Vaccinazione Covid, Arcuri: dopo gli over 80 toccherà ai detenuti di Nicola Palma Il Giorno, 22 gennaio 2021 È sempre più critico contro le multinazionali dei farmaci il commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, Domenico Arcuri, nel fare il punto settimanale sulle attività di contenimento e contrasto all’epidemia. Il nodo resta quello della franata sulle forniture: “Se la vaccinazione fosse continuata ai ritmi con i quali era iniziata, la profilassi degli over 80 sarebbe già iniziata dappertutto. Purtroppo, e questo non era possibile prevederlo, ci siamo trovati di fronte ad una minore disponibilità di dosi e questo ha prodotto dei rallentamenti su chi non aveva ancora iniziato”. Di qui la tesi: “L’Italia ha dimostrato di essere capace di vaccinare in tempi assolutamente soddisfacenti e quindi non ho dubbi che qualora i nostri territori avranno le dosi di vaccino che ci aspettiamo questo possa continuare”. Ulteriori speranze arrivano dalle case produttrici che non hanno vinto la prima fase della corsa al vaccino. “Prevediamo una consegna di 8 milioni di dosi Astrazeneca nel primo trimestre di quest’anno. Ci dicono che l’azienda ha già iniziato a infialare”. Grandi speranze, e un mutamento copernicano di prospettive, potrebbero arrivare anche dal prodotto Made in Italy: “Sarà molto importante se con Reithera l’Italia avrà un vaccino domestico, e se ce l’avrà presto. Faccio ogni cosa affinché questo possa accadere”. Quanto alle priorità tra i soggetti da sottoporre alla campagna “in questo momento - ha detto - è previsto che detenuti e personale carcerario possano completare la vaccinazione in un momento successivo a chi ha più di 80 anni”. La polemica legata ai ritardi nelle consegne è stata però stemperata di lì a poco: “Il ritardo e la riduzione delle dosi alla fine della prossima settimana sarà omogenea in tutti i Paesi europei e quindi non è un problema che riguarda soltanto l’Italia. Le minori dosi che arrivano significano minori persone vaccinate. La riduzione è omogenea, gli effetti nefasti non sono omogenei a causa dell’andamento della vaccinazione. Di qui l’importanza del vaccino domestico. Infine, una nota di ottimismo: “Da qualche giorno la pressione sugli ospedali inizia lievemente ad alleggerirsi”. Coronavirus, un piano urgente contro i focolai in carcere di Paolo Andruccioli collettiva.it, 22 gennaio 2021 I primi provvedimenti alla prova dell’emergenza carceri. Entro oggi tutti gli operatori penitenziari dovranno rispondere ad un sondaggio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sulla scelta di vaccinarsi volontariamente. Qualcosa si muove, ma bisogna fare presto. L’allarme riguarda possibili focolai da Covid-19 nelle carceri, dove le condizioni dei detenuti e degli operatori sono diventate di nuovo precarie a causa soprattutto del sovraffollamento, che non si è ridotto neppure con la diminuzione dei reati e quindi degli arresti. Nei giorni scorsi sono circolati vari appelli al governo per avviare da subito un percorso di vaccinazione in tutti gli istituti penitenziari. Lo hanno detto con forza la senatrice Liliana Segre e il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. Lo hanno scritto osservatori e operatori del settore. Gli appelli sono stati rilanciati da Patrizio Gonnella, presidente di Antigone sulle colonne del manifesto. Dal governo - anche considerando le tensioni politiche che ha vissuto negli ultimi giorni - non sono arrivate risposte ufficiali, ma l’amministrazione penitenziaria ha cominciato a rispondere alle sollecitazioni dei sindacati degli operatori delle carceri. “Mentre tornano alla ribalta della cronaca i tragici eventi che si sono verificati in carcere durante la prima ondata di contagi da Covid-19, sui quali sono in corso indagini che sapranno chiarire cosa è realmente accaduto - si legge in un comunicato della Funzione pubblica Cgil - nessuno si preoccupa di tutelare la salute di lavoratori e detenuti avviando una massiccia campagna di vaccinazioni in tutto il settore dell’esecuzione penale”. I dati forniti dalle amministrazioni - spiega ancora la Funzione pubblica che rappresenta anche gli agenti penitenziari - ci dicono che i contagi stanno aumentando e, alle soglie di una possibile terza ondata di contagi, non si può perdere tempo ulteriormente e farsi trovare impreparati come accaduto nel mese di marzo da anni denunciamo che esiste un problema nella tutela della salute in carcere, come da anni denunciamo che esiste il problema di tutelare la sicurezza sui luoghi di lavoro di coloro che operano nell’esecuzione penale, nella Polizia Penitenziaria, nelle Funzioni Centrali e nella Dirigenza Penitenziaria, costretti a lavorare in luoghi malsani e fatiscenti, dove aumentano le aggressioni e i casi di suicidio, ma le nostre denunce sono rimaste inascoltate”. E l’amministrazione si è mossa. Con una recente circolare (13 gennaio) il Dap, dipartimento amministrazione penitenziaria, si invitano tutti gli operatori che lavorano nelle carceri italiane ad aderire volontariamente alla vaccinazione contro il Coronavirus. Oggi scade il tempo per le risposte. Nella circolare si specificava infatti che la risposta all’adesione alla vaccinazione volontaria dei lavoratori degli istituti di pena sarebbe stata dovuta pervenire entro il 22 gennaio. Vedremo quindi quale sarà la risposta degli operatori. “Le vaccinazioni degli operatori interni alle carceri - spiega Stefano Branchi, coordinatore nazionale della polizia penitenziaria della Fp Cgil - dovrebbe cominciare a marzo, almeno secondo le informazioni che abbiamo avuto in questi giorni dall’amministrazione. È un’operazione importante che dovrà però coinvolgere anche i detenuti. E non si tratta neppure di una cosa eccezionale visto che in tutto, tra detenuti e operatori, si tratterà di vaccinare circa 130 mila persone in tutti gli istituti”. “Quello della vaccinazione è un passaggio fondamentale e urgente, ma non basta - commenta poi Florindo Oliverio, della segreteria nazionale della Funzione pubblica Cgil - si tratta infatti di affrontare i tanti problemi che ci portiamo dietro da anni, dal sovraffollamento, alle condizioni strutturali delle carceri. E si tratta poi di riavviare il percorso dell’esecuzione penale esterna che con la pandemia è stato fortemente rallentato. In carcere c’è un problema di salute che prescinde dalla fase attuale della pandemia”. E anche per quanto riguarda la somministrazione del vaccino al personale, precisa ancora Oliverio, si dovrà tenere conto di tutti, dagli agenti al personale educativo e ai rappresentanti delle funzioni centrali. “Insomma il vaccino e la lotta contro l’insorgere di focolai sono la punta di un iceberg di problemi da risolvere con un’ottica più generale, con un Piano che tenga conto di tutti i soggetti e delle specificità del mondo della reclusione”. Anche la Cgil nazionale è in campo. In un recente incontro con il ministro della Salute, la Cgil ha sollecitato tra le altre cose un intervento immediato sulle carceri. Per la confederazione sia i dipendenti dell’amministrazione, sia tutti i detenuti devono essere considerati nelle fasce di popolazione a rischio e a cui somministrare prioritariamente il vaccino. “Le nostre richieste - ci spiega Denise Amerini, responsabile dipendenze e carceri della Cgil nazionale - si basano oltre che sul buon senso, anche sulla Costituzione che garantisce il diritto alla salute per tutti e la certezza della pena. In questo periodo molto complicato sarebbe un grave errore cedere alle tentazioni giustizialiste che circolano nella società, ma anche tra certi politici. Della serie: che ci importa di chi ha commesso reati, che marciscano in carcere”. Nel frattempo è Patrizio Gonnella a fare il punto. “Secondo i dati forniti dall’Amministrazione penitenziaria - ha scritto sul manifesto del 17 gennaio il presidente di Antigone - vi sono ad oggi 109 positivi nel carcere milanese di Bollate, 59 nell’altro carcere milanese di San Vittore, 54 a Roma Rebibbia NC, 35 nell’altro carcere romano di Regina Coeli, 53 a Sulmona, 40 a Secondigliano e a 40 a Palermo, 29 a Lanciano. Tanti focolai per un totale di 718 detenuti positivi ai quali vanno aggiunti altri 701 operatori penitenziari. Perché la comunità penitenziaria va inserita nelle fasce di popolazione a cui destinare prioritariamente il vaccino? Per due ragioni, una delle quali riguarda la salute pubblica e l’altra l’etica dei diritti umani”. Il percorso per la vaccinazione degli agenti di polizia penitenziaria si è avviato con il sondaggio del Dap. Ora serve un altro passo, una decisione politica: vaccinare tutti i detenuti subito, senza aspettare l’estate. Emergenza Covid nelle carceri, Rita Bernardini riprende lo sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 gennaio 2021 Rita Bernardini da lunedì manifesterà, insieme ad altre personalità come Sandro Veronesi e Luigi Manconi, davanti al ministero della Giustizia. Riesplode, come previsto, l’emergenza Covid 19 nelle carceri. In realtà non è mai finita, il sovraffollamento persiste e c’è difficoltà nell’isolare i detenuti positivi. La gestione sanitaria all’interno dei penitenziari si fa sempre più ardua, e a rimetterci sono quei detenuti che hanno gravi patologie pregresse. Il tutto mentre il governo rimane inerme, accontentandosi delle insufficienti misure deflattive del decreto Ristori di recente convertito in legge. Per questo motivo, da lunedì prossimo, l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini riprende lo sciopero della fame. Non solo. Rita Bernardini non di ferma solo a questo. “Con la ripresa dello sciopero della fame - spiega l’esponente radicale - sarò tutti i giorni a passeggere avanti e indietro in via Arenula per ricordare (memento) al guardasigilli che per lui è un obbligo intervenire per interrompere i trattamenti inumani e degradanti dentro le carceri”. La passeggiata la farà insieme alle personalità che la sostengono. “Per esempio - annuncia Rita Bernardini - martedì ci sarà Sandro Veronesi e mercoledì Luigi Manconi. La cosa si svolgerà ogni giorno dalle 13 alle 14”. A Rebibbia sono 60 i detenuti positivi al Covid - La situazione, com’è detto, è grave. Abbiamo l’esempio del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso che ha raggiunto ben 60 detenuti positivi al Covid. In sostanza sta accadendo che mentre fortunatamente si sono negativizzati i detenuti infettati precedentemente, nel contempo si positivizzano altri. Situazioni che possono avvenire nei luoghi chiusi e affollati. Interviene anche il Garante regionale e coordinatore dei garanti territoriali Stefano Anastasìa, osservando che tutto questo c non avrà fine se non quando si provvederà a vaccinare l’intera comunità penitenziaria, dai poliziotti che operano quotidianamente nelle sezioni ai detenuti che ci vivono. “Francamente - denuncia sempre il garante Anastasìa - appare ogni giorno più imbarazzante il silenzio del ministro della Salute e del Commissario Covid di fronte ai ripetuti appelli alla revisione delle priorità vaccinali arrivati da autorevoli personalità come la senatrice a vita Liliana Segre e da istituzioni come il Garante nazionale e, da ultimo, l’altro ieri, il Consiglio regionale del Lazio, che si è espresso con un voto a larga maggioranza”. Anastasìa osserva che non può esservi valutazione tecnico-scientifica che giustifichi il rinvio a luglio delle vaccinazioni per i detenuti. Ieri sera in conferenza stampa il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri ha assicurato che “in questo momento è previsto che detenuti e personale carcerario possano completare la vaccinazione in un momento successivo a chi ha più di 80 anni”. A Rebibbia c’è un detenuto paraplegico, invalido al 100% e senza mezzo polmone - In tutto questo dramma, se n’è aggiunge un altro che riguarda sempre Rebibbia, dove c’è un detenuto del’79 paraplegico, invalido al 100 percento e senza mezzo polmone. Malattia gravissima, per la quale è stata fatta istanza per chiedere un differimento pena. Soprattutto per l’emergenza Covid in corso, con le varianti del virus che potrebbero risultare letali per chi ha patologie pregresse. L’uomo è uno di quelli. A seguirlo, così come tanti altri detenuti con patologie, è la garante locale Gabriella Stramaccioni. L’istanza è stata rigettata quest’estate. Per la magistratura di sorveglianza può essere benissimo monitorato in carcere. Tre giorni fa, purtroppo, la garante ha appreso che l’uomo è risultato positivo. “Bisogna però dire - spiega a Il Dubbio Stramaccioni - che proprio per le sue patologie è stato mandato a scopo precauzionale all’ospedale”. Ma la Garante stessa si auspica che facciano una nuova richiesta per il differimento pena. Uno nelle sue condizioni, d’altronde, non può essere esposto a questi pericoli. Stramaccioni, che visita quotidianamente le carceri romane, ha rilevato che a Rebibbia si è instaurata la calma grazie all’intervento degli agenti penitenziari che si sono organizzati per far permettere ai detenuti (postivi e non) di effettuare, in sicurezza, un totale di ben 250 chiamate e videochiamate per mettersi in contatto con i famigliari. Ora, com’è detto, risultano più di 60 positivi. “Finalmente - spiega la garante - con ritardo stanno effettuando tamponi a tappeto, quindi chiaramente i numeri dei postivi sono destinati ad aumentare”. Sei ai domiciliari e cedi hashish? Torni dentro e buttano la chiave di Simona Giannetti Il Riformista, 22 gennaio 2021 È successo a Luca: ora per tre anni non potrà accedere alle misure alternative anche se gli manca solo un anno da scontare. Il tipo di reato non conta. Questi automatismi sono assurdi e riempiono le carceri. Oggi gli istituti penitenziari scoppiano di detenuti e il Covid continua la sua diffusione anche se, numeri alla mano, la vulgata persino tra i magistrati sarebbe quella per cui in carcere in fondo si sta più sicuri che da liberi. “Tranquillo è morto in galera”, si usa dire tra le celle. Una cosa è certa: servono misure deflattive decise. Questo va detto, visto che nei fatti sono molti i detenuti a cui è vietato accedere alle misure alternative anche con pene lievi, a causa delle ostatività ancora presenti nel nostro ordinamento penitenziario. Luca, 32 anni e detenuto definitivo, si trova nel carcere milanese di San Vittore: condannato per possesso di hashish con la finalità dello spaccio, ha commesso il reato mentre si trovava in detenzione domiciliare per lo stesso motivo. Luca usa hashish e l’ha ceduto. E qui la nota dolente: c’è una norma, l’art 58 quater, che stabilisce che chi commette un reato mentre si trovi in esecuzione di misura alternativa, non vi possa più accedere per i successivi tre anni. Senza distinzione di tipo di reato o di condanna da scontare. Si tratta dunque di un automatismo: eppure la Corte Costituzionale ha scritto - anche in tema di ergastolo ostativo - che gli automatismi sono da considerare irragionevoli e comunque contrari al significato rieducativo della pena. Niente misure per tre anni: questo nemmeno se in carcere si realizzasse il miglior percorso di rieducazione possibile; e nemmeno se la pena da scontare fosse di sei mesi. Nel corso della detenzione Luca, a cui manca poco più di un anno da scontare, ha perso il padre in modo inaspettato. Subito dopo ha scoperto che la compagna era in gravidanza. Tutto ciò ingenerato una volontà di rottura con il passato. In carcere funziona così, si chiama trattamento penitenziario: ogni cosa che fa il detenuto calcola la misura della sua personalità, da come reagisce a una brutta notizia a come si comporta nelle attese delle risposte alle sue richieste; tutto viene scritto in una relazione, che arriva sul tavolo del magistrato per consentire una decisione individualizzata Con l’automatismo, nessuno scampo: la domanda di misura alternativa è inammissibile, anche se la relazione è la migliore possibile. Oltre a vanificare il concetto di finalità rieducativa della condanna, il divieto automatico finisce di fatto per pregiudicare quelli come Luca, che hanno una pena da scontare al di sotto dei tre anni. L’unico modo per uscire di cella è essere tossicodipendente certificato e accedere all’affidamento terapeutico. Il punto è che nelle carceri del bel Paese di detenuti come Luca ce ne sono tanti e non tutti sono tossicodipendenti. “Se rompi la misura, buttano la chiave”, questo è il mantra. Se fossimo in una favola di Fedro gli insegnamenti sarebbero due. La detenzione di hashish è ancora un reato destinato a riempire le carceri e a non svuotarle: è qui che risiede la necessità di legalizzazione delle droghe leggere nell’ottica deflattiva delle celle e di alleggerimento del carico giudiziario, anche per togliere alla criminalità organizzata quel mercato illegale da cui trae vantaggio economico. Il secondo insegnamento riguarda le ostatività del regime penitenziario, che finiscono col non garantire che una condanna, anche di poco meno di due anni, venga svolta fuori dal carcere. “Se si esclude radicalmente il ricorso a criteri individualizzanti, l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo. L’ha detto la Corte Costituzionale già nel 2006. Insomma, sarebbe ora che anche questo divieto assurdo e irragionevole trovasse il suo posto nell’angolo delle illegittimità costituzionali. E non dimentichiamo che versiamo in stato d’emergenza da quasi un anno, ma forse solo nel mondo dei liberi visto che automatismi come quello raccontato impediscono pure di applicare, in un’ottica deflattiva del sovraffollamento, la legge 199 del 2010, che consentirebbe di far eseguire in detenzione domiciliare condanne al di sotto dei 18 mesi di carcere. Il condizionale è d’obbligo, visto che i recenti interventi governativi emergenziali sono andati nella direzione opposta, aggiungendo l’imposizione dei braccialetti elettronici. E cosi le carceri continuano a scoppiare anche di Covid, oltre che di persone. Scontro sulla giustizia, Bonafede può rinviare la conta in aula di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 22 gennaio 2021 Il ministro studia come disinnescare la mina dei renziani sulla maggioranza. Voto a rischio previsto mercoledì prossimo, è possibile però uno slittamento. Ma c’è il nodo prescrizione dietro l’angolo, già nel Milleproroghe. Il conto alla rovescia è partito, Conte ha pochissimo tempo per mettere a riparo la sua fragile maggioranza dalla mina giustizia. Non c’è solo la comunicazione del ministro Bonafede sull’andamento dell’anno giudiziario, attualmente prevista per mercoledì prossimo, c’è anche la prescrizione che torna di attualità a stretto giro. E con i renziani all’opposizione, i giallorossi non hanno più una maggioranza sulla giustizia. Soprattutto nelle commissioni. Se, com’è assai probabile, Conte non sarà riuscito a trovare una nuova e stabile maggioranza nei prossimi cinque giorni, su Bonafede va messa subito una toppa. Il ministro è la bestia nera di Iv che nel corso del 2020 ha dovuto fare le capriole - tra astensioni, uscite dall’aula, ripensamenti difficili da spiegare - per non votargli contro e provocare anzitempo la crisi. Nella scorsa primavera Renzi si accontentò della promessa di una commissione di studio per non votare la sfiducia, commissione sulla prescrizione mai più vista. Questa volta, ormai all’opposizione, Italia viva ha detto subito che voterà contro la relazione di Bonafede. Il ministro ha obiettato che nessuno l’ha ancora letta, ma l’annuncio di Renzi non è così scandaloso, dal momento che si tratta di una relazione sul modo in cui è stata amministrata la giustizia nell’anno appena trascorso. In via Arenula si studia un modo per venirne fuori, al senato la maggioranza rischia seriamente di andare sotto. “Non credo che Nencini possa votare per Bonafede”, ha detto ieri Casini. Due sono le strade per aggirare il problema. La prima: il governo potrebbe rimettersi all’aula sulle risoluzioni, in modo tale da non essere formalmente battuto. Ma sarebbe una soluzione solo formalmente corretta, il peso politico di una bocciatura del ministro sarebbe enorme. La seconda strada è ormai un classico: si potrebbe rinviare il problema. La legge del 2005 che ha introdotto la relazione del Guardasigilli alle camere, infatti, prevede che questa debba essere fatta entro venti giorni dall’inaugurazione dell’anno giudiziario. Che quest’anno si apre in Cassazione il 29 gennaio. Il governo può quindi decidere di spostare in avanti l’ostacolo, in attesa di (provare a) consolidare la maggioranza. Sfortunatamente, c’è un altro sgambetto in agguato e ha a che fare di nuovo con la prescrizione. Giovedì prossimo, alla Camera, si chiude il termine per la presentazione degli emendamenti al decreto Milleproroghe e il deputato di Azione +Europa Enrico Costa ne presenterà più di uno per abolire la riforma Bonafede, in vigore ormai da un anno. Si tratta di quella norma che cancella il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, norma contestata tanto dai giuristi quanto dagli avvocati penalisti. Sgraditissima a Iv, è contestata anche dal Pd: la vecchia maggioranza si era infatti accordata con i 5Stelle per una riduzione del danno conosciuta come “lodo Conte bis”, dove il Conte è Federico, deputato di Leu. Il tema, con i nuovi equilibri pericolosi per Conte, Giuseppe, si riproporrà certamente quando, prima o poi, ripartiranno i lavori in commissione giustizia a Montecitorio sul disegno di legge delega di riforma del processo penale. Ma intanto c’è il decreto Milleproroghe in arrivo, in prima commissione sempre alla camera. Costa, con l’altro deputato di +Europa Magi, tra gli emendamenti anti riforma della prescrizione presenterà anche la vecchia proposta della deputata renziana Annibali, in modo da attirare ulteriormente Iv, se ce ne fosse bisogno. L’emendamento sulla prescrizione era già stato presentato l’anno scorso nello stesso provvedimento ed era stato dichiarato ammissibile. Trattandosi di un decreto legge, non è possibile in questo caso un rinvio del problema. In commissione giustizia i giallorossi non hanno più la maggioranza. Lo scontro sulla giustizia mette a rischio anche il Recovery fund di Errico Novi Il Dubbio, 22 gennaio 2021 Bonafede, e riforme del processo, nel mirino: si avvicina l’altolà Ue sui fondi. Tra una settimana Renzi vota contro la Relazione del guardasigilli. Paralisi su prescrizione e ddl civile. Ma anche sui piani per modernizzare i tribunali. C’è un fatto nuovo, sulla giustizia. Finora lo scontro era stato prevedibile anche negli esiti: dissenso di Renzi sulle riforme del processo penale e in generale su Bonafede, probabile paralisi dei ddl in Parlamento, con il blocca-prescrizione messo però già in cassaforte dai 5 stelle. Ora i siluri in arrivo per il guardasigilli al Senato sulla sua “Relazione annuale” e per leggi delega relative al processo penale e civile mettono a rischio il Recovery. Che l’Ue ha condizionato alla modernizzazione del sistema giudiziario. Non a caso il Cnf ha avanzato al governo proposte per migliorarlo. Orizzonte sul quale ora piomba una specie di meteorite politico. Finora la giustizia è stata una materia facile. Si fosse trattato di un esame universitario, lo studente bravo e opportunista l’avrebbe messa in cima al piano di studi: il 30 e lode era a portata di mano. Tradotto: non c’è da stupirsi che l’offensiva di Renzi contro gli ex alleati abbia al centro del mirino Bonafede. Bersaglio comodo. Perché l’intransigenza del guardasigilli sulla prescrizione, tanto per fare un esempio, mette in seria difficoltà il Pd. Solo che adesso c’è un problema: alla giustizia è sospeso mezzo Recovery. Se non si fanno le riforme del processo e non si trova un’intesa sui progetti, l’Europa poterebbe irrigidirsi. Se. E il “se” corrisponde a una marea d’incognite. Sul penale, che a inizio febbraio approderà all’ordalia degli emendamenti, il nodo prescrizione resta, e Italia viva lo renderà gordiano, grazie al lodo Annibali, pronto per essere scagliato in commissione Giustizia. Al Senato c’è una situazione numerica ancora peggiore per Bonafede, e per Conte: lì la commissione Giustizia è presieduta da un leghista, Andrea Ostellari, ha come vicepresidente un senatore di Italia viva, Giuseppe Cucca, e soprattutto ha numeri da Vietnam peggiori che a Montecitorio, dove si andrebbe 23 a 23, mentre a Palazzo Madama renziani e opposizioni mettono assieme 13 parlamentari, contro i 12 della maggioranza residua. Diciamolo: al Senato, la riforma penale così com’è ora, cioè con la prescrizione appena sfiorata dal “lodo Conte bis”, non passerà mai. Di più. In Aula la settimana prossima ci sarà un passaggio delicatissimo, per Bonafede: si voterà la sua Relazione sullo Stato della giustizia. Prova “importante”, la definisce una figura poco visibile ma essenziale nel Pd, il vicecapogruppo alla Camera Michele Bordo, avvocato penalista e vicino a Orlando. Bordo non lo dice troppo ad alta voce pure per non passare per menagramo, ma sa benissimo che se tra una settimana, nell’aula del Senato, col no renziano alla Relazione annuale, si abbattesse sul guardasigilli un siluro terra- aria, si spalancherebbero le porte dell’armageddon. Una specie di effetto a catena che paralizzerebbe non tanto il già esanime Conte tre, ma tutti i progetti sul sistema giustizia che vanno finanziati col Recovery e che servono a loro volta da precondizione affinché l’Ue eroghi i fondi anche per le altre voci di spesa annunciate dall’Italia. Uno scenario apocalittico, che contribuisce a spiegare le esitazioni percepite in transatlantico fra i renziani. C’è da prendersi una responsabilità nuova, e pesante, sulla giustizia. Non più limitata, appunto, al consueto perimetro del ring fra 5 stelle giustizialisti, resto del mondo più o meno garantista e Pd in mezzo. Certo, ieri un’altra figura chiave e poco reclamizzata della politica giudiziaria, il sopracitato Cucca, è stato chiaro: “La relazione di Bonafede non l’abbiano ancora letta, ma sul Recovery della giustizia molte cose non ci piacciono, e la posizione di Italia viva resta quella annunciata da Renzi”. Cioè voto contrario. Ma al di là dei pallottolieri, il dato certo è che sulla giustizia non c’è manco l’ombra di quel pur minimo accordo necessario a lavorare anche sui progetti per la modernizzazione dei tribunali. A rendersene conto, non a caso, sono stati per primi gli avvocati italiani, che attraverso la loro massima istituzione, il Consiglio nazionale forense, hanno fatto una cosa semplice: hanno inviato al governo un documento di 111 pagine pieno di proposte per far respirare i tribunali - per esempio con l’affidamento di alcune controversie agli stessi difensori, sul modello collaudato in ambito familiaristico - e per avviare seriamente l’adeguamento delle strutture fisiche e immateriali - con un digitale che non riduca il processo ad automatismo robotico. Servirebbero le migliori energie del Paese, per realizzare una piattaforma simile. Ma il pantano politico allontana l’ipotesi in maniera irreparabile. Una parte consistente delle proposte avanzate dall’avvocatura riguarda la giustizia civile. Ma come ha spiegato ieri in un’intervista al Dubbio il presidente leghista della commissione di Palazzo Madama, Ostellari, la maggioranza non ha avuto la forza di scegliere una direzione. E ora, con l’attrito fatale tra renziani e sopravvissuti, è chiaro che sarà peggio. Ad accorgersi della catastrofe non è solo l’avvocatura, ma anche quel protagonista della giurisdizione che condivide col Foro le fatiche di un sistema logorato ed eroico, ossia i magistrati. Ieri l’Anm ha bombardato la riforma del Csm in audizione alla Camera (come riferito in altro servizio del giornale, ndr), manco fosse la tana di Saddam per l’America di Bush. Però, poche ore prima dell’intervento a Montecitorio, il segretario del “sindacato” dei giudici Salvatore Casciaro ha rilasciato all’Adnkronos una dichiarazione di assoluto buonsenso: “La questione della durata ragionevole dei processi, civili e penali”, ha premesso, “richiede non solo la determinazione delle forze politiche ma anche un confronto serio con le categorie interessate, portatrici di sapere tecnico ed esperienza sulle problematiche degli uffici giudiziari”. Ha quindi aggiunto: “Servono interventi strutturali e coordinati, l’approntamento delle adeguate risorse finanziarie, ma anche riforme processuali mirate nel rispetto dei principi costituzionali: limitarsi a un solo aspetto, e per giunta non far precedere la definizione delle strategie di intervento, nei tavoli di progettazione del Recovery, da un serio confronto con gli operatori sarebbe un errore che rischia di depotenziare l’impianto complessivo delle riforme, e di far perdere al Paese un’occasione storica di rilancio”. Ma, come dire: della prospettiva saggiamente invocata da Casciaro non c’è l’ombra. E anzi, c’è lo scenario inevitabilmente evocato da Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali: il Pd, ha detto ieri a propria volta, farebbe bene a essere coerente con le critiche avanzate sulla riforma del processo penale, e con l’impegno a rivedere il blocca- prescrizione qualora il ddl penale si fosse mostrato incapace di disinnescare il devastante di quella norma. Ecco, è più o meno lo schema incombente: Renzi metterà i dem all’angolo, secondo la logica giustamente ricordata da Caiazza. Quindi la paralisi sulla giustizia è certa. Quello che comincia a essere un po’ meno certo è l’arrivo di quei famosi 209 miliardi dai quali dovrebbe passare il futuro del Paese. Noi Radicali contro il “silenzio stampa” che avvolge gli abusi sul processo penale di Maurizio Turco, Irene Testa e Giuseppe Rossodivita* Il Dubbio, 22 gennaio 2021 La deriva delle udienze da remoto è l’ultimo siluro al diritto di difesa. Silenziato con un semplice clic. La settimana scorsa, grazie al Dubbio, è stata resa pubblica la inquietante e grave vicenda che ha colpito un avvocato difensore il cui microfono è stato repentinamente spento dal giudice, che ha così messo a tacere la sua voce e l’articolo 24 della Costituzione, durante un acceso contraddittorio con il pm, in quel simulacro di processo che viene oramai comunemente chiamato processo da remoto. La pandemia, com’è noto, ha acuito le gravissime criticità del sistema giustizia italiano, cenerentola tra i cosiddetti paesi sviluppati, e fino ad ora per fronteggiare l’emergenza, il governo ha saputo solamente sacrificare il diritto di difesa dei cittadini, nella non troppo celata speranza di poter rendere stabile il sistema anche a pandemia superata. E allora occorre dirlo forte e chiaro: il processo penale da remoto non è un processo, il processo cartolare in grado di appello non è un processo, è altro e a noi Radicali non piace affatto semplicemente perché rende solo apparente la difesa del cittadino portato a processo dallo Stato. Quanto accaduto all’Avvocato Simona Giannetti, la cui voce è stata messa a tacere con un semplice clic, ne rappresenta in modo plastico la prova. Allo stesso modo non è accettabile anche solo pensare di celebrare il processo penale in appello, magari in Corte d’assise d’appello, con modalità “cartolari” e con giudici collegati tra loro sempre in remoto, al di fuori della camera di consiglio, unico luogo dov’è garantito il confronto, il dibattito e finanche lo scontro oltre che la conoscenza dei fascicoli processuali spesso composti da decine di migliaia di pagine. Ogni persona dispone di quattro beni fondamentali: la vita, la salute, la libertà e il proprio patrimonio, piccolo o grande che sia. Dei primi due la giustizia, con l’abolizione della pena di morte e il divieto di tortura, non si dovrebbe più occupare - in realtà come sappiamo esiste ancora la morte per pena - degli ultimi due invece sì, e la libertà, in questa scala di valori, è il terzo bene più prezioso di cui dispone ogni essere umano. Ebbene nel processo penale c’è in gioco la libertà personale, la libertà di un individuo accusato dallo Stato: e uno Stato che consente di togliere la libertà, magari per il resto della vita, con un collegamento on line magari dalla cucina di casa di un giudice è uno Stato che mostra di non avere alcun rispetto per la libertà dei propri cittadini. Il Partito Radicale già a suo tempo aveva osteggiato ogni genere di distanza dell’imputato dal suo difensore e dal suo accusatore, oltre che dal suo giudice, quando aveva elevato la sua strenua opposizione rispetto alle norme che vollero nei processi per reati associativi il collegamento del detenuto in videoconferenza, anziché la sua presenza in aula. Oggi la pandemia non deve diventare l’alibi per dare seguito a quell’approccio che vede difesa e imputato come scomode presenze in aula le quali, allungando i tempi di una celere conclusione dei giudizi, sfavoriscono i numeri da offrire alla politica per dare bella mostra di un efficace funzionamento della giustizia. Le vicende sono state raccontate al Dubbio da Simona Giannetti, che è avvocato iscritta al Partito Radicale e membro della Commissione Giustizia del Partito: renderle pubbliche ha significato anzitutto far conoscere ciò che sta accadendo nei Tribunali virtuali e rivendicare la necessità di richiamare l’informazione sul pericolo che il diritto di difesa sia messo sempre più ai margini del processo penale. La Commissione Giustizia del Partito Radicale, composta da avvocati iscritti e istituita dopo l’espulsione dell’ex consigliere Luca Palamara che vi partecipa, è l’occasione per ribadire alla politica, che da quarant’anni a questa parte continua a dimenticare nella sua agenda la giustizia, e quanto quest’ultima sia profondamente malata. Non lo sanno tutti, che la giustizia è malata: lo sanno quei cittadini che davanti alla giustizia vengono chiamati, e lo sanno bene gli avvocati, che ogni giorno si recano nei palazzi per esercitare il diritto di difesa e che per primi, a causa delle disfunzioni dell’amministrazione giudiziaria, soffrono le inefficienze del sistema. Ma la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica continua a essere attivamente disinformata dal mainstream dei media italiani succubi, per interessi editoriali e per timore reverenziale, dello strapotere delle Procure e di quei pochi magistrati diventati vere e proprie star televisive. È questo il brodo culturale, si fa per dire, che porta a identificare gli avvocati con i loro assistiti, che porta a celebrare le indagini, in tv e sulla carta stampata come fossero sentenze, che porta poi a ignorare le sentenze quando, a distanza di anni, le stesse effettivamente arrivano. L’esigenza irrisolta di una Giustizia giusta e la necessità di una Informazione completa che la riguardi sono la ragione che ha indotto il Partito Radicale a istituire la Commissione Giustizia: l’obiettivo è un pacchetto di leggi da presentare alle istituzioni, anche in previsione di una primavera referendaria; i temi non possono che essere l’Informazione e la Giustizia. *Segretario, tesoriere e presidente Commissione Giustizia del Partito Radicale Bruno Contrada ha subito un’ingiusta detenzione durata 8 anni, ma il risarcimento slitta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 gennaio 2021 La Cassazione ha rimandato alla corte d’Appello di Palermo l’ordinanza di risarcimento a Bruno Contrada per un vizio di forma. La Corte di Cassazione, Sez. IV penale, ha annullato con rinvio l’ordinanza della Corte d’Appello di Palermo che aveva riconosciuto all’ex 007 Bruno Contrada la riparazione per ingiusta detenzione, quantificandola in 667.000 euro. “Aspettiamo di leggere le motivazioni per un esame più approfondito - spiega il suo avvocato Stefano Giordano - ma è evidente fin d’ora che la Corte di legittimità non ha dato esecuzione alla sentenza di Strasburgo, secondo cui il dottor Contrada non andava né processato, né condannato”. L’avvocato chiarisce che la Cassazione non è entrato nel merito - Ora la palla passa nuovamente alla Corte d’Appello palermitana. “Ma, comunque andrà a finire - osserva amaramente sempre l’avvocato Giordano -, è probabile che il dottor Contrada non vedrà mai un centesimo di quanto gli spetta, considerate la sua età e le sue condizioni di salute e la lunghezza dei tempi processuali”. Inoltre, onde evitare facili strumentalizzazioni, il legale di Contrada sottolinea che la Suprema Corte non è entrata nel merito (né può farlo) del diritto di Contrada alla riparazione per ingiusta detenzione “ma ha probabilmente ravvisato un vizio motivazionale dell’ordinanza della corte d’Appello e pertanto ha disposto un nuovo giudizio”. Ovviamente, tale sentenza non va annullare una verità giudiziaria scalfita sia dalla Corte Europea di Strasburgo, che dalla Cassazione. Bruno Contrada non doveva essere né processato, né condannato - Quale? Bruno Contrada non doveva essere né processato, né condannato, dal momento che all’epoca dei fatti (dal 1979 al 1988) il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (nato dal combinato disposto dell’art. 110 e 416 bis c.p.) non era sufficientemente chiaro, né prevedibile, in quanto la sentenza chiarificatrice sarebbe arrivata solo nel 1994. Dopodiché, altra questione, con ordinanza depositata il 6 aprile 2020, la Corte d’Appello di Palermo liquida a favore di Bruno Contrada la somma di 667 mila euro per ingiusta detenzione. Sì, perché ha trascorso ingiustamente 4 anni in carcere e 4 di arresti domiciliari. La conseguenza è stata disastrosa per lui e i suoi familiari. Ora però la Cassazione, per vizi motivazionali, rimanda l’ordinanza alla corte d’Appello. Due questioni diverse. Purtroppo, nella storia del nostro Paese, a fronte di migliaia di casi di ingiusta detenzione ed errori giudiziari non tutti poi vengono risarciti dallo Stato. Il caso Contrada, però, è emblematico. La condanna era avvenuta prendendo per vere le parole di alcuni pentiti. Alcuni di loro, sono proprio quelli che l’ex 007 ha fatto arrestare. Ma non basta. Contrada è diventato l’uomo perfetto per inserirlo in diversi teoremi giudiziari. L’ultima, è che avrebbe incontrato i boss Madonia. Peccato che sia stato proprio Contrada, interpellato irritualmente dall’allora procura di Caltanissetta, ad indicare i Madonia come esecutori della strage. Ci fu poi il depistaggio. Una volta smascherato, si scoprì che tra gli esecutori c’era proprio uno di loro. Così l’effetto Gratteri si abbatte sulla conta dei “volenterosi” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 22 gennaio 2021 L’inchiesta sul leader dell’Udc ricade sulle “trattative” di conte: dopo gli arresti e le perquisizioni allargare il perimetro della maggioranza diventa impresa ardua. “Meno male che quei tre non hanno votato la fiducia”. Ai primi lanci d’agenzia che annunciano l’arresto del segretario regionale calabrese dell’Udc, Franco Talarico, e la perquisizione dell’abitazione romana di Lorenzo Cesa - indagati per associazione a delinquere con aggravante mafiosa - la prima reazione in casa 5 stelle è di sollievo. Essersi fermati a 156 voti di fiducia a Palazzo Madama, senza l’apporto dei corteggiatissimi senatori centristi, è stato un colpo di fortuna, col senno del poi. “Pensa cosa avrebbe detto oggi Renzi di noi se avessimo imbarcato quelli dell’Udc”. Ma l’allegria per lo “scampato pericolo” lascia rapidamente il posto a una nuova angoscia: “E adesso come facciamo?”, si chiedono preoccupati i grillini, consapevoli di dover ricominciare daccapo il conteggio dei “responsabili”. Sì, perché gli abboccamenti per fare entrare in maggioranza i colleghi dell’Udc non si erano mica interrotti col voto in Aula di martedì scorso, proseguivano indefessi, almeno fino a ieri mattina, con segnali incoraggianti. Anzi, l’arruolamento almeno di Paola Binetti veniva considerato praticamente “cosa fatta”. Tutto da rifare. L’effetto Gratteri si abbatte sulle trattative in corso per salvare Giuseppe Conte. Il segretario nazionale dell’Udc “è indagato per una frequentazione con l’imprenditore Antonio Gallo e con Tommaso e Saverio Brutto”, tre degli indagati nell’inchiesta “Basso profilo” della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, spiega in conferenza stampa il procuratore del capoluogo calabrese. Gallo, spiega Nicola Gratteri,”è un imprenditore molto eclettico, che lavorava su più piani e riusciva a muoversi con grande disinvoltura quando aveva di fronte lo ‘ndranghetista doc, o il politico o l’imprenditore”. E per vincere gare d’appalto truccate per la fornitura di prodotti e servizi, Gallo aveva bisogno della politica. Ed è per questo che, tramite gli esponenti locali dell’Udc, l’imprenditore sarebbe entrato in contatto con Cesa, incontrato per un pranzo datato estate 2017. “Quel pranzo non potevamo documentarlo perché all’epoca Cesa era parlamentare. È grazie ad un’intercettazione ambientale che abbiamo capito che Gallo avrebbe dovuto pagare il 5 per cento di provvigione”, spiega Gratteri. Toccherà a un tribunale accertare i fatti, ma intanto Cesa, a tre anni e mezzo dai fatti, si è dimesso da segretario del partito e rischia di pagare salatissimo il conto di quel pasto estivo. E a “pagare”, anche se di riflesso, potrebbe essere anche la maggioranza di governo, fino a 24 ore fa fiduciosa di convincere l’Udc a entrare in squadra. Nessuno, nei prossimi giorni, oserà più avvicinarsi a un democratico centrista, nel frattempo diventato “appestato”, per non dare nell’occhio. Alessandro Di Battista ha subito chiarito i patti con i suoi: “Con chi è sotto indagine per associazione a delinquere nell’ambito di un’inchiesta di ‘ndrangheta non si parla. Punto”, dice il leader ortodosso del Movimento. “Tutti sono innocenti fino a sentenza definitiva ma non tutti possono essere interlocutori in questa fase. Si cerchino legittimamente i numeri in Parlamento tra chi non ha gravi indagini o condanne sulle spalle”, aggiunge Dibba. Seguendo alla lettera il ragionamento dell’ex deputato non ci sarebbero in realtà problemi a parlare con Binetti e colleghi, visto che non sono coinvolti neanche lontanamente in questa vicenda. Ma è molto probabile che il purismo movimentista estenda le indagini di Cesa a tutto il partito. Così, i numeri vanno cercati altrove, è il mantra che per tutto il giorno si ripete tra i grillini. Certo, ma dove? Già prima dell’esclusione dei centristi dalla lista dei papabili nuovi compagni di strada l’obiettivo sembrava tutt’altro che semplice, adesso somiglia a un’impresa impossibile. Soprattutto se lo scopo reale dell’operazione responsabili fosse quello di arrivare a quota 170 al Senato, come indicato da Dario Franceschini, per non tirare a campare. Con l’uscita di scena dei centristi Conte diventa più debole mentre aumenta il potere contrattuale di forzisti indecisi e renziani, pronti a rientrare in gioco se a Palazzo Chigi sedesse un altro premier. Ma i grillini, almeno pubblicamente, non si muovono di un passo: “In queste ore siamo al lavoro per un consolidamento della maggioranza, un processo complicato e ambizioso allo stesso tempo, perché il Paese ha bisogno di ricominciare a correre: le imprese devono lavorare, le famiglie hanno il diritto di poter pianificare il loro futuro”, scrive su Facebook il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Che aggiunge: “Con la stessa forza con cui abbiamo preso decisioni forti in passato, ora mi sento di dire che mai il M5S potrà aprire un dialogo con soggetti condannati o indagati per mafia o reati gravi”. Qualcuno prova a rifare i conti: “Forse arriviamo a dodici. Dovrebbero passare con noi cinque di Italia viva, cinque di Forza Italia e due del Misto. Magari ce la facciamo”. Sempre che una nuova inchiesta non rimandi in tilt il pallottoliere. L’inquietante vicenda delle stragi collegate alle indagini su mafia-appalti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 gennaio 2021 Il dossier mafia-appalti fu archiviato dopo la strage di via D’Amelio, il 14 agosto 1992, la richiesta fu scritta nel 13 luglio 1992 e inviata al Gip il 22 luglio. Se è vero che la gestione “corleonese” aveva esasperato la propensione di Cosa Nostra a ricorrere alla violenza, è anche vero che ne aveva contestualmente coltivato la vocazione imprenditoriale, consentendo in tal modo agli affiliati di acquisire preziose esperienze gestionali, creando e perfezionando meccanismi di condizionamento delle gare d’appalto bandite dagli enti pubblici, stabilendo legami ed intese con grandi imprese nazionali e regionali. Si intravvedeva una regia unica degli appalti. Un qualcosa di pericoloso, non solo per l’economia: era diventato un cavallo di troia per permettere a Riina di condizionare la politica. Uno strumento di potere abnorme. Falcone e Borsellino “pericolosi nemici” di Cosa nostra - L’ipotesi che dietro le stragi mafiose ci sia stata la volontà di fermare le inchieste sui rapporti tra imprenditori e mafia rimane ancora a galla, confermata d’altronde nella sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania e ribadita in Cassazione. Parliamo di una sentenza che riguarda esattamente i processi per le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Scrivono i giudici che Falcone e Borsellino erano “pericolosi nemici” di Cosa nostra in funzione della loro “persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa” e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti. Motivo della “pericolosità” di Borsellino? La notizia che egli potesse prendere il posto di Falcone nel seguire il filone degli appalti. Tale ipotesi è stata anche recentemente riportata nelle motivazioni della sentenza di secondo grado del Borsellino quater. Questo, però, in contrapposizione della motivazione della sentenza di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia dove si legge che non vi è la “certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafia appalti e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse”. I fatti però sembrano dire altro. Non solo Borsellino, quando era ancora alla procura di Marsala, chiese subito copia del dossier mafia-appalti redatto dagli ex Ros e depositato nella cassaforte della Procura di Palermo sotto spinta di Giovanni Falcone, ma mosse dei passi concreti per indagare informalmente sulla questione, tanto da incontrarsi in caserma con il generale dei Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno per ordinargli di proseguire le indagini e riferire esclusivamente a lui. Mafia-appalti archiviata dopo la strage di Via D’Amelio - Il dossier mafia-appalti fu archiviato dopo la strage di via D’Amelio. Dagli atti emerge che la richiesta, scritta nel 13 luglio 1992 dalla Procura palermitana, fu vistata dal Procuratore Capo e inviata al Gip il 22 luglio. L’archiviazione fu disposta il successivo 14 agosto dello stesso anno, con la motivazione “ritenuto che vanno condivise le argomentazioni del Pm e che devono ritenersi integralmente trascritte”. Nel dossier compaiono diverse aziende che avrebbero avuto legami con la mafia di Totò Riina, comprese quelle nazionali. Tra le quali emerge anche il coinvolgimento di aziende enormi che erano quotate in borsa. Tra l’altro, lo stesso Borsellino, ebbe conferma del coinvolgimento di talune imprese durante l’interrogatorio del primo luglio del 1992 reso dal pentito Leonardo Messina. Dagli atti emerge chiaramente che alcune grosse aziende del nord, per prendersi gli appalti pubblici siciliani si sarebbero alleate con i fratelli Antonino e Salvatore Buscemi, legatissimi a Totò Riina. In ballo c’erano investimenti miliardari e relazioni fondamentali per il potere mafioso, che andavano quindi difese a tutti i costi. Marche. Report carceri 2020, il sistema ha tenuto fuori la pandemia anconatoday.it, 22 gennaio 2021 La fotografia della situazione generale nel documento predisposto dal Garante dei diritti, Andrea Nobili, alla fine del suo mandato. Un anno particolarmente complesso il 2020 anche per gli istituti penitenziari marchigiani, chiamati a fronteggiare l’emergenza Coronavirus nonostante le vecchie e nuove criticità presenti nelle diverse strutture. Come di consueto, la situazione complessiva viene rappresentata nel “Report 2020” predisposto dal Garante dei diritti, Andrea Nobili, al termine del suo mandato. Cinque azioni di monitoraggio, circa 500 colloqui con i detenuti, più di 50 ingressi e contatti diretti mantenuti attivi, attraverso la modalità telematica, anche durante il periodo del lockdown, hanno permesso di avere una fotografia costantemente aggiornata di quanto stava accadendo negli stessi istituti. “È ovvio che in questi mesi - evidenzia Nobili - la maggiore attenzione è stata riservata alla diffusione della pandemia. Come ho avuto modo di ribadire in diverse occasioni, il sistema carcerario marchigiano ha retto nel migliore dei modi all’impatto dell’emergenza, grazie all’attuazione scrupolosa delle disposizioni previste per il contrasto e il contenimento della diffusione del Coronavirus, con particolare riferimento ai nuovi arrivi. Un lavoro che si è avvalso della collaborazione di tutto il personale che opera nel carcere. A tutt’oggi è stata registrata la sola positività di un detenuto, proveniente tra l’altro da fuori regione, e si sono palesati alcuni casi tra gli operatori di polizia penitenziaria che non sono entrati, comunque, in contatto con gli stessi detenuti”. L’emergenza ha inevitabilmente creato problemi anche su altri versanti, come quello delle visite in carcere da parte dei familiari dei detenuti, ai quali è stata però fornita la possibilità di effettuare le videochiamate. Altro discorso quello relativo alle numerose attività trattamentali, in diversi casi attivate dal Garante con altre collaborazioni, che nel corso degli ultimi mesi hanno subito una comprensibile battuta d’arresto. Analizzando i dati, Nobili non manca di tornare sulle criticità ormai note da tempo, con un sovraffollamento che si ripresenta in modo alterno; la carenza di organici che non riesce anche a colmarsi; alcune patologie, come quelle di tipo psichiatrico o legate alle tossicodipendenze, che continuano a destare preoccupazione. Un riferimento anche al trasferimento di una quarantina di detenuti da Modena a Marino del Tronto di Ascoli Piceno dopo la rivolta del marzo scorso. È stato specificato che in relazione alla situazione complessiva il Garante ha interloquito costantemente, recandosi anche presso il carcere, con le istituzioni dell’amministrazione penitenziaria e sanitaria di Ascoli Piceno. I dati dei 6 istituti marchigiani - Nel complesso i detenuti presenti nelle Marche sono 847, a fronte degli 898 del 2019, di cui 324 stranieri rispetto ai 278 del precedente anno (fonte Ministero Giustizia, dicembre 2020). Risultano effettivamente in servizio 623 agenti di polizia penitenziaria (su 771 assegnati), 14 educatori e 9 psicologi. L’esame delle singole realtà vede al primo posto la casa circondariale di Montacuto con 319 detenuti (di cui 142 stranieri) per una capienza di 256. Agenti presenti 125 su 176 assegnati, tre educatori e 2 psicologi. Segue la casa circondariale di Pesaro - Villa Fastiggi con 171 detenuti (di cui 64 stranieri e 14 donne) per una capienza complessiva di 143 unità. In attività 165 agenti (188 gli assegnati), 4 educatori ed uno psicologo. Report Carceri 2020, il sistema ha tenuto fuori la pandemia Si passa poi a Fossombrone con 90 (uno straniero) a fronte di 202 posti disponibili, ma in questo caso è da considerare, come per lo scorso anno, la chiusura di una sezione per detenuti comuni, a causa dei lavori di ristrutturazione. Gli agenti sono 101 su 129 assegnati, 4 gli educatori e 2 gli psicologi. Infine, Marino del Tronto con 127 ospiti (51 stranieri) su 104, 138 agenti (162 assegnati), due educatori e due psicologi; Barcaglione con 97 (46 stranieri) su 100, 47 agenti su 67 assegnati, un educatore e uno psicologo; Fermo 43 (20 stranieri) su 41, 47 agenti (49 assegnati), uno psicologo. Per quanto riguarda la Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di Macerata Feltria, al momento ubicata nella struttura “Case Badesse”, si registrano 24 ospiti (3 donne). Senza considerare i problemi legati all’emergenza epidemiologica, a tutt’oggi la tossicodipendenza si conferma il problema principale con 280 casi e numerosi detenuti in terapia metadonica Preoccupano le patologie di tipo psichiatrico ed i casi di autolesionismo (ne sono stati riscontrati 173), con 13 tentativi di togliersi la vita e un suicidio. Presenti anche diversi detenuti affetti da Epatite C, Hiv ed altre problematiche”. Roma. Coronavirus, nuovo focolaio nel carcere di Rebibbia: 14 positivi La Repubblica, 22 gennaio 2021 Il Garante del Lazio: “Vaccinare detenuti e addetti”. Dopo il focolaio emerso nel settore G1, riferisce Stefano Anastasia, ora è la volta del G11. “Detenuti chiusi tutti in cella” denuncia un detenuto in una lettera del 12 gennaio al suo avvocato. “È uno stillicidio, il continuo accendersi di focolai di Covid-19 all’interno degli istituti di pena. A Rebibbia Nuovo complesso, dopo quello manifestatosi al G12, ora è la volta del G11, dove sono emersi 14 positivi nello screening che la Asl sta svolgendo progressivamente nei diversi reparti”. A denunciare la situazione del penitenziario romano è Stefano Anastasia, portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e Garante regionale di Lazio e Umbria. “Questa cosa - prosegue Anastasia - non avrà fine se non quando si provvederà a vaccinare l’intera comunità penitenziaria, dai poliziotti che operano quotidianamente nelle sezioni ai detenuti che ci vivono. Francamente, appare ogni giorno più imbarazzante il silenzio del ministro della Salute e del Commissario Covid di fronte ai ripetuti appelli alla revisione delle priorità vaccinali arrivati da autorevoli personalità come la senatrice a vita Liliana Segre e da istituzioni come il Garante nazionale e, da ultimo, ieri, il Consiglio regionale del Lazio, che si è espresso con un voto a larga maggioranza”. “Penso che la situazione è molto molto seria adesso. In queste mura sta scoppiando a dismisura. Questa non è galera, è una tortura”, aveva scritto in una lettera del 12 gennaio scorso, un detenuto nel carcere di Rebibbia, a Roma, al proprio avvocato raccontando di come la diffusione del Covid-19 nel carcere sta diventando critica e la condizione dei detenuti sempre più precaria. Negli ultimi giorni sono stati molti i processi rinviati nel tribunale di Roma a causa della situazione epidemiologica nella struttura carceraria. Fonti legali riferiscono che si è proceduto alla chiusura dei settori G11, G12 e Alta Sicurezza. “Ieri mi hanno mandato in isolamento preventivo perché un altro detenuto era positivo ed era con me in cella, ma asintomatico - scrive il detenuto -. In questo momento, martedì 12 gennaio, hanno chiuso tutto il reparto G12, anche i detenuti comuni, tutti chiusi in cella”. Nella mail inviata al penalista, si afferma che “tutto è partito nel reparto 1S con 38 contagiati”. “Ora anche qui sotto ai detenuti comuni. Io sono in un reparto dove siamo 3 in quarantena e c’è anche un positivo da oggi che era il lavorante di sezione”. Il detenuto, che è in regime cautelare in attesa di giudizio, prosegue: “Siamo da 24 ore chiusi anche con la porta blindata e questa mattina non è passato il vitto per mangiare poiché dicono che ci sono cuochi infetti, abbiamo tutto nelle nostre celle. Penso che la situazione è molto molto seria adesso - conclude. È giusto che vi tenga aggiornati della mia situazione perché se dovesse precipitare ho tre figli piccoli, tutti con problemi. Un grande saluto da un ragazzo sfortunato. Help”. Milano. Carcere di Opera, non può più parlare da tre anni: smarrita la cannula fonatoria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 gennaio 2021 Il 28 novembre 2018, nel trasferimento dall’ospedale San Paolo di Milano a Opera, si è perso il fondamentale presidio sanitario. È un detenuto che non parla da tre anni, ma perché dopo una operazione al tumore è rimasto senza la cannula fonatoria. Una vicenda che Rita Bernardini ha appreso dalla sua lettera nella quale racconta dettagliatamente tutte le vicissitudini. Il deputato Roberto Giachetti ha raccolto questa denuncia e ne ha fatto una interrogazione parlamentare rivolgendosi al ministero della Giustizia e a quello della Salute. Nell’interrogazione a risposta scritta, Giachetti spiega che ha ricevuto la lettera di V. Z. detenuto presso il carcere di Opera di Milano ove è stato trasferito il 27 ottobre 2018. “V. Z. racconta che, quando era detenuto nel carcere di Spoleto, è stato operato di un tumore maligno alla gola presso l’ospedale di Foligno. L’intervento chirurgico ha comportato l’asportazione delle corde vocali e l’impianto di una protesi fonatoria tracheoesofagea che, con poche sedute di logopedia, avrebbe dovuto consentirgli di poter parlare”, prosegue il deputato. Nella lettera, V. Z. scrive che il 28 novembre 2018 nel passaggio dall’ospedale San Paolo di Milano alla casa circondariale di Opera è stata smarrita la cannula fonatoria; il 18 luglio 2019 il detenuto avanza al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) la richiesta di trasferimento perché presso il Sai (Servizio assistenza intensiva) di Opera ove si trova ubicato non erano stati in grado di procurargli la valvola fonatoria e la cannula fonatoria fenestrata in lattice che serve per non far restringere il diametro dello stoma; il 9 agosto 2019 il Dap respinge la richiesta di trasferimento, aderendo a quanto riferito dal dirigente sanitario. Nella lettera, il detenuto sostiene invece di non aver mai ricevuto il kit fonatorio, tanto che il 5 agosto 2019 era stato portato all’ospedale Sacco per perdita della valvola fonatoria e presenza di fistola tracheoesofagea; la lettera descrive in modo dettagliato tutti i passaggi successivi fino al momento della spedizione della missiva all’interrogante avvenuta il 27 dicembre 2020. “Passaggi - osserva Giachetti nell’interrogazione - che comprendono le complicazioni e le sofferenze che ha dovuto sopportare, rese ancora più gravi dal ricovero per Covid presso il reparto apposito del carcere di San Vittore durato 34 giorni; della sua condizione, che ancor oggi lo vede impossibilitato a poter parlare, V.Z. ha investito - oltre al Dap - anche la magistratura di sorveglianza che ha accolto il suo reclamo”. Ebbene, nonostante ciò, dalla lettera si evince che la direzione sanitaria di Opera, in due anni, non è stata in grado di prestare le cure e gli interventi necessari. Per questo il deputato di Italia Vive chiede ai ministri che “se quanto riferito in premessa circa la vicenda della persona detenuta in questione trovi conferma; se i Ministri interrogati intendano verificare la fondatezza di quanto esposto da V. Z. e, nel caso, se intendano adottare iniziative, per quanto di competenza, in relazione alla condotta del responsabile sanitario del carcere, che dipende dalla Asl azienda ospedaliera San Paolo di Milano;in generale, a quali verifiche siano sottoposte le Asl quanto all’erogazione dei servizi sanitari all’interno degli istituti penitenziari italiani”. Frosinone. Morte in carcere Salvatore Lupo: il Gip respinge l’archiviazione monrealepress.it, 22 gennaio 2021 Il Gip del tribunale di Frosinone ha respinto la richiesta di archiviazione della procura Repubblica di Frosinone sul decesso del giovane monrealese Salvatore Lupo, avvenuto nel 2019 nel carcere di Frosinone. Il gip ha anche ordinato nuovi esami anche di natura cardiologica, che dovranno essere effettuati da un consulente diverso, assegnando ulteriori sei mesi alle indagini. “Eravamo certi che il decesso di Salvatore Lupo, un giovane di soli 31 anni e di robusta corporatura, abituato agli sforzi fisici, non poteva certamente essere archiviato come morte naturale improvvisa e dovuta a cause naturali, ma che si era in presenza di una evidente colpa medica da parte dei sanitari della casa circondariale di Frosinone”. É quanto dichiarato dagli avvocati Salvino Caputo, Valentina Castellucci, Mauro Torti e dalla dottoressa Giada Caputo, che nell’interesse dei familiari, avevano presentato prima una denuncia a carico di ignoti e successivamente opposizione alla richiesta di archiviazione. Lupo venne rinvenuto morto il 16 dicembre 2019 all’interno della cella del carcere di Frosinone che condivideva con un altro detenuto. La Procura della Repubblica di Frosinone, dopo le prime indagini conferì incarico peritale al medico legale Vincenzo Caruso per accertare le cause del decesso. Dopo l’esame autoptico il consulente del pubblico ministero, ascrisse a cause naturali il decesso e segnatamente per una “insufficienza cardiocircolatoria”. A fronte di quegli esami, venne formulata richiesta di archiviazione. I legali della famiglia di Lupo, presentarono opposizione, producendo cartelle cliniche e documentazione sanitaria attestante le reali condizioni di salute. Venne anche prodotta la consulenza specialistica di parte affidata al medico legale Alessandro Mariani che ha evidenziato le lacune della perizia del pubblico ministero, che aveva ricondotto il decesso a cause naturali senza avere effettuato esami tossicologici. Venezia. Proteste dirette dall’esterno? Il mistero della rivolta nel carcere di Carlo Mion La Nuova Venezia, 22 gennaio 2021 La rivolta nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia nel marzo scorso. In seguito alla rivolta 23 i detenuti delle più diverse nazionalità (italiani, tunisini, marocchini, romeni, senegalesi, bulgari) sono stati accusati di aver preso parte alle violente proteste e sono così stati citati a giudizio. Le prime avvisaglie c’erano state qualche giorno prima. La protesta contro il blocco delle visite causa lockdown e il sovraffollamento era iniziata con la tradizionale “battuta” delle stoviglie contro i ferri delle celle. Poi, però, una cinquantina di detenuti era passata a distruggere telecamere, suppellettili e persino a dare fuoco alle lenzuola, con spirali di fumo che uscivano dalle finestre del carcere, creando pericolo e scompiglio. Era il 10 marzo e da giorni le carceri italiane erano in rivolta con morti, feriti, pestaggi e centinaia di migliaia di euro di danni. Al Santa Maria Maggiore di Venezia è finita in maniera diversa: meno danni, nessun morto e qualche contuso. Ma anche a Venezia c’è il sospetto, non solo da parte degli agenti penitenziari, che ci fosse una regia a governare la rivolta. Il giorno prima, alle prime avvisaglie della protesta, i detenuti ottennero di incontrare Sergio Steffenoni, il garante per i detenuti di Venezia. Durante l’incontro venne garantito l’arrivo di ulteriori telefoni cellulari per i colloqui e che sarebbero state aumentate le misure anti contagio, con l’individuazione di una serie di celle destinate a chi entrava e doveva attendere l’esito del tampone. Colpì tutti quelli che disse uno dei detenuti presente all’incontro quale rappresentante dei carcerati. Disse: “Noi non possiamo non fare nulla”. In quei giorni, Santa Maria Maggiore contava 262 persone recluse a fronte di una capienza regolamentare di 159 posti (e di una capienza tollerabile di 239 persone). Per di più il carcere non accettava più detenuti. Di lì a poco vennero bloccati i trasferimenti a livello nazionale, mentre quelli in ambito regionale si eseguono ancora oggi, accogliendo i nuovi ospiti in celle predisposte per la quarantena. Solo in una fase successiva vengono portati nelle varie sezioni. La protesta scoppiò al termine della visita, di una sezione, del presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia. Il magistrato era arrivato a garanzia di quello che era stato annunciato il giorno prima. A Santa Maria Maggiore c’era così chi era passato dalle “battute” di protesta serali, alle vie di fatto. Nella fase più difficile anche il terminal automobilistico di Piazzale Roma era stato blindato da un doppio cordone di sicurezza delle forze dell’ordine, mentre un elicottero ha sorvolato dall’alto la zona. Si temeva l’arrivo di persone dall’esterno in appoggio ai detenuti. Vennero incendiati materassi e lenzuola, spaccato suppellettili e vetrate è staccato pure le telecamere del sistema di videosorveglianza. Per mesi il carcere rimase senza vetrate sul corridoio, in seguito alla discussione su che tipo di materiale doveva essere usato per quelle nuove. In seguito alla rivolta 23 i detenuti delle più diverse nazionalità (italiani, tunisini, marocchini, romeni, senegalesi, bulgari) che sono stati accusati di aver preso parte alle violente proteste e sono così stati citati a giudizio. Torino. Ridotte le ore di colloquio in carcere, detenute in sciopero della fame La Stampa, 22 gennaio 2021 La protesta alla Vallette è iniziata per denunciare che nel carcere torinese non sarebbe garantito il diritto a sei ore settimanali di incontri con i familiari previsti per legge. La portavoce dei No Tav, Dana Lauriola, arrestata lo scorso 17 settembre a Bussoleno per una condanna definitiva a due anni è da stamattina in sciopero della fame insieme ad altre due detenute del carcere delle Vallette per protestare contro la diminuzione delle ore di colloquio. Ogni detenuto, per legge, ha diritto a sei ore di colloquio settimanale in presenza ma la pandemia ha modificato le regole e le sei ore in presenza sono state sostituite da videochiamate. Anche così - tuttavia - le detenute denunciano che il monte ore non verrebbe rispettato. “Il monte ore settimanale non viene mai mantenuto e addirittura viene dimezzato” è la denuncia. Il mancato mantenimento delle ore di colloquio familiare “colpisce duramente il diritto all’affettività garantito dal ministero della Giustizia - si legge sui profili social dei No Tav - Ma non solo: va a calpestare la dignità delle detenute e dei detenuti”. Sempre secondo la denuncia dal momento in cui il carcere ha riaperto alla possibilità di effettuare visite familiari, molti parenti si sarebbero recati in carcere per effettuare le prenotazioni ma a tutti quelli provenienti da fuori Torino sarebbe stato vietato l’accesso causa Zona Arancione. Sarebbero anche stati colpevolizzati nonostante non sia giunta a loro alcuna comunicazione in merito alle procedure da adottare da parte della casa circondariale. Dana Lauriola e le altre due detenute hanno annunciato che continueranno lo sciopero della fame a oltranza “fino a quando non saranno ripristinati i diritti dei detenuti”. Dana Lauriola è stata condannata in via definitiva a due anni per aver partecipato a una manifestazione No Tav nel 2012 nella quale erano state alzate le sbarre a un casello autostradale. Nel corso dell’iniziativa il compito della portavoce era quello di spiegare al megafono i motivi della protesta. L’Aquila. Detenuto al 41bis vuole iscriversi all’Università. Istanza respinta di Domenico Latino Gazzetta del Sud, 22 gennaio 2021 L’intervento di Klaus Davi: “Penso che lo Stato debba concedergli questa opportunità come accaduto con tanti altri reclusi”. Può essere il carcere così duro da negare al detenuto un diritto fondamentale della persona come quello allo studio, sancito perfino dalla Dichiarazione universale dei diritti umani? Vale ancora il principio che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato? Veniamo ai fatti che riguardano Antonio Piromalli, 48 anni, figlio e, per i magistrati, “erede” dell’indiscusso boss Pino Piromalli detto “facciazza”, recluso dal ‘99 - che lo avrebbe investito di pieni poteri - e braccio imprenditoriale della cosca tanto da conquistare il controllo del mercato ortofrutticolo di Milano. Condannato a 19 anni e 4 mesi di carcere nel processo “Provvidenza” e attualmente detenuto presso il carcere di Parma dove è sottoposto al “41 bis”, il 13 dicembre ha infatti presentato, attraverso i suoi avvocati poi revocati, un’istanza per iscriversi alla facoltà di Economia e commercio dell’Università di Messina, con possibilità di sostenere gli esami in video. Istanza rigettata dal magistrato di sorveglianza Caterina Aloisi. Piromalli ha quindi presentato reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Reggio Emilia. L’udienza si è tenuta ieri mattina, ma per la decisione occorrerà aspettare. Il detenuto, con l’assistenza dei suoi nuovi legali dell’Associazione “GiustItalia” (avvocati Giulio De Rossi e Chiara Missori) e dell’avvocato Francesco Calabrese, sosterrà che il diritto allo studio è un diritto inalienabile dell’uomo e il suo esercizio concreto non è incompatibile con il carcere duro. “A prescindere dalla sua fedina penale - ha dichiarato l’avv. De Rossi - quello che noi contestiamo è che, anche se sottoposto al “41 bis”, ha comunque diritto a studiare come tutte le persone; non avrebbe modo in ogni caso di comunicare con l’esterno. Privare del diritto allo studio una persona è costituzionalmente illegittimo e crea un pericoloso precedente”. Tra Antonio e gli avvocati di “GiustItalia” vi è stato un intenso scambio epistolare: “Ci tiene molto - spiega De Rossi - ed è una cosa secondo noi anche apprezzabile, lui vuole in un certo senso un ravvedimento operoso, è un modo per elevarsi culturalmente”. Non è la prima volta che un Piromalli divide l’opinione pubblica: nel 1986, il padrino don Peppino, prozio di Antonio, prese la tessera del Partito radicale. All’epoca il leader Marco Pannella commentò: “Anche Piromalli può entrare nel partito che è servizio pubblico”. L’intervento di Klaus Davi - “Leggo da un articolo della Gazzetta del Sud che al boss Antonio Piromalli, che ben conosco visto che ho indagato su di lui e l’ho rincorso sotto casa a Milano ben prima che fosse arrestato, è stato impedito di iscriversi all’Università di Messina per seguire i corsi di economia. Pur nel massimo rispetto della decisione dell’autorità giudiziaria, non capisco perché lo Stato glielo abbia impedito. Piromalli ha 48 anni, trascorrerà molti anni in carcere, se ritiene di impiegarli studiando perché impedirglielo? Penso che lo Stato debba concedergli questa opportunità come accaduto con tanti altri reclusi, come per esempio Franco Coco Trovato che ha conseguito due lauree, per non parlare di Gennaro Pulice, come narro nel mio libro “I killer della ‘Ndrangheta” (Piemme), anche lui con due lauree e detto “Il Professore”. Sappiamo spesso che le carceri sono luoghi di affiliazione e di condivisione fra i detenuti di strategie criminali. Se per una volta uno vuole impiegare il suo tempo diversamente non capisco perché impedirglielo”. Lo ha dichiarato il massmediologo e giornalista Klaus Davi. Palermo. Apprendi (Antigone): “Nominare Garante dei detenuti per l’area metropolitana” ilsicilia.it, 22 gennaio 2021 “Da oltre un anno, il Comitato Esistono i Diritti, a Palermo, ha intrapreso l’iniziativa per la nomina di un garante dei detenuti per l’area metropolitana, dove insistono quattro istituti penitenziari: il Pagliarelli, Antonio Lo Russo, Casa circondariale maschile e femminile, l’Ucciardone casa di reclusione Calogero Di Bona, il carcere minorile Malaspina, a Palermo e la casa Circondariale di Termini Imerese, Antonino Burrafato. Questa figura, nella sua autonomia, andrebbe ad aggiungersi a quella del garante regionale che ha l’onere di interloquire con 23 strutture nel territorio siciliano con una presenza complessiva di circa 6000 detenuti.”. Lo dice Pino Apprendi presidente di Antigone Sicilia e copresidente del Comitato Esistono i Diritti. “La presenza del Covid19 in carcere, ha peggiorato le condizioni psico fisiche dei detenuti che hanno, in ogni caso, diminuito i contatti con il mondo esterno a partire dai propri familiari. Da sempre, denunciamo la lentezza dell’approvvigionamento delle medicine e delle visite specialistiche, tutti argomenti che sono peggiorati a causa delle difficoltà introdotte, anche, con le disposizioni anti Covid”, prosegue. “Antigone che ha condiviso e sostenuto l’iniziativa del Comitato Esistono i Diritti, fa appello al Presidente del Consiglio Comunale di procedere in tempi brevi a mettere all’ordine del giorno il testo del regolamento per la nomina del garante dei detenuti dell’area metropolitana di Palermo, conclude. Torino. Premiato il progetto del carcere sulla lingua inglese lavocetorino.it, 22 gennaio 2021 Il progetto intitolato “La certificazione linguistica internazionale in carcere: a change for the better”. Il progetto per la certificazione della lingua inglese nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino ha ottenuto il premio Label Europeo delle lingue 2020. Ad annunciare i quindici vincitori del riconoscimento, che da oltre vent’anni premia le migliori iniziative nel campo dell’apprendimento linguistico, sono state le due agenzie organizzatrici del progetto, Erasmus+ Indire e Inapp. Realizzato in collaborazione con il Cpia1 e il Liceo Artistico della Casa Circondariale (due delle istituzioni scolastiche presenti in carcere) con il supporto del Centro Autorizzato Cambridge English Exams Torino, il progetto intitolato “La certificazione linguistica internazionale in carcere: a change for the better” è stato il primo in Italia rivolto alla preparazione per la certificazione della lingua inglese in carcere. Il corso si è rivolto trasversalmente a studenti detenuti, personale carcerario ed educativo, per dimostrare l’importanza della collaborazione a più livelli all’interno dell’ambito formativo nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. Tra gli altri obiettivi anche l’esercitazione del diritto allo studio, la ricostruzione della fiducia in se stessi e negli altri e il lavorare sul proprio futuro fuori dal carcere. Ha aderito al progetto anche Cambridge Assessment English, che da oltre 80 anni opera in Italia come ente certificatore del livello di lingua inglese. La potenza della Costituzione di Gherardo Colombo e Liliana Segre Corriere della Sera, 22 gennaio 2021 Le parole di Liliana Segre, l’analisi di Gherardo Colombo. “La sola colpa di essere nati” (Garzanti) parte dalle leggi razziali del 1938 e arriva a oggi, esplorando tra l’altro la differenza tra giustizia e legalità. La ricostruzione è precisa, talora sorprendente, come nel caso degli esponenti della segreteria di Stato vaticana che “suggerirono al governo Badoglio di andarci piano con l’abrogazione delle leggi razziali”. Colombo presenta il libro il 24 gennaio alle 11.30 sulla pagina Facebook del Memoriale della Shoah di Milano con Michele Sarfatti e Marco Vigevani Pubblichiamo un estratto del dialogo tra Gherardo Colombo e Liliana Segre tratto dal loro libro. Gherardo Colombo: Hai parlato molto frequentemente della nostra Costituzione, verso la quale condividiamo un affetto profondo. La Costituzione che rovescia il principio che fino ad allora informava le regole dello stare insieme: non le regole che si potevano trovare nella morale, nell’etica, ma le leggi, quelle destinate a disciplinare concretamente, giorno per giorno, la vita della comunità. La prima legge razziale è stata promulgata il 5 settembre 1938, ed era la terribile esasperazione di un sistema basato comunque sulla discriminazione. Sono passati meno di otto anni e si è iniziato a scrivere la Costituzione che, entrata in vigore il 1° gennaio 1948 (nemmeno quattro anni dopo le disposizioni della Repubblica sociale in tema di “razza”), ha messo alla base dello stare insieme l’esatto opposto della discriminazione, e cioè la pari dignità di qualunque persona. Liliana Segre: L’ultima volta che ho trattato il tema della Costituzione con gli studenti, l’ho fatto scrivendo un messaggio a quelli che si accingevano ad affrontare la maturità, in piena emergenza Covid-19. Ho sottolineato che si era cominciato ancora prima a prendere le distanze dalla discriminazione: nel 1946 si tennero le prime elezioni dopo il fascismo e per la prima volta votarono anche le donne, alle quali il relativo diritto era stato riconosciuto l’anno precedente. Oggi sembra una cosa scontata, ma all’epoca fu, per l’Italia, una novità strepitosa. Voleva dire non solo riconoscere il diritto di voto a una metà della popolazione che ne era stata sempre esclusa, ma incardinare il principio di parità tra uomo e donna in una società che allora era molto arretrata anche sotto questo aspetto. Gherardo Colombo: In effetti... Il voto alle donne era stato riconosciuto in Nuova Zelanda nel 1893, e in Europa la prima nazione a adottare il suffragio universale, la Finlandia, lo ha fatto nel 1906. Dopo Francia e Italia nel 1946, è stata la volta del Belgio, nel 1948, della Grecia, nel 1952 e della Svizzera, nel 1971. Che poi la parità di genere, proclamata solennemente dalla Costituzione, sia stata rispettata o meno fin da subito è un altro discorso. Le donne, per esempio, sono potute entrare in magistratura soltanto a partire dal 1963, e vi sono entrate effettivamente (in uno sparuto gruppetto di otto) solo nel 1965; il reato di adulterio femminile (il corrispondente maschile non esisteva) è stato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale alla fine del 1968; il marito ha continuato a essere il capo della famiglia fino al 1975. Ancora oggi non tutte le discriminazioni di genere, soprattutto di fatto, sono state eliminate. È lungo e pieno di ostacoli il cammino del cambiamento dei fondamentali della cultura. Liliana Segre: Certo, e allora si fecero i primi, essenziali passi, quelli che hanno impostato tutto il tragitto. Quelle prime elezioni, infatti, dettero vita all’Assemblea costituente: si tratta, a mio giudizio, del punto più elevato della storia repubblicana. I costituenti erano uomini e donne temprati da lotte durissime e divisi tra loro da rigide appartenenze ideologiche, eppure seppero raggiungere un meraviglioso compromesso: la nostra Carta costituzionale, entrata in vigore nel 1948. Nella Costituzione italiana si è trovato un punto di incontro tra il meglio delle culture espresse dai partiti di allora. E i padri e le madri costituenti ebbero anche l’umiltà di farsi aiutare da alcuni letterati per rendere gli articoli di quella Carta più armoniosi e comprensibili a tutti. Gherardo Colombo: Hanno ritenuto essenziale che la Costituzione venisse compresa da tutti, guardando anche ai tanti cittadini che, all’epoca, erano analfabeti. Che capissero almeno i principi fondamentali, che la Costituzione traduce poi negli articoli che riguardano diritti e doveri e in quelli che organizzano le istituzioni. Così hanno usato, per quanto fosse possibile, termini semplici; non hanno ecceduto nella lunghezza delle frasi; non hanno fatto sfoggio di retorica. Certo che non bastava, soprattutto allora, leggere (o farsi leggere) la Costituzione, tanto erano differenti quei principi dalla realtà concreta della vita. Liliana Segre: È per questo che oggi, dopo oltre settant’anni dall’entrata in vigore, consiglio ai ragazzi di rileggere, anche se sicuramente è già stata oggetto di approfondimento a lezione, proprio la prima parte della Costituzione, quella che contiene i fondamenti, per conto loro, senza mediazioni. Secondo me non si può non amare quel testo, al tempo stesso essenziale, potente e unificante. Gherardo Colombo: Purtroppo non è stato frequente che fosse materia di lezione, salvo (e non sempre) alle scuole elementari (oggi primarie), a un’età in cui è difficile acquisire una visione sistematica della Costituzione, riuscire a capire che si tratta di un insieme, di un tutt’uno, del punto di partenza da cui discende, se osservato, se applicato, la possibilità effettiva di vivere in armonia, senza che nessuno calpesti gli altri, li strumentalizzi, e senza che nessuno sia calpestato o strumentalizzato. Mentre la visione sistematica è necessaria per riuscire a capirla, la Costituzione. Mi auguro, e auguro a tutti noi, che grazie alla legge (20 agosto 2019, n. 92) che introduce l’insegnamento scolastico dell’educazione civica la situazione si modifichi profondamente, e i ragazzi di tutte le età possano prendere confidenza con la nostra prima legge, quella che contiene i principi inderogabili del vivere insieme. Lo dico nonostante che pensi che in un paese normale, intendo dire senza un debito così elevato verso il rispetto delle regole che dalla Costituzione discendono, non sarebbe necessario introdurre un’apposita disciplina, perché il rispetto dell’altro e l’esclusione della discriminazione dovrebbero derivare dall’attenta esposizione che se ne potrebbe fare nelle materie curricolari. Puoi immaginarti quanto si potrebbe trasmettere ai ragazzi in tema di giustizia illustrando loro I promessi sposi! Liliana Segre: Da parte mia invito costantemente i ragazzi a immaginare cosa rappresentarono quei pensieri, quei veri e propri comandamenti nella nostra Carta fondamentale che era stata appena approvata: libertà, uguaglianza, diritti, pari dignità, rispetto, solidarietà. Dopo quello che avevo visto e vissuto nei dieci anni precedenti, davvero avrei potuto dire de te fabula narratur: è di te che si parla in questa favola. Ma la Costituzione non parla soltanto di me, nel senso che se fosse esistita allora non mi sarebbe successo di subire tutto quel che ho subito. Nella Costituzione si parla anche di loro, dei ragazzi, e dei loro genitori, degli insegnanti, del mondo della scuola e anche di tutte le altre persone che vivono nella nostra comunità. Gherardo Colombo: Infatti, protagonista della Costituzione è ognuno di noi. Cresce la sfiducia verso chi dovrebbe guidarci di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 22 gennaio 2021 Tutte le emergenze si ammassano indistinte e irrisolte, e si registra un ulteriore passo avanti nell’unico distanziamento dannoso in tempi di pandemia: quello tra i rappresentati e i rappresentanti, tra i cittadini e gli eletti. Prendiamo Milano. Da domenica è in zona rossa ma il traffico, la gente per strada, i rumori non sono quelli di una città chiusa per virus. Come se le direttive stabilite da chi ha il diritto e soprattutto il dovere di imporle valessero molto meno di quando, per esempio a primavera, i lockdown erano una cosa seria e le città, non solo Milano, si svuotavano per davvero. La crisi di governo che stiamo attraversando è anche una crisi di credibilità, come se l’autorità avesse perso via via autorevolezza. E al di là degli esiti parlamentari di questo imbuto, dove tutte le emergenze del Paese sono precipitate e si ammassano indistinte e irrisolte, si registra con evidenza un ulteriore passo avanti nell’unico distanziamento dannoso in tempi di pandemia: quello tra i rappresentati e i rappresentanti, tra i cittadini e gli eletti, tra la politica e la società. Un distanziamento che riguarda la maggioranza, ormai variabile, ma anche l’opposizione, variamente urlante, con i banchi di Camera e Senato che diventano teatro di uno scontro verbale consumato in una lingua incomprensibile, in un momento inconcepibile, al cospetto e nel nome di un Paese che sta altrove, giustamente angosciato e pochissimo coinvolto. Dovremmo avere una certa dimestichezza con momenti del genere, una specie di immunità ereditaria, visto che la nostra Repubblica sembra instabile per costituzione (con la “c” minuscola): 66 governi in 75 anni, come hanno ricordato Milena Gabanelli e Simona Ravizza su questo giornale, radiografando il male oscuro di un sistema che invecchia senza maturare, afflitto da un’incapacità ormai cronica di darsi una visione e perseguirla nel tempo. Per ogni frattura si cerca un colpevole, e stavolta tocca a Renzi, come se eliminando il reprobo la convalescenza fosse garantita. L’ennesima rottamazione del capo di Italia viva, anche questa volta ai danni di un corpo di cui faceva parte, è però un sintomo, non la radice della malattia. “La democrazia è preziosa e fragile”, ha detto Joe Biden nel suo discorso di insediamento alla presidenza degli Stati Uniti. Ma gestire i disaccordi, senza ogni volta far saltare il banco, è una lezione che fatichiamo storicamente a imparare. C’è comunque una differenza sostanziale rispetto al passato, lontano o recentissimo: noi governati non siamo mai stati in condizioni più critiche, e cresce il rischio di una sfiducia più diffusa e più acuta verso chi dovrebbe guidarci fuori da una tempesta perfetta, dove il flagello del virus fa da detonatore a una sommatoria di questioni infiammabili, dal cui esito dipende il nostro futuro come nazione. L’Europa ci chiede, e in fretta a questo punto, un piano credibile per accedere da primi beneficiari (208 miliardi contro i 162 della Spagna o i 27 della Germania) ai fondi indispensabili per la ricostruzione post coronavirus, già per noi viziata in partenza dal peso di un debito pubblico in crescita insostenibile. La campagna dei vaccini procede ma si prevedono tempi lunghi, sia per difficoltà nella programmazione sia per la concorrenza non proprio leale di nazioni più ricche (d’altronde anche il neo assessore lombardo alla Sanità Letizia Moratti, che aveva proposto la precedenza alle regioni maggiormente produttive, salvo successiva smentita, non brillava per spirito di equità). Monta la rabbia sociale per la povertà crescente, l’insofferenza giovanile per la scuola forzatamente in assenza, lo sconforto di un ceto medio diventato improduttivo. Lo sconforto, ecco, è forse il sentimento nazionale più diffuso. Come quello, una voce tra milioni, di una quarantenne con due figli in coda per il pacco di cibo, chilometri di coda ogni giorno, a Milano, da Pane quotidiano: “Facevo le pulizie, con il Covid ho perso il lavoro. La crisi di governo? Per noi non cambia niente”. Per noi non cambia niente: cinque parole che dovrebbero dire tanto a protagonisti e comprimari del salto nel vuoto che si sta preparando. Aperta la crisi, il difficile sarà chiuderla, e come, con chi. Il tempo non ci aspetta, la Comunità Europea ancora meno. Sconvolto da più di 80 mila morti, impoverito dalla chiusura di oltre 70 mila imprese, terrorizzato dalla fine imminente del blocco dei licenziamenti, il famoso Paese reale non chiede miracoli ma almeno di capire che cosa succederà adesso. La brutta politica risponde imbucandosi in un gorgo di parole, di cui arrivano confusi echi, promesse su tutto e per tutti, bassezze indecenti (la peggiore su Liliana Segre), traffici nebbiosi per un voto in più (o uno in meno al nemico): una zuffa indecifrabile dalla quale emerge chiara soltanto la sensazione palpabile di un distacco aumentato dalle tante Italia in codice rosso. La democrazia ha un ampio perimetro ma confini netti. Può contenere gli opposti, a condizione che rispettino le linee di demarcazione fissate in maniera indelebile dalla nostra Carta costituzionale. Il governo denominato Conte I, quello con Cinque Stelle e Lega, qualche salto oltre la linea l’ha tentato, e per questo uno dei suoi leader è a processo (il capo d’accusa è sulla violazione dei diritti civili dei migranti, tema di nessuna attualità, specialmente in questa crisi). Il governo Conte II, con il Pd al posto della Lega, il più bello del mondo (sintesi sarcastica dell’ex premier Renzi), si è trovato a gestire una pandemia infernale, si è guadagnato il rispetto del mondo per l’argine che ha saputo opporre alla prima ondata, ma ha forse abbassato la guardia troppo presto. Il ragionevole sospetto è che sulla seconda ondata pesino anche le elezioni regionali di metà settembre: nessuno voleva intestarsi divieti che la gente, come l’estate allegra aveva dimostrato, mal sopportava o impunemente infrangeva. La destra spingeva per il “liberi tutti”, l’esecutivo non ha voluto regalare voti pesanti al campo avverso e silenziosamente si è accodato. Il conto, in termini di contagi e decessi, non abbiamo ancora finito di pagarlo. Assecondare gli umori della piazza, fomentarli come d’abitudine usano fare dovunque i sovranisti, è una scorciatoia che garantisce incassi nel breve ma sconquassi durevoli. Ricostruire una credibilità, anche ai tavoli internazionali, richiede fatica e cura; per distruggerla, invece, basta un po’ di propaganda, che è lo spaccio di finte verità, e dosi massicce di disinvoltura istituzionale. Mentre il premier Conte cerca una difficile sopravvivenza per il suo governo, con numeri però al momento ancora esigui per sostenere il peso di scelte strategiche, la buona politica, quella dell’avvicinamento ai bisogni dei cittadini e del distanziamento dagli sfascismi, fiorisce qua e là sui territori, ma fatica ad attecchire proprio là dove ce ne sarebbe più bisogno: Roma capitale, sede del Parlamento, la vera casa degli italiani. Per immaginare un’uscita sensata da questa crisi, si dovrebbe cominciare a trapiantarla a forza, questa buona politica. Un giardiniere ci sarebbe, il presidente Mattarella, ma bisogna sbrigarsi: dal 3 agosto, inizio del semestre bianco, si metterà in aspettativa. E come arriveremo al 3 agosto è una scommessa che gli allibratori nemmeno quoterebbero, tanto è incerta. Razzismo e antisemitismo. Dove corre la solidarietà di Lia Tagliacozzo Il Manifesto, 22 gennaio 2021 Lo zoom-bombing è un’aggressione vera e propria. Protagonisti sempre più spesso i gruppi dell’estrema destra. Ma via social si manifesta anche la resistenza. Siamo prossimi al giorno della memoria che ricorda la liberazione di Auschwitz. Una possibilità per ragionare sui collegamenti tra il fascismo di allora e le parole di odio di oggi. Sono state migliaia le manifestazioni di appoggio e di solidarietà che sono arrivate dopo il tentativo dei nazifascisti - di oltre una settimana fa - di interrompere via zoom la presentazione del mio libro La generazione del deserto. Un libro in cui si parla di storie e memorie della persecuzione antiebraica ed anche di cosa fare ora del nodo irrisolto della Shoah nella coscienza contemporanea, nella riflessione individuale e collettiva. Dopo l’attacco, intrusivo e violento, è stato importante vedere emergere il volto partecipe della società. Una solidarietà non solo personale ma anche civile e politica. Una solidarietà che ha visto il web e i social protagonisti ancora una volta. E non si è trattato solo di abbracci virtuali sulle bacheche personali e famigliari ma di una risposta, per lo più individuale, oltre le istituzioni e la politica. Un preside ha postato una foto mentre leggeva il libro e il commento: “Non vedo altra risposta alle miserie culturali” e adesso ha organizzato delle attività nella scuola di cui è dirigente. Fare un cenno ai contenuti degli altri messaggi rassicura sullo stato di salute della società civile: “Solidarietà e indignazione non bastano ma sono indispensabili”. “Qualsiasi persona che non si commuove e non si arrabbia è connivente!”. “Ignoranza e odio, mai arrendersi”, “No pasaran”, “Non ci sto”, “Vergogna”, “Mi riguarda”. In alcuni messaggi il collegamento con il passato è forte: “Noi siamo qui, stavolta”. Come a dire che “l’altra volta” - durante gli anni del fascismo, della democrazia conculcata, dei tribunali speciali, della guerra, delle persecuzioni dei diritti prima e delle vite poi - erano in tanti “a non esserci”. Certo, non sono mancati coloro che, dopo l’esordio “ho tanti amici ebrei”, hanno cercato di depotenziare il senso di quanto accaduto: eppure è stata un’incursione in stile squadrista adeguata ai nuovi mezzi e alle nuove tecnologie. Si sostiene, in quel caso, che tutto sommato non è stata una cosa così grave, eppure lo zoom-bombing è tutt’altro che una bravata condotta da ragazzini che non hanno nulla da fare. È dall’autunno scorso che si presenta piuttosto come la declinazione di un’intolleranza variamente articolata contro ebrei, immigrati, donne, omosessuali. Ma è accaduto anche all’open day via zoom di una scuola elementare con immagini pedo-pornografiche di fronte a genitori e bambini allibiti. Fino ad ora se ne è parlato poco e - a volte - le stesse vittime hanno evitato di darne notizia con l’intento di evitare gli emulatori. Eppure le iniziative colpite sono numerose: incontri di donne, il fronte degli immigrati e dell’assistenza, organizzazioni Lgbtq, incontri sulla Resistenza, solo per fare alcuni esempi. E riguarda eventi organizzati in tutta Italia: da Genova alla Val di Susa, da Perugia a Brescia. Ad occuparsi di zoom-bombing è la Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni di odio che, nella sua pagina Facebook, propone delle linee guida in dieci semplici punti che ha avuto migliaia di visualizzazioni: “aiutateci a fare rete contro l’odio e la violenza on line”. Il discorso d’odio è così diffuso, pervasivo ed elusivo che anche la definizione è complessa, a offrirne una è il Consiglio d’Europa che nel 1997 scrive: “deve essere inteso come l’insieme di tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, sviluppano o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo ed altre forme di odio basate sull’intolleranza”. Le modalità sembrano iniziare a delinearsi: “Abbiamo definito lo zoom-bombing come la nuova frontiera dell’odio in rete - spiega Federico Faloppa, linguista e coordinatore della Rete di contrasto che riunisce università, sindacati, associazioni, ong, giornalisti e ricercatori unitisi per monitorare e contrastare l’hate speech - è come un’aggressione vera e propria che tenta di silenziare l’altro non solo attraverso l’insulto al singolo ma che colpisce deliberatamente l’agorà, il confronto civile. L’obbiettivo è silenziare l’altro, colpire proprio il momento di confronto democratico, utilizzare l’aggressività per togliere spazio al confronto civile”. L’ipotesi che in buona parte dei casi queste azioni siano organizzate da militanti dell’estrema desta è una supposizione che ha riferimenti concreti. Il fatto - piccolo solo in apparenza - è che è possibile per gruppetti di sei o sette persone introdursi dentro incontri pubblici ed inneggiare al Duce o mostrare svastiche. E c’è addirittura chi lo rivendica - senza nemmeno rendersi conto del paradosso - in nome della libertà di parola. Eppure, come scriveva Alessandro Portelli su queste pagine (“Dentro il cuore di tenebra”, l’8 gennaio 2021 a proposito dell’assalto a Capitol Hill), liquidarli dicendo che sono solo bravate di un piccolo settore di estremisti è rischioso e autoassolutorio: “Parlare di bifolchi e di barbari serve solo ad esorcizzarli, allontanarli da noi, a rifugiarci nei pregiudizi (…) come se noi colti progressisti democratici non avessimo responsabilità per quello che è successo e se le pulsioni che si sono scatenate a Washington non attraversassero in altre forme tutta l’Europa”. Lo zoom-bombing degli anonimi fascio-imbecilli è piccola cosa a confronto purché non nasconda malcontento e malessere veicolato da parole di odio già legittimate nel linguaggio pubblico. Siamo in prossimità del 27 gennaio - il giorno della memoria in cui si ricorda la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz - sono venti anni dalla sua istituzione ma farne o meno un’occasione di retorica che si limita a replicare sé stessa sta solo in chi lo celebra. Ci sono molte altre possibilità di ragionamento e di collegamenti. Anche tra il fascismo di allora e le anonime parole di odio di oggi. Grazie a coloro che invece hanno scelto di metterci, insieme alla solidarietà, faccia e firma. Anche questo è il potere dei social. Armi nucleari. Oggi in vigore il Trattato Onu che proibisce le atomiche di Manlio Dinucci Il Manifesto, 22 gennaio 2021 L’Italia, con gli Usa e la Nato, non aderisce. Il governo Conte con Di Maio tace. Ad Aviano e Ghedi decine di bombe B61, presto sostituite dalle più micidiali B61-12. Oggi, 22 gennaio 2021, è il giorno che può passare alla storia come il tornante per liberare l’umanità da quelle armi che, per la prima volta, hanno la capacità di cancellare dalla faccia della Terra la specie umana e quasi ogni altra forma di vita. Entra infatti in vigore oggi il Trattato Onu sulla proibizione delle armi nucleari. Può essere però anche il giorno in cui entra in vigore un trattato destinato, come i tanti precedenti, a restare sulla carta. La possibilità di eliminare le armi nucleari dipende da tutti noi. Qual è la situazione dell’Italia e cosa dovremmo fare per contribuire all’obiettivo di un mondo libero dalle armi nucleari? L’Italia, paese formalmente non-nucleare, ha concesso da decenni il proprio territorio per lo schieramento di armi nucleari Usa: attualmente decine di bombe B61, che tra non molto saranno sostituite dalle più micidiali B61-12. Fa inoltre parte dei paesi che - documenta la Nato - “forniscono all’Alleanza aerei equipaggiati per trasportare bombe nucleari, su cui gli Stati uniti mantengono l’assoluto controllo, e personale addestrato a tale scopo”. Inoltre, vi è la possibilità che vengano installati sul nostro territorio i missili nucleari a raggio intermedio (analoghi agli euromissili degli anni Ottanta) che gli Usa stanno costruendo dopo aver stracciato il Trattato Inf che li proibiva. In tal modo l’Italia viola il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, ratificato nel 1975, che stabilisce: “Ciascuno degli Stati militarmente non nucleari, parte del Trattato, si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente”. Allo stesso tempo l’Italia ha rifiutato nel 2017 il Trattato Onu sulla abolizione delle armi nucleari - boicottato da tutti e trenta i paesi della Nato e dai 27 dell’Unione europea - il quale stabilisce: “Ciascuno Stato parte che abbia sul proprio territorio armi nucleari, possedute o controllate da un altro Stato, deve assicurare la rapida rimozione di tali armi”. L’Italia, sulla scia di Usa e Nato, si è opposta al Trattato fin dall’apertura dei negoziati, decisa dalla Assemblea generale nel 2016. Gli Stati uniti e le altre due potenze nucleari della Nato (Francia e Gran Bretagna), gli altri paesi dell’Alleanza e i suoi principali partner - Israele (unica potenza nucleare in Medioriente), Giappone, Australia, Ucraina - votarono contro. Espressero così parere contrario anche le altre potenze nucleari: Russia e Cina (astenutasi), India, Pakistan e Nord Corea. Facendo eco a Washington, il governo Gentiloni definì il futuro Trattato “un elemento fortemente divisivo che rischia di compromettere i nostri sforzi a favore del disarmo nucleare”. Il governo e il parlamento italiani sono quindi corresponsabili del fatto che il Trattato sull’abolizione delle armi nucleari - approvato a grande maggioranza dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2017 ed entrato in vigore avendo raggiunto le 50 ratifiche - è stato ratificato in Europa fino ad oggi solo da Austria, Irlanda, Santa Sede, Malta e San Marino: atto meritevole ma non sufficiente. Nel 2017, mentre l’Italia rifiutava il Trattato Onu sulla abolizione delle armi nucleari, oltre 240 parlamentari - in maggior parte del Pd e M5S, con in prima fila l’attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio - si impegnavano solennemente, firmando l’Appello Ican - l’organizzazione premio Nobel per la pace nel 2017 - a promuovere l’adesione dell’Italia al Trattato Onu. In tre anni non hanno mosso un dito in tale direzione. Dietro coperture demagogiche o apertamente il Trattato Onu sull’abolizione delle armi nucleari viene boicottato in parlamento, con qualche rara eccezione, dall’intero arco politico, concorde nel legare l’Italia alla sempre più pericolosa politica della Nato, ufficialmente “Alleanza nucleare”. Tutto questo va ricordato oggi, nella Giornata di azione globale indetta per l’entrata in vigore del Trattato Onu sulla proibizione delle atomiche, celebrata da attivisti dell’Ican e altri movimenti anti-nucleari con 160 eventi per gran parte in Europa e Nordamerica. Occorre trasformare la Giornata in mobilitazione permanente e crescente di un ampio fronte capace, in ciascun paese e a livello internazionale, di imporre le scelte politiche per realizzare l’obiettivo vitale del Trattato. Migranti. Le “riammissioni” in Slovenia sono illegittime. Condannato il Viminale di Leo Lancari Il Manifesto, 22 gennaio 2021 Sentenza del Tribunale di Roma. La decisione in seguito al ricorso presentato da un migrante pachistano. Per mesi i migranti che riuscivano ad attraversare il confine tra l’Italia e la Slovenia sono stati fermati dalle forze dell’ordine e rispediti indietro, senza dare seguito alle richieste di asilo presentate quasi sempre da chi era riuscito ad arrivare fino a quella frontiera al termine di un viaggio infernale. Impacchettati e riconsegnati alla polizia slovena che a sua volta li metteva nelle mani violente e crudeli dei poliziotti croati che dopo averli picchiati, a volte derubati e fatti inseguire dai cani lupo li rispedivano in Bosnia. Di fatto si tratta di respingimenti a catena e l’Italia, in barba al diritto internazionale, ne ha fatto un abbondante uso (852 persone riconsegnate alle autorità slovene nei primi 9 mesi del 2020, secondo i dati del ministero dell’Interno) basando la presunta legalità di questa pratica su un accordo bilaterale di riammissione siglato nel 1996 con la Slovenia, ma mai ratificato dal nostro parlamento. Una pratica che adesso dovrà essere interrotta. Accogliendo il ricorso presentato da un cittadino pachistano di 27 anni il tribunale di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione, ha infatti ordinato lo stop alle riammissioni informali e l’ingresso nel territorio italiano del ricorrente, condannando il ministero dell’Interno ad esaminare la sua richiesta di asilo e a pagare le spese del giudizio. Una vittoria per le avvocate Caterina Bove e Anna Brambilla che hanno assistito il giovane migrante, e per l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. “Se il governo decidesse di continuare con le riammissioni informali ci troveremmo davanti a una cosa eversiva”, ha commentato il vicepresidente dell’Asgi, Gianfranco Schiavone. Nessun commento, invece, da parte del Viminale all’ordinanza della giudice Silvia Albano. Il caso in questione nasce dal ricorso presentato dal giovane pachistano arrivato in Italia alla metà del mese di luglio del 2020 attraverso la rotta balcanica dopo essere fuggito dal proprio Paese per le persecuzioni subite a causa del suo orientamento sessuale. “Giunto in Italia aveva manifestato la volontà di proporre domanda di protezione internazionale”, si spiega nel ricorso, ma “nel giro di poche ore era sto respinto verso la Slovenia in assenza di alcun provvedimento, poi verso la Croazia e successivamente in Bosnia Erzegovina”. Subendo nel corso del viaggio, “violenza dalle autorità slovene e torture e trattamenti inumani dalle autorità croate” senza avere la possibilità di chiedere asilo. Rispondendo a un’interrogazione parlamentare presentata dal deputato di +Europa Riccardo Magi, a luglio dello scorso anno il ministero dell’Interno aveva giustificato tale pratica. “Le procedure informali di riammissione in Slovenia - era stata la risposta del Viminale - vengono applicate nei confronti dei migranti rintracciati a ridosso della linea confinaria italo-slovena, quando risulti la provenienza dal territorio sloveno”, pratica messa in atto “anche qualora sia manifestata l’intenzione di richiedere protezione internazionale”. Il tutto giustificato come applicazione di quanto previsto dall’accordo con la Slovenia. Nel ricorso si evidenzia come non essendo stata ratificato dal parlamento, il suddetto accordo “non può prevedere modifiche o deroghe alle leggi vigenti in Italia o alle norme dell’Unione europea o derivanti da fonti di diritto internazionale”. Tesi accolta dal tribunale. “La sentenza smentisce clamorosamente il Viminale e bolla come illegittima “sotto molteplici profili” la pratica dei respingimenti”, ha commentato Magi. “Adesso non ci sono più scuse”, ha detto invece il deputato di LeU Erasmo Palazzotto. “Con le riammissioni informali sul confine italo-sloveno, che si tramutano in respingimenti a catena fino alla Bosnia, il governo italiano sta violando contemporaneamente la legge italiana, la Costituzione, la Carta dei diritti fondamentali della Ue e perfino lo stesso accordo bilaterale”. Per il Pd, infine, “nessuna “prassi consolidata” può pregiudicare il diritto della persona a chiedere protezione internazionale”. Migranti. Asgi: “Dopo questa sentenza le riammissioni in Slovenia dovrebbero finire” di Giansandro Merli Il Manifesto, 22 gennaio 2021 Intervista ad Anna Brambilla, avvocata di Asgi che insieme alla collega Caterina Bove ha firmato il ricorso del singor Mahmood illegittimamente respinto dall’Italia alla Slovenia, spiega gli effetti dell’ordinanza del tribunale. Se il signor Mahmood potrà tornare in Italia, è merito della collaborazione tra l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e il Border Violence Monitoring (Bvm), un network di associazioni presente in tutti i paesi della rotta balcanica. Bvm raccoglie sistematicamente le storie delle persone in transito con lo scopo di monitorare dal basso violenze e abusi. Asgi si è occupata del ricorso, firmato dalle avvocate Caterina Bove e Anna Brambilla. “Stiamo valutando altri ricorsi”, afferma quest’ultima. Cosa cambia per i migranti che entrano dal confine sloveno? Non dovrebbero più essere riammessi. Per quanto sia specifica sul caso del signor Mahmood, l’ordinanza chiarisce che non si può applicare l’accordo di riammissione tra Italia e Slovenia ai richiedenti asilo, cioè a tutti coloro che dopo l’ingresso esprimono la volontà di richiedere protezione internazionale. In più, siccome è provato che dalla Slovenia si viene espulsi in Croazia e da lì in Bosnia, subendo violenze di varia natura, la riammissione espone a trattamenti inumani e degradanti. Per cui neanche i migranti economici possono essere mandati indietro. In caso contrario si violano la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 4) e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 3). Cosa succede adesso al signor Mahmood? Abbiamo notificato l’ordinanza del tribunale al ministero degli Interni e a quello degli Affari esteri e chiesto all’ambasciata italiana a Sarajevo il rilascio di un visto per consentire l’ingresso in Italia del ricorrente. A livello europeo ci sono sentenze analoghe? Ci sono state due sentenze del tribunale amministrativo sloveno che riconoscono l’illegittimità dei trasferimenti dalla Slovenia alla Croazia. Davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo sono pendenti diverse cause contro la Croazia per i respingimenti in Bosnia e Serbia. Recentemente ci sono state diverse pronunce di tribunali francesi contro le prassi al confine italo-francese, soprattutto quello di Ventimiglia. Sia rispetto alla detenzione dei migranti, sia considerando i confini interni all’Ue come fossero esterni. Negli ultimi cinque anni lo spazio di libertà e sicurezza di Schengen da un lato è andato riducendosi, ma dall’altro giudici e agenzie per i diritti fondamentali hanno iniziato a prestare attenzione a ciò che accade lungo i confini interni terrestri. State seguendo altri casi sulla rotta balcanica? Sì. Avremmo potuto presentare diversi ricorsi ma la procedura non è semplice. Per agire in Italia è necessario farsi rilasciare la procura, servono i documenti di identità in originale. Non è facile averli per persone che sono all’estero e in transito. Al momento stiamo valutando un altro ricorso per una persona che si trova in Serbia, dove è riparata perché le condizioni sono leggermente migliori che in Bosnia. Abbiamo anche fatto un intervento davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo in uno dei procedimenti contro la Croazia. Iran. Nasrin torna in carcere. La denuncia del marito: “Lì c’è odore di morte” di Simona Musco Il Dubbio, 22 gennaio 2021 La battaglia dell’avvocata iraniana per i diritti umani Sotoudeh. Torna in carcere Nasrin Sotoudeh, avvocato e difensore dei diritti umani in Iran, dopo il congedo medico concesso a inizio gennaio. L’attivista ha fatto ritorno nella prigione di Qarchak, dopo essere stata sottoposta, pochi giorni fa, ad angiografia cardiaca. A darne notizia è Reza Khandan, marito di Sotoudeh, che ha espresso preoccupazione per la salute della donna, ricordando le catastrofiche condizioni della prigione: la cella in cui si trova reclusa la moglie, infatti, sarebbe una stanza di dieci metri quadrati, senza finestre, con 12 letti. Secondo Khandan, nonostante il coronavirus, i prigionieri non riescono a mantenere la distanza di sicurezza. Ed è questo il motivo per cui Nasrin ha contratto il virus meno di tre settimane dopo essere stata trasferita a Qarchak. L’avvocata era stata arrestata il 14 giugno 2016 a casa sua e trasferita alla prigione di Evin, vedendosi infliggere, nel 2018, una condanna a 33 anni di prigione e 148 frustate con l’accusa di “propaganda sovversiva” per aver difeso alcune donne che avevano sfidato il divieto di non portare l’hijab (il tradizionale velo femminile obbligatorio nella Repubblica sciita) in pubblico. Sotoudeh, che assieme al marito è fra i principali attivisti iraniani per i diritti umani, si è sempre detta innocente, dicendo di aver soltanto manifestato pacificamente per i diritti delle donne e contro la pena di morte. “Nasrin è tornata in prigione - ha scritto Khandan sul suo profilo Facebook. Era angosciata qualche giorno fa all’ospedale Pars di Teheran. Purtroppo, le condizioni delle carceri in Iran sono terribili e i prigionieri che hanno problemi fisici e malattie tollerano condizioni più difficili. La prigione di Qarchak è un disastro per centinaia di donne prigioniere. La maggior parte delle stanze di Gharchak sono di 10 metri quadrati, compresa la stanza dove Nasrin e altri 40 prigionieri sono imprigionati in un salone chiamato “Counseling Hall 2”. Queste stanze della prigione definite “capanna” hanno 12 posti letto e mancano le finestre. Questa è la struttura progettata dai costruttori di questa prigione. L’orribile odore di questa prigione assomiglia al fetore dei cadaveri”. Prima di tornare in prigione, Nasrin ha voluto visitare il suo ufficio, nel quale non metteva piede da due anni e mezzo, per alcuni minuti. “L’Iran è un posto dove nessun tipo di critica al governo è concessa. Le carceri sono luoghi senza regole e anche gli adolescenti possono essere condannati a morte, in spregio a qualsiasi convenzione internazionale. E nessun giornale può raccontare quello che accade: l’unica tv è quella di Stato, che spesso manda in onda, prima dei processi, le false confessioni estorte ai prigionieri con la tortura”, ha dichiarato nei mesi scorsi Khandan al Dubbio, che ha anche sottolineato come le violazioni dei diritti umani, in Iran, siano diffuse e sistematiche ed avvengano per conto del governo. “Le libertà sociali e politiche sono molto limitate - ha spiegato. L’Iran è al primo posto nel mondo per numero di esecuzioni rispetto alla popolazione e la tortura (in particolare la fustigazione) viene applicata in forme legali, illegali e sistematiche. La libertà dei media è generalmente limitata. Le elezioni nel paese sono diventate un fenomeno senza senso. I diritti delle donne, delle minoranze etniche e religiose vengono ignorati e la discriminazione di genere dilaga. Le proteste pacifiche vengono generalmente represse. I cittadini possono essere condannati a cinque anni o più di carcere per aver usato internet”. Per Khandan, il sistema giudiziario iraniano non segue alcuna legge quando agisce contro l’opposizione. Agisce in conformità agli ordini impartiti dalle agenzie di sicurezza, tanto che i prigionieri politici risultano tra i cittadini più indifesi dell’Iran e vengono trattati dalle forze di sicurezza utilizzando come loro strumenti i giudici delle corti rivoluzionarie. “Mia moglie ha fatto uno sciopero della fame per dare voce ai prigionieri politici e penso che questa voce sia stata ascoltata dall’opinione pubblica mondiale - ha aggiunto. Quanta pressione possa esercitare l’opinione pubblica sul governo iraniano, poi, è un’altra questione. Ma almeno nel caso di mia moglie e di alcuni altri prigionieri politici e con doppia cittadinanza, questa pressione si è manifestata”.