Bei e ministero della Giustizia insieme per promuovere l’inclusione sociale dei detenuti di Cristina Barbetta Vita, 21 gennaio 2021 È la prima partnership in Ue tra la Banca europea per gli investimenti (Bei) e il ministero della Giustizia, finalizzata al sistema penitenziario. Mira a ridurre il tasso di recidiva degli ex detenuti e a garantire il loro reinserimento sociale e lavorativo, attraverso nuove soluzioni di finanziamento. È nata una partnership tra l’Unione Europea e il ministero della Giustizia italiano, per l’implementazione di modelli innovativi di finanziamenti, ai fini di contenere i tassi di recidiva degli ex detenuti e garantire il loro reinserimento nella società. Il focus del progetto è per ora limitato alla Lombardia, ma la cooperazione tra la Bei e l’amministrazione italiana fornirà un modello che potrà essere replicato su scala più ampia. L’Unione Europea darà consulenza al ministero della Giustizia sull’adozione di metodologie innovative di finanziamento e di approvvigionamento di servizi, come i social impact bond, per contribuire a ridurre il tasso di recidiva degli ex detenuti e garantire il loro reinserimento sociale e lavorativo. La consulenza sarà fornita attraverso il Polo europeo di consulenza sugli investimenti (European Investment Advisory Hub - Eiah), finanziato dal gruppo Banca europea per gli Investimenti e dalla Commissione europea, e gestito dalla Bei, il Polo europeo di consulenza sugli investimenti, che è una partnership tra il gruppo Banca europea per gli investimenti e la Commissione europea nell’ambito del Piano di investimenti per l’Europa, sosterrà il ministero nella sua missione di assicurare una transizione graduale dei detenuti nella società, attraverso modelli di finanziamento innovativi, come i social impact bond. Gli esperti della Bei collaboreranno con il ministero della Giustizia per eseguire uno studio di fattibilità sul lancio di un social impact bond e valutarne l’impatto sociale. Il commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni, ha dichiarato: “Il supporto e l’assistenza tecnica consentiranno al ministero della Giustizia di facilitare l’inclusione sociale dei detenuti, prima in Lombardia ma poi si auspica anche in altre regioni. Ciò sarà ottenuto attraverso nuove soluzioni di finanziamento come i contratti a impatto sociale, che non solo aiuteranno il reinserimento sociale ed economico dei detenuti, ma ridurranno anche i costi per la pubblica amministrazione”. I social impact bond, detti anche “pay for success bond”, sono obbligazioni con cui il settore pubblico raccoglie investimenti privati per pagare chi gli fornisce servizi di welfare. Si tratta di soluzioni di finanziamento innovative, orientate ai risultati: la remunerazione dipende dal raggiungimento di un determinato risultato sociale. Il rischio finanziario è condiviso tra pubblico e privato. “Siamo molto orgogliosi di condividere le nostre conoscenze in questo campo e di vedere che sempre più paesi dell’Ue mostrano interesse per tali modalità innovative di finanziamento di servizi sociali. Sostenere una crescita economica inclusiva che non lasci nessuno indietro è la via da seguire”, ha commentato il vicepresidente della Bei, Dario Scannapieco, responsabile delle operazioni della Bei in Italia. L’accordo Bei-ministero della Giustizia, raggiunto nell’ambito della Piattaforma consultiva per la contrattazione dei risultati sociali (Advisory Platform for Social Outcomes Contracting), strumento strategico e operativo per affrontare i problemi di inclusione sociale e contribuire al miglioramento del benessere dei cittadini europei, è stato firmato dal Dipartimento dei servizi di consulenza della Bei e dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. L’accordo è stato siglato nell’ambito del Piano di Investimenti per l’Europa, che consente alla Banca dell’Ue di sostenere progetti che presentano un particolare valore aggiunto per la loro natura o struttura. Come ha dichiarato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: “Questo tipo di contratti pongono l’Italia in prima linea nella politica sociale, poiché ci consentono di realizzare progetti innovativi condividendo il rischio con controparti private. In caso di successo, tale approccio innovativo potrebbe essere replicato per consentire alla pubblica amministrazione di adempiere meglio alla missione rieducativa del sistema penitenziario. Collaborare con partner qualificati, come la Bei, è fondamentale per contribuire a ridurre il tasso di recidiva degli ex detenuti, che oggi ha raggiunto circa il 68%, con un conseguente costo sociale di circa 130 milioni di euro all’anno. Sappiamo che migliorare la capacità dei detenuti di intraprendere una carriera dopo aver scontato la pena aumenta le loro possibilità di essere reinseriti nel tessuto sociale e lavorativo del Paese”. Il ministro ha concluso affermando: “Questa è una forma molto promettente di cooperazione pubblico-privato e siamo orgogliosi di poter contare sull’appoggio della Bei, che ringraziamo per il suo impegno”. Anche il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, si augura che questo progetto innovativo possa essere esteso ad altre regioni italiane: “Come responsabile del Dipartimento sono soddisfatto e onorato di questa partnership fra ministero della Giustizia e Bei finalizzata al sistema penitenziario, la prima in Europa. Ci auguriamo che porti a sviluppare un nuovo modello finanziario e organizzativo in grado di coinvolgere, in condivisione di rilevanti obiettivi sociali, capitali privati e fondi europei e che possa essere replicato, dopo la Lombardia, in altre regioni italiane già quest’anno”. I social impact bond finanzieranno azioni innovative che, da un lato, soddisfano la missione rieducativa della pena e, dall’altro, forniscono ai detenuti competenze trasversali e conoscenze specifiche che aumentano le loro possibilità di trovare un impiego dopo il rilascio. Inoltre è da considerare il beneficio economico conseguente all’inclusione lavorativa degli ex detenuti, che si traduce in una riduzione di costi per la pubblica amministrazione e in fonte di reddito per i beneficiari degli interventi. Le inconsistenti polemiche contro “Report” di Franco Insardà Il Dubbio, 21 gennaio 2021 “Il coraggio di Report di affrontare il carcere senza inutili dietrologie”. Così, in maniera quasi profetica, avevamo titolato l’articolo sulla trasmissione messa in onda da Rai3 lunedì scorso e dedicata al carcere. Eh sì, perché dopo tanti anni in cui questo giornale quotidianamente si interessa dell’universo penitenziario, ci siamo resi conto che gli argomenti trattati danno fastidio, ai più. Le nostre inchieste, le denunce e le storie hanno spesso sollevato polemiche, interrogazioni parlamentari e tenuto acceso un faro su tutto quello che succede all’interno delle carceri italiane: dal sovraffollamento alle precarie condizioni sanitarie, dalla limitazione dei diritti dei detenuti al difficile contesto nel quale operano gli agenti di Polizia penitenziaria. Per non parlare della difficoltà di applicare misure alternative e del “mistero” della fornitura di braccialetti elettronici. Il nostro faro, accesso quotidianamente, è importante, e ha spesso fatto in modo che se ne puntassero altri. Ma la potenza di una trasmissione Rai è enorme, ed ecco che quando Report ha messo in onda l’ottimo servizio di Bernardo Iovene, si è scatenato il putiferio. Passi per le reazioni social dei telespettatori, forse abituati a guardare Report per servizi più orientati a una visione general- preventiva sulla giustizia, e che hanno criticato la scelta della redazione guidata da Sigfrido Ranucci. Ma che un ex sottosegretario alla Giustizia, il leghista Jacopo Morrone, invochi l’intervento della commissione di Vigilanza, ci sembra esagerato. Chi ha visto l’inchiesta di Report, senza preconcetti ideologici, ha assistito alla narrazione di fatti, supportati da esposti e denunce, sui quali la magistratura sta indagando, tante interviste a familiari dei detenuti, ex reclusi, operatori penitenziari e altre persone alle quali sta a cuore che anche, e soprattutto, in carcere lo Stato di diritto abbia piena attuazione. Forse l’onorevole Morrone non ha avuto occasione di guardare il programma, altrimenti non avrebbe potuto dichiarare che si sarebbe trattato di un “messaggio fazioso, senza contraltare”. Né sostenere come “una trasmissione del servizio pubblico, che dovrebbe essere pluralista, non abbia dato spazio a una vera informazione, esaustiva e completa, ascoltando tutte le parti in causa”. Ci scusi, onorevole Morrone, ma come può sostenere che nell’inchiesta di Report non sono state ascoltate tutte le parti in causa? Ecco un breve elenco delle persone intervistate: Massimo Parisi, direttore del personale del Dap, Antonio Fullone, provveditore della Campania dell’Amministrazione penitenziaria, Marco Puglia, magistrato di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, Vincenzo Maria Irollo, direttore sanitario di Poggioreale, Adriana Pangia, presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia Penitenziaria) Emilio Fattorello, segretario nazionale sempre del Sappe, e ancora Gennarino De Fazio, segretario Uilpa Polizia Penitenziaria. Obiettivamente non ci sembra che Bernardo Iovene non abbia dato spazio a tutte le parti in causa. Forse il problema è che una volta tanto si sia parlato di carcere al di là dei soliti schemi ideologici, considerando i detenuti delle persone che stanno scontando una pena, e non come dei rifiuti della società da “chiudere dentro e buttare la chiave”. Morte in carcere: le domande sono più importanti delle risposte di Carmelo Musumeci osservatoriorepressione.info, 21 gennaio 2021 Penso che il senso di umanità e i diritti civili non si dovrebbero fermare davanti alle porte di un carcere. Un paio di giorni fa, nel programma di Rai 3 “Report”, si è parlato di carcere. La trasmissione, ovviamente, non ha potuto dare risposte, quelle aspettano alla magistratura, però credo abbia stimolato molte domande negli spettatori, anche a quelli che dicono: “Fateli marcire in galera/Sé la sono cercata/Ai morti chi ci pensa?/Ci dovevano pensare prima “ecc.. Speriamo che qualcuno di loro che ha visto la trasmissione si chieda come mai i detenuti imbottiti di metadone non siano stati soccorsi e portati all’ospedale, ma, invece, trasferiti in altri carceri e portati nelle celle di punizione. Non voglio e non posso scrivere dei pestaggi che, per pura sete di vendetta, a distanza di giorni dalle rivolte, hanno subito i detenuti, perché non sta a me parlarne. Certamente però devo dire che quelle vite potevano essere salvate. Penso anche che non sia tutta colpa della Polizia penitenziaria, anzi credo piuttosto che le colpe maggiori siano delle negligenze, delle omissioni e delle rigidità di alcuni politici e funzionari ministeriali, che hanno trasformato le carceri italiane in luoghi dove non solo si muore facilmente come in guerra, ma può accadere di tutto. Nei miei 27 anni di carcere ho girato una quarantina di istituti penitenziari e ne ho viste e sentite di tutti i colori. Per farvele conoscere un po’, come al solito vado a spulciare nel mio diario: “Continuiamo ad essere arrabbiati e preoccupati per le condizioni del nostro compagno in isolamento. C’è molta tensione fra noi e le guardie, queste ora sono molte più numerose degli altri giorni. Per far loro vedere che non ci impressioniamo, abbiamo formulato questo documento. I detenuti della prima sezione espongono quanto segue: premesso che in data 4/06/04 un nostro compagno, Roberto Nicolosi, è stato provocato ed aggredito da un brigadiere della Polizia penitenziaria; che il nuovo comandante del carcere, con un espediente, ha fatto uscire dalla cella il nostro compagno e con un agguato, vigliaccamente, l’ha fatto picchiare, a questo punto i detenuti attueranno una serie di pacifiche proteste Si precisa che il documento viene firmato solo dai detenuti forestieri, per tutelare i compagni locali da un’eventuale deportazione in continente”. Ho ricevuto una lettera da un amico in sezione: “Mi è difficile scriverti queste parole, lo è perché mi piange il cuore saperti alle celle. Già in noi abbiamo infinite sofferenze, se poi se ne aggiungono altre ci crolla il mondo addosso. Tu sai benissimo la stima, l’affetto il bene che ti voglio e mi dispiace, mi addolora che tu paghi sempre le conseguenze per tanti. Avrei voluto intervenire per difenderti, ma le guardie erano troppe e le avrei buscate anch’io”. Gli ho risposto: “Caro Franco, le tue parole mi hanno fatto particolarmente piacere e mi ha fatto tenerezza che ti preoccupi per me. Per molti e per te la prigione è solo un episodio nella vita, prima o poi uscirete, ma per me è diverso, ho buone provabilità di non uscire più… e quindi mi prendo la libertà di essere libero… Non ti preoccupare per me, sono abituato alle punizioni e a prendere le botte dalle guardie. Nella vita, prima d’imparare a darle, bisogna imparare a ricevere i colpi, ad incassare e a fare in modo che le botte guariscano prima possibile ed io su questo sono un maestro. Grazie della tua amicizia”. “In sezione continua ad esserci molta tensione fra noi e le guardie, non abbiamo notizie del nostro compagno… Io fra l’altro ho inviato un esposto in Procura… Ho fatto tutto quello che mi era possibile per tutelare il mio compagno e gli ho anche inviato una lettera ed una cartolina per stargli affettuosamente vicino, spero che gliele diano…”. Nuove carceri? Purché si capisca che la reclusione dev’essere l’extrema ratio di Osservatorio Carcere Ucpi Il Dubbio, 21 gennaio 2021 Era il 1948, quando i padri costituenti scrissero nella nostra Carta che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una frase chiara che non si presta a pluralità di interpretazioni. Innanzitutto la potestà punitiva dello Stato va esercitata con modalità diverse, di cui il carcere rappresenta la più grave, ma non l’unica. Si ha, dunque, “certezza della pena” anche scontando altre sanzioni. Le stesse “misure alternative” lo sono. Esse, infatti, contribuiscono a scontare la pena. Il trattamento riservato al condannato deve rispettare la sua dignità, mirando al suo recupero sociale. Il luogo dove va scontata la pena, dunque, non deve apportare ulteriori ed ingiustificate sofferenze ed umiliazioni, oltre alla già afflittiva perdita della libertà, e deve essere attrezzato per “rieducare” la persona. Nel 1975, la declinazione di tali principi ha trovato concreta attuazione con l’entrata in vigore dell’Ordinamento Penitenziario, il cui articolo 1 sancisce che “il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Il sistema penitenziario è riuscito solo in poche occasioni a rispettare tali imperativi costituzionali e normativi e, nonostante i tanti anni trascorsi, i luoghi di detenzione hanno costituito una spina nel fianco del nostro Stato di Diritto, che nessuno è riuscito a estirpare, nonostante la sottoscrizione di trattati internazionali, raccomandazioni e condanne provenienti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La notizia che il ministro della Giustizia, il 12 gennaio scorso, ha istituito la “Commissione per l’architettura penitenziaria” potrebbe essere ritenuta positiva, solo ove fosse accompagnata da altre da tempo attese e se non fosse da inquadrare nei lavori “a perdere” di tante altre Commissioni. Per restare in materia - ma gli esempi potrebbero essere molti - basti pensare alla recente Commissione presieduta dal professor Glauco Giostra, i cui lavori furono, in gran parte, cestinati anche dall’attuale ministro della Giustizia. La Commissione si occupò, tra l’altro, proprio dello “spazio della pena” e della “vita detentiva”, in ossequio ai criteri fissati dalla Legge Delega del 23 giugno 2017. Non a caso, tra i componenti della Commissione vi era il professore Luca Zevi, architetto e urbanista, oggi chiamato a presiedere la neo-commissione istituita dal ministro Bonafede. Tra i componenti la Commissione vi erano anche avvocati dell’Unione delle Camere Penali e possiamo affermare che si discusse a lungo di architettura penitenziaria. Tema poi abbandonato in sede di stesura degli schemi di decreto, per volere di una politica non interessata - nonostante l’espressa delega del Parlamento al governo - a migliorare gli spazi e la vita all’interno degli istituti di pena, in nome anche di quel diritto all’affettività, previsto ma da sempre negato. Lo stesso Luca Zevi, prima ancora, nel 2015, era stato il Coordinatore del Tavolo N. 1 degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale che aveva ad oggetto lo “spazio della pena: architettura e carcere”. Stati Generali e Tavoli previsti dai Decreti Ministeriali dell’8 maggio e del 9 giugno 2015. Inoltre si è più volte espresso sulla realizzazione del carcere di Nola, indicato nel bando ministeriale del 2017, i cui lavori, si badi, non sono ancora iniziati. Di tempo ne è passato. La presidenza della Commissione affidata al professore Luca Zevi, dunque, può essere certo una garanzia per le sue specifiche conoscenze e per la sua idea di detenzione, che vede il carcere come una struttura “in cui il detenuto può stare 12 ore al giorno lontano dalla cella, in modo da impegnare la giornata svolgendo attività lavorative, sociali, sportive e avere una camera di pernottamento, possibilmente individuale, dove dormire”. In concreto l’applicazione dei principi costituzionali e delle norme dell’ordinamento penitenziario. La presenza in Commissione di altre rilevanti figure, quali il professore Mauro Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, di 2 magistrati di Sorveglianza, di altri 5 architetti, tra cui Maria Rosaria Santangelo e Cesare Burdese, che si sono occupati in passato di interventi negli istituti di pena, di Gherardo Colombo, Presidente della Cassa delle Ammende, componente all’epoca della Commissione Giostra e che, anche con recenti pubblicazioni, ha evidenziato la necessità di rispettare il principio costituzionale di “rieducazione” del condannato, di Gemma Tuccillo, Capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, che crede nell’importanza delle misure alternative, può ulteriormente rassicurare sulla qualità dei lavori che si andranno ad intraprendere. Certo la composizione della Commissione (6 architetti, 4 amministrazione penitenziaria, 2 magistrati di sorveglianza, 1 cassa ammende, 1 garante detenuti), lascia fuori molte figure rilevanti che avrebbero potuto contribuire in maniera significativa ai lavori. Basti pensare al mondo degli educatori, dei volontari, del personale medico, dei sociologi, degli insegnanti, che lavorano quotidianamente in carcere e degli stessi avvocati. Va detto che il decreto prevede l’acquisizione di contributi e relazioni di esperti del sistema penitenziario, anche con specifiche audizioni. Non è, dunque, la composizione della Commissione che preoccupa. Anzi un numero ridotto di persone, peraltro qualificate, può garantire un lavoro più efficace. I dubbi nascono dai consueti preamboli di questi decreti, spesso “parole al vento”, per le quali andrebbero presi ben altri provvedimenti, senza necessità di alcuna Commissione. Leggere queste frasi: “Ritenuto che la progettazione di un format costruttivo e logistico sia necessario per orientare le future scelte in materia di edilizia penitenziaria, per potenziare l’offerta trattamentale in chiave moderna, distante da connotazioni esclusivamente afflittive e contenitive... secondo un approccio multidisciplinare, culturalmente adeguato alla cornice costituzionale e alle indicazioni della Cedu e del Consiglio d’Europa relative alla vivibilità dell’ambiente detentivo e alla qualità del trattamento”, lascia sgomenti, se si pensa alle scelte politiche fatte sino ad ora in tema di detenzione, di fatto contrarie a quanto l’Europa con innumerevoli condanne e indicazioni ci ha chiesto. Dopo tali condanne, abbiamo avuto gli Stati Generali, la legge Delega, le Commissioni ministeriali, ma quasi nulla è mutato. Anzi mentre ci venivano chieste più misure alternative, si è ritenuto - nonostante una Riforma già pronta - di non rispettare tale indicazione, in nome di “una certezza della pena” sbandierata da parte di chi ignora del tutto i principi del nostro sistema penale. E dunque! Si ricomincia con un’ennesima Commissione che dovrà indicare un “format costruttivo” entro il 30 giugno 2021. Dopo tale data i lavori saranno esaminati dal ministero che dovrà, concretizzare gli interventi sugli immobili esistenti e avviare la costruzione di nuovi istituti. Su quelli esistenti il margine d’intervento è ridottissimo, per quelli nuovi i tempi di realizzazione - tra individuazione delle aree, bandi, progetti, aggiudicazioni, stanziamento delle somme necessarie, esecuzione lavori - saranno biblici, come il recente esempio dell’annunciato e mai iniziato carcere di Nola. Per rispettare davvero i principi della nostra Costituzione, le norme dell’Ordinamento Penitenziario, le innumerevoli raccomandazioni dell’Europa, sarà certo utile il lavoro della Commissione per migliorare il migliorabile e per la costruzione di nuovi istituti in sostituzione di quelli oggi fatiscenti e irrecuperabili. Ma non va aumentata la capacità ricettiva delle carceri - che devono rimanere luogo di pena solo in casi gravi - né si può pensare a nuovi edifici con 1200 detenuti (come previsto per Nola) in quanto l’aspetto trattamentale ne sarebbe inevitabilmente penalizzato. È alle misure alternative che bisogna guardare, per diminuire il sovraffollamento ed evitare che i condannati tornino a delinquere. Questa a nostro avviso la traccia da seguire per non imboccare l’ennesimo vicolo cieco, che aumenterà il buio in cui da tempo vive la nostra Costituzione. Al professore Luca Zevi e a tutta la Commissione gli auguri di buon lavoro. Ogni giorno tre innocenti finiscono in cella di Claudia Osmetti Libero, 21 gennaio 2021 In dodici mesi mille casi conclamati di carcerazioni illegittime. Lo Stato ha sborsato 45 milioni in indennizzi. Giustizia che sbaglia, giustizia che paga. Nel 2019 (ultimo dato disponibile) i casi accertati di ingiusta detenzione nel nostro Paese sono stati mille: numero tondo e in linea, purtroppo, con la media degli ultimi anni (che si assesta a 1.025). Dietro alla cifra ci sono un migliaio di storie, di uomini e donne innocenti finiti, loro malgrado, in un vortice di tribunali, avvocati e scartoffie alla bisogna. Quando va bene. Però c’è una novità perché, rispetto ai dodici mesi del 2018, gli errori giudiziari sono in aumento di 105 unità e, soprattutto, cresce la spesa (di un significativo 33%) per i rispettivi risarcimenti. Gli indennizzi, cioè, sfiorano i 45 milioni di curo (44.894.510,30 curo, per essere precisi al centesimo). A snocciolare le statistiche, per primo, è il quotidiano Il Dubbio, che riporta un report del sito Errori Giudiziari, un portale che (basterebbe il nome) di questo si occupa: di ricordarci quanto corti e magistratura non siano infallibili come, invece, certi manettari della prima ora ci vorrebbero far credere. Ma andiamo più nei dettagli. La (triste) classifica delle città in cui i tribunali sbagliano di più vede Napoli al primo posto, con 129 errori giudiziari. Seguita da Reggio Calabria (120), Roma (105) e Catanzaro (84). Con la premessa che non è una questione geografica (un provvedimento sbagliato o affrettato lo è a qualsiasi latitudine), per trovare un tribunale del Nord bisogna scendere all’ottava posizione (Milano, 42 casi) e alla nona (Venezia, altrettanti). Per il resto si tratta, in buona misura, di fori del Meridione. E la stessa solfa vale se ci concentriamo sugli esborsi maggiori: a guidare la “top ten” dei risarcimenti c’è Reggio Calabria che, solo nel 2019, ha speso quasi dieci milioni (9.836.865) di euro per mettere una pezza sui pronunciamenti errati. Poi vengono Roma (con un portafoglio dimezzato, 4.897.010 euro), Catanzaro (4.458.727 euro) e Catania (3.576.2(33 curo). Certo, si dirà: le città più popolose sono anche quelle che celebrano più processi, i tribunali di provincia non sono così congestionati, ed è logico che gli errori si concentrino laddove si sentenzia di più, Vero. Ma non è questo il punto. Il punto è che dal 1992 (anno in cui i registri del ministero dell’Economia iniziano a contabilizzare le riparazioni in questione) fino alla fine del 2019, i cittadini ingiustamente finiti in custodia cautelare sono la bellezza di 28.702 e si sono portati a casa una cifra (sacrosanta) di risarcimenti che ammonta a qualcosa come 757 milioni di curo: 27 milioni all’anno, nel 2019 quasi il doppio. Alla faccia di chi si spella le mani a ripetere, come un mantra consumato, che la giustizia nostrana è perfettamente rodata. Vero niente, ché c’è sempre qualcuno che paga. Gli innocenti al gabbio, per primi. Con tutto quel che ne consegue, comprese le difficoltà di tornare a una vita normale quando termina l’incubo. E poi tutti noi (ossia i contribuenti) perché i risarcimenti per ingiusta detenzione li copre il bilancio statale che si finanzia con le nostre tasse. Le vittime di ingiusta detenzione sono un comparto molto ampio perché riguarda coloro a cui viene imposta una misura di custodia cautelare in prigione o di arresti domiciliari all’interno di un procedimento dal quale, però, risultano poi assolti. Cosa diversa sono gli errori in corso di giudizio, che invece si riferiscono alle persone condannate in un processo che, in seguito a una revisione, viene ribaltato. E poi c’è la legge Pinto, che riconosce a tutti coloro che si sono trovati stritolati in un processo infinito (la cosiddetta giustizia lumaca) di chiedere una riparazione del danno. Tutto questo per dire che i 44 milioni messi sul banco Fanno scorso, a un’occhiata attenta e puntuale delle carte, sono solo una parte degli esborsi statali per far fronte agli inghippi della malagiustizia. Il governo e il nodo giustizia: la sfida dei numeri nelle commissioni blocca le riforme di Liana Milella La Repubblica, 21 gennaio 2021 Alla Camera a rischio la prescrizione, ma anche il riordino del Csm e del processo penale. Al Senato tensione sui giudici onorari. Perantoni, M5S: “Senza le riforme si blocca il Recovery Plan”. Costa, Azione: “Nel Milleproroghe la sfida della prescrizione”. Cucca, Iv: “Stavolta o mai più assumere duemila magistrati”. Grasso, Leu: “La vera minaccia saranno le astensioni”. Anche sulla giustizia la scommessa del governo Conte e del Guardasigilli Alfonso Bonafede si gioca sui “responsabili” o “costruttori” che siano. Senza di loro, su cui poter contare, nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato si decreterà la fine delle riforme di Bonafede. L’opposizione è agguerrita, pronta a sfruttare ogni più piccola défaillance. Italia viva gioca la sua partita più dura, a cominciare dalla prossima settimana quando, in aula, voterà no alla relazione sullo stato della giustizia di Bonafede. Ma non basta. Perché sarà nelle due commissioni Giustizia di Camera e Senato che la battaglia sarà durissima. E in cui ha già detto di voler giocare un ruolo Enrico Costa di Azione, l’ex Forza Italia che dopo 20 anni di Parlamento usa con abilità ogni strumento consentito. La riforma della prescrizione è il primo obiettivo, e Costa già pensa di sfruttare il decreto Milleproroghe per un primo assalto. Il primo ostacolo è nei numeri. Sia alla Camera che al Senato la maggioranza non lì ha dalla sua parte. A Montecitorio, in commissione Giustizia, il governo può contare su 22 voti solo se si schiera anche il presidente della commissione Mario Perantoni di M5S. Si arriva a 23 se aderisce Piera Aiello, pentita di mafia ed ex M5S. Che però a Repubblica dice: “Sono uno spirito libero, non accetto ordini di scuderia, per questo sono nel gruppo Misto. Ho votato la fiducia a Conte perché questo non è il momento per andare alle elezioni, non sarebbe corretto farlo nel rispetto di quelli che soffrono e dei morti che ci sono stati. Qui c’è di mezzo la vita dei cittadini. Io non so nemmeno se mi ricandido, ma voterò solo quello che ritengo opportuno, ho ingoiato troppi rospi, e non voterò quello che ritengo sbagliato”. Finora, almeno in commissione, non sono giunte notizie di migrazioni verso la maggioranza di Conte. Ma il primo febbraio è dietro l’angolo. E quella data è perfino più importante del voto di mercoledì 27 gennaio su Bonafede e sulla sua relazione in aula sullo stato della giustizia. Perché il primo febbraio in commissione scadranno gli emendamenti sulla riforma del processo penale, che contiene anche la nuova norma sulla prescrizione, e che Italia viva, già a febbraio dell’anno scorso, quindi in era pre Covid, aveva trasformato in un nemico da abbattere. Tant’è che fu lanciato il lodo Annibali, far slittare nel tempo, un anno in più in avanti, l’entrata in vigore della prescrizione di Bonafede (i cui tempi sono bloccati dopo la sentenza di primo grado, a patto che sia di condanna). Quello scontro si ripropone pari pari oggi. E potrebbe essere anticipato da una mossa di Costa che potrebbe sfruttare il contenitore del Milleproroghe, com’è già avvenuto in passato, per rinviare sine die la prescrizione. Sicuramente, a oggi, questa è una prospettiva su cui Costa sta lavorando e che potrebbe riservare delle sorprese proprio per via dei numeri non più favorevoli alla maggioranza di governo. La separazione delle carriere - Allo stesso modo grane potrebbero giungere sempre alla maggioranza dal provvedimento sulla separazione delle carriere, che si trova nella commissione Affari costituzionali, dove i numeri non sono affatto messi meglio rispetto a quelli della commissione Giustizia. Una legge di iniziativa popolare, che prevede la divisione delle strade tra giudici e pubblici ministeri, portata avanti dalle Camere penali di Giandomenico Caiazza, in liason con Matteo Renzi, ha trovato il consenso di Forza Italia. Come dice l’onorevole Francesco Paolo Sisto, oggi responsabile giustizia, “con i numeri difficili che ha, la maggioranza può andare sotto su tutto”. La scommessa di Perantoni - Ma il presidente della commissione Perantoni ha in mente uno schema che potrebbe scompaginare i programmi. Una sorta di mossa del cavallo. Il suo obiettivo è lavorare su temi di strettissima attualità, come può essere il Recovery plan per la parte della giustizia. Che ovviamente non ammette rinvii. Parliamo di un investimento che, secondo le cifre fornite da Gnewsonline, sito ufficiale di via Arenula dove si trovano le novità del governo per la giustizia, dovrebbe arrivare a circa 3 miliardi di euro. In questa logica, secondo Perantoni, se “le riforme della giustizia in corso di discussione in Parlamento - processo civile e penale, Csm e ordinamento giudiziario - sono parte integrante del Piano nazionale di resilienza e ripresa, sarebbe un gravissimo errore ostacolarle”. A questo punto potrebbero fare un passo indietro la riforma del processo penale e anche lo scontro sulla prescrizione. Italia viva al Senato - A palazzo Madama i numeri della commissione Giustizia - 13 per l’opposizione, 12 per la maggioranza - sono ben peggiori di quelli della Camera. Basta guardarli. Con l’ex M5S Mario Michele Giarrusso e Giuseppe Cucca di Italia viva l’opposizione è libera di agire. Altrettanto lo è Italia viva. Siamo 13 a 12. Come dice Piero Grasso di Leu “certamente bisognerà vedere come si comporteranno in commissione giustizia i senatori di Italia Viva perché molti disegni di legge sono assegnati a loro”. L’avvocato di Nuoro, Cucca, renziano, chiede “un confronto serio”, anche se chiarisce che “non c’è alcuna volontà di andare con il lanciafiamme”. Ma non nasconde la delusione per l’ultima versione del Recovery plan perché “potendo usare fondi di importi rilevanti sarebbe la volta per mettere mano alla sistemazione dell’organico in magistratura”, per esempio “assumere duemila toghe, anziché fare i mini concorsi da 300 magistrati alla volta”. Ma anche la proposta di legge sulla magistratura onoraria - che peraltro il Dem Franco Mirabelli vuole trasformare in un decreto legge - non soddisfa Cucca che, per i nuovi giudici, vorrebbe soluzioni più stabili. Mentre il capogruppo Dem Franco Mirabelli punta a trasformare in decreto il testo elaborato finora dalla commissione Giustizia del Senato. Immobilismo, giustizialismo. Le ragioni per liberarsi del ministro Bonafede di Claudio Cerasa Il Foglio, 21 gennaio 2021 Una delle condizioni affinché l’Italia possa ricevere nei prossimi anni gli oltre 200 miliardi di euro previsti dal Recovery fund è realizzare le riforme che l’Unione europea ci chiede (invano) da tempo. Fra queste, una delle più importanti è la riduzione dei tempi della giustizia civile e penale. L’ultimo rapporto della Commissione europea ha confermato che la nostra giustizia è la più lenta d’Europa per la durata media dei contenziosi civili e commerciali: per arrivare a una sentenza definitiva occorrono in media oltre sette anni, il doppio dei tempi della Francia, cinque volte quelli della Germania. L’impatto economico è devastante: secondo uno studio realizzato nel 2017 da Cer-Eures per Confesercenti, lentezze e inefficienze della giustizia civile ci costano 2,5 punti di pil, pari a circa 40 miliardi di euro. Persino peggiore è il quadro della giustizia penale: il biglietto da visita dell’Italia a Bruxelles rischia di essere la vicenda di Calogero Mannino, assolto da tutte le accuse dopo trent’anni di processi (per citare solo il caso più recente). Per provare ad accogliere le raccomandazioni Ue, la bozza di Recovery plan predisposta dal governo italiano dedica grande attenzione proprio alla giustizia, promettendo una riduzione della durata dei processi civili e penali, digitalizzazione del sistema, investimenti e riforme dell’ordinamento giudiziario, del processo penale e di quello civile. Gli auspici sembrano andare nella giusta direzione. Il problema è che a trasformare i buoni auspici in riforme concrete dovrebbe essere l’attuale Guardasigilli Alfonso Bonafede, vale a dire uno dei responsabili dell’immobilismo della giustizia, passato alla storia per aver promesso di riformare il processo civile e penale entro giugno 2019, cioè un anno e mezzo fa (delle riforme non si sono più avute notizie), e per aver abolito la prescrizione dopo le sentenze di primo grado, introducendo di fatto il processo eterno. Insomma, per cambiare (e salvare) la giustizia il primo passo da compiere sarebbe cambiare ministro. Giustizia, subito sul tavolo il diritto della pandemia di Vincenzo Maria Siniscalchi Il Mattino, 21 gennaio 2021 Una volta questo era il tempo del lavoro delle magistrature della Suprema Corte e di quelle delle Corti di Appello del Paese, con il concorso del Csm, dei vertici delle rappresentanze della Avvocatura ed anche del Ministero della Giustizia; tutti si preparavano alle inaugurazioni dell’Anno Giudiziario. “Era il tempo”, dico perché ritengo che soprattutto nelle Corti di Appello, complesse e lunghe cerimonie non ve ne potranno essere. Le stesse ragioni della chi usura al pubblico dei teatri, valgono con la riserva delle rappresentazioni in “streaming” o comunque senza pubblico in mascherina e nemmeno “distanziato”. L’interdetto, peraltro, è già stato pronunciato dal Covid 19 che non conosce privilegi di sorta da osservare e ancora dilaga. Né conosce, il Covid 19, ostacoli che ne comprimano in qualche modo la funesta e malvagia diffusione. È una rinuncia che non costerà molto in termini di superamento delle rappresentazioni da tempi andati, dei picchetti di onore, delle assemblee di porpore, ermellini e toghe; il profilo prevalentemente “scenico” ha subito già critiche e contestazioni per il suo carattere legato a cerimoniali piuttosto obsoleti. E tuttavia questa emergenza allucinante che ha percorso da Wuhan a ritroso il viaggio di Marco Polo promuoverà certamente necessità di sintesi rispetto alle cerimonie alle quali eravamo abituati e che già avevano guadagnato negli ultimi anni spazi di maggiore sobrietà. La inaugurazione dell’Anno Giudiziario, come pare, vi sarà ma relazioni, e comunicazioni delle sole autorità istituzionali verranno contenute in un’ora e trenta con partecipazione a distanza. Eppure, dobbiamo pensare, in quelle modalità ristrette e di stretta osservanza cibernetica, in ogni caso occorrerà pur fare un primo bilancio dei guasti provocati anche all’intero sistema giustizia dalla pandemia. La giustizia penale, in particolare, pare aver subito un vero e proprio “colpo di grazia” che ci allontana da quegli annunzi di pseudo riforma che non andranno oltre la stravagante e con ogni probabilità incombente incostituzionalità della cosiddetta “riforma” della prescrizione. Emerge, a questo punto, come avevamo previsto da queste colonne, la necessità di sollecitare dal Parlamento riforme più urgenti alle quali ci chiama il “diritto della pandemia” dovendosi in qualche modo venire fuori dalla legiferazione per decreti di mera valenza amministrativa. Sostiene con la consueta lucidità Nello Rossi, direttore di “Questione giustizia” che emergono quotidianamente problemi indotti dalla “pandemia”, sicché occorrono risposte ad interrogativi pressanti, come ad esempio: “chi decide le priorità di accesso ai vaccini e con quali strumenti?”. Urge un intervento del Parlamento ed una legge è fondamentale per scelte che possono essere anche tragiche in un clima di aumento dei contagi come l’attuale. È la legge, in altri termini, che deve stabilire il coordinamento dell’azione delle diverse istituzioni che intervengono nella effettuazione della vaccinazione ma anche ricordare a tutte le sovrastrutture in forma di “comitati tecnici” e simili organismi di sapienti consultori, che nuove responsabilità penali si profilano nel “diritto della pandemia”. Sulle colonne de “Il Mattino” già nel corso dell’estate scorsa avevamo richiamato il principio di causalità colposa che regola la materia epidemica nella sua diffusibilità con eventuali colpe umane che pur possono essere a base di condotte perseguibili ad esempio per una diffusione incontrollata della pandemia o nel ritardo delle vaccinazioni. Ora si tratta di chiarire con urgenza (per non ridurre la “inaugurazione dell’anno giudiziario” ad un mero atto simbolico) quali sono le autorità e gli strumenti regolatori che decidono ad esempio le allocazioni delle risorse vaccinali senza incorrere in condotte (come ritardi, errori o incapacità di controlli) da cui possono dipendere la vita o la morte di tanti. Gli interrogativi fondamentali, del resto, si sono posti dal rilevante atto indicato come “Piano strategico per la vaccinazione anti Covid-19 presentato al Parlamento il 2 dicembre 2020 e redatto dai seguenti soggetti istituzionali: Ministero Salute, Commissario straordinario per l’emergenza epidemiologica presso la Presidenza del Consiglio, l’Istituto Superiore di Sanità. È in questo documento che potrebbero individuarsi condotte causative di reati di natura colposa. Il richiamo ad un “diritto della pandemia” è stato da tempo avvertito negli studi che sono apparsi in pubblicazioni su riviste curate da magistrati e da giuristi. Proprio questi studi pongono anche una priorità che riguardala organizzazione giudiziaria. Si tratta, cioè, della creazione nelle più grandi Procure, di nuclei di magistrati che possono vigilare in mani era coordinata ed approfondita sulle condotte collettive o individuali che operano nel campo della pandemia ed allontanare gli “sciacallaggi” non soltanto criminali. I gruppi coordinati con specifici compiti di analisi e di controllo hanno avuto esiti positivi in settori diversi da quelli sanitari con una ristrutturazione, ad esempio, operata dalla Procura della Repubblica di Napoli. I dibattiti sulle obbligatorietà o meno della vaccinazione anti-covid non gravitano nelle attività di controllo legale delle quali stiamo facendo cenno. E tuttavia un assetto legale-che non risolve solo un problema organizzativo ma tende ad una disciplina normativa cui è preposto il Parlamento - va pur tentato in questa non facile fase di distribuzione del vaccino secondo priorità accettabili. Vaccinarsi è un diritto del cittadino presidiato dalla tutela costituzionale dell’art. 32 Cost. (di cui si fa giustamente menzione anche per la doverosa estensione alla popolazione carceraria). Eppure la garanzia fondamentale dei cittadini non può ritenersi risolta dal mero rinvio alla natura di “atto amministrativo” del Piano strategico anti-covid essendo di tutta evidenza che la tutela costituzionale della salute è presidiata da tutto il complesso di norme codicistiche che attengono ad una materia così complessa. Ciò non significa che si chiede un sistema normativo di assoluto rigore ma che esprima i controlli di legalità che non si possono risolvere solo con normative di diritto amministrativo. Tornando alla pur ridimensionata inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 l’auspicio è che l’Autorità Giudiziaria a tutti i livelli solleciti il Governo, in particolare in persona del Ministro della Giustizia, a fornire una risposta agli interrogativi che pongono tutti gli operatori della giustizia, dai magistrati agli avvocati, agli operatori del settore amministrativo, circa lo stato effettivo dei finanziamenti straordinari per la organizzazione giudiziaria e per i detenuti. Quali sono le richieste appostate nei documenti relativi al Recovery plan dal comparto giustizia? Quali finanziamenti urgenti verranno richiesti per i fondi Mes? Quali investimenti straordinari relativi alla disastrosa pandemia da Covidl9 sono stati inseriti per la organizzazione giudiziaria ad iniziativa del Ministro della Giustizia? Server fuori uso e notifiche tardive, la giustizia impossibile ai tempi del Covid di Simona Musco Il Dubbio, 21 gennaio 2021 Processi al tempo del Covid, il caso a Cagliari: la trattazione scritta di un giudizio comunicata solo tre giorni prima dell’udienza, nonostante i trenta previsti dalla legge per garantire la possibilità di chiedere la discussione in presenza. “La giustizia al tempo del Covid è un giudice che ti comunica venerdì che l’udienza di lunedì si terrà con trattazione scritta, senza rispettare il termine di cinque giorni per chiedere la trattazione orale e senza che tu abbia la possibilità di depositare alcunché a causa dell’ennesima interruzione dei servizi telematici”. La denuncia arriva da Aldo Luchi, presidente dell’ordine degli avvocati di Cagliari, protagonista dell’ennesimo cortocircuito della giustizia in tempo d’emergenza. E ancora una volta il problema non sono le regole - che pure Luchi critica senza farne mistero - ma la loro applicazione. La norma disattesa, in questo caso, è quella prevista dall’articolo 83 del dl Rilancio, sostituita poi dall’articolo 221 nella sua conversione in legge. Articolo che prevede la possibilità, per il giudice, di disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti siano sostituite dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni. Il punto dolente sono i termini, non rispettati nel caso di Luchi: il giudice deve infatti comunicare alle parti almeno trenta giorni prima della data fissata per l’udienza che la stessa è sostituita dallo scambio di note scritte, assegnando un termine fino a cinque giorni prima di tale data per il deposito delle stesse. Se nessuna delle parti effettua il deposito telematico di note scritte, il giudice fissa un’udienza successiva e nel caso in cui nessuna delle parti dovesse comparire il giudice ordina che la causa sia cancellata dal ruolo, dichiarando l’estinzione del processo “Nel mio caso - spiega Luchi al Dubbio - il giudice ha emesso questo decreto venerdì 15, notificato alle 16.17, per un’udienza fissata lunedì 18. E ciò in presenza di un’interruzione dei servizi informatici che era stata già preannunciata dalla direzione generale dei sistemi informativi del ministero della Giustizia l’8 di gennaio”. Ovvero una settimana prima che il giudice emettesse quel decreto. L’interruzione del servizio potrebbe essere bypassata, spiega Luchi, ma con una procedura “assurda”, attraverso la pec, senza possibilità, dunque, di accedere automaticamente al fascicolo tramite la consolle del pct, con il rischio di moltiplicare gli errori. Ma oltre questo, aggiunge, “il problema è che non avrei mai la prova dell’avvenuto deposito, perché il deposito telematico si considera valido nel momento in cui il sistema mi rilascia la terza pec, quella che certifica l’avvenuto controllo dei sistemi automatici, che verificano che la busta telematica che ho trasmesso rispetti tutti gli standard formali informatici del deposito”. Luchi ha così depositato le proprie note alle 8.50 di lunedì mattina, ricevendo la terza pec alle 12.47, ovvero due ore e 17 minuti dopo l’udienza, fissata per le 10.30. “Questo vuol dire che non ho potuto depositare per tempo, perché il giudice non ha rispettato i termini della norma, senza darmi la possibilità di discussione orale, che pure era nelle mie facoltà richiedere”, aggiunge. Dell’esito di quell’udienza, dunque, Luchi non ha notizie. Di certo, sottolinea, l’accettazione non tempestiva del deposito “non è un problema mio, ma del giudice”. Ma c’è un’altra cosa, spiega: la Dgsia non comunica ai consigli dell’ordine le interruzioni del servizio, condizione che non consente di avvisare gli avvocati di possibili disfunzioni del sistema, mentre tale comunicazione arriva tempestivamente agli uffici giudiziari, che dunque sono perfettamente informati dei casi di interruzione. “È sempre più evidente il fatto che ormai c’è una totale discrasia aggiunge Luchi -. Speravo che in questa situazione tutti quanti si sarebbero messi d’impegno per far funzionare - con mezzi e sistemi obiettivamente problematici, perché sono stati inventati su due piedi - un sistema che altrimenti non avrebbe retto. Invece mi rendo conto che non è così. Si pensi solo agli ostacoli che stanno frapponendo le cancellerie per farci accedere: per poter interloquire con gli uffici dobbiamo fare un salto ad ostacoli. La situazione è drammatica”. Permangono, dunque, i problemi di rapporti tra cancellerie ed avvocati. Ma anche quello del pct, per il quale si evidenzia, come già in fase attuativa, nel 2014, “un’applicazione del tutto disomogenea sul territorio nazionale”. E gli esempi non mancano: “La Dgsia, il 9 novembre, ha rilasciato un provvedimento che dava valore legale al deposito agli atti penali, fornendo un elenco di caselle pec appositamente attivate per tale procedura. Ebbene - conclude -, alcuni uffici si ostinano a richiedere il deposito su pec diverse da quelle indicate, con la conseguenza che quel deposito potrebbe essere considerato privo di valore legale da altri uffici. C’è un problema di norme, perché c’è una confusione notevole, un problema di strumenti, perché all’atto pratico non funzionano o funzionano non correttamente, ma in molti casi il vero problema è l’organizzazione dei singoli uffici”. Idee per giudicare davvero i magistrati di Nello Rossi Il Riformista, 21 gennaio 2021 Il sismografo della professionalità non funziona, appiattisce i meriti e non registra le cadute. I rimedi? Controllare i controllori e aprire ai laici le discussioni sulle valutazioni. La privacy? Sinonimo di corporativismo. Il “sismografo” della professionalità dei magistrati non funziona bene. E a volte non funziona affatto. Il complicato apparecchio amministrativo dovrebbe misurare la complessiva qualità del lavoro di giudici e pubblici ministeri. Registrando non solo e non tanto le più gravi negligenze o violazioni della legge sostanziale o processuale, ma le “costanti” positive o negative dell’operato dei singoli. In molti, troppi casi, ciò non avviene, perché le valutazioni appiattiscono i meriti, resi uniformi dal linguaggio burocratico, e non registrano quasi mai le cadute di professionalità. Sul filo dell’ironia si può dire che dalle valutazioni di professionalità i magistrati emergono quasi sempre come puntuali, laboriosi, competenti, addirittura geniali. 1. Il “sismografo” della professionalità dei magistrati non funziona bene. E a volte non funziona affatto. Il complicato apparecchio amministrativo dovrebbe misurare la complessiva qualità del lavoro di giudici e pubblici ministeri. Registrando non solo e non tanto le più gravi negligenze o violazioni della legge sostanziale o processuale (per questi casi c’è il procedimento disciplinare) ma le “costanti” positive o negative dell’operato dei singoli. Ad esempio il ripetuto rigetto da parte dei giudici di richieste e di iniziative di un pubblico ministero o il sistematico succedersi delle riforme o degli annullamenti delle sentenze di un giudice nei diversi gradi di giudizio. Se la strumentazione predisposta per misurare e vagliare l’operato dei magistrati perde colpi, la loro responsabilità professionale diventa letteralmente introvabile. E alcuni magistrati possono continuare impunemente a far danni e a fare carriera a differenza di quanto avviene in altre professioni intellettuali. È questa la denuncia dell’Unione delle Camere penali italiane - affidata ad un documento del 6 gennaio di quest’anno - che ha innescato una discussione tra avvocati e magistrati svoltasi sulle pagine de Il Riformista e altrove. 2. Il sismografo inceppato di cui parliamo sono le valutazioni periodiche di professionalità. Una procedura lunga, complicata, formalmente minuziosa che si ripete ogni quattro anni e che si dipana attraverso diversi adempimenti: autorelazione del magistrato, esame di provvedimenti estratti a sorte e forniti dall’interessato, rapporto del capo dell’ufficio, parere sulla professionalità emesso dal Consiglio giudiziario, giudizio finale del Csm. Un mare di carte che dovrebbe fornire un quadro fedele dell’operato dei magistrati e rendere conto della qualità della loro attività. Eppure in molti, troppi casi, ciò non avviene, perché le valutazioni appiattiscono i meriti, resi uniformi dal linguaggio burocratico, e non registrano quasi mai le cadute di professionalità. Sul filo dell’ironia si può dire che dalle valutazioni di professionalità i magistrati emergono quasi sempre come puntuali, laboriosi, competenti, addirittura geniali. Veri e propri geni “compresi”, sottratti al triste destino della maggior parte dei geni, ai quali tocca di essere misconosciuti dai loro contemporanei. È perciò legittimo chiedersi perché nelle valutazioni di professionalità non affiorano quei profili critici del modus operandi di alcuni giudici e pubblici ministeri che in molti conoscono e di cui molto si parla negli uffici giudiziari e nell’ambiente esterno. All’origine di questa congiura del silenzio sta una tenace resistenza corporativa? O l’idea che i magistrati sono agenti e parafulmini dei conflitti e perciò vanno comunque messi al riparo da giudizi interessatamente malevoli? O, infine, l’intenzione di preservare negli uffici giudiziari una pace che sarebbe compromessa da pareri realistici e severi? Le difficoltà del giudiziario e l’asprezza del clima che lo circonda nel nostro Paese forniscono sostegno a ciascuna di queste motivazioni. E però, se si vuole rendere effettiva la responsabilità professionale è necessario uscire dalla palude nella quale le valutazioni di professionalità si sono impantanate, indicando credibili rimedi. Il primo: responsabilizzare i controllori. Chiamando (come oggi “di fatto” non avviene) i dirigenti degli uffici, che sono i primi giudici della professionalità, ad assumere la responsabilità per le informazioni ed i giudizi che, alla prova dei fatti, si rivelino non veritieri. Se un capo dell’ufficio redige una valutazione positiva (o elogiastica) della tempestività e della capacità di lavoro di un magistrato e questi, a seguito di una ispezione o di una segnalazione esterna incorre in una sanzione disciplinare per ritardi o scarsa laboriosità, il dirigente dovrebbe a sua volta essere chiamato dal Csm a rendere conto del suo giudizio. Ed analoga richiesta di rendiconto dovrebbe essere rivolta ai dirigenti che rispondono, con vaghe e fumose formule burocratiche, alle puntuali domande contenute nelle schede di valutazione sulla “corrispondenza” tra richieste avanzate da un pubblico ministero e provvedimenti adottati dai giudici o sui dati patologici delle decisioni non confermate nei successivi gradi di giudizio. Per non parlare, infine, dei casi più eclatanti nei quali è la giustizia penale a dover intervenire sulle cadute professionali che si traducono nella commissione di reati. Cominciare a “controllare i controllori” è un rimedio insufficiente? Tutt’altro. Sarebbe un antidoto efficace alla irresponsabilità burocratica di chi valuta, che rappresenta la prima fonte delle storture e delle fallacie del sistema. Se, come tutti riconoscono, non può essere un singolo caso, magari posto sotto i riflettori dai media, a fondare un credibile giudizio negativo sulla professionalità di un magistrato, è solo rivitalizzando e restituendo credibilità alle valutazioni professionali complessive e sistematiche che si può rendere effettiva la responsabilità professionale. A questo primo passo dovrebbe seguirne un secondo non meno significativo: moltiplicare le fonti di conoscenza cui attingere nelle valutazioni di professionalità e garantire la piena trasparenza dell’intera procedura valutativa. Nel ddl di legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario (A.C. 2681) il Ministro della Giustizia propone di semplificare le procedure e di introdurre un “diritto di tribuna”, cioè la facoltà per i cd. componenti laici dei consigli giudiziari (avvocati e professori universitari) di partecipare alle discussioni e deliberazioni relative alle valutazioni di professionalità dei magistrati. Non sarebbe una novità assoluta ma solo la generalizzazione di un metodo virtuoso, giacché diversi consigli giudiziari hanno già adottato, con norme interne, questa regola di apertura e di trasparenza dei lavori. Su questa strada occorre procedere speditamente, senza arretramenti o dietrofront magari giustificati in nome dell’esigenza di tutelare la privacy dei magistrati. L’invocazione della privacy, sacrosanta per la sfera della vita privata, rischia di divenire, sul terreno professionale, uno schermo opaco, pretestuoso ed ingiustificato. Anche perché la privacy professionale dei magistrati ha un nome antico: corporativismo. La forza ed il radicamento istituzionale del governo autonomo della magistratura consentono di aprire le stanze nelle quali lavorano i magistrati senza che ne derivino soverchi pericoli per la serenità e indipendenza della stragrande maggioranza dei magistrati che operano con scrupolo e professionalità. A patto di sapere che lo scopo principale delle valutazioni non è mettere in fila i magistrati alla ricerca dei più bravi (compito praticamente impossibile data l’estrema diversità e complessità dei mestieri del magistrato) ma di individuare e stigmatizzare, nell’ottica della c.d. “selezione negativa”, proprio le patologie professionali su cui si appunta la denuncia delle Camere penali. Lavorando con umiltà in questa direzione si può sperare di sanare una clamorosa contraddizione. Quella tra l’esperienza quotidiana della giurisdizione - nella quale gli utenti della giustizia si rendono subito conto della professionalità, o delle carenze di professionalità, di un magistrato - e la difficoltà di trasporre questa razionale percezione nelle valutazioni ufficiali sul suo lavoro. Nicola Morra scopre il garantismo, non è mai troppo tardi di Davide Varì Il Dubbio, 21 gennaio 2021 Il presidente dell’Antimafia Morra ha detto che la giustizia non deve essere vendetta. Sulle prime abbiamo pensato a uno scambio di persona. Invece era proprio lui: chapeau. “Uno Stato forte si presenta con caratteristiche di giustizia e mai di vendetta”. La dichiarazione è apparsa sulle agenzie di stampa ieri l’altro, verso sera. E non indovinerete mai chi l’ha pronunciata. Tenetevi forte: il titolare di queste parole è Nicola Morra. Sì, quel Morra: il presidente della commissione antimafia, il paladino del giustizialismo più duro e intransigente. A dir la verità sulle prime noi tutti abbiamo pensato a un errore di battitura, a uno scambio di persona. E invece no: quelle parole che andrebbero scolpite in ogni aula di tribunale e in ogni carcere del “regno” le ha dette proprio Morra, lo stesso che voleva mettere il bollino blu agli avvocati che dimostrano di avere comportamenti eticamente corretti - dimostrare a chi? A quale giuria popolare? Non è dato sapere. Fatto sta che ieri Morra ha sorpreso tutti e a dimostrazione che la prima dichiarazione non era un “incidente” o un lapsus - a dire il vero lo abbiamo pensato in molti - è andato avanti e ha aggiunto: “Quando una persona manifesta agli occhi degli specialisti in modo conclamato i tratti della incapacità di intendere e volere, comunicare e dialogare, allora lo Stato in quella occasione può anche immaginare una retrocessione ad un altro regime. Altrimenti la volontà di far sentire i muscoli dello Stato su chi non può più reagire è accanimento”. Applausi! “Borsellino ucciso per il maxi processo e per mafia-appalti, non per la trattativa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 gennaio 2021 Le motivazioni della sentenza d’appello emessa dalla corte d’Assise di Caltanissetta del processo “Borsellino quater” per la strage di via D’Amelio. Paolo Borsellino non fu ucciso per la presunta trattativa Stato-mafia, per la quale tra l’altro ancora c’è un processo in corso per confermarla o meno, ma dalla mafia “per vendetta e cautela preventiva”. La vendetta è relativa all’esito del maxiprocesso, mentre la “cautela preventiva” è relativa alle sue indagini, in particolare quelle su mafia appalti. Quest’ultima ipotesi - scrive la Corte d’assise di appello di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza di secondo grado del “Borsellino Quater” - “doveva, peraltro, essere anche collegata alla circostanza riferita dal collaboratore Antonino Giuffrè sui “sondaggi” con “personaggi importanti” effettuati da Cosa Nostra prima di decidere sull’eliminazione dei giudici Falcone e Borsellino oltre che sui sospetti per i quali lo stesso Borsellino, il giorno prima dell’attentato, aveva confidato alla moglie “che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse”. Sempre nella sentenza viene citato il fatto che l’arrivo di Borsellino nel nuovo ufficio della Procura di Palermo “era stato percepito con preoccupazione da Cosa Nostra, al punto che Pino Lipari (vicino ai vertici dell’organizzazione maliosa) aveva commentato il fatto dicendo che avrebbe creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco”. Ebbene, aggiunge la Corte, “sulla base di tali evidenziate “anomalie”, i primi giudici disponevano la trasmissione degli atti al Pubblico ministro per le determinazioni di competenza su eventuali condotte delittuose emerse nel corso dell’istruttoria dibattimentale”. Mafia-appalti concausa della strage di Via D’Amelio - La Corte d’asssise di appello di Caltanissetta si sofferma molto sull’indagine mafia-appalti come concausa della strage di Via D’Amelio. Lo rimarca osservando che Borsellino aveva mostrato particolare attenzione alle “inchieste riguardanti il coinvolgimento di “Cosa Nostra” nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale”. Viene riportato ciò che il collaboratore Giuffrè aveva riferito, in sede di incidente probatorio, all’udienza del 5 giugno 2012. Ovvero che le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino erano “anche da ricondurre al timore di Cosa Nostra che quest’ultimo potesse divenire il nuovo capo della Direzione Nazionale Antimafia nonché al timore delle indagini che il medesimo magistrato avrebbe potuto compiere in materia di mafia-appalti, con specifico riferimento al rapporto presentato dal Ros dei Carabinieri alla Procura di Palermo, su input del giudice Giovanni Falcone, nel quale erano stati evidenziati appunto i rapporti fra mafia e appalti, con particolare riferimento alle interferenze di Cosa Nostra sul sistema di aggiudicazione degli appalti, secondo un rapporto triangolare fondato sulla condivisione di illecite cointeressenze economiche che coinvolgeva, mettendoli ad un medesimo tavolo, il mondo imprenditoriale, politico e quello mafioso”. Confermata la sentenza di primo grado - La sentenza, emessa nel novembre 2019, ha confermando quella di primo grado ed accogliendo le richieste della Procura generale, ha condannato all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i 5 uomini della scorta. Condannati a 10 anni i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Così come aveva fatto la Corte d’assise presieduta da Antonio Balsamo anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato a Vincenzo Scarantino. Alla Consulta il divieto al 41bis di colloqui via Skype con i minori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 gennaio 2021 Il prossimo 9 marzo i giudici esamineranno il caso di un genitore, detenuto al 41 bis, sollevato dal Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria. Il diritto all’affettività è di fatto tolto ai figli minorenni dei detenuti al 41 bis. Ma ora sarà la Consulta ad occuparsene. A causa del Covid 19 e le restrizioni inevitabili causate dalle zone rosse e arancioni, l’unico mezzo per permettere ai figli di fare colloqui con i padri reclusi al carcere duro è l’utilizzo di Skype. Oramai è quasi un anno che i bimbi non riescono più a vedere i propri padri al 41 bis. Non mancano casi di traumi psico-fisici dovuti dall’assenza paterna. È giusto che la colpa dei padri ricada anche sui figli minori? Il problema è la mancanza di previsione che i colloqui cui hanno diritto i detenuti e gli internati sottoposti a regime speciale possono essere svolti a distanza con i figli minorenni mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile. Il prossimo 9 marzo al vaglio dei giudici della Corte costituzionale - Un problema che, grazie all’ordinanza del tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, sarà vagliato il prossimo 9 marzo dalla Corte costituzionale. Sì, perché tale divieto lede non solo diversi articoli della Costituzione, ma anche numerose convenzioni. Dalla Cedu alla carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Per i 41 bis è in corso, di fatto, una disparità di trattamento rispetto ai minorenni figli di detenuti ordinari, relativamente alla disciplina dei colloqui audiovisivi a distanza. Ma c’è anche la violazione dei diritti inviolabili, come quello di intrattenere rapporti affettivi con i familiari detenuti idonei a garantire lo sviluppo e il benessere psico-fisico del minore. Non solo. Il tribunale dei minorenni, sottolinea anche la violazione dei principi a tutela dell’infanzia e della gioventù, la violazione del principio della finalità rieducativa della pena. Ma c’è anche un evidente contrasto con i principi convenzionali a tutela del diritto della persona al rispetto della vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza e che vietano i trattamenti inumani e degradanti. Non da ultimo, c’è anche il richiamo alla tutela sovranazionale dei minori. Il caso sollevato dal Tribunale dei minori di Reggio Calabria - Il caso specifico sollevato dal Tribunale di Reggio Calabria è emblematico. Solo raccontandolo, l’opinione pubblica può essere correttamente informata per capire quanto sia drammatico un tale divieto. L’uomo al 41 bis dovrà scontare almeno 30 anni per reati di associazione per delinquere di tipo ‘ndranghetistico, omicidio e altro. Contestualmente i suoi figli minorenni sono stati affidati ai servizi sociali, perché vivevano in una sorta di degrado. Lo hanno dovuto fare, perché avevano un urgente bisogno di intraprendere una sana crescita psicofisica. Per questo il giudice ha demandato agli psicologi specialisti del Consultorio familiare delegato, in collaborazione con il Servizio sociale territoriale, il compito di programmare in favore dei minori una mirata attività di sostegno psicologico e socio-educativo, con l’obiettivo di spiegare loro gradualmente la realtà delinquenziale in cui si era formato il padre e i reali motivi della sua carcerazione. Infine, ha segnalato l’opportunità di preparare “la signora e i minori anche a programmare, in un futuro non remoto, uno spostamento mirato dalla città, segnalando che tale soluzione doveva essere contemplata e adeguatamente programmata, in quanto la negativa reputazione della famiglia paterna, i connessi rischi di emarginazione sociale e la suggestione di determinati modelli culturali comportavano il rischio elevato di esposizione dei minori, una volta raggiunta l’ età dell’adolescenza, a situazioni di devianza o di pregiudizio per la loro integrità emotiva”. Parimenti, il tribunale ha segnalato la necessità che il previsto dispositivo fosse in grado: 1) di spiegare ai bambini, con le cautele opportune, che il padre, attesa l’entità della pena inflittagli, non sarebbe tornato presto a casa; 2) di preparare i minori prima degli incontri con il padre che, secondo il condivisibile parere degli esperti, non dovevano essere interrotti. Analogo percorso di preparazione, il giudice ha previsto che l’uomo al 41 bis dove essere messo in grado di rispondere in modo corretto alle eventuali domande dei figli in ordine al suo stato di carcerazione e ai motivi della sua assenza educativa. La grave sofferenza del figlio 14enne - C’è in particolare il figlio di appena 14 anni che necessita di parlare con il padre. Dalla relazione psicologica emerge la grave sofferenza del ragazzino recante “segni di trauma dovuti alla separazione dal padre e tratti di rigidità, collegati a difese emotive, con la conseguenza che il medesimo adolescente vive uno stato di lutto non completamente elaborato sia per l’assenza del genitore che per le situazioni esistenziali che si trova a vivere”. Non solo. Il ragazzino è anche affetto da una importante patologia cronica (diabete) che, durante l’emergenza epidemiologica, sconsigliava (e sconsiglia) assolutamente i suoi spostamenti, oltretutto molto complessi per le restrizioni governative in atto. Ma niente da fare. Non gli è permesso fare una videochiamata tramite skype. Un divieto che la Consulta dovrà valutare se leda o meno la Costituzione italiana. Ma una certezza ce l’abbiamo: lede il benessere psico-fisico del 14enne, un ragazzino che non ha colpa alcuna. Solo garantendo i suoi diritti, lo si mette al riparo dalla criminalità organizzata. Sicilia. Coronavirus, intesa Regione-Dap per prevenire il contagio nelle carceri Giornale di Sicilia, 21 gennaio 2021 Personale sanitario e misure organizzative per prevenire e contenere il contagio da Covid-19 negli istituti penitenziari dell’Isola. È il contenuto del Protocollo d’intesa tra la Regione Siciliana e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, siglato questa mattina a Palazzo Orléans dal presidente della Regione, Nello Musumeci, e dal provveditore regionale, Cinzia Calandrino, presenti il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, l’assessore regionale della Salute, Ruggero Razza, e l’assessore regionale al Territorio e Ambiente, Toto Cordaro. Per ridurre il rischio di contagio l’assessorato della Salute si impegna a individuare e assegnare personale sanitario (medici, infermieri, operatori) preposto all’adozione delle misure di prevenzione e contenimento della diffusione del virus a tutela del personale penitenziario (circa 4 mila unità) in servizio nei 23 istituti di pena e al Provveditorato regionale della Sicilia. Le Asp provinciali valutano la possibilità di costituire presidi sanitari anti-Covid nelle sedi penitenziarie e garantiscono l’attuazione di specifiche misure igienico-sanitarie. In particolare, dispongono: l’approvvigionamento della fornitura di tamponi per il personale delle strutture sanitarie; la somministrazione di test diagnostici al personale penitenziario per accertare l’eventuale positività al Coronavirus; la somministrazione di test rapidi con finalità di screening sul personale penitenziario; il monitoraggio periodico preventivo; il tracciamento degli eventuali contagi riguardanti il personale penitenziario, inclusi i volontari, i ministri di culto, gli assistenti sociali, i docenti e il personale che accede nelle sedi penitenziarie. Il Provveditorato regionale si impegna a sensibilizzare il personale allo scrupoloso rispetto delle misure vigenti di prevenzione e contenimento della diffusione virale. “È un significativo passo - dice il presidente Nello Musumeci - nel processo di collaborazione tra istituzioni, perché la Regione Siciliana non può restare inerme di fronte a tutto quello che avviene all’interno delle mura carcerarie, sia per quanto riguarda il personale in divisa che la popolazione detenuta. È chiaro che i problemi si esasperano nella stagione del Covid, ma cogliamo questa opportunità per migliorare la vivibilità e la sicurezza dell’ambiente carcerario”. “Siamo grati della disponibilità manifestata dalla Regione - dichiara il capo del Dap, Petralia - e da quanti si sono impegnati nella realizzazione di questo Protocollo che rappresenta un primato per questo territorio”. “L’intesa - aggiunge il provveditore Calandrino - ha lo scopo di tutelare il personale che opera all’interno delle carceri dell’Isola e che quotidianamente compie un lavoro in prima linea”. Fra le misure previste ci sono: l’individuazione di locali in cui svolgere le attività sanitarie; il rilevamento dei fattori di rischio all’interno degli istituti; l’obbligo di indossare i dispositivi di protezione delle vie respiratorie; il mantenimento della distanza di sicurezza; la disponibilità di prodotti igienizzanti per il personale e dispenser accessibili negli spazi comuni; la pulizia quotidiana e la sicurezza di tutti gli automezzi; l’areazione e la pulizia degli ambienti e la successiva sanificazione, nel caso di rilevata presenza di persona affetta da Covid-19 all’interno dei locali; la verifica della sanificazione avvenuta negli ambienti di lavoro e caserme; il ricambio dell’aria nei luoghi di lavoro; la fruizione alternata degli spazi comuni; la riduzione al minimo dei tempi di permanenza e l’organizzazione delle riunioni di lavoro in modalità a distanza. Il Protocollo prevede anche una formazione concordata fra istituzione penitenziaria e Asp rivolta al personale delle carceri con riferimento all’analisi del contesto ambientale e alle variabili che influenzano lo stato di salute psicofisica. Campania. Senza assistenza la salute mentale nelle carceri è solo un miraggio di Viviana Lanza Il Riformista, 21 gennaio 2021 Salute mentale e assistenza dentro e fuori le carceri è il tema del report presentato dal garante regionale delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello, e per la prima volta a livello regionale fornisce una mappatura della situazione sanitaria in questo delicato e complesso settore. Il lavoro, con il contributo delle associazioni Psichiatria Democratica e Articolo 1, punta l’attenzione su Tso e Rems, cioè sul trattamento sanitario obbligatorio e sulle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Secondo dati aggiornati al 20 dicembre scorso, l’offerta di posti letto nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura della Campania ha subìto una contrazione di circa il 15%, passando da 140 a 120 posti. E la pandemia ha inciso, perché l’ospedale San Giovanni Bosco è stato riconvertito in presidio Covid, i locali adibiti all’assistenza dei malati psichiatrici sono stati destinati ad altro impiego e i due reparti dell’ospedale del Mare sono stati fusi in un unico reparto con 16 posti letto. Per quanto riguarda invece le Rems, nelle quattro strutture presenti in Campania (San Nicola Baronia e Calvi Risorta definitive, Mondragone e Vairano Patenora temporanee) sono ospitate 44 persone. E ci sono 19 detenuti che attendono un collocamento nelle Rems, di questi 18 provengono da istituti penitenziari della Campania (dieci ristretti nelle articolazioni mentali, tre nei reparti comuni e cinque in attesa del fine pena) e uno proveniente dal carcere romano di Regina Coeli. A questi bisogna aggiungere dieci detenuti agli arresti domiciliari. “Mi occupo non solo di carceri ma di tutte quelle realtà che vengono private delle libertà, quindi anche persone sottoposte a Tso e questo affinché anche all’interno delle strutture sanitarie siano garantiti i diritti e sia tutelata la dignità dei cittadini. La mancanza di personale all’interno di queste strutture incide su molti problemi rischiando così di cronicizzarli”, è la preoccupazione del garante Ciambriello. “L’attenzione sulla salute mentale non va mischiata con le persone detenute, può essere pericolosissimo - è la riflessione sollevata da Fedele Maurano, direttore del dipartimento di salute mentale dell’Asl Napoli 1 nel corso del suo intervento alla presentazione del report in Consiglio regionale - In carcere non si può assicurare nessun progetto e programma di salute mentale qualunque persona ci metti dentro, perché senza libertà non c’è cura”. “Le Rems dovrebbero essere l’ultimissima sponda - aggiunge - invece i magistrati ricorrono spesso a questa misura sacrificando la salute del singolo alla sicurezza della comunità”. “Il diritto alla salute è un diritto dell’uomo, carcerato o libero che sia - afferma Valeria Ciarambino, vicepresidente del Consiglio regionale - Mi impegnerò per far sì che si intervenga su questi temi così delicati e che si possa superare questo stigma sociale, perché la cultura del nostro territorio sembra andare nel senso opposto”. Investire su più risorse e sui sostegni alle famiglie è la proposta della presidente della commissione regionale Cultura e Politiche Sociali, Bruna Fiola: “Il sistema sanitario deve essere rafforzato, nonostante siano stati chiusi gli Opg il diritto alla salute non è ancora del tuo rispettato. Dobbiamo lavorare sulle condizioni dei detenuti anche in campo normativo e dare sostegno alle famiglie perché se lavoriamo sulle famiglie possiamo salvare più vite”. Intanto è in discussione alla Camera una proposta di legge sulla possibilità di sostenere, con lo strumento normativo dello Stato, i Piani terapeutici riabilitativi individuali (Ptri). “L’auspicio - conclude il presidente del Consiglio regionale Gennaro Oliviero - è iniziare questa nuova legislatura con una legge a tutela dei diritti e delle libertà, apertura di un nuovo sviluppo politico con l’obiettivo di eliminare, o quanto meno ridurre, i confini in cui vi è una reale sospensione della Costituzione”. Sardegna. Dall’Aspal progetti personalizzati per il reinserimento detenuti buongiornoalghero.it, 21 gennaio 2021 Si chiama L.I.B.E.R.I. (Lavoro, Inserimento, Bilancio di competenze, Esperienza, Riscatto sociale, Inclusione) ed è un nuovo intervento dell’Aspal finanziato col Fondo sociale europeo che ha l’obiettivo di finanziare progetti di inserimento sociale e lavorativo per aiutare detenuti o persone sottoposte a misure alternative alla detenzione prese in carico dai servizi sociali della Giustizia ad avere servizi e progetti personalizzati, in modo da aumentare la possibilità di inclusione attiva e ridurre il rischio di povertà e esclusione sociale. L’avviso pubblico, sviluppato in collaborazione con i Servizi sociali della Giustizia (Uffici Esecuzione Penale Esterna - Uepe e Uffici Servizi Sociali Minorenni - Ussm), è rivolto a imprese sociali, cooperative sociali e i loro Consorzi, associazioni di promozione sociale che possono partecipare singolarmente o in raggruppamento con altri organismi come i soggetti accreditati per i servizi al lavoro, agenzie formative, enti che erogano servizi di orientamento e accompagnamento al lavoro, comuni o imprese. Lo stanziamento è di un milione di euro, ripartito in tre aree territoriali: A) Area territoriale Città Metropolitana di Cagliari, Provincia del Sud Sardegna, Provincia di Oristano: 544.530 euro; B) Area territoriale Provincia di Nuoro: 175.000 euro; C) Area territoriale Provincia di Sassari: 280.470 euro. Sarà finanziato un progetto per ogni area territoriale, quindi il budget di ogni progetto sarà pari allo stanziamento previsto per l’area territoriale per la quale si partecipa. “È proprio nei momenti in cui l’intero sistema è fragile che bisogna avere maggiore attenzione verso i più deboli” ha detto Aldo Cadau Commissario straordinario dell’Aspal. “Questi interventi - ha continuato - mirano a tutelare l’individuo e la sua dignità offrendogli la possibilità di un reinserimento nella società attiva”. Le proposte progettuali dovranno essere presentate dal 1 febbraio al 15 marzo 2021. I progetti devono essere presentati esclusivamente tramite Pec (all’indirizzo agenzialavoro@pec.regione.sardegna.it) utilizzando i moduli allegati all’avviso. Per eventuali richieste di chiarimenti sui requisiti e le modalità di partecipazione si può scrivere all’email dedicata: aspal.inclusione@aspalsardegna.it; per informazioni generali ci si può rivolgere all’Ufficio Relazioni con il Pubblico dell’Aspal in via Is Mirrionis 195 Cagliari, tel. 0706067039 (dal lunedì al venerdì dalle ore 11:00 alle ore 13:00, e nei giorni di martedì e mercoledì anche dalle ore 16:00 alle ore 17:00) oppure all’indirizzo agenzialavoro.urp@regione.sardegna.it. Modena. A “Report” nuove accuse di pestaggi di detenuti. Chiesto il Garante comunale di Davide Berti Gazzetta di Modena, 21 gennaio 2021 Pestaggi di detenuti denudati e inermi che non avevano preso parte alla sedizione carceraria: nuove denunce di violenze e brutalità a Sant’Anna dopo la rivolta arrivano da detenuti e da loro parenti intervistati da “Report” (Rai3) nella puntata dell’altra sera, durante la quale si è fatto il punto sulle indagini intorno ai tredici morti in Italia (nove solo a Modena). Le testimonianze in video - che si sommano a quelle dei due detenuti di questa estate e a quelle dei cinque firmatari della denuncia presentata alla Procura Generale di Ancona - riguardano episodi di violenza ingiustificata. “C’era un detenuto in cella - ha detto un intervistato - e l’ispettore lo ha fatto uscire. Poi ne hanno fatti uscire altri. E li hanno picchiati da morire: il sangue schizzava da tutte le parti. Erano 30-40”. Un altro ha raccontato di aver visto avanzare un poliziotto. “Aveva sangue grondante dappertutto e diceva che non si divertiva così da tempo”. Un altro: “Ho visto un detenuto con la testa schiacciata dagli anfibi”. È stata una carrellata pesantissima quella delle voci mandate in onda da Report in un servizio presentato da Sigfrido Ranucci. Pesante per una situazione che riguarda non solo i detenuti ma anche gli agenti della polizia penitenziaria per i quali hanno parlato i loro sindacalisti. Si è parlato del caso Piscitelli, il detenuto attore di teatro in probabile overdose già a Modena, trasferito forse senza essere vistato dai medici, morto la mattina del 10 marzo ad Ascoli. Secondo i detenuti morto in cella dopo pestaggi, secondo il medico legale all’ospedale. Un caso ancora tutto aperto. Modena Volta Pagina interviene sui morti e i presunti pestaggi dopo la rivolta e scrive che “occorre appurare la verità e fare giustizia, capire se realmente in quei concitati momenti ed anche, durante i trasferimenti, siano avvenuti gli abusi che sono stati denunciati da più detenuti, anche con esposti alla magistratura. Abbiamo anche il dovere di capire i motivi che hanno scatenato la rivolta che, nonostante sia dilagata in tante strutture penitenziarie, a Modena ha avuto conseguenze abnormi. Quale era la particolare situazione al Sant’Anna visto che, contrariamente agli altri penitenziari, alcuni reparti vennero dati alle fiamme e parte del carcere occupato? Perché tanti morti? Quali ragioni oltre al sovraffollamento hanno scatenato tanta violenza? Eppure in città meritorie associazioni del volontariato si prodigano per tessere rapporti fra città e reclusi. Dobbiamo capire cosa non abbia funzionato. Non bastano le dichiarazioni del sindaco: “I rapporti di collaborazione del carcere di Sant’Anna con il Comune e la città sono proficui e solidissimi”. Il sindaco deve assumere iniziative: chiedere che sia accertata la verità sui fatti e, soprattutto, garantire che quel luogo di detenzione sia degno e vi siano garantiti i diritti dei detenuti. Chiediamo al Consiglio Comunale di votare l’istituzione anche a Modena del “Garante dei diritti delle persone private o sottoposte alla limitazione della libertà personale”. È necessaria una figura di garanzia che vigili sul rispetto delle norme nazionali e delle convenzioni internazionali. Il Garante può essere un ponte di dialogo e collaborazione fra città, amministrazione penitenziaria, Tribunale di Sorveglianza, autorità regionali della salute ed altre autorità. Il Garante può sollecitare gli interventi delle istituzioni per prevenire degrado ed invivibilità. Non per caso la figura del Garante comunale è già presente a Bologna, Parma, Rimini, Piacenza e Ferrara. Perché a Modena no?” Santa Maria Capua Vetere. Tortura in carcere, la mattanza della Settimana Santa di Paolazzurra Polizzotto ecointernazionale.com, 21 gennaio 2021 “La mattanza della Settimana Santa”: questo il nome dell’inchiesta della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere sul caso di tortura avvenuto nella casa di reclusione “Francesco Uccella” il 6 aprile scorso. Sono 144 gli agenti della polizia penitenziaria coinvolti che, secondo gli inquirenti, il 6 aprile scorso avrebbero dato avvio a un pestaggio senza precedenti a seguito della protesta iniziata e finita nella stessa giornata del 5 aprile. Proprio il 5 aprile, a seguito della notizia di diversi casi di positività al Covid all’interno dell’istituto di pena, alcuni detenuti hanno iniziato “la battitura”, una sorta di protesta non violenta che consiste nel battere oggetti contro le porte delle celle. La mattina del 6 aprile c’è stato un notevole afflusso di persone in servizio nei vari reparti della polizia penitenziaria: si tratta di un’unità speciale istituita nel marzo del 2020 da parte del Provveditore Antonio Fullone. A Santa Maria Capua Vetere, però, l’unità speciale è andata ben oltre il proprio compito. Secondo gli inquirenti, gli agenti avrebbero prelevato i detenuti dalle sezioni di un reparto costringendoli a subire una serie di violenze fisiche e psicologiche. In particolare, i reclusi sarebbero stati costretti a inginocchiarsi, denudarsi e fare flessioni, oltre a ricevere calci, schiaffi, pugni, manganellate e testate da parte degli agenti che indossavano caschi antisommossa. Inoltre, secondo la Procura, un detenuto disabile sarebbe stato brutalmente picchiato insieme al suo accompagnatore. Dopo quel blitz, gli agenti avrebbero anche minacciato i detenuti vittime del pestaggio invitandoli a non denunciare. “Mi raccomando di’ che sei caduto dalle scale”: queste le istruzioni riferite a uno dei reclusi, accompagnate anche da diversi biglietti minatori a chi aveva denunciato. L’inaccettabile violenza come scopo punitivo - Episodi come questo che hanno caratterizzato le rivolte portate avanti nei mesi di marzo e aprile da parte dei detenuti, ci pongono davanti a una riflessione sull’utilizzo della violenza a scopo repressivo-punitivo. Infatti, se da un lato la legge prevede l’utilizzo della forza nel momento esatto della rappresaglia, dall’altro lato l’utilizzo della violenza dopo aver “sedato” la rivolta diventa abuso di potere e nei casi più gravi tortura. È qui che viene alla luce l’idea che la collettività ha del carcere, persino delle persone che lavorano al suo interno, da cui ci si aspetta un minimo di conoscenza sullo scopo della pena e sulla funzione che il carcere dovrebbe assolvere. Non uno strumento che rieduchi concretamente la persona e non la privi del diritto alla dignità con cui entra anche nell’istituto di pena (al di là della gravità o meno del fatto commesso), ma come uno strumento repressivo attraverso cui esercitare violenza. Una condizione insostenibile nelle carceri italiane - A questo punto viene da chiedersi quale sia la differenza tra chi commette il reato e chi invece esercita la sua “morale” con metodi che esprimono una sorta di sentimento etico paragonabile al Tribunale della Santa Inquisizione spagnola. Considerazioni, queste, che vanno fatte, specie alla luce dell’interrogativo principale che la pandemia da Covid-19 ci ha posto davanti: davvero pensiamo che il carcere così com’è possa andare avanti? E se sì, per quanto tempo? In un momento così delicato, in cui anche i contagi nelle carceri italiane sono in aumento, bisognerebbe preoccuparsi della tutela della salute collettiva senza escludere nessuno, soprattutto le persone private della libertà personale che non hanno la possibilità di capire realmente cosa succede all’esterno. Parma. Detenuto morì durante il trasferimento: medico rinviato a giudizio La Repubblica, 21 gennaio 2021 Michele Pepe, ritenuto personaggio di spicco della camorra, doveva finire di scontare una condanna a 16 anni. Sarebbe uscito nel 2034 dopo un periodo al 41 bis e uno in alta sicurezza. Viste le sue gravi condizioni di salute - era obeso, diabetico, cardiopatico e affetto da gravi problemi respiratori - era stato deciso il trasferimento dal carcere di Parma alla casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, ma durante il trasferimento Pepe morì, a 48 anni. Secondo i suoi familiari quel viaggio non era da fare. E così anche per il pm Fabrizio Pensa della Procura di Parma che ha chiesto e ottenuto dal Gup Mattia Fiorentini il rinvio a giudizio del medico di guardia al carcere di via Burla che aveva espresso il nulla osta al trasporto del detenuto. Il dottore, riporta la Gazzetta di Parma, dovrà rispondere di omicidio colposo. I fatti risalgono al dicembre del 2018 quando fu deciso in ambulanza il trasporto a Torino il giorno dopo un ricovero all’ospedale di Parma per una crisi respiratoria. Il tragitto, questa la tesi dell’accusa, sarebbe stato fatale per l’uomo, anche per le condizioni in cui dovette affrontarlo. Quel tipo di ambulanza (o comunque la sua dotazione) infatti non gli avrebbe permesso di viaggiare nella posizione adeguata alle sue patologie: sarebbero mancati i sostegni per permettergli di stare seduto o semi-seduto come avrebbe dovuto. Benevento. Nessuno la vuole, lei continua a restare in carcere di Enzo Spiezia ottopagine.it, 21 gennaio 2021 Disposti i domiciliari, ma è ancora a Capodimonte. La Corte di Assise ha deciso di sottoporla ad una perizia psichiatrica. Il caso della 36enne sordomuta che ha ucciso il figlio di 4 mesi nel settembre del 2019. Nessuno si è detto disponibile ad accoglierla: né una clinica di Avellino che ha motivato il rifiuto con la complessità della situazione della donna, né i familiari. Ecco perché Loredana Morelli (avvocati Matteo De Longis e Michele Maselli,), 36 anni, di Campolattaro, sordomuta ed affetta da problemi psicopatologici, che il 15 settembre del 2019 aveva ucciso Diego, il figlio di quattro mesi, continua a restare in carcere. Non dovrebbe più starci dal 18 dicembre, ma non è così. I nove giorni trascorsi dalla pubblicazione su Ottopagine di un articolo relativo al caso sono stati scanditi dall’interlocuzione tra i suoi difensori, la Corte di assise e la Procura, con il risultato che la Corte ha disposto per lei la custodia cautelare ai domiciliari. Già: ma dove, di fronte ai no arrivati? La soluzione potrebbe essere una delle cinque strutture indicate dalla difesa, a patto però che venga redatto, da parte dell’Asl di Avellino, spiegano i legali, il Piano di trattamento riabilitativo individuale. Nel frattempo, la 36enne rimane ospite della Casa circondariale di contrada Capodimonte, in attesa che lunedì prossimo la stessa Corte di Assise, anticipando l’udienza fissata per il 22 marzo, affidi ad uno specialista l’incarico di una perizia psichiatrica che ne valuti la capacità di intendere e di volere, di stare in giudizio, e la pericolosità sociale. È ulteriore tappa di una storia sottesa da un groviglio burocratico oggettivamente incomprensibile, nato da un errore - l’indirizzo della sede legale della cooperativa, che aveva poi rinunciato, e non del centro che gestisce, nel quale l’imputata doveva essere trasferita- dopo la pronuncia del Riesame dello scorso 18 dicembre. Il Tribunale di Napoli aveva infatti dovuto prendere atto di quanto stabilito dalla Cassazione sull’incompatibilità tra le condizioni di Morelli ed il regime carcerario, ripetutamente sottolineata in precedenza, sia davanti al Gip, sia allo stesso Riesame, dagli avvocati De Longis e Maselli. La drammatica vicenda al centro del processo è ampiamente nota. Un delitto orribile che la donna aveva peraltro confessato nel corso dell’udienza terminata con il suo rinvio a giudizio. Aveva raccontato quel viaggio in auto da Quadrelle, dove abitava con Antonello, di lui più giovane di due anni, anch’egli sordomuto - lui ed i suoi congiunti, parti civili, sono rappresentati dall’avvocato Antonio Zobel - con l’intenzione di raggiungere la sua famiglia. Per non farsi fermare dai carabinieri aveva imboccato la Benevento - Caianello, giungendo all’altezza di Solopaca, dove la Opel Corsa si era schiantata contro il guard-rail. Era scesa, aveva preso tra le braccia Diego e l’aveva lanciato di sotto. Poi, intenzionata a farla finita, aveva fatto altrettanto, restando impigliata tra i rovi, al pari del bimbo. Lei lo aveva raggiunto e colpito alla testa con un pezzo di legno, ammazzandolo. Bergamo. Gori: “Urgente il vaccino in carcere, ma Arcuri non risponde” di Lucia Cappelluzzo bergamonews.it, 21 gennaio 2021 La sollecitazione del sindaco di Bergamo al mondo della politica a fronte dell’emergenza Covid nelle carceri durante la trasmissione di Radio Radicale. L’emergenza Covid nelle carceri italiane non accenna ad arrestarsi. Di questo si è parlato nella puntata di Radio Radicale della serata di martedì 19 gennaio 2021 che ha avuto tra gli ospiti anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori dopo che il 13 gennaio ha inviato una lettera al commissario straordinario Domenico Arcuri (firmata anche dalla direttrice del carcere di Bergamo Teresa Mazzotta e la Garante dei diritti dei detenuti di Bergamo Valentina Lanfranchi) dedicata ai detenuti e al personale penitenziario. Nella lettera la richiesta di includere con urgenza i detenuti e il personale carcerario, al momento ancora esclusi, nella lista dei destinatari di vaccino covid-19. Ma ancora nessuna risposta è arrivata da Arcuri, come ha raccontato il sindaco di Bergamo a Radio Radicale. Eppure, l’emergenza c’è eccome nelle case circondariali italiane. Come riportato dalla trasmissione radiofonica, “se è vero che negli ultimi giorni di dicembre e nei primi gennaio abbiamo assistito ad un graduale calo di contagi passando da 1800 positivi a 1260 tra detenuti, agenti e personale amministrativo, tuttavia, dopo la prima settimana di gennaio il dato ha ricominciato a crescere di nuovo. In base agli ultimi dati del 14 gennaio si conta 718 positivi, 640 agenti e 61 operatori contagiati, per un totale di 1419 risultate positivi nelle carceri italiane”. A preoccupare, in particolare, sono le carceri lombarde dove si contano “oltre 200 detenuti positivi”. Secondo le ultime rilevazioni del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (dati aggiornati alle 20 dell’8 gennaio scorso), in particolare, all’interno del carcere di Bergamo ci sono 25 detenuti positivi al Covid asintomatici e un altro in ospedale. Anche se, ascoltando le famiglie dei detenuti nella casa circondariale bergamasca, i positivi risultano essere molti di più. E, attualmente, nel carcere di Bergamo continuano ad essere sospese in presenza tutte le attività esterne (come scuola e laboratori creativi). “É ovvio che è auspicabile un piano vaccinale funzionante per tutti i cittadini, ma la lettera ha lo scopo di puntare l’attenzione verso una categoria che non è mai entrata a fare parte del dibattito pubblico attorno alle priorità della somministrazione del vaccino. Si è discusso degli insegnati, degli operatori sanitari, dei poliziotti, ma i detenuti e il personale penitenziario fanno fatica ad entrare in un dibattito. Eppure urla di essere ascoltato”, ha raccontato Gori a Radio Radicale. Le carceri, infatti, sono luoghi chiusi, promiscui, insalubri, dove mancano fisicamente gli spazi per isolare i casi positivi e dove, perciò, è quasi impossibile arginare del tutto il virus. Un discorso che si innesta nell’annosa questione del sovraffollamento nelle carceri italiane: solo nella casa circondariale di Bergamo risultano esserci 489 detenuti a fronte di 315 posti disponibili, come riporta il sito del Ministero della Giustizia. “Anche se il ministro Bonafede e il premier Conte continuano a dire che la situazione nelle carceri è sotto controllo così non è. Ed è urgente che la politica se ne occupi. Il carcere, anche se può sembrare un’oasi anti Covid essendo un luogo chiuso, così non è e non si può continuare ad ignorarlo, ma è necessario intervenire curando e prevenendo”, ha concluso Gori. Una richiesta che aveva già fatto la senatrice a vita Liliana Segre, con un’interrogazione al presidente del Consiglio dei ministri e al ministro della Giustizia, chiedendo che tra le persone con precedenza per il vaccino venissero inseriti anche i carcerati. E che è stata discussa anche al Consiglio regionale della Lombardia con un ordine del giorno promosso dal gruppo +Europa Radicali e da Azione. Mantova. Il Covid per ora è fuori dal carcere. “Ma vacciniamo subito i detenuti” di Roberto Bo Gazzetta di Mantova, 21 gennaio 2021 L’appello della direttrice del penitenziario: ecco come viene gestita la situazione in via Poma. “Si sta facendo di tutto per assimilare il carcere alle Rsa e fare in modo di vaccinare i detenuti nella prima fase della campagna anti Covid. Ma queste sono decisioni che saranno prese dagli organi centrali”. Metella Romana Pasquini Peruzzi da maggio è il direttore della Casa circondariale di Mantova, struttura penitenziaria che attualmente conta 120 detenuti su una capienza massima di circa 160. Proprio in questi ultimi giorni è alta la spinta da parte di enti e istituzioni per arrivare a proteggere anche la popolazione carceraria attraverso una vaccinazione il più veloce possibile. E sono in tanti a chiedere che i detenuti vengano vaccinati nella fase uno, quella dei centri sanitari e delle Rsa, e non nella fase due. “Finora - spiega la direttrice del carcere - abbiamo gestito bene questa emergenza sanitaria, grazie al nostro personale e al dirigente sanitario dell’Asst di Mantova che presta servizio nel nostro istituto. Da subito abbiamo effettuato attività di prevenzione attraverso l’esecuzione dei tamponi su personale e detenuti e, incrociando le dita, siamo riusciti a contenere la diffusione del coronavirus. Finora non abbiamo avuto alcun caso di contagio interno. Gli unici tre casi registrati erano riferiti a persone arrestate, quindi nuovi ingressi, segnalate subito al nostro provveditorato di riferimento e trasferite subito nella struttura Hub di Bollate. Finito il periodo di isolamento sono tornate nella a Mantova”. Pasquini Peruzzi fa sapere che all’inizio della pandemia nella casa circondariale di via Poma era stata allestita una zona Covid dove accogliere detenuti positivi, ma prima dell’estate è stato deciso di rimuoverla perché non ritenuta del tutto idonea per eventuali cure. Da sempre, comunque, la procedura di ingresso è assolutamente sicura e rodata: il nuovo detenuto viene tenuto in isolamento precauzionale fino all’esito dal tampone e, se negativo, viene introdotto in comunità con gli altri. Tornando sul fronte vaccini da venerdì la struttura ha iniziato a raccogliere le adesioni del personale, tra i quali in passato c’è stato qualche caso di positività, anche se asintomatico. “Al momento l’adesione è più che soddisfacente. Analoga iniziativa partirà a breve anche per i detenuti. In ogni caso sia per gli uni che per gli altri stiamo offrendo tutte le informazioni del caso attraverso opera di sensibilizzazione”. I cinque detenuti che godono dell’articolo 21, e cioè che possono uscire di giorno per svolgere attività lavorativa, dimorano in una palazzina separata rispetto al resto della struttura. Al rientro serale vengono comunque sempre monitorati con la misurazione della temperatura corporea. “Con l’Asst - conclude la direttrice del carcere - stiamo approntando, attraverso la formazione del nostro personale, una postazione vaccinale interna che ci sollevi dalla necessità di spostare i detenuti”. Torino. “Minori detenuti, obiettivo recupero sociale” newsbiella.it, 21 gennaio 2021 Chiara Caucino: “Occorre migliorare l’edilizia carceraria e rafforzare le custodie attenuate per le mamme con figli”. L’esponente della giunta Cirio ha visitato, insieme al Garante per i detenuti, Bruno Mellano e alla Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Ylenia Serra, il “Ferrante Aporti” di Torino. “Nonostante gli sforzi delle persone che gestiscono le strutture di detenzione per minori e nonostante la qualità dei servizi offerti ai ragazzi - in particolare relativi alla possibilità di studiare e di apprendere nuove professioni - credo che l’ambiente carcerario minorile, così come è in queso momento, non sia il luogo più adatto per raggiungere l’obiettivo finale, che - non dimentichiamolo - è quello di recuperare i ragazzi che si sono resi protagonisti di violazione della legge a una vita normale e a fargli comprendere il valore della legalità”. Così l’assessore regionale al Welfare, Chiara Caucino, che nei giorni scorsi, accompagnata dal Garante per i detenuti, Bruno Mellano e dalla Garante per l’Infanzia e l’adolescenza, Ylenia Serra, ha visitato l’Istituto Penale per minorenni “Ferrante Aporti” di Torino, constatando una situazione non priva di gravi criticità. Da qui l’intenzione di favorire la ristrutturazione degli ambienti che ospitano il “Ferrante Aporti” (unico centro di detenzione minorile del Piemonte), in particolare per quanto riguarda le celle in cui vivono e dormono i ragazzi: “Ho trovato - aggiunge Caucino - strutture obsolete, servizi igienici non adeguati, che in alcuni casi non sono compatibili con la dignità dei ragazzi reclusi, che va comunque garantita”. L’esponente della giunta Cirio precisa ancora meglio la sua posizione: “Non si tratta di creare un “albergo di lusso”, ovviamente, ma un ambiente pulito, con strutture aggiornate, “psicologicamente” non deprimenti, in modo da rendere più efficace la pena e renderla davvero un momento di recupero e di redenzione. “È inutile nascondersi dietro a frasi fatte - spiega Caucino. L’obsolescenza delle strutture presenti in Italia, Piemonte compreso e la frequentazione di un ambiente per sua natura poco accogliente, non facilita certamente la funzione correttiva della detenzione. Si rischia, in questo modo, paradossalmente, di ottenere l’effetto opposto, con i ragazzi che, invece di comprendere i loro errori e di essere aiutati a non commetterli più, si ritrovano, a fine pena, nelle condizioni di delinquere ancora. Ecco perché credo che compito della politica sia anche quello di garantire per tutti, ma a maggior ragione per i minori - strutture funzionali e dotate di tutti i servizi necessari, affinché i giovani che hanno sbagliato potranno trovare tutte le condizioni per comprendere i propri errori e per essere aiutati nel processo di pieno recupero nella società”. “È mia intenzione - conclude Caucino - rafforzare anche gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam), dal momento che la detenzione della madre non deve in alcun modo penalizzare la crescita e il rapporto con i propri figli”. La Legge 62/2011 ha introdotto nell’ordinamento penitenziario norme di maggior tutela per le detenute mamme, istituendo, appunto, in carcere le “Custodie attenuate” per le madri ristrette con i figli minori al seguito (per bimbi fino ai 6 anni), e prevedendo la nascita di una rete di Case famiglia protette (per bambini fino a 10 anni) per offrire un’accoglienza in ambiente senza sbarre. “Osservare gli spazi e il contesto della detenzione minorile aiuta a comprendere l’urgenza di prevedere luoghi e modalità diverse per l’esecuzione delle pene innanzitutto per i minori - ha aggiunto il Garante per i detenuti, Bruno Mellano. Al momento sono meno di 400 i giovani detenuti (circa 20 le ragazze) nei 17 Istituti penali minorili italiani, mentre le donne recluse nelle carceri per adulti sono tuttora ben 2.255 (attorno al 4% della popolazione detenuta), di cui 30 madri con 33 bambini al seguito e solo le più fortunate sono ospitate negli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). La visita all’Istituto minorile ha rappresentato il naturale prosieguo dell’incontro “Una casa senza sbarre”, organizzato nei mesi scorsi per sostenere la necessità di una rete italiana di Case famiglia e per avviare una verifica urgente di fattibilità per edificarne una in Piemonte, la terza in Italia dopo quelle già operative a Roma dal 2016 e a Milano dal 2018. È il momento di agire perché il contesto nazionale sembra quanto mai favorevole: l’approvazione di un emendamento alla Legge di Bilancio prevede infatti di creare un fondo per accogliere i genitori detenuti con i propri figli al di fuori delle strutture carcerarie con uno stanziamento di 1,5 milioni di euro annui per il triennio 2021-2023 e la Cassa delle ammende si è dichiarata disponibile a finanziare già nel 2021 progetti mirati a rendere operative le strutture per mamme con bambini”. “Visitare l’istituto penale per i minorenni con l’assessore Chiara Caucino e il Garante dei detenuti Bruno Mellano, è stata un’esperienza importante - conclude la Garante per l’infanzia e l’adolescenza Ylenia Serra - per vedere la struttura, confrontarsi con la Direzione e apprendere, anche dalla viva voce dei ragazzi, come si sviluppa la loro quotidianità. Ho potuto constatare il ruolo fondamentale che riveste il percorso rieducativo per i minori ristretti all’interno dell’istituto, teso non solo a una revisione critica del reato commesso e a evitare la recidiva, ma anche a costruire o ricostruire nuove opportunità di crescita e di vita futura. I numeri sono piuttosto esigui: al momento della visita erano presenti complessivamente 24 ristretti, di cui 12 infra diciottenni e 12 di età compresa tra i 18 e i 25 anni. È stato sicuramente un passo importante per conoscere e approfondire le condizioni di vita e le aspirazioni di chi è ospite degli Istituti penali per minori e una sfida per un maggiore impegno nella promozione di progetti educativi e di prevenzione del disagio giovanile e nel sostegno alle famiglie”. Roma. Identificazioni senza preavviso: “Per quelle donne è stata l’ennesima violenza” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 21 gennaio 2021 Sono circa le 7 del mattino quando un gruppo di agenti del Commissariato Tuscolano si introduce all’interno della Casa delle Donne “Lucha y Siesta” di Roma per identificare quattro persone. Si tratta di quattro donne, ospiti della struttura per un fine ben preciso: sottrarle alla violenza. I fatti risalgono a martedì scorso: il figlio di una delle ospiti esce per andare a scuola, lasciando il cancello aperto. Quindi gli agenti accedono alla struttura, arrivano al primo piano e bussano alla porta delle stanze per procedere all’identificazione: senza alcun preavviso, come vorrebbe la prassi, e senza attendere l’arrivo delle avvocate e delle operatrici. Perché? Per spiegare l’accaduto bisogna fare un passo indietro. Nel 2019 la procura di Roma apre un fascicolo contro ignoti per occupazione abusiva dell’immobile. “Probabilmente in seguito all’ultima denuncia dell’Atac e prima che si aprisse la procedura per le aste”, spiega l’avvocata Federica Brancaccio che segue legalmente le donne identificate. Da allora le cose sono cambiate. “Quando l’Atac ha deciso di sfrattarle e vendere l’immobile per sanare i propri debiti, la Regione Lazio ha deciso di mettere a disposizione i fondi per acquistare l’immobile e garantire la continuità dell’esperienza”, precisa Antonella Veltri, presidente della Rete Antiviolenza D.i.Re. Che ora si rivolge direttamente alle istituzioni perché accelerino “le procedure per la compravendita dell’immobile, riconoscendo l’enorme lavoro fatto sin qui e facendo in modo che episodi come quello a cui abbiamo assistito non debbano mai più ripetersi”. “Da oltre 30 anni - precisa Veltri l’attivismo femminista ha dato vita a centri antiviolenza e case rifugio autogestite che hanno colmato una lacuna enorme dell’Italia - rilevata anche dalla Special Rapporteur sulla violenza delle Nazioni Unite e dal Grevio, il Gruppo di esperte del Consiglio d’Europa che monitora l’applicazione della Convenzione di Istanbul - ovvero la gravissima carenza L di posti per supportare le donne che hanno subito violenza e i/ le loro figli/ e”. Come nel caso di Lucha y Siesta che - accogliendo numerose donne su segnalazione di altri centri riconosciuti sul territorio nazionale - rappresenta da oltre dieci un punto di riferimento essenziale nel contrasto alla violenza di genere, oltre che un “un patrimonio per l’intera città di Roma”, per citare le parole di Giovanna Pugliese, assessore alle Pari Opportunità e Turismo della Regione Lazio. Ma torniamo ai fatti. E alle polemiche che l’accaduto ha suscitato in seguito alla denuncia delle stesse operatrici di Lucha y Siesta: “Le donne ospitate nella Casa, come noto, stanno vivendo percorsi di fuoriuscita dalla violenza - spiegano le attiviste su Facebook - sono seguite dai servizi sociali, sono inviate da strutture che non hanno lo spazio per accogliere, hanno fatto un percorso di ascolto, di screening sanitario regionale, sono in molti casi seguite in collaborazione con altre associazioni che si occupano di contrasto alla violenza di genere e che trovano in Lucha una risorsa preziosa. Le loro identità sono ben note; perché, quindi, identificarle e agire nei loro confronti l’ennesima violenza? Quale sarebbe il senso di una simile operazione?”. E ancora: “Lucha y Siesta - scrivono le operatrici - è bene prezioso per la città, a cui ogni giorno le istituzioni stesse si rivolgono per dare risposte a bisogni che altrimenti non saprebbero affrontare. È così da 12 anni. Qui ogni giorno si lotta per costruire accoglienza, orientamento e supporto. Non tollereremo dunque il modo scomposto e abusante con cu l’identificazione è stata compiuta, non tollereremo l’arroganza con cui si asfaltano percorsi di donne che lottano per uscire dalla violenza, non tollereremo atteggiamenti inopportuni di chi dovrebbe essere formato contro la violenza di genere, ma evidentemente in modo insoddisfacente e inadeguato”. “Più che un’identificazione sembrava una perquisizione”, racconta l’avvocata Brancaccio, che precisa: le identificazioni, richieste dalla magistratura, “sono assolutamente lecite”. “Ma le modalità ci sembrano quantomeno atipiche”, aggiunge. Di norma, infatti, ai soggetti indagati è rilasciato un invito a presentarsi in commissariato per l’identificazione e la nomina del difensore: “Un’attenzione che, aldilà della procedura, era dovuta”, aggiunge Brancaccio. Proprio in considerazione della particolare condizione di fragilità in cui si trovano le ospiti della struttura, e con una premessa necessaria: nell’avviso che informava le donne del procedimento a loro carico non era specificato il reato contestato. “Non è mai facile gestire i colloqui con donne che affrontano certi percorsi, e vederle spaesate, intimorite, per un’identificazione che poteva - e doveva - essere risolta diversamente, risulta incomprensibile a livello umano”, conclude la legale. Ancona. Tempo di cavoli al carcere di Barcaglione: nel 2020 oltre 200 cassette anconatoday.it, 21 gennaio 2021 Un’iniziativa arrivata al suo settimo anno e che coinvolge circa il 60% dei reclusi seguiti dai tutor agricoli di Coldiretti Senior per sempre Ancona. Oltre 200 cassette di frutta e verdura e un lavoro che non si è fermato nonostante il Covid. Anche all’interno del carcere di Barcaglione la campagna non si è fermata con il lavoro dei detenuti nell’orto sociale della struttura. Un’iniziativa arrivata al suo settimo anno e che coinvolge circa il 60% dei reclusi seguiti dai tutor agricoli di Coldiretti Senior per sempre Ancona, sotto l’occhio attento di Sandro Marozzi, l’agronomo della casa circondariale dorica. Proprio in questi giorni si sono raccolti circa 400 tra cavolfiori, dal violetto al giallo, al bianco, vere e broccolo romano. Attrezzi in mano, in campo una dozzina al giorno, nonostante il Covid abbiamo condizionato tutti i ritmi quotidiani della struttura, gli spazi non mancano e si è riusciti a lavorare in sicurezza. “Il 2020 - spiega con soddisfazione Antonio Carletti, presidente regionale di Coldiretti Senior per sempre Ancona Coldiretti e tutor dell’orto - è stato chiuso in maniera eccellente. Quest’anno abbiamo raccolto pomodori, peperoni, zucchine, cetrioli, meloni e cocomeri. Dopo i cavoli abbiamo piantato la fava. Coltiviamo tante varietà anche per far conoscere la biodiversità a questi ragazzi”. Un’esperienza che per la sua valenza sociale, lo scorso agosto è stata finalista della fase regionale degli Oscar Green 2020 e che, durante le feste natalizie, si è affacciata al pubblico con uno stand al Mercato natalizio di Campagna Amica ad Ancona. “Da quattro anni a questa parte - aggiunge Carletti - partecipiamo a questa iniziativa con l’olio extravergine di oliva e il miele che produciamo. Le persone che ci conoscono per la prima volta e li provano, poi tornano e questo è un gran bel modo di trasmettere fiducia e dare coraggio a queste persone in cerca di riscatto”. Il progetto dell’orto sociale di Barcaglione è stato istituito dalla stessa Casa Circondariale. I pensionati di Coldiretti Ancona hanno messo a disposizione la loro esperienza e competenza, il loro tempo, insegnando ai detenuti come gestire la terra e supervisionando il lavoro. Cagliari. Diritto allo studio anche per i detenuti, oggi una tavola rotonda L’Unione Sarda, 21 gennaio 2021 Si tiene oggi alle 17, l’incontro on line organizzato dalla Facoltà di Studi umanistici per celebrare i 400 anni dell’Ateneo. Sarà un momento di confronto e dibattito dal significativo titolo “L’Università e il recupero sociale: dalle carceri alle comunità”. Al centro dell’iniziativa, l’impegno profuso dall’Ateneo del capoluogo sardo per garantire il diritto allo studio anche ai detenuti, con l’attivazione del Polo Universitario penitenziario che nei mesi scorsi ha offerto lezioni e seminari a coloro che ne hanno fatto richiesta. Il coinvolgimento - Un’attività che ha coinvolto nel tempo decine tra ricercatori e unità di personale tecnico-amministrativo dell’Università di Cagliari. Prosegue infatti l’impegno nella promozione di attività di formazione universitaria in carcere per garantire il diritto allo studio di condannati e condannate in regime di privazione della libertà. Coordinato da Cristina Cabras, docente di Psicologia sociale del Dipartimento di Pedagogia, psicologia e filosofia dell’Ateneo, il seminario - dopo i saluti della rettrice Maria Del Zompo, vedrà gli interventi di Gianfranco De Gesu (Direttore generale dei detenuti, Amministrazione penitenziaria), Maurizio Veneziano (Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria), Franco Prina (Conferenza Nazionale dei Poli Universitari penitenziari), Maria Elena Magrin (Università di Milano). Interverranno inoltre Claudia Secci (Ateneo Cagliari), don Ettore Cannavera (Psicologo responsabile della comunità La Collina). Garantita, come per gli incontri precedenti, la diretta streaming sulle pagine social di UniCa. “Noi schiavi dell’alcol. Colpa del lockdown che ci fa sentire soli” di franco giubilei La Stampa, 21 gennaio 2021 Impennata della vendita di bottiglie via Internet: aumenti fino al 250%. Le associazioni d’aiuto: “Chiusi in casa ordinano online senza imbarazzi”. Gli effetti collaterali della pandemia si mostrano già ora nell’impennata delle vendite di alcolici online durante il lockdown: un vertiginoso aumento stimato fra il 180 e il 250%, come riporta Alcolisti Anonimi citando dati dell’Istituto superiore di sanità. Il rapporto con la clausura forzata provocata dalle misure anti-Covid è immediato e vistoso: “È la solitudine la cosa più devastante per chi ha problemi con l’alcol, il fatto di non poter uscire di casa ha facilitato un consumo più alto - dice Elio, del Comitato esterni area Lazio di A.A. -. Se a locali aperti, per esempio, il bevitore tende a visitare parecchi bar per sfuggire all’etichetta dell’alcolista, adesso che la gente è chiusa in casa è molto più facile fare l’ordine online ed evitare imbarazzi”. C’è il riflesso pesantissimo del Covid sul consumo di alcolici e ce n’è un altro sull’attività di chi lavora sul recupero degli alcoldipendenti: “La maggior parte delle persone che si trovano nel percorso iniziale ha registrato delle ricadute in questo periodo - aggiunge Elio, la cui associazione ne accoglie complessivamente fra i cinque e i seimila, divisi in 450 gruppi da 10-20 componenti l’uno -. Almeno il 50% di quanti si trovano a inizio programma è tornato indietro”. Non è detto che la persona non torni sui suoi passi, ma perché ciò avvenga è importantissimo che non sia lasciata sola. Gli amici di Alcolisti Anonimi si fanno vivi al telefono, ma le occasioni di contatto reale sono azzerate, dunque l’effetto-abbandono è più grave. Allo stesso tempo, il lockdown ha visto l’avvicinamento di soggetti più giovani, anche loro a partecipare a riunioni non più in presenza ma dietro il proprio pc, con tanti saluti all’empatia e al contatto diretto, decisivi per l’efficacia del trattamento. Fra loro c’è Alfredo, 24 anni, di Roma: “Con il lockdown ho capito di avere un problema, la noia provocata dall’essere recluso in casa - racconta -. Già prima mi divertivo soltanto bevendo, ma il non poter più uscire e frequentare certi locali ha peggiorato le cose. Sono diventato violento in casa e con gli amici. Poi ho compreso il problema e l’ho affrontato”. Un mese fa ha preso contatti con Alcolisti anonimi e ha cominciato a frequentare un gruppo nella sua zona. Le donne, nella rete di aiuto di A.A., sono una minoranza: solo il 20% è di sesso femminile, un dato che rivela in chiaroscuro un abuso di alcol sotterraneo, ma proprio per questo ancora più devastante perché nascosto e solitario. È molto più raro veder bere da sola una ragazza in pubblico che un uomo, un gesto che viene accompagnato da uno stigma più pesante di quanto accada ai maschi. Maria, 45 anni, appartiene a quella minoranza: “È stato il mio psicologo ad inviarmi ad A.A. Lavoravo come infermiera in un pronto soccorso ma il mio problema con l’alcol mi ha resa inidonea a quel ruolo, così sono stata trasferita in amministrazione. Il lockdown ha reso più acuto il problema, l’isolamento ha incoraggiato l’uso. Sono riuscita a ridurre il consumo, ma per ora bevo ancora”. C’è anche chi riesce a restare nel gruppo per qualche mese, poi ricasca nell’alcol e poi ci ritorna, come Alessandro, 48 anni, agente immobiliare che ha dovuto anche fare i conti con la crisi del suo settore: “Mi sono allontanato per un mese dall’associazione, ma loro mi hanno cercato perché ricominciassi: ho ripreso e smesso di bere. Una delle cose peggiori di questo periodo è non avere contatti in presenza, il web da questo punto di vista è molto limitativo, per noi è importante la relazione”. Se a soffrire di più le conseguenze del lockdown sono i giovani che si sono avvicinati più di recente, ci sono anche “anziani”, gente che frequenta i gruppi da diversi anni e che non regge alla mancanza delle riunioni vis-à-vis, dove l’energia empatica dei partecipanti ha più forza: “Quattro persone che conoscevo si sono suicidate nel primo periodo di lockdown - dice Pasquale, 55 anni, di Caserta, da 17 anni in A.A. -, e poi ci sono state tante ricadute, non solo fra i nuovi arrivati, e questo perché essere privati del gruppo dopo tanto tempo è come ritrovarsi senza una stampella. Il contatto con quelli come te, per noi, è essenziale”. Dentro il campo-lager dei migranti di Lipa, in Bosnia: in fila sotto la neve in ciabatte di Antonio Crispino Corriere della Sera, 21 gennaio 2021 Sono in 980 in condizioni igienico-sanitarie terribili. Ma 1.500 sono sparsi tra i boschi al gelo senza assistenza medica e umanitaria. SimMobile Service è un negozio che si trova nel centro di Bihac in Bosnia, città a 16 km dal confine con la Croazia. Vende sim card per gli smartphone ed è la tappa obbligata dei migranti che arrivano con la speranza di varcare il confine ed entrare in Europa. Se sono arrivati fin lì vuol dire che hanno già attraversato Turchia, Grecia, Serbia. Dal 2018 ne sono transitati 70mila per lo più provenienti dal Pakistan, Afghanistan, Marocco, Iran, secondo i dati della Croce Rossa. Il proprietario del negozio è un ragazzo poco più che trentenne, bosniaco. Quando varchiamo la porta del suo locale alza appena gli occhi dalle carte poggiate sulla scrivania, lancia un’occhiata e scatta impetuoso verso di noi gridando “Go out, go out”. Forse ingannato dall’abbigliamento approssimativo, la barba lunga e l’aspetto stanco per il viaggio di quasi cinque ore da Trieste, ci scambia per migranti. Proviamo a spiegargli che siamo lì solo per acquistare una sim card per i nostri telefoni ma non c’è verso. “No migrants, no migrants. Do you understand?” e ci sbatte fuori la porta, a spintoni. La ragione di questa fobia si capisce girando per la città e leggendo gli articoli della stampa locale. Bihac è al centro del bellissimo Parco Nazionale di Una. È attraversato dai limpidi fiumi Una e Sana dove si fa il rafting o le escursioni in barca. Da qualche anno qua sta scoprendo il turismo di massa dopo aver conosciuto le atrocità della guerra. I dati raccolti dall’Agenzia per le Statistiche della Federazione della Bosnia mostrano che nel 2014 ha avuto 30.140 turisti e nel 2019 ha praticamente raddoppiato le presenze. Tuttavia - come riporta il giornale Balkan Insight- l’associazione dei datori di lavoro della Federazione della Bosnia e l’associazione dei datori di lavoro del cantone Una Sanache ritengono che “la situazione con i migranti e i rifugiati minaccia di distruggere il turismo a Bihac”. Anche se, paradossalmente, gli ultimi due anni in cui c’è stata l’impennata migratoria corrispondono al boom turistico. Eppure, in città di migranti non se ne vedono. Sono stipati in un campo sulla sommità di una collina a Lipa, a circa 25 km di distanza. Andare a vedere significa percorrere nel bosco una strada innevata dove non passa neanche lo spazzaneve. Ci passano, invece, i pochi mezzi delle organizzazioni umanitarie che qui solo da poco sono riuscite a portare un minimo di riscaldamento e acqua corrente. Il termometro segna -13 gradi, si ghiaccia anche il fiato, c’è un metro di neve. Arrivati sulla spianata, da un lato si vedono gli scheletri dei capanni incendiati il 23 dicembre per cause ancora ignote. Ci vivevano 1400 persone. Oggi ne sono 980 ospitati in 30 tende militari messe a disposizione dall’esercito e gestite dal Servizio per gli affari esteri SFA che é l’organo incaricato della gestione delle entrate e uscite dei migranti nel paese. “Stiamo allacciando l’elettricità in accordo con le autorità. Stiamo lavorando con le autorità locali e federali per migliorare le condizioni di accoglienza per evitare catastrofi umanitarie come quella che si é prodotta a fine anno” dice Laura Lungarotti che da poco è arrivata in Bosnia Herzegovina come rappresentante per l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. La polizia che circonda il campo non vuole che si facciano riprese video. La pressione internazionale sulla Bosnia nell’ultimo periodo è aumentata a causa delle condizioni inumane dei migranti che bussano alla porta dell’Europa. E le immagini sono terribili. Centinaia di uomini in fila sotto la neve con indosso solo una t-shirt o calzando dei sandali. Alcuni cercano di bardarsi alla meno peggio ma il freddo è feroce. Il perimetro è delineato dal filo spinato. La rievocazione di altre pagine nere della storia è inevitabile. Lungo la strada del ritorno incontriamo Mohamad, ha 17 anni, viene dal Pakistan. È andato via dal campo di Lipa e ha trovato rifugio tra le macerie di una casa diroccata dove entra più neve che calore. Durante l’intervista inizia a denudarsi per mostrare macchie sulla pelle, le ha ovunque. Si gratta in preda a un prurito irrefrenabile. Non si lava da quindici giorni. “Mi hanno dato il paracetamolo ma non mi passa. Qui danno paracetamolo per qualunque cosa, ho bisogno di un medico”. Ha deciso di arrivare a Bihac a piedi, sono 26 km. Non è l’unico. La Federazione Internazionale Croce Rossa e Mezzaluna Rossa stima che come lui al di fuori dei centri di accoglienza nel Cantone dell’Una Sana ce ne siano 1500 sparsi tra i boschi mentre 6074 migranti sarebbero ospitati negli altri campi, ossia quelli a Sarajevo, Mostar, Bihac, Cazin e Velika Kladusa. C’è anche di peggio. Come i campi improvvisati nati nelle ex zone industriali. Ci porta un ragazzo che incontriamo per strada mentre tenta di trasportare due contenitori di acqua. Lo fa ogni giorno per tre chilometri. Poi arriva in questi capannoni spettrali, fatiscenti, putridi. Tutto attorno è un impasto di neve, rifiuti e cenere. Ogni baracca è abitata. Come porta hanno un telo per ripararsi dal freddo. Non c’è luce, acqua, riscaldamento. Da dietro ogni “porta”, da sotto tutto quel buio, dalla coltre fitta di fumo e brandelli cenere, dalla puzza nauseabonda che opprime ogni respiro emergono sei persone in uno stanzino decrepito di 4mq. In quello dopo altre sei, poi altre cinque, poi altre otto, poi altre sei, poi altre tre... Un braciere brucia qualunque cosa. Un ragazzo giovanissimo ha i piedi nudi infilati nel fuoco. Passano alcuni secondi e non li toglie. Spiega che la neve li ha resi insensibili. “Questa è casa mia” dice con una voce dolce e malinconica mentre cerca di sorridere. Ci vive insieme ad altre 5 persone. C’è chi è sotterrato dagli stracci, chi spacca legna da bruciare, chi cerca di preparare qualcosa da mangiare. I rifiuti fanno da materasso a uno di loro, ha vent’anni, viene dal Pakistan. È partito nove mesi fa da casa sua e ha percorso la tratta balcanica fino a quando è stato respinto alla frontiera. Il “gioco”, così chiamano il tentativo di entrare in Europa. Lui ci ha provato dieci volte finché la polizia croata lo ha arrestato, gli ha tolto indumenti, soldi e telefonino. “Ce la farò prima o poi. Ora vorrei solo parlare con la mia famiglia, non li sento da mesi, non sanno se sono vivo. Appena potrò comprerò un telefono e una sim card”. Egitto. “Telefonate, controlli, video. Gli 007 egiziani hanno mentito su Regeni” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 gennaio 2021 I pm di Roma chiedono il rinvio a giudizio per quattro di loro. La trappola mortale in cui è caduto Giulio Regeni è svelata - almeno in parte - dalle dichiarazioni degli stessi uomini accusati di averla organizzata. Negli interrogatori resi da uno dei quattro militari egiziani ora imputati del sequestro e dell’omicidio del ricercatore friulano, ad esempio, sono contenute affermazioni reticenti, non credibili e a volte contraddittorie che la Procura di Roma considera indizi di una sua diretta responsabilità. Contribuendo alla richiesta, firmata ieri dal procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco, di processare il generale Tariq Ali Sabir, già ai vertici della National security agency e da poco trasferito a incarichi amministrativi; il colonnello Athar Kamel Mohamed Ibrahim, già capo del Servizio investigazioni giudiziarie del Cairo; il colonnello Uhsam Helmy, anche lui funzionario della National security come il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Proprio il colonnello Sharif - accusato anche delle torture e della morte di Giulio, gli altri solo del rapimento - è stato interrogato cinque volte dalla Procura generale egiziana, tra il 2016 e il 2018. La sua versione dei fatti sembra cucita per sminuire il proprio ruolo, e sostenere che la National security ha svolto solo regolari e normali indagini a carico di uno studente italiano che si comportava in maniera strana, poi prosciolto da ogni sospetto; stessa tesi della magistratura del Cairo, che s’è pubblicamente dissociata dalle conclusioni dei pubblici ministeri di Roma. Ma proprio quei verbali, trasmessi all’Italia e allegati agli atti del procedimento, mostrano seri dubbi sulla ricostruzione fornita dall’Egitto. Sharif dice che fu il sindacalista Mohamed Abdallah a denunciare “uno straniero che stava svolgendo un’indagine sui venditori ambulanti, e temeva che lo sfruttasse per ottenere informazioni dannose nei confronti dello Stato. Questa persona è Giulio Regeni”. Il generale Sadiq decise di approfondire il caso e Sharif racconta: “Io ho collaborato con Abdallah per arrivare alla verità dei fatti”. Però fu il sindacalista, “di sua propria iniziativa”, a carpire informazioni sul bando per il finanziamento di 10.000 sterline da parte della società britannica Antipode, anche “fingendo che le sue condizioni finanziarie fossero difficili e che avesse bisogno di soldi per curare la moglie e la figlia”. Sharif dice che la video-registrazione del colloquio tra Abdallah e Regeni del 7 gennaio 2016, quando il ricercatore italiano ribatte bruscamente alle richieste di denaro, fu un’iniziativa del sindacalista: “Propose di registrare gli incontri attraverso il suo telefono cellulare e portarmi le registrazioni per assicurarmi la sua sincerità”. Abdallah afferma il contrario, e la conferma arriva dalla sua telefonata alla sede della National security in cui - terminato il colloquio con Giulio - chiede agli agenti di andare a toglierli di dosso la microtelecamera e il microfono che avevano installati sui suoi vestiti. Spagna. Operaio italiano morto in carcere a Ibiza, lunedì l’autopsia di Claudio Tadicini Corriere del Mezzogiorno, 21 gennaio 2021 Per le autorità spagnole il brindisino Marco Celeste si è suicidato. I sospetti della famiglia. È stata fissata per lunedì mattina l’autopsia sul corpo del trentaseienne Marco Celeste, di Brindisi, deceduto il 30 dicembre scorso nel carcere di Ibiza, sulla cui morte la procura di Brindisi ha avviato un’indagine dopo l’esposto presentato dai familiari del ragazzo, che non credono alla versione del suicidio fornita loro dalla polizia spagnola. L’incarico è stato conferito al medico legale Domenico Urso, che sarà affiancato da un consulente di parte nominato dalla famiglia Celeste. L’obiettivo dell’accertamento tecnico irripetibile è quello di verificare se la morte del brindisino (la cui salma è giunta a Brindisi nella tarda serata di martedì) sia compatibile con la versione dell’estremo gesto, oppure se il decesso sia stato causato da altro. I familiari del ragazzo sono assistiti dall’avvocato Giacinto Epifani: in attesa delle prime risposte che giungeranno dall’esame, continuano a star chiusi nel loro dolore. Il trentaseienne viveva da solo ad Ibiza, isola spagnola delle Baleari, dove si era trasferito quattro anni fa per lavorare come operaio. La scorsa estate, il 26 giugno, era stato arrestato dalle autorità iberiche perché accusato di avere appiccato un incendio ad un bosco. E da quel giorno, fino al drammatico 30 dicembre, era stato detenuto nel carcere dell’isola, dove - secondo la polizia spagnola - si sarebbe poi impiccato. Marco Celeste, il giorno prima di morire, aveva effettuato una videochiamata con la madre, nella quale - come la donna ha riferito al suo legale - si mostrava tranquillo, stava bene, felice perché presto sarebbe uscito dal carcere per fare ritorno in Italia. Aveva ottimi rapporti con gli altri detenuti e, a quanto ne sappiano ad oggi i familiari, non era mai stato protagonista di atti autolesionistici. Né aveva davanti a sé un lungo periodo detentivo: la sua scarcerazione in attesa del processo (in caso di condanna avrebbe rischiato una pena dai 3 ai 4 anni), infatti, era prevista per marzo. Gli accertamenti disposti dalla magistratura brindisina consentiranno di fugare i dubbi della madre e del fratello di Marco Celeste, ai quali lo stesso brindisino - durante alcuni colloqui telefonici aveva riferito di alcuni contrasti sorti con la polizia carceraria spagnola, da lui definita “non dolce di sale”. Nel novembre precedente, l’operaio brindisino era stato sottoposto ad intervento per una frattura multipla alla tibia, che si era procurato - secondo la versione riferita dalla direzione del carcere - durante una partita di calcetto tra detenuti. Africa e diritti umani, il report di Human Rights Watch di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 21 gennaio 2021 “Eccessivo uso di coercizione, detenzioni arbitrarie e abusi da parte dei governi”. La scarsa trasparenza delle leadership nella gestione dei fondi assistenziali ricevuti. I principali avvenimenti del 2020 nel Continente, segnati da gravissime violazioni. Mausi Segun, direttrice della sezione Africa di Human Rights Watch (Hrw) riassume così l’anno appena trascorso: “In moltissimi Paesi del Continente abbiamo riscontrato un eccessivo uso di coercizione, detenzioni arbitrarie e altre forme di abusi da parte delle forze governative nell’ambito della risposta sanitaria. Al tempo stesso, è mancato il supporto per le comunità più vulnerabili durante il periodo dell’isolamento. Molti governi inoltre hanno mostrato scarsa trasparenza nella gestione dei fondi assistenziali ricevuti”. Xenofobia in Sud Africa, repressioni nello Zimbabwe. A conferma di queste parole interviene Dewa Mahinga direttore della sezione Africa meridionale: “Per quanto riguarda la regione, la sfida più difficile è stata la risposta regionale alla pandemia. In Sudafrica prosegue la grave ondata di xenofobia a danno di migranti: “il governo e l’apparato delle forze dell’ordine falliscono nell’applicare le leggi e assicurare la giustizia, e spesso si macchiano in prima persona di atti discriminatori e abusi ai danni dei migranti”. In Zimbabwe continua la repressione delle voci critiche da parte delle forze governative. Secondo HRW sono stati commessi decine di arresti arbitrari, assalti violenti, rapimenti e torture ai danni di dissidenti, oppositori politici e attivisti. Inoltre, il Paese ha scarso accesso all’acqua potabile: nella capitale sono circa due milioni le persone senza accesso all’acqua o a sistemi igienico-sanitari. La crisi del Tigray. Nel Corno d’Africa è in corso una crisi umanitaria nella regione etiope del Tigray. Secondo Laetitia Bader, direttrice della regione di Hrw, è ancora difficile avere una fotografia chiara dell’impatto umanitario di questo conflitto. Altrettanto difficile sarà attribuire le responsabilità, “Servirà un impegno internazionale senza precedente per ottenere processi giusti”. Soltanto nei primi tre mesi del 2020, oltre 9000 eritrei hanno passato il confine etiope per sfuggire alla repressione governativa. Molte altre migliaia sono fuggite in altri Paesi. Si calcola che siano 96.000 i rifugiati eritrei nella regione del Tigray. Dall’inizio dell’anno le Nazioni Unite calcolano 100.000 sfollati interni nella regione, che si aggiungono alle 850.000 persone che necessitavano assistenza umanitaria già prima dell’inizio del conflitto. Molte persone sono scappate in Sudan, che sta attraversando una fragile transizione politica dopo la fine del governo Al-Bashir nel 2019. “La situazione politica ed economica è ancora molto fragile, le persone scendono in strada e chiedono più riforme. La pandemia ha complicato tutto”. Somalia, l’assalto delle locuste. Sempre nella regione del Corno d’Africa e in particolare in Somalia c’è stata una delle più grandi invasioni di locuste degli ultimi 25 anni, tanto che il Paese ha dichiarato l’emergenza nazionale. Anche il Kenya è stato colpito duramente per la prima volta da oltre 70 anni. Le piogge torrenziali che hanno colpito la zona, altrimenti desertica, nel 2019 hanno creato le condizioni ideali per la riproduzione e lo sviluppo delle locuste. Continua la violenza nel Sahel. Nel 2020 le morti causate dal jihadismo islamista nell’area del Sahel occidentale comprendente Mali, Niger, Burkina Faso, sono aumentate del 60% rispetto al 2019, sfiorando quota 4250. Lo Stato Islamico del Sahara (Isgs) è collegato alla maggior parte degli attacchi. “Il Burkina Faso è stata oggetto di moltissimi attacchi a base etnica, e questo non fa che aumentare le tensioni interetniche. Inoltre, lo Stato fa sempre più affidamento su milizie e gruppi paramilitari, legalizzati all’inizio del 2020 da una legge piuttosto ambigua”, afferma Johnatan Pedneault, ricercatore nella divisione Conflitti e crisi di Hrw. Egitto. Lo scrittore Al Aswani: “Il regime di Al Sisi è come una malattia” di Marta Serafini Corriere della Sera, 21 gennaio 2021 L’autore di Palazzo Yacoubian e di un nuovo saggio sulle dittature commenta il caso dello studente dell’Università di Bologna: il presidente egiziano lo sta usando per mandare un messaggio. “Quando una rivoluzione non riesce ad eliminare un regime, questo diventa come una tigre ferita che sbrana e attacca”. Sono passati pochissimi minuti da quando è arrivata la notizia che la detenzione preventiva di Patrick Zaki è stata prolungata di altri 15 giorni e lo scrittore egiziano Ala al-Aswani, autore tra gli altri di “Palazzo Yacoubian”, tuttora il romanzo più venduto nel mondo arabo, risponde al telefono da New York dove vive dopo essere stato costretto ad abbandonare il suo Paese. Generalmente la detenzione preventiva veniva rinnovata di 45 giorni, oggi questa notizia che secondo alcuni apre una speranza per la liberazione dello studente dell’Università di Bologna arrestato un anno fa. Come dobbiamo leggere questa decisione? “Le carceri egiziane sono stracolme di oppositori tenuti prigionieri con questo sistema. La detenzione preventiva dovrebbe servire ad evitare un inquinamento delle prove. Invece in Egitto - così come in altri Paesi - viene usata come punizione. Molti miei amici sono in prigione, come Patrick, senza essere stati messi sotto processo. Inoltre è “prassi” che la detenzione preventiva venga rinnovata per due anni e scaduto questo termine la persecuzione ricominci da capo senza che il prigioniero venga mai processato. Dunque è difficile dare una lettura perché non c’è nulla di razionale in tutto ciò”. Nel suo ultimo libro “La dittatura, racconto di una sindrome”, pubblicato da Feltrinelli lei scrive che le vittime dei regimi sono di più di quelle del coronavirus. Siamo tutti malati? “Nelle carceri di Al Sisi soffrono 60 mila oppositori - o almeno questo è il numero che abbiamo ma potrebbero essere molti di più. Ma non sono solo loro le vittime di questa persecuzione. Ogni prigioniero ha una madre, un padre, un fratello che pure soffrono pene terribili, come racconta anche la madre di Zaki in una lettera che avete pubblicato. Alla fine siamo tutti vittime di quell’oppressione e di quel regime”. Il regime è Abdel Fattah Al Sisi? “No un regime non è mai composto da una sola persona. I militari hanno il potere in Egitto e Al Sisi è il volto di questa dittatura. La dittatura di Al Sisi è la più repressiva che l’Egitto abbia mai conosciuto. Peggio di Mubarak, peggio del consiglio militare, peggio degli islamisti. Persino peggio di Nasser, stando a quanto mi è stato raccontato. E questo si spiega perché quando una rivoluzione non riesce a rovesciare una dittatura questa diventa come una tigre ferita che attacca per sopravvivere chiunque gli capiti a tiro”. Il presidente francese Emmanuel Macron ha consegnato la Legion d’onore ad Al Sisi. L’Italia ha venduto all’Egitto armi per 1,2 miliardi di euro. Cosa dovrebbe fare l’Occidente e l’Europa? “I governi occidentali si muovono solo sulla base dell’interesse economico. Non riescono più a difendere i valori sui quali sono basati ed è per questo che sono in crisi. Contemporaneamente tutta la parte non governativa della società - i giornalisti, gli intellettuali, gli attivisti, gli artisti e tutta l’opinione pubblica - hanno il dovere di continuare a fare pressione sui propri leader affinché rispettino quei valori fondanti. Ed è una questione di sopravvivenza non di altruismo”. L’elezione di Joe Biden può rappresentare una speranza per il mondo arabo? “Non è tanto la sua elezione che mi fa sperare. Non credo che gli Stati Uniti cambieranno, ad esempio, rapporti con l’Arabia Saudita di Mohammed Bin Salman perché gli interessi economici sono troppo forti. Quello che mi fa sperare è il partito di appartenenza di Biden, il partito democratico che per sopravvivere deve far rispettare determinati valori. Sono ottimista, nel senso che immagino vedremo qualche differenza”. Cosa crede che succederà a Patrick Zaki? “Al Sisi usa il suo caso e quello di molti altri per mandare un messaggio al mondo e all’Europa. Sta dicendo: “io faccio quello che voglio, non mi curo di voi e delle vostre minacce”. Dunque è difficile pensare che cambierà linea. Ma sono sicuro che Zaki uscirà dal carcere. Ed è nostro dovere continuare a sperare”.