Covid, Lucanìa (Simspe): “Screening e vaccini anche per i detenuti fragili” di Chiara Organtini dire.it, 20 gennaio 2021 La Simspe, società italiana di medicina e sanità penitenziaria, da anni lavora per affrontare e migliorare le condizioni delle carceri dal punto di vista sanitario. Il suo presidente Luciano Lucanìa, ha spiegato alla Dire cosa bisogna ancora fare e cosa si è riusciti a realizzare. Nella prima fase della pandemia la sanità penitenziaria ha gestito la difficile situazione di contenimento della trasmissione del Covid-19 con l’unico rimedio possibile: un cordone sanitario che isolasse quanto più possibile l’esposizione al rischio di detenuti e operatori interni agli istituti. Le disposizioni del Dap avevano sospeso i colloqui, la loro conversione in videochiamate con l’ausilio della tecnologia. L’esperienza della pandemia ha riportato però l’attenzione sulla gestione della sanità nelle carceri nel dibattito pubblico, mostrando sia le necessità di intervento, che in parte è stata implementata, sia la capacità di gestione delle patologie dei detenuti, che negli anni è stata dispiegata per fronteggiare malattie come l’Epatite C e l’HIV. La Simspe, società italiana di medicina e sanità penitenziaria, da anni lavora per affrontare e migliorare le condizioni delle carceri dal punto di vista sanitario. Il suo presidente - e medico - Luciano Lucanìa, ha spiegato alla Dire cosa bisogna ancora fare e cosa si è riusciti a realizzare. Presidente, qual è la situazione epidemiologica nelle carceri, in questa interminabile seconda ondata del Covid-19? “Il problema del Covid nelle carceri non proviene dai detenuti in sé, il virus proviene infatti dall’esterno degli Istituti Penitenziari. Sicuramente la situazione epidemiologica è migliorata rispetto alla prima fase dell’emergenza perché si è sviluppato un programma di contenimento e controllo. C’è, però, in generale anche se non per tutti, una sottovalutazione del rischio: di fronte a qualche linea di febbre ci sono stati operatori che si sono recati al lavoro comunque, quasi un volere scotomizzare dal sintomo la possibilità di essere positivi. Non è giusto, ma è comprensibile, in questo quadro di tragedia collettiva. I più, fortunatamente, hanno ben compreso la necessità di essere attenti e mettono in atto atteggiamenti di prevenzione dal contagio ma manca ancora una forma, direi, di maggiore attenzione, e non è una questione che riguarda solo il mondo del carcere, ma è piuttosto un problema culturale che ha riguardato tutto il nostro Paese, con forme di sottovalutazione dei comportamenti, che hanno acuito il rischio sanitario. È chiaro che in una condizione come quella degli istituti penitenziari, il rischio è più alto”. Come si è affrontato il problema e quali interventi avete suggerito come Simspe? “La salute in carcere è gestita a livello regionale e il livello di condivisione con lo Stato è in Conferenza Unificata. Recentemente il Gruppo Interregionale Sanità Penitenziaria ha definito per la Conferenza due documenti obiettivamente importanti: il primo sull’assistenza sanitaria e il secondo sulle articolazioni della salute mentale negli istituti. L’emergenza Covid ha permesso di riaccendere i fari sulla sanità penitenziaria e anche di affrontare le conseguenze della chiusura degli OPG, che ha dimostrato i limiti del nuovo percorso attraverso le Rems, la cui capienza è notevolmente inferiore alle attuali esigenze. Le Rems, ovvero le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza non riescono ad ospitare tutti gli internati, in particolare quelli provvisori. Molti di questi rimangono in carcere ponendoci di fronte ad uno sforzo di gestione e miglioramento delle misure per la salute mentale che si è tradotto anche in un confronto che continua a livello centrale negli organismi deputati. Cosa è stato fatto per il contenimento e controllo del virus nelle carceri, quali screening sono in atto? “La prima novità a cui Simspe ha contribuito, anche oltre all’attenzione sul Covid, è lo screening sull’epatite C. Per la prima volta un recente Decreto Ministeriale ha inserito tutti i detenuti nello screening, oltre ad altre patologie e fasce di età: sono stanziati oltre 70 milioni di euro fra le regioni nel biennio 2020-2021. Lo scopo del test, è di prevenire la cirrosi epatica, la conseguenza di un’epatite C non curata. La cirrosi è una malattia devastante, che spesso evolve in cancro-cirrosi. Il test consente di portare in superficie il sommerso e trattare i casi, oltre che contenere questa epidemia sommersa. Gli screening sono ovviamente soggetti al consenso da parte dei detenuti ma c’è una sensibilità maggiore e quindi se ne faranno in buon numero. Vi sono anche altri studi e ricerche, in particolare su HIV e Covid. Per quanto riguarda il nuovo Coronavirus, il cordone sanitario istituito all’inizio, per isolare le carceri dal contagio, ha funzionato, anche se, certamente, dei casi ci sono stati, in particolare nelle aree della nazione dove sul territorio la diffusione del virus è stata maggiore. Nella seconda fase si è deciso per un tracciamento diffuso su tutti i nuovi giunti e i detenuti che avevano avuto un permesso di uscita temporanea. Oltre al tracciamento sono stati adibiti spazi per una quarantena preventiva. Questa seconda ondata, possiamo dire, sembrerebbe più gestibile dal punto di vista delle interazioni con l’esterno perché si riescono a fare tracciamenti e contenimenti mirati”. Qual è la situazione delle vaccinazioni anti-Covid negli istituti? “La circolare del ministero della Salute prevede di vaccinare gli agenti e tutti gli operatori penitenziari, è in atto dal 14 al 28 gennaio la raccolta delle adesioni al vaccino da parte degli agenti di polizia penitenziaria. Esiste anche un dibattito pubblico sull’opportunità o meno di vaccinare i detenuti. È oggettivo che molti ristretti nelle carceri hanno patologie e comorbilità. Inoltre anche per chi ha ricevuto una pena definitiva dovrebbe essere considerate l’opportunità della vaccinazione. In molti casi si tratta di persone da considerarsi fragili sotto il profilo sanitario, anche perché chi entra in carcere spesso problematiche di patologia, che spesso si sommano ad altre che si possono svilupparsi nelle carceri. Abbiamo sempre sostenuto che il carcere è un concentratore di patologia. Riteniamo che un’alta percentuale della popolazione carceraria è soggetta ad un’attenzione sanitaria specifica, oltre le usuali visite mediche d’ingresso e periodiche, con presa in carico specialistica ed esami anche di 2° livello. Perché questi non potrebbero a pieno diritto rientrare nell’ambito delle fragilità sanitarie, indipendentemente dall’età anagrafica ma in ragione del contesto, a cui potrebbe essere somministrato il vaccino nella fase 2 del piano elaborato dal Commissario straordinario Arcuri per il governo. Non si tratta di considerare con un occhio di riguardo i detenuti, ma anzi di valutarne attentamente la situazione sanitaria in un dibattito equo, esente da ideologie e preconcetti, dove tener conto dell’individuo e del rischio sanitario, oltre che del diritto”. Istituita Commissione per l’architettura penitenziaria di Osservatorio Carcere Ucpi camerepenali.it, 20 gennaio 2021 Si evita la via maestra e se ne percorre una con minime utilità e senza uscita. Era il 1948, quando i padri costituenti scrissero nella nostra Carta che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una frase chiara che non si presta a pluralità di interpretazioni. Innanzitutto la potestà punitiva dello Stato va esercitata con modalità diverse, di cui il carcere rappresenta la più grave, ma non l’unica. Si ha, dunque, “certezza della pena” anche scontando altre sanzioni. Le stesse “misure alternative” lo sono. Esse, infatti, contribuiscono a scontare la pena. Il trattamento riservato al condannato deve rispettare la sua dignità, mirando al suo recupero sociale. Il luogo dove va scontata la pena, dunque, non deve apportare ulteriori ed ingiustificate sofferenze ed umiliazioni, oltre alla già afflittiva perdita della libertà, e deve essere attrezzato per “rieducare” la persona. Nel 1975, la declinazione di tali principi ha trovato concreta attuazione con l’entrata in vigore dell’Ordinamento Penitenziario, il cui articolo 1 sancisce che “il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Il sistema penitenziario è riuscito solo in poche occasioni a rispettare tali imperativi costituzionali e normativi e, nonostante i tanti anni trascorsi, i luoghi di detenzione hanno costituito una spina nel fianco del nostro Stato di Diritto, che nessuno è riuscito a estirpare, nonostante la sottoscrizione di trattati internazionali, raccomandazioni e condanne provenienti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La notizia che il Ministro della Giustizia, il 12 gennaio scorso, ha istituito la “Commissione per l’architettura penitenziaria” potrebbe essere ritenuta positiva, solo ove fosse accompagnata da altre da tempo attese e se non fosse da inquadrare nei lavori “a perdere” di tante altre Commissioni. Per restare in materia - ma gli esempi potrebbero essere molti - basti pensare alla recente Commissione presieduta dal Prof. Glauco Giostra, i cui lavori furono, in gran parte, cestinati anche dall’attuale Ministro della Giustizia. La Commissione si occupò, tra l’altro, proprio dello “spazio della pena” e della “vita detentiva”, in ossequio ai criteri fissati dalla Legge Delega del 23 giugno 2017. Non a caso, tra i componenti della Commissione vi era il Professore Luca Zevi, architetto e urbanista, oggi chiamato a presiedere la neo-commissione istituita dal Ministro Bonafede. Tra i componenti la Commissione vi erano anche Avvocati dell’Unione delle Camere Penali e possiamo affermare che si discusse a lungo di architettura penitenziaria. Tema poi abbandonato in sede di stesura degli schemi di decreto, per volere di una politica non interessata - nonostante l’espressa delega del Parlamento al Governo - a migliorare gli spazi e la vita all’interno degli istituti di pena, in nome anche di quel diritto all’affettività, previsto ma da sempre negato. Lo stesso Luca Zevi, prima ancora, nel 2015, era stato il Coordinatore del Tavolo N. 1 degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale che aveva ad oggetto lo “spazio della pena: architettura e carcere”. Stati Generali e Tavoli previsti dai Decreti Ministeriali dell’8 maggio e del 9 giugno 2015. Inoltre si è più volte espresso sulla realizzazione del carcere di Nola, indicato nel bando ministeriale del 2017, i cui lavori, si badi, non sono ancora iniziati. Di tempo ne è passato. La presidenza della Commissione affidata al Professore Luca Zevi, dunque, può essere certo una garanzia per le sue specifiche conoscenze e per la sua idea di detenzione, che vede il carcere come una struttura “in cui il detenuto può stare 12 ore al giorno lontano dalla cella, in modo da impegnare la giornata svolgendo attività lavorative, sociali, sportive e avere una camera di pernottamento, possibilmente individuale, dove dormire”. In concreto l’applicazione dei principi costituzionali e delle norme dell’ordinamento penitenziario. La presenza in Commissione di altre rilevanti figure, quali il Professore Mauro Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, di 2 Magistrati di Sorveglianza, di altri 5 Architetti, tra cui Maria Rosaria Santangelo e Cesare Burdese, che si sono occupati in passato di interventi negli istituti di pena, di Gherardo Colombo, Presidente della Cassa delle Ammende, componente all’epoca della Commissione Giostra e che, anche con recenti pubblicazioni, ha evidenziato la necessità di rispettare il principio costituzionale di “rieducazione” del condannato, di Gemma Tuccillo, Capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, che crede nell’importanza delle misure alternative, può ulteriormente rassicurare sulla qualità dei lavori che si andranno ad intraprendere. Certo la composizione della Commissione (6 architetti, 4 amministrazione penitenziaria, 2 magistrati di sorveglianza, 1 cassa ammende, 1 garante detenuti), lascia fuori molte figure rilevanti che avrebbero potuto contribuire in maniera significativa ai lavori. Basti pensare al mondo degli educatori, dei volontari, del personale medico, dei sociologi, degli insegnanti, che lavorano quotidianamente in carcere e degli stessi avvocati. Va detto che il decreto prevede l’acquisizione di contributi e relazioni di esperti del sistema penitenziario, anche con specifiche audizioni. Non è, dunque, la composizione della Commissione che preoccupa. Anzi un numero ridotto di persone, peraltro qualificate, può garantire un lavoro più efficace. I dubbi nascono dai consueti preamboli di questi decreti, spesso “parole al vento”, per le quali andrebbero presi ben altri provvedimenti, senza necessità di alcuna Commissione. Leggere queste frasi: “Ritenuto che la progettazione di un format costruttivo e logistico sia necessario per orientare le future scelte in materia di edilizia penitenziaria, per potenziare l’offerta trattamentale in chiave moderna, distante da connotazioni esclusivamente afflittive e contenitive... secondo un approccio multidisciplinare, culturalmente adeguato alla cornice costituzionale e alle indicazioni della Cedu e del Consiglio d’Europa relative alla vivibilità dell’ambiente detentivo e alla qualità del trattamento”, lascia sgomenti, se si pensa alle scelte politiche fatte sino ad ora in tema di detenzione, di fatto contrarie a quanto l’Europa con innumerevoli condanne e indicazioni ci ha chiesto. Dopo tali condanne, abbiamo avuto gli Stati Generali, la legge Delega, le Commissioni Ministeriali, ma quasi nulla è mutato. Anzi mentre ci venivano chieste più misure alternative, si è ritenuto - nonostante una Riforma già pronta - di non rispettare tale indicazione, in nome di “una certezza della pena” sbandierata da parte di chi ignora del tutto i principi del nostro sistema penale. E dunque! Si ricomincia con un’ennesima Commissione che dovrà indicare un “format costruttivo” entro il 30 giugno 2021. Dopo tale data i lavori saranno esaminati dal Ministero che dovrà, concretizzare gli interventi sugli immobili esistenti e avviare la costruzione di nuovi istituti. Su quelli esistenti il margine d’intervento è ridottissimo, per quelli nuovi i tempi di realizzazione - tra individuazione delle aree, bandi, progetti, aggiudicazioni, stanziamento delle somme necessarie, esecuzione lavori - saranno biblici, come il recente esempio dell’annunciato e mai iniziato carcere di Nola. Per rispettare davvero i principi della nostra Costituzione, le norme dell’Ordinamento Penitenziario, le innumerevoli raccomandazioni dell’Europa, sarà certo utile il lavoro della Commissione per migliorare il migliorabile e per la costruzione di nuovi istituti in sostituzione di quelli oggi fatiscenti e irrecuperabili. Ma non va aumentata la capacità ricettiva delle carceri - che devono rimanere luogo di pena solo in casi gravi - né si può pensare a nuovi edifici con 1200 detenuti (come previsto per Nola) in quanto l’aspetto trattamentale ne sarebbe inevitabilmente penalizzato. È alle misure alternative che bisogna guardare, per diminuire il sovraffollamento ed evitare che i condannati tornino a delinquere. Questa a nostro avviso la traccia da seguire per non imboccare l’ennesimo vicolo cieco, che aumenterà il buio in cui da tempo vive la nostra Costituzione. Al Professore Luca Zevi e a tutta la Commissione gli auguri di buon lavoro. La gaffe delle carceri piemontesi: in una circolare la radicale Bernardini diventa “reclusa” di Carlotta Rocci La Repubblica, 20 gennaio 2021 Rita Bernardini, 68 anni, è la segretaria dei radicali italiani, impegnata per oltre un mese in uno sciopero della fame per chiedere maggiore sicurezza nelle carceri. Ma è anche la protagonista di una gaffe che l’ha trasformata da politica in “reclusa”. Così viene definita in una circolare, diffusa a fine novembre dal Nucleo investigativo regionale della Polizia penitenziaria in tutte le carceri di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, in cui si avvisava della campagna avviata dalla segretaria radicale e delle possibili adesioni allo sciopero della fame, soprattutto tramite una campagna on line dal titolo “diritti umani dei detenuti calpestati da uno Stato assente”. Il nucleo investigativo regionale piemontese spiega nella circolare come lo “sciopero della fame” sia stato “intrapreso dalla reclusa Rita Bernardini” e che “l’adesione allo sciopero si concretizzerebbe attraverso la diffusione di un modulo negli istituti penitenziari”. Nessuno, nelle carceri piemontesi, si accorge dell’errore nel documento. Anzi a Saluzzo il comandante degli agenti penitenziari prende quelle poche righe della circolare e le usa come premessa per una comunicazione di servizio da affiggere in bacheca con cui chiede “a tutto il personale di svolgere i propri compiti con il massimo scrupolo intensificando i controlli sulla corrispondenza”. Anche in questo documento Bernardini resta “la reclusa” che ha intrapreso lo sciopero della fame. Proprio questa nota, però, arriva nelle mani della diretta interessata. La politica lo pubblica sulla sua pagina Facebook qualche settimana fa. “A me viene da ridere (ma forse c’è da piangere)”, commenta la segretaria dei radicali che la prende sul ridere, ma quella svista ha sollevato un polverone. La gaffe rischia ora di costare cara a chi nel carcere di Saluzzo ha preso e copiato il documento inviato dal nucleo investigativo torinese senza accorgersi dell’errore già presente nella comunicazione arrivata al carcere. Il commissario che ha firmato la circolare è stato ricollocato al suo incarico precedente nel carcere di Fossano e non è escluso che il dipartimento decida di intraprendere un procedimento disciplinare. Al centro la persona, non i bilanci: la Giustizia ridisegnata dal Cnf di Errico Novi Il Dubbio, 20 gennaio 2021 Al centro c’è la persona. Il Cnf lo scrive nel titolo. Sintetizza così un documento ponderoso, di 111 pagine. Si tratta delle proposte che l’avvocatura avanza al governo, e innanzitutto al guardasigilli, per il Recovery plan. Un regalo per la giustizia, per chi la amministra, e in ultima analisi per i cittadini. Proposte con cui l’istituzione forense realizza un’ambizione: dare un orizzonte umanistico a una rotta già fissata. Cioè stabilire come andranno usati quei 2,3 miliardi di euro riservati alla giustizia dal “Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Ci saranno le assunzioni, come ha ricordato una nota di via Arenula sabato scorso, la digitalizzazione, l’edilizia giudiziaria, persino il reclutamento di figure professionali tecniche destinate a gestire strutture fisiche e immateriali. Ma il Consiglio nazionale forense suggerisce di rivolgere tutto questo alla coerenza con un principio: la giustizia deve essere al servizio non dell’economia ma, appunto, della persona. La “Proposta” degli avvocati italiani per il Recovery è stata consegnata al guardasigilli Alfonso Bonafede pochi giorni fa. Certo la fase politica convulsa crea incognite notevoli. Ma proprio rispetto alle incertezze sul futuro del governo, gli avvocati, attraverso la loro istituzione, chiedono di fissare quel principio: la giustizia della nuova Italia, del dopo Covid, non va subordinata all’ossessione efficientista. Si deve invece tener conto di quanto osservato negli ultimi anni anche dalle istituzioni europee e internazionali, che “hanno evidenziato il ruolo del sistema giudiziario, nell’assicurare lo sviluppo di una società inclusiva” e caratterizzata da un benessere più diffuso. Anziché barriere d’accesso e derive robotiche, si deve partire dai tre pilastri di cui parla nell’intervento firmato oggi sul Dubbio - e in un comunicato diffuso ieri alle agenzie - la presidente del Cnf Maria Masi: razionalizzare l’esistente, migliorare l’organizzazione giudiziaria con nuove figure professionali, come il “court manager”, e rafforzare la specializzazione di quelle che già esistono, magistrati inclusi. Di fatto, un nuovo ecosistema dei diritti. Una nuova armonia fra giurisdizione e società. La strada più semplice per ricostruire la fiducia dei cittadini nella giustizia che la crisi degli ultimi anni ha sgretolato. Si dirà: ma la rivoluzione giudiziaria basata sull’umanesimo non sarà un’utopia? In realtà, non va sottovalutato un aspetto: dalla tragedia della pandemia potrebbe, almeno, venire una palingenesi. Anche grazie alle risorse del Recovery. Che però vanno intese come occasione per un “cambiamento dell’approccio stesso alla giurisdizione e al sistema di tutela dei diritti”. Il Cnf è convinto che la giustizia del futuro vada disegnata su “coordinate del tutto nuove, rispetto a quelle finora dettate”. Lontane dal mood meramente economicista, dal refrain dei risparmi realizzati con processi più veloci ma meno attenti alle garanzie, dalla esigenza esclusiva di attrarre investitori. Al centro non può esserci solo l’economia, va riportata innanzitutto la persona. Una prima chiave concreta per comprendere lo scarto fra mainstream efficientista e nuovo umanesimo dei diritti è in una distinzione: secondo la “Proposta” del Cnf vanno “messi a frutto e potenziati gli approdi positivi delle riforme che hanno prodotto benefici in termini di effettività della tutela giurisdizionale; ma nello stesso tempo vanno corretti gli interventi che hanno realizzato il risultato inverso, va cambiata radicalmente la filosofia di intervento in modo da garantire la persona anziché ridurre l’accesso alla giurisdizione e le garanzie processuali, nella ricerca cieca dei risparmi”. Un’ampia sezione del documento è dedicata alla giustizia civile. Qui forse rischierebbe di realizzarsi il più acuto contrasto fra visione inclusiva della giustizia, che l’avvocatura invoca, e tentativi di risparmiare attraverso strumenti “deflattivo- dissuasivi”. Distorsione, quest’ultima, che arriva a ridurre il contenzioso attraverso l’esclusione dalla tutela dei diritti. Sono ben altre le strade da percorrere, secondo il Cnf. Va innanzitutto rivisto il “catalogo della giurisdizione volontaria”, va affidata alle categorie professionali più competenti rispetto ai singoli settori tutta l’area in cui il giudice interviene non già a risolvere il conflitto bensì ad “amministrare”. Si propone dunque di “degiurisdizionalizzare” e affidare a professionisti “talune procedure della giurisdizione contenziosa, prima tra tutte la fase monitoria del procedimento per ingiunzione”. L’impatto che ne verrebbe in termini di carico dei ruoli “non è da sottovalutare”: la domanda relativa alla volontaria giurisdizione nel quinquennio 2014- 2019 “ha fatto registrare un aumento del 48 per cento. Il 71% dei procedimenti sommari introdotti nel 2019 è costituito, invece, da ricorsi per decreto ingiuntivo”. Si deve investire anche nella giustizia complementare, ossia nell’arbitrato rituale, riconosciuto come equipollente giurisdizionale dalla Consulta. Molte liti, di valore ridotto, o comunque insorte in contesti destinati a doversi conservare - che si tratti di famiglie o rapporti condominiali - troverebbero migliore possibilità di composizione in contesti più “collaborativi”, meno strutturati e di per sé meno conflittuali rispetto al processo. Non ci si può arrivare, avverte il Cnf, con “l’imposizione di condizioni di procedibilità ma offrendo benefici reali a chi si orienta verso tali procedure”, a cominciare da “agevolazioni fiscali” e “estensione del patrocinio a spese dello Stato”. Paragrafi sono destinati anche al penale e alle giurisdizioni speciali. Sul primo versante si indicano scelte che non sempre coincidono coi contenuti della riforma all’esame del Parlamento - e che nel Recovery del governo riservato alla giustizia è citata come una riconversione virtuosa. C’è sì una possibile convergenza fra avvocatura e progetti di riforma quando il Cnf chiede di “prevedere casi di inutilizzabilità degli atti posti in essere dalla pubblica accusa durante le indagini preliminari esperiti oltre il termine massimo consentito”. Ma il Cnf è assai più “rivoluzionario” nel puntare sui riti alternativi a prescindere dalla “gravità del reato o dall’allarme sociale che desta nella collettività”. Vicinanza al cittadino è anche consapevolezza dei limiti. Il Cnf chiede dunque l’abiura alla pretesa del giudice onnisciente. Non solo andrebbero istituite per esempio “sezioni specializzate per la famiglia e la persona, che accorpino le funzioni dei diversi uffici attualmente competenti”, ma va rafforzata anche la “specializzazione del giudice”. Elemento, ricorda l’istituzione forense, “valutato in termini di miglioramento di qualità ed efficienza dalle istituzioni europee”. Serve digitalizzare, certo, e sul punto non c’è conflitto fra Recovery del governo e “Proposta” del Cnf. Ma non si deve scantonare nella giustizia predittiva o robotica. Casomai si deve guardare con umiltà, anche nei tribunali, a una distinzione fra vertice giudiziario e guida gestionale dell’ufficio. Perciò l’avvocatura suggerisce di istituire la figura del “court manager”, interpreta da “professionisti specificamente formati con elevatissimi standard”. Si deve riconoscere, scrive il Cnf, che “l’acquisizione di competenze di organizzazione e pianificazione ma anche comunicazione e leadership non può costruirsi con poche ore di formazione ma si fonda su esperienze e skills maturati nel tempo”. Ci sono gli investimenti, che sempre per citare la nota diffusa sabato da via Arenula, riguardano anche il massiccio ricorso ad assunzioni “a tempo” per rafforzare l’ufficio del processo e smaltire l’arretrato. Lo si dovrebbe fare, secondo il Cnf, col ricorso a “professionalità più elevate rispetto a quelle oggi previste”. Non perché si pretenda di costruire una giustizia degli ottimati. Ma perché anche specializzazione e competenza sono scelte con cui lo Stato mostra rispetto per la dignità della persona e per i suoi diritti. La cronaca fanta-giudiziaria di Dimitri Buffa L’Opinione, 20 gennaio 2021 I supereroi cinematografici della fantascienza o i resoconti della fantapolitica non bastavano più agli italiani. Da tempo la nuova moda è rappresentata dalla cronaca fanta-giudiziaria. Un miscuglio di teoremi e di desiderata di alcuni fantasiosi pm d’assalto - antimafia, anticorruzione e in genere anti-tutto - che, supportati da anni da pentiti capaci di inventarsi qualunque racconto pur di ottenere benefici economici e carcerari, hanno finito per essere accettati dalla pubblica opinione. Mentre chi li ispira, generalmente, a propria volta aspira a diventare famoso e stare sempre in tv. E un bel giorno a scendere in politica. È una faccenda che va avanti per lo meno dal caso dell’errore, e dell’orrore giudiziario, perpetrato ai danni di Enzo Tortora nei primi anni Ottanta. La fanta-cronaca giudiziaria ovviamente è sponsorizzata anche da quella pletora di giornalisti che ha scelto, come scorciatoia per fare carriera, di stare sempre e comunque dalla parte della pubblica accusa. Anche se l’inchiesta si basa su “asini che volano” o giù di lì. In cambio di simili attenzioni pubblicistiche e delle relative carezze lascive alle loro fanta-inchieste, certi pm non solo danno notizie fanta-giudiziarie in esclusiva, ma alla fine inglobano il cronista in questione in un corto circuito tale - fatto di apparizioni nei talk show - che la notorietà e la fama si trasmettono per luce riflessa. E così (tranne i malcapitati imputati) vivono tutti felici e contenti. Ne sa qualcosa di queste fanta-inchieste mediatico-giudiziarie, ad esempio, Ilaria Capua, costretta a lasciare l’Italia dopo essere stata accusata da un noto settimanale di trafficare in virus e dopo avere subito anche una fanta-indagine conclusasi, dopo anni, con una piena assoluzione. Ma i casi sono ormai migliaia. Il più noto di essi è il famoso processo sulla “trattativa Stato-mafia” che recentemente ha goduto delle morbose attenzioni di una trasmissione televisiva di solito molto seria. Il tutto mentre è in corso il processo di appello. Dopo che in primo grado le teorie fanta-giudiziarie dei pm che lo hanno istruito hanno ricevuto una discutibilissima conferma. Anche se in molti processi paralleli, che negli ultimi venti anni hanno trattato dello stesso oggetto di indagine, con buona pace del “ne bis in idem”, la teoria fanta-giudiziaria della trattativa è stata sempre smentita. Ma nella trasmissione televisiva in questione quelle altre smentite e assoluzioni non sono state evidenziate con lo stesso entusiasmo con cui, invece, si è parlato del processo di primo grado e delle motivazioni relative. Il pezzo forte delle cronache e delle inchieste fanta-giudiziarie consiste nel fare parlare i morti di altri morti che, dopo un lungo gioco di specchi, arrivano ad accusare i vivi. Con una possibilità di riscontro prossima allo zero. Anche nel processo per la strage di Bologna svoltosi appena 38 anni dopo i fatti nei confronti dell’ex terrorista dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari) Gilberto Cavallini si è usata questa strategia. E si è arrivati alla condanna. Strategia peraltro utilizzata in precedenza anche per affibbiare la stessa pena dell’ergastolo per quel terribile episodio a Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, all’epoca militanti nel terrorismo neofascista dei Nar come Cavallini. Questo contando anche sul fatto che nessuno avrebbe avuto nulla da ridire per un ergastolo in più comminato, generosamente, a chi già ne scontava parecchi altri. Discorso poi ripetuto 38 anni dopo per lo stesso Cavallini: in fondo se devi stare sempre in carcere che te ne frega se io stato chiudo un’inchiesta con un colpevole di repertorio? Mica starai a fare la “mammoletta”? E infatti, seguendo questo implicito retropensiero, il metodo del “47 morto che parla” - per citare le commedie di Totò - è anche alla base della nuova inchiesta monstre, sponsorizzata nella medesima trasmissione tv di cui sopra, sui “mandanti” della strage di Bologna. Tutti rigorosamente morti accusati per lo più da altri morti. Le cui parole, però, sono riportate da pentiti vivi che dicono di averle sentite a suo tempo dai defunti di cui sopra. E ricordate a decine di anni di distanza. Un metodo perfetto. Buono anche per i processi dei regimi totalitari di ieri, oggi e domani. E così si va avanti. Anche perché in un mondo che vive di complottismo e fake news propalate dai social network e anche dai giornali, e da quei giornalisti specialisti in fanta-giudiziaria, chi la spara grossa viene sempre creduto. E anche gli italiani sembrano di essere di bocca buona in materia di cronache fanta-giudiziarie, bevendosi di tutto, specie se fa a pugni con la logica elementare. Addio Emanuele Macaluso, il migliorista che insegnò il garantismo ai comunisti di Aldo Varano Il Dubbio, 20 gennaio 2021 Quella feroce polemica di Macaluso col giustizialismo dell’antimafia palermitana che aveva attaccato frontalmente Leonardo Sciascia accusandolo di aver dato man forte alla mafia delegittimando i giudici. Con Macaluso, classe 1924, scompare l’ultimo comunista che fece parte di una segreteria del Pci con Palmiro Togliatti. Per intenderci: c’erano Longo, Amendola, Pajetta, Ingrao, Alicata, Berlinguer e Bufalini. Un parterre di passione, politica, disinteresse e cultura oggi inimmaginabile. Paragonando Pd e Pci Macaluso, che è stato anche un grande giornalista e direttore di giornali, una volta spiegò: “Lì hanno una direzione nazionale di 150 persone. Iniziano le riunioni la mattina tardi e finiscono prima del telegiornale della sera per fare in tempo ad andare in onda. Con Togliatti in direzione eravamo 19. Si cominciava la mattina presto e la sera tardi, certe volte, si rinviava al mattino successivo perché non avevamo finito”. Spiegazione impietosa e lucida tra la politica della sua generazione e la politica spettacolo sempre più condizionata dai mezzi di comunicazione anziché dai cittadini o, come allora si preferiva dire “dalle masse popolari”. Macaluso non era arrivato alla segreteria nazionale del Pci, il più ristretto nucleo di direzione, nonostante la discussa operazione Milazzo (prima e sola vera spaccatura di massa della storia della Dc) ma, forse, grazie ad essa. Una rottura della Dc allontanata dal governo dell’isola e costretta all’opposizione. Togliatti era convinto che parte del popolo Dc dovesse “liberarsi” dalla gabbia in cui si era ficcato per contribuire a un rinnovamento profondo di cui il Pci si sentiva portatore principale. La spaccatura di una delle Dc più forti d’Italia (quella siciliana di Don Sturzo e Scelba, dei Mattarella e di Restivo) a cui Macaluso aveva lavorato nel 1958, non poteva che essere valutata preziosa dal “Migliore”, al di là delle contraddizioni anche stridenti che quell’operazione conteneva e che furono rinfacciate a lungo al Pci e a Macaluso. Lui era personaggio diverso da tutti gli altri “quadri”, come venivano allora chiamati i dirigenti comunisti messi insieme da Togliatti, in gran parte grandi intellettuali con studi ed esperienze culturali molto robuste. Emanuele ragazzo era stato costretto per condizione familiare a studi modesti. Era cresciuto a Caltanissetta assieme ai fratelli Sciascia di cui era coetaneo e amico: uno di loro si sarebbe suicidato l’altro sarebbe diventato un grande scrittore. Ragazzi della nidiata delle zolfare, dove si svolgeva la fatica terribile degli supersfruttati minatori, su cui “Sciascia (Leonardo, ndr) ha scritto pagine bellissime che restituiscono quell’universo dove sia lui sia io diventammo uomini”, avrebbe poi scritto Macaluso in un saggio sul suo vecchio amico.Il 16 settembre 1944 ancora ventenne assieme ad altri suoi compagni accompagnò Momo Li Causi per un comizio a Villalba, regno incontrastato di Calogero Vizzini, il più potente capo mafioso dell’epoca. Il boss non gradì l’intrusione e fece scatenare contro i manifestanti una tempesta di piombo. Il bilancio fu di 14 feriti tra cui quello gravissimo di Li Causi, che perse l’agibilità di una gamba. E appena diventato uomo Macaluso, segretario della Cgil, era finito in galera per un reato anomalo rispetto a quelli che allora piovevano sui sindacalisti. Aveva sfidato la morale codina della sua città vivendo alla luce del sole il suo rapporto d’amore con una donna sposata che sarebbe diventata madre dei suoi figli, Antonio e Pompeo. La polizia piombò a casa della coppia e portò via in manette Macaluso arrestandolo per un reato gravissimo punibile fino a 2 anni di carcere: adulterio. Esperienza che spiega le posizioni sempre coraggiose di Macaluso in tutte le battaglie di emancipazione civile. È stato profondamente laico Macaluso. E componente fondamentale della sua laicità è stato il suo impegno garantista decisamente contrapposto a ogni forma, larvata o esplicita, di giustizialismo. Macaluso ha sofferto, anche rispetto al Pci e ai suoi dirigenti più prestigiosi, per dover vivere in un paese “dove vige una legge sul pentitismo che di fatto garantisce a chi confessa e accusa altri di non scontare la pena”. Né è un caso che alle accuse lanciate contro Sciascia da parte del giustizialismo soprattutto palermitano, accuse che trovarono comprensione e/o esplicito accordo fino ai vertici del Pci non soltanto siciliano, si sia sempre pubblicamente e coerentemente contrapposto. In un suo libro ha ricostruito passi drammatici sul suo impegno contro il giustizialismo. Ha rivelato pubblicamente che da direttore dell’Unità “in occasione del pentimento e la scarcerazione del terrorista Marco Barbone, che aveva partecipato all’assassinio di Walter Tobaci” pubblicò un proprio corsivo criticando la procura di Milano che reagì privatamente rivolgendosi per vie traverse (la federazione del Pci milanese) ad Alessandro Natta allora segretario del Pci. Natta disse a Macaluso che aveva sbagliato. Ma Macaluso gli rispose che aveva ragione e che l’intero Pci, per non sbagliare, avrebbe dovuto avere quella posizione anziché restare zitto. “Ma né lui né tantomeno quelli che vennero dopo, cambiarono idea”, annota Macaluso. E aggiunge: “Del resto anche sul processo Tortora le cose si erano svolte come per Barbone. Ai miei dubbi sui propositi dei magistrati napoletani si oppose da parte dei dirigenti del partito - c’era ancora Berlinguer - l’esigenza di non delegittimare i magistrati”. Feroce la polemica di Macaluso col giustizialismo dell’antimafia palermitana che aveva attaccato frontalmente Leonardo Sciascia accusandolo di aver dato man forte alla mafia delegittimando i giudici. Sciascia era intervenuto sul clima che si era creato a Palermo con un articolo sul Corsera che qualcuno (non Sciascia, che lo precisò immediatamente, del resto tutti i giornalisti sanno che titoli e articoli sono di mano diversa) aveva titolato “I professionisti dell’antimafia”. In polemica si erano mobilitati molti i giornali e i leader del movimento palermitano antimafia con alla testa Repubblica che con un editoriale di Scalfari avevano accusato Sciascia di avere sferrato all’antimafia un attacco provocandone il “ripiegamento” e il “riflusso” nella lotta contro i boss. Il direttore di Repubblica, forse anche mosso da interessi di concorrenza tra il suo giornale e il Corsera, aveva concluso con durezza: “Del resto Leonardo Sciascia non è nuovo a questo genere di sortite, nella quali la vanità personale fa spesso premio sulla responsabilità civile”. Da lì si formò la diceria secondo cui tutto era iniziato con e per colpa di Sciascia che nell’inverno del 1987 col suo articolo aveva indebolito l’antimafia. Rovente la ricostruzione di Macaluso: “Pensare che tutto iniziò con Sciascia nel 1987, quando erano già stati assassinati Boris Giuliano, Terranova, Mattarella, Costa, La Torre, Dalla Chiesa, Chinnici e tanti altri è semplicemente assurdo. Se si insiste nell’asserire, come fa Scalfari, che nell’opera di demolizione del pool antimafia e del lavoro di magistrati come Falcone e Borsellino, tutto cominciò con Sciascia, si dice cosa contraria alla verità e si sottovalutano le forze necessarie a colpire uomini decisi a rovesciare una storia di connivenze, complicità, viltà”. E più avanti, allargando ancor di più la polemica contro gli avversari di Sciascia, la conclusione: “Io, invece, che lo conoscevo (Sciascia, ndr) meglio di Pansa (Giampaolo, anche lui entrato nella polemica, ndr) e non avevo una partita aperta per sostenere quel coacervo giustizialista che si ritrovava nel Comitato antimafia, pubblicai sull’Unità che la mafia può essere battuta solo con la legge, con il garantismo, con la democrazia”. Con Napolitano Macaluso fu leader riconosciuto dei “Miglioristi”. Termine, un po’ dispregiativo, nato negli ambienti della sinistra del Pci soprattutto ingraiana e vicina al gruppo degli intellettuali del Manifesto, per indicare quanti avevano ormai rinunciato alla Rivoluzione e al rovesciamento della società capitalista accontentandosi di migliorarla per attutirne le contraddizioni. In realtà, il “Migliorismo”, che ufficialmente non fu mai un’area organizzata, su cui Macaluso nei suoi scritti e nella sua battaglia politica e culturale s’impegnerà in modo energico fino a poche decine di ore prima di morire, progettava nella sua visione il massimo recupero possibile dalla tradizione positiva del Pci, via via che diventava sempre più evidente il fallimento del comunismo. Libri spariti dalla Biblioteca dei Girolamini di Napoli: assolto Dell’Utri di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 20 gennaio 2021 “Ho sofferto più della detenzione”. L’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri è stato assolto perché “il fatto non sussiste” dall’accusa di concorso in peculato per l’appropriazione di 13 volumi trafugati dalla Biblioteca dei Girolamini di Napoli. La procura aveva chiesto sette anni di carcere. Per i giudici della prima sezione penale del Tribunale di Napoli “il fatto non sussiste” e ha assolto Marcello Dell’Utri, 79 anni ed ex senatore di Forza Italia, dall’accusa di concorso in peculato per l’appropriazione di 13 volumi trafugati dalla Biblioteca dei Girolamini di Napoli. Una sentenza che ribalta la richiesta di sette anni di carcere formulata dai pubblici ministeri campani. L’inchiesta sulla spoliazione della storica biblioteca, definita dall’allora procuratore Giovanni Colangelo “un atto di brutale saccheggio”, aveva portato a sei ordinanze di custodia cautelare fra cui l’allora direttore della Biblioteca dei Girolamini, Massimo De Caro. Poi fu coinvolto anche Dell’Utri che alla polizia giudiziaria consegnò tutti i volumi che aveva catalogato come doni da parte di Massimo Marino De Caro. Libri che poi, invece, si scoprirà questi aveva sottratto, motivo per cui è stato condannato a sette anni di carcere. Così, la polizia giudiziaria si presentò dall’ex senatore per sequestrare sei volumi ma lui ne aggiunse altri sette perché li aveva catalogati come doni dell’allora direttore della Biblioteca dei Girolamini. Il sospetto è che quei regali fossero stati fatti perché la sua nomina di De Caro fosse stata “caldeggiata” da Dell’Utri. Quasi parallelamente all’inchiesta di Napoli ne era nata un’altra anche a Milano che portò, nel 2015, al sequestro di 40mila volumi di proprietà dell’ex senatore, custoditi in nella sede della Fondazione Biblioteca di via Senato, di cui Dell’Utri era presidente e in parte anche in un caveau in via Piranesi, sempre a Milano. Poi però il pm milanese ritenne convincenti le consulenze tecniche e le memorie difensive con le quali i legali di Dell’Utri giustificarono la provenienza delle opere e, alla fine, presentò istanza di archiviazione per le accuse di ricettazione. Richiesta poi accolta dal Gip che portò al dissequestro di tutti i volumi. La sparizione - “Siamo molto soddisfatti - hanno dichiarato gli avvocati Francesco Centonze e Claudio Botti, legali dell’ex senatore - perché siamo riusciti a dimostrare che con la nomina di De Caro a direttore, Dell’Utri non aveva nulla a che fare e che non era a conoscenza della provenienza di quei libri donati dall’ex direttore della Biblioteca”. L’ex senatore si era sempre professato innocente. La reazione - “Questo processo mi ha provocato più sofferenza dei cinque anni di detenzione perché era una grande ingiustizia - commenta Dell’Utri al Corriere - ed è una ferita che neanche l’assoluzione può rimarginare. Certo restaura in buona parte l’anima bibliofila, ma non può purtroppo restituirmi quella integrità fisica e serenità psicologica che mi sono mancate in tanti anni di accuse giudiziarie e mediatiche. Questo processo però mi ha restituito fiducia nel diritto di difesa e dato la misura della professionalità dei miei legali - continua l’ex senatore - perché grazie al loro lavoro in punta di diritto è stato acclarato che io non solo non avevo influito nella nomina del direttore ma che non ne ero stato neanche messo al corrente”. L’elemosina è un diritto la Regione, 20 gennaio 2021 La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato ieri la Svizzera per aver violato la dignità di una rumena in condizioni di estrema povertà, multandola e infliggendole cinque giorni di prigione per aver mendicato per le strade di Ginevra. “La Corte ritiene che la sanzione inflitta alla richiedente non fosse proporzionata all’obiettivo della lotta alla criminalità organizzata, né a quello della tutela dei diritti dei passanti, dei residenti e dei proprietari di commerci”, spiega la Corte di Strasburgo. La vicenda riguarda una rumena analfabeta, nata nel 1992 e appartenente alla comunità rom. Era stata condannata nel gennaio del 2014 a una multa di 500 franchi per aver chiesto l’elemosina sulla pubblica via. La donna, che non aveva lavoro e non percepiva assistenza sociale, era stata successivamente posta in carcere preventivo per cinque giorni per non aver pagato la sanzione. “In una situazione di manifesta vulnerabilità, la ricorrente aveva il diritto, inerente alla dignità umana, di poter mostrare il suo disagio e cercare di rimediare ai suoi bisogni chiedendo l’elemosina”, prosegue la Cedu, secondo la quale per lei questa era l’unica soluzione per sopravvivere. Secondo la Corte la Svizzera ha violato l’articolo 8 che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare, iscritto nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e dovrà pagare alla richiedente 922 euro per danni morali. Oltre che per motivi legati alla presunta protezione del pubblico ‘decoro’, le sanzioni contro chi fa elemosina erano state giustificate dai loro sostenitori come un modo per scoraggiare la tratta degli esseri umani, una correlazione contestata però da molti esperti e Ong. Accattonaggio sulla pubblica via, per la Cedu sproporzionate le sanzioni della Svizzera di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2021 L’impossibilità di altri mezzi di sostentamento del mendicante è causa di giustificazione della richiesta di elemosina. Non è una sanzione proporzionata quella di cinque giorni di carcere per la mendicante rom che non ha altri mezzi di sostentamento e non può pagare l’ammenda di circa 400 euro inflittale in Svizzera per l’accattonaggio sulla pubblica via. La sproporzione del regime di contrasto al fenomeno della richiesta di elemosina in strada deriva dal contrasto con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che tutela il rispetto della vita privata e familiare. La Corte Cedu ha perciò condannato la Svizzera con la sentenza sulla domanda n. 14065/15. Secondo la Corte va considerato che la ricorrente di origine e residenza rumene, analfabeta e appartenente a famiglia estremamente povera, non aveva occupazione e non godeva di assistenza sociale. L’accattonaggio - dice la Corte - costituiva per la ricorrente il solo mezzo di sopravvivenza da cui discende il proprio stato di manifesta vulnerabilità. Da cui - in base al diritto fondamentale alla dignità umana - la ricorrente faceva uso dell’accattonaggio esprimendo il proprio disagio e rimediando così ai propri bisogni primari. In conclusione, nel bilanciamento dei diritti la Corte Cedu afferma che la sanzione inflitta alla ricorrente non costituisse una misura proporzionata al fine della lotta alla criminalità organizzata o della tutela dei passanti, dei residenti e dei proprietari di esercizi commerciali. La Corte rigetta così l’argomento del Tribunale federale svizzero che sosteneva che con misure meno restrittive non avrebbero ottenuto lo stesso risultato o un effetto comparabile. Campania. Rems, Tso e carcere: quando la libertà personale è limitata di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 gennaio 2021 Presentato ieri a Napol il dossier curato da Samuele Ciambriello, garante campano dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Non solo carcere, ma anche un monitoraggio sul Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso) e le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems). D’altronde non a caso parliamo del garante delle persone private della libertà. Quindi non solo i detenuti, ma tutte quelle persone che di fatto subiscono una limitazione della libertà. In questo caso parliamo dell’attività svolta da Samuele Ciambriello, garante della regione Campania. Ieri mattina si è tenuto a Napoli, nella sala Multimediale del Consiglio Regionale, isola F13, la presentazione di questo importante lavoro presieduto dal Garante Samuele Ciambriello, dalla vicepresidente del Consiglio Regionale, Valeria Ciarambino e dalla presidente della Commissione Regionale Cultura e Politiche Sociali, Bruna Fiola. La pubblicazione si inserisce in un percorso di studio e approfondimento sui temi più attuali della realtà carceraria e dei luoghi in cui vi è la privazione della libertà personale, in cui l’Ufficio del Garante è impegnato e che ha visto, finora, la produzione di opuscoli e quaderni su Covid e carcere, il tema dei suicidi, dell’affettività e della tutela dei minori. All’evento ha partecipato anche Fedele Maurano, Direttore Dipartimento Salute Mentale, Asl Na1centro, Raffaele Liardo, Direttore Rems Calvi Risorta, Giuseppe Ortano, Associazione psichiatria democratica e Emanuela Ianniciello, Cooperativa Articolo 1. Come spiega il Garante Ciambriello nella sua introduzione al dossier, in questo suo complesso lavoro di mappatura, per la prima volta affrontato sull’intero territorio regionale, ha chiesto di accompagnarlo all’Associazione “Psichiatria Democratica”, per quel che concerne il mandato istituzionale di monitoraggio della situazione sanitaria, ed alla Cooperativa “Articolo 1”, per effettuare visite e approfondimenti per le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. Tale pubblicazione, che anticipa i dati raccolti nel 2020 che andranno a costituire la relazione annuale prossima, rileva importanti notizie riguardanti le due aree sopracitate al tempo dell’emergenza Covid-19. Area sanitaria esterna - Il garante Ciambriello sottolinea che con il termine Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso) si intendono una serie di interventi sanitari che possono essere applicati in caso di motivata necessità ed urgenza e qualora sussista il rifiuto al trattamento da parte del soggetto che deve ricevere assistenza. “Nello specifico, al 20/12/2020, - osserva nella sua introduzione al dossier il garante campano - l’offerta di posti letto nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura della Regione Campania ha subìto, causa pandemia, una contrazione di circa il 15%, passando da 140 a 120 posti. Dal 19/10/2020 l’ospedale San Giovanni Bosco (Na) è stato riconvertito in presidio Covid ed i locali del Spdc destinati ad altro impiego; presso l’Ospedale del Mare (Na) i due reparti sono stati fusi in un unico Servizio dotato al momento di 16 posti letto; presso l’Asl di Salerno, invece, nessun cambiamento è stato rilevato con l’arrivo del Covid e nessuna riduzione dell’offerta”. Sulla spinta delle Linee Guida Nazionali, i 7 Dipartimenti di Salute Mentale presenti sul territorio campano hanno proposto o convalidato Protocolli di Intesa con i rispettivi Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc) riguardanti Percorsi Assistenziali degli utenti Sars-CoV-2 con problematiche emotive cognitive e comportamentali. Alla luce del rapporto posti letto/popolazione residente, che viene considerata ottimale sulla base di un posto ogni 10.000 abitanti, secondo Ciambriello “è possibile affermare che l’attuale offerta del Servizio Sanitario Nazionale è assolutamente inadeguata alle necessità della popolazione, e che l’attuale situazione sanitaria non ha fatto che amplificare una carenza preesistente”. Le Rems e i detenuti in lista d’attesa - Per quanto riguarda invece la situazione delle residenze per le misure di sicurezza campane, le due Rems definitive (San Nicola Baronia e Calvi Risorta), con altre due in regime temporaneo (Mondragone e Vairano Patenora), attualmente ospitano 44 persone. Nota estremamente positiva è che nel periodo che va da marzo 2020 ad oggi, nelle 4 strutture campane nessuno degli ospiti è stato contagiato. Gli unici contagi si sono registrati ad Avellino dove uno screening di massa, effettuato alla fine del mese di settembre u.s., ha permesso l’isolamento delle 6 unità del personale risultate positive e tutte attualmente negativizzate. Dei 44 posti letto totali attualmente occupati nelle 4 Rems, nel periodo in questione, nel dossier redatto dall’ufficio del garante regionale emerge che ci sono stati trasferimenti sia in entrata (per cui è stata seguita la procedura prevista dal sistema centrale del previo tampone), che in uscita attraverso una sostituzione della misura custodiale. La preoccupazione di Ciambriello è rivolta ai detenuti in attesa di collocamento nelle Rems che sono 19: di questi ultimi, 18 provengono da Istituti Penitenziari della regione Campania (10 ristretti nelle Articolazioni Mentali e 3 nei reparti comuni, 5 attendono il fine pena) e 1 proveniente dalla regione Lazio, dalla Casa Circondariale di Regina Coeli. Mentre sono 10 le persone in attesa di un posto in Rems che provengono dalle proprie residenze poiché sottoposti al regime degli arresti domiciliari. Sul tema generale della salute mentale, in carcere e nell’area penale esterna, Samuele Ciambriello organizzerà quest’anno un momento seminariale con più attori: Sanità pubblica, Operatori penitenziari, Terzo Settore, Volontariato, esponenti politici, con l’intento di promuovere le buone prassi e ridurre le criticità emerse dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Sicilia. Il Covid in carcere e i rischi di tutti: “Vacciniamo i detenuti” di Roberto Puglisi livesicilia.it, 20 gennaio 2021 Le persone che stanno in carcere non sono poi diverse dalle persone che stanno fuori dal carcere. Di mezzo c’è un fossato che è dato da responsabilità morali e penali, in qualche caso irreparabili. Ma i sentimenti si assomigliano e vanno dalla speranza alla disperazione, come accade per tutti. Ecco perché sono umanissimi i sentimenti - non ultimi quelli del personale, perché, ricordiamolo, anche chi lavora in un carcere vive una sorta di stato di lontananza dal resto, senza averlo meritato - di una comunità che sta affrontando la pandemia in un luogo ristretto. Le paure fanno più paura. Sappiamo che al Pagliarelli di Palermo sono 49 i detenuti trovati positivi al Covid, un numero che non sembra in crescita e che però avrà bisogno di controlli e di monitoraggio. In una cella non puoi scegliere di andare altrove, i contatti sono ravvicinati. Ci sono, appunto, i detenuti e ci sono i lavoratori - bene ripetere il concetto - che, spesso, mettendo un po’ di più del richiesto, costruiscono orizzonti nuovi. “Vacciniamo i detenuti” - Rita Barbera, oggi vicepresidente del centro Pio La Torre, in carcere, a dirigere e migliorare le cose, ci ha passato una vita. Sul punto ha le idee chiare: “In un istituto penitenziario c’è promiscuità e c’è il sovraffollamento, due situazioni gravi. Ecco perché i detenuti e il personale andrebbero vaccinati subito. Sui chi è in cella perché sconta una condanna, vorrei dire semplicemente questo: non lo abbiamo condannato a morte. Vogliamo mettere in sicurezza i cittadini? Bene, anche i detenuti lo sono e hanno il diritto alla tutela. So che si tratta di una battaglia impopolare, ma combatto da trentacinque anni per abbattere i pregiudizi di qualcuno che vorrebbe che si buttasse via la chiave, come si dice. Abbiamo un ordinamento penitenziario aperto, pensato per la riqualificazione delle persone. Non abbiamo altrettanta apertura nella società”. “Rischi per tutti” - “Il problema fondamentale riguarda sempre i diritti umani - dice Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia - ma siccome la gente è poco attenta, aggiungerei un dato: se i contagi dilagheranno, la popolazione carceraria finirà per occupare le terapie intensive degli ospedali e il sistema sarà ulteriormente a rischio per tutti. Non possiamo girare la testa dall’altra parte. Il carcere non è un luogo sicuro”. In un comunicato Antigone riassume: ‘Il caso dei 49 detenuti contagiati da Corona Virus al carcere di Pagliarelli, accertati dopo che sono stati fatti i tamponi a tappeto, è? un ulteriore campanello d’allarme, che deve convincere tutti sulla necessità di intensificare i controlli, attraverso periodici tamponi a tutta la popolazione carceraria siciliana. I detenuti studenti del carcere, a causa della sospensione delle lezioni di presenza, nonostante fossero state previste tutte le precauzioni necessarie ad evitare contatti e, della mancata fase di avvio della Dad, perderanno un anno scolastico. Nessuno può? sottrarsi a questo impegno, il carcere non ha spazi a sufficienza per creare isolamento sanitario ad un alto numero di contagiati”. Il carcere tra speranza e paura - Abbiamo raccontato il carcere e il suo mondo in diverse occasioni, registrando storie differenti. Se c’è una cosa che salta agli occhi è questa: lì si vive una condizione accentuata di fragilità, quali che siano i ruoli, le responsabilità e gli errori. Quello che si muove all’interno di un istituto compone, comunque, una zona di umanità, abitata da persone umane. Non è certo una discarica, il carcere. O, almeno, non dovrebbe esserlo. Bari. Ex boss morto in solitudine, inchiesta dopo la denuncia del figlio di Luca Natile Gazzetta del Mezzogiorno, 20 gennaio 2021 La rabbia della famiglia: “In sedia a rotelle e con l’Alzheimer, non poteva più restare in carcere”. “Non doveva finire così. Mio padre è morto qualche giorno fa in una casa di cura per persone con patologie acute che hanno bisogno di essere sottoposte a riabilitazione. Era ridotto allo stato vegetativo, nell’ultimo periodo si alimentava con la Peg, l’alimentazione artificiale. Quello che più mi addolora è che nonostante le istanze presentate attraverso il nostro legale, lui ha dovuto trascorrere gli ultimi mesi di vita da “detenuto”. Lo chiamavano boss ma per me era solo mio padre, assomigliava ad Al Pacino”. Paolo, 46 anni, non riesce a darsi pace. È il figlio di Francesco Abbrescia, 66 anni, un tempo legato agli ambienti della camorra barese, un pezzo da novanta organico al gruppo malavitoso dei Fiore. Stava scontando una condanna a 12 anni carcere emessa del Tribunale di Brindisi per reati di droga (inchiesta “Coke”). “Ha trascorso quasi metà della sua esistenza in carcere mio padre - spiega Paolo alla “Gazzetta” - ma non è mai stato un “padrino”. Era invecchiato, era un uomo solo e malato, due semi paresi facciali quasi gli impedivano di parlare. I colloqui in carcere o quelli in videoconferenza erano diventati un supplizio. Le patologie che lo hanno portato alla morte non solo gli avevano tolto la salute e la possibilità di vivere in maniera autosufficiente ma anche la lucidità, la capacità di ragionare. Non era più in grado di provvedere a sé stesso. Tra poco più di un anno, considerati gli sconti di pena e la buona condotta, avrebbe finito di pagare il suo conto alla Giustizia e sarebbe tornato un uomo libero ma lui sapeva che non sarebbe riuscito a resistere tanto e per questa ragione mi aveva chiesto di riportarlo a casa. Non voleva morire da carcerato. Non era più in grado di fare del male a nessuno e continuo a sostenere che il suo stato di salute, non fosse compatibile con il regime carcerario. Avrebbe potuto trascorrere un po’ di tempo con la sua famiglia prima di morire. È giusto che chi ha sbagliato paghi le sue colpe ma quando oramai non si è più neppure in grado di riconoscere un figlio, mi chiedo che tipo di giustizia è quella che ti lascia in uno stato di costrizione. Ho presentato istanza per poter riavere i suoi effetti personali, non me li hanno restituiti”. Paolo è rimasto da solo a prendermi cura del genitore. Ha chiesto due volte durante il 2020, a causa del rapido aggravamento delle condizioni di salute, che gli venissero concessi gli arresti domiciliari. “Ero il suo unico sostengo. L’Alzheimer gli stava portando via i ricordi e la capacità di ragionare, un intervento alla colonna vertebrale lo aveva costretto su una sedia a rotelle. Nessuna delle istanze per l’attenuazione della misura restrittiva - spiega Abbrescia - è stata accolta. Il 16 ottobre, l’ultima volta che sono andato in carcere per il colloquio mi hanno detto che non era possibile vederlo e parlargli perché non si sentiva bene. Il giorno dopo mi hanno telefonata dicendomi che le sue condizioni si erano aggravate e che era stato ricoverato in coma al Policlinico. È stato un colpo al cuore”. “Lo hanno ricoverato in Rianimazione, mettendogli un tubicino nella gola per farlo respirare. Ad inizio dicembre - prosegue nel racconto - è uscito dal coma, sono riuscito a parlargli ma lui non mi ha riconosciuto. Gli ho detto di non preoccuparsi, che lo avrei riportato a casa e che ci avrei pensato io a lui. Poi lo hanno trasferito all’ospedale De Bellis di Castellana Grotte dove è stato operato per calcoli alla colecisti. Da lì è stato trasferito alla casa di cura di Noci per sottoporlo ad un trattamento riabilitativo che purtroppo non è riuscito. Mi hanno telefonato dicendomi che non mangiava più e che non rimaneva che il ricovero in una struttura a Bitonto specializzato in cure palliative e accompagnamento alla morte. Mio padre non ce l’ha fatta. Non è riuscito ad arrivare a Bitonto. Mi hanno telefonato nel cuore della notte per dirmi che era morto.”. Dopo aver saputo del coma lo scorso ottobre, Paolo Abbrescia si è presentato nell’ufficio denunce della Questura ed ha depositato una denuncia/querela di tre pagine più 10 pagine di allegato in cui ricostruisce la “storia clinica” del genitore, la tempistica e le ragioni delle istanze con le quali, nonostante non il genitore non avesse raggiunto complessivamente la pena per la concessione del beneficio della detenzione domiciliare, ne chiedeva comunque il riconoscimento in quanto il suo stato di salute avrebbe potuto essere incompatibile “con il regime inframurario in carcere”. “Dopo tanti anni che cercavo di portarlo a casa, per le sue malattie inguaribili alla fine lui non ce l’ha fatta Ha sofferto molto. Ritengo ingiusto che sia rimasto in carcere nonostante il suo stato. Le ultime richieste per i domiciliari le abbiamo presentate quando abbiamo capito che la sua salute stava precipitando ossia il 5 maggio e poi il 19 settembre del 2020. Sono state entrambe rigettate. Non ce l’ho con i giudici, e neppure con i medici ma a questo punto non mi resta che ipotizzare che qualche cosa non abbia funzionato nello scambio di informazioni sul suo stato di salute. Voglio sapere se gli è stata fornita in carcere tutta l’assistenza possibile. Se lo avessero lasciato uscire per tempo forse le cose sarebbero andate diversamente. Dopo la mia denuncia sono stato sentito dagli investigatori, è stato aperto un fascicolo. Voglio andare avanti. C’è però un ostacolo. Ho parlato con 8 avvocati e nessuno si è detto disposto a darmi assistenza legale”. Napoli. Il Garante Ioia: “Mai più visto de Magistris, doveva venire con me in carcere” di Ciro Cuozzo Il Riformista, 20 gennaio 2021 Da quando nel dicembre del 2019 è stato nominato garante dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale per il Comune di Napoli, non ha più visto il sindaco Luigi de Magistris né si è relazionato con la sua amministrazione. A rivelarlo è lo stesso Pietro Ioia, ex detenuto (ha scontato 22 anni di carcere) e oggi punto di riferimento di centinaia di familiari di carcerati. Nel corso dell’inchiesta condotta da Report sulla situazione nelle carceri italiane durante l’emergenza coronavirus, Ioia ha ammesso a “malincuore” che con de Magistris “non ci siamo più visti dalla mia nomina. Doveva venire con noi a visitare alcuni penitenziari ma non si è mai presentato” ha aggiunto il garante napoletano che per l’attività che svolge non percepisce alcun compenso economico a differenza dei garanti regionali. Ioia è un rappresentante del comune di Napoli ma, così come sottolineato da Bernando Iovene, il giornalista che ha condotto il reportage, non mette piede a palazzo San Giacomo né si relaziona con il sindaco, che ha annunciato nelle scorse ore la candidatura a governatore della Calabria, e con il suo staff. “Mi definisco un garante abusivo, il mio ufficio è il bar dove incontro i familiari dei detenuti” spiega Ioia che aggiunge: “Prendo nota di tutti i problemi denunciati dai loro parenti e li porto al direttore del carcere e al dirigente sanitario”. Ioia nei mesi scorsi era stato definito, pure senza essere nominato, “Garante della chiavicumma” dal consigliere regionale dei Verdi, nonché giornalista professionista, Francesco Emilio Borrelli. Offese pronunciate nel corso di una diretta Facebook contro chi, durante l’emergenza coronavirus, decideva di impegnarsi nella lotta a tutela dei diritti dei detenuti per evitare il contagio degli stessi. Parole che hanno portato Ioia, assistito dall’avvocato Raffaele Minieri, consigliere della Camera Penale di Napoli e membro della Direzione Nazionale Radicali Italiani, a presentare denuncia-querela presso la Procura di Napoli. A distanza di otto mesi, e dopo l’iniziale richiesta di archiviazione avanzata dal pm Francesca De Renzis perché le espressioni adottate da Borrelli “non appaiono idonee a ledere la reputazione della persona offesa”, il Gip del Tribunale di Napoli, Roberto D’Auria, ha accolto l’opposizione dell’avvocato Minieri chiedendo al magistrato la formulazione dell’imputazione coatta nel giro di 10 giorni, ovvero la formulazione del capo di imputazione. Siracusa. Carcere, due anni per una visita medica: la procura apre un’inchiesta La Repubblica, 20 gennaio 2021 Il fascicolo, in mano al Procuratore Sabrina Gambino e dal sostituto Tommaso Pagano, è stato aperto dopo le segnalazioni del Garante dei detenuti del penitenziario di Siracusa, Giovanni Villari. La Procura di Siracusa ha aperto un’inchiesta sui ritardi nell’esecuzione degli esami specialistici e degli interventi chirurgici nei confronti dei detenuti del carcere di Siracusa. Il fascicolo, in mano al Procuratore Sabrina Gambino e dal sostituto Tommaso Pagano, è stato aperto dopo le segnalazioni del Garante dei detenuti del penitenziario di Siracusa, Giovanni Villari, che è stato già ascoltato dagli inquirenti, negli uffici del palazzo di giustizia del capoluogo siciliano. “Seguo alcuni casi - spiega Giovanni Villari, Garante dei detenuti di Siracusa - e posso affermare che ci sono detenuti che sono in attesa di una visita specialistica da almeno due anni, altri da un anno e mezzo. Mi viene in mente la vicenda di un ragazzo che ha presentato una richiesta nell’aprile dello scorso anno: va in bagno dalle due alle tre volte al giorno, fino quasi a collassare. Pure gli agenti penitenziari mi hanno chiesto di interessarmi a questa vicenda”. La procedura illustrata ai magistrati, secondo quanto sostenuto dal garante dei detenuti del carcere di Siracusa, è la seguente: “Quando il detenuto sta male, presenta una domanda - spiega Giovanni Villari - per essere visitato dall’area sanitaria interna al carcere. A quel punto, i medici di turno del penitenziario, se ravvisano una particolare patologia per cui serve una visita specialistica, scrivono all’Asp di Siracusa. L’azienda, dopo aver ricevuto la richiesta, deve provvedere ad organizzare la visita ma questo capita con molta rarità in tempi brevi, tra i 2 ed i 4 mesi. Però, alcuni esami, proprio per la gravità della patologia ipotizzata, vanno eseguiti in modo rapido, con carattere di urgenza come indicato nella prescrizione dell’area medica del carcere. Ma, quasi sempre, questa urgenza viene disattesa”. Il garante ha anche scritto una lettera alla direzione generale dell’Asp di Siracusa ed al dirigente sanitario provinciale dell’Asp, Salvatore Madonia chiedendo loro di motivare le ragioni di questi ritardi sia per le visite diagnostiche sia per gli interventi chirurgici. Inoltre, come denunciato da Villari, non è ancora entrata in funzione l’unità radiologica mobile, che era stata annunciata nello scorso mese di ottobre. Il Garante ha anche consegnato all’Asp di Siracusa una tabella con i 27 decessi avvenuti negli ultimi 18 anni nei penitenziari di Siracusa. Secondo Villari, la quasi totalità delle morti registrate come suicidi sono legate a condizioni di salute psicofisica gravi. “Ho inviato la lettera - cnclude Villari - al garante regionale, al professor Giovanni Fiandaca, che ha appoggiato la mia iniziativa e lui stesso ha avviato un’azione per avere lumi su quanto sta accadendo”. Santa Maria Capua Vetere. Torture in carcere, i detenuti al telefono: “Picchiati senza motivo” di Attilio Nettuno casertanews.it, 20 gennaio 2021 La registrazione della telefonata agli atti degli inquirenti: “Ci dicono che tanto dobbiamo morire tutti”. Botte, senza motivo ed a turno. È quanto hanno raccontato i detenuti del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere ai loro familiari durante alcuni colloqui telefonici. Colloqui in cui hanno rivelato l’orrore delle torture in cella avvenute il 6 aprile scorso e di cui si è occupata anche la trasmissione televisiva Report. Botte inferte “a tutti quanti, non a chi si e a chi no, a tutti quanti, tutti i giorni”, racconta il detenuto. Pestaggi “a turno”, “una volta ad uno, una volta ad un altro”, prosegue. Secondo il racconto del recluso “vengono cento di questi, duecento, trecento, quattrocento. Non si capisce. Una sera erano in trecento, trecento hai capito? Loro dicono che eravamo tutti quanti all’aria ma quando mai. Ti acchiappano così e ti incastrano in tre, quattro e questo fanno. Questo gli piace. Ci hanno detto ‘tanto dobbiamo morire tutti quanti, ormai a questo punto”. Violenze che, secondo quanto ha riferito il detenuto ai familiari, sarebbero immotivate: “qui stanno prendendo gli schiaffi solo perché stiamo seduti sugli sgabelli”. Addirittura di due ragazzi, in quei giorni concitati, si sarebbero anche perse le tracce: “dice che ci sono i familiari che stanno cercando e non li trovano. Dovrebbero stare lì dentro (in infermeria nda) ma non lo sappiamo.Ci sono gente che gli sono saltati i denti di bocca. Sono rotti in mano, li hanno rotti in testa, in tutte le parti”. Ma anche “capelli e barbe tagliate”. Alle violenze si sarebbero aggiunti comportamenti disumani come il digiuno forzato (da mangiare “niente niente”) o lo stop delle videochiamate, con i colloqui in presenza sospesi per la pandemia. “Secondo te perché le hanno bloccate?”, paventando l’ipotesi di una sospensione per impedire che i parenti vedessero i segni dei pestaggi. Roma. Il Comune: così ridiamo casa a bisognosi ed ex detenuti di Alessia Guerrieri Avvenire, 20 gennaio 2021 Via libera a due delibere che consentiranno la riqualificazione di tre ex scuole e due strutture da dedicare a famiglie e ex carcerati. Raggi: vogliamo uscire dalla logica emergenziale della casa. Edifici abbandonati che ritroveranno nuova vita e, soprattutto, saranno una nuova casa per famiglie in difficoltà e per ex detenuti. La giunta capitolina infatti ha approvato due delibere con le quali, da un lato, si dà il via libera alla riqualificazione di tre immobili abbandonati di Roma - l’ex asilo nido in via Tarso (VIII Municipio), l’ex sede dell’Istituto di istruzione superiore Don Calabria in via Cardinal Capranica (XIV Municipio) e l’ex scuola in via Sorel (V Municipio) di proprietà di Città Metropolitana e oggetto di un accordo per la cessione a Roma Capitale - che poi diventeranno alloggi per cittadini in difficoltà e poli sociali del quartiere. E dall’altro, la seconda delibera a cui ha fatto seguito un accordo di collaborazione firmato da Roma Capitale e dall’Asp Asilo Savoia, prevede il sostegno in favore di persone detenute ed ex detenute attraverso l’accoglienza in due strutture residenziali (dieci posti letto) e l’attivazione di piani personalizzati di intervento per consentire l’inizio di una nuova vita a chi ha appena tornato libero dopo aver scontato la sua pena. Due tasselli, insomma, per affrontare “in maniera strutturale le problematiche legate all’emergenza abitativa, anche attraverso forme di coabitazione e di housing sociale”, sottolinea il sindaco di Roma Virginia Raggi, ricordando che il lavoro che si sta portando avanti “punta a trovare soluzioni solide e non più emergenziali su un tema che coinvolge tantissimi cittadini”. Mentre per quanto riguarda la struttura dedicata agli ex detenuti, il primo cittadino aggiunge che con essa si vuol offrire loro supporto, “valorizzando le persone e offrendo un punto di partenza che permetta di riorganizzare la vita quotidiana dal punto di vista lavorativo e sociale”. La logica non è quella delle grandi strutture, ma “modalità innovative e a dimensione umana che permettano alle persone in situazione di fragilità, per motivi diversi, di costruire relazioni, in un contesto a dimensione familiare, in cui ricevere supporto, dare il proprio contributo, crescere insieme”, aggiunge l’assessore alla Persona, Scuola e Comunità solidale Veronica Mammì. L’obiettivo è promuovere la rigenerazione urbana intesa in senso ampio e integrato: comprendendo quindi anche aspetti sociali, economici, urbanistici ed edilizi, per promuovere e rilanciare territori dove sono presenti situazioni di disagio, favorendo forme di co-housing per la condivisione di spazi e attività. E su questa strada così tre ex scuole verranno ora riqualificate con la costruzione di alloggi destinati a nuove forme di abitare. “Un importante intervento integrato di recupero e valorizzazione di aree ed edifici che si inserisce nel solco dei vari programmi che stiamo sviluppando per uscire definitivamente da un’ottica unicamente emergenziale del problema casa a Roma”, dice poi l’assessore al Patrimonio e alle Politiche Abitative Valentina Vivarelli. In particolare nell’area di via Tarso sarà avviata la progettazione per la realizzazione di una struttura residenziale da destinare ad albergo sociale, con spazi e servizi comuni in modo da fornire una sistemazione temporanea ai cittadini in difficoltà. Qui si prevede di poter realizzare alloggi per circa 50 persone e servizi dedicati aperti al quartiere, per un costo complessivo stimato di 3,5 milioni di euro. L’intervento sull’immobile di via Cardinal Capranica, invece, intende adeguare l’utilizzazione del sito per rispondere alla domanda di alloggi di edilizia residenziale pubblica per il primo inserimento di giovani coppie; un intervento che avrà un costo complessivo stimato tra i 14 e i 20 milioni di euro. Infine, il riuso dell’immobile di via Sorel prevede l’avvio del programma di rigenerazione che favorisca il cambio di destinazione d’uso di una scuola dismessa attraverso progetti di autorecupero per residenze collettive dotate di servizi. Il costo complessivo stimato è di 5 milioni di euro. “La consapevolezza dei reali fabbisogni e della dimensione del problema dell’abitare ci spinge ad avviare progettualità diverse per offrire risposte articolate, che tengano conto di bisogni differenti - conclude l’assessore all’Urbanistica Luca Montuori - sperimentando modelli innovativi di gestione e creazione di comunità, per individuare strade necessarie a uscire da una gestione emergenziale del diritto all’abitare”. Il progetto per gli ex detenuti - Due strutture per chi è appena uscito di prigione, per facilitare il reinserimento sociale e la conseguente riduzione del pericolo emarginazione. Il progetto appena avviato dal Campidoglio insieme a all’Asl Asilo Salvoia vuole infatti offrire azioni di accompagnamento e servizi socio assistenziali, a partire dall’offerta di soluzioni abitative in cohousing in grado di rispondere ai bisogni temporanei di accoglienza, assistenza e supporto nel percorso di ritorno alla libertà e all’autonomia. Attraverso i piani personalizzati di intervento poi si intende anche attivare percorsi di collaborazione interistituzionale, erogare tirocini di inserimento o reinserimento con orientamento professionale e lavorativo; programmare interventi di semiautonomia per le persone con problematiche psicosociali. “L’ampliamento delle strutture di accoglienza in favore della popolazione detenuta - sottolinea l’assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi Cittadini con delega ai rapporti con la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Daniele Frongia - mira non solo all’accompagnamento e alla ripresa della vita autonoma, ma anche alla diminuzione del rischio di recidiva. Una importante risposta alle difficoltà di inclusione che incontra chi sconta una pena detentiva”. Un percorso in cui il Comune di Roma verrà affiancato dall’Azienda pubblica per i servizi alla persona Asilo di Savoia, il cui presidente Massimiliano Monnanni, ricorda anche “le attività già in essere rivolte a madri detenute con bambini in attuazione di un precedente ed analogo accordo sottoscritto sempre con Roma Capitale e Regione Lazio per la Casa di Leda”. Giorni di “ordinaria” barbarie tra esecuzioni e arresti di massa di Ezio Menzione* Il Dubbio, 20 gennaio 2021 La notizia dell’esecuzione in Indiana, Usa, della pena capitale nei confronti di Lisa Montgomery è di quelle che destano orrore e raccapriccio. Dopo 57 anni di inattività nei confronti delle donne, quando ormai era lecito pensare che non si sarebbe più attivato, il boia federale è tornato ad armare la sua siringa letale contro una povera disgraziata che commise un orribile delitto in uno stato patologico gravissimo e certificato, che non avrebbe richiesto né processo né pena, ma soltanto aiuto psichiatrico. Il tutto dopo che il giorno precedente un giudice statale dell’Indiana aveva sospeso l’esecuzione ponendo dei seri dubbi sulla sanità mentale del soggetto da sopprimere e dunque sul senso della pena stessa. Ma un Trump con valigie al piede ed una Corte Suprema da lui ipotecata per chissà quanto tempo non hanno sentito ragioni: quella disgraziata andava tolta di mezzo, la sua esecuzione doveva suggellare l’era Trump ed essere di monito per il futuro. Un po’ frastornati, si pensa ad alcuni, anzi molti, accadimenti degli ultimi giorni. Un famoso giornalista turco, ormai esule in Germania, condannato a 27 anni di carcere per avere diffuso notizie sul traffico, connivente il governo, di armi in andata e di petrolio in uscita fra la Turchia e la Siria: notizie vere, corroborate da video più che eloquenti. Il giorno dopo in Cina un’avvocata, diventata giornalista per l’occasione, condannata a 4 anni per avere l’anno scorso “svelato” il dilagare dell’epidemia di covid 19 (ancora non si chiamava neanche così) nella provincia di Whuan. Pochi giorni dopo a Hong Kong 53 attivisti vengono arrestati con l’accusa di avere diretto e fomentato la protesta autonomista che coinvolse milioni di cittadini e così violato la draconiana legge sulla sicurezza nazionale; fra gli arrestati (e fortunatamente rilasciato dopo due giorni) c’è anche l’avvocato responsabile della Commissione dei Diritti Umani per l’Asia. Tornando in Turchia e precisamente a Istanbul, stessi giorni, si accende la protesta degli studenti e dei docenti dell’antica e prestigiosa Università del Corno d’Oro contro l’imposizione di un rettore esterno, uomo di Erdogan, secondo una recente legge che lo consente: ogni giorno di protesta molti i fermati e una cinquantina i detenuti a tutt’oggi. E poi, tanto per restare in Turchia, ma più specificamente in Anatolia, due avvocati arrestati solo perché “difendevano troppi curdi”. E poi, e poi…. non si finirebbe più l’elenco, pur restando agli ultimi giorni. E i capelli si rizzano in testa. È uscito in questi giorni l’annuale Human Rights Watch Report e ce ne è per tutti (Italia compresa, ma in posizione assai defilata, per fortuna). Ma non è possibile fare di ogni erba un fascio e mettere sotto la comune etichetta di “violazione dei diritti umani” ogni episodio. Non perché sia utile fare una hit parade di chi viola più diritti e in maniera più bestiale, ma per cercare di capire come queste violazioni si atteggiano, di cosa si fanno forti, su cosa puntano. Prendiamo Zhang Zhan, Cina, e Giam Dundar, Turchia: ambedue sono stati imputati e condannati per avere diffuso notizie sgradite ai rispettivi governi. La prima ha dovuto rispondere di “diffusione di notizie atte a turbare l’ordine pubblico” ed è stata condannata a quattro anni. Il secondo ha dovuto rispondere di spionaggio e terrorismo, e la pena si è innalzata fino a 27 anni. Vi è una differenza fra i due trattamenti e non ha a che fare solo e tanto con l’entità della pena, quanto con il modo di riguardare la (presunta) violazione sanzionata. Anche se è difficile dire quale sia il senso della sanzione inflitta ai due per un comportamento che ai nostri occhi e secondo le nostre leggi sarebbe stato esente da pena, anzi lodevole, possiamo individuare tale differenza in un profilo che sinteticamente possiamo enunciare così: l’accusa contro Zhang Zhan manteneva la sua posizione all’interno del consesso civile cinese, le riconosceva comunque cittadinanza; quella contro Dundar lo poneva al di fuori del consesso turco, egli era ed è “il nemico” e come tale va trattato (anche in termini di sanzione, cioè di anni di galera). Ripeto, non è questione di fare una graduatoria fra i due paesi, che la Cina, con la sua pena di morte comminata a piene sanguinanti mani (ma i numeri delle pene eseguite sono segreto di stato e non li conosce nemmeno Amnesty International) non è seconda a nessuno quanto a violazione dei diritti umani. Ma non è inutile prendere atto che la politica del governo turco nel riconoscere come “Nemico” (con la N maiuscola) qualunque oppositore e, passo successivo, qualunque mediatore fra governo e opposizione fa il vuoto fra il governo e chi lo critica: fa saltare ogni possibilità di convivenza che non sia l’autoritarismo di chi governa e i cittadini ridotti a sudditi, anzi a plebe priva di ogni diritto. La differenza non è da poco e ci aiuta a capire quanto va accadendo in Turchia da ormai più di dieci anni. Torniamo a questo punto agli Usa e alla raccapricciante vicenda di Lisa Montgomery. Il gap culturale fra noi e gli americani non è così profondo da non consentirci di leggere i fatti giudiziari di oltreatlantico: figuriamoci, siamo soliti dire che gli Usa con la loro carta fondante sui diritti dell’uomo sono la patria (o la madre) della nostra democrazia. Però credo che ognuno di noi avverta una lontananza siderale non solo verso la pena di morte in se stessa, ma la pena di morte per Lisa Montgomery. Una pena comminata a seguito di un processo che l’imputata non ha potuto affrontare adeguatamente e dunque rispetto al quale la legge non è uguale per tutti. Una condanna che non tiene conto delle minime nozioni di imputabilità e responsabilità penale, nozioni cardine per noi: chi non comprende ciò che fece nel momento in cui lo fece non può essere chiamato a risponderne. Un’esecuzione della pena appena sospesa da un’autorità giudiziaria e invece imposta sia dal governo che dalla Corte Suprema perché non si discutesse più del caso ed esso fosse di esempio. Una concezione del giudizio non solo privo della necessaria pietas umana, ma anche dell’equilibrio che sempre deve denotare il trattamento delle vicende umane. Anche questa pietas, a mio avviso, è un diritto umano inalienabile. *Osservatorio Internazionale Ucpi Migranti. “Respingimenti illegali”, l’Ue prova a processare Frontex di Leo Lancari Il Manifesto, 20 gennaio 2021 Riunione a Bruxelles con i vertici dell’Agenzia sulle operazioni compiute nel mar Egeo contro i profughi partiti dalla Turchia. Per Fabrice Leggeri quella di oggi potrebbe essere una giornata decisiva. A Bruxelles si tiene infatti una nuova riunione tra la Commissione europea e il consiglio di amministrazione di Frontex, l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere terrestri e marittime, che dovrebbe servire a fare chiarezza sulle accuse rivolte all’Agenzia di aver eseguito respingimenti illegali di migranti nel mar Egeo. Alla commissaria per l’Immigrazione Ylva Johansson non è piaciuta infatti il modo vago con cui il direttore di Frontex ha risposto alle sue richieste di fare chiarezza sulle accuse lanciate da alcuni media europei e che nelle scorse settimane hanno portato all’apertura di un’inchiesta da parte dell’Olaf, l’Ufficio europeo anti-frode. “Le sue risposte non sono state soddisfacenti”, ha confermato ieri la Johansson annunciando la riunione di oggi. È stata un’inchiesta di Der Spiegel a rivelare a ottobre del 2020 il coinvolgimento di Frontex nel mar Egeo nel respingere i profughi che dalla Turchia cercavano di raggiungere la Grecia. Secondo il settimanale tedesco i funzionari dell’agenzia, tra i quali sarebbero stati presenti anche alcuni agenti della polizia federale tedesca, avrebbero fermato i barconi dei migranti prima che potessero raggiungere le isole greche consegnandoli poi alla Guardia costiera greca che li avrebbe respinti in alto mare. In seguito altri media hanno documentato anche con immagini questi respingimenti o quantomeno la tolleranza mostrata da Frontex quando ad agire sarebbero stati i mezzi navali di Atene. “Incidenti”, per Frontex, che secondo quanto rivelato dallo spagnolo El Pais, la stessa Agenzia avrebbe ammesso in un documento consegnato alla Commissione europea. Senza però, a quanto pare, fornire risposte sufficientemente esaurienti, tanto da spingere l’Olaf, l’Ufficio europeo anti-frode, ad aprire un’inchiesta per verificare l’esistenza di operazioni illegali per impedire ai profughi di raggiungere le coste europee e di esercitare il diritto di chiedere asilo. “Bisogna fare chiarezza e rimediare. Le nostre agenzie devono rispettare al 100 per cento i valori fondamentali dell’Unione europea e devono essere in grado di dimostralo in modo efficiente”, ha proseguito Johansson parlando a Bruxelles con alcuni giornali europei. Senza dimenticare di sottolineare come, in base al suo regolamento, Frontex “dovrebbe dotarsi di 40 osservatori per il rispetto dei diritti umani, che invece non ci sono”. Le ombre sull’operato dell’Agenzia per le frontiere suscitano particolare preoccupazione anche in vista dei progetti di riforma di Frontex in discussione a Bruxelles e inseriti nel Piano su immigrazione e asilo presentato dalla commissione guidata da Ursula von der Leyen. Piano nel quale si prevede un rafforzamento dell’organico fino a 10 mila uomini nei prossimi anni con inoltre la possibilità, per ora fortunatamente scartata, di armarli. “Abbiamo già richiesto al direttore di Frontex di dare le dimissioni”, hanno dichiarato nei giorni scorsi i deputati del gruppo S&D del parlamento europeo in seguito alle denunce sui respingimenti illegali. Per Leggeri il momento di farsi da parte alla fine potrebbe essere arrivato. Un report denuncia le violenze contro i migranti compiute ai confini europei di Simone Lo Presti Il Manifesto, 20 gennaio 2021 “Perdeva molto sangue dal naso” racconta un giovane migrante afghano testimone di quanto accaduto ad un suo compagno di viaggio al confine ungherese, nel settembre 2019, mentre provava ad attraversarlo con un gruppo di altri 8 giovani afghani, di età compresa tra i 16 e i 19 anni. Un ufficiale tedesco, in divisa con la bandiera dell’Unione europea, li aveva presi a pugni sul petto, sulle spalle e in faccia, rompendo il naso a uno di loro. Erano presenti anche dodici ufficiali della polizia ungherese. I ragazzi afghani sono stati costretti a marciare, con le mani dietro la testa, fino alla vicina stazione di polizia e a immergersi nell’acqua gelida di una piscina: “ridevano mentre registravano le operazioni con videocamere digitali e smartphone”, prosegue il racconto. Si intitola “Black Book of Pushbacks” il report di 1500 pagine realizzato dall’Ong Border violence monitoring network (Bvmn) che ha raccolto prove e testimonianze relative alle violazioni di diritti umani in atto lungo i confini europei. “In ogni nostra visita - spiegano i redattori - abbiamo sempre trovato bambini, donne e uomini che stavano soffrendo. Le persone che incontravamo erano terrorizzate da ciò che si lasciavano alle spalle e impaurite da ciò che avevano davanti”. Negli ultimi anni, le testimonianze di violenza “crudele, sadica e degradante” sono cresciute di pari passo al numero dei respingimenti forzati (pushback). Questa pratica si concretizza quando i migranti, collettivamente, vengono forzati a uscire fuori dai confini europei senza la possibilità di fare richiesta di asilo politico. In questo modo non esiste alcun strumento giuridico per contrastare l’espulsione. A partire da marzo 2016, quando è stata formalmente chiusa la rotta balcanica, le forze di polizia e gli ufficiali di frontiera hanno avviato prassi vessatorie nella gestione delle pressioni migratorie. Seppur la pratica dei respingimenti forzati è proibita dalle leggi internazionali, tali abusi e altre forme di violazione di diritti fondamentali hanno continuato a essere perpetrati ai confini dell’Ue dalle forze di polizia italiane, slovene, ungheresi, greche e croate, con metodi spesso violenti. Furti, calci, manganellate, insulti, uso di armi, attacchi da parte di cani. E ancora costringere le persone a spogliarsi o premere i loro corpi verso il suolo, immergerle in acqua ed esporle a temperature estreme sono state le più comuni tipologie di violenza usate durante i respingimenti: metodi che violano il divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti sancito dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ciò avviene di routine e gli ufficiali di frontiera coinvolti restano impuniti, protetti da poco convincenti smentite governative. Le testimonianze raccolte da Bvmn nel periodo tra il 2017 e il 2020 sono state 892 e riguardano 12.654 casi di respingimenti sia verso altri Paesi Ue (cosiddetti respingimenti a catena), sia verso Paesi extra-Ue. In media, il 42,5% delle testimonianze ha coinvolto dei minori. In 12 casi, verificatisi ai confini di Grecia, Albania e Ungheria, è stata riportata dai testimoni la presenza e il coinvolgimento nelle operazioni e nelle violenze di ufficiali in divisa riportante la bandiera dell’Ue, presumibilmente identificabili come appartenenti all’agenzia europea Frontex. “A loro non importa dove ti picchiano. Ti colpiscono negli occhi, dovunque” sono le parole di un anonimo testimone, che insieme ad altre 3 persone provenienti dalla Siria e dal Marocco ha provato ad attraversare il confine nord della Grecia verso la Macedonia del Nord, lo scorso 17 agosto 2020. “Ci trattavano come animali” afferma e descrive la presenza di ufficiali di polizia della Repubblica Ceca, della Germania e un potenziale ufficiale di Frontex (divisa scura con una visibile bandiera dell’Unione europea sulle spalle). La cruda testimonianza riporta che prima di essere espulsi sono stati picchiati con manganelli, costretti al suolo e presi a calci da ufficiali di polizia macedone e da quattro persone a volto coperto: alcuni di loro facevano foto e video della violenza. “Bisogna sottolineare - spiegano gli editori del “Black Book”, Hope Barker e Milena Zajovic - che questo report presenta soltanto i casi direttamente osservati dai volontari del Network: ciò significa che il numero reale delle vittime potrebbe essere più alto. Per esempio, i nostri volontari hanno potuto registrare i respingimenti di 3272 persone dalla Croazia verso la Bosnia o la Serbia nel 2019, incluse 612 persone che erano già state respinte a catena dall’Italia o dalla Slovenia”. Si stima che siano stati oltre 25.000 i casi di respingimenti dalla Croazia soltanto nel 2019. A partire dal 2016 sono state avanzate continue denunce da parte di diverse Ong dirette alle istituzioni degli Stati membri deputate al controllo e alla salvaguardia dei diritti fondamentali: spesso sono state rigettate o considerate infondate. “Pestati a morte dai croati”. Nella foresta degli orrori dove spariscono i migranti di Niccolò Zancan La Stampa, 20 gennaio 2021 Le guardie di Zagabria presidiano il bosco che confina con la Bosnia da dove passano i profughi. “Difendiamo la nostra frontiera”. Ma nel 2020 il 90% dei respingimenti è avvenuto con la forza “Pestati a morte dai croati”. Nella foresta degli orrori dove spariscono i migranti. Nessuno deve vedere quello che succede nel bosco. La neve attutisce le grida, il disgelo restituirà i cadaveri. Il 3 gennaio due ragazzini pachistani sono stati fatti spogliare dai poliziotti croati, erano qui. Via le giacche, le scarpe e anche le calze. “Adesso tornate indietro! Conoscete la strada, la Bosnia è di là”. Chi prova a passare il confine viene torturato, irriso, fotografato come un trofeo, pestato, marchiato. Questo è il bosco dove da cinque anni l’Europa rinnega se stessa. Se siamo qui è per Alì il pazzo, che non era affatto pazzo prima di dover tornare anche lui indietro a piedi nudi nella neve. Ha visto staccarsi le falangi dai piedi una dopo l’altra. La necrosi dovuta al congelamento gli saliva alle caviglie. “I poliziotti croati sono dei fascisti”, ha detto seduto su una sedia davanti al ristorante “Addem” di Velika Kladusa, quando lo hanno soccorso. È nei giorni successivi che ha incominciato a sragionare, dopo il settimo tentativo fallito. Quando ha capito che non avrebbe mai raggiunto suo figlio in Germania. Lo sapeva in una parte della testa, ma si rifiutava di prenderne atto. “Salirò su un aereo, andrò in Germania, staremo insieme”, ripeteva a cantilena. Alì il pazzo si opponeva all’amputazione. Stava sempre peggio. È stato suo fratello, rintracciato in un sobborgo di Tunisi, a firmare l’autorizzazione per l’operazione chirurgica. Ma gli hanno amputato i piedi quando era troppo tardi. Se siamo qui, allora, è per Alì morto per le torture dei poliziotti croati. È per chi in questa notte ghiacciata sarà costretto a tornare indietro un’altra volta a piedi nudi. È per la donna che ha abortito per lo spavento in mezzo al bosco. Per gli annegati nel torrente Glina, di cui nessuno conoscerà mai il nome. Per chi è venuto a pregare e per la signora che ieri mattina è partita da Karlovac, perché voleva portare un po’ di cibo ai migranti. Ma i poliziotti hanno fermato anche lei, il pane è stato sequestrato e le hanno intimato di non farsi mai più vedere da queste parti. Veliki Obljaj è un valico secondario. Non ci sono barriere doganali. Ma querce, abeti, larici, odore di resina di pino. Per arrivare servono tre ore di auto da Trieste. All’altezza di Tuposkò, in mezzo al nulla, c’è un carro armato con un cartello scritto in quattro lingue: “Grazie ai guerrieri”. È un monumento che ricorda la “guerra per la patria”, come la chiamano da queste parti, combattuta dal 1991 al 1995. In quel tratto la strada è una sequenza di piccole case senza intonaco e campi ghiacciati. Dopo Glina, che prende il nome dal torrente, un cartello indica verso destra il passaggio per la Bosnia. La salita è stretta, la zona scollegata per chilometri dalla rete telefonica. In cima c’è un pianoro, dalla cui sommità si può osservare l’orizzonte. Ecco quello che si scopre: tutto si rassomiglia. La frontiera è invisibile. Il confine è il bosco. Ma qui è ancora Europa, mentre quella al fondo della vallata è la Bosnia. L’altro mondo. Veliki Obljaj è un villaggio costituito di poche case disabitate e in rovina. Solo da quattro comignoli esce un po’ di fumo. Sono cortili circondati da cani randagi che hanno paura di tutto. Il primo cittadino europeo si chiama Stanko Lon?ar, ha sempre vissuto facendo il contadino. Viene a salutare con il bastone. “I migranti? Li vedo passare nelle tempeste e nel gelo, arrivano sotto la pioggia con i loro bambini. Non hanno mai fatto del male, la porta del mio cancello è sempre aperta”. Oltre al bosco, dall’altra parte della frontiera invisibile, ci sono i centri di raccolta della Bosnia. Le case abbandonate di Bihac piene di persone abbrutite, la tendopoli di Lipa che stanno ricostruendo dopo l’incendio, il centro Miral e il “campo palude” di Velika Kladusa, dove uomini e cani dividono i giacigli nel fango e dove i pullman del servizio pubblico sono vietati ai migranti. La rotta balcanica si concentra davanti a questo ingresso per evitarne un altro peggiore. E cioè il passaggio in Serbia, che finisce dritto in faccia al muro alzato da Vickor Orban in Ungheria, dove milizie speciali usano i cani addestrati per la caccia agli stranieri. Sono qui, dunque, questi ragazzi e queste famiglie, perché non hanno scelta. Meno di ventimila persone, adesso. Un piccolo flusso continuo che si origina principalmente in Pakistan, Afganistan e Iraq. Stanno iniziando ad arrivare gli aiuti spediti dall’Italia, la Croce Rossa ha portato vestiti e cibo. Ma quelli che vivono in condizioni penose in Bosnia sono gli stessi che proveranno ad attraversare il bosco in Croazia. Sono i ragazzi e le donne che il signor Stanko Lokar vede passare davanti a casa in Europa, quando non sono stati ricacciati indietro. Oggi i poliziotti croati sono ventiquattro, tutti vestiti di nero. Divisi in due squadre, vanno giù da due versanti. Ragazzi giovani. Hanno un bavero elasticizzato che gli copre il viso fino alla bocca, ma niente mascherina. Hanno guanti, bastoni e pistole. Vanno avanti e indietro per i sentieri innevati da cui potrebbero arrivare quelli che non sono i benvenuti. “Noi difendiamo la nostra frontiera, non siamo qui per i migranti ma per il confine della Croazia, siamo qui per la nostra patria”, dice il poliziotto più alto in grado. Eppure “The Border Violence Monitoring Network” ha raccolto le testimonianze di almeno 4.340 respingimenti illegali negli ultimi due anni, mentre per il “Danish Refugee Council” sono stati 14.500 solo fra gennaio e la fine di ottobre del 2020. Sono dati sempre sottostimati. Molte storie si perdono letteralmente nel bosco. Ogni primavera svela i resti di altri cadaveri. C’è un marchio di fabbrica dell’operato dei poliziotti croati: sono i telefoni presi a mazzate per impedire ai migranti di usare la mappa. Esiste una letteratura vastissima al riguardo, centinaia di foto tutte molto simili. Schermi frantumati, tastiere sfracellate. Ma i medici oltre la linea della frontiera vedono tornare sempre più spesso anche uomini a pezzi, ragazzi mangiati nelle gambe dai morsi dei cani da guardia della polizia, vedono crani tumefatti, schiene contuse, piedi piagati, geloni, frustate, lividi. Il dottor Mustafa Hodzic ha testimoniato anche un caso di stupro: “Un ragazzo è stato violentato da un poliziotto con un ramo”. Questo succede nel bosco. Li chiamano “pushback”. Respingimenti. E sono illegali anche quando vengono eseguiti senza fare ricorso alla violenza, perché negano il diritto d’asilo. Anche l’Italia partecipa a questa catena di respingimenti. Secondo il rapporto che sta per essere pubblicato dal collettivo “Rete RiVolti”, fra il primo gennaio e il 15 novembre 2020, la polizia italiana ha riammesso in Slovenia 1.240 persone. La quale Slovenia, a sua volta, ha scaricato quegli esseri umani in Croazia. Ciò che succede in Croazia è noto. Da cinque anni accade nell’indifferenza dell’Unione Europea. Nonostante le notizie precise raccolte dai volontari di “Sos Balkanroute” e “No Name Kitchen”, nonostante le foto dei crani rasati e marchiati con vernice spray, testimoniati dal giornalista Lorenzo Tondo sul Guardian. La Croazia è un Paese in cui i fantasmi della guerra sono ancora molto presenti. Restano 18 mila mine antiuomo disseminate nei boschi della zona, i cartelli mettono in guardia e segnano la strada. Nel novembre del 2019 un poliziotto ha ferito gravemente un migrante con la pistola d’ordinanza nella zona di Gorski Kotar, ma non è mai stata resa pubblica la dinamica dell’accaduto. Così come il ministro dell’Interno non ha mai aperto un’inchiesta su un caso specifico di violenza perpetuata da un suo poliziotto. “Secondo alcune testimonianze disponibili, riteniamo che in Croazia vi siano strutture utilizzate per detenzioni arbitrarie e illegali in cui sono stati segnalati atti di tortura”, dice Lovorka Šoši?. È la portavoce del “Centro studi per la pace” di Zagabria. Da quell’ufficio stanno cercando di denunciare ogni violenza. Gridano ma nessuno li ascolta. “Nel 2020, il 90% dei respingimenti fatti dalla polizia croata comprendeva una o più forme di abusi e torture. Abbiamo notizie di molte persone morte o scomparse lungo la rotta. I respingimenti continuano a avvenire ogni giorno. Tutto questo dovrebbe imbarazzare non solo il governo croato, ma anche i governi di tutti gli altri Stati membri che stanno perpetrando respingimenti, nonché le istituzioni dell’Unione Europea che incoraggiano silenziosamente queste pratiche illegali. L’Unione Europea da tempo chiude un occhio”. Ciò che succede nel bosco non si deve vedere. Ma si sa. Gli europei sono quelli che mandano le coperte in Bosnia, e sono anche quelli che bastonano in Croazia. È sera. I poliziotti fanno il cambio turno. Ha ricominciato a nevicare e tutti i sentieri al confine sono di un bianco perfetto, immacolato. Droghe, una nuova stagione si apre negli Stati Uniti di Marco Perduca Il Manifesto, 20 gennaio 2021 Il passo politicamente più rilevante è stato il voto della Camera dei rappresentanti sul disegno di legge per depenalizzare la marijuana a livello federale. Solo una decina d’anni fa nessuno si sarebbe mai aspettato che dagli Stati Uniti sarebbe partito un movimento mondiale per il recupero della ragione sulle piante e sostanze proibite dalle convenzioni delle Nazioni unite in materia di stupefacenti. Certo nessuno si sarebbe aspettato scene da Animal House a Capitol Hill ma questa è un’altra storia. L’insistenza nell’organizzare referendum, a partire da quello che 25 anni fa legalizzò la cannabis terapeutica in California, ha creato le condizioni per cui sulla pianta proibita siano stati fatti enormi passi avanti. Tra le ultime sorprese la grazia concessa da Trump a Weldon Angelos detenuto per marijuana. Il passo politicamente più rilevante è stato il voto della Camera dei rappresentanti sul disegno di legge per depenalizzare la marijuana a livello federale. La Legislatura appena iniziata vede i Democratici in maggioranza in entrambe le Camere, se il Marijuana Opportunity Reinvestment and Expungement (More) Act dovesse esser votato nuovamente si eliminerebbero le condanne per fatti di “lieve entità, rimuoverebbe l’erba dal Controlled Substances Act consentendone la tassazione e indirizzando parte delle entrate ad aiutare chi per anni ha subito le “influenze negative” delle leggi razziste sulle droghe (ne avevamo scritto su queste colonne con Leonardo Fiorentini il 6 dicembre). L’importanza del More Act risiede nei motivi per cui era stato presentato mesi fa: annullare il “retaggio delle ingiustizie razziali ed etniche frutto di 80 anni di proibizione della cannabis”. L’ufficio del bilancio del Congresso ha stimato che, tenendo conto dei detenuti federali presenti e futuri per motivi di marijuana “dal 2021 al 2030 quella legge avrebbe ridotto il tempo scontato in carcere di 73.000 anni-persona”. Il proibizionismo è un’ideologia trans-nazionale che non prevede sfumature; i contrari al More Act lo hanno criticato usando gli stessi argomenti che da sempre caratterizzano i reazionari di casa nostra: “La Camera perde tempo su questioni urgenti come la marijuana norme serie e importanti che si addicono alla crisi nazionale”. Questi paladini dell’interesse nazionale restano indifferenti alle sorti di centinaia di migliaia di detenuti per reati legati alla coltivazione, consumo e commercio di una pianta. Secondo il Last Prisoner Project, che ha preso in considerazione solo la presenza dei detenuti per cannabis negli Usa, nell’ultimo decennio, attesta che ben 16,7 milioni di persone siano stati fermate per marijuana. Un loro studio afferma inoltre che la guerra alla droga costa annualmente 47 miliardi di dollari mentre il giro d’affari legale attorno alla pianta vale 10,4 miliardi. Le elezioni del novembre scorso hanno portato a 15 gli Stati, più tre territori, che hanno regolamentato legalmente la marijuana; sono invece 36 quelli che prevedono programmi di cannabis terapeutica. Le politiche proibizioniste degli Usa sono da sempre le più violente, la Drug Policy Alliance stima che ogni anno gli arresti per detenzione, spaccio e consumo di cannabis raggiungano il mezzo milione - principalmente persone di colore - mentre la Aclu denuncia che in molti stati una condanna penale cancella il diritto a partecipare alla vita politica, ottenere un alloggio, ricevere un’istruzione superiore o trovare un lavoro. Divieti che calati nell’emergenza sanitaria acuiscono situazioni socio-economiche di per sé già gravi. Nel motivare la grazia ad Angelos la Casa Bianca ha scritto che si tratta di “un attivo sostenitore della riforma della giustizia penale” e che “la sua sentenza è stata il prodotto di una condanna minima obbligatoria eccessiva”. E se ci arriva Trump… rapporti di Last Prisoner Project e Aclu su www.fuoriluogo.it. Patrick Zaki resta in carcere in Egitto: altri 15 giorni di reclusione di Marta Serafini Corriere della Sera, 20 gennaio 2021 La legale Hoda Nasrallah: “Ci si aspettava una scarcerazione”. Lo studente è in carcere da quasi un anno. Amnesty: Egitto mostra disprezzo dignità detenuti. Gli attivisti: angosciati per il suo stato psicologico. Altri 15 giorni di reclusione per Patrick Zaki, lo studente dell’università d Bologna in carcere da quasi un anno in Egitto con l’accusa di propaganda sovversiva su internet: lo ha comunicato all’Ansa una sua legale, Hoda Nasrallah. “Quindici giorni”, ha risposto al telefono l’avvocatessa alla domanda su cosa fosse stato deciso all’udienza dell’altro ieri. “Ci si aspettava una scarcerazione”, si è limitata ad aggiungere Hoda. La notizia è stata confermata anche via Twitter dalla Eipr, la ong con cui Patrick collaborava e che sta collaborando alla sua difesa. Lo studente egiziano è in carcere per “sedizione sui social network” dal 7 febbraio scorso. L’udienza di Zaki - in cui sono stati discussi decine di altri casi - si è svolta domenica, ma la sentenza è stata comunicata soltanto oggi, dopo una lunga attesa. Zaki è stato trattenuto in tribunale per ore e ore senza poter mangiare o andare al bagno. All’udienza di domenica erano presenti anche quattro rappresentati diplomatici tra cui un funzionario italiano, che hanno potuto vedere Patrick Zaki e salutarlo, trovandolo in “buono stato”. Lo studente - che nelle lettere degli scorsi mesi ha più volte lamentato dolori alla schiena aggravate dalle condizioni di detenzione e per il quale è stata espressa grande preoccupazione in quanto asmatico - ha ringraziato più volte i diplomatici presenti per il sostegno che viene dall’Ue e dai loro Paesi. “Non sappiamo per quale motivo la detenzione cautelare di Patrick stavolta sia stata rinnovata di 15 giorni e non di 45. Stando alla legge, 45 giorni è il limite impiegato in questo tipo di casi. Speriamo che sia un buon segno, e che il conteggio inizi a partire da domenica, quando si è svolta l’udienza”, ha commentato alla Dire Hossam Bahgat, fondatore e direttore esecutivo dell’Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), ong con cui lo studente e attivista Patrick Zaki collaborava prima dell’arresto. Bahgat, che dopo altri arresti tra i responsabili dell’Eipr ha dovuto riassumere la guida dell’organizzazione, continua: “Ora, insieme alla famiglia, gli amici e i colleghi di università, noi dell’Eipr nutriamo la genuina speranza che Patrick venga rilasciato alla prossima udienza per il rinnovo della detenzione cautelare. Soprattutto perché il 7 febbraio sarà trascorso un anno dall’inizio della sua ingiusta prigionia”. E se la decisione di oggi accende dunque le speranze degli attivisti, grande è la prudenza delle rappresentanze diplomatiche. Così come grande prudenza è espressa dai legali del giovane. Alla domanda se il prolungamento di 15 giorni - invece dei 45 previsti - abbia qualche significato e possa far sperare in una scarcerazione, la legale di Zaki ha risposto negativamente. “Aspettiamo”, si è limitata ad aggiungere Nasrallah. Numerose le reazioni. Preoccupazione è stata espressa dagli attivisti e sostenitori di Zaki “Siamo molto angosciati e preoccupati per lo stato psicologico di Patrick quando verrà a conoscenza dell’ennesimo rinnovo della detenzione; concluderà un anno intero in carcere in meno di tre settimane”, si legge in un post su “Patrick Libero” su Facebook. “Con la decisione di rinnovare di altri 15 giorni la detenzione preventiva di Patrick, dopo 48 ore di attesa dell’esito dell’udienza di domenica, le autorità giudiziarie egiziane hanno mostrato ulteriormente il loro disprezzo per il rispetto e la dignità dei detenuti. Quindici giorni vuol dire che arriveremo a ridosso dell’anniversario dall’arresto di Patrick, è una detenzione che, ribadiamo, è illegale, arbitraria, infondata e immotivata”, ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “C’è da augurarsi - ha dichiarato Noury all’Ansa - che le vicende politiche interne italiane non facciano sì che venga abbandonata l’attenzione nei confronti di Patrick che ha bisogno di un intervento, anche italiano, che ponga fine a questa dolorosa e inaccettabile situazione”. Erasmo Palazzotto presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte del ricercatore italiano Giulio Regeni, avvenuta quattro anni fa a Il Cairo ha invece scritto su Twitter “Lo stesso rito crudele ogni volta: un’udienza per la libertà e la proroga degli arresti. L’ingiusta detenzione di #PatrickZaki si allunga di 15 giorni. Nelle carceri egiziane per aver difeso i diritti umani, come in tanti, come in troppi. Non lo dimentichiamo. #FreePatrick”. Dispiaciuti se non arrabbiati, si definiscono poi dall’Università di Bologna. “Continueremo a tenere alta l’attenzione. Siamo molto dispiaciuti se non arrabbiati. Ci stiamo avvicinando a un anno da quando questa storia assurda è iniziata”, spiega il prorettore vicario dell’università di Bologna, Mirko Degli Esposti, dopo che il Comune del capoluogo emiliano, nei giorni scorsi, ha conferito a Zaki la cittadinanza onoraria di Bologna con una delibera votata all’unanimità dal “parlamentino” di Palazzo d’Accursio. E sempre da Bologna la senatrice bolognese Michela Montevecchi, membro della commissione Diritti Umani commenta: “La spirale di rinnovi a oltranza di 45 giorni della detenzione di Zaky, fa apparire questi 15 giorni come un segnale di buon auspicio. E mi auguro che lo sia davvero perché l’unico vero gesto che aspettiamo è la scarcerazione di Patrick, rinchiuso da quasi un anno senza aver avuto ancora nemmeno un processo. Giovedì scorso in commissione Diritti Umani è stata accolta la mia richiesta di istituire un Osservatorio permanente sulla detenzione di Zaki, e presto saremo al lavoro, così come parallelamente lo è la nostra diplomazia. Invio a Patrick un abbraccio solidale in attesa del suo ritorno”. Secondo Amnesty, Patrick Zaki rischia fino a 25 anni di carcere. La custodia cautelare in Egitto può durare due anni. Le accuse a suo carico sono basate su dieci post di un account Facebook che i suoi legali considerano dei fake ma che per le autorità egiziane hanno configurato fra l’altro i reati di “diffusione di notizie false, l’incitamento alla protesta e l’istigazione alla violenza e ai crimini terroristici”. Patrick, attualmente detenuto nel settore per indagati del carcere egiziano di Tora, stava compiendo studi all’Alma Mater bolognese in un Master biennale in studi di genere ed era stato arrestato al momento di rientrare in Egitto per una vacanza. È in carcere da 347 giorni. Russia, Navalnyj lancia la sfida dal carcere: “Ecco il regno delle tangenti di Putin. Protestate” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 20 gennaio 2021 La Fondazione anti-corruzione dell’oppositore pubblica una mega-inchiesta sul presidente russo: un’indagine sulla sua presunta residenza sul mar Nero, “grande quanto 39 principati di Monaco”, con piscina, casinò, bunker e sala da pole dance. Finanziata da fedelissimi del potere, sostiene l’attivista che invita a manifestare. Il Cremlino respinge le accuse. Sopravvissuto all’avvelenamento da Novichok e incarcerato al suo rocambolesco ritorno in Russia dopo la convalescenza in Germania, Aleksej Navalnyj è subito passato al contrattacco con una mega-inchiesta su quello che definisce “uno Stato separato dentro la Russia” sulle rive del mar Nero con “un solo e insostituibile Zar: Putin”. Si tratta di un “palazzo” circondato da 7mila ettari di terreno che sarebbe già costato 100 miliardi di rubli (oltre 1,1 miliardi di euro) finanziati da uomini che occupano posti chiave nella Federazione russa. Accompagnata da un video di quasi due ore, registrato prima del ritorno di Navalnyj e visto in poche ore oltre cinque milioni di volte su YouTube, l’inchiesta intitolata “Palazzo per Putin” è tra le poche della Fondazione anti-corruzione a puntare dritto al leader del Cremlino. Il complesso comprenderebbe un eliporto, una pista da hockey, una chiesa, una serra, un tunnel che porta a mare che all’occorrenza può diventare bunker, un anfiteatro, una casa da tè raggiungibile grazie a un ponte di 80 metri, un allevamento di ostriche e persino una dacia, chiamata “Chateau” nei documenti, con vigneti e cantine, oltre che il “palazzo” vero e proprio da 17.691 metri quadri che includerebbe una discoteca, una sala narghilè con postazione per la pole dance, una piscina, sauna e bagno turco, una palestra e un casinò. Interni che il team di Navalnyj ricostruisce in 3D grazie a piante e foto dei tre piani del palazzo ottenute da un presunto appaltatore “sbalordito e infuriato per l’arredamento lussuoso”. Come i divani di pelle (ben 47) da due milioni di rubli, un tavolo da oltre quattro milioni o un cancello con aquila bicipite esatta riproduzione dell’ingresso del Palazzo d’Inverno nel film Ottobre di Serghej Eisenstein. Dettaglio che, secondo Navalnyj, “ci dice molto su chi quest’uomo pensa di essere”. Sorvegliata da uomini dell’Fsb, l’area “grande quanto 39 principati di Monaco” nei pressi di Gelendzhik, regione di Krasnodar, sarebbe protetta da una no-fly zone e un’area marina interdetta alle imbarcazioni, nonché da veri e propri checkpoint d’ingresso. “Senza esagerazioni - si legge nell’inchiesta - è il complesso più riservato e ben protetto in Russia. Una città intera, o meglio un regno”. Costato oltre un miliardo di euro, sarebbe stato finanziato, secondo l’attivista, dai fedelissimi del presidente russo, come il boss del colosso petrolifero Rosneft Igor Sechin o l’uomo d’affari Gennadij Timchenko. “La tangente più grande” della storia, secondo Navalnyj. Lo stesso sistema usato, sostiene sempre l’oppositore, per mantenere le donne di Putin: Svetlana Krivonogikh e Alina Kabaeva. A dire il vero l’esistenza del palazzo e i suoi presunti legami con Putin erano già stati denunciati nel 2010, ma dopo lo scandalo il palazzo era stato venduto. Secondo Navalnyj, contratti e transazioni dimostrerebbero che la vendita non sarebbe stata altro che “un’illusione legale” per nascondere l’identità del vero beneficiario della proprietà: un uomo “ossessionato da lusso e ricchezza”, ossia Putin. Un punto su cui il team martella molto sperando di galvanizzare la popolazione come successe nel 2017 dopo l’inchiesta sulle proprietà dell’allora premier Dmitrij Medvedev. Non a caso l’inchiesta si conclude con un appello a manifestare sabato contro il potere che “deruba” i suoi cittadini, ribadendo l’invito a “scendere in piazza” lanciato già lunedì: “Siamo decine di milioni. Semplicemente non crediamo nella nostra forza. Tutto quello che dobbiamo fare è smettere di resistere. Smetti di aspettare. Smettila di sprecare la tua vita e le tue tasse per arricchire queste persone. Il nostro futuro è nelle nostre mani. Non essere silenzioso”. E, a rincarare la dose, dal carcere di Matrosskaja Tishina dov’è detenuto, Navalnyj ha pubblicato un messaggio su Instagram: “Non rimpiango di essere tornato. Mi rifiuto di sopportare l’illegalità perpetrata dalle autorità del mio Paese. Mi rifiuto di tacere ascoltando le bugie spudorate di Putin e dei suoi amici, impantanati nella corruzione. La corruzione, le bugie e l’illegalità rendono la vita peggiore, più povera e più breve per ciascuno di noi”. Mentre il suo collaboratore e direttore esecutivo di Fbk Vladimir Ashurkov ha pubblicato una lista di otto uomini, tra cui il patron del Chelsea Roman Abramovich, che Usa ed Europa dovrebbero sanzionare “se vogliono davvero incoraggiare Mosca a smettere di attaccare i diritti umani e a combattere la corruzione”. Definendo l’inchiesta “un disco rotto”, il portavoce di Putin Dmitrij Peskov ha però messo in guardia dal lanciare appelli “illegali”. Perché il Cremlino teme le proteste? “No”, ha risposto a radio Kommersant Fm. “Il Cremlino non ha paura”. La sfida è aperta. Arabia Saudita. Nel 2020 diminuite le condanne a morte di Gabriella Colarusso La Repubblica, 20 gennaio 2021 Secondo i dati della Commissione per i diritti umani, organismo controllato dallo Stato, lo scorso anno le esecuzioni sono state 27: l’85% in meno rispetto al 2019. Il tentativo di Riad di ammorbidire le sue leggi arriva in un momento cruciale per il Regno: il programma di sviluppo Vision2030 e la nuova Amministrazione americana guidata da Joe Biden. L’Arabia Saudita è stata a lungo uno dei Paesi con il più alto numero di esecuzioni capitali al mondo, preceduta solo dalla Cina e dall’Iran, ma nel 2020 c’è stata un’inversione di tendenza: le condanne a morte eseguite sono state 27, l’85% in meno del 2019 (184). La Commissione per i diritti umani, organismo controllato dallo Stato, spiega che questa riduzione è dovuta soprattutto alla moratoria sui reati legati al traffico di droga introdotta “per dare una seconda chance ai criminali non violenti”. Nel 2018 Riad aveva cambiato anche la legislazione che riguarda i reati commessi da minorenni, che oggi possono scontare una pena di massimo 10 anni di carcere, ma non è chiaro se queste due modifiche di legge saranno in vigore anche nel 2021. “C’è una discrepanza tra il decreto reale di marzo e l’annuncio che è stato fatto dalla Commissione per i diritti umani e da altri organismi in seguito”, ha detto a The Media Line Dana Ahmed, ricercatrice dell’Arabia Saudita presso Amnesty International. “Il decreto reale dice che questo nuovo ordine non si applica alle persone che sono state processate per accuse ai sensi della legge antiterrorismo”. Secondo l’organizzazione non governativa Reprieve ci sono ancora 80 persone a rischio di essere condannate a morte in Arabia Saudita e molti sono attivisti per i diritti umani a cui non sono stati garantiti processi equi. Il tentativo di Riad di ammorbidire le sue durissime leggi sulla pena di morte arriva in un momento particolare per il Regno alle prese con il programma di sviluppo Vision 2030, che dovrebbe garantire al Paese un futuro post-petrolio fatto di ricerca, tecnologia, turismo - e con la necessità di non allontanare turisti e investimenti stranieri. Il principe ereditario al trono Mohammed Bin Salman vuole modificare l’immagine del suo Paese come bastione dell’ultraconservatorismo, dove c’è poco se non nessuno spazio per la libertà di espressione e la difesa dei diritti umani, anche in vista dell’arrivo alla Casa Bianca della nuova amministrazione guidata da Joe Biden. Sul rispetto delle libertà civili e del dissenso, l’era Trump è stata un salvacondotto per bin Salman. L’omicidio nel 2018 di uno dei principali dissidenti sauditi all’estero, il giornalista Jamal Khashoggi - secondo la Cia e l’Onu l’assassinio è stato ordinato dal principe ereditario - ha suscitato una ondata di indignazione internazionale e ha affossato l’immagine di Bin Salman come giovane principe riformatore. Trump non aveva reagito al clamore internazionale. In un’intervista con il giornalista Bob Woodward aveva anche ammesso di aver in qualche modo protetto Bin Salman sul caso Khashoggi. Con Biden ora l’aria è cambiata. Tailandia. Anchan, l’impiegata condannata a 43 anni di carcere per lesa maestà di Raimondo Bultrini La Repubblica, 20 gennaio 2021 La donna postò su Facebook sei anni fa un audio offensivo nei confronti dell’ex sovrano. Condanna delle organizzazioni per i diritti umani e degli studenti che da mesi scendono in piazza per contestare i privilegi della monarchia e della famiglia reale. La signora Anchan - nome fittizio di una donna thai 65enne - ha ottenuto la più pesante condanna per lesa maestà nella storia del regno thailandese: 43 anni. Le è andata anche bene, visto che la sentenza secondo i parametri del codice indicati dal Tribunale sarebbe stata di 87 anni. Ma ha avuto un forte sconto grazie alla confessione di aver effettivamente postato su Facebook sei anni fa un audio offensivo verso il vecchio re e la corona. Se in appello non ci saranno modifiche, rischia virtualmente di tornare in cella dov’è già stata tra il 2015 e il 2018 e restarci fino ai suoi 103 anni. Sempre che riesca a resistere alla vecchiaia e alle notorie dure condizioni delle prigioni del suo Paese. Solo un altro imputato la precede in quanto a record del genere: un venditore ambulante che ottenne inizialmente una sentenza a 70 anni ridotti a 35, anche nel suo caso dopo la piena confessione del grave “misfatto” di aver postato più di un’immagine e testo offensivi. La storia di Anchan, una dipendente pubblica, ha sollevato l’indignazione di molti esponenti dei diritti umani e degli studenti che per mesi nel 2020 si sono battuti in piazza contro questa stessa legge e altri “privilegi” concessi al sovrano e alla sua famiglia. Anche se all’inizio delle proteste Rama X Vajiralongkorn aveva chiesto esplicitamente al governo di non usare il famigerato articolo 112 del codice penale che preserva da critiche l’intero sistema monarchico, da qualche tempo il premier Prayut Chan Ocha si era rivelato più realista del re. Dal novembre scorso ha fatto fioccare le denunce e gli arresti tra i giovani dissidenti, almeno 50 ancora in carcere o in attesa di giudizio, tutti per aver offeso o minacciato la corona. La goccia che fece traboccare il vaso, e la stessa pazienza di Rama X che diede il via al riutilizzo dell’articolo 112, fu un incidente nel quale la regina venne bloccata con la sua limousine da alcuni manifestanti che le mostrarono invece dell’inchino un saluto col dito medio alzato. Ma il caso della signora Anchan è ancora precedente alle stesse rivolte iniziate in estate a Bangkok e altre città per chiedere ampie riforme sia della monarchia che del sistema politico dominato da un élite non eletta ma imposta dai militari con il via libera del re. I post Facebook incriminati dell’impiegata pubblica non risalgono nemmeno al tempo dell’attuale sovrano, ma a quello di suo venerato padre Rama IX Bhumibol Adulyadej, deceduto nel 2016. Proprio nei due anni precedenti il lutto nazionale, la polizia informatica aveva registrato 26 post di Anchan su YouTube e tre su Facebook. Erano clip di registrazioni vocali proibite, riprese dai siti di un personaggio noto in rete come Banpodj, accanito critico della monarchia prima, durante e dopo il colpo di stato militare del 2014. Da qui anche l’accusa per Anchan di aver violato la legge sulla criminalità informatica, un reato minore rispetto alla lesa maestà punita dai tre ai 15 anni. Ma per i codici thai ogni singolo episodio è sanzionato a parte e gli anni di condanna si accumulano anche se si tratta, come in questo caso, dello stesso messaggio smistato a più persone. La donna tentò di difendersi dicendo che non intendeva diffamare la monarchia, ma far girare quel discorso che l’aveva colpita, ammettendo la colpa per ottenere lo sconto di 44 anni sull’originaria sentenza. “Ho pensato che fosse una cosa da niente - disse ai giudici - C’erano tante persone che hanno condiviso quel contenuto e l’hanno ascoltato. L’autore lo ha fatto per così tanti anni... Quindi non ci ho davvero pensato e non ero abbastanza attenta da rendermi conto che non era appropriato”. Quando venne arrestata Anchan era ad appena un anno dal pensionamento e con la condanna rischia anche il vitalizio. Ora tenterà di ottenere in appello se non l’assoluzione, almeno una pena adeguata alla sua età. Difficile infatti sperare che le proteste sollevate dal suo caso modificheranno l’atteggiamento di governo e autorità della sicurezza condizionate dall’influenza del re. “È un verdetto choc - ha detto Sunai Phasuk di Human Rights Watch - invia un segnale inquietante per dire che non solo le critiche alla monarchia non saranno tollerate, ma verranno anche severamente punite”. Di certo si tratta anche di un ammonimento esplicito agli studenti della “Gioventù libera” che hanno partecipato alle proteste spesso ironizzando sulla figura del re e delle sue spese elevate. Tra queste l’acquisto di una flotta aerea di 38 apparecchi e il mantenimento di servi di corte e concubine trasferiti con lui in un albergo-harem sulle alpi bavaresi fino al loro ritorno in patria nel dicembre scorso. Tra i 50 studenti e attivisti accusati di offese al re ci sono anche due giovani leader delle proteste accusati di “minacce fisiche alla regina” per aver alzato il dito sbagliato al passaggio del corteo reale. Per loro la sentenza potrebbe essere addirittura più elevata di quella contro l’impiegata Anchan.