Carcere, per i detenuti “un surplus di pena” durante la pandemia di Andrea Oleandri* Il Dubbio, 1 gennaio 2021 Un anno difficile come questo non poteva che avere un effetto negativo anche sui suicidi: nel 2020 sono stati 56. “Il 2020 delle carceri italiane è stato inevitabilmente segnato dallo scoppio della pandemia di Covid-19, che ha cambiato il volto anche di questi luoghi, chiudendoli ancor di più al mondo esterno, allontanando dagli istituti volontari, famigliari, personale scolastico e lasciando ai detenuti un in più di pena rispetto a quella che stanno scontando e di cui, a pandemia finita, non si potrà che tenere conto”. Esordisce così Patrizio Gonnella, nel consueto punto di fine anno di Antigone. Al 2020 il sistema penitenziario si era presentato con numeri in aumento per quanto riguarda i detenuti presenti. Quando a fine febbraio la pandemia è esplosa nel paese, nelle prigioni italiane le persone recluse erano oltre 61.000, a fronte di 50.000 posti regolamentari, anche se quelli disponibili erano e sono circa 3.000 in meno. Il tasso di affollamento ufficiale era superiore al 120%. “L’impatto della pandemia ha generato paura e spaesamento nei reclusi. Ogni giorno su tv, radio, giornali, si chiedeva di mantenere il distanziamento sociale e di evitare assembramenti, due cose impossibili da fare nelle nostre carceri. Queste preoccupazioni e la chiusura dei colloqui, hanno portato poi a far esplodere gli animi e alle proteste che ad inizio marzo hanno interessato decine di istituti in tutto il paese”, ricorda ancora Gonnella. Durante quelle proteste quattordici detenuti morirono nelle carceri di Modena e Rieti e alcuni episodi di presunte violenze si verificarono nei giorni successivi in altri istituti. In alcuni casi Antigone ha presentato degli esposti alle competenti Procure, cosa che da molti anni fa parte del lavoro di contezioso portato avanti dall’Associazione. Nell’arco di poche settimane il numero dei detenuti nelle carceri è diminuito in maniera importante (circa 8.000 unità in meno), merito soprattutto del lavoro della magistratura di sorveglianza, che ha utilizzato in maniera ampia tutti i propri poteri per permettere al maggior numero di detenuti di scontare l’ultima parte della pena alla detenzione domiciliare. “Tuttavia, alla fine della prima ondata, anche queste politiche deflattive hanno subito un arresto e, nonostante ci fossero ancora 6.000 detenuti in più rispetto ai posti regolamentari, il loro numero nei mesi estivi, anche se in maniera contenuta, è addirittura ricominciato a crescere” sottolinea ancora il presidente di Antigone. “Così, allo scoppio della seconda ondata, le carceri erano ancora in una situazione di sovraffollamento e con una carenza di spazi che permettessero di prevenire il contagio”. A fine novembre i detenuti e le detenute erano 54.638. La nota positiva di questo periodo sta nel largo utilizzo della tecnologia per le videochiamate. “Per anni - ricorda Patrizio Gonnella - abbiamo chiesto che le carceri fossero dotate di tablet e telefonini con programmi per le videochiamate che potessero consentire di mantenere un rapporto più stretto con i propri famigliari. Ci siamo sempre sentiti rispondere che c’erano questioni di sicurezza che ostacolavano questa dotazione. Tuttavia, in pochi giorni, dopo la chiusura dei colloqui in tutte le carceri del paese sono arrivati questi dispositivi e, a tutti i detenuti, sono state concesse chiamate extra rispetto ai 10 minuti a settimana previsti dall’ordinamento penitenziario. L’augurio - sottolinea il presidente di Antigone - è che finita la pandemia su questo terreno non si torni indietro”. Un anno difficile come questo non poteva che avere un effetto negativo anche sui suicidi. Secondo il dossier “morire di carcere”, curato da Ristretti orizzonti, nel 2020 sono stati 56. I numeri dei contagi - Durante la prima ondata i positivi al Covid-19 nelle carceri erano arrivati ad un picco massimo di circa 160 detenuti nei primi giorni di maggio, mantenendosi, da metà aprile, sempre oltre le 100 unità. I morti erano stati 4. Ben diverso quello che è avvenuto nella seconda ondata, quando i detenuti positivi sono arrivati ad essere più di 1.000, con diversi istituti dove si sono registrati veri e propri focolai, con decine di reclusi risultati positivi: Terni, Sulmona, Tolmezzo, Busto Arsizio e diversi altri. I detenuti deceduti a causa del Covid-19 durante questa ondata autunnale sono stati 7. Il recovery fund per un nuovo sistema penitenziario - Dal Recovery Fund dovrebbero arrivare all’Italia oltre 200 miliardi di euro. Una parte andranno alla Giustizia e al sistema penitenziario per essere spesi. “Con questi fondi sarà importante investire per innovare un sistema che ha bisogno di modernizzazione, creatività e investimenti nel campo delle risorse umane” dichiara Patrizio Gonnella. “Quello che serve è investire nelle misure alternative, più economiche e più utili nell’abbattere la recidiva rispetto al carcere. Si devono ristrutturare le carceri esistenti, potenziando le infrastrutture tecnologiche per assicurare la formazione professionale anche da remoto, per consentire ancor più incontri con il mondo del volontariato, per aumentare le possibilità di video-colloqui con familiari e persone care che si aggiungano ai colloqui visivi. Bisogna investire nel capitale umano, assumendo più personale civile - direttori, educatori, mediatori, psicologi - ed equiparando il loro trattamento economico a quello di chi porta la divisa. Insomma - conclude il presidente di Antigone - quello che serve è un nuovo sistema penitenziario”. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Le ultime ore di Sasà in galera: “Sta male? Fatelo morire...” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 1 gennaio 2021 Dopo la rivolta nel carcere di Modena tra i detenuti trasferiti ad Ascoli c’era Salvatore Piscitelli, ufficialmente deceduto per “overdose di farmaci”. Aperta un’inchiesta per omicidio colposo su esposto degli altri carcerati, sostenuti dal Garante, che raccontano di botte, mancati soccorsi e visite mediche fasulle. “Assistente, assistente, chiamate il medico presto…. Sasà Piscitelli non si muove più, è freddo nel letto…”. Sembra di sentirlo Mattia Palloni urlare e chiede aiuto dalla cella numero 52, al secondo piano del carcere di Ascoli Piceno. Sono le 10 e 20 della mattina del 10 marzo 2020 ed è già la seconda volta che prega gli agenti della penitenziaria di far visitare Salvatore “Sasà” Piscitelli perché “emette dei versi lancinanti”. Ci aveva provato anche un’ora e mezza prima a lanciare l’allarme, ma dal corridoio del braccio era arrivata solo la voce di una guardia: “Fatelo morire”. Sasà ha smesso di vivere poco dopo, steso sul pavimento. Chini sul suo corpo c’erano “un’infermiera che avrebbe voluto provare a fargli un’iniezione” e un commissario che la “fermò facendogli notare che il ragazzo ormai è morto”. I compagni di carcere arrivati con lui dall’istituto penitenziario Sant’Anna di Modena dopo la violenta rivolta del giorno prima, hanno raccontato le ultime ore di Piscitelli in un esposto consegnato il 20 novembre alla Procura generale di Ancona. Una denuncia su cui ora i pm di Modena hanno aperto un’inchiesta “contro ignoti per omicidio colposo”. Salvatore Piscitelli, 40 anni, un’esistenza di piccoli reati e un talento innato per il teatro affinato al carcere di Opera a Milano, è deceduto ufficialmente per “overdose da farmaci”. Secondo la ricostruzione durante la rivolta modenese, assieme ad altri, aveva saccheggiato l’infermeria del Sant’Anna impossessandosi di metadone ed altre sostanze poi assunte senza controllo. Probabilmente è andata così, ma secondo cinque altri detenuti che lo hanno visto portare via avvolto in un lenzuolo avrebbe potuto salvarsi. Ne sono convinti i compagni di sezione che lo hanno visto “picchiare” dagli agenti e morire contorcendosi dal dolore nell’indifferenza. Quella di “Sasà” è una pratica chiusa frettolosamente, nella quale risulta deceduto in ospedale e, stranamente, non in carcere dove i compagni dicono di aver assistito al suo ultimo respiro. Mattia Palloni, Claudio Cipriani, Ferruccio Bianco, Francesco D’Angelo e Cavazza Belmonte nel carcere di Ascoli ci sono rimasti fino alla fine di novembre scorso Tra di loro hanno parlato spesso di quanto successo a Modena, del loro trasferimento nelle Marche, di Sasà e di tutto il resto. E dopo averne rimuginato hanno deciso di scrivere la denuncia. Accuse gravi, che i magistrati di Modena stanno ancora verificando. Le rivolte nelle carceri italiane sono state una ventina e si sono concentrano tutte a metà marzo. A scatenarle sono state quasi sempre le restrizioni dovute al rischio di contagi. Per evitare la propagazione del Covid 19 negli istituti vennero bloccati i colloqui con familiari e avvocati. Vietati anche i trasferimenti, nessuno contatto con i volontari e tantomeno con l’esterno per quanti erano in semilibertà. La tensione era salita alimentata dalla paura, dalla difficile convivenza nelle celle, dal sovraffollamento. La conseguenza fu materassi bruciati, arredi distrutti, agenti aggrediti, spazi comuni, laboratori ridotti in macerie e, a Modena, un’intera ala del penitenziario data alle fiamme e resa inagibile. Fino alle infermerie, assaltate in cerca di metadone. A proteste domate il 15 marzo si sono contati 13 detenuti morti, tutti ufficialmente per overdose: a Rieti 3, a Bologna 1 e a Modena 9. L’episodio del Sant’Anna, dove c’erano 560 detenuti a fronte di una capienza di 369, fu il più violento: una volta preso il controllo del penitenziario i carcerati tentarono la fuga di massa evitata solo dai furgoni della penitenziaria messi a sbarrare gli ingressi. L’istituto venne completamente distrutto e 5 detenuti vennero trovati già morti all’interno, altri 4 li seguirono nelle 48ore successive. “Abbiamo assistito a quello che è successo senza prendervi parte - raccontano i cinque nell’esposto - Le guardie hanno sparato ripetutamente con le armi in dotazione anche ad altezza d’uomo”. Poi la repressione: “Hanno caricato detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta all’abuso di farmaci a colpi di manganello al volto e al corpo”. E ancora: “Noi stessi siamo stati picchiati selvaggiamente dopo esserci consegnati spontaneamente agli agenti, dopo essere stati ammanettati e privati delle scarpe, senza aver posto alcuna resistenza. Siamo stati oggetto di minacce, sputi, insulti e manganellate, un vero pestaggio di massa”. Caricati sui mezzi della penitenziaria per essere trasferiti i detenuti affermano di essere stati “picchiati durante il viaggio verso Ascoli Piceno”. All’arrivo “alcuni di noi furono picchiati dagli agenti di Bologna anche all’interno dell’istituto di Ascoli, nello specifico nei furgoni della penitenziaria alla presenza degli agenti locali”. E anche la mattina seguente “molti furono pestati a calci, pugni e manganellate all’interno delle celle: all’opera c’era un vero e proprio commando di agenti della penitenziaria”. Quindi le visite mediche, “dove a molti di noi non fu neanche chiesto di togliersi gli indumenti per constatare se avessimo lesioni corporee”. La parte più dettagliata dell’esposto riguarda la morte di Sasà Piscitelli e descrive anche il trattamento che gli sarebbe stato riservato in precedenza: “Già brutalmente picchiato a Modena e durate la traduzione, arrivò ad Ascoli in evidente stato di alterazione da farmaci, tanto da non riuscire a camminare e da dover essere sorretto da altri detenuti”. Nessuna visita medica approfondita (obbligatoria quando si esce e si entra in una casa circondariale) e nessun tentativo di salvargli la vita secondo la denuncia. La legale di Mattia, l’avvocata Donata Malmusi, non ha potuto assistere all’interrogatori già fatto in Procura. “Mattia è stato sentito come persona informata sui fatti e questo significa che non è indagato per la rivolta”, dice. Inoltre, “si tratta di detenuti per piccoli reati che presto usciranno, non avrebbero alcun interesse a fare una denuncia così grave se non fosse vero”. Analoga idea si è fatto l’avvocato Domenico Pennacchio, difensore di Ferruccio: “Dopo i fatti di Modena la famiglia non è riuscita ad avere contatti con lui per settimane. Solo molto dopo la madre lo ha visto e sentito via skype in colloqui comunque controllati. La signora mi ha detto di averlo trovato spaventato, di aver percepito che dietro le poche frasi che pronunciava c’era una richiesta disperata d’aiuto. La pandemia ha blindato e reso inaccessibile ancora di più le carceri italiane e oltre quelle mura, almeno per noi, è complicato sapere cosa succeda”. Manovra, Bonafede: “Oltre 500 milioni di risorse per la Giustizia” Giornale di Sicilia, 1 gennaio 2021 “La legge di bilancio per il 2021 porterà forze fresche e ingenti capitali nei settori di competenza del Ministero della Giustizia”. Lo scrive il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, su Facebook. “Le risorse disponibili da subito e quelle che saranno assicurate nei prossimi anni rappresentano un investimento straordinario”, aggiunge il Guardasigilli: “Solo con l’immissione di risorse consistenti, adeguate assunzioni e investendo sulle strutture e infrastrutture, saremo nelle condizioni di garantire un servizio giustizia che possa rispondere in modo efficiente alle istanze di cittadini e imprese. Penso ai tribunali e alle Procure che potranno contare su ulteriore personale, ma anche al sistema penitenziario, per adulti e minorenni, e di comunità che potrà beneficiare di sempre crescenti risorse umane e finanziarie per aumentare la sicurezza delle strutture, il trattamento dei detenuti e la funzionalità dei servizi dell’esecuzione penale esterna”. Il ministro passa, quindi, ad elencare nel dettaglio le risorse messe a disposizione del sistema Giustizia: “420 milioni (anni 2021-2026) per investimenti nel campo dell’edilizia giudiziaria e dell’informatizzazione; 80 milioni di euro per potenziare le infrastrutture penitenziarie (anni 2021 - 2026); 1,4 milioni di euro per gli straordinari in deroga alle donne e agli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria relativamente al mese di gennaio 2021 che vanno ad aggiungersi agli oltre 16 milioni già stanziati per gli straordinari nell’anno 2020; assunzione straordinaria di 1935 agenti di Polizia Penitenziaria nel piano quinquennale (anni 2021-2025) per tendere alla copertura della pianta organica del Corpo; assunzione di 330 magistrati ordinari vincitori del concorso; incentivi per i magistrati destinati alle piante organiche flessibili distrettuali; oltre 24 milioni di euro di incremento del Fondo risorse decentrate per il personale non dirigenziale del Ministero della giustizia; assunzione di 3.000 unità di personale amministrativo da inquadrare nell’Amministrazione Giudiziaria a partire dal 2023, per dare continuità all’ingente piano assunzionale in corso; 1080 assunzioni a tempo determinato di personale giudiziario per abbattimento dell’arretrato; assunzione di 200 unità per il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; aumento di organico di 100 unità, con relativa assunzione, dell’Amministrazione Penitenziaria per quanto riguarda il personale destinato al trattamento dei detenuti; assunzione di 80 unità per il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità; incremento di 1 milione di euro per la rete di assistenza alle vittime di reato; fondo di 4,5 milioni destinato alle case famiglia protette per diminuire la presenza di bambini in carcere al seguito di genitori detenuti; Incremento di 40 milioni di euro all’anno dello stanziamento delle spese di giustizia da destinare agli ausiliari del giudice e agli avvocati del patrocinio a spese dello Stato”, conclude Bonafede. La tecnologia? Utile alla giustizia se aiuta a decidere in tempi rapidi di Eduardo Savarese* Il Riformista, 1 gennaio 2021 Il poeta Eschilo, nella tragedia intitolata Eumenidi, ricorda che il processo celebrato contro Oreste il matricida si risolve attraverso l’intervento di Atena che decide di graziare il colpevole per avviare un nuovo capitolo della storia umana. Diremmo che si tratta di una decisione poco “efficiente”, in quanto poco prevedibile, eppure talmente giusta che le divinità vendicatrici del delitto materno (le Erinni) si tramutano in Benevole, le Eumenidi appunto. Questo per chiarire come l’uso della tecnologia per la giustizia civile e penale, quanto meno negli Stati di diritto (tra i quali, sempre più faticosamente invero, annoveriamo anche l’Italia), non sia un bene in sé e per sé (l’oscuro regno delle italiche intercettazioni in fase di indagini preliminari ne è prova eloquente). La tecnologia può essere servente rispetto alla giustizia soltanto se abbiamo ben chiari gli scopi per cui la utilizziamo. Lo scopo della giustizia è rendere una decisione giusta in tempi ragionevoli. Il resto - Csm, Ministero, Anm, dirigenti, leggi, regolamenti e circolari - deve servire (e aggiungo: con umiltà) questo scopo. Provo a stilare un decalogo. 1) Mezzi e risorse: occorre rivedere in modo strutturale le piante organiche di tribunali e procure su tutto il territorio nazionale e redigere un report analitico (ci vogliono sei mesi) sull’edilizia giudiziaria; 2) definizione dello standard di rendimento del magistrato italiano, requirente e giudicante; 3) funzionamento potenziato - oggi è un funzionamento stentato - del processo telematico: il fermo totale di novembre ancora deve trovare adeguate spiegazioni; 4) costituzione di un “filtro” per Tribunali e Procure, con giudici addetti a coordinare gruppi di lavoro composti anche da giudici onorari e tirocinanti, che serva a “calendarizzare” la trattazione degli affari, imponendo di affrontare con priorità le questioni più rilevanti per impatto umano, sociale, ed economico, e indicando da subito il probabile esito negativo (cioè inutile) del processo (il filtro oggi esiste per il giudizio in Cassazione e per l’appello, ma si potrebbe fare molto meglio); 5) quanto sopra elencato può essere realizzato e aggiornato attraverso l’utilizzo di meccanismi di “IA” (intelligenza artificiale), collettori potenti di “big data”; 6) riduzione drastica del numero di udienze, anche grazie all’uso del “filtro”, con possibilità di riutilizzo degli spazi giudiziari già esistenti, evitando l’accrescimento infinito di essi (con i relativi costi di mantenimento: non è l’aumento delle udienze che fa durar meno i processi, ma il contrario, con buona pace del professor Giavazzi); 7) la pronuncia del Consiglio di Stato 8 aprile 2019 n. 2270 insegna che il procedimento amministrativo può essere gestito anche da un sistema informatico per mezzo di un algoritmo, purché non eluda i principi del (giusto) procedimento (pubblicità, trasparenza, ragionevolezza, proporzionalità): perché il conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi spettante al Csm non si attua attraverso un algoritmo, la cui creazione sia però oggetto di profondo dibattito dentro la magistratura e con la società civile? A patto che l’algoritmo premi chi ha lavorato come magistrato, e non chi ha espletato incarichi di altra, pur fascinosa, natura; 8) un “software” adeguato può monitorare il grado di riforme subite in appello dalle pronunce dei tribunali; 9) il mito della prevedibilità della decisione giudiziaria può cedere il passo alla condivisibile necessità che le decisioni del giudice siano socialmente accettabili (secondo il concetto di certezza del diritto in senso sostanziale): sul rigore dell’argomentazione dobbiamo tutti - legislatore, magistratura, avvocatura - ritornare a investire seriamente in formazione; 10) siamo ancora in attesa di una regolamentazione legislativa generale e uniforme sulla celebrazione del processo da remoto, che è una opportunità da cogliere, ma col dovuto rigore. C’è molto da fare. Chi è pronto? *Magistrato L’Aiga: “Prescrizione, il Pd voti la proposta renziana” Il Dubbio, 1 gennaio 2021 Plauso dei giovani avvocati all’emendamento Annibali. È “da apprezzare”, per l’Aiga, l’Associazione giovani avvocati, “l’emendamento proposto dall’Onorevole Lucia Annibali con il quale si intende sospendere l’efficacia del cosiddetto “blocca prescrizione” fino all’entrata in vigore della riforma del processo penale”. L’associazione presieduta da Antonio De Angelis interviene così sull’iniziativa che la parlamentare di Italia viva e gli altri deputati renziani della commissione Giustizia intendono assumere in vista del deposito degli emendamenti al ddl Bonafede, il cui termine è fissato per il 21 gennaio. “Tale proposta, pur non essendo esaustiva della risoluzione del problema di una riforma della giustizia che tuteli il diritto ad un’effettiva difesa e a una ragionevole durata del processo, pone rimedio nelle more della revisione del Codice di Procedura a un grave vulnus che di fatto capovolge il principio dell’articolo 27 della Costituzione, per il quale l’imputato non è considerato colpevole fino a condanna definitiva, rendendo già il processo, che può diventare infinito, una pena da scontare per chi vi è sottoposto”. Secondo il presidente dell’Aiga De Angelis, in particolare, “il tema della ragionevole durata del processo è tutt’altro che risolto: la prescrizione, di fronte a un processo che per la legge vigente può durare all’infinito, rappresenta ancora oggi l’unico baluardo per difendere i cittadini contro il malfunzionamento della macchina della giustizia. Ben venga”, dice dunque il leader dell’associazione, “l’emendamento proposto dall’Onorevole Annibali, volto a legare l’efficacia del “blocca prescrizione” all’entrata in vigore della riforma del processo penale. Come giovani avvocati auspichiamo che la richiesta non sia solo finalizzata ad una verifica dei rapporti fra le forze politiche di governo, ma che si giunga a una sua effettiva approvazione. Ci auguriamo inoltre che tutte le forze politiche, anche di governo, come il Pd, che hanno sempre manifestato perplessità rispetto a un blocco nudo e crudo della prescrizione, votino a favore dell’emendamento, non trattandosi, in questo caso, di una semplice scelta politica ma di una battaglia di civiltà trasversale, che ci tocca tutti da vicino in quanto cittadini”. E intanto ieri Italia viva ha reso note le osservazioni al Recovery fund trasmesse nei giorni scorsi alla presidenza del Consiglio. Oltre alla richiesta di avviare il tavolo per cambiare la norma sulla prescrizione (tavolo in assenza del quale Annibali proporrà appunto il proprio emendamento), il partito di Matteo Renzi sollecita un confronto aperto all’interno della maggioranza anche su un’altra battaglia cara ai penalisti: la separazione delle carriere. Magistratura democratica. Chi se ne va si allontana dalle nostre radici di Livio Pepino Il Manifesto, 1 gennaio 2021 La scissione. Cosa ha significato Md nella vicenda della magistratura italiana? Molte cose, ovviamente, ma, prima di tutto, la rottura del modello tradizionale di giudice e di pubblico ministero partecipe del sistema di potere, chiuso in una torre d’avorio, separato dalla società, insofferente alle critiche. 25 magistrati annunciano, con una lettera aperta, l’uscita da Magistratura democratica e, più o meno silenziosamente, fanno le valigie anche gli aderenti al gruppo eletti nel Csm. Come in tutte le scissioni, chi se ne va rivendica la fedeltà alle origini, anche attribuendo ai “padri fondatori” posizioni fantasiose. Conviene, allora, partire dall’inizio. Non per inutili amarcord ma per non cedere a un contingente senza princìpi e valori. Cosa ha significato Md nella vicenda della magistratura italiana? Molte cose, ovviamente, ma, prima di tutto, la rottura del modello tradizionale di giudice e di pubblico ministero partecipe del sistema di potere, chiuso in una torre d’avorio, separato dalla società, insofferente alle critiche. Quel che si verificò sul finire degli anni Sessanta, grazie all’irruzione di Md, fu - per usare le parole di G. Borrè “la rottura di miti antichi, autorevoli, mai posti in dubbio. E, al tempo stesso, il “disvelamento” che non tutti i diritti erano tutelati in modo uguale; che l’accesso alla giustizia non era affatto uguale per tutti; e viceversa che esistevano, nella giurisdizione repressiva, sacche di impunità, essendo la repressione pressoché esclusivamente indirizzata a fasce di devianza marginale o contro il dissenso politico. Ma il “disvelamento”, per essere davvero tale, per essere davvero forte, doveva diventare critica dall’interno, presa di distanza; critica, dunque, anche di singoli provvedimenti giurisdizionali da parte di un gruppo di magistrati come tale. Insomma occorreva consumare uno scisma dentro la cittadella della giurisdizione”. Lo scisma, l’eresia è stata la cifra di Md, che ha inciso profondamente sulla cultura dei giudici e, conseguentemente, sui contenuti della giurisprudenza. Non ha - né avrebbe potuto farlo - cambiato la magistratura ma l’ha resa più consapevole, ha fatto emergere la politicità della giurisdizione e delle scelte interpretative, ha denunciato omissioni e cadute di garanzie. E lo ha fatto partecipando al dibattito pubblico e criticando, quando necessario, specifiche scelte processuali. Come spesso accade, nel tempo, la spinta innovativa del gruppo si è affievolita e, nel nuovo millennio, mentre nel Paese crescevano populismo penale e repressione, gli eretici hanno scoperto l’ortodossia, spesso appiattiti sull’esistente. È su questo crinale che si colloca l’odierna scissione. Oggi, infatti, i temi su cui si gioca la partita della giustizia sono, di nuovo, il carattere diseguale dell’intervento giudiziario, una repressione crescente in cui le garanzie cedono alle ragioni dell’ordine pubblico, un continuum tra potere politico e magistratura (solo all’apparenza incrinato da iniziative eclatanti e non di rado avventuriste). E ancora una volta la divisione che attraversa la magistratura progressista riguarda la priorità accordata ai contenuti della giurisdizione o agli organigrammi, al “punto di vista esterno” o alle logiche corporative e la disponibilità a scelte di rottura o il rifiuto di ogni conflitto interno. Su questi temi Md ha accumulato da ultimo non pochi ritardi, ma i protagonisti della scissione e la loro area di riferimento, lungi dal colmarli, sembrano muoversi nella direzione opposta. C’è, in ogni caso, un banco di prova che vale più delle affermazioni di circostanza. È quello degli atteggiamenti e dei comportamenti di fronte ai problemi più urgenti della giustizia (e, prima ancora, alla loro individuazione). C’è, oppure no, nella giurisdizione penale una spirale repressiva che mette in forse diritti fondamentali? Il carcere, quantitativamente quasi raddoppiato negli ultimi 50 anni, è un problema che tocca anche il quotidiano di giudici e pubblici ministeri o è un pianeta che non li riguarda? Lo scarto abnorme tra procedimenti (e custodie cautelari) e accertamento di responsabilità è un fatto fisiologico o una patologia? La discrezionalità incontrollata che ha sostituito di fatto l’obbligatorietà dell’azione penale va corretta e governata o è una prerogativa intoccabile delle Procure? E, ancora, gli uffici direttivi devono essere incarichi temporanei o tappe di un cursus honorum all’ombra del potere? E l’autonomia di giudici e pubblici ministeri è scalfita oppure no dalle numerose e prolungate permanenze in uffici ministeriali o in incarichi di nomina politica alternati alle funzioni giudiziarie? Saranno le risposte pubbliche ed esplicite a queste (e ad altre analoghe) domande - in astratto, ma soprattutto con riferimento ai casi concreti - a dire chi è coerente con i princìpi ispiratori di Md e, soprattutto, chi cerca davvero strade progressive per uscire dalla crisi della giustizia. Magistratopoli fa acqua da tutte le parti: Bonafede manderà gli ispettori a Perugia? di Piero Sansonetti Il Riformista, 1 gennaio 2021 Come può il ministro della Giustizia - se esiste - non mandare subito, con grandissima urgenza, gli ispettori a Perugia, per capire come sia stato possibile dimenticarsi di scaricare gli sms dal telefono di Luca Palamara e perdere, forse in maniera irrimediabile, materiale decisivo per ricostruire tutto il Palamaragate? È strano che non li abbia già mandati per la storia dei messaggi whatsapp insabbiati, che noi del Riformista avevamo rivelato il giorno prima, ma ora davvero la questione diventa clamorosa. Proviamo a riassumere brevemente i fatti, poi giudicate voi. Il nostro Paolo Comi ha scoperto che tutti i messaggi whatsapp di Palamara coi suoi colleghi che chiedevano raccomandazioni varie e dei quali si disponeva già alla fine di maggio del 2019, non sono stati trasmessi né al Csm né alla Cassazione per un anno intero. In questo modo si è evitato che corressero i nomi di tantissimi magistrati importanti, e si è permesso di procedere a molte nomine ai vertici delle Procure e dei tribunali in una situazione sterilizzata. È una cosa gravissima, non vi pare? Occorrerebbe una giustificazione. Forse c’è anche un reato. E come mai né la Cassazione né il Csm si erano accorti che quei messaggini whatsapp erano rimasti rintanati nelle carte della Procura umbra e non arrivavano a chi doveva conoscerli per giudicare e per aprire, se necessario, procedimenti disciplinari? Il giorno dopo questa rivelazione, il Riformista ne fa un’altra, ancora più grave: gli inquirenti hanno avuto in mano il cellulare di Luca Palamara, sequestrato su ordine della Procura di Perugia, ma si sono scordati di scaricare gli sms. E hanno restituito il telefono a Palamara. Il quale forse ha mantenuto gli sms o forse li ha distrutti. Questo noi non lo sappiamo, e non lo sanno neppure i molti magistrati che sanno però di avere scambiato Sms con Palamara (molti magistrati usano ancora gli sms, non usano Whatsapp). E questi molti magistrati, probabilmente, dopo le rivelazioni del Riformista non stanno dormendo sonno tranquillissimi. E tuttavia resta la questione: è stato un errore gravissimo degli investigatori (un errore che ha distrutto una grande mole di materiale di indagine) o è stata addirittura una scelta consapevole? In questo secondo caso, ispirata da qualcuno? Da chi? Ecco: tutte queste domande me le pongo solo io? Al ministero si sono accorti che è esploso un nuovo scandalo ed è stato squarciato un velo: dentro la magistratura dilagano corruzione, complicità, omertà, atteggiamenti di ostacolo alla giustizia? Possibile che il ministro non abbia ancora deciso di inviare un ispettore? Recentemente, mi pare, il ministro ha inviato ispettori a indagare su perché qualche giudice aveva firmato sentenze di assoluzione che andavano contro la condanna mediatica, o aveva prosciolto qualcuno, o scarcerato. E se invece si scopre che la magistratura sta cancellando prove e ostacolando in tutti i modi la giustizia, silenzio? Provate a immaginare cosa sarebbe successo se quel cellulare invece di essere il cellulare di Palamara fosse stato il cellulare di Verdini, per esempio. E glielo avessero sequestrato e poi restituito senza sbirciare gli sms. Ditemi voi: cosa sarebbe successo? Cosa avrebbe scritto Travaglio? Che titoli avremmo letto sul Corriere della Sera, su Repubblica, sulla Stampa? Ecco, questa è l’altra questione. Come mai il mondo dell’informazione è del tutto disinteressato a questo scandalo gigantesco che riguarda la magistratura italiana? L’impressione è che non sia disinteressato, ma impossibilitato ad agire. Io credo che la maggior parte dei giornalisti giudiziari, prima di iniziare a fare questo mestiere, sia costretta ad un vero e proprio giuramento di fedeltà e obbedienza alle Procure. Di fronte a un santino, forse, o chissà, magari a una fotografia di Davigo. E non possano per nessuna ragione violare questo patto. Nei giorni scorsi abbiamo parlato di regime. Non c’è una forzatura polemica. È la realtà: in Italia criticare la magistratura è proibito, ed è proibito anche processarla. La magistratura è coperta dalla stessa magistratura, che è complice di ogni degenerazione, e dalla totale assenza di libertà di stampa. Come era a Santiago negli anni 70, a Praga negli anni 80, e come è oggi, forse, in Turchia o a Teheran. Se non ora quando? Le criticità delle carceri in Piemonte lettera21.org, 1 gennaio 2021 Un interrogativo che può essere anche la sintesi di quanto emerso durante la videoconferenza di presentazione del V° Dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi. Vecchie e nuove problematiche di un sistema penitenziario, che l’emergenza Covid, ha reso ancora più pressanti e per cui i fondi europei potrebbero rappresentare l’occasione per una sua messa a norma. Spazi assenti, spazi inutilizzati, spazi inutilizzabili, strutture in alcuni casi fatiscenti o non attrezzate adeguatamente. Un elenco che ormai si ripete di anno in anno e a cui il ritornello da più parti abusato in questo 2020 che dalla difficoltà possono emergere opportunità sembrerebbe non essere stato di grande auspicio e monito. Eppure come precisato dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Bruno Mellano “Come non pensare che i fondi europei non siano l’occasione propizia per far fare un salto di qualità alla sanità e all’edilizia penitenziaria?” Difficoltà croniche, sommate alle nuove dovute alla pandemia di Covid-19, che continuano a essere irrisolte e che hanno a che fare con le persone che gli spazi del carcere “vivono”, dal sovraffollamento, ai presidi sanitari penitenziari, alle prospettive inerenti all’esecuzione penale esterna. Tre temi emersi con forza in tutti gli interventi di presentazione del documento, elaborato dal garante regionale in collaborazione con il Coordinamento piemontese dei garanti. Presenti i garanti comunali di Alba Alessandro Prandi, Asti Paola Ferlauto, Biella Sonia Caronni, Cuneo Mario Tretola, Ivrea Paola Perinetto, di Torino Monica Cristina Gallo, di Verbania Silvia Magistrini, concordi sulla necessità di interventi di manutenzione ordinari e straordinari sempre meno rimandabili nelle 13 carceri del Piemonte. Situazioni e “lavori” che se non continuamente rimandati avrebbero potuto sicuramente da una parte rispondere, almeno per il Piemonte, alle continue sollecitazioni dell’UE sul tema del sovraffollamento e rendere meno drammatica l’emergenza sanitaria in carcere. In merito al sovraffollamento e risposta ottenuta dalla segnalazione pubblica ed istituzionale durante la fase più acuta della prima ondata di epidemia da Covid-19 in carcere del 3 aprile da parte del Collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà che “tutti gli organi di monitoraggio dei sistemi penitenziari europei e non solo, siano essi indipendenti o addirittura interni alle amministrazioni stesse, raccomandano che non si giunga mai al 100% di posti occupati …”, i numeri parlano chiaro. E la fonte è il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. A risultare sotto il 100% e il 98% raccomandato dal Collegio solo 3 carceri del cuneese (Cuneo 90%, Fossano 71%, Saluzzo 77%) e la Casa Circondariale di Alessandria 86%, da premettere che ad Alessandria sono due gli istituti penitenziari presenti e a fare da contraltare alla C. C. la Casa di Reclusione che presenta un tasso di affollamento del 135%. A Torino il sovraffollamento si attesta al 117%, mentre il resto degli istituti regionali va dal 112% di Novara alle punte del 139% di Alba e del 141% di Asti. Complessivamente in Piemonte al 28.12.2020 risultano 4164 persone recluse con un tasso di affollamento pari al 110%. Con una riduzione percentuale dell’11% rispetto al 29 febbraio, ma è bene sottolineare che il dato anomalo era il +121%. E se i detenuti sono diminuiti da allora di poco meno di 400 unità ad oggi sono pur sempre 381 in più rispetto alla capienza. Numeri che da soli sono più che sufficienti per rispondere a chi ipotizzava “svuota carceri e masse di criminali a piede libero”. Anzi dovrebbero ulteriormente far riflettere su quanto enunciato e quanto effettivamente realizzato. Cifre che, è solo un’ipotesi, potrebbero essere state diverse se ad Alba si fosse riattivata la struttura dei semiliberi oggi chiusa o i lavori di ristrutturazione a seguito della legionellosi del 2016 fossero già partiti, se a Cuneo i lavori di restauro di un intero padiglione avessero subito una spinta, o ancora se alcuni spazi del carcere di Fossano oggi inutilizzati lo potessero diventare. Spazi, quelli del carcere, che se lasciati a sé stessi, non oggetto di interventi di manutenzione o ancor peggio, pensati solo come luoghi da ampliare, senza pensare a chi dovranno ospitare, possono risultare un freno anche alle attività di reinserimento o porre difficoltà di gestione. Potrebbe essere il caso dell’annunciata realizzazione di una nuova struttura sull’attuale campo di calcio del carcere di Alta Sicurezza di Asti, per circa 120 detenuti, probabilmente, comuni. Uno spazio in meno per l’Alta Sicurezza, necessità di nuovo personale e spazi per la gestione dei detenuti comuni. Senza dimenticare la centralità della salute della persona, che per essere garantita necessita di spazi adeguati alla cura delle persone e non risultare inagibili come nel caso dei reparti per l’assistenza intensiva e psichiatrica del carcere di Torino. Luoghi, e le persone che le abitano, messe a dura prova da 10 mesi di emergenza Covid, dove il distanziamento sociale forse paradossalmente è stato quello esterno, della società, o ha precluso importanti attività trattamentali. A Biella non essendo possibile attivare sul territorio o in altre strutture dell’istituto spazi per accogliere i detenuti in misura di sicurezza ospitati (una cinquantina) presso la Casa Lavoro, li si è condannati a una sorta di “ergastolo bianco”, oppure si è dovuto sospendere un progetto sperimentale per il trattamento dei detenuti tossicodipendenti in quanto i locali dedicati sono stati utilizzati per garantire i necessari spazi d’isolamento all’interno dell’istituto. O bloccato attività importanti per il miglioramento della vita delle persone recluse, a Ivrea sono ancora due i piani non coperti dalla videosorveglianza, e le attività scolastiche sono possibili per meno di 10 persone, su una popolazione di circa 250 detenuti. A Saluzzo, trasformatosi recentemente in Casa di Reclusione ad alta sicurezza, il Covid ha determinato la chiusura del birrificio artigianale e reso palese la necessità di un potenziamento della rete informatica per garantire i colloqui a distanza. Uno scenario ben riassunto a conclusione della presentazione dalle parole di Stefano Anastasia - Portavoce nazionale Garanti territoriali, per il quale “le carceri non possono restare nel mondo analogico o cartaceo del 900 e anche dentro il carcere assistenza sanitaria e sostegno sociale devono integrarsi. A partire dalle misure contenute nel Recovery fund che dovrà in qualche modo riportare i nostri istituti alle legalità penitenziaria”. Una legalità che potrebbe essere perseguita con iniziative come quella dell’emendamento Siani alla Legge di Bilancio, dove si prevede la copertura finanziaria per finanziare l’accoglienza in case famiglia di genitori detenuti con bambini. Torino. Questo Natale con i ragazzi in carcere di don Domenico Ricca* vocetempo.it, 1 gennaio 2021 Gentile Direttore, quasi come un debito di riconoscenza per le tante volte che in un modo o nell’altro mi ha ospitato nelle pagine del suo giornale, vorrei contribuire alla riflessione generale in tempo di Covid-19, sempre dal mio piccolo angolo di visuale, di un cappellano del carcere minorile Ferrante Aporti. Vorrei anche raccontare a quanti domandano notizie (tra cui molti suoi lettori) come stanno “i miei amici” del Ferrante. La domanda ovvia è: come ve la cavate con il virus? Al termine di questo annus horribilis, come qualcuno l’ha definito, per poter guardare avanti è bene fermarsi, riflettere, ma soprattutto ringraziare. L’idea di scrivere mi è venuta il giorno di Natale. Quel giorno ho celebrato l’Eucarestia nella “Piazza Grande”, come noi chiamiamo lo spazio dedicato ai grandi incontri, non perché fossimo in tanti, ma perché nella Cappellina non sarebbe stato possibile il distanziamento. Rispetto agli anni passati, quella di quest’anno è stata una scena abbastanza desolante, il celebrante là solo all’altare e poi a distanza i ragazzi. E sì, per vedere la differenza basta guardare le foto del Natale 2019, che il suo giornale ebbe la bontà di pubblicare: c’era l’Arcivescovo Nosiglia a presiedere la Messa, con altri preti e diaconi, un coro nutrito di animatori e cantori liturgici. Come era usanza in quei momenti, partecipò alla Messa un folto gruppo di volontari e amici vari. Un’ottantina di persone in tutto. Mi ero sempre adoperato perché le nostre celebrazioni eucaristiche portassero il segno di un’unica comunità cristiana, capace di superare la barriera delle sbarre. Dicevo che dopo un anno di Pandemia occorre ringraziare, per la protezione del Cielo, la Vergine Maria sempre invocata da don Bosco. Lui dal fondo della Cappellina, nella statua che è lì da 5 anni, con sguardo paterno e accogliente sembra proprio che ci protegga. Quello di quest’anno è stato un percorso difficile, iniziato a marzo con il lockdown totale, con tante restrizioni - i colloqui in presenza con i parenti, nei primi mesi la scuola e poi tutte le attività chiuse, nessun ingresso di esterni. Si può dire che anche al Ferrante Aporti, come nelle nostre case, abbiamo imparato a convivere. Anche la celebrazione del culto era stata sospesa. Erano possibili solo momenti di colloquio individuale. Finalmente domenica 6 giugno abbiamo ripreso. I ragazzi sono “tornati a Messa”, aspettando con ansia e curiosità la celebrazione cui erano abituati, le strette di mano e due chiacchiere con i volontari e le volontarie… Niente di tutto questo, gli ingressi sempre in numeri contingentati. Tuttavia, e mi sono stupito, i ragazzi hanno sempre chiesto di partecipare alla Messa. E così, senza la presenza di una comunità “esterna” ci siamo “arrangiati” con celebrazioni senza canti e chitarre, piccole catechesi sacramentali fatte di dialoghi, approfondimenti, possibili risposte alle domande di senso che in quella atmosfera contenuta sembravano sorgere spontanee. Ai ragazzi era richiesto di “fare domanda” in settimana per poter accedere alla domenica all’eucarestia. E ancor più che in “tempi normali” è toccato al pastore spingere un po’ le sue pecore. E siamo arrivati a Natale. In quell’occasione, pur nella Piazza deserta, il mio sentimento è stato di ringraziamento. Il Covid ci ha migliorati un po’ tutti. Ci ha sollecitati a pensare risposte diverse a domande diverse. Sembra paradossale quello che dico, ma il Covid ha reso anche il carcere più famiglia. In genere ha aiutato un po’ tutti a pensarsi diversi dai soliti schemi, più disponibili a ripensare i nostri ruoli e funzioni. D’altra parte, non si era detto che questo Natale sarebbe stato un Natale autentico, più essenziale? Sì, al “Ferrante” è stato così, anche se diverso. *Cappellano Ipm “Ferrante Aporti” di Torino Roma. In carcere un Natale duro, ma rivedremo le stelle di Lucio Boldrin* Avvenire, 1 gennaio 2021 “Salimmo sù, el primo e io secondo, / tanto ch’i’ vidi de le cose belle / che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo. / E quindi uscimmo a riveder le stelle” (Inferno XXXIV, 136-139). In questi eloquenti versi di Dante si coglie un messaggio universale: dopo ogni asperità, torna la luce. È la citazione che più spesso ho utilizzato nelle celebrazioni in carcere in questo periodo, per non spegnere la speranza che prima o poi avrà fine anche “la notte oscura” della prigionia, resa ancor più pesante dalla pandemia. L’anno scorso i giorni in prossimità del Natale erano resi un po’ meno pesanti dalla possibilità di incontrare nell’area verde i propri familiari. Anche i presepi all’interno venivano preparati con maggior entusiasmo, anche perché c’era una sorta di gara tra reparti: il più bello veniva premiato da una giuria esterna, alla fine delle festività. Le Messe domenicali, dell’Immacolata, di Natale erano celebrate con i detenuti degli altri reparti e vissute, insieme, con il sorriso. Il 25, dopo la celebrazione, si condividevano panettoni e cioccolata calda. Tutto ciò quest’anno (e speriamo solo quest’anno) è rimasto solo un ricordo. Da fine febbraio gli incontri con i familiari consistono in 20 minuti di colloquio dietro una lastra di plexiglass, una volta alla settimana. O in una videochiamata. Le Sante Messe vengono celebrate per reparti singoli, in stanze adattate. I presepi e gli alberi sono stati allestiti e i panettoni arrivano grazie alla generosità di tante persone, ma quel pizzico di entusiasmo che c’era sembra smarrito. In questo periodo sono pochissimi i volontari che entrano, previo tampone quindicinale a proprie spese; la scuola è sospesa da mesi; gli avvocati, quando riescono a entrare, portano il peso con cui il Covid sta rendendo la lentezza dei tribunali sempre più insopportabile. Così, chi aspetta con ansia la risposta a un’istanza di riduzione della pena o di pena alternativa alla detenzione in carcere... continua ad aspettare. Eppure sarebbero in molti ad avere i requisiti per una diversa esecuzione della condanna ricevuta. Si parla da troppi anni della necessità di una riforma carceraria rispondente al dettato della Costituzione. Il 2020, segnato dalla pandemia, poteva essere l’anno giusto, ma molti politici sembrano non essere interessati o non accorgersene. Purtroppo le carceri sono ormai diventate una discarica sociale. Molti detenuti, quando usciranno, saranno costretti a vivere nuovamente ai margini della società e, forse, torneranno in carcere, non perché sono peggiori di altri uomini e donne, ma perché nessuno avrà consentito loro di preparare per tempo un vero reinserimento nella società. Tuttavia, comunque, si uscirà a rivedere le stelle. Da parte mia e di tutti i detenuti di Rebibbia i migliori auguri per il 2021 a tutti i lettori di Avvenire: che sia un anno con più luci e meno ombre. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Napoli. “Francesco sta male, è in ospedale e non ce lo hanno nemmeno detto” di Rossella Grasso Il Riformista, 1 gennaio 2021 Il dramma di una famiglia che chiede cure da anni. “Nelle carceri ti fanno morire”. È a questa conclusione che è giunta Antonella Tamarisco, sorella di Francesco, 47 anni, detenuto dal 2013, prima al carcere di Secondigliano di Napoli, poi trasferito da circa un anno e mezzo a quello di Bari. Francesco soffre dalla nascita di megacolon congenito: una grave patologia che gli ha paralizzato parte dell’intestino e che gli impedisce anche di andare in bagno senza l’uso di clisteri. Una malattia che gli crea importanti problemi alla salute e complicazioni anche al cuore. La famiglia Tamarisco racconta che il 28 dicembre è stato portato d’urgenza in ospedale per un malore, probabilmente un infarto. “Dal carcere non ci hanno detto niente - racconta Antonella - Abbiamo saputo che mio fratello era in ospedale da un altro detenuto che ha chiesto ai suoi familiari di avvisarci. Lo abbiamo saputo tre giorni dopo. Ci hanno detto che è stato intubato e operato ma adesso non possiamo sentirlo e non sappiamo precisamente cosa gli è successo”. La preoccupazione è ancora più grande perché Francesco negli ultimi anni è arrivato a pesare 40 chili. Quando è entrato in carcere ne pesava almeno il doppio. “Sono anni che chiediamo che venga adeguatamente curato ma non siamo ascoltati - continua Antonella - Quando stava a Secondigliano ogni 20 giorni veniva portato in ospedale ma a Bari non lo curano adeguatamente. Non chiediamo che venga scarcerato o messo ai domiciliari. Ha sbagliato e deve pagare, ma non con la vita. Chiediamo solo che sia curato in ospedale”. La circa 4 mesi la famiglia tramite gli avvocati chiede che Francesco venga visitato dai medici, come racconta l’avvocato Antonio Iorio: “Anche il giudice di sorveglianza aveva autorizzato le visite ma queste non sono mai avvenute. La non corretta organizzazione del penitenziario di Bari potrebbe aver portato alle complicanze al cuore, possibilità che avevamo più volte segnalato. Dal carcere ci dicono che può curarsi da solo. Ma come può farcela un uomo nelle sue condizioni? È anche una questione di dignità umana oltre che di diritto alla salute non tutelato. Poi c’è stata una grande scorrettezza da parte del carcere nel non avvisarci che Francesco era stato male ed è in ospedale”. Dalle notizie avute direttamente dall’Ospedale San Paolo di Bari sembra che le condizioni di Francesco siano stabili. Ma la preoccupazione della famiglia rimane. L’avvocato ha incontrato di persona Francesco ad agosto. “C’erano 40 gradi, faceva caldissimo, ma lui tutto smagrito aveva la felpa di pile perché sentiva freddo. Sta male e non lo curano”. “La verità è che in carcere dei detenuti fanno quello che vogliono”, conclude Antonella. L’Aquila. Carcere “abusivo”: la decisione finale spetterà al Tar di Giustino Parisse Il Centro, 1 gennaio 2021 Altra puntata nella controversia sui terreni di uso civico. Da decenni l’Asbuc di Preturo ne rivendica la restituzione. Dovrà essere il Tar a mettere la parola fine alla vicenda dei terreni di uso civico su cui sorge il carcere delle Costarelle a Preturo. Due giorni fa il Consiglio di Stato ha annullato una sentenza del Tar - a cui si era rivolta l’amministrazione per l’uso civico (Asbuc) di Preturo che da anni chiede la restituzione di quei terreni - che un anno fa circa aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del Tribunale amministrativo a decidere sulla vicenda dichiarando competente in materia il Commissario per gli usi civici della Regione Abruzzo. Il Consiglio di Stato, come in una partita di tennis, ha ributtato la palla al Tribunale amministrativo regionale che ora dovrà far “eseguire” la decisione del Commissario per gli usi civici che da tempo ha riconosciuto che i terreni su cui è stato costruito il carcere sono di proprietà dei “naturali” di Preturo. Ma per districarsi e cercare di spiegare come si è arrivati all’ennesima sentenza (si spera quella finale) bisogna fare un passo indietro. La vertenza. Da decenni l’Asbuc di Preturo rivendica la proprietà dei terreni su cui negli anni Ottanta del secolo scorso è stato costruito il carcere oggi in gran parte riservato a detenuti in regime di 41 bis. Ci sono state sentenze a vari livelli finché non si è giunti a una decisione “definitiva” che risale al giugno del 2016 quando la Corte d’Appello di Roma, sezione speciale degli usi civici, ha riconosciuto “la natura demaniale civica universale di una parte del terreno”, circa 4 ettari, sul quale ora c’è il carcere. Accordo mancato. A quel punto è nata una ulteriore questione: è possibile abbattere il carcere e restituire i terreni come erano in origine ai cittadini di Preturo? Basta un po’ di buon senso per capire che bisogna fare una scelta diversa. E per questo sono partite delle interlocuzioni con l’Agenzia del demanio proprietaria del penitenziario. L’Asbuc si è detta disponibile a percorrere la strada dell’indennizzo cercando anche di limitare le pretese. Insomma una offerta di “pace” per evitare la demolizione. L’Agenzia del demanio avrebbe in sostanza dovuto pagare all’Asbuc i terreni oggetto della controversia e a quel punto sarebbe stato possibile avviare una procedura di cambio di destinazione d’uso e la questione finiva lì. L’Agenzia del demanio ha però fatto capire di non voler tirar fuori i soldi in quanto quei terreni sarebbero stati già pagati - a chi ne rivendicava all’epoca la proprietà (anche se in realtà si trattava solo di occupatori) - attraverso gli espropri. Lo Stato, secondo l’Agenzia del demanio, rischierebbe di pagare due volte gli stessi terreni. Insomma un intreccio infinito. Resta il fatto che c’è una sentenza “definitiva” che però di fatto resta sulla carta. Per questo l’Asbuc di Preturo due anni fa si è rivolta al Tar chiedendo di imporre l’esecuzione della sentenza: o demolire il carcere o far pagare il Demanio. I giudici del Tar un anno fa si sono pronunciati ma si sono dichiarati incompetenti a decidere. Competente sarebbe, in base alla decisione di 12 mesi fa, il commissario per gli usi civici della Regione che per primo (novembre 2014) si era espresso a favore dell’Asbuc. L’ultima sentenza. Altro ricorso e con una sentenza pubblicata il 29 dicembre scorso il Consiglio di Stato ha detto invece che a decidere deve essere il Tar che quindi deve far “eseguire” la sentenza della Corte di Appello di Roma del 2016 che era favorevole ai “naturali” di Preturo. Secondo il Consiglio di Stato “nell’attuale ordinamento compete al giudice amministrativo e in sede di ottemperanza esercitare i poteri per dare attuazione a un titolo esecutivo giudiziale, come quello del Commissario agli usi civici, contenente una condanna di una pubblica amministrazione”. A questo punto, esclusa l’opzione abbattimento del carcere, un “accordo” fra amministrazione separata di Preturo e Agenzia del demanio col riconoscimento dell’indennizzo economico sembra la strada più praticabile. Rovigo. Bandiera Gialla dona mille euro al Garante dei diritti dei detenuti polesine24.it, 1 gennaio 2021 Il contributo servirà all’acquisto di vestiario per i detenuti indigenti. Il 2020 chiude con un altro gesto di grande solidarietà. L’associazione Bandiera Gialla, in collaborazione con l’assessorato ai Servizi sociali, ha voluto finire il ricco anno di attività sociali con una donazione al Garante dei Diritti dei Detenuti, volta all’acquisto di vestiario invernale per i detenuti indigenti, ristretti nel carcere di Rovigo. Il comune di Rovigo ha attivato dallo scorso anno un Tavolo di coordinamento con le istituzioni, le associazioni e cooperative che si occupano del Carcere a vario titolo, al quale partecipano anche il Garante dei Detenuti e la direttrice dell’Istituto di pena. In questo periodo di emergenza Covid sono emersi diversi bisogni dalla realtà carceraria e per affrontare la stagione fredda l’associazione Bandiera Gialla ha così voluto essere vicina anche a questa realtà, destinando una donazione di 1.000 euro all’acquisto di scarpe, calze di lana, felpe ed altri indumenti da consegnare ai detenuti che hanno difficoltà economiche e che non possono acquistare tali beni. Nel carcere di Rovigo ci sono oltre 230 detenuti e vi è anche l’esigenza di attivare progetti ed iniziative in grado di offrire opportunità di reinserimento sociale e lavorativo. Importanti progetti, come informa l’assessore al Welfare Mirella Zambello, si realizzeranno nel corso del 2021 grazie ad un contributo di 100.000 euro della Fondazione Cariparo, deliberato prima di Natale, per sostenere due attività dedicate alla realtà interna ed esterna al carcere che coinvolgeranno le associazioni locali da sempre impegnate in tale ambito. Si tratta del Progetto “Le Ali” con la possibilità di accoglienza ai detenuti in forme alternative alla detenzione ed il progetto “Dentro e fuori il carcere”, che favorirà iniziative interne di lavoro ed animazione oltre a percorsi e tirocini lavorativi esterni. La figura del Garante dei Diritti dei Detenuti, rappresentata dall’arch. Guido Pietropoli permette di individuare le priorità su cui poter orientare le azioni di sostegno sia delle istituzionali che del Terzo Settore per questo l’Associazione “Bandiera Gialla” ha risposto prontamente ai bisogni delle persone detenute. Un ringraziamento particolare dall’assessore Zambello e dall’amministrazione comunale a Bandiera Gialla per il prezioso lavoro sempre a fianco dei più deboli e alla Fondazione Cariparo per il sostegno e la vicinanza alla nostra città e ai suoi progetti, testimoniati anche da questo ultimo importante contributo, che va ad arricchire e a consolidare maggiormente il rapporto collaborativo e fattivo con l’ente. Torino. Vogatori per i detenuti e campi da gioco gratuiti: così lo sport è per tutti di Federico Genta La Stampa, 1 gennaio 2021 “Muoviamoci!” dona a 22 progetti due milioni di euro: dal Caprera al Sermig, premiata la vocazione sociale. Quelli della società canottieri Caprera hanno pensato sia alla loro storica casa sia agli ultimi. Hanno messo sul piatto un progetto di manutenzione degli spazi affacciati sul Po, ma anche percorsi di avvicinamento alla disciplina pensati per i figli delle famiglie più fragili e per i ragazzi disabili. Fino a “Sportivi dentro”, un’iniziativa rivolta ai detenuti, che potranno partecipare a un ciclo di incontri e per apprendere la tecnica grazie ai remergometri, vale a dire simulatori di voga. Così hanno ottenuto un contributo di 215 mila euro. Quasi la stessa cifra - 210 mila - destinata ai nuovi spazi che il Sermig sta costruendo in via Carmagnola. È “l’Arsenale dello sport” nel cuore di Aurora, luogo pensato non soltanto per i futuri atleti ma soprattutto come occasione di inclusione. Dove le discipline, offerte gratuitamente, diventeranno lo strumento di incontro di un tessuto multiculturale per troppo tempo rimasto ai margini. Restituire al pubblico gli spazi dimenticati e dove possibile crearne di nuovi. Approfittare dell’inattività imposta dall’emergenza sanitaria per costruire nei prossimi mesi le basi per ripartire. È questa la missione del bando “Muoviamoci!”, con cui la Compagnia di San Paolo ha raccolto più di cento progetti, arrivati da tutte le circoscrizioni di Torino. Di questi ha deciso di sostenerne ventidue, con un contributo complessivo di due milioni di euro. “Sappiamo bene come anche lo sport risenta delle diseguaglianze - dice il segretario generale della Compagnia di San Paolo, Alberto Anfossi - L’attività fisica ha ricadute positive sulla salute, l’educazione e la socialità di chi la pratica. Un’occasione spesso preclusa alle fasce più deboli della popolazione”. Ecco spiegato perché, per partecipare al bando, i progetti dovevano essere realizzati almeno da due associazioni: per prevedere interventi strutturali ma anche sviluppare percorsi educativi e con una forte connotazione sociale. “Non è un caso che proprio le aree più periferiche risultino quelle da cui è arrivato il maggior numero di candidature” spiega Anfossi. Trend che non cambia nemmeno scorrendo la lista dei progetti vincenti: tredici di questi sono concentrati tra le circoscrizioni Sei e Sette, quelle dove insistono proprio i quartieri di Aurora e Barriera di Milano. Secondo le prime stime, “Muoviamoci!” aprirà le porte delle discipline sportive a più di trentamila cittadini torinesi, che significa oltre il tre percento della popolazione. “Siamo felici che l’iniziativa inaugurata quest’anno, e che proseguirà anche in futuro, si stia muovendo in questa direzione - continua Alberto Anfossi - Il modello proposto dal Caprera e dal Sermig confermano la vocazione tutta torinese verso il sociale. Vogliamo pensare meno all’agonismo e più all’accessibilità delle varie discipline. Come accessibili devono tornare ad essere tante strutture pubbliche, che vogliamo contribuire a riaprire. La preparazione di questo bando ci ha permesso di mappare, insieme a Urban Lab, tutti gli impianti esistenti”. Così la Compagnia di San Paolo si affaccia al 2021, l’anno delle Atp Finals che arriveranno a novembre e della battaglia contro il coronavirus che ancora deve essere vinta. Anfossi si dice ottimista: “Torino ha voglia di riprendersi i propri spazi, riscoprendo il valore e l’importanza di muovervi e incontrarsi. Noi ci impegniamo a rendere questi luoghi di nuovo accessibili”. La magnifica Tania e l’atroce agonia della galera. Un ritorno a Gramsci di Adriano Sofri Il Foglio, 1 gennaio 2021 “Non riuscirai mai a comprendere che cosa sia la vita del carcere e le sue necessità”: le Lettere sono anche il diario della demolizione fisica, “molecolare”, di un uomo forte, sensibile e solo. Provo a rimettermi a giorno con gli studi gramsciani, per quanto è possibile con una mole di pubblicazioni internazionali ormai irraggiungibile. Nell’Edizione nazionale delle opere di Gramsci sono usciti otto volumi e decine di altri se ne preparano. I due di lettere, che comprendono quelle dei e fra i corrispondenti, si fermano al 1923. Einaudi ha ora pubblicato nei Millenni un’edizione monumento delle Lettere dal carcere (dal 1926 al 1937, l’anno della morte, 6 giorni dopo la libertà) con 1.262 pagine di testo e 114 di introduzione, e un ricco apparato di note e corredo fotografico. Le lettere qui raccolte sono 511, 12 inedite. Nella prima edizione Einaudi, 1947, erano 218, non sempre pubblicate integralmente. Si contava da tempo su edizioni pressoché complete e liberate da omissioni aggiustamenti e censure. La NUE del 1965, curata da Sergio Caprioglio ed Elsa Fubini, ne comprendeva 428, delle quali 119 inedite. In quella in due volumi curata per Sellerio da Antonio A. Santucci, 1996, le lettere erano diventate 494, 16 delle quali erano però istanze giudiziarie, distinte dall’epistolario privato, che ne aveva dunque 50 in più rispetto alla NUE. Francesco Giasi, il curatore del nuovo volume dei Millenni, ha anche appena curato con Gianni Francioni per l’ed. Viella “Un nuovo Gramsci. Biografia, temi interpretazioni”, coi contributi di diverse studiose e studiosi, alcuni dei quali figurano anche nell’edizione delle Lettere. Là un saggio di Silvio Pons suggerisce che la lettera di Gramsci del 14 ottobre 1926 a Togliatti e attraverso lui al Comitato centrale del Partito comunista sovietico, “appare ispirata per aspetti essenziali dalla lettura del ‘testamento’ di Lenin”. Cioè che la lettera di Gramsci (che Togliatti non inoltrò), “forse il singolo documento più controverso, fatale e lungamente sottoposto a oblio nella storia del comunismo italiano”, derivasse dalla conoscenza del cosiddetto testamento di Lenin, “forse il singolo documento più controverso, fatale e lungamente sottoposto a oblio dell’intera storia del comunismo sovietico”. L’interesse per Gramsci è più urgente per l’imminenza del centenario della scissione di Livorno che portò alla fondazione minoritaria del Partito comunista d’Italia, di cui Amadeo Bordiga fu l’autore incontrastato e Gramsci l’aderente riluttante. Ezio Mauro ha appena rintracciato il palchetto laterale del teatro Goldoni dal quale Gramsci presenziò, senza prendere la parola. (Quanto a Togliatti, era rimasto a Torino). Il tempo passato e i muri crollati non sono bastati a togliere vivacità e anche virulenza alle polemiche attorno a Livorno 1921 e anche attorno al rapporto fra il prigioniero Gramsci e il suo partito, tema audacemente e spericolatamente caro a Luciano Canfora. Per Sellerio, 2015, Giorgio Fabre ha ricostruito la storia dei tentativi falliti di liberare il prigioniero: “Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato”. Un esempio rilevante si trova nel libro di Mauro Canali, “Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata”, Marsilio 2013, che ha molti argomenti inconfutabili e qualche tono discutibile, in un ambito in cui i toni contano. Penso che Togliatti non avesse preservato il lascito epistolare e letterario di Gramsci invece di distruggerlo nella parte più pericolosa (malefatta per la quale avrebbe avuto del resto bisogno di troppi complici) solo per servirsene alla costruzione della genealogia della via italiana e della continuità Gramsci-Togliatti, ma anche per un intimo e inesplorabile rispetto e soggezione alle carte, a tutte le carte. Il comunismo nasconde le carte, non le distrugge: è una mania di tutti quelli che credono fermamente di precorrere la storia, e che la storia li assolverà. Del fervore dello spettro del Pci che si aggira per l’Italia ha qui reso conto Francesco Cundari (“Cent’anni di tormenti e solitudine. Cosa resta del vecchio Pci”, 30 novembre). Al congresso di Livorno e alla storia del Pci sarà dedicato un numero di Micromega, la rivista cui oggi bisogna fare auguri speciali. Sommariamente, a me pare che le virtù di tante donne e uomini che sono stati comunisti sotto il fascismo e nella repubblica debbano smettere di agire secondo una teleologia rovesciata, facendo celebrare una scissione che fu una sciagura per la democrazia e per il socialismo: giudizio drammaticamente sereno che può esser detto con le parole di Antonio Gramsci. E che un simile giudizio, che può buffamente suonare ancora o coraggioso o temerario, secondo l’orecchio dell’uditore, non è che la proiezione di un altro e più drammatico giudizio che riguarda l’Ottobre russo. Del quale, nel punto cui era arrivato a distanza di tre anni, il congresso di Livorno fu una meccanica postilla. Di questo, caso mai, altrove. Intanto sono due gli aspetti particolari sui quali vorrei richiamare l’attenzione. Il primo riguarda la coprotagonista del carteggio di Gramsci, Tania Schucht. Questa magnifica donna, una magnifica donna normale, per così dire, era stata finalmente protagonista nel libro che le dedicò nel 1991 Aldo Natoli, “Antigone e il prigioniero. Tania Schucht lotta per la vita di Gramsci” (Editori Riuniti). L’uomo Natoli poté farlo con la partecipazione e l’intelligenza che gli aveva dato anche la personale esperienza del carcere fascista, appena documentata dalla raccolta delle sue “Lettere dal carcere (1939-1942). Storia corale di una famiglia antifascista”, curate per Viella da suo figlio Dario, a sua volta storico degli argomenti di cui stiamo trattando, ed Enzo Collotti. Nel 1997 Aldo Natoli e Chiara Daniele avevano finalmente pubblicato per Einaudi il carteggio fra Gramsci e Tatiana, 900 lettere corse fra il 1926 e il 1935, 1.532 pagine. Degli affetti e dell’amore di e per Gramsci hanno scritto studiose partecipi come Adele Cambria, “Amore come rivoluzione. La risposta alle lettere dal carcere”, SugarCo 1976; Noemi Ghetti, “La cartolina di Gramsci. A Mosca, tra politica e amori, 1922-1924”, Donzelli 2013, e ora “Gramsci e le donne. Gli affetti, gli amori, le idee”, Donzelli 2020. Maria Luisa Righi, che per il volume dei Millenni ha curato la cronologia della vita di Gramsci e dei suoi interlocutori, documentò la vicissitudine romanzesca dell’amore di Gramsci per la sorella maggiore Eugenia prima dell’arrivo di Giulia. Nel volume di Viella “Un nuovo Gramsci” e nel Millennio Einaudi con le lettere è Eleonora Lattanzi a scrivere di Tania. I nomi delle tre sorelle sollevano l’argomento del rapporto fra Gramsci e le donne, trattato ampiamente e variamente da autrici femministe. Ed evocato originalmente dalla ricerca di Antonio Gramsci junior, figlio di Giuliano e nipote affezionato di Antonio, che sta per così dire dalla parte delle donne Schucht: “La storia di una famiglia rivoluzionaria: Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l’Italia”, Editori Riuniti 2014. Recensendo la nuova edizione delle lettere nei Millenni, Mattia Feltri ha riavvertito della condizione in cui Gramsci pensava e scriveva lettere e quaderni, la condizione oppressa ed esasperante di una prigionia senza romanticismo, e ne ha fatto occasione per una menzione del carcere contemporaneo. La galera infatti cambia davvero molto senza smettere di somigliare a se stessa. Le lettere dal carcere di Gramsci sono anche il diario della demolizione fisica, “molecolare”, di un uomo forte, sensibile e solo. “Io devo scrivere di botto, nel poco tempo in cui mi vengono lasciati il calamaio e la penna” (1927). Dall’arresto, nel novembre 1926, al gennaio 1929, Gramsci non poté scrivere. Alla corrispondenza era assegnato un tempo - due ore e mezza per due lettere - in un solo giorno della settimana, con “degli orribili pennini” e il rischio dell’epistolografia convenzionalmente carceraria. Succede di leggerlo come un classico della letteratura epistolare e civile dimenticando di che lacrime e di che sangue grondino le sue pagine, e di quali e quante censure. Un detenuto, ogni detenuto, sta dirimpetto al mondo di fuori con un suo dolore e un suo pudore, persuaso che i liberi, anche i più affettuosi e generosi, non possano capirlo davvero, ed è tentato di protestarlo: Non vedi che io sono in galera? Che io non dormo? A volte lo tace, altre lo grida, e anche a Gramsci avvenne di non riuscire più a tacerlo, perfino con i suoi, le sue, con Giulia, con Tania. “Un carcerato di poca salute che ha sempre i nervi scoperti a vivo…”. “Da quattro anni e mezzo non mi sono visto in uno specchio”. “Non riuscirai mai a comprendere che cosa sia la vita del carcere e le sue necessità” (1932). “Sono entrato in una fase della mia vita che, senza esagerazioni, posso definire catastrofica… Non credevo che il fisico potesse avere così il sopravvento sulle forze morali”. “Non posso masticare neanche il pane… Negli ultimi cinque anni ho perduto circa 15 denti”. “Hai contribuito a prolungare questo periodo di atroce agonia… Questo inferno in cui muoio lentamente”. “Mi sono abituato a prevedere con abbastanza freddezza di potermi trovare isolato e distaccato da tutti” (1933). “Che impressione ho avuto nel vedermi allo specchio dopo tanto tempo: sono ritornato subito vicino ai carabinieri” (1936). I “frammenti” di studenti e insegnanti nelle videocamere della didattica a distanza di Silvia Nugara Il Manifesto, 1 gennaio 2021 Sorveglianza e giudizio ai tempi della pandemia. C’è chi rimane in tuta e pigiama e chi studia le luci, la “messinscena” delle lezioni. L’inquadratura del volto o del mezzo busto su sfondo più o meno domestico realizzata dalla videocamera integrata di pc, tablet o smartphone è ormai una delle forme estetiche familiari del nostro quotidiano in questo anno pandemico. Sono immagini visibili tanto da chi le riceve quanto da chi le produce. Ci si guarda mentre si è guardati, ci si sorveglia mentre si è sorvegliati come in uno specchio bifronte. “Gli specchi farebbero bene a riflettere prima di rinviare un’immagine”, ammonivano J.L. Godard e A.M. Miéville citando Cocteau in 50×2, sguardo critico su un centenario del cinema che celebrava lo sfruttamento commerciale di un’arte altrimenti ignorata in quanto tale. Cosa dicono di noi e al di là noi le immagini che fruiamo e produciamo in videochiamata? Sicuramente ci dicono che siamo più o meno sempre sotto esame, misurati da quel calibro che è lo sguardo altrui sull’immagine che diamo. C’è chi di quel riflesso se ne infischia e chi invece in questi mesi ha studiato come posizionare la camera per ottenere le inquadrature più nitide, chi ha imparato a scegliere le fonti luminose, a vestirsi appositamente - non abbandonando ma celando tuta o pigiama -, ad allestire lo sfondo più neutro per non rivelare nulla dei propri interni domestici o a sfruttare ogni occasione per mettersi in scena posizionando ad arte pile di libri e oggetti selezionati ad hoc per l’autopromozione. Uno dei “luoghi” in cui il nesso tra immagine-sorveglianza-giudizio si fa più delicato è la scuola. “Nelle case degli studenti, la scuola deve entrare in punta di piedi” dice una delle insegnanti intervistate da Alberto Momoin La scuola prossima, in cui il regista prova a esplorare - e a illuminare - quel che resta della scuola in pandemia, quando vengono meno gli spazi, gli oggetti, i tempi, i riti e i corpi che danno sostanza all’esperienza scolastica. È forse presto per teorizzare processi ancora in atto e pesarne le conseguenze ma il film di Momo vive del tempo presente, documenta i tentativi e le difficoltà nel mantenere le relazioni quando la didattica rischia di farsi verticistica e i corpi sono solo immagini a frammenti, per di più realizzabili con strumenti tecnologici non accessibili a chiunque. Le diseguaglianze già presenti si accentuano e la divisione tra pubblico e privato decade disvelando spudoratamente la vita dietro le quinte: “Quando ho visto la casa della mia allieva mi sono messa a piangere” dice un’altra docente. L’invadenza dello sguardo è tanto maggiore quanto minore è la capacità o la possibilità da parte dei soggetti di controllare l’immagine e la messa in scena. Filmare la scuola di oggi significa cercare una forma per raccontare il farsi e il disfarsi di un immaginario, quello del “prima” e quello dell’oggi, con le piattaforme che rischiano di vincolare l’estetica pedagogica al paradigma faccia-sfondo. Significa mostrare i tentativi di inventare modi altri di abitare lo schermo, di trasformarlo in acquario, in abisso stellare, in campo da gioco, in lavagna magica. Come fa una classe del cuneese che studia Primo Levi trasformandone Il fabbricante di specchi in un videosaggio (di cui il film propone alcuni momenti ma che è visibile interamente su youtube) sulla proiezione alla base di ogni legame affettivo e sulla percezione sempre relativa, dell’immagine di sé e dell’altro. Momo si smarca poi dall’estetica del computer screen movie con un gesto cinematografico che scolla l’audio dal video e si muove dentro e fuori dallo schermo mostrando tanto la vita che irrompe nell’inquadratura - la mamma che passa in cucina mentre la figlia segue lezione - tanto ciò che vive intorno al tablet. Ma in questi mesi pandemici, di fronte al dilagare della vita sullo schermo, c’è chi ha dato luogo ad esperienze didattiche letteralmente “iconoclaste”. Sempre in provincia di Torino, alcuni insegnanti di una scuola media di Ivrea hanno sperimentato la didattica via webradio proponendo - in collaborazione con l’emittente locale Radio Spazio Ivrea - dirette in orario scolastico e podcast per recuperare in qualsiasi momento lezioni perse o riascoltare passaggi non chiari. Questa forma non esclude totalmente le videolezioni ma le integra o le affianca, soprattutto nel caso di discipline come la matematica che necessitano di supporto visivo. Fruibili a chiunque, queste lezioni sono diventate un modo per aprire la scuola alla cittadinanza e per impiegare la voce come stimolo all’immaginazione contro l’usura dell’immaginario. Migranti. Da oggi Londra è fuori anche da Dublino di Carlo Lania Il Manifesto, 1 gennaio 2021 Come conseguenza della Brexit. Sugli irregolari resta solo la possibilità di accordi bilaterali con gli Stati. Certo, non ha la stessa importanza di un accordo commerciale, ma la questione tiene banco da mesi in Gran Bretagna tanto da essere entrata nelle trattative con l’Unione europea sulla Brexit senza però che il governo sia riuscito a trovare una soluzione. Per quanto possa ritenersi marginale, capire dunque cosa accadrà ai migranti che in futuro entreranno nel Paese senza un regolare permesso ha il suo peso, specie per un’opinione pubblica stressata dai continui allarmi per il crescente (si fa per dire se si paragonano i numeri a quelli di Italia, Spagna o Grecia) aumento degli arrivi di imbarcazioni cariche di disperati che attraversano la Manica sperando di poter vivere nel Regno unito. Da domani, 1 gennaio 2021, la Gran Bretagna non potrà infatti più rimandare indietro i migranti provenienti dal continente europeo visto che il regolamento di Dublino, secondo cui la responsabilità di un richiedente asilo ricade sul Paese di primo approdo, non sarà più valido come conseguenza della Brexit. “Faremo valere il rigore della legge britannica a protezione dei confini” aveva tuonato lo scorso mese di settembre il premier Boris Johnson, quando l’uscita dall’Unione europea veniva ancora vista da Londra come “una chance per cambiare le regole di Dublino”. Tre mesi dopo, cioè oggi, l’unica via che appare ancora seriamente percorribile è quella degli accordi bilaterali con Italia, Francia, Spagna, Cipro e Grecia, accordi sui quali il governo avrebbe già cominciato a lavorare ma che, da quanto se ne sa, sarebbero ancora in alto mare. Anche se Londra ha sempre sottolineato come l’uscita dalla Ue non cambi l’obbligo del Regno unito di offrire protezione ai rifugiati come previsto dalla Convezione di Ginevra, tra i maggiori rischi paventati come conseguenza della nuova situazione c’è la perdita di un percorso legale per i ricongiungimenti familiari dei rifugiati. In passato, quando ancora si sperava di poter raggiungere un’intesa con Bruxelles, il governo ha proposto due accordi, uno per consentire il ricongiungimento familiare dei minori non accompagnati, e uno per la riammissione e il rimpatrio di cittadini di Paesi terzi privi di permesso di soggiorno. Punto delicato quest’ultimo visto che Londra lamenta di riammettere dal 2016 più persone di quante riesca a trasferirne fuori dal Regno. Entrambi gli accordi, però, sono rimasti sulla carta. Da considerare, inoltre, la possibilità di una diminuzione delle risorse oggi destinate all’assistenza di coloro che già si trovano nel Paese come richiedenti asilo. Una delle conseguenze dell’uscita dall’ Unione europea è infatti la perdita per la Gran Bretagna dei finanziamenti comunitari per l’integrazione e l’asilo, che per il periodo 2014-2020 sono ammontati a 500 milioni di sterline destinati dal ministero dell’Interno a ong e uffici locali. Fino all’11 ottobre scorso sono stati 7.100 i migranti arrivati dall’inizio dell’anno in Gran Bretagna dopo essere partiti dalle coste francesi. Numeri che non dovrebbero rappresentare un problema ma che hanno scatenato una sorta di isteria nel governo Tory, tanto da arrivare a ipotizzare soluzioni a dir poco estreme pur di fermare gli sbarchi. L’ultima, svelata dai media britannici, prevedeva l’uso di reti per bloccare le eliche dei gommoni sui quali viaggiano i migranti, in modo da poterli poi riportare in Francia utilizzando le motovedette che pattugliano la Manica. Ma prima è stata ventilata la possibilità di collocare i migranti su vecchie navi ancorate al largo, ma anche di sistemarli sopra piattaforme petrolifere in disuso. Oppure di spedirli, come rivelato nelle scorse settimane dal Financial Times, in luoghi lontanissimi come l’isola britannica di Ascension, situata nell’Atlantico e distante 6.000 chilometri da Londra. Senza escludere la possibilità, rivelata questa volta dal Guardian, di creare dei centri di detenzione offshore sul modello australiano in Papua Nuova Guinea, Marocco o Moldava. Ipotesi, quest’ultima, che avrebbe incontrato il parere contrario del ministero degli Esteri per via dei costi e delle difficoltà di realizzazione. Tutti i progetti in seguito sarebbero comunque stati accantonati. Nel frattempo navi e aerei sono stati inviati nella Manica per rafforzare la “border force” impegnata a fermare i barchini dei migranti. Le buone notizie sui diritti umani del 2020 di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 gennaio 2021 Anche in questo anno orribile che va a chiudersi i movimenti per i diritti umani hanno ottenuto risultati importanti: prigionieri rilasciati dopo aver subito condanne ingiuste, sentenza di morte annullate, provvedimenti liberticidi abrogati e leggi progressiste approvate. Le “buone notizie” trovano spesso uno spazio inadeguato, nei mezzi d’informazione, rispetto alla loro importanza nel cambiamento della vita di singole persone e di intere comunità. Eppure sono state ben 190 nel 2020. Quella che segue è la selezione, assai difficile, delle migliori, una per mese. Il 7 gennaio il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite ha stabilito che gli stati devono tenere in considerazione le violazioni dei diritti umani causate dai cambiamenti climatici quando valutano le domande di asilo. Il 27 febbraio il parlamento del Colorado (Usa) ha votato definitivamente a favore dell’abolizione della pena di morte. Il 30 marzo il governo della Sierra Leone ha abolito il decreto che impediva alle ragazze incinte di prendere parte alle lezioni e agli esami, “per non influenzare negativamente le altre alunne”. Il 4 aprile l’avvocato cinese per i diritti umani Wang Quanzhang è stato rimesso in libertà dopo aver trascorso in carcere quattro anni e mezzo per “sovversione dei poteri dello stato”. Il 27 maggio il tribunale di Messina ha condannato a 20 anni di carcere un guineano e due egiziani per aver torturato, picchiato e lasciato morire migranti trattenuti in un centro di detenzione di Zawiya, in Libia. Il 9 giugno è stato rilasciato Nabil Rajab, uno dei più importanti difensori dei diritti umani del Bahrein. Stava scontando una condanna a cinque anni di carcere, inflittagli nel 2018, per aver criticato via Twitter l’intervento militare dell’Arabia Saudita nello Yemen. Dopo tre anni passati tra i tribunali francesi, il 7 luglio l’attivista 76enne Martine Landry è stata definitivamente assolta. Nel luglio 2017 aveva accompagnato dall’Italia due minori guineani affinché venissero presi in carico dai servizi sociali francesi. Il 30 agosto a seguito di una sentenza del Tribunale civile di Roma sono arrivati via aereo, per presentare domanda di protezione internazionale, cinque richiedenti asilo eritrei che l’Italia aveva illegalmente respinto in Libia nel 2009, dopo averli soccorsi in mare con una nave militare. L’11 settembre un tribunale di Madrid ha condannato l’ex colonnello ed ex viceministro della Difesa di El Salvador Inocente Montano a 133 anni, quattro mesi e cinque giorni di prigione per l’assassinio di sei sacerdoti gesuiti avvenuto nel 1989. Il 6 ottobre, dopo due anni e mezzo, un tribunale di Barcellona ha assolto dall’accusa di “incitamento a disordini pubblici” Tamara Carrasco, attivista dei Comitati di difesa della repubblica, gruppi della società civile catalana creati dagli attivisti indipendentisti nel 2017. Il 16 novembre, dopo un’indagine durata sette mesi, il difensore marocchino dei diritti umani Omar Naji è stato assolto da accuse relative alla gestione governativa della risposta alla pandemia da Covid-19. Il 17 dicembre, accogliendo le richieste di Amnesty International e dei movimenti per i diritti delle donne, il parlamento della Danimarca ha approvato la legge che stabilisce che il sesso senza consenso è stupro. Giornalisti minacciati. 201 allerte in 32 Paesi nel 2020 articolo21.org, 1 gennaio 2021 È stato un anno di battaglie per la Federazione europea dei giornalisti (Efj). Battaglie combattute purtroppo a distanza, perché la pandemia non sempre ha consentito ai vertici della Federazione di andare a portare sostegno sui territori, nei paesi dove gli attacchi alla libertà di stampa sono stati più forti. La più importante battaglia europea per la libera espressione è stata per noi della Efj quella sulla Bielorussia. L’estate scorsa il popolo bielorusso è sceso in piazza contro le elezioni truffa che hanno confermato al potere il dittatore Alexandr Lukhashenko. La repressione è stata feroce e si è abbattuta anche e soprattutto sui giornalisti che cercavano di coprire le proteste. Molti colleghi sono stati arrestati e detenuti anche per più giorni, altri sono stati picchiati e hanno riportato gravi ferite. Un caso per tutti: Natasha Lubnevskaya, giovane reporter della testata “Nasha Niva”, che il 10 agosto, mentre svolgeva il suo lavoro coprendo una manifestazione, è stata colpita da un proiettile che le ha fracassato un ginocchio. E che oggi manda un messaggio di speranza, perché pensa che il popolo Bielorusso riuscirà a liberarsi dalla dittatura, continuando ad opporsi come sta facendo. La Federazione europea ha più volte lanciato appelli alla Ue perché intervenisse direttamente con sanzioni nei confronti delle autorità Bielorusse. La EFJ - attraverso il suo Segretario generale, Ricardo Gutierrez -è anche volata in Francia, a sostenere i giornalisti che si sono ribellati all’approvazione di una legge liberticida, che voleva impedire ai cronisti le riprese di azioni della polizia nelle manifestazioni pubbliche. La Federazione europea collabora inoltre attivamente alla “Piattaforma del Consiglio d’Europa per rafforzare la protezione del giornalismo e la sicurezza dei giornalisti “. Nel 2020, ci sono state 201 allerte in 32 Paesi, 86 sono state risolte o almeno hanno avuto una risposta da uno stato membro, mentre due giornalisti sono morti: la russa Irina Slavina, che si è immolata contro le restrizioni alla sua testata e il giornalista pakistano in esilio Hussain Baloch, trovato morto in Svezia la scorsa primavera. 119 sono i colleghi ancora detenuti e 24 i casi di omicidi impuniti di giornalisti. Ed è bene ricordare la Turchia, dove Can Dundar è stato condannato in contumacia (si trova va esule in Germania) a 27 anni di carcere la vigilia di Natale. Per tutto questo, l’impegno della EFJ anche nel 2021 sarà massimo. Tra le prime questioni sul tavolo dell’anno che sta per iniziare, la Polonia, dove la compagnia petrolchimica Orlen ha annunciato l’acquisizione di Polka press, oggi proprietà di un gruppo tedesco. Polka press possiede 20 dei 24 giornali regionali polacchi, 120 riviste locali e 500 portali online nel paese. Lo Stato detiene il 27,5% delle azioni di Orlen, cosa che gli assicura il controllo di fatto della compagnia. Dunque la stragrande maggioranza dei media polacchi cadrà di fatto sotto il controllo di un Governo autoritario, che da anni cerca di mettere il bavaglio alla stampa. L’operazione dovrebbe concludersi a inizio anno. L’impegno della Efj non potrà che essere rivolto al sostegno dei giornalisti polacchi, nella battaglia per una stampa libera. Last but not least, le querele bavaglio stanno diventando un grave problema in molti paesi d’Europa, non solo in Italia, dove la legge ad hoc giace nel dimenticatoio. Una battaglia europea, una grande iniziativa comune, è l’auspicio per l’anno che arriva. Omicidio Regeni, i genitori denunciano il governo italiano per vendita armi all’Egitto La Repubblica, 1 gennaio 2021 Claudio e Paola Regeni hanno annunciato un esposto contro l’esecutivo per le due fregate acquistate dal Cairo. Un esposto contro il governo italiano per violazione della legge in materia di vendita di armi a Paesi “autori di gravi violazioni dei diritti umani”. È quanto annunciato da Claudio e Paola Regeni, nel corso della trasmissione Propaganda Live. Il provvedimento, che fa riferimento alla vendita di due fregate all’Egitto, è stato redatto dall’avvocato Alessandra Bellerini, legale dei familiari del ricercatore ucciso in Egitto nel 2016. Claudio e Paola Regeni hanno spiegato che l’esposto-denuncia riguarda la violazione della legge 185/90 che vieta esportazione di armi “verso Paesi responsabili di violazione dei diritti umani accertati dai competenti organi e il governo egiziano è tra questi”. “Continuano a gettare fango”, hanno detto inoltre riferendosi alle dichiarazioni della procura egiziana, dichiarazioni che “confermano ancora una volta l’atteggiamento conosciuto bene negli ultimi cinque anni, dimostrano l’impunità di cui sentono di godere scaricando la responsabilità su persone innocenti. È come se avesse parlato direttamente al Sisi, è uno schiaffo non solo a noi ma all’intera Italia. E il governo italiano è troppo remissivo e troppo debole, le sue sono parole senza azioni conseguenti”. I genitori di Giulio Regeni hanno ribadito che a loro avviso dovrebbe essere richiamato l’ambasciatore italiano in Egitto: “Lo chiediamo come atto forte. Con queste persone, con questo governo (egiziano, ndr) non si tratta, bisogna reagire, perché diversamente i nostri figli non saranno più sicuri, perderanno fiducia e speranza”. Stati Uniti. Rivista Time: l’epidemia colpisce pesantemente le carceri Reuters, 1 gennaio 2021 Secondo quanto riportato recentemente dalla rivista americana Time, l’epidemia di Covid-19 ha causato nelle carceri di varie parti degli Usa il contagio di almeno 275mila detenuti e oltre 1.700 morti. Un duro colpo per il sistema penitenziario del paese. Stando a quanto affermato da Time, attualmente la pandemia ha toccato più di 850 carceri e altre strutture penitenziarie. Oltre ai detenuti, anche molti dipendenti e lavoratori del sistema penitenziario sono stati contagiati dal nuovo coronavirus. Etiopia. “Io scampato al massacro, i miei compagni uccisi col machete” di Farian Sabahi Corriere della Sera, 1 gennaio 2021 Haftom, 21 anni, fuggito con la famiglia senza nulla dalla regione del Tigray dove imperversavano i combattimenti, ora è in un campo rifugiati del Sudan. “In condizioni normali, a Natale avremmo mangiato carne e bevuto tella (birra tradizionale etiope, ndr). Nel campo rifugiati non ci sono però né carne né tella. Sono nato e cresciuto a Mai Kadra, nella regione nordoccidentale del Tigray vicino al confine con il Sudan. Ho ventun anni e prima della guerra studiavo contabilità e finanza. Quando è scoppiato il conflitto sono scappato con la mia famiglia, non siamo riusciti a portare nulla con noi. Sulla via della fuga, abbiamo incontrato dei soldati sudanesi che ci hanno portato nel campo rifugiati di Hashaba, nello stato sudanese di al-Gedaref. Nel nostro calendario era il primo giorno del mese di Hidar 2013 (10 novembre 2020)”. A raccontare la propria condizione è Haftom Berhe, etiope di etnia tigrina e religione cristiana. Nel campo rifugiati di Hashaba vivono circa 17mila rifugiati, il 70 percento sono donne e bambini. Haftom è originario di Mai Kadra, una cittadina nella regione nordoccidentale del Tigray ma, essendo sul confine, è a maggioranza ahmara. L’Etiopia ha 110 milioni di abitanti suddivisi in oltre 80 etnie. Tra queste, le principali sono gli oromo (32 percento) e gli ahmara (30,2 percento). I tigrini sono soltanto il 6 percento della popolazione ma per vent’anni hanno controllato il governo centrale etiope. Tigrini e ahmara sono per lo più cristiani ortodossi, mentre gli oromo sono prevalentemente musulmani. I matrimoni tra etnie sono comuni, e infatti Ably Ahmed Ali - premier dall’aprile 2018 e premio Nobel per la Pace 2019 - è oromo di madre ahmara e professa la fede cristiana protestante. Le tensioni interne all’Etiopia sono per lo più etniche, non religiose. Dal punto di vista politico, l’Etiopia è una federazione su base etnica. In questo anno e mezzo il premier ha cercato di emarginare il Tpfl (Tigray Peoplès Liberation Front) e ha tentato di passare dall’etnofederalismo a una forma di centralizzazione panetiopica. I tigrini si sono però opposti e hanno rivendicato l’autonomia, rompendo con Addis Ababa.Il 9 settembre i tigrini hanno organizzato le elezioni locali, anche se il governo centrale le aveva rimandate al 2021, in tutto il paese, con il pretesto della pandemia. “In Etiopia abbiamo avuto le elezioni, ma il premier Abiy Ahmed era contrario e per questo è scoppiata la guerra. Il governo etiope è una dittatura. Noi, abitanti della regione del Tigray, vogliamo un governo democratico”, commenta Haftom. Il conflitto armato è cominciato il 3 novembre quando, secondo le autorità di Addis Ababa, i tigrini avrebbero attaccato alcune caserme delle forze armate etiopi. Il Tpfl respinge l’accusa, ma questo sarebbe stato il pretesto per l’offensiva lanciata il 4 novembre dalle forze governative contro i tigrini. “Nella nostra cittadina non è stato possibile contare i morti. I militari hanno sparato, decapitato con l’ascia, ucciso con i machete. Ci hanno presi di mira perché siamo di etnia tigrina. Molti dei miei compagni di corso sono stati uccisi”. L’offensiva è terminata il 30 novembre. Come tanti altri rifugiati, Haftom e i suoi famigliari non sono riusciti a prelevare denaro né a portare con sé parte del raccolto: “Ogni mese le agenzie internazionali ci danno le razioni di sorgo, ma il cibo non è sufficiente. Non abbiamo abiti di ricambio, la notte fa molto freddo. Stare qui è complicato, perché è scoppiata la guerra anche tra Sudan ed Etiopia”. Il governo centrale etiope ha oscurato le telecomunicazioni e blindato la regione del Tigray. Di conseguenza, le notizie sono scarse e frammentarie. A perpetrare il massacro di Mai Khadra del 9 e 10 novembre, in cui sono morte 600 persone, potrebbero essere stati i soldati federali, oppure le milizie del Tigray. Oppure le forze armate dell’Eritrea perché dopo decenni di inimicizia con Addis Abeba, ora sono coalizzate con il governo centrale etiope contro i tigrini: “In questi mesi, i militari eritrei hanno ucciso i civili del Tigray, hanno usurpato le nostre proprietà e violentato le nostre bambine”, denuncia Haftom. Secondo Riccardo Noury di Amnesty International, “dalle immagini in nostro possesso è evidente che fossero civili perché non indossavano l’uniforme. Sappiamo che molte delle vittime erano di etnia ahmara, ma non sappiamo esattamente chi sia stato a uccidere. Alcune testimonianze puntano sulla polizia del Tigray, che di fatto è una formazione paramilitare, ma non c’è certezza”. Secondo altre fonti, per evitare distruzioni e organizzare la guerriglia, il Tpfl avrebbe evacuato le proprie forze dalla capitale tigrina Macallè. E infatti, Haftom dichiara: “La maggior parte dei morti sono tigrini, ad ucciderli sono stati i soldati governativi. Le milizie tigrine non c’entrano: al momento del massacro erano impegnate altrove, a combattere le forze armate di Addis Abeba”. Cina. Joshua Wong: dalla piazza contro “l’imperatore Xi” al carcere di Carlo Pizzati La Stampa, 1 gennaio 2021 L’attivista sta scontando in carcere una condanna inflitta da Pechino fino al 2022: “Finché Xi Jinping comanda in Cina, non vedremo il finale di questa partita”. Joshua Wong è nato il 13 ottobre del 1996 a Hong Kong. Ha fondato il gruppo di attivisti Scholarism ed è ex-segretario generale del partito pro-democrazia Demosist?. È stato il leader delle proteste a Hong Kong nel 2014, internazionalmente conosciute come “Rivoluzione degli ombrelli”. Al momento sono in prigione. Questo account è gestito da amici”. Sulla pagina Twitter di Joshua Wong troverete questo messaggio perché il ragazzo più famoso di Hong Kong si è preso 13 mesi e mezzo di carcere per assembramento illecito assieme ad altre presunte violazioni che la Cina, facendo pressioni su Hong Kong, gli imputa. Tutto per cercare fermare quello che gli amici chiamano “il robot”, perché è capace di lavorare dall’alba a notte inoltrata senza mai fermarsi. Grande oratore, ottimo organizzatore e trascinatore di masse giovanili, Wong è stato nominato per il Nobel nel 2018 e si è affermato come portavoce internazionale della protesta di Hong Kong contro il leader cinese che Wong chiama “l’Imperatore Xi”. A vederlo, con zainetto, pantaloni sformati, t-shirt e camicie sempre larghe per un corpo che sembra aver fatto poco sport, non si capisce subito quanto coraggio e forza ci sia dentro questo militante nato il 13 ottobre del 1996, otto mesi dopo che la Gran Bretagna ha abbandonato la colonia di Hong Kong con la promessa che Pechino non l’avrebbe annessa fino al 2047, quando Joshua avrà 50 anni. È cresciuto in una famiglia di borghesi luterani molto credenti. Papà Roger (ingegnere informatico in pensione) con l’aiuto di mamma Grace esorta il piccolo Joshua a combattere il “demonio del Comunismo”. Vanno d’accordo su tutto tranne un tema: papà si batte per far approvare una legge antigay, il figlio difende i diritti Lgbtqia. Ma Joshua è abituato a sfidare l’autorità, paterna o governativa che sia. Non gli fa paura. Il primo ostacolo è stato capire cosa dicevano le lettere sulla pagina. Era dislessico, con forti difficoltà a leggere e scrivere. Con mamma Grace, forza di volontà e disciplina, si è messo lì, duro e ostinato, e ce l’ha fatta. Ha capito subito l’importanza del testo. E dei libri di testo. La sua prima battaglia politica la fa nel 2010, a 13 anni, contro il progetto di un treno ad alta velocità che unisce la sua città alla terraferma cinese. A 14 anni fonda con Ivan Lam “Scholarism” per combattere la propaganda di Pechino nei libri di scuola. Il governo vuole imporre un corso obbligatorio per inneggiare al Partito Comunista cinese. “Lavaggio del cervello”, dice Joshua. Nella sua prima intervista balbetta. Ma impara presto. Organizza volantinaggi e picchetti. Il movimento cresce fino a quando Wong si ritrova a guidare una ribellione pacifica che si propaga in tutta la città. Gli studenti fanno lo sciopero della fame e occupano il quartier generale del governo di Hong Kong e, dopo un sit-in di dieci giorni, il governo cede e blocca la riforma. È qui che Wong comprende come la protesta può cambiare il mondo e fermare ciò che appare inevitabile. La seconda opportunità arriva nel 2014. I ragazzi chiedono che a Hong Kong si possa votare senza ingerenze da Pechino. Nasce il famoso Movimento degli Ombrelli (usati per difendersi dai lacrimogeni). Joshua diventa uno dei leader più influenti del movimento pro-democrazia. Arriva la fama internazionale. Pechino lo accusa di essere un agente americano. Viene incarcerato con il pretesto dell’assembramento non autorizzato. Appena uscito dice: “Se non facciamo niente, le cose peggioreranno. Stanno già vincendo, quindi non abbiamo niente da perdere. Per questo diciamo: se bruceremo, bruceranno con noi”. Inizia un tour mondiale. Va in America per convincere il Congresso a passare una legge di tutela alla libertà di Hong Kong. Poi in Europa e in Asia. In Tailandia viene arrestato e rispedito a Hong Kong su richiesta dei cinesi. In Malesia lo bloccano alla frontiera per paura di irritare la Cina. Lo costringono a sciogliere “Scholarism”. Lui si allea con altri militanti e si unisce a “Demosisto”, nuova e importante associazione pro-democrazia. Tra scioperi della fame e arresti, si trasforma nel vero volto della protesta di Hong Kong. Fino all’anno caldo del 2019. Joshua è in prigione a scontare una pena di due mesi quando la protesta comincia a riempire le strade ogni weekend, da primavera ad autunno. Appena uscito, si unisce alla battaglia. Ma questo movimento è diverso. Non vuole leader, vuol restare fluido come l’acqua, per evitare scontri interni come quelli che divisero il Movimento degli Ombrelli. Così Wong si trasforma in portavoce internazionale della rivolta. Non sembra turbato dal ridimensionamento, vi si adatta in fretta. Rilascia dichiarazioni e interviste ai giornalisti stranieri. Scende anche in strada, si fa prendere a bastonate e spray al peperoncino, conserva un ruolo strategico. E finisce di nuovo agli arresti. Ormai è troppo noto. Il nemico lo vuole in prigione. “Finché Xi Jinping comanda in Cina, non vedremo il finale di questa partita. È la nostra guerra infinita”. Se ne riparla all’inizio del 2022, quando Joshua, salvo soprese, uscirà dal carcere. Avrà appena 26 anni e una vita di battaglie non solo dietro le spalle, ma, c’è da scommetterci, anche davanti a sé. Olga Misik, la ragazza pronta a tutto per cambiare la Russia grazie alla Costituzione di Anna Zafesova La Stampa, 1 gennaio 2021 Olga Misik, 18 anni, è diventata celebre in tutto il mondo quando di anni ne aveva soltanto sedici, per aver protestato nella maniera più semplice e pacifica: seduta a gambe incrociate, leggendo ad alta voce la Costituzione. Quando è capitata alla sua prima manifestazione, trascinata da un’amica, nel settembre del 2018, Olga Misik era un’appassionata di fumetti che di politica non sapeva nulla. Anzi, come molti adolescenti russi, era abbastanza diffidente nei confronti della politica, e dei politici. A 16 anni, Olga era nata e cresciuta nella Russia governata da Vladimir Putin, e non immaginava nemmeno che la politica potesse essere qualcosa di diverso dall’unanimità burocratica imposta dal Cremlino. Alla manifestazione - organizzata da Alexey Navalny contro la riforma delle pensioni voluta da Putin - Olga ha scoperto che in Russia esistono problemi veri, che la politica può essere anche protesta, rabbia, coraggio. E che anche una ragazzina di provincia come lei può cambiare qualcosa. Pochi mesi dopo, Olga era nel mirino dei fotografi delle agenzie internazionali e sulle copertine delle riviste occidentali, seduta sull’asfalto delle piazze moscovite a gambe incrociate, davanti alle transenne e alle file serrate dei poliziotti anti-sommossa, a leggere ad alta voce la Costituzione russa. Articolo 31, libertà di assemblea. Articolo 32, libertà della partecipazione elettorale. Articolo 29, libertà di stampa. Articolo 3, il popolo è la fonte principale di potere. Probabilmente non aveva mai sentito parlare dei dissidenti sovietici che negli anni ‘70 avevano provato a sfidare il regime comunista con lo slogan “Rispettate la vostra Costituzione”, sperando di incastrare Leonid Brezhnev sulla contraddizione tra le libertà che prometteva sulla carta e negava nella realtà. Forse non sapeva nemmeno che già alla fine degli anni Zero, quando Olga era ancora piccola e i prezzi del petrolio garantivano ancora a Putin un consenso quasi universale, un gruppo di liberali aveva iniziato a darsi appuntamento nelle piazze di Mosca il 31 di ogni mese, per invocare appunto l’articolo 31 e la libertà della protesta, e per finire immancabilmente arrestati dalla polizia. Ma nella trovata di Olga - farsi scudo con la Costituzione, in una protesta pacifica e sorridente - c’era una gloriosa continuità con Andrey Sakharov e Boris Nemtsov, con generazioni di dissidenti che l’avevano preceduta. Olga-Constitutsija, come è stata soprannominata nei social, è la versione Telegram di quelle giovani rivoluzionarie che nell’Ottocento sfidavano la polizia politica dello zar in nome del popolo oppresso. Qualcuno fa un paragone più moderno, Greta: anche Olga ha problemi di comunicazione, è affetta da una forte balbuzie. Le sue idee politiche sono molto vaghe: si dichiara libertaria e femminista, sostiene tutti gli attivisti di qualunque orientamento e come rivendicazione principale della sua protesta vorrebbe la libertà della protesta, senza polizia e senza manganelli. La sua è una rivolta molto adolescenziale, che mischia la protesta contro l’autoritarismo del Cremlino con quella contro un padre autoritario e contro lo squallore di una cittadina di provincia, dalla quale fuggire con un trenino che la porta nelle piazze moscovite. Dice che perfino i suoi compagni della “Protesta a oltranza”, un gruppetto di oppositori irriducibili che si coordinano nelle chat di Telegram e hanno come impegno principale una politica molto “fisica”, di scontro in piazza, le chiedono di stare più attenta e non provocare la polizia: lei sostiene di avere una “atrofia dell’istinto di autoconservazione” e di essere “pronta a tutto”. Insulta i poliziotti con parole che una brava ragazza con la faccia acqua e sapone come lei non dovrebbe nemmeno conoscere, e sorride quando gli agenti con i caschi e gli scudi la portano via per le gambe e le braccia: nel 2019 è stata arrestata brutalmente diverse volte, nonostante fosse minorenne. Oggi Olga non può partecipare alle manifestazioni: il tribunale le ha imposto di non avvicinarsi a piazze e sedi del governo. Non può uscire di casa la sera e ha limitazioni a usare Internet, nonostante le serva per le sue lezioni alla facoltà di giornalismo dell’università di Mosca. Ormai è maggiorenne e rischia tre anni di carcere. Non può più leggere nemmeno la Costituzione: dopo il “referendum” voluto da Putin per emendarla e ottenere ancora più poteri, tra cui quello di ricandidarsi alla presidenza per altre due volte, proporla come simbolo di diritti e libertà è impossibile, e Olga la chiama “una raccolta di barzellette”. La Duma ha appena approvato una nuova raffica di leggi contro le manifestazioni di protesta. Che difficilmente fermeranno Olga-Constituzija e i suoi coetanei, una generazione che “non ha paura dei cellulari della polizia”, dice il sociologo Oleg Zhuravliov: “Per molti di loro partecipare alla protesta è un rito di iniziazione, un modo di diventare cittadini adulti”.