Conte o elezioni”, considera fallito il tentativo di sostituire i renziani con i “responsabili” e insiste per riaprire la trattativa con Iv. Non sarà facile, non sarà stabile (Renzi ad agosto, quando lo scioglimento delle Camere diventa impossibile, potrebbe far saltare il banco), ma sta diventando l’unica strada percorribile. Ieri infatti la proposta di Berlusconi di un governo di unità nazionale per affrontare l’emergenza non ha trovato ascolto né a destra né a sinistra. Salvare Bonafede per salvare Conte trattando con Renzi di Rocco Vazzana Il Dubbio, 24 gennaio 2021 Senza un accordo certo con l’ex alleato la relazione sulla riforma della giustizia del ministro Alfonso Bonafede potrebbe slittare. Rinviare la relazione Bonafede sulla giustizia a data da destinarsi. Potrebbe essere questa l’unica strada per mettere al sicuro il ministro e l’intero governo. O almeno è questa l’idea che comincia a circolare negli ambienti grillini dopo il fallimento dell’operazione responsabili. Al Senato i numeri sono troppo ballerini, soprattutto dopo il ciclone Gratteri che ha definitivamente allontanato l’Udc dal perimetro dei papabili volenterosi, per blindare la relazione. E senza un accordo certo con Matteo Renzi, nel frattempo rientrato nell’elenco non ufficiale degli interlocutori possibili, Bonafede si trasformerebbe in un bersaglio troppo facile da colpire. Ma impallinare il Guardasigilli - costretto per opportunità alle dimissioni in caso di bocciatura - equivarrebbe ad affondare l’intera corazzata, già provata dalla battaglia vinta per un soffio al Senato martedì scorso. Alfonso Bonafede non è infatti un grillino qualunque: capodelegazione M5S al governo, intimissimo di Luigi Di Maio e inventore del Conte premier. Praticamente un intoccabile. Così, l’inquilino di via Arenula si è trasformato in un’arma a doppio taglio, utilizzata dai renziani per costringere l’ex avvocato del popolo a trattare, in cambio della salvezza del ministro, e dallo stesso premier per obbligare i grillini a seguirlo sulla strada delle elezioni anticipate in caso di una bocciatura della relazione sulla giustizia e della conseguente fine del governo. Per il Movimento sarebbe un’onta troppo grande da sopportare - Non che Bonafede possa contare su un convinto sostegno della base parlamentare movimentista. Anzi, sono in tanti, nel sottobosco pentastellato, a considerare il ministro uno dei maggiori responsabili dell’indebolimento del partito e a dichiararsi indisponibili a rischiare il proprio scranno per difendere il capodelegazione. Eppure, simbolicamente e politicamente, sacrificare il ministro, per i cinquestelle, sarebbe un’onta troppo grande da sopportare. Meglio trattare con chi c’è e rinviare la resa dei conti interna a momenti meno convulsi. Già, ma chi c’è in questo momento? I volenterosi si son dimostrati svogliati e persino i nuovi compagni d’avventura raccattati una settimana fa sembrano aver già voltato le spalle alla maggioranza. Per capire il clima basta infatti ascoltare le parole di Clemente Mastella, arruolatore di costruttori prima della messa all’angolo dell’Udc, che raffredda, e di molto, l’entusiasmo mostrato 72 ore prima. “Avverto la maggioranza che nei prossimi giorni avrà un problema”, dice il sindaco di Benevento. “Se io fossi in Senato non voterei la relazione annuale del ministro della Giustizia Bonafede”, annuncia Mastella, piazzando l’ennesima mina sotto la sedia di Conte. “La vedo dura e nulla vieta che possa essere messo da parte un ministro della Giustizia. Non mi piace questa forma di giustizialismo ad oltranza che è stata portata avanti da Bonafede. Su questo personalmente mi asterrei”, aggiunge. È il segnale definitivo: la partita resposabili si è chiusa. Al presidente del Consiglio serve battere altre strade. E l’unica possibile porta ancora ad Italia viva, l’alleato “traditore” con cui il premier non avrebbe più voluto avere nulla a che fare. Pazienza se Alessandro Di Battista, tornato a sostenere Luigi Di Maio dopo la crisi di governo in nome dell’anti renzismo, la prenderà male. Il capo del governo, ma anche il ministro degli Esteri, non può legare la propria sopravvivenza politica al rispetto della linea ortodossa. E sa che alla fine anche il Pd ingoierà il boccone. I renziani aspettano un’offerta conveniente - Non resta che provare. Rafforzare la maggioranza è ancora possibile, “i numeri ci sono”, ma per farlo serve “un governo nuovo”, avverte Bruno Tabacci il vero architetto dell’operazione salva Conte, nonché proprietario del pallottoliere di maggioranza dopo aver incontrato Di Maio per fare il punto della situazione. L’ex democristiano sa bene di cosa parla, non a caso riporta sul piatto del premier le “condizioni” poste da Italia viva per rientrare al governo, in un “governo nuovo”. I renziani osservano compiaciuti le difficoltà di Conte e Bonafede ma non infieriscono, consapevoli, semmai, che anche per loro potrebbe essere l’ultima chiamata per uscire dall’angolo. Anzi, offrono un salvagente. Serve “una soluzione politica che abbia il respiro della legislatura e offra una visione dell’Italia per i prossimi anni”, scrivono in una nota deputati e senatori di Iv, risedendosi di fatto al tavolo delle trattative. Perché dopo aver ottenuto la revisione del Recovery Plan e la cessione postuma della delega ai Servizi segreti, Matteo Renzi potrebbe anche accontentarsi di un Conte ter senza sgambetto al presidente del Consiglio ma con un peso maggiore nell’esecutivo. A queste condizioni potrebbe accettare di salvare Bonafede, come già fatto in passato. La scusa dell’eventuale giravolta, del resto, è già pronta e la dirama in anticipo il senatore renziano Leonardo Grimani: “Quella che si vota mercoledì è la relazione sull’anno appena trascorso e noi in questo anno siamo stati al governo con Bonafede. Quindi vanno fatte valutazioni di contenuto ma anche politiche perché non possiamo scordare che eravamo al governo insieme”. Ma per valutare ci vuole tempo. E se entro lunedì non si arrivasse a un accordo, a Bonafede non resterebbe che rinviare l’appuntamento con l’Aula. Conte non si rassegna al ter. Caccia al voto sulla giustizia di Andrea Colombo Il Manifesto, 24 gennaio 2021 Dal dem Orlando appello a Bonafede perché renda più garantista la sua relazione. Il ministro D’Incà si attacca al telefono: “Come vanno i numeri?”. Dalla trincea del Senato non sanno più cosa rispondergli: la facoltà di moltiplicare i voti ancora non è data. Il segnale del caos totale è confermato dal tentativo di rinviare il voto sulla relazione sulla giustizia del ministro Bonafede a palazzo Madama di 24 ore, da mercoledì a giovedì. Non cambierebbe niente e c’è anzi il caso che la richiesta di inutile rinvio, accampando impegni del guardasigilli, finisca in figuraccia. Deve decidere la conferenza dei capigruppo, convocata per martedì: che passi lo slittamento del voto è ben poco probabile. Il vicesegretario del Pd Andrea Orlando invoca una “iniziativa politica del governo e di Bonafede che dia il segnale di un fatto nuovo senza il quale andiamo a sbattere”. Sibillino, come d’abitudine nel gergo del Pd. Di certo non intende le dimissioni del ministro, altrimenti verrebbe giù tutto. La richiesta è di arrivare in aula con un discorso garantista e con concessioni tali da rendere difficile la bocciatura. In parte si tratta del passaggio sulla durata dei processi reclamato dalla senatrice Sandra Lonardo Mastella, con garanzia personale di Giuseppe Conte, e quello dovrebbe esserci di certo. Non basterà se non alla stessa Lonardo che però è già in maggioranza. Il vero nodo è la prescrizione, e su quella le cose sono molto più delicate perché è un cavallo di battaglia dei 5 Stelle. Sacrificarlo non sarà facile. Sulla carta la partita è già chiusa. Trattandosi di giustizia, persino Paola Binetti, che nell’Udc è la più favorevole al passaggio in maggioranza, ribadisce che il voto sarà contrario anche se aggiunge che “la storia si riscriverà da mercoledì, dopo quel voto”. La maggioranza in realtà spera. Un po’ contando sulle assenze strategiche di senatori forzisti spaventati dal rischio di precipitare verso le elezioni anticipate. Un po’ puntando su una nuova astensione dei renziani. Non è impossibile. Italia viva non ha ancora deciso. Renzi mira a riaprire i giochi per tornare da vincitore in maggioranza e al governo: salvare Conte la settimana prossima potrebbe essere un modo per ricucire la ferita delle dimissioni delle ministre di Iv. Ma Renzi dovrebbe avere garanzie solide in questo senso e anche sul prosieguo, altrimenti stavolta Iv non sceglierà l’astensione. Da Palazzo Chigi continuano da due giorni a partire indiscrezioni su un possibile Conte ter cotto e mangiato prima del voto del Senato. Nella politica italiana tutto è possibile ma qui sembra di varcare i confini del delirio. Mettere in piedi un nuovo governo in due giorni, con una nuova maggioranza che non c’è e dovendo trattare ministeri e sottosegretariati è roba da trattamento sanitario obbligatorio. Probabilmente la voce viene diffusa con l’obiettivo di allettare i senatori considerati incerti e conquistabili: intanto salvate il governo, poi arriverà il Conte ter. In realtà ancora ieri il premier era deciso a tenersi strettissima la poltrona di palazzo Chigi e non intendeva affatto rassegnare le dimissioni. Né nei prossimi due giorni né subito dopo il voto sulla giustizia, comunque vada a finire. Neppure l’ipotesi largamente accreditata, di caduta del governo in caso di sconfitta è per il momento fondata. Il ministro Bonafede dovrebbe certo dimettersi ma Conte non sarebbe affatto tenuto a imitarlo e quasi certamente non lo imiterebbe. Resterebbe al suo posto, cercando di allargare la maggioranza nelle settimane successive e tentando di coinvolgere Forza Italia in un’area limitrofa al governo in cambio della promessa di legge elettorale proporzionale. Con o preferibilmente senza dimissioni e Conte ter. Ma la situazione sarebbe quella di chi si asserraglia nel bunker con l’armata rossa già a Berlino. Di fatto inizierebbero subito le grandi manovre per il dopo Conte. Il Pd (con distinzioni interne) insiste nel non indicare altre soluzioni che le elezioni anticipate. I vertici dei 5 Stelle, anche se molto meno la truppa parlamentare, concordano. Conte ha tutto l’interesse nel votare subito e così Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Berlusconi, allettato dalla promessa del Quirinale fattagli dagli alleati, si è avvicinato a quella posizione. In una nota diffusa ieri ripete che “serve un governo forte, non un Conte bis riveduto o il Conte ter”, si affida alla “saggezza del capo dello Stato”, rilancia il governo di unità nazionale ma aggiunge che “una paralisi di due mesi per le elezioni è meglio che una di due anni”. Eppure le controindicazioni che sconsigliano le elezioni sono talmente tante e talmente gravi che lo sbocco elettorale resta invece poco probabile. Le Sezioni Unite si pronunciano su modalità e termini del deposito del ricorso cautelare di Fabrizio Ventimiglia e Giorgia Conconi Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2021 Cassazione Penale, Sezioni Unite, 14 gennaio 2021, n. 1626. Con la decisione in commento la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla corretta interpretazione delle norme del codice di procedura penale dedicate alle modalità e ai termini relativi all’istituto del ricorso cautelare per cassazione, statuendo che tale ricorso “deve essere presentato esclusivamente presso la cancelleria del tribunale che ha emesso la decisione o, nel caso indicato dall’art. 311, comma 2, c.p.p., del giudice che ha emesso l’ordinanza, ponendosi a carico del ricorrente il rischio che l’impugnazione, presentata ad un ufficio diverso da quello indicato dalla legge, sia dichiarata inammissibile per tardività, in quanto la data di presentazione rilevante ai fini della tempestività è quella in cui l’atto perviene all’ufficio competente a riceverlo”. Questa in sintesi la vicenda processuale. Il Tribunale di Reggio Calabria, accogliendo in parte la richiesta di riesame dell’indagato, annullava solo parzialmente l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal G.i.p. del medesimo Tribunale. Il difensore dell’indagato proponeva, dunque, ricorso per cassazione, che veniva depositato presso la cancelleria del Tribunale di Locri anziché presso il Tribunale del riesame di Reggio Calabria e perveniva, di conseguenza, dinanzi ai Giudici del Tribunale competente oltre il termine perentorio di cui all’art. 311 co. 1 c.p.p. Tramite il ricorso veniva dedotto il vizio di motivazione dell’atto, la violazione dell’art. 273 c.p.p. e veniva eccepita l’illegittimità costituzionale dell’art. 309 c.p.p., richiamato nei primi tre commi dall’art. 311 c.p.p., per contrasto con gli artt. 3, 13 e 111 Cost., poiché la norma non avrebbe previsto un termine entro cui la richiesta di riesame, presentata a un’Autorità differente da quella competente, avrebbe dovuto essere trasmessa al Giudice del riesame. La Terza Sezione della Cassazione, constatando la tardività del ricorso e ravvisando la sussistenza di un contrasto interpretativo circa il corretto luogo di presentazione del ricorso cautelare per cassazione, rimetteva alle Sezioni Unite la questione relativa all’applicabilità, in casi sovrapponibili a quello della vicenda in esame, dell’art. 582 co. 2 c.p.p. che, come noto, prevede l’obbligo di immediata trasmissione dell’atto di appello, depositato dinanzi a una cancelleria diversa, presso la cancelleria del Giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Nello specifico, le Sezioni Unite della Suprema Corte sono chiamate a chiarire se la regola generale prevista agli artt. 582 e 583 c.p.p. possa trovare applicazione anche in relazione a una circostanza specificamente disciplinata da una norma di natura derogatoria come l’art. 311 c.p.p., che, come noto, prevede che l’interessato possa presentare ricorso tassativamente entro 10 giorni e unicamente dinanzi al Giudice che ha emesso l’atto impugnato e se sia possibile che il gravame ex art. 311 c.p.p., presentato in una cancelleria diversa da quella del Giudice competente a riceverlo, che giunga presso la cancelleria del Giudice competente entro i termini, possa essere ritenuto valido. La Suprema Corte in merito alla prima questione ha affermato che, sulla base dell’orientamento giurisprudenziale maggioritario, l’indicazione del luogo di presentazione del ricorso cautelare ex art. 311 co. 3 c.p.p. rappresenta una previsione autonoma, e che la norma, al contrario dell’art. 309 co. 4 c.p.p., non richiama il contenuto dell’art. 582 c.p.p.; né, ad avviso delle S.U., si può invocare l’applicazione della disciplina generale delle impugnazioni tramite il ricorso all’analogia legis. Relativamente alla questione concernente la sorte dell’atto di impugnazione presentato dinanzi alla cancelleria di un Giudice differente rispetto al Giudice a quo, la Cassazione non esclude la validità del ricorso. Di fatti, la Corte osserva che “solo l’inosservanza del termine di presentazione determina l’inammissibilità del ricorso” e, di conseguenza, il luogo di presentazione rileva, unicamente, ai fini della verifica della tempestività del ricorso, poiché il decorso inutile del termine per l’impugnazione determina la decadenza dal relativo diritto. In tal caso, il ricorrente si assume il rischio di una dichiarazione di inammissibilità del ricorso per tardività, dal momento che la data di presentazione viene, in ogni caso, considerata quella in cui l’impugnazione perviene all’ufficio competente a riceverla. Ebbene, il ricorso presentato ad una cancelleria “diversa”, pervenuto presso il Giudice competente nel termine sancito dall’art. 311 co. 1 c.p.p., è valido, in ragione del principio del raggiungimento dello scopo dell’atto, ma non può mai essere invocato l’obbligo di tempestiva trasmissione degli atti, previsto dalla regola generale contenuta nell’art. 582 co. 2 c.p.p., in quanto non richiamato dall’art. 311 c.p.p. Fondandosi su tale motivazione i Giudici di legittimità hanno, dunque, escluso la sanzione di inammissibilità per il solo errore di presentazione del ricorso, argomentando che “in questo modo sarebbe vanificato l’obbligo di trasmissione al giudice competente e che rimarrebbe altresì frustrato il principio di conservazione dell’impugnazione stabilito dall’art. 568 co. 5 c.p.p.”. Umbria. Una struttura per accogliere fino a venti autori di reati con problemi psichici di Daniele Bovi umbria24.it, 24 gennaio 2021 La Regione costituisce gruppo di lavoro per la realizzazione di una Rems, così da risolvere un grave problema del sistema giudiziario umbro. Una struttura in grado di poter accogliere fino a venti persone con problemi psichici che hanno commesso dei reati. Nelle settimane scorse la giunta regionale ha avviato il percorso alla fine del quale è prevista la realizzazione in Umbria di una Rems, una Residenza per l’esecuzione delle misure sanitarie. Palazzo Donini allo scopo ha costituito un gruppo di lavoro coordinato da un dirigente della sanità regionale e composto dai direttori sanitari e dai responsabili dei dipartimenti di salute mentale delle due Usl. Il loro compito sarà quello di individuare alcuni luoghi in Umbria in cui realizzare la Rems dove, in due distinti moduli, potranno essere ospitate venti persone (dieci donne e dieci uomini). Tra gli altri compiti anche quello di mettere nero su bianco un protocollo di intesa tra Regione e magistratura, tramite il quale stabilire procedure operative condivise, e un documento con linee guida relative a percorsi di reinserimento; essenziali in generale per tutti i detenuti e ancora di più per quelli con problemi psichici. Un lavoro che dovrà essere consegnato alla giunta entro la metà di marzo. Quando sarà realizzata, la Rems colmerà una grave lacuna. I detenuti con patologie mentali infatti rappresentano, sotto diversi punti di vista, un problema importante per le strutture carcerarie della regione (molto alta la percentuale a Capanne), non risolvibile certo con proposte estemporanee come quella di dotare di taser la polizia penitenziaria. Per capire la situazione dell’Umbria occorre tornare con la memoria al 2012, quando la legge 9 ha stabilito che dal 31 marzo 2013 avrebbero dovuto chiudere tutti gli ospedali psichiatrici giudiziari del paese. Da quel giorno, i detenuti avrebbero dovuto trovare posto nelle Rems, residenze a esclusiva gestione sanitaria dotate di sorveglianza e sistemi di sicurezza. Come spesso accade in Italia però i tempi si sono allungati e altri interventi normativi hanno spostato la chiusura degli Opg al 31 marzo del 2015. In questo quadro Toscana e Umbria hanno sottoscritto, nell’aprile 2013, un accordo interregionale secondo il quale la Toscana si impegnava, a fronte di un pagamento da parte dell’Umbria (le somme sarebbero dovute servire a costruire la Rems) a ospitare nelle strutture dedicate fino a un massimo di sette persone. Nel corso degli anni i problemi non sono mancati, in primis il numero di richieste di gran lunga superiore a quello della disponibilità. E così la Toscana ha accolto nel tempo pochissimi autori di reati, in parte ‘dirottati’ verso altre regioni. Un quadro di fronte al quale la realizzazione di una Rems in Umbria risulta non più rinviabile. Trieste. Allarme contagio, protesta dei detenuti al Coroneo rainews.it, 24 gennaio 2021 Le stoviglie contro le inferriate, per timore di nuovi casi di coronavirus. “Difficile arginare il contagio all’interno del carcere in caso di nuovi detenuti positivi”. Rumorosa protesta, venerdì sera, intorno alle 22, da parte di alcuni detenuti del carcere triestino del Coroneo. Hanno battuto le stoviglie contro le inferriate delle loro celle: al centro della protesta il timore di nuovi casi di coronavirus e la richiesta che vengano effettuati tamponi con regolarità. “Se da fuori arriva un detenuto positivo diventa difficile arginare il contagio” hanno fatto sapere tramite i loro familiari. Gli autori della protesta hanno anche invocato l’indulto per ridurre il sovraffollamento delle carceri e, di conseguenza, anche il rischio di nuovi focolai. Alcuni detenuti e detenute hanno aderito al cosiddetto “sciopero del carrello”, iniziativa promossa dall’esponente radicale Rita Bernardini. In pratica hanno iniziato lo sciopero della fame, donando il loro pasto in beneficenza. Firenze. Presidio a Sollicciano contro la violenza nelle carceri di Stefania Valbonesi stamptoscana.it, 24 gennaio 2021 Un nutrito presidio, oltre 200 di persone, ha messo in atto una protesta sotto le mura del carcere di Sollicciano a Firenze contro la violenza in carcere, a poche settimane dall’indagine shock che ha coinvolto il carcere fiorentino: due pestaggi, nel 2018 e nel 2019, ai danni di un detenuto marocchino e un italiano. Tre agenti ai domiciliari e 6 indagati. Pugni, schiaffi e calci fino ad arrivare in infermeria con 20 giorni di prognosi per la frattura di due costole e l’uscita di un’ernia all’altezza dello stomaco per un giovane detenuto marocchino nel 2019, stesso trattamento per un detenuto italiano sottoposto a un pestaggio a dicembre 2018 che gli sarebbe costato la perforazione di un timpano. Senza dimenticare i precedenti fatti del carcere di San Gimignano, risalenti al 2018, che vedono a processo con rito abbreviato una decina di agenti, sempre per violenze sui detenuti. Altri 5 agenti, sempre per gli stessi fatti, andranno a giudizio il 18 maggio prossimo. Sarà la prima volta che verrà contestato il reato di tortura, introdotto nel 2017. Giunti verso le 15, srotolati gli striscioni, i partecipanti al presidio hanno intonato diversi slogan contro le violenze, la tortura, la disumanizzazione del carcere, mettendo l’accento anche sulle condizioni degradanti in cui versa la detenzione ma soprattutto sul fallimento che il carcere rappresenta per quanto riguarda la capacità di ripristinare opportunità concrete di un cambio di vita per i detenuti. Alle voci dei dimostranti a poco a poco si sono unite quelle dei detenuti, come un’eco, da dietro le mura e i portoni sbarrati, con un agitare di bandiere improvvisate. Una sorta di grido smorzato ma intensissimo con cui il carcere ha voluto a sua volta inviare al mondo esterno la realtà delle sue tragiche condizioni, l’incapacità di reimmettere nel consorzio umano uomini e donne che spesso non hanno avuto alternative o le cui cadute sono state propiziate dalle contingenze sociali in cui si sono trovati. “Del resto, il problema vero - dicono dal presidio - è l’incapacità del carcere di andare al di là di una logica punitiva tout court, nonostante la palese violazione del dettato costituzionale”. Dito puntato dunque sull’inadeguatezza totale delle strutture carcerarie, in cui oltre al cronico sovraffollamento si aggiungono condizioni ingestibili per quanto riguarda la stessa esistenza umana (dal cibo alle condizioni igieniche, alle temperature che d’estate superano, nelle celle, i 40 gradi) cui si sovrappongono i rischi di una disciplina che purtroppo non sporadicamente sembra sfociare in episodi di violenza brutale tanto da rasentare o configurarsi di fatto come tortura. Una sorta di pena aggiuntiva, insomma, rispetto a quanto è stato comminato in sede di giudizio. Nel corso del presidio, ci sono stati due minuti in cui i partecipanti si sono sdraiati a terra, per tradurre in un’immagine simbolica l’abbandono in cui giace questa parte d’umanità. Il presidio, organizzato da Cpa-Firenze Sud e Rifondazione Comunista, ha visto l’adesione di Cantiere Sociale Camilo Cienfuegos, Collettivo Politico Scienze Politiche, Collettivo Krisis, Rete dei Collettivi Fiorentini, Acad Onlus, PerUnAltraCittà, Rete Antirazzista Fiorentina, Collettivo di Unità Anticapitalista di Firenze, Movimento di lotta per la casa di Firenze, Rete Antisfratto Fiorentina, Firenze Città Aperta, Lotta Continua Firenze, Occupazione via del Leone, Occupazione viale Corsica. Oristano. Sdr: nella Casa di reclusione di Massama latita il diritto allo studio Ristretti Orizzonti, 24 gennaio 2021 “L’Università di Cagliari, a 400 anni dalla fondazione, e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, con il 5,4% di studenti iscritti nei corsi dell’Ateneo, raccolgono risultati straordinari tra i detenuti della Sardegna. Un centinaio di studenti della Casa di Reclusione di Oristano-Massama, iscritti alle superiori e ai corsi Cpia, attende però inutilmente da mesi di poter studiare. Un problema irrisolto che impedisce a persone che esprimono la volontà di cambiare sé stessi di fruire di un diritto costituzionale”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris dell’associazione ‘Socialismo Diritti Riformè, con riferimento al mancato avvio delle lezioni scolastiche a distanza osservando che “risultati eccezionali non possono cancellare condizioni di disagio e inadeguatezza di una realtà molto importante”. “Occorre non trascurare che gli apprezzabili risultati universitari - sottolinea Caligaris - sono quasi sicuramente da mettere anche in relazione all’incremento dei detenuti in Alta Sicurezza e 41bis presenti nell’isola (la più alta percentuale in Italia rispetto al numero di ristretti). È notorio inoltre che lo studio ad alto livello soddisfa e impegna particolarmente le persone private della libertà con pene lunghe. Ecco perché, a parte Alghero, la presenza di studenti universitari si registra nelle sezioni AS e tra gli ergastolani. Il problema è rendere la scuola e la formazione strumenti per tutti specialmente per tossicodipendenti e analfabeti di ritorno, spesso dietro le sbarre per pochi mesi in attesa di essere trasferiti in Comunità di recupero e/o in centri sanitari”. “Il convegno dell’Università - osserva ancora l’esponente di Sdr - ha messo l’accento su una problematica significativa soprattutto in considerazione del recupero sociale. Indubbiamente 45 detenuti universitari su circa 2.000 ristretti sono importanti, ma lo sono anche i restanti 1.955 e in particolare i circa 260 di Oristano, un centinaio dei quali ormai si sentono abbandonati e privati di una prospettiva di crescita culturale e umana. Sdr rivolge quindi un appello al Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento Gianfranco De Gesu, già apprezzato provveditore regionale della Sardegna, per un suo personale impegno affinché nella nostra isola non ci siano figlio di un Dio Minore”. Napoli. Storie di prigionia: un albo a fumetti da Poggioreale di Alessandro di Nocera La Repubblica, 24 gennaio 2021 Un laboratorio durato un anno, 4 autori, una associazione e soprattutto alcuni detenuti: così nasce “La voce degli invisibili”. Tutto ha avuto inizio nel settembre del 2018, dopo la proiezione - all’Ex Opg “ Je so’ pazzo”, centro sociale di Via Imbriani 218, nel quartiere Materdei - del film “ Sulla mia pelle”, dedicato a Stefano Cucchi. Da quell’evento, una serie di incontri e di dibattiti dai quali è nato un gruppo di lavoro che, dal marzo 2019, si è recato ogni settimana nel Padiglione Genova di Poggioreale per parlare coi carcerati, intervistandoli sulle loro condizioni e sul senso della loro detenzione. Esperienza che i volontari del progetto, “Sotto lo stesso cielo”, hanno fatto diventare un fumetto con la collaborazione attiva dei reclusi. È nata così “La voce degli invisibili”, 54 pagine a colori, in vendita on line a 5 euro (lavocedegliinvisibili.bigcartel.com) e il cui ricavato sarà destinato a finanziare altre iniziative sociali dell’Ex Opg. Alla stesura hanno preso parte - realizzando preziosi e illuminanti testi d’appendice - don Franco Esposito, cappellano di Poggioreale e presidente della Onlus “Liberi di Volare”, Daniela Lourdes Falanga dell’Arcigay “Antinoo” e i membri dell’Associazione Antigone. “La voce degli invisibili” nasce con la consulenza di Kevin Scauri - ventinovenne napoletano, collaboratore della casa editrice Coconino Press e del Comicon di Napoli, fondatore del Collettivo Sciame - che dopo un workshop preliminare ha coinvolto nell’iniziativa altri tre giovani autori che si sono recati a conversare coi reclusi: Nova, Maurizio Lacavalla e Gianluca “ Jazz” Manciola. Pablo Cammello è invece l’autore della claustrofobica cover in stile Charles Burns. Le narrazioni sono contraddistinte da stili grotteschi e surreali che interpretano l’angoscia della prigionia. In “Metamorfosi”, Scauri raffigura in chiave dantesca il sovrappopolamento delle carceri e la trasformazione dei condannati in carne da macello deprivata di ogni umanità. Nova, in “Legàmi”, concentra la sua sensibilità sugli affetti familiari. Lacavalla punta uno spietato obiettivo sulla sanità carceraria, mentre Jazz, in “Uscire”, si fa interprete delle problematiche legate al reinserimento post-pena nella società. “Abbiamo deciso di pubblicare l’albo proprio adesso - ha spiegato Scauri - perché la pandemia di Covid- 19 ha accentuato e messo in luce tutte le criticità dei luoghi di reclusione, e gli stessi temi da noi trattati sono stati portati all’esasperazione. Speriamo così di porre l’accento sugli istituti penitenziari e sulla necessità di intervenire in maniera incisiva su di essi in questo momento di emergenza”. A proposito del debito che carichiamo sul futuro di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 24 gennaio 2021 Un miliardo di euro di deficit pesa forse politicamente molto meno che in passato, ma anche in era di tassi negativi non scompare d’incanto. Il voto pressoché unanime sullo scostamento di bilancio di 32 miliardi (il quinto) è stato commentato, ancora una volta, come una grande prova di responsabilità delle forze politiche. Quasi la dimostrazione che una grande coalizione, nell’interesse nazionale, sia un’ipotesi percorribile. Certo, non si poteva fare altrimenti. Sono fondi d’emergenza che servono a risarcire le categorie colpite dalle chiusure, finanziare la cassa integrazione e altro. Necessari. In totale, da quando è esplosa la pandemia, si sono approvati interventi anticrisi per 165 miliardi. Non sfugge, però, come sia relativamente facile raccogliere il consenso sulla crescita del deficit e del debito pubblico. Votare sì non comporta alcun coraggio politico. Non si scontenta nessuno. Colpisce l’insostenibile leggerezza con la quale, nella cultura politica (e non solo) del Paese, ci si indebita. Il vincolo di bilancio non c’è più - come è giusto - ma non per sempre. Nulla è più definitivo in Italia - scriveva Giuseppe Prezzolini - di ciò che è provvisorio. La tradizione sembra confermarsi. Se non fosse così ne discuteremmo con un’intensità almeno pari a quella che anima il dibattito sulla sopravvivenza del Conte 2 o sul destino di “responsabili” e nascenti “cespugli” di centro. Invece no, tutto va via liscio. Come se le risorse fossero inesauribili (allora, perché mai pagare le tasse?). Un miliardo di euro di deficit, e dunque di debito, pesa politicamente molto meno che in passato. In parte è vero. Ma anche nell’era dei tassi d’interesse negativi - e della Bce che compra i nostri titoli pubblici - non scompare d’incanto. Quando Mario Draghi ha distinto il debito buono da quello cattivo (visto l’andazzo, avrebbe fatto meglio a non farlo) vi è stato un coro unanime di consensi. Finalmente. Ma, in un afflato di ipocrita solidarietà, ci si è ben guardati dal considerare una spesa, un bonus, un aiuto a chi non ne aveva bisogno, come qualcosa di cattivo o soltanto di inopportuno. “Ne arrivano 209 di miliardi, non andiamo tanto per il sottile”. Con le morti per il Covid, le attività ferme a rischio di fallimento, i tanti disoccupati, mettersi poi a guardare dove finiscono i soldi è antipatico, insensibile, cinico. E invece no, perché ogni miliardo buttato oggi, è un aiuto in meno a chi ne ha veramente bisogno. Un investimento negato per le prossime generazioni che carichiamo di debiti, impoverendole. “Non sono sicuro di voler fare qualcosa per i posteri, del resto loro che cosa hanno fatto per me?”. La frase è di Oscar Wilde. Oggi non fa sorridere. Ogni spreco non è solo debito cattivo, è pessimo. In questa fase drammatica della vita del Paese, anche delittuoso. Che cosa volete che sia - sostiene di fatto la maggioranza dei parlamentari - un risparmio di 300 milioni di euro l’anno in tassi d’interesse, aderendo al famigerato Mes, quando i nostri titoli vanno a ruba (grazie alla Bce, ma non per sempre) sul mercato? E ancora: perché scandalizzarci tanto per i 4,5 miliardi del cosiddetto cashback, che premia, indipendentemente dal reddito, chi spende con la carta di credito? Cento, centocinquanta euro di restituzione. “Proprio in questo momento. Ma era il caso?”, si chiede il cittadino non colpito dalla crisi, un po’ più sensibile, mostrando perfino un filo d’imbarazzo. È passato pressoché inosservato che, con l’approvazione in Parlamento della legge di Bilancio 2021, i fondi per l’emergenza siano stati diminuiti di 3,8 miliardi. Uno è stato dirottato all’esonero contributivo per gli autonomi (e va bene); gli altri 2,8 miliardi sono finiti nei rivoli di tante micro richieste, magari giustificate ma non urgenti, spesso solo mance varie. Nei suoi interventi alla Camera e al Senato, il premier ha gettato - finora senza un grande successo - una sorta di rete per la pesca a strascico di qualche parlamentare. La promessa implicita, un po’ brutale, è quella di posti e relativi vantaggi. Ogni voto in più è anche un centro di spesa che si aggiunge a una lunga lista. Ma, soprattutto, Conte ha parlato di una legge proporzionale più favorevole ai piccoli gruppi. Anni di battaglie referendarie sono finiti nel cestino della Storia. Gli alfieri del maggioritario scomparsi insieme ai paladini della “necessità di dire prima del voto con chi ci si allea”. Volatilizzati. Il Pd ha abiurato alla sua “vocazione maggioritaria”. Al di là dei difetti, di cui parlava ieri sul Corriere Angelo Panebianco, c’è un’ampia letteratura sulla relazione infausta tra il proporzionale e la crescita della spesa pubblica (cattiva). Secondo Torsten Persson, Gerard Roland e Guido Tabellini (Electoral rules and government spending in parliamentary democracies, 2007), un passaggio da maggioritario a proporzionale puro aumenta nel medio periodo del 5 per cento la spesa pubblica. Altri segnali. Lega e Fratelli d’Italia si sono astenuti in commissione al Parlamento europeo sulle regole che disciplineranno la distribuzione dei fondi del Recovery and Resilience Facility, lo strumento principale del Next Generation Eu. Matteo Salvini ha più volte detto che le condizioni imposte all’Italia mettono a repentaglio le pensioni e i risparmi italiani, per esempio con una patrimoniale. Nelle linee guida appena aggiornate dalla Commissione europea, che riprendono anche le ultime raccomandazioni ai vari Paesi, non c’è traccia di simili minacce. Le riforme (giustizia, pubblica amministrazione, fisco) sono irrinunciabili per tornare a crescere e a sostenere il debito. Se non si fanno è in pericolo la concessione di sussidi e prestiti, che andranno impegnati entro il 2023 e spesi entro il 2026. Certo, se si proponesse adesso a Bruxelles quota 100, ci direbbero di no. E farebbero bene, visti i modesti risultati - accertati anche dalla Corte dei conti - sui posti liberati per i giovani (ogni due uscite meno di un ingresso) e l’enorme fardello di debito caricato sulle prossime generazioni. Salvini si lamenta poi che i prestiti europei, a tassi più convenienti di quelli che riusciremmo ad ottenere noi, debbano essere restituiti (entro il 2058). Perché gli altri, più costosi, nonostante l’aiuto della Bce, e con scadenze più ravvicinate, no? I risparmiatori italiani continuano fortunatamente e giustamente a sottoscrivere i titoli pubblici, credendo nella parola dello Stato, che mai è venuta meno. Un grazie anche per la loro infinita pazienza nel seguire le contorsioni del nostro dibattito pubblico. Chi sottovaluta i suprematisti di Karima Moual La Stampa, 24 gennaio 2021 Non so voi, ma io sento che c’è una grande minimizzazione del fenomeno di radicalizzazione dell’estrema destra che ci arriva da Occidente. Gruppi, attentati piccoli o grandi insieme alla crescita dell’ideologia suprematista che avanza indisturbata. Solo l’altro ieri la polizia ha arrestato un 22enne di Savona, Andrea Cavalleri, nell’ambito di un’operazione antiterrorismo in ambienti della destra radicale contigui al terrorismo di matrice suprematista. L’indagato è accusato di aver costituito un’associazione con finalità di terrorismo, nonché di aver svolto azione di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale aggravata dal negazionismo. Dalle carte della Digos emerge come Cavalleri e il suo complice avessero programmati due atti. Un attentato contro la sinagoga di Roma e una race war (guerra di razza) che voleva dire sparare contro le persone di colore. La Digos ha acquisito l’elenco di ben 448 nickname e numeri cellulari che si erano iscritti al canale sole nero. Rischiano una denuncia per apologia di fascismo. Tra questi ci sarebbero anche una decina di genovesi. Non sono casi isolati ma un branco che si sta organizzando in ombra. Eppure la percezione è che su questo fenomeno si tiene un profilo basso e spesso ci si limita a stigmatizzarlo solo sotto l’aspetto psicologico-sociale, se non a trattarlo come un fatto folcloristico. Minimizzare è un errore, e lo dico perché conoscendo e avendo seguito con professionalità, continuità - e ammetto anche con un po’ di emotività personale - il radicalismo della mia casa di provenienza, il mondo islamico, sono ben consapevole delle molte similitudini che collegano ogni tipo di radicalizzazione non solo su base religiosa, con le conseguenze che noi tutti abbiamo potuto toccare con mano con la minaccia, l’odio, il terrore e la morte di innocenti, di ogni provenienza e fede. Ora, da qualche anno, stanno coagulandosi tutti gli elementi necessari a far scattare l’allarme su un’onda di radicalizzati anche nel nostro mondo democratico e civile. Un’onda che si sta rafforzando ideologicamente, numericamente e anche nei suoi collegamenti politici. Sarebbe davvero superficiale e miope, politicamente parlando, non vedere nell’assalto a Capitol Hill o quanto si sta covando in Europa e a casa nostra, l’eco di ciò che è avvenuto in casa islamica. Certamente le due cose sono diverse, ma hanno una evidente radice comune nell’odio verso il diverso. Un sentimento che alimenta in modo identico il suprematismo islamico da una parte e quello bianco dall’altra. L’altro elemento comune è il culto del leader misto a complottismi: sciamani con le corna da una parte e dall’altra Imam che promettono il paradiso con le vergini; Qanon e sette convinte che Dio in persona “illumini” il leader di turno. I fondamentalisti islamici sono arrivati alle armi dopo un lungo percorso di proselitismo e radicalizzazione delle coscienze. Siamo sicuri che la stessa cosa non stia avvenendo anche nel fondamentalismo bianco, dopo ciò che abbiamo visto oltreoceano nella casa della democrazia? Il messaggio populista e insieme sovranista dell’America First, in realtà non è molto lontano da quello di chi mette al centro del mondo la Umma, la comunità dei credenti, affermando che tutti gli altri vengono dopo. La deriva estremista nel mondo islamico è cominciata proprio dal diffondersi di questo concetto. E la storia recente del mondo musulmano, in questa fase, ha molto da insegnare a tutti noi: populismo e sovranismo nascono lì, nell’Islam, con il successo dei partiti religiosi che propagandano una radicale adesione al dio-patria-famiglia. È lì che si forma il grande brodo di cultura prima dell’estremismo e poi delle formazioni terroriste. È ovviamente impossibile paragonare i Fratelli Musulmani ai Fratelli d’Italia, e tuttavia l’innesto tra la cultura Teocon degli anni 90 e il suprematismo trumpiano dei Duemila crea l’”ambiente ideologico” ideale per la nascita di frange radicalizzate: la morale religiosa sostituita al civismo, lo scontro di civiltà come strumento di lettura della politica, la partecipazione a quello scontro come dovere patriottico. Chi non si accontenta di guardare solo al proprio ombelico, dovrebbe trovare non poche somiglianze e aver più di un motivo per preoccuparsi e agire per fermare questa possibile deriva che nel web trova la sua casa anonima e protetta per poter crescere e colpire in gruppo. Una deriva che rischia di travolgere tutti coloro che condividono i valori di uguaglianza e cittadinanza, per una comunità che sa convivere, perché la costruzione della convivenza è l’unica strada di salvezza concreta per le nostre società, tutto il resto porta solo alla divisione, al conflitto e alla solitudine. “SanPa” riaccende il dibattito. Iniziamo a parlare seriamente di dipendenze di Biagio Sciortino* Redattore Sociale, 24 gennaio 2021 Da molti anni non si affronta il problema: la Conferenza nazionale sulle tossicodipendenze è scomparsa dai radar della politica, il Fondo nazionale per la lotta alla tossicodipendenza è scomparso, gli strumenti legislativi sono vecchi di 30 anni e il contrasto si regge sull’eroismo degli operatori dei Sert. “Anch’io, come tanti, davanti ai filmati, ai documenti ed alle interviste raccolte dal colosso Americano dello Streaming Tv, che raccontano le vicende di San Patrignano, mi sono ritrovato travolto da stati d’animo contrastanti. Si sono intrecciate in me, come in un filo di lana, rabbia, sconcerto, amarezza, ma anche il forte desiderio di dire che questa è una storia di trenta anni fa, che andrebbe ben contestualizzata in quel periodo storico molto particolare, caotico e controverso, dove lo Stato annaspava nel dare soluzioni alle migliaia di giovani tossicodipendenti. Non si può non condannare ogni forma di violenza, ogni azione costrittiva, ogni prevaricazione fisica e psicologica, ogni tentativo di depistaggio! Certamente storie sepolte nella memoria, oggi nelle comunità italiane non esistono gli Angeli Custodi, ma vi sono team di professionisti preparati che mettono al centro di tutto ‘l’uomo’ e le sue problematiche, aiutando l’utente senza uso di violenza o coercizione; oggi le comunità italiane sono delle ‘case di vetro’. Il docufilm ha sicuramente raccontato la storia con l’obiettivo di dare un cazzotto allo stomaco dello spettatore, lascarlo senza fiato… omettendo allo stesso tempo tante altre sfaccettature, meno interessanti televisivamente, ma che avrebbero dato un quadro più completo della realtà Sanpa. Alla fine sembrerebbe tutto qui, un prodotto ben fatto e televisivamente avvincente, ma non è così: finalmente, dopo tanti anni di silenzio sulla problematica delle dipendenze patologiche, si rimette al centro del dibattito il fenomeno, anche se non orientando il discorso verso un indirizzo corretto. Infatti da molti anni non si affronta il problema a livello nazionale e regionale; la conferenza nazionale sulle tossicodipendenze, allora istituita con apposita legge, si sarebbe dovuta tenere ogni 3 anni, dove gli attori del pubblico e del privato facevano il punto della situazione e programmavano l’attività di cura, reinserimento e prevenzione nel campo delle tossicodipendenze per gli anni a venire. Invece è scomparsa dai radar della politica: l’ultima, infatti, è stata quella di Trieste nel 2009! Il Fondo nazionale per la lotta alla tossicodipendenza è scomparso, annacquato e quasi del tutto inefficace nei vari piani di zona distrettuali. La situazione del fenomeno in Italia è in costante evoluzione e, purtroppo, viene affrontata con strumenti legislativi vecchi di 30 anni, che invece necessitano di una revisione. L’Intercear assieme alle altre Federazioni che raccolgono le varie strutture italiane, ha presentato da diverso tempo una proposta di revisione dell’attuale normativa in materia di dipendenze patologiche al Governo ed al Parlamento, ma finora nulla si è mosso. A livello regionale, la Sicilia ha varato una normativa abbastanza aggiornata nel 2010 ma è rimasta quasi del tutto lettera morta per mancanza dei passaggi normativi ed amministrativi successivi; il Coordinamento Regionale degli Enti Accreditati della Regione Sicilia (Cears), da tanti anni cerca un dialogo con i vari governi regionali che si sono succeduti, senza mai ricevere la giusta attenzione. L’attività di contrasto del fenomeno delle dipendenze patologiche, allo stato attuale, si regge sull’eroismo degli Operatori delle comunità e dei Ser.T., che ogni giorno cercano di dare risposta ai tanti giovani in difficoltà, ed alle loro famiglie che non riescono a dare un supporto efficace. Tutto questo accade mentre a Palermo il crack miete vittime nell’indifferenza generale. Questo è il reale stato della situazione delle dipendenze patologiche in Italia, adesso che abbiamo riaperto il discorso grazie al docufilm, iniziamone a parliamone seriamente!” *Presidente nazionale del Coordinamento Nazionale dei coordinamenti regionali che operano nel campo dei trattamenti delle Dipendenze (Intercear) TikTok, perché l’app funziona come prima nonostante il divieto del Garante di Martina Pennisi Corriere della Sera, 24 gennaio 2021 A 24 ore dalla notifica del provvedimento urgente dell’Autorità, l’applicazione della cinese ByteDance è ancora attiva. TikTok, il giorno dopo. Matilde, 12 anni, ha aperto un profilo l’anno scorso dicendo di averne 18 (mentono sull’età sette under-14 su dieci in Italia); picchietta le dita sullo smartphone e annuisce soddisfatta: “Funziona tutto”. A 24 ore dalla notifica del provvedimento d’urgenza del Garante per la privacy, l’applicazione della cinese ByteDance non ha eseguito l’ordine di interrompere il trattamento dei dati degli utenti italiani di cui non ha verificato l’età. Se fosse intervenuta e se lo farà nelle prossime ore, tutti gli italiani iscritti a TikTok (9,3 milioni contando i soli maggiorenni, secondo Comscore) non sarebbero più stati in grado di caricare contenuti, commentare o dare il proprio apprezzamento ai post fino al 15 febbraio. Dall’app non è arrivata alcuna comunicazione ufficiale, ma a quanto risulta il provvedimento è nelle mani dei legali, che stanno decidendo il da farsi. “Non è che ci aspettassimo una risposta immediata” spiega il componente del Collegio del Garante Guido Scorza, sottolineando l’eccezionalità della situazione: “Non ci sono precedenti. Diciamo che considerate le difficoltà tecniche è ragionevole che non ci sia stata una reazione immediata, ma se a metà della prossima settimana saremo ancora davanti a una silenziosa inattività o all’assenza di una notifica dovremo prenderne atto”. Cosa accadrà? È importante perché l’epilogo del caso scaturito dopo la morte della bambina di Palermo - l’autopsia ha confermato il decesso per asfissia, i genitori hanno detto che aveva diversi profili, anche su TikTok, ma il legame tra il gesto estremo e una sfida trovata sui social è ancora da dimostrare - potrebbe avere ripercussioni fuori dall’Italia, e sicuramente in Europa, e costituire un precedente per tutte le piattaforme che non controllano che venga rispettato il limite d’età per iscriversi. Innanzitutto, “TikTok ha la possibilità di presentare ricorso al giudice ordinario (Tribunale) anche se i tempi sono stretti” spiega l’avvocato Ernesto Belisario. Se non lo farà e non interverrà in alcun modo, il Garante italiano dovrà confrontarsi con quello irlandese, che è già stato allertato venerdì, che è l’autorità competente per adottare provvedimenti vincolanti e non provvisori e comminare sanzioni per le violazioni del Regolamento europeo della privacy. Il nostro Garante si aspetta che TikTok apra un dialogo, e se andrà così è probabile che l’app partirà mettendo sul tavolo le restrizioni ai profili degli under-16 che ha già adottato, e cerchi di mediare. In base a come lo farà, e con quale concretezza, capiremo se siamo al cospetto di una svolta storica o di una zampata ininfluente. Egitto. Regeni, cinque anni di bugie. Il caso adesso approda all’Ue di Giulio Isola Avvenire, 24 gennaio 2021 Un lustro ancora molto oscuro, troppo. Era il 25 gennaio 2016, esattamente alle 19.41, quando Giulio Regeni inviava dall’Egitto il suo ultimo sms. Di lui poi non si è saputo più nulla fino al ritrovamento del corpo martoriato, il 3 febbraio, su una strada tra li Cairo e Alessandria. Eppure a 5 anni di distanza la verità sull’assassinio del ricercatore friulano è ancora lontana, nonostante l’incessante pressione dei genitori e degli amici del giovane, le campagne di mobilitazione che hanno visto l’esposizione di striscioni in moltissime piazze italiane, il lavoro della diplomazia e della nostra magistratura, una risoluzione approvata dal Parlamento europeo il mese scorso. E domani il caso sarà discusso anche al Consiglio Esteri Ue, con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio incaricato di fare il punto in video conferenza sulla situazione processuale, in attesa di possibili nuove iniziative dei colleghi ministri europei. Allo scopo anche Piero Falsino, presidente della Commissione Affari esteri della Gamera, ha scritto ai suoi omologhi Ue chiedendo di premere “sul piano politico e diplomatico” per ottenere verità: “La vicenda di Giulio Regeni riguarda tutti, non solo l’Italia. È un impegno per la legalità internazionale e per il rispetto dei diritti umani, valori su cui si fondano l’identità dell’Unione Europea e le sue relazioni con ogni nazione”. Sul fronte delle indagini, quattro giorni fa la Procura di Roma ha depositato la richiesta di rinvio a giudizio per il generale Tariq Sabir e peri tre ufficiali dei servizi segreti egiziani Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, che prelevarono e torturarono Giulio in una villetta al Cairo. L’udienza preliminare potrebbe essere fissata entro la fine della primavera, anche se l’Egitto sembra indifferente a qualunque pressione e continuala sua politica ostruzionistica nei confronti di una reale soluzione del caso, rifiutando persino di fornire l’indirizzo degli indagati. Come ha dichiarato Davide Bonvicini, primo segretario dell’ambasciata d’Italia al Cairo all’epoca dei fatti, le autorità egiziane si sono sempre barricate dietro un muro di “reticenza ed evasività”. Domani cadono anche i 10 anni dalla “rivoluzione di piazza Tahrir”, che portò alle dimissioni il “raìs” Hosni Mubarakma purtroppo senza dare inizio a un regime davvero democratico. Per contro da parte italiana manca il vero deterrente cui il Cairo potrebbe forse prestare attenzione, ovvero l’embargo sugli affari e soprattutto sulle commesse militari (l’Egitto è il nostro primo cliente estero). Non a caso i genitori di Giulio hanno annunciato un esposto contro il governo per violazione della legge che vieta l’esportazione di armi verso Paesi i cui governi non rispettano le convenzioni internazionali sui diritti umani. Anche alcune associazioni della società civile hanno promosso l’iniziativa #StopArmiEgitto. Domani comunque è il giorno del ricordo di Regeni e in suo onore si preparano numerose iniziative, forzatamente online per via del Covid. A FiumicelloVillaVicentina (Udine), il paese dove il ricercatore friulano è cresciuto, sono previsti gli eventi “Giulio siamo noi” e “Verità per Giulio Regeni” trasmessi in streaming sulle pagine Facebook del Comune e sul sito di Repubblica; tra l’altro i cittadini sono invitati a “colorare di giallo” il paese e i profili social. Russia. Il popolo di Navalny scende in piazza: scontri e arresti di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 24 gennaio 2021 Le notizie rese note da alcune Ong legate all’opposizione. Disordini e dure repressioni da parte della polizia in numerose città del Paese. Oltre centomila persone sono scese in piazza in tutta la Russia contro l’arresto di Aleksej Navalny, il più famoso oppositore di Putin avvelenato ad agosto in Siberia che ora rischia fino a tredici anni di carcere. In tanti hanno affrontato il freddo, le minacce e i pericoli che nel Paese corre oggi chiunque contravvenga alle severissime leggi contro manifestazioni e dissenso. E questo nonostante in più di 70 città le autorità avessero fatto di tutto per impedire la protesta. Almeno 2.500 dimostranti sono stati fermati e finiranno presto davanti a un giudice. Parecchi malmenati. Complessivamente quella di ieri è stata la più vasta dimostrazione dell’esistenza di un significativo dissenso che non si vedesse da anni. È vero, come il Cremlino fa spesso notare, il presidente gode ancora di un grandissimo supporto nel Paese, ma quelli che lo contestano sono le forze più vitali, sono le colonne della futura Russia. I giovani scolari e gli universitari, la borghesia professionale non più solo delle grandi città come Mosca e San Pietroburgo, ma anche di moltissimi centri sparsi per undici fusi orari. Tra i fermati, anche la moglie di Navalny, Yulia (poi rilasciata in serata) e i suoi avvocati. Nei giorni scorsi arrestata anche la portavoce Kira Yarmysh. Per bloccare i minori, le scuole si erano inventate una giornata di lezioni nonostante fosse sabato, con la minaccia di espulsione per chi non si fosse presentato. Rallentati i social, soprattutto Tik Tok e Vkontakte e le comunicazioni telefoniche. Poi avvisi pressanti a chi avesse deciso di prender parte alle marce non autorizzate: pesanti pene e rischio Covid. A piazza Pushkin, dove il popolo di Navalny si era dato appuntamento, il sindaco della capitale ha ordinato una ripavimentazione urgente e così il luogo è stato transennato. Ma la gente ha iniziato a sfilare lungo le vie e poi in serata davanti al carcere di Matrosskaya Tishina dove il blogger è detenuto in attesa di processo. Si tratta di un famigerato carcere, assieme a quello di Butyrka. Nei due istituti venne probabilmente picchiato e poi lasciato morire l’avvocato Sergej Magnitsky che aveva denunciato pubblici ufficiali che truffavano lo Stato. Come causa della morte venne indicato un attacco cardiaco. Per questo Navalny venerdì ha diffuso un video nel quale afferma di “non nutrire alcuna intenzione suicida e di avere un cuore fortissimo”. Ad agosto Navalny era stato avvelenato mentre si trovava in Siberia per la campagna elettorale. Alcuni uomini, da Navalny stesso poi identificati come agenti dei servizi di sicurezza, gli avevano contaminato le mutande con una variante di Novichok, la sostanza chimica vietata dai trattati internazionali con la quale in Inghilterra avevano tentato di assassinare un agente russo passato dall’altra parte. Tornato a Mosca, Aleksej Navalny è finito subito in prigione per accuse che in buona parte del mondo (ha protestato anche il Parlamento europeo) vengono definite pretestuose. Nei giorni scorsi, per far vedere di non aver paura, il blogger ha diffuso un lungo filmato su un’enorme proprietà in costruzione sul Mar Nero che, sempre secondo Navalny, apparterrebbe a Putin. Il video (un record di 71 milioni di visualizzazioni) ricostruisce anche gli interni sfarzosi e mostra fatture relative alla fornitura di mobili e suppellettili. Gli oggetti che hanno scandalizzato maggiormente i russi sono stati gli scopini per il wc acquistati a oltre 700 euro l’uno. E ieri molti dimostranti si sono portati da casa quelli “ordinari” per agitarli in aria. La Russia deve fare i conti con i diritti umani di Maurizio Molinari La Repubblica, 24 gennaio 2021 Nel 2011 e 2012 contro le irregolarità elettorali e la staffetta al potere fra Putin e Dmitrij Medvedev; nel 2017 dopo le rivelazioni sempre da parte di Navalnyj sulla corruzione esistente nel ristretto circolo di potere attorno al Cremlino; nel 2018 contro una riforma delle pensioni giudicata iniqua; nel 2019 contro l’esclusione dei maggiori candidati dell’opposizione alle elezioni municipali; nel 2020 contro l’arresto del popolare governatore della regione di Khabarovsk. Ovvero, proteste sociali ed economiche locali si sommano un po’ ovunque ad un malcontento nazionale contro l’ultra ventennale autocrazia di Putin creando una situazione di scontento ed instabilità che pandemia e crisi del lavoro hanno portato a livello di guardia. Il ritorno di Aleksej Navalnyj in patria, dopo essere sopravvissuto ad un brutale tentativo di avvelenamento da parte degli 007 russi, si è dunque trasformato nel catalizzatore di questo scontento. E la decisione delle autorità russe di arrestarlo per 30 giorni si è rivelata un formidabile autogol consentendogli di diventare all’istante il collante nazionale della mobilitazione, che ora chiede la sua scarcerazione. Navalnyj sta sfidando Putin con i suoi stessi mezzi ovvero trasforma il potere assoluto del Cremlino nella cartina tornasole della sua debolezza: tanto più l’oppositore riesce a mobilitare, tanto più il potere dell’autocrate mostra la sua vulnerabilità. Ed in una nazione come la Russia un leader debole è già sconfitto. Ciò che rende Navalnyj temibile per il Cremlino è il fatto di non avere paura, di andare avanti a testa alta contro l’avversario senza temere le conseguenze più terribili per sé è per la sua famiglia. C’è in questo un richiamo epico di Navalnyj all’eroismo del soldato russo, capace di ogni prova contro il nemico più potente al fine di difendere la sua madre terra. In una nazione immersa nella storia come la Russia il sacrificio estremo a cui Navalnyj si espone tornando volontariamente dall’estero evoca gesta rivoluzionarie e trasforma Putin nell’icona di un potere in declino. Anche perché nel momento del rientro lancia sul Web e sui social una video inchiesta sui lussi del “nuovo zar” in cui mostra a un popolo in crisi per il Covid e per la recessione, le spese folli per una “reggia personale”. Ma non è tutto, perché ciò che rende ancor più evidente la difficoltà del Cremlino è l’inefficacia delle misure anti dissenso varate negli ultimi anni. Le restrizioni alla libertà di espressione, all’uso di Internet e alle attività dei gruppi per i diritti Lgbt come di altre associazioni di opposizione nascono dalla scelta del 2012 di obbligare ogni Ong straniera a registrarsi come “agente di un governo estero” se raccoglie fondi oltre confine e conduce “attività politica”. Tanto per fare un esempio tale legge ha consentito di far chiudere “Agorà”, una delle maggiori associazioni per i diritti umani in Russia. Leggere assieme tali e tanti fatti porta a comprendere perché mentre negli ultimi anni il tema dei diritti umani in Russia veniva accantonato dalle democrazie occidentali, dentro i suoi confini i cittadini si muovevano in direzione inversa. Come Navalnyj, 44 anni, ha dimostrato di sapere assai bene. E ora Putin si trova davanti ad un bivio che neanche un brillante stratega come lui aveva previsto: può gettare Navalnyj in una cella buia a tempo indeterminato, contribuendo a far crescere a dismisura la sua popolarità, o restituirgli subito la libertà ed affrontare la sfida politica conseguente. Comunque vada, il disegno di Putin di regnare in tranquillità sulla Russia più a lungo di Iosif Stalin per poterla guidare fin dentro il XXI secolo deve lasciare il campo ad una stagione di incertezza che non risparmia neanche i saloni dorati del Cremlino. Per un leader come Putin che ha passato gli ultimi anni a teorizzare e realizzare il sostegno a movimenti populisti e sovranisti in Occidente, al fine di indebolire Nato e Ue dal di dentro, si tratta di uno scomodo risveglio: i diritti umani restano il suo più formidabile avversario. L’arte è una via di fuga per i detenuti americani (talvolta innocenti) di Federica Lavarini Corriere della Sera, 24 gennaio 2021 Da tempo Nicole R. Fleetwood, docente universitaria, ha dolorosamente a che fare con il sistema penitenziario statunitense. Questa ricerca è diventata un libro e una mostra a New York con le opere più originali nate dietro le sbarre. “Non c’è mai stato un momento della mia vita in cui il carcere non abbia rappresentato per la mia famiglia una minaccia costante e concreta, plasmandone di continuo le relazioni e l’esistenza”. Nicole R. Fleetwood introduce il suo nuovo libro, uscito l’anno scorso per la Harvard University Press. Marking Time: Art in the Age of Mass Incarceration è un progetto decennale, di cui la pubblicazione e la mostra, in corso al Moma PS1 di New York, sono il risultato. Nel museo sono esposte oltre 130 opere (fotografie, quadri, installazioni, sculture) di oltre 35 artisti, in carcere o ex-detenuti, spesso vittime di errori giudiziari, come Dean Gillispie che ha scontato ingiustamente 20 anni in un carcere dell’Ohio. Nella mostra manca Kenneth Reams, il più giovane condannato a morte degli Stati Uniti, da 28 anni in isolamento nella prigione statale dell’Arkansas da cui, anche attraverso l’arte, lotta per rivendicare la sua innocenza. L’opera di Reams, Capitalization, è ampiamente discussa nel libro da Fleetwood, che riporta un messaggio in cui l’artista definisce “vergognosi e immorali” gli enormi profitti realizzati da uno dei principali fornitori del sistema penitenziario americano, la Union Supply Group, che vende cibospazzatura a prezzi esorbitanti. Fleetwood, nata in Ohio, di estrazione proletaria, riveste una posizione di spicco nel campo degli studi americani e della blackness culture ed è attualmente docente di Storia dell’arte alla Rutgers University. Un’ascesa nel mondo accademico che poggia le radici nel suo passato: è infatti l’ultimo giorno di college di Fleetwood, prima di iniziare l’università, quando l’adorato cugino Allen, un fratello, viene arrestato con l’accusa di omicidio. Poco dopo un altro cugino, DèAndre, subirà la stessa sorte. Dovranno passare vent’anni in carcere, di cui molti in isolamento, prima che Allen e DèAndre vengano rilasciati. Di questa esperienza dolorosa in cui precipita la famiglia, Fleetwood ricorda nel libro i viaggi con la madre e le zie per raggiungere i cugini in carcere, le pesanti ripercussioni economiche sulla famiglia e, soprattutto, gli sguardi di Allen e DèAndre, sempre più disperati e spenti. E ne conserva le foto. Non certo quelle con cui siamo soliti identificare sui media i criminali, bensì quelle scattate in occasione delle visite. In “Marking Time” c’è un importante focus sulla fotografia legata al mondo del carcere. Perché ha scelto di includere anche la sua storia personale? “La fotografia e Marking Time fanno parte di un percorso biografico che è diventato un progetto di ricerca, tuttora in corso. Nel sistema americano, un aspetto cruciale della pena consiste nell’infliggere condanne da scontare in penitenziari spesso lontani dalla famiglia d’origine. Le foto sono un mezzo potente per mantenere viva la relazione tra i detenuti e i loro cari che, appartenendo a famiglie molto povere, non sempre riescono ad affrontare i costosi viaggi per raggiungere gli istituti di pena. Ho impiegato molti anni prima di rendermi conto che le foto scattate durante le visite ai miei familiari in carcere dovevano uscire dalla scatola in cui le conservavo. Negli Stati Uniti esistono milioni di foto come queste, che rappresentano una potente contro-narrazione visiva dei detenuti rispetto all’immagine negativa riportata dai media”. Come ha vissuto la sua famiglia l’uscita del libro e la mostra, in un periodo così difficile? “La pandemia ha accentuato le disuguaglianze e il profondo razzismo della società americana, abbiamo assistito all’omicidio di George Floyd e alle proteste del movimento Black Lives Matter. Pur con una riduzione della capacità di accoglienza del museo al 25% a causa del Covid, dalla fine di settembre ci sono stati oltre 15 mila visitatori. Oggi credo che la mostra sia ancora più significativa e tutti i miei familiari, in particolare mia madre e i miei cugini, sono emozionati e orgogliosi di questo risultato”. Quali reazioni hanno avuto gli artisti protagonisti del progetto? “Gli artisti che vivono in carcere sono la principale audience di Marking Time. È per questo che ho fatto recapitare alcune centinaia di copie del libro nei penitenziari dove stanno scontando la condanna e, in seguito, anche tutto il materiale che testimonia il notevole impatto della mostra sul pubblico. Questa esperienza rappresenta per loro un cambiamento radicale: qui iniziano a immaginare il futuro fuori da quel mondo”. L’obiettivo del suo lavoro è creare relazioni tra i detenuti e la società. Come è possibile? “Grazie alla potenza dell’arte, nata in uno dei contesti più orribili che l’umanità conosca. Anche a causa dell’epidemia, migliaia di detenuti sono in isolamento, vittime di deprivazione sensoriale e crisi di natura psichiatrica. Eppure, alcune opere presenti in mostra sono state create in questo periodo pandemico e sono perciò fondamentali per i detenuti per rimanere consapevoli e affermare la propria umanità”. Ha introdotto nel mondo della critica d’arte l’espressione “estetica carceraria”. Che cosa significa? “Sono convinta che gli artisti detenuti abbiano un ruolo di assoluto rilievo nel mondo dell’arte contemporanea, basti pensare alla lunga tradizione dei ritratti, di cui vanno estremamente orgogliosi. Tuttavia, sono artisti spesso considerati marginali dalla critica, sebbene in America rappresentino una popolazione di oltre 2,5 milioni di persone e siano parte strutturale del sistema sociale ed economico. Essi dimostrano la capacità di dare nuovo valore e significato al tempo della pena, riconfigurando la propria esistenza. Se non sono gli artisti stessi a chiedermelo, non accenno mai al motivo per cui sono stati condannati perché credo sia necessario cambiare la mentalità che li condanna per tutta la vita all’umiliazione, all’imbarazzo, alla vergogna, allo stigma sociale. Marking Time è, per me, un impegno etico”. Svolta in Afghanistan, Biden vuole rivedere l’accordo con i talebani di Federico Rampini La Repubblica, 24 gennaio 2021 Il generale Austin, nuovo capo del Pentagono, esordisce con un passo indietro rispetto alle scelte di Trump: ancora troppa violenza nel Paese. Ha prestato giuramento il generale Lloyd Austin, il primo afroamericano segretario alla Difesa, e subito affronta le due priorità del Pentagono: Afghanistan e Cina. Il militare 67enne, a riposo dal 2016 dopo 41 anni sotto le armi, ha avuto in tempi rapidi sia l’approvazione del Senato, sia la deroga speciale alla legge che vuole solo civili alla guida delle forze armate. Lo ha aiutato un curriculum impeccabile, secondo solo a quello di Colin Powell, che guidò la prima Guerra del Golfo, fu capo di stato maggiore, e segretario di Stato con George W. Bush. Austin è stato l’unico militare di colore ad avere diretto il Central Command, da cui dipendono le forze dispiegate in Afghanistan, Iraq, Yemen e Siria. Proprio l’Afghanistan è il primo test che lo attende, con un’urgenza particolare. L’Amministrazione Biden ha annunciato la verifica del rispetto degli accordi raggiunti nel febbraio 2020 con i talebani. Quegli accordi prevedono che le milizie dei fondamentalisti islamici escludano dall’Afghanistan gruppi terroristici anti-americani come Al Qaeda, Isis e altri; che riducano la violenza; proseguano i negoziati di pace con il governo di Kabul. Il rispetto degli accordi consentirebbe il ritiro finale delle truppe Usa e della Nato. La scadenza era fissata per l’aprile di quest’anno. Biden sarebbe sollevato, se potesse rispettare l’impegno preso da Trump. Infatti quando era il vice di Barack Obama, ebbe duri scontri con il Pentagono perché lui si opponeva al “surge”, l’aumento di truppe in Afghanistan. Tuttavia la verifica del rispetto degli accordi da parte dei talebani è problematica: la violenza degli attentati non è diminuita, le stragi sono all’ordine del giorno. Inoltre il National Security Adviser, Jake Sullivan, ha chiesto che siano protetti i “progressi straordinari” ottenuti dalle donne afgane. I talebani quando erano al governo proibirono l’istruzione e il lavoro alle ragazze e alle donne. I democratici hanno un’attenzione maggiore sul tema dei diritti umani. E tuttavia anche il segretario di Stato Antony Blinken ha confermato l’obiettivo di “concludere questa guerra cosiddetta eterna”. L’intervento in Afghanistan iniziò nel dicembre 2001, a tre mesi dall’attacco alle Torri Gemelle, perché i talebani ospitavano e proteggevano il regista dell’11 settembre, Osama Bin Laden. Blinken ha evocato la necessità di mantenere in Afghanistan qualche reparto di specialisti dell’anti-terrorismo. Il disimpegno dai conflitti mediorientali consentirebbe al generale Austin di concentrarsi sulla sfida numero uno: il riarmo della Cina, un pericolo sul quale esiste un consenso bipartisan. Tra le prima mosse del nuovo ministro della Difesa c’è stata una telefonata al segretario della Nato, Jens Stoltenberg, a conferma che questa Amministrazione vuole rinsaldare le relazioni con gli alleati. Il nuovo capo del Pentagono sa di dover affrontare anche il razzismo e l’estremismo di destra nei propri ranghi. Una parte degli arrestati dopo l’assalto del 6 gennaio al Congresso, sono militari o ex-militari.