Mercoledì Bonafede in aula ignorerà la prescrizione, ma Iv dirà no lo stesso di Liana Milella La Repubblica, 23 gennaio 2021 Suspense. Riflettori puntati sul 27 gennaio. Il giorno in cui il Guardasigilli Alfonso Bonafede - “Fofò” per chi vuole sfotterlo ricordando i suoi trascorsi giovanili da dj in quel di Trapani - affronterà tra Senato (alle 9 e trenta) e Camera (alle 16) il calvario della relazione sullo stato della giustizia. Con Renzi e i renziani in agguato per dirgli di no. Con le polemiche sulla magistratura per via del libro, in uscita giusto il giorno prima, di Palamara col direttore del Giornale Sallusti. Un titolo - “Il sistema” - che già dice tutto sul mercato per i posti più ambiti tra le correnti della magistratura. Ma certo Bonafede non affronterà la faccenda in aula. C’è da scommettere che più d’uno resterà deluso per il suo speech. In quelle pagine - che sta ancora scrivendo con il suo staff - non ci sarà la parola “prescrizione” che fa diventare rossi gli occhi del leader di Iv. Eh no, perché quella relazione è per legge, e ormai per tradizione, soprattutto tecnica. Basta rileggersi quella dell’anno scorso: era il 28 gennaio, e per quasi un’ora Bonafede parlò di piante organiche e di edilizia penitenziaria, fornì i dati sull’andamento dei processi, descrisse le riforme che aveva in cantiere. Il mood della relazione è nella legge del 2005, Guardasigilli il leghista ministro Roberto Castelli che volle scippare alle toghe, portandola in Parlamento, le storiche cerimonie dell’ultima settimana di gennaio in Cassazione e nei distretti giudiziari. Ma per le vistose assenze, l’overture sulla giustizia è diventata solo burocrazia parlamentare. Bonafede parlerà soprattutto del “suo” Recovery plan. Spiegherà come via Arenula potrà spendere 2,7 miliardi. E vanterà una sua battaglia, essere riuscito a portare a casa 2 miliardi in più rispetto agli iniziali 750 milioni previsti per la giustizia. Parlerà di come intende spenderli, delle 20mila assunzioni di magistrati e cancellieri. Dirà che è una “rivoluzione” per accelerare i processi. Sulla relazione non si vota. Ma si vota su “risoluzioni”. Di solito una di maggioranza a favore, una d’opposizione contro. E stavolta? I renziani affilano gli artigli. I due responsabili giustizia, una donna, Lucia Annibali, alla Camera, un avvocato, Giuseppe Cucca, al Senato. Annibali, con il suo “lodo Annibali”, è già stata la nemica di Bonafede. Voleva che la sua prescrizione slittasse, e non entrasse neppure in vigore. Gli ha dato filo da torcere nei cinque summit a gennaio 2020, quando il Covid non c’era e il governo barcollava sulla giustizia. Adesso dice: “Bonafede? Gliel’avevamo già detto e lo ripeteremo che serve un cambio di passo, e lui non ci ha dato retta. Per chi ha cattiva memoria ricordo solo che Iv non partecipò al consiglio dei ministri in cui si votò l’accordo sulla prescrizione”. Giuseppe Cucca è altrettanto duro: “Ne abbiamo da dire. A partire dai decreti Ristori, su cui ci siamo astenuti. E poi sulla prescrizione, sulla magistratura onoraria che lui sta trattando da schifo, sui concorsi dei magistrati perché 600 toghe in più sono troppo poche, su carceri e Covid. Il nostro elenco di no è molto lungo”. Ecco cosa dirà Bonafede sul piano per la giustizia di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2021 L’intervento del ministro sarà centrato su come spendere i quasi 3 miliardi del Recovery per velocizzare i processi. La relazione di Alfonso Bonafede in Parlamento sarà la prima risposta istituzionale dell’Italia all’Europa che, ora più che mai, ci punta i riflettori in faccia per sapere cosa vogliamo fare per la Giustizia in modo da farla funzionare. Mercoledì prossimo, il ministro parlerà quasi esclusivamente su come pensa di spendere i 2 miliardi e 750 milioni che verranno dal Recovery Plan per affrontare l’atavica lentezza dei processi: maggiore informatizzazione, e finalmente, un reale corso di aggiornamento per il personale amministrativo, ma soprattutto nuove assunzioni, 16 mila, sia pure a tempo determinato, con l’obiettivo di sollevare i magistrati dagli arretrati e farli concentrare su indagini, processi e sentenze attuali. Quindi, possono tranquillizzarsi Matteo Renzi, o Sandra Lonardo, attanagliata dai dubbi se votare una relazione del ministro “giustizialista”. E chissà se quei dubbi, a Lonardo, le siano venuti per il riemergere di brutti ricordi: il suo arresto avvenuto nel gennaio 2008 proprio nel giorno della relazione del ministro della Giustizia, suo marito Clemente Mastella, che si dimise e fece cadere il governo Prodi. Il ministro Bonafede non ha ancora completato la relazione, ma da quanto ci risulta, non parlerà di questioni rognosissime più che mai, datala crisi politica, come la prescrizione, un esempio non a caso. Le relazioni, d’altronde, si occupano dell’anno appena passato e del corrente. Quel che è certo è che Bonafede vuole dettagliare quanto ha in testa per accorciare i tempi infiniti della Giustizia, che hanno sempre pesato su mancati investimenti stranieri in Italia. La maggior parte dei soldi, 2 miliardi e 300 milioni, serviranno per costituire “l’ufficio del processo” che, nelle intenzioni del ministro, deve servire per accelerare e snellire i processi. In che modo? Ci saranno, a partire dalla seconda metà del 2021,16 mila assunzioni complessive, 8 mila per volta, a tempo determinato (in alcuni casi per un massimo di 3 anni, rinnovabile solo una volta) come addetti all’ufficio per il processo. I magistrati onorari “aggregati” saranno 2 mila: mille per due anni e poi altri mille per altri due anni, che avranno il compito di redigere le sentenze dei tribunali civili. Inoltre, sono previsti 100 magistrati onorari ausiliari alla sezione tributaria della Cassazione, 50 per ciascun ciclo previsto, per smaltire l’arretrato della sezione in sofferenza: c’è una pendenza, secondo l’ultimo dato del 2019 di 52.540 procedimenti. Con che criteri verranno distribuiti questi “rinforzi”? Ci sarà un decreto del ministro della Giustizia che individuerà le esigenze di tribunali e Corti d’appello sulla base della mole di arretrato e di conseguenza verranno stabiliti, per ciascun ufficio del processo, quanti addetti dovrà avere. E passiamo al personale tecnico-informatico, ma anche a ingegneri, architetti o esperti in organizzazione che, secondo il ministro, devono entrare nei palazzi di giustizia per collaborare con i magistrati ai vertici degli uffici giudiziari, che così possono concentrarsi principalmente sull’attività giurisdizionale. Previste in questo campo 4.200 assunzioni con un contratto a ciclo unico, cioè non rinnovabile. Fin qui, le linee generali. Venendo a qualche dettaglio ulteriore: chi farà parte dell’ufficio del processo deve predisporre, per esempio, bozze dei provvedimenti e per quanto riguarda il processo civile collabora alla raccolta della prova dichiarativa. Guardando a esperienze anglosassoni, si è stimato che queste figure potrebbero incidere fino al 20% sull’accelerazione dei tempi dei processi, perché sgravano molto il lavoro dei magistrati sommersi da fascicoli. Prevista una selezione “celere”, principalmente tra giovani laureati che collaboreranno con i magistrati. Per quanto riguardai magistrati onorari aggregati all’ufficio del processo, i mille assunti per 3 anni, prorogabili solo una volta, andranno nei tribunali civili con più arretrato. Dovranno avere già ampia esperienza alle spalle perché dovranno essere in grado di collaborare con i magistrati sia nella decisione sia nella redazione delle sentenze. E così si investiranno, secondo le previsioni, 2 miliardi e 300 milioni. E i restanti 450 milioni del Recovery Plan saranno destinati all’edilizia giudiziaria. Il diritto sotto ricatto di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 23 gennaio 2021 Il governo rischia di restare senza maggioranza perché Renzi non concede i suoi voti, i responsabili non sono così responsabili da allinearsi col ministro giustizialista, e anche il Pd tentenna. Il nodo è la prescrizione. Suggerisco che per ragionare sulla abolizione della prescrizione venga presa ad esempio la vicenda processuale del dott. Tronchetti Provera, che lo ha visto imputato per una ipotesi di ricettazione risalente all’anno domini 2004. L’esempio è calzante perché il noto manager, con scelta coraggiosa e quasi temeraria, rinunziò alla prescrizione nel frattempo maturata, convinto che la sua innocenza sarebbe stata senz’altro riconosciuta dai giudici. Dunque, una situazione che simula perfettamente e senza equivoci cosa possa accadere nella nostra realtà giudiziaria a prescrizione eliminata (cioè la situazione voluta dalla sciagurata riforma Bonafede). Condannato in primo grado nel 2013 (dunque 11 anni dopo il fatto); assolto nel 2015; la Cassazione annulla l’assoluzione nel 2016 su ricorso della Procura; la Corte di Appello bis lo assolve di nuovo nel 2017; nel 2018 (sempre su ricorso della Procura, che non molla) la Cassazione bis annulla l’assoluzione bis; nel 2019 l’Appello tris lo assolve ancora; la Procura ricorre ancora (sissignori!) e la Cassazione ter lo assolve definitivamente nel novembre 2020. Se ne potrà discutere, in Parlamento? Se ne potrà chiedere conto al Governo, senza essere additati al pubblico ludibrio come gli irresponsabili sabotatori della democrazia? Stiamo molto attenti, questo ricatto della emergenza pandemica sta diventando un autentico pericolo democratico. La conta del No a Bonafede, sulla prescrizione, vede comporsi una maggioranza inedita. Si cercano i voti in Parlamento, con appelli pubblici (Calenda, Carfagna, Costa) e con trattative riservate (Pd, Italia Viva). Una maggioranza dell’opposizione c’è già, al Senato, e potrebbe esserci anche alla Camera. Per mercoledì può prendere corpo quello che si vocifera nei corridoi: il governo sulla giustizia non ha i numeri. Perfino il Pd ne prende atto e prova a modulare un lodo per evitare il peggio. Ma il peggio c’è già. La ferita più grave alla civiltà giuridica l’ha inferta Alfonso Bonafede. Con Conte I e Conte II. E sarà lui il protagonista della difficile prova di tenuta del Conte-Ciampolillo. L’ex Dj diventato avvocato si era segnalato a Beppe Grillo dieci anni fa perorando con partecipazione le cause dei no-vax. Entrato nelle simpatie del comico, provò a distinguersi per la lena con cui filmava i consigli comunali di Firenze con la telecamerina del cellulare. Una volta si avventurò nel bagno degli uomini per seguire l’allora sindaco Matteo Renzi che ancora oggi ricorda divertito l’episodio, quando poco prima di slacciare i pantaloni fu costretto a fermarlo: “Scusi, lei è quello che viene qui ogni volta per riprendere col telefono? Si è mai accorto che tutte le sedute sono trasmesse in streaming dal Comune?”. Diventato Ministro della Giustizia, ha pensato bene di passare alla storia rendendo indefinita la fine dei processi, sine die. Con un colpo di spugna sulla garanzia costituzionale della prescrizione. A furia di pensare alla storia, il nostro non ha fatto i conti con la matematica: mercoledì prossimo il Parlamento sarà chiamato a fare un bilancio sulla giustizia e il 70% dei parlamentari esprime contrarietà alla prescrizione. Rimane da capire se saranno coerenti fino a votargli contro. Sulla ferita della prescrizione - che loro definiscono “abominio” - avvocatura e mondo giuridico chiedono alla politica un sussulto di civiltà. Si affilano dunque le armi. Mara Carfagna vede l’opportunità di un rovesciamento: “Leggi indigeribili su prescrizione e intercettazioni, proposte inadeguate sui processi civile e penale, una cultura giustizialista tollerata dagli alleati del momento. Per liberali e garantisti, dire no all’azione del ministro Bonafede non è tattica politica, ma un dovere morale”. Enrico Costa, deputato di Azione e responsabile Giustizia del partito, fa due conti: “Il 70% dei parlamentari non condivide la politica giustizialista di Bonafede e dei Cinquestelle, ma per una ragione o per l’altra, molti di essi hanno fatto prevalere le convenienze alle convinzioni. La Lega approvò lo Spazzacorrotti e lo stop alla prescrizione, mentre il Partito Democratico, che votò contro la riforma, una volta al Governo ne difese l’entrata in vigore; Italia Viva respinse la mozione di sfiducia al Guardasigilli e votò le norme su intercettazioni e trojan. La prossima settimana i nodi verranno al pettine e vedremo se il Pd accetterà ancora una volta di difendere una linea forcaiola ed irrispettosa dei piu’ elementari principi di civiltà giuridica”. È però proprio il Pd, fiutata l’aria che tira, a correre ai ripari issando le vele con una pdl a firma di Bazoli, Orlando, Delrio, Verini, Bordo, Vazio, Miceli e Zan. Nomi che contano e che pesano: dall’ex Guardasigilli al responsabile Giustizia, dal responsabile Sicurezza al tre volte Ministro. “La prescrizione del reato realizza la garanzia della ragionevole durata del processo, principio sancito dall’art.111 della Costituzione”, concedono. E propongono un articolo di riforma, un lodo che rimette la palla al centro, prevedendo formule interruttive maggiori: due anni di sospensione del calcolo se si fa appello, un anno ulteriore se si ricorre in Cassazione. Italia Viva non fa mistero della sua decisa contrarietà alla cancellazione della prescrizione e potrebbe, nel solco dell’apaisement di cui ha parlato ieri Renzi (“Calma e gesso”), valutare un sostegno al lodo Dem. Il centrodestra è compatto nella bocciatura preventiva di Bonafede: “Non deve stupirsi il ministro se le forze politiche dichiarano fin da oggi che bocceranno la sua relazione, senza averla letta. Lo sfascio della Giustizia, di cui è responsabile, è sotto gli occhi di tutti”, taglia corto l’azzurro Zanettin. Scricchiolano anche i sì dei già ‘responsabili’: Sandra Lonardo, che da mesi in Senato vota in sostegno del Governo e nelle ultime ore si è spesa molto per una soluzione della crisi, non assicura il suo sostegno. “Devo leggere la relazione prima di prendere decisioni. Non ho condiviso la politica di Bonafede finora - dice sicura - l’eliminazione della prescrizione è stata un errore”. Un nuovo equilibrio, una inedita maggioranza che cancelli la riforma Bonafede potrebbe vedere la luce mercoledì. Caiazza: “L’emergenza ha reso la prescrizione un tabù: basta ricatti” di Errico Novi Il Dubbio, 23 gennaio 2021 Il presidente dei penalisti: l’emergenza è diventata un ricatto contro chi osa difendere i diritti. La denuncia in un post: “Assurdo censurare il dibattito. Il 27 Bonafede presenterà la Relazione sulla giustizia, in Aula il Pd ribadisca il suo no alla norma cara al M5S”. Finirà così: di prescrizione non si potrà più parlare più. S’imporrà la pseudo-crisi di governo, il tentativo di uscirne, il compromesso per sotterrarla. Quanto emerge nelle ultime ore disegna un quadro solo in apparenza rassicurante: si tenta di disinnescare lo show-down sulla giustizia (come ricostruito in altro servizio del giornale, ndr) pur di non far saltare la legislatura. Un siluro al guardasigilli Alfonso Bonafede sarebbe la fine di tutto, ormai è chiaro: se al Senato fosse bocciata la Relazione del ministro, o se arrivasse un voto contro il blocca- prescrizione in commissione Giustizia alla Camera, andrebbero a casa, in sequenza, lo stesso ministro, il governo e probabilmente l’intero Parlamento. Il punto è che ancora una volta il prezzo della pace è pagato a suon di diritti. Nello specifico, col sacrificio del diritto alla ragionevole durata del processo. A denunciare la farsesca e italianissima via d’uscita dal corto circuito Conte- Renzi è Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali. Lo fa con un lungo post pubblicato ieri su Facebook. Una ricostruzione appassionata che culmina in un appello: “Perché, in nome della responsabilità politica e della necessità di salvaguardare le sorti del Governo in questa fase così delicata, non si chiede semmai alla maggioranza di rispettare i propri reiterati impegni pubblici, sospendendo la riforma Bonafede della prescrizione, invece che agli oppositori della riforma di tacere e arrendersi, in nome del Covid?”. Caiazza vede proprio un simile rischio: “Il ricatto della emergenza pandemica sta diventando un autentico pericolo democratico. La pretesa che ogni dibattito, ogni obiezione politica, ogni censura di merito ti iscriva direttamente nella categoria dei sabotatori della salute pubblica e delle istituzioni democratiche non può durare in eterno”. Certo, se potesse prevale il merito sulla prescrizione rispetto al panico da crisi, il Pd innanzitutto dovrebbe ricordare al guardasigilli il proprio dissenso rispetto a quella norma. Dovrebbe farlo magari “mercoledì prossimo”, scrive Caiazza, quando il Parlamento “sarà chiamato a fare un bilancio della politica sulla Giustizia adottata nel 2020 dal governo Conte e, per esso, dal ministro di Giustizia Alfonso Bonafede”. In attesa di capire se e quando quella stessa “Relazione sullo stato della giustizia” sarà proposta da Bonafede in Senato (appuntamento congelato proprio per scongiurare l’incidente politico fatale), il leader dei penalisti si aspetterebbe di verificare, almeno nella presentazione confermata per mercoledì alla Camera, un minimo di coerenza, innanzitutto da parte dei democrat, con le affermazioni fatte nell’ultimo anno. Caiazza le rievoca puntualmente: “Il 2020 è stato l’anno nel quale è entrata in vigore la riforma della prescrizione dei reati, che ha sostanzialmente abrogato l’istituto. Doveva già accadere nel 2019 ma l’allora governo Conte 1 ne differì di un anno l’entrata in vigore perché la Lega recalcitrava all’idea di varare la nuova figura dell’imputato a vita. L’accordo fu questo: prima interveniamo sul tema della irragionevole durata dei processi penali italiani, cioè sulla vera patologia, e poi eliminiamo il rimedio (cioè la prescrizione). Ma nell’anno di differimento nulla accade”, ricorda il presidente dell’Ucpi, “e anzi cade il governo. I nuovi partners di maggioranza, Pd in testa, nell’approssimarsi della fatidica scadenza (gennaio 2020), pubblicamente e ripetutamente dicono: questa riforma non è la nostra e non la condividiamo, comunque la votiamo ma solo perché da subito inizi il percorso parlamentare di riforma dei tempi del processo penale, altrimenti l’imputato a vita è una incivile assurdità”. Ecco, dice Caiazza, “mercoledì in Parlamento”, a Montecitorio, “basterà ricordare queste parole, e questi impegni politici pubblici, a fronte, ancora una volta, del nulla sul fronte della riforma del processo penale”. Ipotesi sulla quale lo stesso Caiazza non nutre però grandi speranze. D’altronde, se il Pd in Aula ribadisse il proprio netto dissenso sul blocca- prescrizione, dopo poche settimane si troverebbe a renderne conto in commissione Giustizia, dove Italia viva dovrebbe ripresentare il lodo Annibali, che sospende l’efficacia di quella norma. Impensabile che i dem si schierino con Renzi contro Bonafede: come per il voto sulla Relazione del guardasigilli, un affossamento del blocca- prescrizione potrebbe costare la sopravvivenza del governo e della stessa legislatura. Ipotesi che in tempo di Covid, come dice giustamente Caiazza, è paralizzata da “ricatto” delle superiori ragioni emergenziali. Qual è il confine del giudice di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 23 gennaio 2021 “I pm hanno troppi poteri!” si sente continuamente ripetere da quanti ritengono che questo sia uno dei mali da affrontare per risolvere la crisi della Giustizia. Un esempio viene indicato nella scelta delle priorità nella trattazione dei procedimenti, ormai inevitabile per l’oggettiva impossibilità di definirli tutti tempestivamente. Né il Parlamento può dettare criteri che non siano troppo generici e inidonei a cogliere le tante diverse realtà del nostro Paese. Di fronte a questi dati di fatto è inutile gridare allo scandalo e puntare il dito contro i pm che “scelgono chi processare e chi no”. Si tratta, piuttosto, di elaborare i criteri di priorità in modo razionale e trasparente con il contributo - come già avviene in molti casi - di tutti i magistrati della Procura, ma anche degli altri uffici del Distretto e dei Consigli dell’Ordine degli avvocati. Con la consapevolezza, però, che alla fine resterà necessariamente in capo al procuratore, e poi al singolo sostituto, un margine di discrezionalità che non è sinonimo di arbitrio, ma valutazione responsabile delle questioni in gioco e delle risorse disponibili. L’allarme periodicamente lanciato sui “poteri eccessivi” dei pm ha tuttavia una portata ben più ampia, come si comprende dai messaggi veicolati dai media: “Tizio intercettato per mesi dalla Procura”, “venti persone arrestate su ordine del pm”, “la Procura rinvia a giudizio i funzionari corrotti”. Affermazioni ricorrenti ma del tutto erronee. Il pm, infatti, non può disporre intercettazioni, arresti e rinvii a giudizio né, tanto meno, emettere sentenze; può solo formulare richieste al giudice. Gli operatori del diritto lo sanno benissimo e allora, se invitati ad argomentare, il tema cambia, diventa quello di un’asserita “sudditanza psicologica del giudice nei confronti del pm”. Una simile generalizzazione (ciascun giudice sarebbe succube di ogni pm?) mi sembra inaccettabile già sul piano logico e non corrisponde, credo, all’esperienza dei palazzi di giustizia che vede ogni giorno, come è ovvio, il rigetto di parte delle richieste della Procura. Quando poi il giudice accoglie una richiesta cautelare o di rinvio a giudizio, la sua decisione è sottoposta a più di una verifica (tribunale del Riesame e Cassazione in un caso, tre gradi di giudizio nell’altro), per cui è arduo pensare a un potere di condizionamento del pm così esteso, anzi totalizzante. La semplificazione iniziale, frutto spesso di una forzatura voluta, che ignora la complessità della realtà della giurisdizione, ci porta tuttavia a riflettere su un tema più ampio, che riguarda l’intera magistratura, requirente e giudicante. È facile notare come nei casi che suscitano maggiore interesse mediatico si registrano le pressioni originate dalle aspettative dell’opinione pubblica prevalentemente orientate, da un certo periodo di tempo, nel senso di una maggiore richiesta di sicurezza e, quindi, a favore delle tesi accusatorie. Queste aspettative sono spesso alimentate - in un senso o nell’altro - dalle forze politiche e dagli organi di informazione, ciascuno secondo i convincimenti e gli interessi che rappresenta (come è naturale in un sistema democratico); e che poi sono pronti a utilizzare l’impatto mediatico delle inchieste, come vediamo ancora una volta in questi giorni. Convincimenti e interessi che possono quindi coincidere con quelli di un ufficio di procura o di singoli magistrati, ma ben difficilmente da questi dipendere. A queste pressioni, come a ogni altra che possa investire chi esercita il difficile compito di amministrare la giustizia, il giudice è tenuto a resistere, forte della previsione costituzionale secondo cui egli è soggetto soltanto alla legge. Egli, come ha detto di recente il presidente emerito della Consulta, Cesare Mirabelli, “ha il dovere di distaccarsi dalle sue posizioni politiche, non può decidere in base a simpatie e antipatie”; e, vorrei aggiungere, non deve indulgere a giudizi morali che non gli competono. Gli stessi doveri sussistono, mi pare superfluo dirlo, anche per il pubblico ministero. Nella consapevolezza, per citare Calamandrei, “di sentirsi accusare, quando non si è disposti a servire una fazione, di essere al servizio di quella contraria”. In sostanza, queste polemiche sono apparentemente centrate sui poteri del pm ma, in realtà, vogliono colpire, molto spesso, l’azione della magistratura tutta. Naturalmente esse sono più violente in tema di mafia e corruzione, ovvero in quei settori in cui maggiori sono gli interessi in gioco e in cui la debolezza della politica e la complessità delle società moderne hanno spesso investito la magistratura penale di compiti che non le sono propri e per la cui soluzione non ha gli strumenti adeguati, ma che la espongono ad accuse laceranti di “immobilismo” o, all’opposto, di “invasione di campo”. Ma proprio per colpire questi reati, evidentemente ritenuti di particolare gravità, il Parlamento da molti anni a questa parte ha emanato (in tema di intercettazioni, misure cautelari, entità delle pene, previsione di nuovi reati) norme estremamente rigorose. Sono proprio queste norme che pm e giudici devono applicare, con la garanzia fondamentale per il cittadino della pluralità dei gradi di giudizio, cui corrisponde il prezzo inevitabile della lunghezza dei procedimenti e della possibile contraddittorietà delle decisioni. Un prezzo che si può e si deve ridurre, ma che non si può eliminare se non rinunziando, come pure avviene in altri sistemi democratici, a quella garanzia. I penalisti contro Gratteri: “Accusa i giudici che assolvono. Ora intervenga il Csm” di Davide Varì Il Dubbio, 23 gennaio 2021 La giunta Ucpi scrive al Csm e all’Anm dopo le dichiarazioni di Nicola Gratteri sul Corriere della Sera. “Le gravissime dichiarazioni del Procuratore Gratteri al Corriere della Sera forniscono una rappresentazione destinata a creare sconcerto tra i cittadini, perché di fatto attribuiscono annullamenti e riforme di provvedimenti giudiziari a ragioni diverse da quelle esposte nelle articolate motivazioni”. A dirlo è l’Unione delle Camere penali, che ha deciso di scrivere al Csm e all’Anm affinché valutino le ipotesi accusatorie di Gratteri oltre che eventuali iniziative a tutela dei giudici interessati. “Nella intervista rilasciata dal Procuratore della Repubblica di Catanzaro a Giovanni Bianconi e apparsa oggi sulle pagine del Corriere della Sera, il Procuratore Gratteri esclude che vi sia stata - nella individuazione della data di esecuzione - una valutazione del quadro politico nazionale, mentre si è tenuto conto dei tempi delle elezioni in Calabria. Apprendiamo così - si legge nella nota dell’Ucpi - che il Pubblico Ministero ha svolto valutazioni in ordine alla opportunità del momento nel quale dare esecuzione ai provvedimenti. A tali affermazioni di per sé sconcertanti ne seguono altre che non possono non essere oggetto di attenta valutazione da parte dell’organo disciplinare dei magistrati”. Alla domanda sul perché gli arresti spesso non vengano convalidati, Gratteri parla di future spiegazioni, lasciando intendere che qualcosa potrebbe accadere. Alla domanda “Che significa? Ci sono indagini in corso?”, Gratteri replica: “Su questo ovviamente non posso rispondere”. “Le affermazioni del Procuratore della Repubblica di Catanzaro si rivelano di inaudita gravità - afferma Ucpi. Non si tratta qui di discettare sulla fondatezza o meno di un quadro indiziario o di prospettare come la serialità di annullamenti da parte dei Giudici superiori, chiamati al controllo delle condizioni per l’applicazione della cautela, abbiano dato conto - quantomeno sul piano del metodo - della fragilità di quelle investigazioni. La considerazione del dottor Gratteri propone al lettore l’idea che i provvedimenti dei Giudici, di censura dell’operato della sua Procura e delle valutazioni del gip, siano ispirati da motivazioni estranee alle dinamiche processuali. È una rappresentazione destinata a creare sconcerto tra i cittadini attribuendo di fatto annullamenti e riforme a ragioni diverse da quelle esposte nelle articolate motivazioni”. Caso Cesa, le parole del procuratore Gratteri dividono Parlamento e magistratura di Liana Milella La Repubblica, 23 gennaio 2021 Le lamentazioni degli avvocati e di parte della politica contro il pm calabrese che difende la sua inchiesta. Esiste un caso Gratteri? Esistono di certo le lamentazioni degli avvocati e di parte della politica contro un procuratore che difende la sua inchiesta. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri parla con i giornali del legame malato tra ‘ndrangheta e politica calabrese. Lo fa con i toni forti che gli sono abituali. È uno che in battaglia non usa certo gli swiffer. Ma un caso Gratteri non si apre al Csm. Pensano ad altro. E all’Anm il presidente Giuseppe Santalucia dice subito che “le sue non sono affatto parole eccessive “. Nessun dubbio? “La legge riconosce al capo della procura il diritto- dovere di parlare quando lo stare in silenzio produrrebbe più confusione e più equivoci. E se l’equivoco c’è, come in questo caso, il procuratore deve fare chiarezza, perché altrimenti si alimentano tesi di giustizia ad orologeria. Gratteri ha spiegato che non è così, visto che ha chiesto misure cautelari un anno fa e una volta ottenuto il via libera non poteva certo tenerle nel cassetto “. Eh sì, però quel parlare di elezioni e di crisi di governo (“Ho visto Cesa dire in tv che non era disponbile ad accordi con il governo e quindi il problema non si è posto “, ha detto Gratteri nelle interviste spiegando l’incrocio tra inchiesta e trattative di governo). Santalucia è netto: “Un procuratore che ha in mano un’azione giudiziaria urticante che va a impattare con un momento difficile della politica, se sta zitto alimenta l’equivoco dell’interferenza con i giochi della politica, mentre una sua parola di chiarezza è doverosa. Anzi, sa cosa penso? Che forse ha ecceduto nel giustificarsi al contrario quando ha parlato delle regionali e dell’esigenza di aspettare”. Stessa tranquillità al Csm, dove nessuno ha sollevato questioni su Gratteri. Ma i garantisti della politica non la prendono bene. La renziana Lucia Annibali storce il naso: “Esiste la presunzione di innocenza, ed esiste la separazione dei poteri, un magistrato dev’essere più prudente e più riservato”. Enrico Costa di Azione spara a zero: “Nella direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, che questa maggioranza non ha voluto recepire, si legge che gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata provata, le dichiarazioni rilasciate da autorità pubbliche non presentino la persona come colpevole”. Un Gratteri che lascia freddo l’ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick. “Lo conosco da molto tempo, mi aveva fatto un’ottima impressione, faceva già vent’anni fa una vitaccia. Ma vede, un magistrato che conduce un’inchiesta di quelle dimensioni forse dovrebbe chiudersi nel silenzio, lasciando che parli il Csm. Il suo impegno contro la ‘ndrangheta è fuori discussione, ma non deve farsi strumentalizzare dall’una o dall’altra parte”. Ma l’Unione delle Camere penali di cosa accusa Gratteri? Di aver detto una frase sui giudici che bocciano le inchieste delle procure. Le sue dichiarazioni rappresentano “un attacco di inaudita gravità all’autonomia e indipendenza dei giudici”. Ma forse gli avvocati ignorano che a Catanzaro s’indaga su un “sistema” che avrebbe legato giudici e imputati, portando a sentenze pilotate. Gratteri è il magistrato che ha il potere di far fallire la politica di Giulia Merlo Il Domani, 23 gennaio 2021 La sua indagine sui vertici dell’Udc ha decapitato l’operazione politica per la nascita del nuovo gruppo parlamentare a sostegno di Conte. In Calabria, le sue inchieste hanno fatto saltare due candidati alla regione. Ora è Bonafede a cercare il suo appoggio. La capitale della politica italiana è Catanzaro. Le alleanze e i nomi dei candidati non si determinano nel grigio palazzone della Regione Calabria, inaugurato nel 2016 nella periferia cittadina, ma in un edificio giallo nel centro storico, in via Falcone e Borsellino: la procura della Repubblica di Nicola Gratteri. L’ultima bomba in ordine di tempo ad aver terremotato la già convulsa fase politica attuale è l’indagine “Basso profilo”, sulla sinergia tra ‘ndrangheta e amministratori pubblici: l’ipotesi di reato è associazione per delinquere con l’aggravante mafiosa e ha prodotto quarantotto arresti in tutta Italia, tra cui membri di primo piano dell’Udc in regione Calabria come Francesco Talarico, e iscrizione nel registro degli indagati - tra gli altri - del segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, a causa dei suoi contatti con un imprenditore calabrese che, secondo la tesi accusatoria, sarebbe il collettore della ‘ndrangheta nel crotonese. Cesa si è dichiarato estraneo ai fatti e si è dimesso dalla segreteria, ma la sola notizia dell’indagine ha assestato un colpo forse mortale alla trattativa in parlamento per la costituzione del nuovo gruppo a sostegno del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. “Ho ricevuto un avviso di garanzia, i fatti contestati risalgono al 2017”, ha dichiarato Cesa in una nota. L’inchiesta, infatti, è ancora nella fase delle indagini preliminari ed è difficile prevedere quando approderà in un’aula di giustizia in cui si stabilirà quanto è solido l’impianto accusatorio. E, prima ancora, quante delle accuse agli arrestati e indagati si concretizzeranno in rinvii a giudizio. L’operazione di polizia e la relativa notizia, però, sono arrivate sui giornali proprio all’indomani della quasi crisi di governo. E, soprattutto, nelle ore di trattative perché i senatori dell’Udc traslochino nella maggioranza di Conte, portando in dote anche il simbolo che permetterebbe la nascita di un nuovo gruppo “del presidente” al Senato. La notizia è stata accolta da alcune ore di imbarazzato silenzio soprattutto sul fronte dei Cinque stelle, da sempre sostenitori del magistrato calabrese. Poi, nel pomeriggio, è arrivato il tweet di Alessandro Di Battista: “Chi ha condanne sulle spalle e indagini per reati gravi, perché Cesa non è certo indagato per diffamazione, non può essere un interlocutore”. Poi, a dare il colpo di grazia all’operazione “costruttori” è arrivato il ministro Luigi Di Maio: “Mai il M5S potrà aprire un dialogo con soggetti condannati o indagati per mafia o reati gravi. È evidente che questo consolidamento del Governo non potrà dunque avvenire a scapito della questione morale”. Sedere accanto ai compagni di partito di un indagato di Gratteri sarebbe un imbarazzo insostenibile per i grillini, paladini del metodo giudiziario di Gratteri che tante volte ha colpito i partiti della Seconda repubblica. Tutto da rifare dunque a palazzo Chigi, che già immaginava di offrire un ministero tra quelli lasciati da Italia Viva ai transfughi dell’Udc e di chiudere così la partita per il Conte ter. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è solo l’ultimo di una lunga fila di politici a cui le iniziative giudiziarie Gratteri hanno mandato all’aria le strategie, ma è sicuramente la vittima più illustre. Prima, gli effetti hanno inciso soprattutto sulla politica locale: anche le ultime elezioni regionali calabresi, infatti, hanno subito pesantemente il riflesso dell’attività di procura. A farne le spese il presidente uscente del Partito democratico e poi non ricandidato, Mario Oliverio, e il potenziale candidato del centrodestra, Mario Occhiuto. Oliverio è entrato nel mirino della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro nel 2021: l’inchiesta si chiamava “Lande desolate” e ipotizzava i reati di abuso d’ufficio e corruzione nella realizzazione di tre opere pubbliche. A pochi giorni dalla chiusura delle candidature per le regionali del 2020, a cui Oliverio vuole comunque ripresentarsi, un’altra richiesta di rinvio a giudizio: un’accusa di peculato per un maxi-finanziamento da 95mila in teoria destinato ad “attività di promozione turistica” nel 2018, che sarebbe servito per una “personale promozione politica”. È il colpo di grazia: Oliverio si ritira dalla corsa, anche su forti pressioni del Partito democratico, lasciando il campo all’imprenditore Pippo Callipo. Callipo verrà poi sconfitto da Jole Santelli consegnando la Calabria al centrodestra, ma di fatto aprirà la sua campagna elettorale prendendo parte a una manifestazione di sostegno a Gratteri, in seguito ad alcuni attacchi politici da lui subiti. Anche la candidatura di Santelli è nata sulla scia di un’inchiesta di Gratteri: il candidato ufficiale del centrodestra è quello del sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, ma sceglie di ritirarsi dopo che nel maggio 2019 finisce nell’inchiesta gemella a “Lande desolate”, che si chiama “Passepartout”, in cui viene indagato per corruzione insieme a Oliverio. Nel luglio 2020 Occhiuto viene prosciolto con la formula del non luogo a procedere e dunque nemmeno arriva al processo. Il 4 gennaio scorso anche Oliverio viene assolto perché il fatto non sussiste nell’inchiesta “Lande desolate”, ma rimane ancora sotto giudizio nel processo “Passepartout” (inizierà ad aprile) e in quello sui fondi turistici, inoltre è tra gli imputati nella nuova maxi-inchiesta sempre di Gratteri, “Rinascita-Scott”. Questo è il clima, in Calabria. Dove non a caso sta per arrivare un ex magistrato molto vicino a Gratteri: l’ex sindaco di Napoli ed ex sostituto procuratore proprio a Catanzaro, Luigi de Magistris si candida alla guida della regione. Anche lui, nei suoi anni calabresi, indagò la politica: l’inchiesta “Poseidone” del 2005 coinvolse proprio Lorenzo Cesa dell’Udc, oltre che i vertici di allora della regione; l’inchiesta forse più nota, “Why not” iscrisse nel registro delle notizie di reato tra gli altri anche l’allora Guardasigilli, Clemente Mastella. Proprio lui, nel corso dei suoi anni da politico, è stato uno dei pubblici sostenitori dell’operato di Gratteri. Ad amplificare tutto, c’è l’amore - ricambiato - della stampa per il procuratore Gratteri. Il giorno dopo le manette ai vertici Udc e dunque nella fase delle indagini preliminari, il magistrato ha rilasciato due interviste in cui discute delle accuse a carico dei politici: le sostanzia argomentando le ipotesi di reato, non si sottrae a domande specifiche con nomi e cognomi, commentando le posizioni dei singoli indagati come Cesa e non indagati come Pierferdinando Casini. Al Corriere della Sera aggiunge di aver sentito dire a Cesa che l’Udc non sarebbe entrato nel governo, dunque il problema di far scattare le misure cautelari in questa fase politica “non si è posto”. Anzi, specifica che le ordinanze erano pronte da una settimana ma che aveva scelto di aspettare ad eseguirle per non interferire con le prossime elezioni regionali calabresi. Insomma, il procuratore si è interrogato sull’opportunità e lo ha risolto ritenendo che no, il deflagrare dell’inchiesta non avrebbe interferito con una trattativa politica che uno degli indagati aveva smentito in televisione. La risposta forse più interessante, però, è quella sulla grande accusa mossa a Gratteri: inchieste dalle impalcature accusatorie mastodontiche, decine e a volte centinaia di arresti e misure cautelari, poi però tutto si sgonfia nel corso del processo e poi della sentenza. “Se i giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”. E siano avvisati i suoi colleghi giudicanti. Il riferimento, nemmeno troppo velato, sarebbe al cosiddetto “sistema Catanzaro”, che nasconderebbe trattative sotterranee per aggiustare giudizi guidato da una “congrega” (così l’ha definita un boss pentito della ‘ndrangheta) di magistrati, avvocati e professionisti inseriti in circuiti massonici, su cui ha indagato la procura di Salerno. Eppure, nel gioco dei buoni e dei cattivi, il feeling della politica con Gratteri è forte: una sorta di calamita. Oppure la dimostrazione che bisogna tenersi più stretti i nemici che gli amici. Lo sapeva Matteo Renzi, che nel 2016 gli avrebbe offerto il ministero della Giustizia ma sarebbe stato fermato dal veto del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Lo sa anche l’attuale Guardasigilli, Alfonso Bonafede, che ora ha proprio Renzi come avversario pronto a votargli contro in aula il 27 gennaio, sulla relazione sulla giustizia. In questo momento di massima debolezza, Bonafede ha bisogno di amici e il più potente, oggi, nel panorama giudiziario lavora a Catanzaro. Proprio dove il ministro andrà il 30 gennaio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, che avrà luogo nell’aula bunker di Lamezia Terme. Il 29 gennaio la cerimonia si svolge in Cassazione con tutti i vertici dell’ordinamento giudiziario, il giorno successivo invece si celebra nelle 26 corti d’appello e il ministro ne sceglie una a cui presenziare e la scelta ha sempre un peso politico. Una dimostrazione concreta che, in questa fase convulsa, la protezione politica si ottiene più al palazzo di giustizia di Catanzaro che a palazzo Chigi a Roma. “La mia famiglia è stata massacrata, Conte abolisca il processo eterno” di Mario Ajello Il Messaggero, 23 gennaio 2021 Intervista a Sandra Lonardo. Clemente Mastella non parla solo per sé ma soprattutto per la signora Sandra, sua moglie, una delle (poche) stampelle su cui (forse) si tiene Conte. E parla così l’ex Guardasigilli: “Su Bonafede le perplessità sono innumerevoli, da parte mia e anche di mia moglie. La quale ha patito, più del sottoscritto, gli eterni tempi della giustizia”. Senatrice Mastella, ma che cosa accade: ha un nuovo portavoce che è il suo autorevole consorte? “Eh, sì, e ne sono onorata. Clemente è un uomo che conosce la comunicazione, e la politica, molto meglio di tanti altri. Era il portavoce di De Mita e ora è diventato il portavoce mio. Significa che sono diventata importante. Ma a parte gli scherzi. Sarà una coincidenza, quella del voto sulla risoluzione di Bonafede, ma questa coincidenza può essere utile: Conte ci deve dire che cosa vuole fare sulla giustizia. Si deve fare garante di un cambio radicale su questo tema. Il giustizialismo non può appartenere all’agenda della nuova fase di governo”. E se Conte non si fa garante del garantismo lei non lo vota? “Io non minaccio. Confido che Conte, e la sua sensibilità di avvocato mi fa ben sperare, s’impegni una volta per tutte a tagliare i tempi della giustizia. La prescrizione infinita è un obbrobrio”. Se non lo fa, lei vota contro il governo? “Io non ho mai votato niente al buio. Vediamo se il premier dà segnali su questo e poi decido. Ma deve darli. La maggioranza che si sta formando non è più come quella di prima. Si stanno aggiungendo nuovi soggetti e diverse sensibilità. Conte deve tenere conto di questa evoluzione e della molteplicità di culture liberali e garantiste che sono entrate in gioco”. Penso a quella del socialista Nencini. Non si può fare finta di niente”. Lo vede che sta ricattando Conte? “Macché, io mi fido di lui. Saprà dare l’indirizzo giusto. Ma sulla giustizia occorre essere chiari. Lo dice una persona, la sottoscritta, che per dieci anni ha vissuto una gogna immeritata e poi è uscita pulitissima come era chiaro fin dall’inizio che sarebbe stato. Non si può sorvolare su certe tare italiane profonde e che vanno a colpire tanti cittadini anche non politici, rovinando vite e famiglie. La malagiustizia e i suoi tempi biblici sono un cancro da estirpare. Conte si impegna solennemente che vuole estirparlo? È pronto a giurare che nei prossimi mesi lavorerà all’abolizione della prescrizione eterna e all’accorciamento dei processi?”. Guardi che i grillini nel nuovo Conte ci restano, mica ci sono solo mastelliani e socialisti... “Lo Stato di diritto dovrebbe stare a cuore a tutti. Lanciare un segnale deciso e chiaro contro il giustizialismo servirebbe anche a trovare, per la nuova fase di salvataggio dell’Italia in cui io credo e per la quale vedo Conte molto attrezzato e ben intenzionato, molti consensi e quelli che ancora mancano e che spero arrivino”. Il massimo sarebbe se Conte lasciasse a casa Bonafede? “Non do consigli. Credo che Bonafede sia correggibile e che Conte possa riuscire a correggerlo. Il tema è quello che le dicevo: nuova maggioranza e nuove sensibilità, non può restare tutto come prima. Il premier come garante di equilibri cambiati deve dare spazio a culture nuove che poi, e parlo del garantismo, in fondo sono anche la sua. Ora lo può dimostrare veramente”. Se non lo fa, crolla il governo che non è ancora nato? “Aspettiamo, vediamo. Non confondiamo i vari piani. Quello della giustizia però deve avere una considerazione privilegiata e non passibile di vaghezze”. Sembra di sentire parlare suo marito? “Chi? Il mio portavoce?”. Clemente. “Guardi, lui come me e noi come il resto della famiglia siamo stati massacrati dalla malagiustizia. Abbiamo perduto un partito, siamo stati costretti a spendere montagne di soldi in avvocati, abbiamo patito sofferenze psicologiche indicibili, e il tutto per non avere fatto niente. Mi permetterà di essere particolarmente severa ed esigente quando si parla di giustizia. Non so se Conte sarà capace di garantire il garantismo. Ma per me, questo è un discrimine”. Processo telematico penale: esteso il deposito elettronico per procura e querela Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2021 Nella Gazzetta di ieri il decreto che allarga la platea di atti digitali. È stato pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” n. 16 del 21 gennaio il decreto 13 gennaio 2021, recante norme per il “Deposito di atti, documenti e istanze nella vigenza dell’emergenza epidemiologica da Covid-19”, con cui si amplia - come recita un comunicato del ministero della Giustizia - ulteriormente “il ventaglio di atti e istanze rispetto alle quali è previsto il deposito per via telematica nell’ambito del procedimento penale”. Il decreto firmato dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede è stato pubblicato ieri sera nella raccolta delle leggi ed è in vigore il quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione. Secondo Via Arenula in base a quanto previsto dal provvedimento, d’ora in poi sarà possibile depositare telematicamente anche una denuncia, una querela e la relativa procura speciale, un’istanza di opposizione alla richiesta di archiviazione, la nomina del difensore, la revoca e la rinuncia al mandato difensivo. Questa tipologia di atti nativi digitali andrà ad aggiungersi a quelli per i quali tale facoltà era già consentita (atti e documenti di polizia giudiziaria, memorie, istanze e documenti successivi alla chiusura delle indagini preliminari). L’implementazione è stata realizzata nonostante le difficoltà imposte dal periodo pandemico: se lo scorso maggio i depositi telematici erano stati appena 20 in tutta Italia, fra il 1° dicembre 2020 e il 21 gennaio 2021 erano già arrivati a oltre 20mila. A partire dal prossimo 25 gennaio - afferma il Ministero - sarà compiuto un ulteriore avanzamento, tramite l’avvio della sperimentazione del portale del processo penale telematico “bidirezionale”, che permetterà non solo di trasmettere ma anche di consultare e ricevere gli atti da remoto. “L’ampliamento degli atti rappresenta un significativo passo avanti per la realizzazione del processo penale telematico tramite deposito da portale - commenta il Ministro Alfonso Bonafede -. Si tratta di una nuova importante tappa della profonda opera di modernizzazione della Giustizia italiana. Un ringraziamento particolare va agli operatori del settore, ai tanti avvocati, magistrati e al personale amministrativo che in questo momento delicato imposto dalla crisi pandemica, hanno accettato la sfida dell’innovazione digitale e stanno permettendo, con il loro lavoro, il raggiungimento di questi importanti traguardi”. Campania. “Sempre più detenuti positivi al Covid, che aspettiamo a vaccinarli?” di Francesca Sabella Il Riformista, 23 gennaio 2021 L’allarme del garante Ciambriello: “Gli ultimi dati sui contagi confermano che il carcere è tutt’altro che un luogo immune al virus, come invece dichiarato dalla politica e da incauti operatori della giustizia. Eppure i detenuti rientrano ancora tra gli “scartati” dal piano dei vaccini”. Nel giorno in cui il commissario Domenico Arcuri annuncia che il vaccino ai reclusi sarà somministrato subito dopo gli 80enni, il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello riaccende i riflettori sull’emergenza pandemica dietro le sbarre e sull’urgenza di somministrare il vaccino a chi vive tra le mura del carcere, ora che i numeri sono tutt’altro che rassicuranti. In Campania sono 68 i detenuti risultati positivi al virus: uno all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere e 64 in quello di Secondigliano, a loro se ne aggiungono altri tre che sono invece ricoverati in ospedale. Inoltre ci sono 53 contagiati tra agenti di polizia penitenziaria e personale sanitario. A preoccupare è anche l’isolamento imposto ai detenuti che hanno avuto contatti con persone positive al virus. Nel penitenziario di Secondigliano, sono centinaia i reclusi sottoposti a quarantena precauzionale e fiduciaria che lunedì prossimo si sottoporranno al tampone per verificare la positività al virus. “Di fronte a questi numeri - commenta Ciambriello - bisogna attendere una quantità eccessiva di morti per parlare di carcere e Covid o il solo rischio è sufficiente per affrontare la questione? Se sono già decine di migliaia i contagiati in tutta Italia, molti nella sola Campania, le conseguenze sanitarie, fisiche, psicologiche di questo contagio vanno affrontate subito”. L’avanzata del Covid fa tremare le prigioni di tutto il Paese. Secondo i dati diffusi pochi giorni fa dal Ministero della Giustizia, sarebbero 666 detenuti positivi al Covid e circa 26 quelli che al momento necessitano di cure ospedaliere e sono quindi ricoverati. Cresce anche il numero di contagiati tra gli addetti ai lavori: 612 positivi tra agenti di polizia penitenziaria e personale penitenziario, altri 14 sono invece ricoverati in ospedale. Appare evidente la necessità di vaccinare la popolazione carceraria o, quantomeno, di iniziare a organizzare la campagna vaccinale stabilendo tempistiche e modalità di tale azione. La battaglia per far sì che i detenuti vengano inseriti tra le categorie a rischio e quindi vaccinati tra i primi, è stata al centro dell’attenzione anche dell’Ordine degli avvocati di Napoli che si è mobilitato per portare alla ribalta l’emergenza Covid in carcere. È stata la prima iniziativa in questo senso da parte di un ente pubblico, l’impegno è scattato dopo lo sciopero della fame di Rita Bernardini, ex deputata dei Radicali, e gli appelli di penalisti e garanti. “È giusto, come si sta già facendo, procedere alla vaccinazione degli operatori sanitari nelle carceri, così come per gli agenti di polizia penitenziaria e gli operatori - afferma il garante regionale dei detenuti - Mi chiedo, però, visti i focolai di contagio in tutta Italia, i detenuti malati cronici con età superiore a 60 anni che si trovano nei Sai (Servizi di Assistenza Intensificata) delle carceri, quando riceveranno questa possibilità, chiaramente sempre su base volontaria? O forse sono cittadini di “serie B”, cosiddetti scartati? Il rischio è quello di un razzismo di ritorno verso persone che avrebbero diritto al vaccino ma non l’ottengono solo perché detenuti”. Infine, il garante sottolinea come, nella seconda fase di pandemia, il numero di detenuti in Campania che hanno beneficiato di misure premiali ed eccezionali sia stato estremamente esiguo: dei 250 che avrebbero potuto scontare residui pena a casa, solo 90 hanno lasciato il carcere. “Mi auguro che la magistratura di sorveglianza discuta in tempi ragionevoli delle istanze di liberazione anticipata per consentire a quanti più detenuti possibile di ottenere la detenzione domiciliare con o senza braccialetto elettronico - conclude Ciambriello - Lo stesso vale per le istanze di l’affidamento in prova ai servizi sociali e di semilibertà, oltre che per i ristretti gravemente ammalati che potrebbero beneficiare del differimento dell’esecuzione della pena”. Sardegna. Corsi universitari in carcere, la Regione “modello” per il Paese di Matteo Vercelli L’Unione Sarda, 23 gennaio 2021 Nell’Isola il 5,4% dei detenuti frequenta percorsi accademici contro una media nazionale dell’1,4%. In Sardegna il 5,4% dei detenuti frequenta corsi universitari, contro l’1,4% registrato a livello nazionale. Un buon risultato, dunque, emerso durante la tavola rotonda on line su università e recupero sociale organizzata dalla Facoltà di Studi umanistici per celebrare i 400 anni dell’Ateneo cagliaritano. A rivelare il dato è stato il Provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria, Maurizio Veneziano, che ha definito il fenomeno “fortemente significativo di un’azione ben condotta in questa regione con il supporto dell’amministrazione penitenziaria nazionale, che ha saputo creare una rete interistituzionale in grado di far salire questo dato a livelli così importanti. In Sardegna siamo capofila di una progettualità che sarà certamente seguita e avallata nel resto d’Italia”. Dallo scorso anno l’Università di Cagliari ha attivato un Polo universitario penitenziario che garantisce la frequenza a corsi e seminari ai detenuti e alle detenute negli istituti di Uta e Massama che ne facciano richiesta. Un’attività che genera anche un indiretto risparmio di risorse: “Normalmente - ha aggiunto Veneziano - un detenuto costa allo Stato in media 300 euro al giorno. Tutto quello che spendiamo in cultura, istruzione, lavoro - elementi premianti del trattamento penitenziario che riducono la recidiva una volta terminata la pena - va a formare un grande valore economico”. Il riferimento è all’attività svolta dai Poli Universitari Penitenziari, istituiti dal 2018 in tutta Italia e operativi anche in Sardegna: “Abbiamo iniziato in una ventina di atenei - ha detto Franco Prina, Presidente Conferenza Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari della Conferenza dei Rettori italiani - Oggi siamo 37 e copriamo regioni nuove, come Puglia e Sicilia, in cui stiamo attivando nuove convenzioni con i provveditorati. In totale l’anno scorso erano 920 i detenuti iscritti in università italiane che offrono questo servizio”. L’impegno dell’Università di Cagliari nelle carceri di Uta e Massama è stato testimoniato dal Rettore Maria Del Zompo: “L’unico ascensore sociale che funziona, l’unica realtà che può far cambiare di stato una persona è la cultura, la conoscenza - ha ricordato - Questo accade nella scuola e negli studi universitari: è con orgoglio che il nostro ateneo, grazie alla professoressa Cristina Cabras e alle altre istituzioni coinvolte, porta avanti un percorso difficile di recupero di persone che hanno sbagliato e che hanno voglia di riscattarsi”. Nei mesi scorsi l’Università di Cagliari ha garantito lezioni e seminari ai detenuti che ne hanno fatto richiesta, grazie all’impegno di decine tra ricercatori e unità di personale tecnico-amministrativo. “Negli anni scorsi gli studi scientifici dello staff della prof.ssa Cabras - ha aggiunto Gianfranco De Gesu, Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia - hanno dimostrato che quando i detenuti delle colonie penali sarde avevano la possibilità di acquisire competenze attraverso lo studio, il tasso di recidiva crollava. L’incontro con il mondo universitario era quindi assolutamente necessario. Il Covid ha poi fatto sì che anche l’amministrazione penitenziaria adottasse collegamenti multimediali che hanno consentito anche in questo periodo la partecipazione dei detenuti ai corsi universitari”. All’incontro è intervenuto anche don Ettore Cannavera, fondatore della Comunità La Collina e per tanti anni cappellano nel carcere minorile di Quartucciu: “Dico sempre che devianti non si nasce, ma si diventa - ha detto - soprattutto quando non si ha avuto la possibilità di crescere culturalmente. Per questo l’impegno dell’Università nelle carceri è fondamentale: la maggior parte dei ragazzi però non ha accesso a questa possibilità, molti perché vivono ancora nell’analfabetismo. È importante che l’università ci aiuti a far crescere i nostri ragazzi nella cultura e nella stima di sé, perché tutti devono avere questa possibilità, anche quelli che sono finiti in carcere”. Varese. Sedata una rivolta in carcere di Marco Croci La Prealpina, 23 gennaio 2021 Momenti di tensione e lancio di oggetti dalle celle, ai Miogni intervengono numerose pattuglie di Polizia di Stato e carabinieri in tenuta antisommossa. Nessun ferito. Due lunghe file di furgoni blu della Polizia penitenziaria, alcuni con i lampeggianti accesi e altri no, fermi sotto la pioggia battente. A bordo, agenti in attesa. La scena che si è presentata nella tarda serata di ieri in via Morandi, davanti al carcere dei Miogni dove nel pomeriggio c’è stata una rivolta dei detenuti, era impressionante. L’immagine rappresenta l’ultimo fotogramma di un pomeriggio complicato. Per cause ancora in fase di accertamento, alcune ore prima è scoppiata una sorta di rivolta all’interno del penitenziario, con il coinvolgimento di numerosi detenuti. In base a quanto emerso finora, in attesa di conferme ufficiali, molti reclusi - il numero preciso è ancora da quantificare - hanno divelto mobili e danneggiato estintori, lanciando oggetti giù dalle celle e fuori dalle finestre. Nel caos che si è innescato sarebbe pure stato manomesso il quadro elettrico, lasciando l’edificio al buio. Sul posto è stato chiesto l’intervento di rinforzi e sono arrivate diverse pattuglie della Polizia di Stato e dei carabinieri: vista la situazione, agenti e militari si sono messi in assetto antisommossa e, tutti insieme, hanno fatto ingresso nell’edificio di via Morandi. Muniti di caschi, scudi e manganelli, poliziotti e carabinieri, insieme agli agenti della Penitenziaria, hanno passato in rassegna i due piani della struttura, sedando la rivolta e riportando nelle celle i detenuti che in quel momento - come previsto dalla normativa per quei settori - potevano stare all’esterno delle stanze. Sul posto sono accorsi anche funzionari della Questura e ufficiali dell’Arma. Alla fine - e non senza fatica - è stata riportata la calma. Pare comunque che nessuno, né tra i detenuti né tra le forze dell’ordine, sia rimasto ferito. Non ci sono stati tentativi di evasione ma in serata alcune decine di detenuti sono state trasferite in altri penitenziari per alleggerire la situazione. Ora le indagini proseguono su due fronti: chiarire con precisione quanti e quali detenuti abbiano partecipato alla rivolta, e capire perché si sia verificata questa situazione. Sempre stando alle prime notizie trapelate, alcuni facinorosi sarebbero già stati individuati. Resta il mistero sulle cause: la scintilla finale - ma pure su questo si attendono conferme - sarebbe stato uno screzio tra un detenuto e un agente della Penitenziaria, innescato al culmine di malumori che si registravano nell’istituto negli ultimi giorni. A Varese sono poi giunti rinforzi della Penitenziaria anche da altre case circondariali del Milanese. I veicoli di servizio sono stati parcheggiati all’esterno dell’istituto, lungo via Morandi, sia in direzione del centro, sia verso via Crispi: almeno una ventina i mezzi arrivati da altre case circondariali. Tra questi, anche un pullman incaricato di raccogliere i detenuti da trasferire in altre carceri. I due piani delle sezioni aperte sono stati alleggeriti: le condizioni in cui sono stati ridotti, non sarebbero in grado al momento di garantire la detenzione di tutte le persone in totale sicurezza. Da qui, lo spostamento e la necessità di rinforzi. E i due serpentoni che con i loro lampeggianti blu hanno illuminato il buio della notte in via Morandi. Recentemente il carcere varesino era stato al centro della cronaca per la morte di un detenuto che aveva fatto puntare l’accento sull’assenza di personale sanitario nelle ore serali e notturne. Torino. “Vengano garantite le ore di colloquio ai detenuti” targatocn.it, 23 gennaio 2021 Parlamentari e consiglieri regionali denunciano la situazione al carcere di Torino: “Facciamo appello al Governo affinché siano garantite le ore di colloquio dei detenuti. Il diritto all’affettività non può essere negato”. “Conosciamo purtroppo le condizioni difficili e le carenze strutturali del nostro sistema detentivo. Oggi il Covid rende la situazione dei carcerati ancora più penosa, perché i colloqui in presenza con i propri cari si sono trasformati in videochiamate. Eppure scopriamo che al Lorusso Cotugno di Torino le sei ore settimanali disposte per legge per ogni detenuto non sono garantite, ledendo duramente il loro diritto all’affettività” - è la denuncia proveniente da alcuni parlamentari, Nicola Fratoianni e Paola Nugnes (Leu), Doriana Sarli, Jessica Costanzo (M5S) e dai consiglieri regionali Marco Grimaldi (Luv) e Francesca Frediani (Movimento 4 Ottobre). È cominciato per queste ragioni lo sciopero della fame di Dana Lauriola e altre due compagne, proprio mentre la Corte d’appello si è pronunciata sugli scontri del 2011 in Val di Susa tra le forze dell’ordine e il movimento No Tav, riducendo drasticamente le pene, ridimensionando in modo sostanziale la gravità del giudizio sulla manifestazione e concentrandosi invece sulle singole condotte degli imputati. Pene dimezzate per gli imputati del processo d’appello bis, quindi, ma non per Dana, condannata invece per un atto dimostrativo avvenuto nel 2012: per lei, incensurata, resta in piedi una condanna a due anni da scontare in carcere, poiché le sono stati negati gli arresti domiciliari. Una pena reputata spropositata anche da Amnesty International. “Dana Lauriola non dovrebbe essere lì, è assurda la pena che sta scontando. Chiediamo che almeno la voce delle detenute sia ascoltata e siano garantiti a chi è privato della libertà quei legami e quegli affetti senza i quali nessuno di noi può vivere” - proseguono parlamentari e consiglieri, e concludono: “La prossima settimana si apre l’anno giudiziario, ci appelliamo al Governo affinché risolva immediatamente questa situazione”. Udine. Covid-19 (e oltre). Qual è la situazione? La panoramica dalla Casa circondariale di Chiara D’Incà triesteallnews.it, 23 gennaio 2021 Era marzo 2020, quasi un anno fa, quando, con l’avanzare del problema epidemiologico, emergevano le prime rivolte dei carcerati contro il sovraffollamento negli istituti penitenziari. Proteste che hanno convolto in particolar modo San Vittore (Milano), ma che sollevano il velo di una ferita di tutta la Penisola, ancora aperta e fresca, che mostra alcune delle fragilità caratterizzanti gli istituti penitenziari italiani. Il Covid non ha fatto altro che esasperare alcune problematiche, soprattutto in materia di presidi, prevenzione e salute psicologica dei detenuti. Si acuisce infatti il peso mentale che, in una situazione già di per sé complessa come la costrizione in un istituto detentivo, viene condito anche dall’emergenza epidemiologica che intercorre. “Noi siamo stati abbastanza attenti fin da subito a definire un protocollo di collaborazione con l’amministrazione penitenziaria” sostiene, nel corso di un’intervista tenutasi sulla Pagina Facebook di Infohandicap, Alberto Fragali, referente del servizio di sanità penitenziaria del distretto sanitario di Udine, sottolineando come “chiunque entra all’interno dell’Istituto viene sottoposto alla misurazione con termoscanner della la temperatura e alla compilazione di un’autocertificazione e, in ogni caso, è stato concordato che verranno effettuati dei test, con cadenza quindicinale del personale, e, per la popolazione detenuta, mensile, essendo una comunità più chiusa”. Un’attività che, ovviamente, non è neonata ma “è partita già da settembre - prosegue Fragali - e, gli unici casi registrati riguardanti quattro agenti penitenziari e una unità del personale amministrativo, sono stati gestiti tranquillamente, perché si sono positivizzati mentre erano fuori servizio, dunque tutto è avvenuto nei rispettivi nuclei familiari. Quando c’è stata necessità, ovvero con il caso di un detenuto posto in isolamento precauzionale e poi risultato positivo, abbiamo proceduto comunque a testare tutta la popolazione del carcere, nonché il personale sia della polizia sia dell’amministrativo. Abbiamo quindi messo in atto un cordone sanitario che finora ha dato i suoi risultati, sperando di mantenerci così ancora a lungo”. Un’intervista, quella di Infohandicap, che ha visto anche la presenza di Natascia Marzinotto, garante dei diritti dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale di Udine, che ha portato una panoramica sulle fragilità sanitarie nel comparto penitenziario e come quest’ultime vengono affrontate. “A livello sanitario non ci sono grossi problemi, vista la rete capillare che si è fortunatamente creata, ma il detenuto, non essendo più impegnato in alcuna attività, interrotte a causa dell’attuale realtà di emergenza, tende ad esasperare qualsiasi tipo di problematica. Un lavoro che convoglia quindi, per forza di cose, in un necessario lavoro psicologico: “Operiamo con un’attenzione costante per tutte le persone presenti all’interno dell’Istituto, tenendo conto che l’età media è piuttosto bassa - dichiara Fragali - ci sono molti giovani nella Casa Circondariale, l’attenzione maggiore va rivolta alla salute mentale, quindi a persone portatrici di problemi psicologici o psichiatrici. Nell’ultimo incontro che abbiamo fatto - prosegue il referente del servizio di sanità penitenziaria - lo psicologo che era in servizio, opererà in un’altra struttura e quindi le ore che avevano a disposizione verranno a mancare. È stata quindi avanzata una richiesta per sapere se saremo in grado di assicurare più ore di supporto e consulenza dal punto di vista psicologico, perché si avverte la necessità in questo periodo di avere qualcuno che sia di riferimento per queste persone”. Della stessa idea anche Natascia Marzinotto che, ha tenuto a sottolineare, come, secondo lei, “La figura dello psicologo sia essenziale, specialmente in questo periodo. Ma ci son due problemi che devo sollevare: il primo è che il monte ore affidato a questa figura non è apportato alle esigenze dei carcerati, ma al numero di detenuti in carcere. Si parla di un complessivo di ore minimo, dalle 56 a 46 ore annuali, con 155 detenuti presenti - rimarca Marzinotto - inoltre gran parte di questo monte ore viene occupato dallo psicologo per le ore delle commissioni di disciplina, perché l’ultima riforma dell’ordinamento penitenziario ha inserito questa figura nella commissione. Quindi, contando che nel carcere di Udine, ogni settimana, un giorno è dedicato alla commissione, è ovvio che il motore dello psicologo viene dedicato alla sezione disciplinare, con un’altra aggravante: quest’ultimo infatti dovrebbe essere una persona che entra quasi in empatia con il detenuto, guadagnando anche una sorta di fiducia, per comprende quali sono le sue problematiche. Il carcerato però si ritrova da un lato lo psicologo che dovrebbe fare terapia ma al contempo lo vede in commissione in veste di giudicante”. Una serie di problematiche che va quindi oltre all’emergenza Covid-19, spostandosi anche verso altri lidi. “Ci sono diversi problemi anche al di fuori della pandemia: non ci sono, ad esempio, spazi ampi per le famiglie con minori, dove non c’è la possibilità di colloqui adeguati. Manca questa sezione, ma non solo: non sono presenti anche zone per attività culturali, ricreative e, soprattutto, lavorative - sottolinea Marzinotto - i detenuti chiedono proprio di essere rieducati e, per ora, svolgono solo lavori ‘domestici’ a turni, che vanno dalle 3 settimane”. Parlando invece dell’aspetto prettamente sanitario, la garante dei diritti pone l’attenzione anche “sull’aspetto di indigenza di molti detenuti: come prima cosa i presidi sanitari dovrebbero esser messi a disposizione, perché in tutte le istituzioni penitenziere manca il rifornimento, mettendo il detenuto nella condizione d’obbligo di acquistare le mascherine. Ma se 80 detenuti su 135 sono stranieri, e credo che una cinquantina di questi sono indigenti assoluti, quindi non possedenti nemmeno un centesimo, non sono nelle condizioni di acquistarsi delle mascherine in autonomia. Quindi questo sbilanciamento non consente di attrarre al meglio le misure di prevenzione necessarie” conclude Marzinotto. Asti. Il Comune e i Garanti dei detenuti bocciano il carcere-bis a Quarto La Stampa, 23 gennaio 2021 L’Amministrazione comunale di Asti ha ribadito il suo no al “raddoppio” del carcere di Quarto. Un progetto di cui il sindaco Maurizio Rasero non era stato informato, venendone a conoscenza per caso, un anno fa, grazie al Dossier sulle criticità delle carceri piemontesi presentato a fine 2019 dal garante regionale dei detenuti, onorevole Bruno Mellano. La contrarietà del Comune non ha però influito sul progetto il cui iter è andato avanti con i primi sopralluoghi. La casa di reclusione di Asti è diventata ad Alta sicurezza (con due piccole sezioni riservate ai detenuti comuni). Ospita in media circa 300 carcerati (capienza regolamentare 214). Il nuovo edificio avrebbe una ulteriore capienza di 120 posti. Il primo problema è rappresentato dalla convivenza che, sebbene da separati in casa, si verrebbe a creare tra detenuti comuni e alta sicurezza. La contrarietà al progetto è stata espressa anche dal garante regionale Mellano, nell’ultimo Dossier 2020. Ieri mattina 22 gennaio in Comune il sindaco Rasero e l’assessore Mariangela Cotto hanno incontrato i vertici dell’Amministrazione penitenziaria: Pierpaolo D’Andria e Catia Taraschi; la garante dei detenuti locale Paola Ferlauto e il regionale Mellano. Ed ecco le ragioni del “no” da parte del Comune. Il sindaco Rasero ha fatto presente che oltre alle criticità dovute alla convivenza tra detenuti comuni e di massima sicurezza, l’ampliamento del carcere rischia di comportare una negativa ricaduta sociale sul territorio astigiano. L’assessore Cotto ha spiegato il rischio che costituirebbe costruire una nuova struttura ad appena un chilometro di distanza dal fiume Tanaro che spesso a causa delle abbondanti precipitazioni è a rischio esondazione. Inoltre ha invitato a riflettere sulle conseguenze della riduzione delle aree verdi utili per contenere eventuali esondazioni. Il dottor D’Andria, preso atto della posizione contraria del Comune, si è impegnato a riferirle all’Amministrazione Penitenziaria I garanti dei detenuti - I garanti Mellano e Ferlauto hanno fatto presente alcuni aspetti anche citati nell’ultimo Dossier. Ad esempio il fatto che per costruire la nuova sede carceraria sia necessario eliminare le aree verdi e il campo sportivo, privando la popolazione carceraria di queste risorse. E anche i problemi rappresentati dal dovere duplicare tutti i servizi e sazi (biblioteca, laboratori, socialità, scuola, infermeria e molti altri) per incompatibilità tra detenuti. Verona. Senzatetto e detenzione: webinar con gli Avvocati di strada di Francesca Saglimbeni L’Arena, 23 gennaio 2021 “Le misure alternative alla detenzione per le persone senza dimora”. Se ne parlerà oggi alle 15.30, in un webinar organizzato dall’associazione Avvocato di strada grazie al finanziamento di Fondazione Cariverona, nell’ambito del progetto “Diritti ai margini”. Un tema molto caldo in questo momento in cui, oltre ai dibattiti storici sulla funzione riparativa/rieducativa della pena e sulla dignità della persona, entrano in gioco le criticità del sovraffollamento delle carceri e dei protocolli anti-contagio. Punto nodale è l’ammonimento del Consiglio d’Europa, che negli ultimi anni ha spinto gli Stati membri ad adottare misure alternative alla detenzione sempre più? efficaci sia in un’ottica rieducativa, che general preventiva. indirizzo che in Italia è stato fortemente ricalcato dalla sentenza Torreggiani, che nel 2013 ha condannato il nostro Paese per i trattamenti inumani e degradanti ricevuti da ben 7 persone ristrette. L’alternativa all’espiazione della pena dietro le sbarre c’è, e va in diverse direzioni, le quali saranno illustrate da Vincenzo Semeraro, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Verona e l’avvocato Simone Giuseppe Bergamini, moderati dall’avvocata Sara Barbesi, penalista del foro di Verona e volontaria di Avvocato di Strada. Il dialogo cercherà di sensibilizzare soprattutto verso una categoria di detenuti, ovvero i senza fissa dimora, per i quali l’accesso al sistema di esecuzione penale esterna non è sempre garantito in egual misura ad altri condannati. Chi non ha casa e vive in una situazione di estrema povertà?, si scontra ancora con tutta una serie di difficoltà acuite da uno sradicamento dal territorio e vari ostacoli sociali. Per partecipare: Prenotazione obbligatoria su ZOOM: https://starthubconsulting.zoom.us/webinar/register/WN_zR3bVZvfSDOadTePonN1jQ Reggio Calabria. Nuovi orari dello sportello legale degli “Avvocati Marianella Garcia” ilreggino.it, 23 gennaio 2021 Si tratta di un servizio di assistenza legale a titolo gratuito per tutti i coloro che non possiedono i requisiti per accedere al patrocinio a spese dello Stato. “Prosegue l’attività di consulenza ed assistenza legale della rete di Avvocati Marianella Garcia. I professionisti, che operano all’interno del centro comunitario Agape, offrono un servizio di volontariato professionale e prezioso - dichiara il Presidente Agape, Mario Nasone - che continua ad essere un punto di riferimento per quanti vivono situazioni di fragilità ed hanno necessità di tutela ed accompagnamento. In un periodo così difficile, anche per le difficoltà delle persone ad accedere ai servizi pubblici e tenuto conto della pandemia incalzante, si deve prendere atto di come si siano acutizzati i problemi delle famiglie e dei singoli e il ricorso a questa forma di aiuto rappresenta un ausilio concreto, professionale e tempestivo, rivolto a quelle categorie di cittadini che in questo momento hanno bisogno di riscontri”. Così come già è avvenuto in passato nei casi di donne vittime di violenze, di cittadini migranti, famiglie in crisi, madri sole, minori, gli Avvocati della “Marianella Garcia” offrono il loro volontario supporto. L’Avvocato Lucia Lipari, responsabile della MG, ha precisato inoltre che: “possono rivolgersi alla nostra rete anche servizi pubblici, associazioni e cooperative che si occupano di fasce deboli e che hanno esigenza di potere fruire di consulenza e di una tutela legale per le persone di cui si prendono carico. La lotta alla povertà può fare un salto di qualità solo ripensando ad un sistema di welfare capace di implementare le risorse, rendere più efficaci e mirati gli interventi e spingendo cittadini e professionisti a fare di più per la collettività”. Il servizio di consulenza e di assistenza legale può essere richiesto nelle giornate di lunedi e mercoledì dalle ore 15.00 alle 18.00, telefonando allo 0965/894706. Per le richieste che avranno bisogno di un colloquio in presenza sarà fissato un appuntamento, nel rispetto delle disposizioni di sicurezza vigenti, presso il Centro Comunitario Agape, in via P. Pellicano n. 21/h. L’Ufficio Legale della Marianella Garcia garantisce così un servizio di assistenza legale a titolo gratuito per tutti i coloro che non possiedono i requisiti per accedere al patrocinio a spese dello Stato, presta ascolto, informa sui benefici di legge, assiste legalmente le fasce deboli ed orienta chi manifesta una richiesta d’aiuto. Corrobora anche lo Sportello Minori e Diritti in collaborazione con il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, insieme ad altri partner quali Agape, Save The Children, Unicef e la Camera Minorile di Reggio Calabria; cura la formazione professionale e specialistica, svolge attività a tutela dell’etica nelle professioni e attività di promozione della cultura dei diritti. Opera in sinergia con altre realtà associative, enti ed organismi a livello regionale e nazionale, nonché con Istituzioni Pubbliche. Torino. Una detenuta ci scrive: grazie alla “Voce” e all’Arcivescovo di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 23 gennaio 2021 Mons. Cesare Nosiglia, tramite la nostra rubrica “La Voce dentro” del numero del 20 dicembre scorso, poiché causa l’emergenza Covid non ha potuto celebrare la consueta Messa di Natale nel carcere torinese “Lorusso e Cutugno”, ha scritto una lettera di auguri per i ristretti adulti e per i giovani reclusi nel carcere minorile “Ferrante Aporti”. Una detenuta ci ha inviato una lettera (che pubblichiamo) per ringraziare l’Arcivescovo, il nostro giornale e i lettori che hanno accolto l’appello di regalare un abbonamento ai carcerati. Gentile Direttore, con questa lettera vorrei ringraziare la redazione e tutti coloro che si ricordano di noi detenuti come persone e pensano a noi con umanità. Ho letto la lettera che mons. Cesare Nosiglia, tramite il suo giornale, ha voluto inviarci e le chiedo di portagli i miei ringraziamenti per le parole di speranza chi ci ha donato. Ci è mancata la Messa di Natale presieduta dall’Arcivescovo che mi ha cresimata qui in carcere nel 2017, ci sono mancati i volontari e anche la presenza della vostra giornalista che ci segue per il suo giornale che leggiamo grazie alla generosità di tanti suoi abbonati. Mi spiace che stia per finire il suo “mandato”, anche perché mons. Nosiglia è un uomo vicino alla gente comune e che non ha paura di esporsi anche redarguendo i “detentori del potere”. Questo per me è importantissimo perché ci fa sentire meno soli, dà forza a quei lavoratori che stanno perdendo il lavoro, agli ultimi lasciati al freddo, agli anziani soli dona quell’affetto di cui una società troppo egoista spesso ne dimentica l’esistenza. Qui in carcere il 2020 è stato un anno devastante, in un luogo già chiuso e stringente per il corpo e l’anima, il tempo è diventato ancora più lungo e pesante. Solo grazie ai cappellani durante il primo lockdown siamo riusciti a tenere viva la speranza e abbiamo deciso di evitare sterili rivolte o piagnistei. Come detenuti abbiamo scelto di rispettarci come persone e di divulgare il nostro appello, pubblicato sui alcuni giornali a fi ne dicembre, per chiedere un gesto di clemenza e in questo periodo di Pandemia misure meno affl ittive estese a tutta la popolazione detenuta. Per quanto mi riguarda, ho molta paura a tornare fuori nelle “vie del male” e sto facendo del mio meglio per tornare ad essere una donna che si vuol bene e non si spreca. Purtroppo il carcere è un ambiente duro e mi pesa molto stare lontana dai miei affetti e con persone “estranee”, anche se la solidarietà e l’impegno tra alcune di noi non manca e ci unisce. Ma non siamo tutti uguali anche se, almeno tra “gli ultimi”, bisognerebbe essere coesi e non farsi i dispetti. Purtroppo il futuro è carico più di incertezze che di buon auspici specie per chi come me teme l’esclusione completa da un possibile reinserimento una volta scontata la mia pena. “Fuori” c’è una crisi spaventosa, qui i progetti di reinserimento al lavoro per le donne scarseggiano e mi chiedo ogni giorno con angoscia se ce la farò. Ma non mi faccio “uccidere” dal vittimismo, lo combatto: con il lavoro di addetta alle pulizie, con lo studio universitario anche se con difficoltà perché la sezione del Polo universitario interna è per ora riservata ai detenuti maschi; e poi ho svolto volontariato presso l’Icam, la sezione speciale dove sono ristrette le mamme con bambini sotto i 6 anni: tutto ciò mi riempie le giornate e il cuore perché mi sento una persona migliore servendo il prossimo. Ricordo gli insegnamenti dei salesiani quando andavo l’oratorio Agnelli e la scuola salesiana che frequentavo. Rivolgere la mia preghiera a Dio mi aiuta, mi rafforza e non mi fa sentire sola. E non è una vergogna per me essermi allontanata da certi “codici” della strada: temo solo che senza un progetto per il mio futuro e senza un lavoro la solitudine mi ci riporti dentro. Fuori avevo scelto la deviazione, qui mi sto impegnando come non mai a crearmi un futuro e non sbagliare ancora. Poiché non ho una casa e un lavoro fuori, prego e aspetto con ansia che gli educatori mi diano una mano a trovare un lavoretto esterno come prevede l’art.21 per poter proseguire il percorso verso la libertà e una nuova vita. Grazie per l’attenzione che ci riservate, grazie all’Arcivescovo. Lettera firmata Tik Tok bloccato in Italia per la morte della bimba: “Nessun controllo sull’età” di Claudia Guasco Il Mattino, 23 gennaio 2021 Aveva dieci anni, tre profili Facebook e almeno due su TikTok. È morta strangolandosi in bagno con la cintura dell’accappatoio, voleva filmarsi nella spaventosa sfida Black out challenge. Gli investigatori stanno cercando di capire se sia stata la bambina a creare le identità virtuali o un adulto abbia provveduto per lei. Ma nel frattempo il Garante per la protezione dei dati personali “ha disposto nei confronti di TikTok il blocco immediato dell’uso dei dati degli utenti per i quali non sia stata accertata con sicurezza l’età anagrafica”. Un provvedimento che lancia un segnale forte a tutti i social e crea un importante precedente: chi non si adegua, sarà sottoposto alla medesima disposizione. L’authority “ha deciso di intervenire in via d’urgenza a seguito della terribile vicenda della bambina di dieci anni di Palermo”, spiega in una nota. Ma già lo scorso dicembre “il garante aveva contestato a TikTok una serie di violazioni: scarsa attenzione alla tutela dei minori; facilità con la quale è aggirabile il divieto, previsto dalla stessa piattaforma, di iscriversi per i minori sotto i 13 anni; poca trasparenza e chiarezza nelle informazioni rese agli utenti; uso di impostazioni predefinite non rispettose della privacy”. In attesa di ricevere il riscontro richiesto con l’atto di contestazione, l’autorità ha deciso comunque di intervenire “al fine di assicurare immediata tutela ai minori iscritti al social network presenti in Italia”. Ha quindi vietato a TikTok l’ulteriore trattamento dei dati degli utenti “per i quali non vi sia assoluta certezza dell’età e, conseguentemente, del rispetto delle disposizioni collegate al requisito anagrafico”. Il divieto “durerà per il momento fino al 15 febbraio, data entro la quale il Garante si è riservato ulteriori valutazioni. Il provvedimento di blocco verrà portato all’attenzione dell’Autorità irlandese, considerato che recentemente TikTok ha comunicato di avere fissato il proprio stabilimento principale in Irlanda”. Il mondo dei social è avvisato. Tutte le piattaforme principali, da Facebook a Instagram, da Twitter a YouTube, fissano a tredici anni l’età minima per l’iscrizione, chi non vigila incorrerà nell’azione del Garante che impone il blocco dell’utilizzo dei dati personali dell’utente di cui non è in grado di dimostrare il requisito anagrafico. Un intervento per effetto del quale il minore potrà essere semplice fruitore della piattaforma ma non caricare contenuti, se tenta di farlo viene estromesso dall’account. Ieri uno striscione è stato appeso al balcone della scuola nel centro storico di Palermo frequentata dalla bambina: “Ciao, per anni ti abbiamo tenuto per mano, ora ti terremo nel cuore”. I suoi organi salveranno la vita a quattro piccoli. “Abbiamo scelto di dire si alla donazione perché nostra figlia avrebbe detto si, fatelo. Era una bambina generosa. E visto che non possiamo averla più con noi, abbiamo ritenuto giusto aiutare altre persone”, dicono sconvolti i genitori. Subito dopo aver saputo dai medici che non c’era più nulla da fare e che era stata dichiarata la morte cerebrale della figlia, la coppia ha acconsentito all’espianto degli organi. Il prelievo è stato eseguito all’ospedale dei Bambini: il fegato, che è stato diviso a metà e destinato a due piccoli pazienti, i reni e il pancreas. “Un esempio della grande generosità e solidarietà di due splendidi genitori”, riflette il coordinatore del Centro regionale trapianti, Giorgio Battaglia. Intanto la procura di Palermo e la Procura dei minori, che indagano per istigazione al suicidio a carico di ignoti, hanno disposto l’autopsia. La bambina aveva diversi profili su Facebook e TickTok e con il telefonino, che è stato sequestrato e dal quale gli inquirenti contano di acquisire elementi importanti per comprendere cosa sia accaduto, potrebbe essere stato registrato il video degli ultimi istanti di vita della bambina che sarebbe poi dovuto finire sul social cinese come prova della partecipazione alla sfida. Ucraina. Cedu, la repressione di Maidan a Kiev condannata per trattamenti inumani di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2021 Polizia e paramilitari hanno adottato torture e ingiustificate detenzioni come metodo di contenimento delle proteste. Numerose le violazioni dei diritti umani durante le proteste di Maidan in Ucraina. Così la Corte europea dei diritti dell’uomo con diverse sentenze (ricorsi nn. 15367/14, 12482/14, 39800/14, 42753/14, 43860/14, 21429/14 e 58925/14) ha stigmatizzato come torture e attentati alla sicurezza e alla libertà personale le azioni di repressione della protesta operate dalle forze dell’ordine e da corpi paramilitari. I giudici della Corte europea, all’unanimità, hanno affermato l’avvenuta violazione di diversi diritti umani tutelati dalla convenzione Cedu: articolo 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti); articolo 5, paragrafi 1 e 3 (diritto alla libertà e alla sicurezza); articolo 11 (libertà di riunione e associazione); articolo 2 (diritto alla vita); articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare). I fatti sono quelli noti per la cronaca come le proteste di Maidan, dal nome della piazza principale di Kiev, e quelli delle manifestazioni tenutesi in altre città dell’Ucraina. E sotto la lente della Corte Cedu sono finite le attività di contrasto a tali proteste, ma soprattutto le modalità con cui sono state realizzate: dalla dispersione dei manifestanti alla loro detenzione, dal rapimento di attivisti ai maltrattamenti loro inflitti. Tutti i ricorrenti davanti alla giustizia europea, erano stati coinvolti negli scontri con la polizia o con gli agenti non statali, accusati gli uni e gli altri di avere impiegato modi brutali verso i manifestanti, a cui sarebbe stato negato il diritto a manifestare, anche con detenzioni ingiustificate e, in un caso, con l’omicidio. Per la Corte è stata raggiunta la prova che la repressione sia stata deliberatamente condotta con violenza e maltrattamenti. Da cui la responsabilità dello Stato, che si sarebbe affidato proprio a tali mezzi illegali e contrari al rispetto dei diritti umani, al fine di far rientrare le proteste. Quindi una vera e propria strategia di umiliazioni e violenze tali da fiaccare i manifestanti. La protesta prende l’avvio nel 2013 quando lo Stato ucraino pone nel nulla l’accordo di associazione con l’Unione europea e culminerà nei moti “rivoluzionari” del 2014. Russia. Salviamo Anastasia! L’Italia vuole consegnarla a Putin di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 gennaio 2021 La donna, sposata con un italiano, vive con la figlia minore nel nostro Paese dal 2018. Rischia 10 anni per dei biglietti di viaggio, quasi tutti rimborsati. Senza battere ciglio, il governo italiano ha concesso l’estradizione richiesta dalle autorità russe nei confronti di una donna, madre di una bambina di sette anni, e questo nonostante che sia stata minacciata da un importante politico aderente al partito di Putin con queste testuali parole: “Utilizzeremo tutte le nostre risorse e le nostre partnership amichevoli sul territorio italiano!”. Non solo. L’Italia - nonostante una importante patologia della donna - non ha chiesto nemmeno riassicurazioni sul luogo di detenzione dove verrà tradotta, sulle condizioni del sovraffollamento e sulle condizioni igieniche anche in relazione al Covid 19. Come se non bastasse, per il nostro governo, non è rilevante il fatto che ad effettuare le indagini e ad inquisire la donna, sia un procuratore russo che sarebbe stato truffato dalla agenzia di viaggi gestita dalla donna. Il condizionale è d’obbligo, visto che in seguito quasi tutti i clienti sono stati rimborsati. Anastasia Chekaeva sottoposta a procedimento penale per una presunta truffa - Per questa vicenda lei rischia 10 anni di carcere. Ora la donna è stata tradotta nel carcere di Sassari, e da un momento all’altro arriveranno le autorità Russe per prelevarla e rinchiuderla, in via preventiva, in un luogo detentivo che potrebbe anche costarle la vita. Una storia davvero drammatica e seguita dall’avvocata Pina Di Credico Del foro di Reggio Emilia e dall’avvocato Fabio Varone del foro di Nuoro. Parliamo di Anastasia Chekaeva, cittadina della federazione Russa, sottoposta nel suo Paese a procedimento penale per presunti fatti di truffa perché - addetta a una agenzia di viaggi presso il centro commerciale “Galleria Chizhov” nella città di Voronezh -, si sarebbe appropriata di somme pagate dai clienti per l’acquisto di viaggi organizzati poi non forniti. Parliamo di un importo complessivo inferiore a 20.000 euro. In seguito rimborserà quasi tutti. Tranne chi? Il procuratore russo che ha deciso di inquisire lei e il marito di cittadinanza italiana, titolare dell’agenzia.Ma si aggiunge un altro problema. Contro di lei si sono accaniti due uomini del partito di Putin - Il legale rappresentate della “Galleria Chizhov” è Klimentov Andry Vladimirovich, vice Presidente della Commissione per il Lavoro e la Protezione Sociale della popolazione. Ma il pezzo grosso è il fondatore della Galleria: Chizhov Sergey Viktorovich, dal 2007 deputato della Duma di Stato della Russia. Entrambi sono noti e discussi esponenti politici del partito “Russia Unita”, il cui leader è Vladimir Putin. Sono loro che si sono ferocemente accaniti per vendicarsi della “cattiva pubblicità” causata dal processo contro l’agenzia che ospitano nella loro galleria. Una rabbia dovuta anche alle relative strumentalizzazioni politiche da parte degli oppositori. Non a caso, Klimentov, ha scritto un messaggio nei confronti dell’italiano F. Crespi, titolare dell’agenzia di viaggi e marito della Chekaeva, con parole di questo tenore: “Le conseguenze saranno molto brutte!”. Com’è detto, i clienti dell’agenzia di viaggio sono stati quasi tutti risarciti. Tra quelli che ancora dovevano essere rimborsati c’è il procuratore nel distretto di Leninsky presso la città di Voronezh, e si tratta della stessa Procura che ha aperto il procedimento e svolto le indagini. Sulla base di tali accuse, l’Autorità giudiziaria russa ha avviato un procedimento penale nei confronti della Chekaeva, ma - come risulta dagli atti del processo - l’ha tenuta sempre all’oscuro, al fine di precostituirsi il titolo per poter emettere a suo carico un provvedimento di carcerazione preventiva e domandare la successiva estradizione all’Italia. Il marito è italiano e per lui l’estradizione non poteva essere chiesta. Ecco perché il procuratore ha preferito accusare solo la donna, tra l’altro semplice dipendente dell’agenzia. “A dimostrazione che la Chekaeva non si sia allontanata dal territorio della Federazione russa per sottrarsi al procedimento - spiegano a Il Dubbio gli avvocati Pina Di Credico e Fabio Varone -, è provato dal fatto che è da tempo titolare di carta d’identità italiana e di regolare permesso di soggiorno, vive stabilmente in territorio italiano con la figlia minore, cittadina italiana di sette anni, entrambe domiciliate in Italia dal 4 gennaio 2018 e residenti in un piccolo comune in provincia di Sassari”. In Italia rigettati i ricorsi e le istanze della difesa - L’autorità giudiziaria italiana, sia nella fase giurisdizionale (Corte d’appello e Corte di Cassazione) che precede la decisione di consegna del ministro, sia nella fase amministrativa (Tar e Consiglio di Stato) successiva alla decisione, ha rigettato i ricorsi e le istanze della difesa (comunicati al ministero), nonostante la insussistenza oggettiva delle condizioni legittimanti l’estradizione. “È stato violato - denunciano gli avvocati della Chekaeva - sia il diritto al giusto processo, sancito dall’articolo 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ratificata dall’Italia e dalla Russia, sia il diritto a non subire trattamenti crudeli, disumani o degradanti, stabilito dall’articolo 3 della stessa Convenzione, tenuto conto della situazione di sovraffollamento e delle gravissime condizioni igienico-sanitarie della popolazione carceraria della Federazione Russa, in particolare dei centri di detenzione preventiva (Sizos), come risulta dalla copiosa documentazione prodotta nei vari giudizi”. Una situazione ulteriormente aggravata dalla emergenza sanitaria dovuta alla diffusione dei contagi da Covid-19 proprio nelle carceri russe, circostanza anch’essa documentata anche in relazione alle particolari condizioni di salute della Chekaeva. I legali, inoltre, sottolineano che risulta anche violato il diritto della figlia minore, cittadina italiana, a conservare il rapporto con la madre, in violazione della Convezione europea sull’esercizio dei diritti dei minori (ratificata dall’Italia e non ancora dalla Federazione Russa, nonostante la sua sottoscrizione), considerato che la vita della bambina è radicata in Italia, ove risiede da tre anni, né potrebbe trasferirsi in territorio russo, dove ovviamente la Chekaeva non potrebbe assisterla. Inoltre, il 28 ottobre 2020, è stata inoltrata al ministero sia una istanza di riesame della decisione di consegna per la violazione dell’art. 14 della Convenzione europea di estradizione - ratificata dall’Italia e dalla Federazione Russa - poiché l’Autorità giudiziaria russa, nell’ambito dello stesso procedimento penale per il quale aveva richiesto l’estradizione, ha posto sotto processo la Chekaeva per reati di truffa diversi rispetto a quelli oggetto della domanda estradizionale. “Su tale istanza di riesame il ministero - denunciano sempre gli avvocati Di Credico e Fabio Varone - non ha mai comunicato alcuna decisione”. Ieri la Corte d’appello di Sassari ha sottoposto la Chekaeva alla custodia cautelare in carcere - Nonostante ciò, il governo ha dato corso all’esecuzione della estradizione, poiché la Corte d’appello di Sassari, in data 22 gennaio 2021, su sollecitazione del governo stesso, ha sottoposto la Chekaeva alla misura della custodia cautelare in carcere al fine della sua consegna alla Federazione Russa e alle autorità di Putin. “Il tutto - denunciano con forza i legali della donna - sta avvenendo in piena pandemia mondiale per la diffusione del virus Covid-19 che avrebbe dovuto indurre il nostro ministero quantomeno a sospendere la consegna in attesa del miglioramento delle condizioni sanitarie”. Ma da un momento all’altro potrebbero arrivare le autorità russe per portarla in un Paese dove lo stato di diritto è quasi del tutto inesistente. Nel frattempo gli avvocati Pina Di Credico e Fabio Varone faranno ricorso alla Cedu. Ma non c’è tempo, il nostro governo dovrebbe come minimo sospendere l’estradizione. Inoltre c’è una bambina che potrebbe rimanere da sola. Il padre è costretto a lavorare in Svizzera per poter sfamare la famiglia. La madre invece, rischia di essere rinchiusa per 10 anni. Il tutto per dei biglietti di viaggio, tra l’altro quasi tutti imborsati. Arabia Saudita. La tregua saudita: nel 2020 “solo” 27 teste mozzate di Sergio D’Elia Il Riformista, 23 gennaio 2021 Nel 2020 è successo un miracolo nella terra di Allah. Dopo essere stato per anni uno dei carnefici più prolifici al mondo, l’Arabia Saudita si è concessa una tregua. Ha tagliato meno teste: “solo” 27. Di solito l’esecuzione avviene nella città dove è stato commesso il crimine, in un luogo aperto al pubblico vicino alla moschea più grande. Il condannato è portato sul posto con le mani legate e costretto a chinarsi davanti al boia, il quale sguaina una lunga spada tra le grida della folla che urla “Allahu Akbar!” (Dio è grande). A volte, quando il reato commesso è considerato particolarmente brutale, alla decapitazione segue anche l’esposizione in pubblico dei corpi dei giustiziati. È il boia stesso a fissare la testa mozzata al corpo per poi farlo pendere per circa due ore dalla finestra o dal balcone di una moschea o fissarlo a un palo, durante la preghiera di mezzogiorno. Talvolta i pali formano una croce, da cui l’uso del termine “crocifissione”. Benvenuti in Arabia Saudita, dove regna la legge islamica dura e pura. L’unico paese al mondo a mozzare la testa come metodo per eseguire sentenze capitali in base alla Sharia. L’antico principio del Codice di Hammurabi, la legge del taglione, detta anche pena del taglio, nel Regno di Saud ha trovato la sua applicazione letterale. Negli ultimi anni, l’Arabia Saudita, insieme a Cina e Iran, aveva sempre conquistato il terribile podio dei primi tre Paesi-boia del pianeta, piazzandosi sul gradino più basso, il terzo, ma pur sempre un posto non invidiabile per chi ha a cuore i diritti umani e ritiene intollerabile che nel terzo millennio vi siano ancora Paesi che per fare giustizia lapidano, decapitano, impiccano, fucilano o avvelenano esseri umani. Nel 2020 è successo un miracolo nella terra di Allah. Dopo essere stato per anni uno dei carnefici più prolifici al mondo, il boia con la spada si è concesso una tregua. Ha tagliato meno teste: “solo” 27, un numero drasticamente ridotto dopo il “lavoro straordinario” compiuto nel 2019 e nel 2018 con, rispettivamente, 184 e 144 teste mozzate. Mentre l’omicidio, secondo l’interpretazione saudita della Sharia, è compreso tra i reati “hudud” per i quali il Corano prevede esplicitamente una pena inderogabile, la decapitazione, i reati legati alla droga sono considerati “ta’zir”: il crimine e la punizione non sono definiti nell’Islam, sono a discrezione del giudice. Ciò nonostante, l’ideologia proibizionista ha sempre dato un contributo consistente alla pena del taglio in Arabia Saudita. Nel nome della guerra alla droga, negli ultimi anni sono state effettuate decine e decine di esecuzioni. Sentenze discrezionali per reati “ta’zir” hanno portato a condanne a morte irragionevoli. Molti di coloro che sono stati giustiziati per droga erano spesso trafficanti di basso livello provenienti quasi tutti dai Paesi poveri del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia. Avevano poca o nessuna conoscenza dell’arabo e non erano in grado di comprendere o leggere le accuse contro di loro in tribunale. Spesso non sapevano di essere stati condannati a morte e, in molti casi, neanche che il loro processo si era concluso. Alcun di loro hanno potuto capire ciò che gli stava accadendo solo all’ultimo momento, quando le guardie hanno fatto irruzione nella cella, hanno chiamato la persona per nome e l’hanno trascinata fuori con la forza per portarla sul luogo dell’esecuzione. Nel 2020, invece, le decapitazioni per droga sono state “solo” 5, avvenute tutte a gennaio, prima dell’entrata in vigore di una nuova legge, emanata per decreto reale come di solito accade, che ordina l’interruzione di tali esecuzioni. L’anno scorso il Regno saudita ha anche abolito la pena di morte per crimini commessi da minori e ha ordinato ai giudici di porre fine alla pratica della fustigazione pubblica, sostituendola con il carcere, multe o servizi di pubblica utilità. Dietro questi cambiamenti, v’è sicuramente il principe ereditario Mohammed bin Salman che, nel suo tentativo di modernizzare il Paese, attrarre investimenti stranieri e rinnovare l’economia, ha guidato una serie di riforme che riducono il potere dei wahhabiti ultraconservatori, fautori di una rigida interpretazione dell’Islam. “La moratoria sui reati legati alla droga significa che il Regno sta dando una seconda possibilità ai criminali non violenti”, ha detto la Commissione saudita per i diritti umani, per la quale il cambiamento rappresenta un segno che il sistema giudiziario saudita si sta concentrando sulla riabilitazione e sulla prevenzione piuttosto che esclusivamente sulla punizione. Secondo Human Rights Watch, la diminuzione delle esecuzioni è un segno positivo, ma le autorità saudite devono anche fare i conti con un “sistema di giustizia penale orribilmente ingiusto”. Mentre le autorità annunciano le riforme, i pubblici ministeri sauditi chiedono ancora la pena di morte nei confronti di oppositori politici per nient’altro che le loro idee pacifiche, i giudici continuano a condannarli a morte e l’uomo con la spada li attende davanti alla moschea più grande per staccargli la testa tra le grida della folla che urla “Allahu Akbar!”. Etiopia, la fuga degli invisibili: sangue e fame nel caos genocida di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 23 gennaio 2021 La regione settentrionale del Tigray è devastata dagli scontri: una enorme massa di persone tenta di raggiungere il Sudan. Il presidente Ahmed Abiy, Nobel per la pace nel 2019, nega e ha chiuso l’area. Ma che cosa c’è alle radici del conflitto? No ai giornalisti, chiuse le strade, tagliati i collegamenti aerei e qualsiasi tipo di comunicazione telefonica o Internet. In sostanza: censura totale, o meglio, boicottaggio dell’informazione indipendente. A detta del premier etiope, Ahmed Abiy, premio Nobel per la pace nel 2019, le notizie su cosa stia accadendo dall’inizio della guerra il 4 novembre nella provincia settentrionale del Tigray dovrebbero arrivare esclusivamente da lui o dagli scarni bollettini dei suoi portavoce militari. Nonostante i profughi scappati in Sudan negli ultimi due mesi siano ormai oltre 60.000 e portino con loro racconti di massacri e orrore generalizzati. Secondo l’Onu arriveranno presto a oltre 100.000. Gli sfollati interni al Tigray superano i 220.000. Si parla di oltre 2,5 milioni di persone investite dalla crisi. Un numero enorme, tenendo conto che i tigrini non arrivano ai 6 milioni in tutto. Sono cifre approssimative, probabilmente per difetto. L’Onu e le agenzie umanitarie internazionali non hanno libero accesso. I rari reporter che hanno violato la censura sono stati messi a tacere. Un paio di inviati della Reuters (meno facilmente sopprimibili grazie al loro impiego con un’agenzia internazionale) sono comunque finiti in carcere perché erano riusciti in modo rocambolesco a contattare alcuni medici di Macallè, il capoluogo della regione contesa, che parlavano di “scontri continui”, “ospedali in ginocchio incapaci di curare le vittime civili”, disordini attorno alla città e addirittura “genocidi etnici”. Risultato: secondo Abiy dovremmo accontentarci delle sue dichiarazioni di “vittoria”, come quella del 28 novembre, quando annunciò gongolante che le sue truppe erano entrate nella roccaforte tigrina “senza attaccare i civili, con pochissimi danni” e soprattutto che la zona stava “tornando alla normalità”. I suoi generali hanno poi continuato a parlare di “cattura sistematica” o “eliminazione” dei dirigenti del Fronte popolare per la liberazione del Tigray (meglio noto con l’acronimo inglese di Tplf). Insomma: un successo pieno, capace di garantire finalmente l’unità e la pacificazione del Paese contro i “terroristi aiutati dall’estero” e la guerriglia tribale. Tanto lascia intravvedere una realtà assolutamente diversa. A partire da un comunicato diffuso dallo stesso governo di Addis Abeba a metà dicembre, che offriva una cifra pari a circa 220.000 euro a chiunque fornisse indicazioni che potessero aiutare a catturare i capi del Tplf. Un’evidente contraddizione, dopo aver sbandierato di essere riusciti a sconfiggerli. È la prova evidente che la guerriglia continua, specie sulle montagne e nelle zone rurali, come del resto avevano previsto sin da subito diversi osservatori ed esperti internazionali del Corno d’Africa. Sebbene la popolazione del Tigray non conti più del 6 per cento dei circa 110 milioni di etiopi, le sue milizie rappresentano ormai da decenni la forza militare singolarmente più importante del Paese. Batterla non sarà affatto semplice per l’esercito federale e comunque necessiterà parecchio tempo. Ma, al momento, a smentire Abiy sono soprattutto le testimonianze dei civili del Tigray in fuga verso i campi dall’Unhcr (l’organizzazione Onu per i profughi) in Sudan. “Non tornerò a casa mia. Prima occorre che Abiy venga scacciato. I suoi soldati ci uccidono, ci perseguitano. Al momento dell’aggressione dell’esercito ero con mio figlio Sami di 11 anni. Il resto della famiglia è stato massacrato. Gli hanno sparato due proiettili a bruciapelo. Era coperto di sangue, ma respirava ancora. Volevo portarlo da un medico. I soldati hanno detto che doveva morire, lo hanno lasciato a terra e sono stato costretto ad andarmene”, racconta tra i tanti Fish Gibreselaissie, un meccanico originario della cittadina di Adebay, che, dopo settimane di cammino, nutrendosi di bacche, dormendo al freddo, sfuggendo a milizie e gruppi di banditi, è riuscito a raggiungere il campo profughi di Um Rakouba. La sua voce è rilanciata sui comunicati ufficiali dell’Unhcr. In Sudan arrivano in prevalenza i giovani più forti. I deboli muoiono per la strada. L’età del 30 per cento dei profughi è meno di 18 anni. Gli ultrasessantenni sono meno del 5%. Tanti denunciano la “pulizia etnica”, con toni che ricordano da vicino i crimini nella ex Jugoslavia. Non a caso si parla adesso di “balcanizzazione” del conflitto, che rischia di destabilizzare gravemente i già precari equilibri del Corno d’Africa. Questa guerra s’innesta su tensioni precedenti, che come magma sotto la superficie possono riesplodere da un momento all’altro a complicare il quadro. Lo prova la testimonianza di Teum Haile Selassie raccolta nel campo di Hamdayet, ancora in Sudan. Questi è un medico con vent’anni di professione che in ottobre aveva lasciato Addis Abeba per aprire una clinica privata a Mai-Kadra, non distante da Macallè. “Sono fuggito senza portare via nulla. Ho visto che i tigrini assassinavano le altre etnie. E sulla strada i militari eritrei uccidevano i profughi eritrei”, dice. Sono parole che aiutano a ricostruire la storia complessa di questa crisi e provano il pieno coinvolgimento del dittatore eritreo Isaias Afwerki. Le forze del Tigray sono state infatti centrali nella sconfitta del regime marxista di Mengistu Haile Mariam nel 1991. Da allora hanno dominato l’Etiopia e condotto una guerra di logoramento con l’Asmara. La nomina nel 2018 di Abyi ha innescato un cambiamento epocale. Questi proviene dalla maggioranza Oromo, la più importante tra l’ottantina di etnie etiopi, e sin dall’inizio ha puntato a ricomporre l’unità nazionale marginalizzando il Tigray e concludendo la pace con l’Eritrea. Oggi la situazione si è dunque capovolta: Addis Abeba e Asmara cooperano per battere il Tplf e oltretutto Afweki ne approfitta per inviare le sue truppe per perseguitare i circa 90.000 oppositori eritrei fuggiti nel Tigray. Ai massacri inter-etiopi si aggiungono così quelli tra eritrei. La promessa della “guerra breve” non sarà mantenuta.