Carcere e pandemia di Lorenzo Farneti extremaratioassociazione.it, 19 gennaio 2021 Intervista a Franco Mirabelli, senatore del Partito Democratico e componente della Commissione Giustizia del Senato. Le carceri e la pandemia, l’idea di giustizia del governo giallo-rosso, le prospettive di riforma del processo penale, sono solo alcuni degli argomenti trattati. Per limitare i danni che la pandemia sta causando nelle carceri, nel D.l. Ristori sono state previste alcune misure, tra cui la possibilità d’esecuzione della pena nel domicilio per chi ha meno di 18 mesi da scontare e l’allungamento della durata delle licenze premio straordinarie e di quella straordinaria dei permessi premio. Si ritiene soddisfatto? Davvero non si poteva fare di più in un momento di emergenza come questo? Credo che si sarebbe dovuto e si debba tutt’ora fare di più. Abbiamo ottenuto l’approvazione di due emendamenti che coinvolgono una platea di circa 1300 beneficiari. Queste misure permetteranno ai detenuti che devono scontare meno di 18 mesi di ottenere i domiciliari, e a coloro che godono di permessi premio o di lavoro di restare fino al 31 gennaio al di fuori delle mura carcerarie. Sono misure importanti, ma è ancora insufficiente. Data la situazione complessiva delle carceri, penso che aumentare fino a settantacinque giorni (rispetto ai quarantacinque che erano in passato, ndr) lo sconto di pena che il detenuto può ottenere ogni semestre per buona condotta possa già essere un gran passo avanti. Ciò anche in vista degli interventi volti alla sistemazione delle strutture carcerarie, previsti dal recovery fund. Non sarebbe opportuno intervenire anche attraverso misure diverse dalla mera manutenzione o costruzione di strutture carcerarie? Certo. Nelle bozze del Governo è previsto che parte dei fondi provenienti dal recovery fund saranno destinati non solo alla costruzione e manutenzione delle carceri, ma verranno impiegati per migliorare il trattamento rieducativo del condannato, adeguando e aumentando la qualità tanto delle strutture quanto delle attività trattamentali attuali. A seguito dell’incontro con Rita Bernardini, reduce da ben 36 giorni di sciopero della fame, Giuseppe Conte ha fatto visita al carcere romano di Regina Coeli. Come giudica questo gesto? Seguiranno interventi più incisivi da parte del Governo? Il mio gruppo, insieme al Governo, cercherà di portare avanti iniziative che mirino all’adozione di interventi più incisivi. Credo che il Presidente del Consiglio abbia fatto bene ad accogliere l’invito della Bernardini e penso che le Istituzioni debbano dare un chiaro segnale di vicinanza nei confronti di chi oggi è detenuto, in modo che nessuno si senta abbandonato. Deve passare il messaggio che queste si occupano di tutelare i diritti dei detenuti e di garantire il percorso rieducativo previsto dalla nostra Costituzione. Credo, inoltre, che per poter intervenire sia utile rendersi conto delle condizioni non solo di chi sta scontando la pena, ma degli stessi operatori e degli agenti che lavorano all’interno delle strutture. Siamo sulla strada giusta. È evidente come nell’ultimo anno e mezzo - soprattutto rispetto all’amministrazione precedente - l’atteggiamento nei confronti del carcere e della detenzione sia molto cambiato, nonostante il Ministro della giustizia sia lo stesso. La Conferenza dei Garanti territoriali dei detenuti ha richiesto l’inclusione del personale di polizia penitenziaria e dei detenuti nel novero di categorie prioritarie del piano vaccinale contro il Covid. La richiesta non è stata accolta. Come valuta la decisione del Governo? Appoggio e condivido la richiesta. Lavoreremo nei prossimi giorni e nelle prossime settimane affinché si intervenga in questo senso. Le strutture carcerarie, essendo spazi chiusi, favoriscono la circolazione del virus, per cui penso che sia utile procedere alla vaccinazione quanto prima. La richiesta, però, non è stata accolta… Per ora no, ma è vero che la campagna vaccinale è iniziata in anticipo e stiamo ottenendo ottimi risultati. È previsto che vengano vaccinati per primi gli operatori sanitari, poi, solo verso la fine gennaio, si procederà con le vaccinazioni all’interno delle RSA e fra gli agenti delle forze dell’ordine. Vedremo se, in questo contesto, si riuscirà ad affermare il principio che il carcere deve essere un luogo più sicuro e tutelato, anche a costo di doversi scontrare con insopportabili polemiche. Amnistia e indulto sono dei taboo nel dibattito pubblico. Lei cosa ne pensa? Penso che siano utilizzabili altri provvedimenti per ridurre la pressione all’interno delle carceri. Quello che bisogna evitare è di contrapporre i diritti dei detenuti a quelli che vengono percepiti come diritti delle vittime. La certezza della pena dev’essere garantita, bisogna però lavorare per depenalizzare una serie di reati minori, incentivare pene alternative e risarcitorie così da ridurre gli ingressi in carcere. Proposte come amnistia e indulto conducono ad un dibattito sterile. Vi si opporrebbe chi, ad esempio, pensa che una persona condannata debba in ogni caso e a qualsiasi costo espiare la pena. Personalmente, ritengo che la pena debba essere espiata nelle migliori condizioni possibili e nel rispetto del dettato costituzionale, ma non possiamo mettere in discussione il principio della certezza della pena. Francamente, oggi trovo inopportuno un discorso su amnistia e indulto, perché solleverebbe un dibattito che, in questo Paese, rischia di penalizzare - anziché aiutare - l’affermazione di un’idea di carcere diversa. In questo senso, mi pare che lei stia quasi declinando la “certezza della pena” come “certezza del carcere”... No. Come le ho appena detto, penso che, anziché ricorrere a misure come amnistia o indulto, si debba insistere per ottenere la depenalizzazione dei reati più lievi e utilizzare pene alternative, risarcitorie o simili. Poi è chiaro che, quando la legge prevede il carcere, questo deve esserci. Vari meccanismi consentono al magistrato di sorveglianza di valutare trattamenti diversi come permessi premio, permessi lavoro, arresti domiciliari. Queste possibilità già ci sono, ma noi abbiamo il compito di ampliare le ipotesi in cui per i reati minori si possa ricorrere a misure alternative al carcere. All’interno della legge di bilancio - a seguito di una votazione unanime in Commissione - è stato inserito l’emendamento Costa, il quale prevede il rimborso delle spese legali per gli assolti in via definitiva nel processo penale. Forse è il primo atto davvero garantista della legislatura. Cosa pensa di questa misura? Innanzitutto, nella legge di bilancio non c’è solo questo. Ad esempio, è stata finalmente finanziata la legge che consente alle madri con bambini di espiare la pena al di fuori del carcere, una conquista che mi pare molto importante. Per quanto riguarda, invece, la proposta di Costa, bisogna dire che un risarcimento per gli errori giudiziari c’era già. Dopodiché, nulla osta! Così come è giusto che lo Stato si assuma la responsabilità di eventuali errori giudiziari, è doveroso che si assuma anche quella di aver danneggiato una persona perseguendola per reati che non ha commesso. Almeno sul tema carcere il Pd, durante il Ministero di Andrea Orlando, aveva tentato un cambio di passo con l’esperienza purtroppo naufragata degli Stati Generali dell’Esecuzione penale. È ancora un tema che interessa al partito o ormai vi siete appiattiti alla linea punitivista pentastellata? Assolutamente no, semmai è il M5S che si è adeguato alle nostre idee sul carcere. Ciò è dimostrato dal fatto che, nelle ultime due leggi di bilancio, sono stati previsti fondi per l’assunzione di personale per il trattamento penale esterno, ossia per l’esecuzione di misure alternative alla detenzione. Inoltre, nella proposta governativa di riforma del processo penale si perseguono gli obiettivi di depenalizzazione di alcuni reati e l’utilizzo di pene risarcitorie e contravvenzioni. Ancora, abbiamo proposto - e il Governo ha accettato - che i fondi del Recovery Fund venissero utilizzati anche per l’ampliamento degli spazi dedicati al trattamento rieducativo nelle carceri esistenti, anziché per la costruzione di nuovi edifici: questo è indice della nostra volontà di affrontare il problema del sovraffollamento negli istituti di pena. Oltre al lavoro su questi temi, il Pd avversa la proposta - proveniente da parte del M5s - di far confluire negli organici della Polizia penitenziaria gli operatori trattamentali, poiché questo snaturerebbe il lavoro di coloro che svolgono tale fondamentale funzione. Tutto ciò, dimostra che il M5s non ha contagiato il PD. È corretto dire che il tema della giustizia è quello che più vi differenzia dai vostri partner di Governo? All’inizio sicuramente era così, ora mi pare che stiamo riuscendo ad ottenere risultati soddisfacenti: l’idea di buttare via la chiave non appartiene più a nessuna componente di questo Governo. Faccio notare che, quando gli esponenti vanno a visitare un carcere, lo fanno allo scopo di verificare le condizioni dei detenuti e della detenzione. Salvini, invece, ci va per portare il panettone agli agenti di custodia in quanto, a suo dire, sono martiri che devono confrontarsi con l’80% di immigrati… su questo, mi sembra che la differenza con la destra, anche da parte del M5S, sia netta. Per il prossimo anno, in tema di Giustizia, quali sono gli obiettivi che vi proponete? Per quanto riguarda la giustizia in generale, è necessario riformare al più presto sia il processo civile, in quanto è impossibile fare investimenti necessari al Paese se le cause civili durano un’infinità, sia il processo penale, rivedendo la norma sulla prescrizione e proseguendo con la proposta governativa che garantisce maggiore celerità e maggiore utilizzo dei riti alternativi. Sull’edilizia carceraria mi sono già espresso, ma voglio sottolineare che bisogna impegnarsi a migliorare le strutture esistenti e a implementare esperienze trattamentali virtuose, perché è dimostrato che riducono significativamente il tasso di recidiva e aiutano il reinserimento. È questa la più intelligente politica sul carcere e sulle pene, in quanto garantisce nel miglior modo possibile la sicurezza dei cittadini. Invece, chi utilizza lo slogan “buttare via la chiave” non fa un buon servizio alla sicurezza collettiva. Anzi, fa propaganda alimentando il senso di insicurezza e si pone al di fuori del dettato costituzionale. Se il carcere diventa esso stesso un generatore di violenza, non sta svolgendo il suo compito neanche in quanto a sicurezza dei cittadini. Sulla prescrizione il PD vuole lavorare, sebbene la riforma Bonafede sia già in vigore… Vi sono già alcune proposte di modifica, tra cui l’ipotesi che l’interruzione della prescrizione scatti, dopo il primo grado, soltanto in caso di verdetto di condanna e non anche di assoluzione. Dobbiamo ancora verificare gli effetti della riforma Bonafede, tuttavia credo che una buona riforma del processo penale che comporti una significativa diminuzione dei tempi del processo renda questo tema meno importante e meno drammatico. Ora la situazione è drammatica, lo riconosce anche Lei? Io penso che il fatto che i processi penali possano durare all’infinito e che le persone possano essere sottoposte sine die a un procedimento giudiziario, sia un problema molto serio. Possiamo dire che è il pegno che avete dovuto pagare per far nascere questo Governo? No, assolutamente no. Quella legge noi l’abbiamo trovata, non l’abbiamo votata, Anzi, a suo tempo abbiamo votato contro quella riforma proposta dal Governo giallo-verde. Nel momento del cambio di governo, abbiamo messo sul tavolo questa questione e stiamo andando avanti per far sì che venga modificata. Il fatto che i suoi effetti si verificheranno tra 3-4 anni ci garantisce un tempo adeguato per agire. Non abbiamo mai fatto mistero che quella legge non ci piace e che vogliamo cambiarla. Questa visione è condivisa anche da altre componenti della maggioranza (IV e LeU), per cui è necessario trovare un compromesso. Il coraggio di “Report” di affrontare il carcere senza inutili dietrologie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 gennaio 2021 Nel programma di Rai3 Report, condotto da Sigfrido Ranucci, Bernardo Iovene ha firmato un’inchiesta sull’universo penitenziario. George Orwell scrisse che “la vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire”. Ieri sera, il programma Report condotto da Sigfrido Ranucci l’ha messo in pratica grazie all’inchiesta firmata da Bernardo Iovene, giornalista storico della trasmissione di Rai3. L’argomento è scomodo, impopolare, divisivo e per questo la redazione di Report è stata coraggiosa: ha trattato il tema delle carceri italiane al tempo del Covid 19. Non da un punto di vista dietrologico, ma attraverso, fatti, dati e testimonianze raccolte girando tra le carceri italiane. Ed è Iovene ad introdurre il sevizio con la sua voce fuori campo, focalizzando subito il problema, ovvero sottolineando il fatto che “la polizia penitenziaria nell’ultimo anno è stata messa a dura prova. Durante le rivolte nel periodo del primo lockdown, le proteste hanno riguardato 21 carceri, ci sono stati 107 feriti tra gli agenti e 69 tra i detenuti, ci sono state anche 13 persone detenute morte, e danni ingenti alle strutture carcerarie per quasi 10 milioni di euro, e ci sarebbero stati purtroppo anche abusi: atti di violenza gratuita sui detenuti”. La circolare del Dap e la detenzione domiciliare per Covid - Tutti gli altri programmi televisivi, come per esempio Non è l’Arena di Massimo Giletti, sono rimasti indifferenti al dramma che la popolazione detenuta stava (e sta tuttora) vivendo con le sue, ancora poco chiare, 13 morti e presunte torture. Il tutto si stava concentrando con l’inasprimento della repressione, l’irrigidimento da parte della magistratura di sorveglianza nel concedere i benefici e il ritiro della famosa circolare del Dap. Ed è su quest’ultimo punto che il conduttore di Report, Ranucci, spiega quello che altri programmi televisivi non hanno avuto il coraggio di dire. Dopo aver ricordato che la circolare invitava i direttori dei penitenziari ad applicare una norma già esistente: “segnalate ai magistrati di sorveglianza quei detenuti già malati o affetti da patologie gravi, che avrebbero potuto rischiare la vita se contagiati in carcere. E valutate di mandarli agli arresti domiciliari”, ha evocato anche l’indignazione scaturita sulla detenzione domiciliare delle 376 persone di cui 3 boss mafiosi. Ma poi ha aggiunto: “La circolare è stata sospesa il 17 giugno. Questa circolare sembrava minare l’istituto del 41bis, in realtà lo avrebbe protetto. Lo Stato il pugno di ferro lo deve esercitare con i duri. Già il 41bis è ai limiti della violazione dei diritti umani, si regge solo in nome della tutela della sicurezza della collettività. Ma se uno è morente, anche se boss, cosa tuteli? Finisci con alimentare la voce di chi vorrebbe abolirlo”. Finalmente una inchiesta televisiva dove si pone seriamente la questione del 41bis che è al limite della nostra Costituzione. Se finora ha retto lo si deve a quei pochi magistrati di sorveglianza e alle sentenze della Cassazione che hanno ripristinato i diritti più elementari, togliendo quelle misure afflittive in più che lo stesso Falcone non aveva assolutamente contemplato. Ma il carcere duro, ricordiamolo, è a rischio se dovessero arrivare condanne più dure da parte della Corte Europea. Il paradosso è proprio questo: chi vuole misure afflittive in più, contribuisce al rischio della sua abolizione. Il boss morto per Covid nel carcere di Opera - Il giornalista di Report Iovene ha anche approfondito la vicenda del boss al 41bis del carcere di Opera morto per Covid 19. Ha ricordato che il nostro ordinamento prevede che, ove siano necessarie cure o accertamenti che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti penitenziari, i condannati andrebbero curati fuori dal carcere. Ed è quello che ha chiesto l’avvocato Paolo Di Fresco per il suo assistito al 41bis. Ma niente da fare. Istanze per la detenzione ospedaliera puntualmente rigettate, nonostante che il boss avesse contratto polmoniti interstiziali, fosse stato operato di tumore, con un intervento di aneurisma all’aorta e un’ischemia cardiaca. “Un quadro desolante - ha denunciato l’avvocato Di Fresco a Report - quindi c’erano tutti i presupposti affinché fosse mandato a casa proprio per preservarlo dal rischio di contagio. Mi è stato risposto che il virus nel carcere di Opera non può entrare e che anzi l’isolamento avrebbe consentito di tutelarlo maggiormente. Dopo una settimana dalla decisione del tribunale di sorveglianza di Milano mi è stato comunicato che aveva contratto il virus”. Viene quindi trasferito in ospedale in gravi condizioni. Subito dopo l’intervista - che risale al 2 dicembre -, l’avvocato contatta telefonicamente Iovene per annunciargli che il suo assistito è morto. Le rivolte e i presunti pestaggi - Ma tanti sono i temi scomodi che Report ha affrontato. Il focus principale è sui presunti pestaggi avvenuti in diverse carceri, a partire da quello di Santa Maria Capua Vetere. L’intervista è al garante regionale Samuele Ciambriello e a quello locale Pietro Ioia. Ma Bernardo Iovene pone domande anche Antonio Fullone, il provveditore della Campania che ha inviato la squadra di agenti penitenziari per fare la perquisizione al carcere dove sarebbe poi avvenuto il brutale pestaggio. “Quello che colpisce è il pestaggio a freddo che viene denunciato”, gli dice Iovene. “Se dovesse essere così è grave”, risponde Fullone. Tanti sono i presunti pestaggi e torture che Report rende pubblici per la prima volta in tv. Ma soprattutto affronta l’inquietante vicenda dei morti di Modena. Intervista per la prima volta un ex detenuto che avrebbe assistito ai fatti. Morti per overdose è la versione ufficiale, ma tante cose non tornano. A partire dal fatto che alcuni di loro, nonostante stessero male per aver ingerito grosse quantità di metadone e psicofarmaci, sarebbero stati picchiati. Non c’è alcuna prova che dietro le rivolte ci sia una regia occulta. Questo lo dice, con onestà intellettuale, anche Sigfrido Ranucci. Il dramma del sovraffollamento - Quello che però ha potuto constatare Report sono le pessime condizioni in cui versano le carceri italiane. “Gli animi li esasperano - ha detto il conduttore di Report introducendo il servizio su Poggioreale - e non sono certo quelle le condizioni ideali per favorire la rieducazione o la redenzione di chi ha sbagliato nella vita. Se è vero che l’80% di chi va in carcere poi ci ritorna, è inevitabile che al tempo del virus la situazione esplodesse”. Ed è proprio il sovraffollamento il primo problema che attanaglia le nostre carceri. Sommando anche l’emergenza Covid 19, la miscela è esplosiva. Le interviste al Garante e a Rita Bernardini - Per questo Report ha intervistato sia il Garante nazionale Mauro Palma, che ha il polso di tutta la situazione, sia Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino. L’intervista risale a quando l’esponente radicale era in sciopero della fame per chiedere misure deflattive più efficaci. Ma ad oggi nulla è cambiato come denuncia a Report anche Roberto Giachetti di Italia Viva, uno dei pochi parlamentari che si è battuto, purtroppo invano, per far introdurre almeno la liberazione anticipata speciale. Ieri la Rai ha trasmesso un servizio di inchiesta di alto livello giornalistico. Ha dato la possibilità, a un pubblico decisamente più vasto, di far conoscere un mondo nascosto e quasi impenetrabile. Non conoscendolo aumentano i luoghi comuni e c’è chi li cavalca assecondando i peggiori istinti. Ringraziamo Bernardo Iovene per aver parlato anche de Il Dubbio e in particolare di questa pagina che dedichiamo quotidianamente al carcere. Per la prima volta, in tv, abbiamo visto molti volti “amici”. Quelli che ogni giorno si battono per i diritti umani all’interno di quelle quattro mura. Tra i volti amici, anche quelli dei sindacati della polizia penitenziaria, perché anche loro hanno il diritto di essere ascoltati. Una bella inchiesta che, speriamo, abbia scosso anche le coscienze più retrive. Ci auguriamo che non finisca qui, perché c’è ancora tanto da dire. Vaccini al personale ma non ai reclusi? Basta con lo scempio di Errico Novi Il Dubbio, 19 gennaio 2021 Campagna partita solo per agenti e operatori: le vite dei detenuti sono “di scarto”? Appelli da agenti, Antigone e da Ardita. Il silenzio del governo suona come un’odiosa discriminazione. Al momento c’è una circolare. Datata mercoledì 13 gennaio, e firmata dai vertici del Dap. Avvia la campagna vaccinale nelle carceri. Con un dettaglio: riguarda solo il personale. Di detenuti non si parla. La domanda è: siete davvero convinti di aver fatto la cosa giusta? A suggerire il contrario sono gli appelli promossi a considerare i reclusi categoria protetta. Soprattutto, colpisce l’eterogenea provenienza, di quegli appelli. In Italia: c’è stata prima di tutto la dichiarazione, riportata su queste pagine giovedì scorso, del segretario di Uilpa Polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio: serve, ha detto “una campagna vaccinale che riguardi operatori e detenuti”, basata su “criteri di priorità da contemperare, sì, con le esigenze complessive del Paese, ma che tengano conto della promiscuità delle nostre carceri, fatte anche di sovraffollamento, carenze strutturali e deficienze organizzative”. Gli ha fatto seguito il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, con un intervento pubblicato domenica scorsa sul manifesto, in cui ha fatto presente ai forcaioli nostrani che Stati Uniti e Canada hanno ignorato le proteste e avviato da giorni, ormai, il piano vaccinale per i carcerati. “Il linguaggio del risentimento e della paura non deve avere posto in questa discussione”: così, riferisce il quotidiano comunista, ha tagliato corto il ministro della sicurezza canadese Bill Blair. Ma forse la testimonianza che più sorprende viene, di nuovo in Italia, da Sebastiano Ardita. Togato Csm, già direttore generale del Dap, Ardita è pm noto per le posizioni intransigenti in materia di benefici penitenziari, soprattutto quando si tratta di detenuti per mafia. Ebbene, intervistato da InBlu 2000, la radio della Cei, Ardita ha detto chiaro e tondo che “la vaccinazione ai detenuti è assolutamente una priorità: questa scelta va fatta subito senza il timore di andare contro l’opinione pubblica”. Ardita adduce due motivi, a suo giudizio buoni: “Primo, in carcere esiste un welfare rafforzato, un’azione sociale diversa da quella che riguarda i cittadini liberi. Secondo, è in corso nel Paese un dibattito secondo cui la carcerazione è una condizione che favorisce la diffusione del Covid”. Sul punto, secondo il consigliere Csm, non si è “ancora venuti a una certezza: ma non importa”, ha aggiunto, giacché ne sarebbero già conseguiti “provvedimenti che hanno consentito la concessione dei domiciliari anche in condizioni di pericolosità o pericolo di fuga”. E per Ardita, se l’ipotesi di una diffusione del covid più forte in carcere determina come “risposta” la “scarcerazione”, c’è da credere che “i cittadini preferiscano piuttosto di veder somministrati i vaccini in tempo ai detenuti”. Il discorso del magistrato non è condivisibile, ma non è il nodo della questione. Infastidisce l’idea che il governo, e il Dap, possano aver pensato di includere fra le categorie protette il personale ma non i detenuti per timore di insurrezioni nell’opinione pubblica. Sarebbe gravissimo. Anche perché non regge la logica secondo cui il personale viene prima perché fa la spola quotidiana fra carcere e mondo esterno, col rischio dunque di portare il virus fra gli stessi reclusi. Vogliamo credere che la priorità assicurata agli operatori risponda a tale logica e non certo all’idea che quelle dei carcerati sono vite di scarto. Ma per allontanare ogni sospetto di discriminazione inumana servirebbe un’altra garanzia: tutti i detenuti nuovi giunti, dopo il filtro nei padiglioni, andrebbero tenuti in isolamento per il tempo necessario a escludere davvero la loro positività. Un’utopia, visti gli spazi ridottissimi. E allora, considerato che i contagiati nelle carceri viaggiano al galoppo verso quota duemila, con equa ripartizione fra personale e detenuti, la sola azione seria e è estendere subito la campagna vaccinale all’intera popolazione carceraria. Ed evitare così un’odiosissima e disumana discriminazione fra le comunità umane che vivono nelle prigioni. Una discriminazione che non potrebbe essere perdonata. Disfunzioni del sistema giudiziario e responsabilità del giudice di Ferdinando Esposito L’Opinione, 19 gennaio 2021 Nonostante una certa stampa abbia insistito molto per far passare il messaggio secondo cui la vicenda che ha riguardato Luca Palamara sia stato il punto più basso toccato dalla magistratura italiana nella sua storia, in realtà, le cose non stanno affatto in questi termini, perché il fondo era già stato toccato da tempo per le numerose disfunzioni evidenziate da un sistema in cui crede ormai soltanto il 20 per cento degli italiani. Non è nostra intenzione ridimensionare la vicenda che ha portato alla recente rimozione di Luca Palamara - peraltro, ancora non esecutiva finché non si sarà espresso in merito il giudice disciplinare di secondo grado che potrebbe anche ribaltare la dura decisione della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura (Csm) - perché ciò che è accaduto quella famosa sera, in un albergo di Roma, dove si è parlato di fatti consiliari “extra moenia”, è oggettivamente grave, altrimenti non avrebbe campeggiato sulle prime pagine di tutti i quotidiani nazionali per quasi due mesi. Infatti, oltre ad aver travolto una delle figure di magistrato più influenti dell’ultimo decennio, Luca Palamara, ha indotto alle dimissioni ben sei componenti dell’attuale Csm, nonché il Procuratore generale della Corte di cassazione dell’epoca, Riccardo Fuzio, ed il presidente dell’Anm (Associazione nazionale magistrati) dell’epoca, il giudice Pasquale Grasso. Quindi, di sicuro, non si è trattato di una vicenda montata ad arte da una testata giornalistica per interessi editoriali di parte, come in questo Paese capita, purtroppo, non di rado, ma è stata proprio una delle peggiori figure che la magistratura italiana abbia mai riportato nel corso della sua plurisecolare storia. Tuttavia, bisogna anche aggiungere che sono almeno trent’anni che l’ordine giudiziario rimedia figure non degne e per questo nel Paese si è largamente diffusa la percezione che abbia abdicato al ruolo di garanzia per i cittadini, vittime due volte perché contribuenti ed utenti di un servizio che spesso non funziona e che sovente li persegue ingiustamente. Questo aspetto, meno mediatico, è molto più grave della riunione notturna che ha campeggiato per mesi su tutti i media, la cui risonanza è stata amplificata anche dalla pubblicazione della chat telefonica di Palamara che ha impietosamente evidenziato gli eccessi delle arcinote degenerazioni del sistema delle correnti interne all’Anm. Ma questa non è una grossa novità visto che il primo a subire le conseguenze negative di questa degenerazione fu Giovanni Falcone quando il Csm, nel 1987, gli preferì un magistrato individuato proprio dalle correnti per sostituire il suo grande compianto amico Nino Caponnetto alla guida dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Ma il Csm diede il meglio di sé nel febbraio del 1992 quando doveva nominare Falcone al vertice della Direzione nazionale antimafia, nata proprio da un’idea di Giovanni Falcone. Nonostante ci fossero solo tre magistrati in lizza, il Csm preferì con 3 voti a 2 il suo concorrente Agostino Cordova rinfacciandogli la “colpa” di voler guidare la creatura di sua invenzione, cioè, proprio quella Direzione distrettuale antimafia che, grazie a Giovanni Falcone, si è rivelata l’arma vincente che ha inflitto colpi durissimi a Cosa Nostra, nonostante qualche scettico di Magistratura democratica l’avesse definita una “ferraglia”. Una “ferraglia” che però scaturiva dall’esperienza acquisita durante il maxi processo a Cosa Nostra che gli è costato la vita. Non a caso, i tre voti a favore di Agostino Cordova, magistrato non di sinistra, provenivano da 3 consiglieri del Csm rigorosamente di sinistra, due togati (Alfonso Amatucci e Gianfranco Viglietta) ed un laico del Partito Democratico della Sinistra (Franco Coccia). Ma prima che la sua bocciatura divenisse ufficiale, ci pensò direttamente la mafia a togliere dall’imbarazzo il Csm uccidendo Giovanni Falcone nel maggio del 1992. Deceduto Falcone, qualcuno aveva pensato bene di candidare Paolo Borsellino alla guida della super Procura, ma, anche in questo caso ci fu un tentativo di sbarrargli la strada all’interno del Csm ed anche in questo caso ci pensò nuovamente la mafia a togliere dall’imbarazzo il Csm uccidendo, nel luglio del 1992, anche quest’altro grandissimo magistrato. Quindi, questo era il Csm delle correnti 30 anni fa e tale è rimasto ai nostri giorni. Infatti, la vicenda “Palamara” è in linea con tutto questo, ma oggigiorno i problemi da risolvere sono altri, in quanto la degenerazione correntizia è strettamente connaturata alle bramosie di potere, alle meschinità, alle invidie ed alle gelosie che sono caratteristiche imperiture dell’animo umano rispetto alle quali non è possibile intervenire per legge. Mentre forse si può, anzi, si deve intervenire sulle cause che hanno ridotto la giustizia nelle condizioni in cui si trova e che non hanno nulla a che vedere con il tema delle correnti, perché i fattori di progressiva degenerazione che hanno portato la giustizia italiana, in particolare, quella penale, a diventare un inaffidabile “mostro a tre teste” sono molteplici ed affondano le loro radici nella indubbia peculiarità del nostro sistema giudiziario e nell’altrettanto indubbia peculiarità che caratterizza la testa e la cultura di base dei magistrati. La vicenda che ha riguardato il collega Luca Palamara ha fatto, in qualche modo, da spartiacque perché è intervenuto perfino il presidente della Repubblica, Sergio Matterella, per richiamare all’ordine il Csm, in qualità di suo presidente, per la clandestinità della riunione notturna, apostrofata, dai media, sullo stile dei “moti carbonari di Napoli del 1820”. Ed è intervenuto anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ha subito presentato in Parlamento un disegno di legge di riforma del sistema elettorale del Csm mediante sorteggio, che non sarà mai approvato, ma che merita apprezzamento almeno per la veloce risposta istituzionale fornita dal ministro. Tuttavia, come detto, bisogna secernere tra lo scandalo mediatico seguito alla scoperta della riunione notturna, rispetto ai danni, ben più gravi, che la magistratura arreca sempre più spesso con provvedimenti giudiziari che hanno rovinato la vita ormai a troppe persone innocenti ed è su questo che il legislatore deve intervenire rapidamente in quanto l’errore giudiziario non rappresenta più un caso isolato come un tempo, ma sono sempre più diffusi gli episodi che hanno reso meno certa ed affidabile la pretesa punitiva statale. Quindi, il sistema non è di sicuro diventato un “mostro” per colpa di Luca Palamara, poiché fuori controllo già da anni e ciò è accaduto per varie ragioni tra le quali va messa al primo posto l’introduzione del nuovo codice di procedura penale voluto, nel 1989, dal ministro della Giustizia dell’epoca, Giuliano Vassalli e materialmente scritto dalla commissione ministeriale presieduta dall’avvocato Gian Domenico Pisapia. Tale riforma ha introdotto il cosiddetto processo all’americana, segnando il “de profundis” del sistema giudiziario penale perché - nel lodevole tentativo di evitare il ripetersi di gravi errori giudiziari come l’arresto del noto presentatore Rai, Enzo Tortora - ha finito con il consegnare, involontariamente, l’Italia in mano ai pm. Non a caso, il nuovo codice è entrato in vigore nel novembre del 1989 ed il primo “grosso colpo”, per così dire, del nuovo codice, cioè, dei pm nelle cui mani l’Italia è stata consegnata, è stato il processo “Mani pulite” aperto nel febbraio del 1992 dalla Procura di Milano che, se da un lato ha avuto l’indiscutibile merito di scoprire la dilagante corruzione politica che regnava indisturbata nel Paese, dall’altro, ha anche fatto emergere, da subito, falle strutturali del processo pericolose per i cittadini, anche perché tappate da interventi normativi disarmonici che ne hanno progressivamente stravolto l’impianto. Un errore imperdonabile è stata la soppressione della figura del giudice istruttore, perché è mancata la garanzia di controllo proprio sull’operato del pm, non recuperata dalle figure processuali istituite dal nuovo codice. Da questo punto di vista, il legislatore del 1989 ha gravi colpe perché “scimmiottare” gli americani nel settore giuridico è un controsenso assoluto, visto che la culla del diritto è notoriamente l’Italia e non gli Stati Uniti d’America, che magari hanno altro da insegnare. Un’altra causa che ha ridotto il sistema giudiziario al collasso è l’assenza di una responsabilità diretta del magistrato nel “merito” delle proprie valutazioni giudiziarie. È questo il vulnus che ha permesso, in alcuni casi, un uso strumentale della giustizia penale, poiché il giudice non è mai direttamente responsabile delle determinazioni assunte all’interno del perimetro del provvedimento giudiziario. Ma la legge, in origine, aveva correttamente previsto tale “irresponsabilità” a presidio del principio costituzionale di autonomia ed indipendenza dalla magistratura da ogni altro potere e si trattò di una decisione saggia e condivisibile quando la magistratura sbagliava raramente perché il contenuto del provvedimento giudiziario si accompagnava, solitamente, ad una presunzione assoluta di affidabilità, cioè, era molto raro che il giudice sbagliasse nel merito della valutazione degli elementi di prova travisando i fatti processuali. In questo quadro, l’”irresponsabilità” era legittima, anche perché bilanciata dalla possibilità, per i cittadini colpititi da provvedimenti ingiusti, di far valere le proprie ragioni esclusivamente nei successivi gradi di giudizio, in quanto alle corti di secondo grado vengono solitamente applicati giudici con maggiore esperienza e stesso discorso vale per la Corte di Cassazione, l’unico giudice di terzo grado in cui, di regola, vengono applicati magistrati con anzianità superiore ai giudici d’Appello. L’impianto disegnato in questo modo quasi un secolo fa è miseramente fallito e ne hanno fatto le spese troppe persone innocenti perché, medio tempore, la mancanza di una responsabilità diretta ha permesso a qualche magistrato di potersi “sbizzarrire” nel perimetro del provvedimento ben sapendo che un eventuale “sconfinamento” non può mai essere fonte di responsabilità diretta, civile, penale o disciplinare. Questo vulnus, portato ad estreme conseguenze solo da quella parte più ideologizzata, ha comportato che i giudici, in qualche caso estremo, abbiano perso di imparzialità nei loro provvedimenti disattendendo gli elementi di prova acquisiti agli atti ben sapendo che questo tipo di forzatura comporta la più totale irresponsabilità, in quanto il cittadino si può, al massimo, rivalere nei confronti del ministero e non già nei confronti del magistrato che fa salva tasca e carriera. Quindi, oltre a discettare sulla degenerazione delle correnti dell’Anm, il legislatore dovrebbe anche introdurre riforme che contemplino una responsabilità del giudice che garantisca maggiormente i cittadini dal rischio di essere vittime di ingiustizie, perché l’attuale sistema giudiziario è funzionale ad una magistratura che non esiste più. E la responsabilità deve avere anche un rilievo penale introducendo nel codice - nel rispetto dei principi di tipicità, di tassatività, di sufficiente determinatezza e di irretroattività delle fattispecie - l’ipotesi di reato che punisca direttamente l’abuso del magistrato quando sia comprovato un diniego di giustizia. Ciò eliminerebbe margini valutativi che hanno prestato il fianco ad abusi processuali mediante la forzatura nella valutazione degli elementi di prova a carico che hanno rovinato la vita a troppe persone innocenti come avvenuto troppo spesso nell’ultimo trentennio. In questo modo, alcuni giudici la smetterebbero di fare “politica”, in quanto il provvedimento giudiziario sarebbe fonte di responsabilità diretta, in casi tassativamente previsti dalla legge. E, contrariamente a qualunque strumentalizzazione di sorta, la giustizia non subirebbe alcuna paralisi perché questa dovrebbe essere sempre la regola, cioè, che le sentenze e gli altri provvedimenti giudiziari rispondano sempre al contenuto delle acquisizioni, perché anche questo è il significato della scritta “La legge è uguale per tutti” presente nelle aule di giustizia che il giudice ha alle proprie spalle quando, in nome del popolo italiano, legge, in piedi, il dispositivo di sentenza, sia esso di condanna o di assoluzione. La giustizia, per essere la cosa seria che pretende di essere, deve rovinare meno vite umane, tuttavia, il numero di errori giudiziari che la cronaca registra è in costante e preoccupante crescita, secondo dati del ministero della Giustizia desumibili dall’enorme numero di domande per ingiusta detenzione presentate negli ultimi anni. Ed una certa sfiducia del legislatore nei confronti del potere giudiziario è confermata dal fatto che, nel 2017, è stato introdotto, nel processo penale, un quarto grado di giudizio per errore di fatto, impensabile fino a qualche anno fa nei confronti di quelle che, una volta, erano le insindacabili valutazioni della Corte di Cassazione. Nella stessa direzione si pone anche la legge di riforma del 2015 che ha esteso la responsabilità civile dei magistrati proprio in caso di comprovato travisamento dei fatti e che ha sancito un significativo passo in avanti, ma, avendo mantenuto il sistema della responsabilità indiretta, non ha risolto molto, mentre solo la responsabilità diretta, penale, civile e disciplinare, tipizzata e sufficientemente determinata, è in condizioni di impedire strumentalizzazioni “politiche” di sorta. Ma sul tema magmatico della “giustizia politica”, la “sfiducia” nei confronti del potere decisionale dei giudici ha radici lontane, perché già nel 400 (avanti Cristo), nell’Apologia di Socrate, Platone stigmatizzò il processo al suo maestro da parte degli ateniesi che lo condannarono a morte per le idee che professava e, quindi, senza alcuna colpa, perché, secondo Platone, si trattava di un “processo politico” per perseguire un reato d’opinione “senza che Socrate avesse mai incitato alla violenza”, in una società, come quella greca, che si proponeva al mondo occidentale come faro di civiltà e democrazia. La storia dovrebbe essere maestra di vita, eppure sono passati quasi 2500 anni e non sembra che abbiamo imparato granché. Ai magistrati dico: il Csm non è proprietà dell’Anm di Alessio Lanzi* Il Dubbio, 19 gennaio 2021 O rendiamo legittime le correnti oppure, per sconfiggere il loro peso, rendiamo segreto il voto in Plenum. Sono quasi due anni che sentiamo insistentemente parlare di crisi della magistratura, di perdita di credibilità del CSM, di caduta dei consensi relativi all’amministrazione della giustizia, etc. Dal mio angolo visuale, quale componente laico del CSM, ritengo di avere una visione concreta e adeguata di quanto accade e di quanto è accaduto. Indubbiamente la situazione è, e continua ad essere, di “emergenza”. L’analisi e l’utilizzo di tutte le intercettazioni (chat comprese) di Palamara, sta determinando un’alluvione di indicazioni che riguardano moltissimi magistrati e, conseguentemente, un gran numero di procedimenti per “incompatibilità ambientale”, relativamente ai quali si discute animatamente se si sia effettivamente realizzato - per i magistrati coinvolti - il risultato di una perdita di indipendenza e imparzialità nell’esercizio delle loro funzioni. Ma, a parte i procedimenti in corso, il punto centrale è, e deve essere, quello di cercare i rimedi per uscire dalle aberrazioni che si sono realizzate. In tale prospettiva il tema più caldo è quello delle correnti, delle quali si continua a dire che se ne debba fare a meno; cercando di superarle e addossando così loro tutto il male e la responsabilità di ciò che sta accadendo. A questo punto bisogna dunque, realisticamente, fare un discorso concreto. È umano, è assolutamente non superabile, il dato che vi siano delle affinità culturali e ideologiche delle persone. Se mettiamo in un ambiente ristretto anche solo venti persone, dopo un’ora esse si aggregheranno secondo dei comuni sentimenti che hanno e che sono in contrasto con quelli degli altri. È pertanto ovvio che esista un’aggregazione di individui, nel caso i magistrati, che si realizza sulla base di opinioni culturali e di derivazioni ideologiche comuni. Una tale realtà si misura, poi, col tema delle elezioni, che hanno luogo a seguito di vere e proprie campagne elettorali e che vedono come protagonisti quelle aggregazioni. In tal modo si crea un senso di rappresentatività del gruppo. Ciò è ineliminabile, è assolutamente fisiologico al sistema elettorale. Quindi, i togati che vanno al CSM si sentono, giustamente, i rappresentanti di quella aggregazione culturale che li ha fatti votare e che ha consentito loro di sedere al CSM con tutti i benefici che ne derivano. Questa è la realtà. Di fronte ad essa è poi “naturale” che quando si vanno a prendere delle decisioni si fa riferimento a tale dato di partenza. Io credo che non sia possibile pretendere che il tema sia superato, se, alla base c’è questa situazione di fatto e di diritto: gli eletti si sentono i rappresentanti di una corrente, il che genera le storture che abbiamo visto, nate proprio in un terreno fertile per realizzare le aberrazioni cui abbiamo assistito. A questo punto cosa fare? I tentativi sul tappeto e la riforma in cantiere sarebbero nel senso di eliminare le correnti; ma questo è impossibile, finché vi saranno delle aggregazioni culturali costituite in correnti e delle elezioni da queste gestite. Pertanto i casi sono due: o si istituzionalizza senza infingimenti, senza ipocrisie, il sistema delle correnti, e allora, come spesso si dice, il CSM diviene a tutti gli effetti una sorta di “parlamentino”; ma questo probabilmente è contro il sistema e l’assetto costituzionale vigente. Oppure si supera realmente il problema delle correnti. Io ritengo che a tal fine una possibile soluzione potrebbe essere quella di inserire in qualche modo - per i magistrati designati - l’istituto del sorteggio, perché a questo punto la corrente può essere superata; viene superata dall’alea, dalla sorte e si può così assistere a dei risultati elettorali assolutamente diversi da quelli che erano i desiderata delle stesse correnti. Se c’è il sorteggio, viene meno anche il cordone ombelicale della necessaria rappresentatività; perché, in fin dei conti, la corrente mi ha fatto votare ma poi, dopo, è stata l’alea che mi ha consentito di entrare al CSM. Infatti, non a caso, molti magistrati sarebbero favorevoli al sorteggio. Un’altra possibile, quanto drastica, soluzione, dovrebbe essere quella di prevedere (per regolamento interno) che la votazione per il conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi sia segreta e non palese, così come oggi invece avviene. In tal modo, nel segreto dell’urna, il singolo magistrato si sentirebbe libero di operare una propria scelta, autonoma da quella della corrente di appartenenza (oggi, infatti, praticamente sempre, fatta salva l’indipendenza di taluno, gli eletti di una stessa corrente votano sempre allo stesso modo). Inoltre, e questo è un altro tema interessante, bisogna distinguere fra ANM e CSM, perché il rischio è quello che si abbia l’idea che il CSM non sia altro che una emanazione dell’ANM. Ma non deve essere così, perché l’organo di autogoverno è istituito soprattutto a beneficio della collettività e della società civile. Questo è un altro aspetto che va considerato: le regole dell’autonomia, dell’autogoverno, dell’indipendenza, sono dei benefici che riguardano il singolo magistrato, ma solo contingentemente; essi sono, in realtà, tutti beni strumentali al fine ultimo, che è quello della corretta amministrazione della giustizia. È la società civile che deve concretamente beneficiare di queste prerogative di autonomia della magistratura, e allora bisogna chiaramente uscire dall’interferenza e coincidenza fra l’organo sindacale e corporativo, rappresentativo della magistratura, e l’organo che viceversa assicura l’indipendenza e l’autonomia della stessa nella prospettiva del bene della società. Ancora una volta, dunque, va sottolineato che il tema delle elezioni e delle correnti non esaurisce la questione, perché è fondamentale il ruolo della componente laica eletta dal Parlamento; in quanto la differenza sostanziale fra l’ANM e il CSM è rappresentata proprio dalla componente laica. Si tratta di due grandezze che se si sovrappongono individuano fra loro un “elemento specializzante” (per usare un linguaggio tecnico-giuridico), costituito proprio dalla componente laica. Questo fa in modo che il CSM non sia la fotocopia dell’ANM. E qui si inserisce il tema della politicizzazione dei rappresentanti laici, in quanto li elegge il Parlamento. Ma va considerato che ci troviamo in una società diversificata e complessa, in cui il Parlamento, nel bene e nel male, rappresenta la società civile. In tale prospettiva, se la componente laica è quella che deve dare il corretto assetto al CSM, è indispensabile che essa venga eletta dalla società civile. Ma non si può pretendere di realizzare delle elezioni nazionali anche per i componenti laici del Consiglio. Nell’attuale sistema dunque la componente laica - attraverso il Parlamento - è indirettamente nominata dalla società civile; questa è la garanzia che la collettività ha: avere una magistratura che non coincide con l’esercizio di un potere corporativo. A questo punto il problema è sulle persone scelte ed elette. Il Parlamento, come risulta anche dai lavori preparatori della Costituente, dovrebbe guardare alle personalità che vengono nominate; i laici sono scelti fra professori ordinari di materie giuridiche e avvocati di esperienza, perché è fondamentale avere una competenza e conoscenza delle questioni dell’ amministrazione della giustizia; ma al tempo stesso è fondamentale che siano professori e avvocati (è difficile dire indipendenti, perché poi nessuno è indipendente fino in fondo, perché culturalmente tutti abbiamo dei condizionamenti) che abbiano una personalità di studioso e di professionista che consenta loro una autonomia intellettuale nei confronti di chi li ha scelti. Ma il problema torna, ed è quello dei politici, che sono magari anche professori universitari o, il più delle volte, avvocati, ma che, per militanza politica di provenienza, di regola (salvo lodevoli eccezioni) non hanno e non possono avere una tale autonomia. Questo è il punto, il famoso fenomeno delle “porte girevoli” che la riforma in cantiere sembrava volesse impedire e che adesso, invece, sembra essersi limitata a disciplinare in modo molto più modesto e parziale. Un’ultima considerazione: io credo che sarebbe opportuno allargare i numeri dei componenti del CSM; se non altro per assicurare un buon funzionamento della sezione disciplinare che è appunto composta, allo stato, da quasi tutti i consiglieri. Attualmente, nell’”emergenza”, essa assorbe talmente tanto le attività del Consiglio, che condiziona negativamente il corretto esercizio dell’amministrazione ordinaria. Nell’ultimo periodo molte riunioni di commissione spesso saltano perché si dovrebbero svolgere in concomitanza con la sezione disciplinare che assorbe il lavoro di molti dei consiglieri. A questo punto è evidente la necessità che la sezione disciplinare sia del tutto sganciata dalle commissioni e con un numero di consiglieri tale da non condizionare l’attività ordinaria del Consiglio; evitandosi anche, così, che si creino incompatibilità più o meno manifeste. *Consigliere laico del Csm E il presidente del Tribunale disse: da remoto udienze impossibili di Simona Musco Il Dubbio, 19 gennaio 2021 Cambio di rotta alla sezione Sorveglianza di Trento: “Difficoltà tecniche, linee intasate, interferenze e scarsa dimestichezza con Teams: necessario tornare in aula”. “Difficoltà tecniche dovute sia ai problemi di connessione legati a sovraccarico delle linee e alle interferenze della strumentazione che alla frequente scarsa dimestichezza con lo strumento informatico”. L’oggetto della critica è ormai noto a tutto il mondo della giustizia: Microsoft Teams, la piattaforma utilizzata da tutti i tribunali d’Italia per svolgere le udienze da remoto. A scrivere queste parole in un documento ufficiale non è però un esponente del mondo dell’avvocatura, la quale, in questi mesi, ha fortemente criticato la smaterializzazione del processo e la perdita della sua fisicità. A mettere nero su bianco le difficoltà vissute nelle aule di giustizia è il presidente del tribunale di Sorveglianza di Trento, Lorenza Omarchi, che ha certificato l’inidoneità del sistema a fronte delle esigenze di giustizia. Il documento in questione è un ordine di servizio datato 15 gennaio, due semplici pagine che però rafforzano i dubbi espressi per mesi dall’avvocatura, prendendo le mosse dalla proroga delle norme emergenziali. Proroga che, per avvocati, magistrati, giudici e personale di cancelleria significa meno presenze in aula e più lavoro da remoto, con tutto ciò che ne consegue per le garanzie di difesa. Tali norme implicano che “la partecipazione a qualsiasi udienza delle persone detenute, internate, in stato di custodia cautelare, fermate o arrestate, è assicurata, ove possibile, mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del ministero della Giustizia”. Le udienze penali che non richiedono la partecipazione di soggetti diversi dal pubblico ministero, dalle parti private, dai rispettivi difensori e dagli ausiliari del giudice possono dunque essere tenute mediante collegamenti da remoto sfruttando, appunto, la piattaforma Microsoft Teams. Ma il giudice Omarchi evidenzia qualcosa di molto significativo: già la scorsa primavera, si legge nell’ordine di servizio, la partecipazione delle parti tramite video collegamento da remoto ha evidenziato difficoltà tecniche, così come anche in tempi più recenti, quando “si sono ripetute le difficoltà tecniche di collegamento imputabili sia alla linea Rug (Rete unica della giustizia, ndr) in uso negli uffici giudiziari che al sovraccarico della stessa”. Problemi di connessione che, soprattutto nel corso delle ultime due sedute collegiali, hanno reso necessaria la ripetuta sospensione dell’udienza, fino alla totale rinuncia di proseguire da remoto, costringendo, dunque, gli esperti del tribunale di Sorveglianza a raggiungere con urgenza l’aula d’udienza di fatto per tenerla dal vivo, con regolare costituzione del collegio. Da qui la necessità di ridurre al minimo non le udienze in presenza, così come la normativa emergenziale vorrebbe, bensì quelle da remoto, forti anche del potenziamento delle misure di protezione per ridurre il rischio di infezione, ovvero la disinfezione delle postazioni dopo la trattazione di ogni procedimento, mascherine, schermi in plexiglas, scaglionamento dei procedimenti, video collegamento da remoto per i detenuti, diversa modalità di accesso all’aula da parte dei difensori e loro assistiti, “aumentando il numero di schermi divisori e provvedendo ad un ulteriore distanziamento delle postazioni riservate alle parti processuali”. Al tribunale di Sorveglianza di Trento, dunque, si cambia musica: fermo restando l’obbligatoria partecipazione da remoto per i condannati in stato di detenzione (sempre che l’istituto di pena sia effettivamente in grado di garantire il collegamento), fino al 30 aprile prossimo, recita l’ordine di servizio, le altre udienze si svolgeranno con la presenza di presidente, magistrato di sorveglianza, esperti, pm, difensori di fiducia e d’ufficio e assistiti, con orari di chiamata “opportunamente scaglionati” per evitare assembramenti. E solo in caso di necessità - e con il giusto preavviso - sarà possibile partecipare da remoto tramite Teams, con la presenza, nello stesso luogo, di difensore e assistito. I difensori dei condannati potranno decidere sia di partecipare in aula o tramite video-collegamento in carcere, vicino al proprio assistito. Insomma, un tentativo di tornare alla normalità (e di salvare il processo dalle storture dovute alla pandemia) che parte dal basso, da chi le aule le pratica ogni giorno. D’altronde, il giudizio dell’avvocatura, specie i penalisti, è chiaro: il processo penale è incompatibile con una dimensione che non sia quella fisica. L’oralità è il punto di contatto tra il giudice e la fonte di prova, “così da poter percepire direttamente egli stesso elementi irripetibili e non riproducibili in un verbale o in una trascrizione e che non potranno essere colti tramite un collegamento via etere da remoto, quali il tono della voce, il contegno tenuto, le eventuali incertezze o esitazioni, tutti elementi necessari e imprescindibili per vagliare la credibilità del dichiarante e, quindi, per accertare correttamente il fatto e giungere ad un equo giudizio”, si legge in un documento della Commissione linguistica giudiziaria della Camera penale di Roma. E non si tratta di un principio astratto: anche la Corte di Strasburgo riconosce e garantisce il principio di oralità e immediatezza “in quanto espressione del diritto dell’equo processo”, affermando che “coloro che hanno la responsabilità di decidere sulla colpevolezza o l’innocenza degli accusati devono in linea di principio essere in grado di sentire i testimoni e di valutare la loro attendibilità in prima persona. La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che di solito non può essere soddisfatto da una semplice lettura delle sue dichiarazioni”. Insomma: la compresenza nel medesimo luogo fisico, per la Cedu, è fondamentale affinché possa parlarsi di giusto processo. “L’attesa infinita e inutile per un’udienza online: libertà appesa a una Pec” di Simona Musco Il Dubbio, 19 gennaio 2021 “La cosa assurda sa qual è? Che si fa dipendere il diritto alla libertà delle persone dalla ricezione o meno di una pec. È una cosa di una gravità inaudita”. Pierpaolo Montalto si sfoga, a stento trattiene la rabbia. Cerca di raccogliere le parole e i pensieri per raccontare una storia che sembra illogica, pericolosissima per i suoi risvolti. Per lui, penalista con una lunga carriera alle spalle, la pandemia si sta rivelando il più tragico degli spettacoli allestiti sul palcoscenico della giustizia. Perché ha vissuto sulla propria pelle quelle storture che a tanti, in questi mesi, hanno fatto venire l’amaro in bocca. Fino all’epilogo, assurdo, di una decisione sulla libertà di un detenuto, peraltro in gravissime condizioni di salute, presa in assenza del suo difensore, perché mentre l’udienza era in corso lui è rimasto appeso per ore, inutilmente, davanti ad uno schermo. La storia farebbe ridere, se di mezzo non ci fosse capitato un uomo che si è visto rigettare la richiesta di detenzione domiciliare, avanzata a causa del suo stato di salute. Possibilità negata, bypassando completamente il diritto imprescindibile alla difesa. Montalto, avvocato del foro di Catania, giovedì scorso avrebbe dovuto tenere udienza in un luogo molto distante dalla sua Sicilia. Ha chiesto, dunque, di potersi collegare da remoto, così come previsto dalle norme emergenziali. “Ho presentato richiesta via pec, così come mi era stato indicato, lasciando il mio numero di telefono per essere contattato, acconsentendo a tutto ciò cui dovevo acconsentire - racconta al Dubbio. Mi era stato detto che sarei stato chiamato in mattinata per avviare la videoconferenza. Ma nonostante l’udienza fosse fissata per le 9.30, non ho ricevuto alcuna chiamata, rimanendo lì in attesa per tre ore”. Ma non solo: l’avvocato ha provato a contattare la cancelleria, trovando, però, soltanto il silenzio dall’altra parte: telefono staccato. Nelle ore d’attesa ha pubblicato una foto sul suo profilo Facebook, che lo ritraeva con tanto di mascherina mentre, in studio, attendeva il collegamento. “Appena la inizia la riunione avviseremo gli utenti che sei in attesa”, recitava una scritta in bianco sopra la sua immagine. E quel messaggio non è mai cambiato: il collegamento non c’è mai stato. “Voglio fare una precisazione: credo che non sia un problema delle lavoratrici e dei lavoratori delle cancellerie, né dei giudici. Anzi, a loro va tutta la mia solidarietà: stanno vivendo i nostri stessi disagi. Vedo cancellieri e giudici lavorare in condizioni incredibili e inaccettabili. Il problema è l’impianto complessivo di un intervento per la giustizia che, in realtà, non c’è mai stato - racconta ancora -. Siamo in balia delle scelte più allucinanti. E affidare il nostro lavoro agli strumenti tecnologici è pressoché impossibile, perché non abbiamo spesso elementi di riscontro: l’oralità del processo è difficilmente superabile”. Tutti personale, magistrati, avvocati - si trovano, dunque, sulla stessa barca per Montalto. Che ricorda gli uffici giudiziari drammaticamente sotto organico, così come le cancellerie, “e una politica che non ha alcuna contezza di quello che accade in tribunale, come si vede da certe scelte e certi provvedimenti assolutamente indicibili”. In questo quadro, gli avvocati sono esposti a qualsiasi cosa. E prova ne è il tribunale di Catania, che in tempo di pandemia ha visto la vita degli operatori della giustizia a rischio, con la perdita di tante vite e una situazione strutturale assolutamente incompatibile con le esigenze di sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori. “Il carico del nostro lavoro è enorme e andavano date delle direttive nazionali che consentissero di espletare tutte le cose non rinviabili e far lavorare noi in condizioni civili - continua Montalto -. Sono stato tre ore della mia vita ad aspettare di avere notizie da un tribunale della Repubblica italiana. E non riesco a capacitarmene”. L’udienza si è conclusa con l’intervento di un avvocato d’ufficio presente in tribunale per garantire i diritti del detenuto. Che, però, non ha potuto usufruire di una difesa informata e consapevole delle questioni in gioco. “Nessuno mi ha contattato, nessuno mi ha chiamato ed io sono rimasto con la richiesta di discussione in attesa per non so quanto tempo continua. Andava garantito il deposito cartaceo e la presenza in udienza, ovviamente garantendo la sicurezza di tutti i presenti, o andava rinviato tutto ciò che non era possibile espletare. La categoria degli avvocati è stata la più colpita, perché si è affermato che la difesa dell’imputato e la presenza dell’avvocato sono orpelli inutili, così come l’oralità del processo che insieme alla necessaria presenza delle parti nella formazione della prova sono i principi che rappresentano l’essenza più vera e profonda del processo penale”. Mafia: la sentenza Borsellino Quater smonta la versione Rai. E ora? di Piero Sansonetti e Leonardo Berneri Il Riformista, 19 gennaio 2021 I giudici non hanno dubbi. Borsellino fu ucciso dalla mafia (e non la “Spectre”) per vendetta e per impedire che andasse avanti nelle sue indagini e che mettesse le mani sul dossier mafia-appalti. Sono state depositate le motivazioni della sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Caltanissetta a conclusione del processo che si chiama “Borsellino Quater”. Dicono parecchie cose interessanti. Quattro sono le più importanti. La prima è che Borsellino non fu ucciso perché stava indagando sulla trattativa Stato-mafia. La seconda è che Borsellino è stato invece ucciso in parte per vendetta in parte per fermare alcune sue indagini. Quali? La più pericolosa probabilmente era quella che riguardava il dossier mafia-appalti, costruito da Falcone e dal colonnello Mori, e che fino a pochi giorni dalla sua morte fu tenuto lontano da Borsellino (e poi archiviato, clamorosamente, dopo la sua eliminazione). La terza cosa che dice la sentenza è che Cosa Nostra è una entità autonoma, che non risponde ad altri poteri, anche se è molto influenzata soprattutto dai poteri economici. Infine, la quarta cosa che dice (collegata alle prime tre) è che a Borsellino, nella Procura di Palermo, facevano la guerra, probabilmente anche per il dossier mafia-appalti, e che la mafia era molto preoccupata del suo ritorno a Palermo dopo l’esilio a Trapani e Agrigento. Ora questa sentenza pone alcuni problemi. Il primo riguarda il processo che è in corso alla Corte d’appello di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. Con questa, sono nove le sentenze che smantellano la tesi su cui è costruito quel processo. E nove sono davvero tante. Può la giustizia continuare a testa bassa a fantasticare su una tesi che ormai la magistratura italiana ha dichiarato infondata? La seconda questione riguarda l’informazione. Giorni fa la Rai ha mandato in onda una trasmissione sulla trattativa Stato mafia molto disinformata. Che è stata interamente smontata da questa sentenza. E che però ragionevolmente ha avuto un peso molto forte sull’opinione pubblica e anche sui giurati che dovranno decidere sul processo Stato-mafia. La commissione di vigilanza interverrà? Sarò imposto alla Rai un programma di riparazione, che permetta di ristabilire la verità? Se questo non succederà vuol dire che viviamo in uno Stato dove il potere giudiziario è concepito solo come macchina di potere. Terrificante macchina di potere che risponde solo a logiche interne. Del tutto estraneo al diritto e alla ricerca della verità. La cosiddetta trattativa Stato Mafia non ha nulla a che fare con la strage di Via D’Amelio. Anzi, non ha nulla a che fare con tutte le stragi mafiose, a partire da quella di Capaci fino alle bombe “continentali” del 1993. Non solo, respingendo la tesi difensiva dei boss, si apprende che “gli elementi acquisiti nel presente procedimento consentono di affermare che l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva”. Parliamo delle motivazioni, appena depositate, della sentenza d’appello del Borsellino Quater. La corte d’assise d’appello di Caltanissetta scarta la tesi sulla trattativa: non è di sua competenza, c’è una sola sentenza e pure non definitiva, ma soprattutto non c’entra nulla con la casuale delle stragi. È proprio la Corte che, confermando le condanne di primo grado nei confronti dei boss Vittorio Tutino e Salvo Madonia (oltre i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci), si sofferma sulle cause che hanno determinato la strage, in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Quali? L’esito del maxiprocesso e il suo interessamento al dossier mafia appalti. Queste le conclusioni che l’Assise d’Appello di Caltanissetta riversa nella sentenza, in particolare traendo le mosse dalle parole del pentito Giuffrè, sui “sondaggi” con “personaggi importanti” effettuati da Cosa Nostra prima di decidere l’eliminazione dei magistrati Falcone e Borsellino, ma anche ricordando i sospetti che lo stesso Paolo Borsellino il giorno prima dell’attentato aveva confidato alla moglie, quando le disse “che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo...ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse”. Ed è proprio sulla base di tali evidenziate “anomalie”, si legge sempre nelle motivazioni, che “i Giudici di primo grado avevano disposto la trasmissione degli atti al Pubblico Ministro per le determinazioni di competenza su eventuali condotte delittuose emerse nel corso dell’istruttoria dibattimentale”. Il punto non è di poco conto. Soprattutto nel momento in cui si organizzano convegni o si fanno “inchieste” televisive, invitando i soliti magistrati che puntualmente omettono i problemi che Borsellino ebbe all’interno della procura. Purtroppo accade sempre più spesso che quando nelle interviste si riporta questa oramai celebre frase che Borsellino confidò alla moglie Agnese, se ne dimentichi tuttavia la parte finale con il riferimento che il giudice fece ai suoi colleghi, i magistrati. La memoria non ha fatto gli stessi brutti scherzi alla Corte, che invece non ha dimenticato di darne rilievo, richiamandola con riferimento alle dichiarazioni testimoniali che rese la moglie di Borsellino. Non solo. Sempre nella sentenza viene citato il fatto che l’arrivo di Borsellino nel nuovo ufficio della Procura di Palermo “era stato percepito con preoccupazione da Cosa Nostra, al punto che Pino Lipari (vicino ai vertici dell’organizzazione maliosa) aveva commentato il fatto dicendo che avrebbe creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco”. Ricordiamo che per i corleonesi, Lipari è stato un “consulente” che si occupava di pilotare gli appalti pubblici in modo da affidarli a imprese vicine ai boss. Il suo nome apparve anche nel famoso dossier mafia appalti scaturito dall’indagine degli ex ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, condotta sotto la supervisione di Giovanni Falcone. Riprendendo le motivazioni della pronuncia di primo grado, la Corte ricorda anche che “non erano state poche le difficoltà iniziali incontrate dal dott. Borsellino, al quale erano state delegate solo le indagini per le province di Trapani e Agrigento, e non per quella di Palermo”. A tal proposito, richiamando la sentenza di primo grado, la Corte le attribuisce il merito di aver ricostruito, anche sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla moglie del magistrato e da alcuni suoi stretti collaboratori e colleghi, “le ragioni del contrasto fra il dottore Borsellino e l’allora procuratore capo della Procura di Palermo, dott. Giammanco, ricordando come tale delega, più volte sollecitata dal dottore Borsellino, gli fosse stata conferita solo la mattina del suo ultimo giorno di vita”. Ma su quale indagine Paolo Borsellino aveva mostrato particolare attenzione dopo la morte del collega ed amico Giovanni Falcone? Erano - si legge nelle motivazioni - “le inchieste riguardanti il coinvolgimento di “Cosa Nostra” nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale”. Tutto qui? No, perché la Corte evoca anche quel famoso incontro tra Borsellino e la dottoressa Lilliana Ferraro, quando insieme avevano anche parlato del rapporto “mafia-appalti” ricevuto, per mano dei carabinieri del Ros, dal Procuratore Giammanco e da quest’ultimo “irritualmente inviato al Ministero della Giustizia, tanto che il dott. Falcone (nel frattempo come noto in servizio al Ministero) ne aveva disposto l’immediata restituzione”. Un fatto singolare che fece infuriare Falcone. Sul tema non si manca neanche di precisare che “nel corso del dibattimento erano stati sentiti, come testi, anche i giudici Camassa e Russo i quali avevano riferito di un incontro avuto con il giudice Borsellino, intorno alla metà del mese di giugno, nel corso del quale quest’ultimo, con tono molto amareggiato e con le lacrime agli occhi, aveva detto loro che “qualcuno lo aveva tradito”“. Una sentenza che finalmente riprende in mano ciò che Falcone e Borsellino hanno sempre sostenuto. Ovvero che la caratteristica della mafia è la sua autonomia da qualsiasi potere, agisce da sola e, soprattutto, non ha bisogno di alcun aiuto esterno per compiere gli attentati. E cosi la Corte tiene anche a sottolineare ciò che aveva intuito Falcone con la nascita del pool antimafia, ovvero che “stante il carattere unitario e fortemente centralizzato dell’organizzazione criminale Cosa Nostra, ogni delitto riconducibile a detta organizzazione criminale dovesse essere considerato come l’anello di una lunga catena, e non già come un episodio a sé stante”. Ecco perché secondo la Corte non regge la linea di difesa degli imputati, portati a giudizio per la strage di Via d’Amelio, quando chiama in causa la tesi della trattativa per dire che quel presunto patto avrebbe aperto “nuovi scenari”, in relazione alla “crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici tradizionali” ma anche al possibile collegamento fra “la stagione degli atti di violenza” e l’occasione di “incidere sul quadro politico italiano” con riferimento a coloro che “si accingevano a completare la guida del paese nella tornata di elezioni politiche del 1992”. La Corte nella sua sentenza non lascia spazio alcuno a queste argomentazioni difensive, ribadendo che “la strage di Via D’Amelio, inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva”. Indubbiamente, però, c’è stata una accelerazione dell’uccisione di Borsellino. Da cosa è dipeso ce lo dicono le motivazioni quando riportano alcuni passi della sentenza della corte d’Assise di Catania: “poteva avere influito l’intervento di potentati economici disturbati nella spartizione degli appalti, la presenza di forze politiche interessate alla destabilizzazione, la necessità di umiliare lo Stato in modo definitivo e plateale”. Poi la stessa Corte di Assise di Appello di Catania aveva comunque rilevato che tali ultimi motivi non hanno “creato una frattura rispetto a quelli che determinarono la decisione della strategia stragista, ma si aggiungono ad essi”. Si tratta di una sentenza che potrebbe, di fatto, suggerire ulteriori piste da esplorare. A partire dalla causa della strage. Non la presunta trattativa, ma la questione “mafia appalti” che ha anche come sfondo i problemi all’interno dell’allora procura di Palermo. Il tutto è ben cristallizzato in questa sentenza. Tutto ciò potrebbe significare un ulteriore sviluppo delle indagini e la possibilità di arrivare a un Borsellino quinquies? Mafia o no, compito del pm non è scendere in guerra contro il male di Tiziana Maiolo Il Riformista, 19 gennaio 2021 La pretesa del magistrato di farsi storiografo e sociologo è la base di tanti errori e sconfitte. L’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone cerca di spiegare la differenza tra fenomeni come la mafia e la corruzione. Contro la prima il magistrato deve “lottare”, scrive. Ma la differenza tra un pm che indaga sul singolo individuo in relazione a uno specifico reato e quello che indossa la veste del condottiero è quella che contrappone lo Stato liberale allo Stato etico Il magistrato può “lottare” contro i fenomeni di devianza della società o deve limitarsi ad accertare la singola responsabilità del singolo individuo su ogni specifico fatto? Contro la mafia si lotta, contro la corruzione si applica la legge, è la risposta. Non è un quesito banale, quello che pone, sulla Stampa di ieri, un ex alto magistrato come Giuseppe Pignatone, che occupò il più alto scranno della procura di Roma. Pone un problema che molti, evidentemente, hanno posto a lui. Ma non dice quel che sta dietro la domanda, cioè quello che divide lo Stato liberale, con la supremazia del diritto e la libertà dell’individuo, dallo Stato etico, Giudice assoluto del bene e del male per l’individuo e per la collettività. Questo è il punto vero. Nessun magistrato, e men che meno uno illuminato come Pignatone, lo ammetterà mai, ma la differenza tra un pubblico ministero che indaga sul singolo individuo in relazione a uno specifico reato e quello che indossa la veste del condottiero (come sono i cosiddetti magistrati “antimafia”) in lotta per sgominare i fenomeni criminali, è proprio quella che separa e contrappone lo Stato liberale allo Stato etico. Naturalmente il dottor Pignatone non pone la questione sul piano filosofico, ma giuridico. E cerca di spiegare la differenza tra fenomeni come la mafia e la corruzione. Come se la prima fosse un’entità che si può solo abbattere con gli strumenti della forza (la lotta del Bene contro il Male) e la seconda con gli strumenti ordinari dello Stato di diritto. Perché contro la mafia il magistrato deve “lottare”, scrive poi l’ex procuratore. Lo sappiamo almeno fin dai tempi del maxiprocesso di Palermo, che non sarebbe stato possibile se non partendo dal portare a giudizio l’intero vertice di Cosa Nostra. Con responsabilità spesso “oggettive”, si potrebbe obiettare, ricordando come proprio quello sia stato un punto di dissenso anche all’interno degli stessi giudici, tra quelli del primo e quelli del secondo grado. Perché se è vero che la mafia ha le sue strutture organizzative, i suoi giuramenti, le sue regole di funzionamento, non è detto che queste debbano essere conosciute e approfondite prima di individuare rei e reati. La pretesa da parte del magistrato di farsi storiografo e sociologo è la base di tanti errori e tante sconfitte per esempio nelle indagini su reati imputati ad esponenti della ‘ndrangheta in Calabria. Quando il procuratore Gratteri getta la rete per la pesca a strascico, con l’uso smodato del reato associativo (spesso anche il concorso esterno) e la pretesa di arrivare fino a chissà quali sepolcri nascosti, crea solo un grande polverone in cui nessun giudice, se non sarà subalterno, sarà in grado di compiere il proprio dovere. E c’è un’altra questione. Il pubblico ministero non risponde a nessuno delle proprie azioni, non all’elettorato né al Parlamento o al governo. In nome di quale scelta di politica criminale dovrebbe quindi “lottare”? Da bravo funzionario dello Stato dovrebbe limitarsi a fare il proprio dovere, svolgendo indagini ogni volta che acquisisce una notizia di reato. Ma in Italia, al contrario di quanto accade negli altri Paesi dell’occidente, l’intera corporazione dei magistrati è contraria alla separazione delle carriere tra chi accusa e chi giudica e soprattutto vede come il diavolo la possibilità che il pubblico ministero debba render conto delle sue azioni agli elettori o al ministro di giustizia. È inutile girarci intorno, gratta gratta esce sempre la lotta del Bene contro il Male. Che è poi la stessa filosofia, banalizzata da coloro che volevano assaltare il Parlamento per aprirlo come una scatoletta di tonno, che ha prodotto una legge come la “Spazza-corrotti”, che ha equiparato i reati contro la Pubblica Amministrazione a quelli di terrorismo e di mafia. Del resto, che differenza c’è tra il concetto di “spazzar via” e quello di “lottare contro”? Di questa normativa del 2019, così come della “Legge Severino” del 2012 e dell’utilizzazione del trojan, il procuratore Pignatone attribuisce ogni responsabilità al Parlamento che le ha votate (ma non dovrebbe essere sempre così?) piuttosto che alla magistratura che le applica. Ne prende le distanze, si intuisce dal suo scritto, proprio perché considera la corruzione un fenomeno qualitativamente e storicamente diverso rispetto alla mafia. Ma tutta l’impalcatura del suo ragionamento si incrina prima di tutto sul fatto che ormai siamo in presenza di una folta giurisprudenza in tema di mafia che sta acquisendo sempre più vigore di legge, come per esempio nel caso di quell’abominio che si chiama “concorso esterno in associazione mafiosa”. E poi perché, se il pubblico ministero debba essere autorizzato (da chi? non certo dalla Costituzione) a debordare dal suo ruolo principe di indagatore per diventare storico e storiografo (Gratteri pretende persino di fare lo psicologo) e sociologo per capire un intero settore di società criminale per poi poterla “combattere”, perché non potrebbe arrogarsi il diritto di farlo anche, come piace a una parte del Parlamento, nei confronti di altri ambienti come quelli in cui si sviluppa la corruzione? Si domandi, dottor Pignatone, perché il suo articolo sulla Stampa sia stato titolato (non da lei) “Perché le toghe combattono la corruzione”. Ricorso cautelare solo al giudice competente di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2021 Il ricorso cautelare per Cassazione contro la decisione del Tribunale del riesame, o in caso di ricorso immediato, del giudice che ha emesso la misura, va presentato esclusivamente presso la cancelleria del tribunale che ha emesso il provvedimento o del giudice “autore” dell’ordinanza. Nel caso di presentazione ad un ufficio diverso il ricorrente si assumerà il rischio diveder dichiarato inammissibile, perché tardivo, l’atto se non arriva al giudice competente entro dieci giorni. La data rilevante, ai per la tempestività è, infatti, quella in cui l’atto arriva al giusto destinatario. Con l’avvertenza che eventuali ritardi non possono essere contestati alla cancelleria. Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza 1626/2021) dettano un principio chiaro per evitare che molti ricorsi si traducano in un nulla di fatto. Ed escludono che la via indicata sia incostituzionale perché a maglie più strette rispetto alle modalità ordinarie dell’atto di impugnazione, che consentono il deposito anche nel luogo in cui si trovano parti private o difensori. Né può essere considerata lesiva del diritto di difesa, anche rispetto ai principi affermati dalla Cedu sul giusto processo. La conclusione raggiunta è basata su un’interpretazione letterale della norma di riferimento (articolo 3udel Codice di procedura penale) e sulla finalità perseguita dal legislatore che non si presta a deroghe o a interpretazioni adeguatici. La “disparità” di trattamento è giustificata, oltre che dalle differenze strutturali dei giudizi di merito e di legittimità, dall’interesse primario che l’ordinamento riconosce all’esigenza di celerità del giudizio di impugnazione. E la modalità corretta per raggiungere lo scopo è quella che consente al giudice che ha emesso il provvedimento divenire subito a conoscenza del ricorso mettendolo nella condizione “con prontezza” di formare i fascicoli. L’intento di una definizione celere in nome dell’urgenza è confermato dalla nonna (comma 3) con la quale si impone al giudice della cancelleria che riceve l’atto “di curare che sia dato immediato avviso all’autorità giudiziaria procedente la quale trasmette, entro il giorno successivo, gli atti alla Corte di Cassazione”. Nessuna rotta di collisione, infine, con i principi sovranazionali sul giusto processo. Sulle modalità di presentazione dell’impugnazione la Corte Edu lascia agli Stati un ampio margine di apprezzamento nel quale rientra anche l’imposizione di criteri rigorosi. Detto questo resta aperta la possibilità di presentare il ricorso in luogo diverso ma a rischio della parte. Se questo arriva all’ufficio competente entro ho giorni previsti l’atto sarà valido perché ha raggiunto il suo scopo al di là della presentazione “irrituale”. Ma se non avviene, alla cancellaria incompetente non potrà essere contestato il ritardo o l’errore nella trasmissione. Né potrà essere onerata delle spese della stessa trasmissione. Lombardia. Torna l’allarme Covid nelle carceri, contagi in risalita tra i detenuti di Filippo M. Capra fanpage.it, 19 gennaio 2021 Sono in risalita i contagi all’interno delle carceri lombarde. A certificarlo è il provveditore regionale Pietro Buffa che ha spiegato come il dato sia condizionato dai focolai riscontrati all’interno delle case circondariali di Bergamo, Busto Arsizio e Vigevano. A San Vittore sono 59 i detenuti positivi al Covid su 949 ospitati. Torna l’allarme Covid nelle carceri lombarde. Dopo un periodo in cui il contagio è rimasto sotto controllo, ora le positività sono tornate ad aumentare. Stando a quanto comunicato da Pietro Buffa, provveditore regionale, “sono 198 i detenuti positivi al Covid e 7 i ricoverati”. Contagi in risalita nelle carceri lombarde: i dati - Nel corso della commissione consiliare online convocata oggi, lunedì 18 gennaio, per fare il punto sulla situazione all’interno delle case circondariali, Buffa ha spiegato che si tratta di “numeri in risalita”. Lo scorso “7 dicembre i positivi erano 398 e il 7 gennaio 126”, ha rivelato, aggiungendo che “eravamo scesi”, mentre ora la risalita è spiegata dalla presenza “di tre focolai, uno a Bergamo, uno a Busto Arsizio e uno a Vigevano”. Il provveditore regionale ha però rassicurato, dichiarando che “l’utilizzo dei tamponi per il contenimento dell’epidemia è efficace: ne abbiamo fatti oltre 30mila dall’inizio della pandemia”. Situazione opposta, invece, per gli operatori che lavorano all’interno delle carceri, i cui numero sono in calo. “I positivi, o persone in quarantena, al 15 gennaio erano 65 su 4 mila - ha spiegato Buffa. Mentre il 10 dicembre erano 122”. Al carcere di San Vittore 59 detenuti positivi su 949 - Per quanto riguarda la realtà di San Vittore, a Milano, su 949 detenuti ci sono 59 casi di positività, come spiegato dal direttore del carcere Giacinto Siciliano. A livello di personale, invece, Siciliano ha dichiarato che “abbiamo 6 persone della polizia penitenziaria che sono positive”. Infine, per dare una spiegazione dei numeri riportati, il coordinatore sanitario di San Vittore Ruggero Giuliani ha dichiarato che la trasmissione del virus tra i detenuti è stata ““più efficace nella seconda ondata rispetto alla prima”, in quanto “in primavera abbiamo concluso la prima ondata con 22 positivi e un decesso, mentre nella seconda ondata i detenuti positivi sono stati 180”. Campania. “Chi ha patologie psichiatriche non può stare in carcere” ottopagine.it, 19 gennaio 2021 Lo dichiara il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. “C’è un’assuefazione sul contagio nelle carceri. Nei report quotidiani ci sono i dati di agenti e detenuti. Si devono accendere le luci su questi luoghi dove l’individuo è privato della libertà ma non deve essere privato della dignità”. Lo ha dichiarato il Garante dei detenuti in Campania Samuele Ciambriello. Oggi sarà presentata la situazione relativa alle Residenze per esecuzione delle misure di sicurezza (Rems): “Nella legge istitutiva la funzione del Garante è relativa al carcere e a tutti i luoghi in cui la libertà è privata come il Tso (trattamento sanitario obbligatorio) come le Rems, nate dopo la chiusura degli Opg. Abbiamo persone socialmente pericolose in carcere in attesa di poter andare nelle Rems. Oggi ci sono 31 strutture con 600 persone. Abbiamo bisogno di luoghi per i sofferenti psichici e questi non possono essere le carceri”. Rispetto sempre al carcere Ciambriello ha aggiunto: “Voglio coniugare la certezza con la qualità della pena ma se verità e giustizia non si mettono insieme avremo solamente la vendetta. Negli ultimi 15 anni 27mila persone hanno ricevuto un risarcimento per ingiusta detenzione, lo Stato ha speso centinaia di milioni di euro. E chi riceve il risarcimento non sarà mai ripagato per una prima pagina sul giornale e per l’ingiustizia. E se sbaglia un magistrato? Che succede?” Piemonte. Il Garante: “Aprire Casa famiglia protetta per mamme detenute” atnews.it, 19 gennaio 2021 “Il Piemonte si candidi al più presto a ospitare una Casa famiglia protetta per detenute mamme con bambini”. Lo ha dichiarato il garante delle persone detenute Bruno Mellano al termine della visita all’Istituto penale minorile Ferrante Aporti di Torino, cui hanno preso parte anche l’assessore alle Politiche della casa e della famiglia Chiara Caucino e la garante regionale dell’infanzia e dell’adolescenza Ylenia Serra. “Osservare gli spazi e il contesto della detenzione minorile aiuta a comprendere l’urgenza di prevedere luoghi e modalità diverse per l’esecuzione delle pene innanzitutto per i minori - ha aggiunto. Al momento sono meno di 400 i giovani detenuti nei 17 Istituti penali minorili italiani, di cui circa 20 ragazze, mentre le donne recluse sono tuttora ben 2.255, circa il 4% della popolazione reclusa, di cui 30 madri con 33 bambini al seguito e solo le più fortunate sono ospitate negli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam)”. La visita all’Istituto minorile con Caucino e Serra ha rappresentato il naturale prosieguo dell’incontro “Una casa senza sbarre”, organizzato nei mesi scorsi da Mellano per sostenere la necessità di una rete italiana di Case famiglia e per avviare una verifica urgente di fattibilità per edificarne una in Piemonte, la terza in Italia dopo quelle già operative a Roma dal 2016 e a Milano dal 2018. “È il momento di agire - ha concluso Mellano - perché il contesto nazionale sembra quanto mai favorevole: l’approvazione di un emendamento alla Legge di Bilancio prevede infatti di creare un fondo per accogliere i genitori detenuti con i propri figli al di fuori delle strutture carcerarie con uno stanziamento di 1,5 milioni di euro annui per il triennio 2021-2023 e la Cassa delle ammende si è dichiarata disponibile a finanziare già nel 2021 progetti mirati a rendere operative le strutture per mamme con bambini”. Vibo Valentia. Il Covid tra le sbarre: contagiati detenuti e operatori di Marialucia Contestabile Gazzetta del Sud, 19 gennaio 2021 Si alza il livello di allarme nella Casa circondariale dove si teme l’espandersi del focolaio. Durante la prima ondata il Covid non era riuscito a farsi strada nello sbarramento posto a protezione della casa circondariale di Vibo. In quel caso, infatti, la pandemia era rimasta fuori dai cancelli. Con la seconda ondata, però, qualcosa è cambiato e ora il timore è che all’interno del carcere sia esploso un focolaio, anche se al momento con numeri ridotti rispetto a quello della popolazione carceraria. Comunque sia le condizioni - stando alle notizie trapelate - ci sarebbero tutte considerato che circa nove detenuti, diversi dei quali ristretti nella media sicurezza, sono stati contagiati dal virus. Numero a cui bisogna aggiungere anche quello relativo ai casi di positività (circa dieci) tra gli operatori della Polizia penitenziaria. Fatto sta che nell’istituto di pena sono state sospese le visite in presenza degli avvocati i quali possono comunicare con i propri assistiti solo attraverso una video-chiamata. Al contempo all’interno della casa circondariale si sta facendo il possibile per evitare il diffondersi del contagio e, oltre ai tamponi eseguiti quasi a tappeto, sono state attivate tutte le procedure ed i protocolli per garantire sicurezza, ma soprattutto per prevenire l’insorgenza di altri casi. Palermo. Coronavirus, focolaio nel carcere Pagliarelli: 49 detenuti positivi di Alfredo Raimo cronachedi.it, 19 gennaio 2021 Salgono a 49 i detenuti risultati positivi al Covid-19 nel carcere Pagliarelli di Palermo, dopo i risultati dello screening di massa a cui sono stati sottoposti tutti i 1.300 in prigione, ma non ancora le guardie della polizia penitenziaria e il personale amministrativo. Salgono a 49 i detenuti risultati positivi al Covid-19 nel carcere Pagliarelli di Palermo, dopo i risultati dello screening di massa a cui sono stati sottoposti tutti i 1.300 in prigione, ma non ancora le guardie della polizia penitenziaria e il personale amministrativo. Tutti i reclusi sono, invece, stati sottoposti al tampone molecolare dopo la scoperta dei primi riscontri positivi su alcuni detenuti. Dei 49 contagiati soltanto due mostrano lievi sintomi di coronavirus, mentre tutti gli altri sono asintomatici. I positivi sono stati spostati in una area isolata dal resto della popolazione carceraria. Il garante regionale per i diritti dei detenuti, Giovanni Fiandaca, chiede che vengano adesso eseguiti i controlli anche al personale amministrativo e agli agenti della penitenziaria. “So che da quando c’è stato il focolaio tra le guardie penitenziarie sono stati avviati i controlli ogni 15 giorni sugli agenti. Adesso, alla luce dei nuovi contagi, è necessario eseguire nuovi tamponi a tutto il personale - dice Fiandaca. Mi dicono che è stato posticipato, perché al momento le Usca sono impegnate nel territorio in altre emergenza. Ribadisco che, invece, bisogna eseguire i controlli per evitare che il contagio si diffonda visto che il personale amministrativo e gli agenti di polizia penitenziaria stanno a contatto diretto con i detenuti”. Milano. L’avvocato caduto dalle scale in Tribunale: “Io abbandonato dopo la paralisi” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 19 gennaio 2021 Il giovane legale Antonio Montinaro due anni fa rimase paralizzato precipitando da una balaustra troppo bassa. Finora non ha ricevuto un solo euro di risarcimento, nemmeno di acconto: “Non si sono mai attivati”. “Oggi sono qui” nel Palazzo di Giustizia e all’ospedale Policlinico - garantiva a Milano il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede il 21 gennaio 2019, tre giorni dopo che il neoavvocato Antonio Montinaro era rimasto paralizzato precipitando lungo le scale da una balaustra troppo bassa - “per dare la vicinanza a chi è stato drammaticamente coinvolto”. Questa “vicinanza” del ministero - competente in base al decreto 81/2008 sugli interventi strutturali, e avvisato sui rischi dei parapetti 4 volte tra il 2015 e il 2018 - a distanza di due anni esatti non si è però ancora tradotta in neppure un solo euro di risarcimento, nemmeno di acconto per aiutare la vittima nelle spese sanitarie e logistiche. Al punto che lunedì il 32enne Montinaro, pur “non dubitando della sincerità delle intenzioni” ministeriali più volte dichiarate “di avvio di una trattativa”, ma di fronte al fatto che “inaspettatamente abbiano avuto nessun esito” dopo 24 mesi, “suo malgrado deve ora rivolgersi all’Autorità Giudiziaria per ottenere giustizia”. E con l’avvocato Gian Antonio Maggio intenta davanti al Tribunale di Milano una causa civile di risarcimento danni (propri e dei genitori) da quasi 3 milioni di euro contro il ministero della Giustizia: per “colpa omissiva” e “protratta inadempienza” nel “non essersi mai attivato concretamente, né aver mai messo a disposizione le necessarie adeguate risorse finanziarie, per la messa in sicurezza”. Il punto da cui l’avvocato cadde è tuttora identico, solo transennato da quel giorno; mentre da alcune settimane (con 600.000 euro di finanziamenti) sono iniziati i rialzi dei parapetti nelle scale interne, e proprio da lunedì nelle scale più esposte al pubblico. Montinaro, che a fine 2018 aveva appena superato l’esame e il 17 gennaio 2019 stava per iscriversi all’Ordine degli Avvocati, appoggiatosi con lo zaino al parapetto alto in tutto 82 cm (57 di balaustra e 25 di corrimano, che gli arrivavano appena alla cintura dei pantaloni) perse l’equilibrio e precipitò dal IV piano del Palazzo di Giustizia (pianerottolo di passaggio ad alcuni uffici della Procura) nella tromba della scala Y, sbattendo la schiena contro una balaustra del III piano dopo 7 metri di volo. Cento per cento di invalidità Inps, 85% di danno biologico permanente, l’avvocato paralizzato per la lesione al midollo ha affrontato 2 mesi di ospedale a Milano e 5 mesi all’unità spinale di Imola, prima di doversi rassegnare a tornare a Martano (Lecce) a casa del padre vigile urbano e della madre bracciante agricola, che dal sogno di esser riusciti con grandi sacrifici a far laureare il figlio erano già passati al dover impegnare altri risparmi prima per stargli vicino nel Nord Italia e poi per adeguare la casa alla logistica della mobilità del figlio. Venerdì scorso - in coincidenza con le vigilie sia del biennio sia dell’udienza ieri di opposizione all’archiviazione chiesta in sede penale dalla Procura di Brescia - il nuovo dirigente dell’apposita direzione del ministero ha proposto al legale di Montinaro un incontro per avviare una trattativa in grado di superare le asserite rigidità di Corte dei Conti e Avvocatura dello Stato. Dopo 2 anni. Durante i quali l’unico aiuto concreto (25.000 euro, preziosi almeno per le spese mediche vive) è arrivato dall’”Associazione Amici di Andrea”, fondata da Rosalia e Armando Spataro in ricordo del figlio dell’ex pm, brillante avvocato morto nel 2017 dopo 9 anni di malattia. Genova. Volontari per lavorare con i carcerati, boom di iscrizioni al corso on line Il Secolo XIX, 19 gennaio 2021 È aperto ai volontari già attivi, agli aspiranti volontari e anche a chi semplicemente vuole saperne di più, di quel mondo a parte che è il carcere, il corso on fine gratuito in dieci incontri “Il volontariato nell’ambito della giustizia penale” organizzato dalla rete tematica carcere del Celivo e in partenza martedì 26 gennaio. “In questo momento difficile, dopo il blocco totale delle attività di volontariato in carcere durante il lockdown e una ripresa ai minimi termini in seguito, le associazioni hanno deciso di non restare immobili e di investire sulla formazione” spiega Diego Longinotti, coordinatore della rete tematica. Aggiungendo che “la formazione è imprescindibile per le attività in carcere, che ha regole specifiche”. Toccando molti temi dell’esecuzione penale e molte categorie di detenuti - uomini, donne, giovani, genitori, stranieri e persone con malattie o dipendenze - il corso può essere utile anche a chi è già attivo in un settore specifico. “Lo prova il grande numero di iscrizioni, da tutta Italia, oltre cento, a una settimana dall’inizio delle lezioni”. Gli incontri, che abbinano nozioni tecniche e teoriche e testimonianze di persone direttamente coinvolte nelle relazioni di aiuto nei penitenziari liguri, iniziano con il tema “Il senso della pena. Inquadramento teorico, finalità educativa”. Ne parleranno, appunto il 26 dalle 17.30 alle 19.30, Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e il magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi. A seguire, il mondo del carcere e le alternative alla detenzione, le esperienze delle associazioni attive nelle case circondariali di Marassi e Pontedecimo, le varie categorie di detenuti, alcuni dei quali porteranno la loro testimonianza. Fra i relatori, la direttrice di Marassi Maria Milano, l’avvocata Elena Fiorini, il docente di diritto penitenziario Massimo Ruaro. Gli incontri si svolgono sulla piattaforma Zoom Pro ogni martedì dalle 17.30 alle 19.30. L’iscrizione, sul sito del Celivo, è obbligatoria. Info 0105956815 e celivo@celivo.it. Ferrara. “Album di famiglia”. Teatro e web si incontrano in carcere di Martina Blasi epale.ec.europa.eu, 19 gennaio 2021 Album di Famiglia è una web-serie composta da dieci corti video-teatrali, ciascuno della durata di 4 minuti, trasmessi a cadenza settimanale ogni giovedì a partire dal 14 gennaio 2021 sulla pagina Facebook e, successivamente, sul canale YouTube del Teatro Nucleo di Ferrara. Il Teatro Nucleo di Ferrara è una delle poche realtà in Italia che ha continuato a realizzare le attività teatrali in carcere anche durante la pandemia. Il Teatro Nucleo - con Horacio Czertok e Marco Luciano - dal 2018 conduce il laboratorio Album di Famiglia nell’ambito del tema biennale “Padri e Figli” individuato dal Coordinamento Teatro-Carcere della Regione Emilia- Romagna. Il percorso, al quale partecipano 35 detenuti di provenienza diversa, è dedicato alla produzione di uno spettacolo che avrebbe dovuto debuttare, prima ad aprile e poi a novembre 2020, presso il Teatro Comunale di Ferrara. A causa dell’emergenza sanitaria ancora in atto, questo non è stato possibile. Tuttavia, in attesa della riapertura dei teatri, il processo creativo non si è interrotto. Portato avanti tramite lettere - nel progetto Esercizi di Libertà - durante il primo lockdown, in questa seconda fase il laboratorio prosegue in presenza portando all’esterno la pratica teatrale con il linguaggio del video. “L’idea di una serie di corti che raccontasse il nostro lavoro su Amleto è nata in maniera occasionale e quasi per caso. Gli attori detenuti hanno sempre continuato a studiare e a sviluppare i loro “compiti”, nonostante la mancanza dell’obiettivo-spettacolo, e certe cose avevano raggiunto un livello performativo forte, per cui ci siamo detti: documentiamo. Così abbiamo iniziato a riprendere le varie scene, ma d’improvviso è scattato qualcosa nel gruppo. Si è accesa una passione per questo tipo di lavoro. Ho capito che la telecamera rappresentava per loro una finestra attraverso cui farsi vedere dai figli, dalle mogli, dalle madri e dai fratelli. Una fessura in bianco e nero attraverso cui fare entrare la città e il mondo” “Tutti hanno iniziato a lavorare all’allestimento del set, alla scelta delle inquadrature, alla scrittura dei movimenti di camera. Ho capito che non si trattava più di documentare gli incontri di un laboratorio, ma che stava prendendo forma un processo artistico, creativo. Il cinema”, racconta Marco Luciano, regista e drammaturgo di Teatro Nucleo. La forma del video breve - precisa e funzionale ad esprimere pregi e difetti della creazione e del contesto in cui avviene - riprende l’idea della raccolta fotografica dei ricordi familiari: ogni episodio è uno scatto, uno squarcio che illumina aspetti e momenti dei vari personaggi che animano la drammaturgia di Album di Famiglia. I personaggi appaiono nei dieci episodi, si raccontano attraverso relazioni reali o immaginarie. Una famiglia a brandelli, una polverizzazione dei legami, che attraverso la storia di Amleto si fa metafora anche del momento storico che stiamo vivendo, oltre che della condizione individuale degli attori-detenuti. Liberamente ispirata alla figura di Amleto e alle sue varie riscritture contemporanee, da Laforgue a Heiner Muller, la drammaturgia di Album di Famiglia si è andata componendo attraverso uno scambio di suggestioni e spunti letterari forniti dai registi di Teatro Nucleo ai detenuti, che li hanno rielaborati in scritture più o meno biografiche sull’eredità familiare, sulla colpa e sul perdono. La composizione drammaturgica ha preso ispirazione da Hamlet Machine di Heiner Muller, il cui primo movimento si intitola proprio Album di Famiglia: da qui deriva la suggestione per una composizione di storie e personaggi che appaiono e scompaiono, come quando si sfoglia un album fotografico di una qualunque famiglia. Il primo episodio della serie web Album di Famiglia, il 14 gennaio alle ore 18, si apre con un prologo tratto dal Macbeth di Shakespeare. Il secondo episodio, il 21 gennaio alle ore 18, inizia con una lavagna sulla quale un uomo scrive incessantemente il numero 7. Cancella e ricomincia, mentre intorno al tavolo gli attori litigano su chi dovrà interpretare il personaggio di Amleto. Il terzo episodio, il 28 gennaio alle ore 18, è dedicato al racconto della vicenda di Amleto ad opera del re Claudio. Il quarto, il 4 febbraio alle ore 18, è incentrato sulla lunga riflessione di Claudio attorno al concetto di colpa; il quinto, l’11 febbraio alle ore 18, è dedicato a Ofelia; il sesto, il 18 febbraio alle ore 18, è ispirato a un racconto di Julio Cortàzar riguardo il tempo e la sua misura; nel settimo, il 25 febbraio alle ore 18, avviene la presentazione di Amleto e, infine, gli ultimi tre saranno trasmessi - sempre alle ore 18 - il 4, l’11 e il 18 marzo 2021. All’interno di Le Magnifiche Utopie - la stagione teatrale organizzata dal Teatro Nucleo al Teatro Julio Cortàzar di Ferrara con 12 appuntamenti tra novembre 2020 e maggio 2021 - la web-serie sarà inoltre raccontata in un incontro on-line in diretta, finalizzato anche ad approfondire i temi e contesti del teatro in carcere e del senso della pratica teatrale nel contesto detentivo e in prospettiva del fine pena. La colonna sonora dei corti è prevalentemente affidata Nicolae Roset, moldavo di origine rom, ospite della Casa Circondariale C. Satta. Le canzoni che ha proposto, di tradizione zingara, hanno a che fare con la lontananza, dalla famiglia e dall’amore, e con la necessità del viaggio. Tutti gli episodi sono girati nel corso degli appuntamenti settimanali di 90 minuti che i registi di Teatro Nucleo hanno a disposizione per portare avanti il percorso con i detenuti-attori. I partecipanti al percorso di teatro-carcere condotto da Teatro Nucleo studiano durante la settimana quello che dovranno eseguire il giovedì. Immaginano il movimento e lo spazio nella propria cella, mentre si preparano da mangiare, quando percorrono i corridoi della sezione. “Ogni volta che esco dal carcere sorrido come un bambino pensando a quanto sono maturati come attori questi uomini durante questi anni di laboratorio. La loro intelligenza emotiva, la furbizia infantile, questo “non aver nulla da perdere”, il loro essere perfettamente confitti nel presente e contemporaneamente capaci di vivere in un altrove immaginario (cosa a cui penso siano allenati per sopravvivenza), sono elementi che fanno di loro a tutti gli effetti degli attori professionisti”, conclude Marco Luciano. Siena. Un calendario per pensare, dal laboratorio artistico del carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 19 gennaio 2021 “Non è un tempo vuoto” è il tema che attraversa i mesi di un calendario realizzato nel carcere di Siena, dai partecipanti al laboratorio artistico. Un progetto pensato per stimolare le creatività dei detenuti durante la pandemia periodo in cui i timori per il contagio da Covid-19 e il ridursi di contatti con l’esterno hanno rischiato di compromettere l’adesione dei detenuti ai percorsi rieducativi. Dodici tavole e altrettante riflessioni su come riempire di contenuti, emozioni e significati il tempo del carcere ma anche ogni situazione - come quella che abbiamo vissuto durante il lockdown e che, in parte, continuiamo a vivere - in cui spazi e libertà sono ridimensionati. Non a caso nella pagina di gennaio è scritto che “i disegni sono un messaggio di speranza per il futuro, un saluto, un segno di vicinanza verso l’esterno, ma al tempo stesso un trionfo di colori, quasi un inno alla vita e alla rinascita”. Il tempo in carcere non è vuoto se, afferma la didascalia del mese di giugno, si coltivano emozioni, sogni e creatività anche grazie all’arte “che permette a tutti di realizzarsi grazie al linguaggio della fantasia”. La stampa del calendario, sia pure in un numero limitato di copie, è stata realizzata grazie al contributo della Camera Penale di Siena e Montepulciano. I dieci anni tra le sbarre del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere inscenaonlineteam.net, 19 gennaio 2021 Fondato a Urbania il 15 e 16 gennaio 2011, in occasione dei lavori dell’undicesimo convegno promosso dalla Rivista europea “Catarsi-Teatri delle diversità”, oggi riunisce oltre cinquanta esperienze da 15 regioni italiane ed è stato riconosciuto come buona pratica dall’International Theatre Institute dell’Unesco che, nella stessa sede del convegno, ha collaborato all’istituzione dell’International Network Theatre in Prison nel 2019. Il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (www.teatrocarcere.it) è presieduto da Vito Minoia, esperto di Teatro educativo inclusivo all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo e direttore della Rivista di Educazione e Formazione “Cercare-carcere anagramma di” che affianca dal 2017 la rivista-madre “Catarsi-teatri delle diversità” fondata nel 1996 con Emilio Pozzi e la partecipazione significativa di Claudio Meldolesi. Dopo le prime dieci edizioni del convegno organizzate a Cartoceto, sempre in provincia di Pesaro e Urbino, nel 2011 a Urbania furono ricordate proprio le figure di Meldolesi scomparso nel 2009 (al quale si ispirava il titolo dell’iniziativa “Immaginazione contro Emarginazione”) e di Pozzi, scomparso nel 2010, fino a quel momento direttore della pubblicazione. Giuliano Scabia, anch’egli figura di riferimento per il convegno e la rivista, dedicò loro il racconto-evento “Scala e sentiero cercando il Paradiso” sugli anni di apprendistato con i suoi allievi all’Università di Bologna. Diversi i traguardi raggiunti dalla Rete italiana del teatro in carcere. Ne annoveriamo alcuni, sicuri che possano essere d’auspicio per nuovi obiettivi di carattere artistico e pedagogico da ricercare, come sempre, in un innovativo orizzonte politico e democratico tra i diversi soggetti coinvolti nel tempo, a partire dai tanti detenuti e detenute (compresi anche i minori sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria), fino agli operatori teatrali e agli operatori penitenziari passando per insegnanti, studenti, universitari in formazione. Nel 2012 nasce a Firenze la Rassegna/Festival nazionale “Destini Incrociati”, l’evento annuale itinerante per eccellenza più partecipato giunto alla settima edizione; del 2013 è il primo triennale Protocollo d’Intesa per la promozione del teatro in carcere con il Ministero della Giustizia (prima con l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari, poi con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità) al quale aderisce nel 2015 anche l’Università Roma Tre (Intesa rinnovata nel 2016 e nel 2019). Nel 2014 è avviata la Giornata Nazionale del Teatro in Carcere in concomitanza con il World Theatre Day (27 marzo) promosso dall’ITI-Unesco: all’ultima edizione che ha preceduto la pandemia, la sesta-nel 2019, hanno concorso alla riuscita dell’evento 102 iniziative in 64 istituti penitenziari ed altri contesti esterni con la partecipazione di Enti pubblici e privati di 17 regioni italiane. Dal 2015, grazie al sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali il Progetto Destini Incrociati si articola anche in diverse iniziative territoriali che coinvolgono in rete 22 partners di 10 regioni. Nel 2017 si dà vita al Premio Internazionale Gramsci, preludio della nascita nel 2019 dell’International Network Theatre in Prison (www.theatreinprison.org) con la celebrazione del World Theatre Day (26 marzo 2019) nell’istituto penitenziario di Pesaro grazie al Teatro Universitario Aenigma e all’ITI Italia anziché presso il Quartier generale Unesco di Parigi. Del 2020 invece è il Premio Speciale internazionale “Books for Peace” per l’impegno sociale promosso da una rete di associazioni affiliate all’Unesco. Per la ricorrenza dei dieci anni, in segno di condivisione, sul sito www.teatridellediversita.it in libero accesso, sono stati pubblicati la diretta Zoom e diversi materiali multimediali relativi al XXI Convegno internazionale che la rivista “Catarsi-Teatri delle diversità” con il titolo “Dialoghi tra pedagogia, teatro e carcere” ha organizzato online il 29-30-31 ottobre 2020, a seguito dell’impossibilità di tenere in presenza l’evento. Parallelamente sabato 16 gennaio 2021 arriva la bella notizia del Primo Premio del Ministero dell’Interno di Madrid per lo spettacolo “Al limite” rappresentato un anno fa dai detenuti del carcere di Las Palmas (Gran Canarie) a conclusione di un progetto dedicato alla genitorialità positiva in carcere, grazie all’Associazione Hestia, all’Università di Las Palmas e alla collaborazione dell’Associazione Voci Erranti operante nel carcere di Saluzzo (Cuneo), diretta da Grazia Isoardi, tra gli organismi fondatori del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere. Il Gruppo di Progettazione intero del CNTiC costituito, oltre che da Vito Minoia e Grazia Isoardi, anche da Ivana Conte (Associazione nazionale Agita), Gianfranco Pedullà (Teatro Popolare d’Arte), Valeria Ottolenghi (Associazione nazionale critici di teatro), Michalis Traitsis (Balamòs Teatro), Valentina Venturini (Università Roma Tre) ringrazia quanti hanno collaborato affinché in questi dieci anni si siano raggiunti così tanti risultati significativi operando con un grande senso comune di libertà, partecipazione e confronto e invita tutte le persone interessate a seguire le prossime attività, a partire dalla Giornata-evento dedicata alla Rassegna/Festival nazionale “Destini Incrociati” (settima edizione) programmata a Roma nella prossima Primavera (data da definire - informazioni in progress anche sulla pagina Facebook “Coordinamento nazionale teatro in carcere”). Il CNTiC inoltre richiama l’attenzione, già ripetutamente richiesta agli Stati membri da parte del Consiglio d’Europa per i Diritti Umani, affinché siano adottate misure che non comprimano i diritti fondamentali di detenute e detenuti nel momento di contrasto alla diffusione del Covid-19, entrato in molti istituti di pena (ricordiamo a riguardo anche le varie iniziative a favore della priorità di vaccinazione in carcere). I pericoli che incombono nell’inverno del Covid di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 19 gennaio 2021 Molti italiani tendono a vivere in trance, quasi a entrare in letargo. C’è da augurarsi che riprenda slancio la chimica ordinaria della vita sociale. Ho sempre sostenuto, in tanti anni di mestiere, che lo sviluppo di un Paese complesso come l’Italia non lo fanno i piani, le politiche economiche, le paccate di soldi, ma lo fa il suo popolo, con i suoi singoli abitanti e le diverse realtà comunitarie. Questa convinzione si trova oggi, nella nebbia di cosa sarà l’anno che entra, di fronte ad un complesso interrogativo: in quale stato di salute (di vitalità o debolezza psichica collettiva) si trovano oggi i vari soggetti della nostra società? Cosa siamo? Dove siamo? Senza andare a citazioni esistenziali (“Dove sei?” è la prima domanda rivolta da Dio ad Adamo), credo sia giusto proporci un esame di coscienza collettiva, senza il quale vivremmo l’attuale congiuntura con una facile rimozione dei fatti e delle difficoltà attuali, magari nella banale attesa che tutto passi. Senza andare a troppo profonde analisi sulle situazioni di impreparazione e sperdimento constatate nella drammatica pandemia in corso, mi limito ad una banale, brutale domanda: “Su quali lunghezze d’onda funzionano oggi i nostri pensieri collettivi e le nostre collettive emozioni?”. Me ne sono andato in giro per giorni e giorni fra la gente per “annusare”, sotto le prescritte mascherine, il clima di fondo e lo stato d’animo dei nostri concittadini. E ne ho tratto tre prime impressioni. La prima impressione è di un popolo “in trance”, che non focalizza adeguatamente uomini e cose, e che preferisce rintanarsi nel mondo sicuro del se stesso. Siamo lontani dalla vitalità ottimista con cui abbiamo attraversato il primo lockdown, oggi sostituita da una strisciante opaca incertezza: non solo sui tempi di un possibile superamento della crisi (tre mesi, sei mesi, un anno), ma anche sulle regole e sui vincoli dei comportamenti quotidiani nelle zone di diverso contagio e colore. La gente sembra indifferente a speranze e obiettivi comuni, e si restringe sulla paura del contagio; sulla curiosità per l’andamento della sua curva; sulla ricerca di informazioni su come combatterlo; sulla ripulsa emotiva alla terapia intensiva; sulla propensione o meno a vaccinarsi in fretta. Chi gira per le strade prevalentemente deserte, di fatto si trascina, non riuscendo a focalizzare la dinamica collettiva e forse neppure la situazione personale, talvolta volutamente di stanchezza. E qui arriva la seconda impressione: che la gente abbia silenziosamente deciso di andare “in letargo”. Perché impegnarsi a esprimere vitalità se gli obiettivi da perseguire non sono chiari e/o dichiarati? Prendiamoci un po’ di riposo e ricarichiamo le nostre batterie, come molti animali che ai primi freddi si sottraggono a ogni impegno a breve. Alla pandemia ci pensino gli altri, noi ci adatteremo alle loro decisioni e aspetteremo la primavera, che necessariamente arriverà. Chi la porti a maturazione, tale primavera, importa poco a chi va in letargo: magari vi provvederà quella parte del sistema che continua imperterrita a essere vitale; oppure ci rifugeremo, da classici italiani, nel fatidico patrio stellone. Ma rimane il pericolo che in troppi ci si affezioni al letargo e che a primavera ci si ritrovi più “scarichi” e irresponsabili di prima. Perché irresponsabili lo siamo tacitamente tanto, quasi che le ultime vicende ci abbiano trasportato in una bolla invisibile, di comportamenti “coatti”, quasi vivendo in una “istituzione totale”, cioè in una di quelle realtà dove le persone “tagliate fuori per un lungo periodo dal loro tradizionale modo di vivere, si trovano a dividere una situazione resa comune da un regime chiuso e formalmente amministrato”. La citazione è tratta da un famoso libro di Goffman (Asylums) che analizzava le dinamiche di gente “internata”, naturalmente per il proprio bene, in strutture collettive fortemente regolate da uno staff naturalmente di alta qualità tecnica. Sarebbe scorretto applicare alla nostra attuale società quella analitica vivisezione di ambienti totalizzati (i manicomi, i conventi di clausura, i campi di concentramento, le caserme), ma qualcosa di simile la si scorge in questa Italia sotto Covid: la potenza tecnica dello staff; la sua propensione a comunicare senza informare; la dissuasione delle varianti rispetto agli ordini impartiti; le regole di minimale comportamento (igienico e di distanziamento); il dovere di un visivo riconoscimento collettivo (la mascherina come divisa da internato); le sanificazioni a tappeto; le quarantene; e in fondo il senso di un po’ tutti - internati e no - di vivere alla giornata, senza poter focalizzare cose e persone e perseguire possibili obiettivi. Tre pericoli quindi incombono nella mente degli italiani in questo inverno un po’ cupo: vivere in trance, entrare in letargo, adattarsi a vivere in una bolla di istituzione totale. Per un ottimista tenace quale sono sempre stato, c’è da dire “vade retro”. Speriamo però che non servano appelli retorici e crociate vitalistiche, ma che riprenda slancio la chimica ordinaria della vita sociale, la quotidianità ordinaria. Ambiente, l’Italia apre le porte ai migranti climatici di Francesca Santolini La Stampa, 19 gennaio 2021 La novità è contenuta nei decreti sicurezza approvati il 18 dicembre scorso. E riguarda un esercito di essere umani in fuga da catastrofi naturali, dalla perdita di territorio dovuta all’innalzamento del livello del mare, da siccità e desertificazione, da conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche. L’Italia apre le porte ai migranti climatici. Potranno anche loro usufruire del trattamento riservato a chi fugge per guerre o carestie, e ha diritto alla protezione umanitaria. La novità è contenuta nei decreti sicurezza approvati il 18 dicembre scorso. Chi sono i migranti climatici? Si tratta di un esercito di essere umani in fuga da catastrofi naturali, dalla perdita di territorio dovuta all’innalzamento del livello del mare, da siccità e desertificazione, da conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche. Le migrazioni ambientali derivano dalla sovrapposizione di società instabili ed ecosistemi fragili e sono al momento per lo più migrazioni interne (cosiddetti flussi sud-sud). Le persone sono spinte a partire perché non riescono più a sopravvivere nei loro luoghi d’origine, non hanno più accesso a terra, acqua e mezzi di sussistenza. La migrazione è in sostanza una forma estrema di adattamento. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati stima che, entro il 2050, circa 200-250 milioni di persone si sposteranno per cause legate al cambiamento climatico. Questo significa che in un futuro non troppo remoto, una persona su quarantacinque nel mondo sarà un migrante ambientale. Eppure dal punto di vista del diritto internazionale, i profughi climatici sono una categoria pressoché inesistente. Le persone che migrano per ragioni ambientali o fuggono da eventi climatici estremi, oggi sono fantasmi e vengono presentati come migranti economici: il loro ingresso è dunque soggetto al consenso del Paese che li riceve. Comincia però a farsi strada nel nostro ordinamento, il riconoscimento giuridico di questa categoria. Con i nuovi decreti sicurezza, approvati lo scorso 18 dicembre, oltre ad essere stata reintrodotta la protezione umanitaria, è stato ridisegnato il permesso di soggiorno per calamità naturale. Il presupposto per la concessione del permesso non è più lo stato di calamità “eccezionale e contingente” del paese di origine, ma la semplice esistenza in tale paese di una situazione grave dal punto di vista ambientale e non necessariamente contingente. Secondo Carmelo Miceli, deputato e responsabile sicurezza del Partito Democratico, già relatore del Decreto Immigrazione si tratta di “un adeguamento dell’ordinamento necessario a tenere il passo con i mutamenti delle esigenze della popolazione mondiale. Dovremmo riconoscere sempre di più la questione climatica come un fenomeno geopoliticamente condizionante. Il tema, per esempio, della desertificazione nel Sahel è un tema con il quale ci stiamo già confrontando e ci confronteremo sempre di più”. A confermare il ruolo primario delle variazioni climatiche nei flussi migratori che si muovono dal Sahel africano verso l’Italia è un recente studio pubblicato sulla rivista internazionale “Environmental Research Communications” dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iia). Secondo lo studio, già oggi la prima causa di gran parte del flusso migratorio verso l’Italia è causato da fenomeni meteo-climatici che rappresentano uno dei vettori principali degli spostamenti di massa. Dalla fascia del Sahel, che coincide con la fascia della desertificazione, arrivano nove migranti su dieci di quelli che giungono in Italia attraverso la rotta mediterranea. In quell’area l’agricoltura è fortemente dipendente dalle variazioni climatiche e trasforma l’esodo in una vera e propria lotta per la sopravvivenza. Raccolti sempre più poveri, siccità e ondate di calore mettono a dura prova il sistema agricolo, unica fonte di sostentamento, facendo abbassare drasticamente l’offerta di cibo. Ma non è tutto. Anche il flusso migratorio proveniente dal Bangladesh, uno dei paesi più colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico, è notevolmente aumentato negli ultimi anni. Stando ai dati diffusi dal Viminale, i bengalesi sono il terzo gruppo più numeroso proveniente dalle rotte del Mediterraneo, mentre fino a qualche anno fa non comparivano neanche tra i primi dieci nel nostro Paese. Per anni abbiamo parlato di emergenza migranti ignorandone la principale causa, riconoscerla è un primo passo alla ricerca di soluzioni tanto complesse quanto indispensabili. Dalla morte di Ebru alle purghe di Baku. Diritti nel mirino di Francesco Caia* e Roberto Giovene Di Girasole** Il Dubbio, 19 gennaio 2021 La Giornata internazionale dell’Avvocato in pericolo, che si celebra il 24 gennaio di ogni anno, costituisce una importante occasione per far conoscere le gravissime violazioni dei diritti umani nel mondo, perpetrate attraverso violenze, minacce e ritorsioni contro i naturali difensori dei diritti fondamentali, gli Avvocati. Una triste contabilità quella degli avvocati perseguitati solo perché colpevoli di difendere, senza compromessi, dissidenti politici, persone impegnate nella lotta per l’affermazione dei diritti civili, oppure popolazioni indigene dall’accaparramento di suoli da destinare allo sfruttamento economico. Come è noto ogni anno, in occasione della ricorrenza, si pone al centro dell’attenzione un Paese diverso e, per il 2021, si è deciso di fare un focus sulla situazione in Azerbaijan. Il Consiglio Nazionale Forense ha organizzato per lunedì 25 gennaio, alle ore 15,00, una conferenza da remoto, in diretta streaming, alla quale parteciperanno un avvocato ed una avvocata azeri, che daranno la loro testimonianza sulle ritorsioni che subiscono gli avvocati che osano esercitare con indipendenza la loro professione, nel rispetto delle regole dello stato di diritto e della convenzione europea dei diritti dell’Uomo, sottoscritta dallo Stato Azero. In Azerbaijan gli avvocati sono soggetti ad intimidazioni attraverso la loro sottoposizione a procedimenti penali, azioni disciplinari e altre misure amministrative. La radiazione dall’albo degli avvocati che lavorano per la protezione dei diritti umani, le azioni penali, le perquisizioni e le misure come il congelamento dei loro beni fanno parte del più ampio quadro di intimidazioni diffuse nei confronti dei difensori dei diritti umani, che include non solo gli avvocati, ma anche i giornalisti, le ONG o tutti coloro che sono equiparati a degli oppositori. Uno dei casi più conosciuti è quello di Intigam Aliyev, un avvocato molto apprezzato per la sua attività professionale tesa a difendere le vittime della repressione governativa e presidente della “Legal Education Society”, una organizzazione non governativa. Ha collaborato con molte organizzazioni internazionali e con il programma di formazione in materia di diritti umani “Help” del Consiglio d’Europa. Nel 2005 è stato radiato dall’albo ma ciò non gli ha impedito di continuare il suo lavoro di assistenza di persone che sono state perseguitate politicamente per diversi decenni. È stato arrestato nel 2014 e, nell’aprile dell’anno successivo condannato a sette anni e mezzo di reclusione e a tre anni di interdizione da alcuni incarichi e attività dopo essere stato giudicato colpevole di appropriazione indebita, attività illegali in gruppi organizzati, evasione fiscale, abuso di potere e falsificazione di dati in documenti ufficiali. Nel 2015 gli è stato conferito il premio del Consiglio degli Ordini forensi europei (CCBE) per i diritti umani. Nel 2018 la CEDU ha condannato l’Azerbaijan per violazione dell’articolo 3 della Convenzione in relazione alle condizioni di detenzione dell’avvocato Intigam Aliyev e per violazione dell’articolo 5, in relazione all’assenza di motivi plausibili di sospettare che egli avesse commesso i reati per i quali era stato arrestato. La vicenda azera si inserisce in un contesto molto più ampio, a livello mondiale, di intimidazioni, violenze, arresti arbitrari e condanne ingiuste a carico di avvocati. In questo quadro, purtroppo, l’anno che si è appena concluso è stato segnato dalla morte, in stato di detenzione della collega turca Ebru Timtik, per il rigetto di tutte le istanze dei difensori che ne chiedevano la scarcerazione per poterla adeguatamente curare, dopo 238 giorni di sciopero della fame, da Lei condotto per richiedere il rispetto dello stato di diritto, l’indipendenza dei giudici e nonostante tutti gli appelli, le iniziative di solidarietà del Cnf, della avvocatura internazionale, dell’Oiad, del CCBE, e la mobilitazione degli Ordini italiani e di tanti di colleghi avvocati, a titolo personale. Ebru Timtik era una collega colta ed impegnata in importanti processi, sempre in difesa dei lavoratori e dei diritti, ingiustamente condannata a termine di un processo caratterizzato gravissime violazioni delle regole dei principi dell’equo processo. Una vicenda tristemente emblematica di un periodo storico segnato dalla repressione di ogni dissenso anche in Paesi come la Turchia, componente del Consiglio d’Europa e firmataria, come l’Azerbaijan, della Convezione dei diritti dell’uomo. In Turchia una larga amnistia concessa per ridurre il sovraffollamento carcerario ha visto l’esclusione di tutti i detenuti poli- tici, tra i quali gli avvocati. Un anno segnato anche dalla pandemia che, se ha reso difficile se non impossibile l’attività di osservazione dei processi all’estero, condotta dal Cnf, dall’ Osservatorio degli avvocati in pericolo (Oiad) e dall’avvocatura internazionale, non ha fermato l’attenzione e la solidarietà ai colleghi ingiustamente processati e detenuti, anche attraverso la pressione sui Governi. Le ritorsioni contro gli avvocati Azeri che esercitano la professione con indipendenza, nel tentativo di ridurli al silenzio, esercitate anche attraverso la loro radiazione dall’albo professionale, pone al centro dell’attenzione il tema della indipendenza dell’Avvocatura, del rispetto del diritto della difesa e del segreto professionale. Il ruolo dell’avvocato è oggi sotto attacco, sia pure con modalità assai diverse, a tutte le latitudini. Viene messo in discussione anche nei Paesi democratici, da parte di chi sostiene politiche populiste e la strumentalizzazione delle indagini penali, i cui risultati vengono già proposti all’opinione pubblica come fossero sentenze di condanna, senza attendere lo svolgimento dei processi e l’acquisizione delle prove nel contraddittorio delle parti. Nei mesi scorsi in Turchia, nonostante le manifestazioni pubbliche e le proteste degli avvocati, intralciate dalla polizia, che ha anche fermato per alcune ore una marcia di protesta degli avvocati ad Ankara, è stata approvata una legge di modifica del sistema elettorale degli ordini forensi, allo scopo di ridurne l’autonomia, soprattutto di quelli più grandi, vale a dire Ankara, Istanbul ed Izmir. Occorre quindi impegnarsi sempre di più per difendere il ruolo dell’Avvocato ed i principi del giusto processo. Il Consiglio Nazionale Forense ha sottoscritto un appello a sostegno del libero esercizio della professione di Avvocato in Azerbaijan ed il Dubbio pubblicherà il 23 gennaio un inserto speciale di otto pagine, per raccontare delle repressioni e delle violenze contro gli avvocati non solo in Azerbaijan ma anche in altri stati, tra i quali l’Egitto e la Cina, e l’impegno del Consiglio Nazionale Forense su questi temi, con articoli redatti anche dai componenti della commissione diritti umani. *Consigliere Cnf, coord. Commissione diritti umani e Rapp. Int./Mediterraneo **Componente della Commissione Rapp. Int./Meditterraneo Spagna. Italiano di 37 anni muore nel carcere di Ibiza di Roberta Grassi quotidianodipuglia.it, 19 gennaio 2021 I parenti non credono al suicidio: esposto in Procura. I parenti di un 37enne, morto il 30 dicembre scorso mentre si trovava nel carcere di Ibiza, hanno presentato un esposto alla procura di Brindisi chiedendo il sequestro della salma, che farà rientro domani, per accertare le cause del decesso sarebbe stato ricondotto a un suicidio. L’uomo, Marco Celeste, di Brindisi, era detenuto dal 26 giugno perché accusato di aver appiccato un incendio in un bosco. Si trovava a Ibiza per lavoro da 4 anni. Nessun elemento, secondo la madre e il fratello che hanno sottoscritto l’esposto redatto dall’avvocato Giacinto Epifani, avrebbe potuto far ipotizzare che il ragazzo volesse suicidarsi. Stava per lasciare il carcere, a quanto riferiscono, e aveva mostrato la propria felicità e aveva detto di stare bene proprio il giorno prima di morire, all’interno della cella che condivideva con altre persone. Nel ricostruire i fatti i famigliari fanno riferimento a un intervento chirurgico avvenuto a novembre del 2020 per una sospetta frattura a una gamba e che era stata giustificata, affermano i denuncianti, a un infortunio avvenuto durante una partita di calcetto nella struttura penitenziaria. La salma farà rientro in Italia domani. Spagna. La “marcha” di riavvicinamento a casa dei detenuti politici baschi di Angela Maria Salis Il Manifesto, 19 gennaio 2021 La svolta delle politiche penitenziarie del governo Sánchez e il primo sì nella storia di EH Bildu alla legge di bilancio di Madrid. La destra attacca: “Persa la dignità”. Freddo gelido, una tormenta di neve e migliaia di cittadini per le strade di 238 località. Siamo in Euskal Herria e al di qua e al di là della muga, la frontiera (con la Francia), i riflettori si accendono ancora una volta su diritti dei detenuti, politiche carcerarie, risoluzione del conflitto e convivenza. Gennaio è il mese della tradizionale manifestazione di Bilbao, in cui decine di migliaia di persone invadono il centro della città, riversandosi per le vie e sfilando in un’impressionante marcha. Lo scorso 9 gennaio però, almeno in parte, si respirava un’aria diversa, non solo per il fatto che la manifestazione ha dovuto frammentarsi per ragioni di sicurezza dovute alla pandemia, ma perché la questione penitenziaria che interessa i prigionieri politici baschi sta subendo un’evoluzione. L’avvicinamento dei prigionieri a carceri limitrofe, vicine o situate nei Paesi Baschi, in Navarra e nelle provincie dell’Iparralde, (letteralmente “territorio nord”, i Paesi Baschi francesi), è da sempre un tema controverso. Negli ultimi tre anni il governo spagnolo di Pedro Sánchez ha promesso una “nuova direzione”. Secondo l’agenzia Europa Press, la Segreteria generale delle Istituzioni penitenziarie, che dipende dal ministero dell’Interno, ha autorizzato 144 trasferimenti di detenuti politici baschi, l’80% dei quali nel solo 2020. Le detenute e i detenuti sono ad oggi 218, stando ai dati di Sare, la ong che si autodefinisce “rete di cittadini che lavora in difesa dei diritti umani dei prigionieri, dei deportati e degli esiliati”. 163 si trovano in carceri spagnole, 30 in centri di detenzione francesi e 25, il 13% del totale, stanno compiendo la condanna in Euskal Herria. Sare è l’ente che organizza la manifestazione da quasi un decennio, per rivendicare “la fine della violazione dei diritti dei prigionieri di Eta e il loro avvicinamento” e allo stesso tempo per favorire “la convivenza e la pace”. Joseba Azkarraga e Begoña Atxa, portavoci della rete, stimano che “quest’anno si sono riuniti circa 52 mila cittadini” e sottolineano l’appartenenza a “ideologie diverse”, dato che dalla sua nascita Sare ha avuto un appoggio sempre più ampio. La cerimonia ufficiale, tenutasi a Bilbao, ha visto la partecipazione di rappresentanti del Partito nazionalista basco (Pnv), EH Bildu (il partito della sinistra indipendentista guidato da Arnaldo Otegi), Elkarrekin Podemos e Podemos Navarra (le declinazioni basche di Podemos), Geroa Bai (partito navarro di coalizione) e tutti i sindacati. La politica di dispersione prevede che i detenuti baschi siano assegnati a carceri situate a centinaia di chilometri di distanza dal loro domicilio, provocando, denuncia Etxerat, l’associazione dei familiari dei prigionieri, vittime sia sul fronte dei detenuti che su quello dei loro genitori, figli, coppie, fratelli, amici, compagni di studio e di lavoro. Etxerat, che vuol dire “a casa”, conta 348 incidenti automobilistici, 944 persone coinvolte e 16 morti. Seguendo i dati aggiornati di Etxerat e del quotidiano basco Gara, la politica di riavvicinamento ha fatto sì che 13 carceri francesi e 5 spagnole si siano svuotate dei detenuti politici baschi; due carceri, quelle di Logroño e di Puerto Santa María, ai poli opposti della penisola, ospitano 13 persone, il più alto numero di detenuti di questa tipologia concentrati in uno stesso penitenziario; in Euskal Herria, si trovano attualmente detenute oltre una ventina di persone, contro le 2 del 2018. Un 29% dei prigionieri si trova in carceri situate a una distanza compresa tra i 600 e i 1100 chilometri dal paese d’origine e un 20% in altre distanti tra i 400 e i 600 chilometri. Il cambio della politica penitenziaria del governo Sánchez sui detenuti baschi infuoca il dibattito, l’opinione pubblica e la destra spagnola all’opposizione. Popolari, Ciudadanos e Vox accusano il ministro degli Interni Fernando Grande-Marlaska di aver “perso la dignità” nelle negoziazioni per poter approvare la manovra di bilancio del 2021. Accusano il governo di aver barattato presos por presupuestos, “prigionieri per il bilancio”, adducendo il fatto che EH Bildu abbia approvato i conti pubblici dello Stato. È in effetti la prima volta nella storia che EH Bildu sostiene una finanziaria del governo spagnolo, dopo aver chiesto l’appoggio ai propri militanti in un’assemblea straordinaria. Fonti del partito sostengono che l’ampio consenso sia dovuto alla volontà di “essere agenti attivi e di cercare alleanze che abbiano come obiettivo quello di ampliare i diritti delle persone e mettere un freno alle destre e alle loro politiche retrograde”. Ma il dubbio che ci sia stato un accordo sotterraneo per favorire l’avvicinamento dei detenuti resta. Stati Uniti. Trump, cento graziati nell’ultimo giorno. E Biden ferma le esecuzioni federali di Francesco Semprini La Stampa, 19 gennaio 2021 Anche Bannon e Giuliani nella lista dei “perdonati”. L’Fbi cerca infiltrati tra i militari presenti all’inauguration. Monitorato il raduno di estremisti vicini al presidente uscente. Arrestato un soldato. Donald Trump si appresta a trascorrere l’ultimo giorno da inquilino della Casa Bianca sullo sfondo di una Washington blindata per i rischi di azioni ostili da parte dei trumpisti radicali durante la cerimonia di insediamento di Joe Biden. Il quale ha annunciato le prime misure da varare nella veste di nuovo comandante in capo, in primis la sospensione delle esecuzioni federali, ripristinate dal predecessore dopo una pausa di 17 anni. Il clima di tensione lo hanno vissuto ieri i cittadini della capitale quando del fumo si è alzato non lontano dalla zona dal Congresso teatro dei fatti del 6 gennaio e dell’inaugurazione di domani: solo un falso allarme ma i timori permangono. “Nessuna minaccia per il pubblico”, assicura il Secret Service (che provvede alla sicurezza delle alte cariche dello Stato), mentre controlli a tappeto sono stati condotti dal Fbi sui 25 mila militari della Guardia Nazionale dispiegati nella capitale per prevenire l’azione di infiltrati. Visto il congruo numero di elementi delle forze di sicurezza, ex o in servizio, presenti nel mucchio selvaggio del Capitol. Due giorni fa un contractor militare di nome Wesley Beeler, 31 anni, è stato fermato e arrestato mentre tentava di entrare nella capitale con un permesso di dubbia validità ed in possesso di un’arma da fuoco e caricatori con 500 colpi. A sud di Washington, nella vecchia capitale confederata di Richmond, in Virginia, è inoltre in corso la grande adunanza dei ribelli filo-trumpisti in occasione dell’Annual Gun Rally, la manifestazione per il sostegno al Secondo emendamento. Presenti elementi dei Proud Boys e Oath keepers, ma anche milizie da ogni angolo degli Usa, i “biker for Trump” e i temutissimi “Boogaloo Bois”, gli estremisti trasversali in camicia hawaiana, pronti - dicono gli 007 - a colpire obiettivi in diversi Stati Usa qualora impossibilitati a penetrare la capitale, che pare praticamente inespugnabile. Come ultimo giorno da presidente Trump è pronto a concedere la grazia e a commutare la pena a circa cento persone, tra colletti bianchi condannati per vicende penali, rapper di fama, oltre a vecchi amici e alleati come Steve Bannon e Rudolph Giuliani. Possibile anche che il presidente uscente conceda il perdono preventivo ai membri della famiglia, mentre sarebbe tramontata l’ipotesi di graziare “ex ante” sé stesso. Domani, in ogni caso, oltre a non partecipare alla cerimonia di insediamento, Trump vorrebbe cestinare un’altra consuetudine e non lasciare alcuna lettera per il successore sulla scrivania dello Studio ovale. Starebbe valutando finanche di non scrivere nemmeno un saluto, come fece Obama con lui nel 2017. Il 45 esimo presidente americano dovrebbe lasciare la Casa Bianca molto presto, diverse ore prima del giuramento di Biden. Il comandante in capo (ancora per 24 ore) ha diffuso gli inviti per una cerimonia ristretta che si terrà alle 8 alla base di Andrews, in Maryland, dove arriverà con il Marine One e dove si imbarcherà per l’ultima volta sull’Air Force One diretto a West Palm Beach, in Florida, nella sua residenza di Mar-a-Lago. Ai suoi stretti collaboratori avrebbe confidato di voler partire presto perché vuole andare via da Washington da presidente, e soprattutto non ha nessuna intenzione di chiedere in prestito l’Air Force One a Biden. Il quale, subito dopo, inizierà a fare piazza pulita di ciò che rimane del suo predecessore, a partire dalla Casa Bianca, teatro di tre diversi focolai di Covid-19, le cui pulizie di fondo costeranno ai contribuenti circa 500 mila dollari. Russia. Un mese di carcere per Navalny. L’Onu e l’Ue chiedono il rilascio immediato Avvenire, 19 gennaio 2021 L’udienza di convalida nella stazione di polizia e senza giornalisti “per Covid”. Von der Leyen: “Le autorità garantiscano per la sua sicurezza”. Trenta giorni di carcere per Navalny. Con una sentenza lampo, il giudice del Tribunale del municipio di Khimki, fuori Mosca, ha convalidato l’arresto di Alexey Navalny, 44 anni, leader dell’opposizione, fermato domenica sera in aeroporto appena rimesso piede su suolo russo dopo essere stato ricoverato per mesi a Berlino in seguito ad avvelenamento. L’udienza è avvenuta all’interno della stazione numero 2 del dipartimento del ministero dell’Interno a Khimki, ovvero presso la stazione di polizia dove l’oppositore era stato condotto subito dopo l’arresto. La richiesta è stata avanzata dalla sezione moscovita del Servizio Penitenziario Federale (FSIN). Il 29 gennaio dovrebbe tenersi l’udienza sulla commutazione in pena effettiva dei 3 anni e 6 mesi di carcere comminati a Navalny nell’ambito del processo Yves Rocher, pena sinora sospesa in virtù della condizionale. In difesa di Navalny si sono levate voci autorevoli, a partire dall’Onu e dall’Unone Europea. L’Alto commissariato Onu per i diritti umani ha chiesto il rilascio immediato di Navalni. “Siamo profondamente turbati dall’arresto di Navalny e chiediamo il suo rilascio immediato nel rispetto dei suoi diritti in linea con lo stato di diritto. Ribadiamo la nostra richiesta di un’indagine approfondita e imparziale sul suo avvelenamento”, afferma un tweet dell’Ufficio dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani. Netta anche la presa di posizione dell’Unione Europea. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, condanna “l’arresto di Alexey Navalny da parte delle autorità russe, al suo ritorno in patria. Le autorità russe devono rilasciarlo immediatamente e garantirne la sicurezza. La detenzione degli oppositori è contraria agli impegni internazionali presi dalla Russia. Continuiamo ad aspettarci un’indagine approfondita e indipendente sull’attentato alla vita di Navalny. Monitoreremo la situazione con attenzione”, conclude. Libia. Fosse comuni, droga e tratta di migranti, il paese ostaggio degli orrori delle tribù di Domenico Quirico La Stampa, 19 gennaio 2021 La “banda dei sette fratelli” di Tarhuna sfilava per la città con i leoni. Dopo la ritirata di Haftar è fuggita lasciando centinaia di morti. Guardo scorrere i filmati delle fosse comuni che da settimane vengono alla luce a Tarhuna in Libia. Viene in mente lo slogan scritto su una maglietta che vidi in Ruanda al tempo del genocidio: “Seppellire i morti, non la verità”. Gli uomini che scavano alla ricerca dei corpi sono rivestiti delle tute bianche che la pandemia ci ha reso abituali, quotidiane, il volto è coperto da maschere. Scavano buche superficiali. Gli assassini avevano fretta, i nemici stavano entrando in città, hanno ucciso e poi gettato su uomini, donne, anche bambini, poche palate di sabbia. Chi ha scoperto le prime fosse racconta che uscivano dalla sabbia lembi di vestiti, frammenti di arti. Ne hanno portate alla luce già una trentina, con 120 corpi. Ma le persone che risultano scomparse a Tarhuna sono 350. I parenti mostrano le foto, chiedono di vedere i vestiti, gli oggetti ritrovati nelle fosse, cercano una traccia, una prova, una smentita. Di molti non si è ancora scoperta l’identità. Gli innominati: coloro che vengono uccisi e sepolti anonimamente. L’impressione più terribile l’offrono le sagome disegnate sulla sabbia dai vestiti, una uniforme, una lunga veste femminile, la tuta di un bimbo; sembrano ipotesi irrealizzate di esseri umani, la traccia lasciati da fantasmi che non potremo mai abbracciare. Palme derelitte presidiano il pietoso lavoro degli sterratori. Incombe il cielo di un azzurro così chiaro da sembrare irreale, metafisico. La forza dell’elemento distruttivo non si coniuga con la speranza o un progetto di un mondo nuovo: solo morte e guerra. C’è chi sostiene che l’impatto estetico con il macabro come le tracce di un massacro emozioni ma non aiuti a capire il male. Forse ha ragione: a furia di guardare atrocità, le sue prove e testimonianze alla fine ci appaiono irreali, finiamo per abituarci e non ne ricaviamo alcun arricchimento morale. I massacri sono tutti identici tra loro, Ruanda, Darfur, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia: i morti sono innocenti, gli assassini sono dei mostri, e la politica internazionale è complice o inesistente. Se non fosse per il mutare degli sfondi dietro le fosse comuni, la savana il deserto una città in rovina una foresta lussureggiante, sembrerebbe sempre la stessa storia: un gruppo che ha le armi massacra un gruppo che non le ha in un ennesimo ciclo di odio atavico. Più la Storia cambia e più le cose, queste cose, restano eguali. Il massacro è frutto di una violenza talora endemica talora episodica ma sempre in posti dove “ci si uccide reciprocamente”. La universalità del male ci solleva quasi dalla necessità di riflettere su quell’episodio particolare. Queste fosse comuni emergono dal nulla e altrettanto velocemente tornano nel nulla. Il sangue si coagula, i cadaveri senza nome e i loro assassini, anche loro senza nome, divengono sfondo. E l’orrore, così, risulta qualcosa di assurdo. A Tarhuna non deve finire così, dobbiamo volerne sapere di più. Innanzitutto perché esiste un gran numero di prove per dare nome agli assassini: la “banda dei sette fratelli”, la famiglia al-Kani, che per cinque anni ha tenuto in pugno con il crimine una città di tredicimila abitanti a settanta chilometri dalla capitale come se fosse una proprietà personale: tutto era loro abitanti case negozi attività commerciali traffici leciti e illeciti. Senza scomodarsi neppure a camuffarsi con cariche fittizie: governatore, sceicco, cadì. No: Tarhuna è della famiglia al-Kali e del suo esercito di sgherri. Bastava la violenza. Nessun pudore, niente pudicizia, solo latrocini a non finire. Non c’era altro da dire. C’è una foto dei loro anni di potere, una foto arrogante, di trionfo sguaiato: una sfilata per le vie della città dei sette fratelli, ammassati su un pick up, sul tetto della vettura sdraiate, nella loro vigile ferocia, due leonesse, gli animali di famiglia. Questi criminali sono cresciuti come un cancro all’interno della storia libica degli ultimi dieci anni. A Tarhuna, quando nel 2011 arrivarono le notizie dei moti a Bengasi e le immagini del Colonnello che balbettava minacce e castighi, i Kali capirono subito che il despota di Tripoli aveva smarrito l’unica cosa che anche loro, da criminali, rispettavano, la ferocia. Si aprivano nuove possibilità nel caos, ci affondarono le mani nella rivoluzione, nella “democrazia”. Deporre il potente per ereditarne il potere. Hanno eliminato una dopo l’altro le bande rivali, avviato la protezione dei traffici più redditizi come migranti e droga, imposto tasse su commerci e negozi, largheggiato in sequestri, torture, esecuzioni. Dal loro feudo si sono lanciati nella politica, ovvero combattuto guerre tribali con le altre milizie criminali per allargare il territorio, attaccato Tripoli dove hanno occupato per un po’ anche l’aeroporto. Battaglie a bassa intensità per gli strateghi da tavolino, ma i morti erano centinaia, i fuggiaschi migliaia. Comandava questi 5 anni di prepotenza l’implacabile Mohammed, il fratello maggiore, che raccontano professare senza turbamenti il doppio credo. Due fratelli sono morti, il più giovane Ali, ucciso in una faida con un gruppo rivale, e Muhsen, ucciso in un bombardamento. Poi nel 2019 hanno fatto una scelta sbagliata. I loro nemici, la banda di Misurata, altri predoni con medaglie rivoluzionarie, erano infeudati al governo di Tripoli, il clan dei Kali ha scelto il generale Haftar che, con l’aiuto di russi ed egiziani, voleva marciare sulla capitale. Tarhuna offriva una base perfetta per l’ultimo assalto, la strada per tripoli srotolata come un tappeto. La lercia milizia criminale “al Kaniya” è diventata così la gloriosa nona brigata dell’esercito di Haftar con gradi e bandiere. Ma Hatfar è stato sconfitto, a giugno anche la brigata dei sette fratelli ha dovuto fuggire verso est braccata dalle altre milizie banditesche del “governo’’ di Tripoli. Prima hanno scatenato un’ultima bava di frenesia omicida. Ecco, questa è la Libia: mentre noi barbugliamo di governi legittimi, coalizioni, partiti, cooperazione, diritto, qui tutto è elementare, arcaico e onnipotenti sono la forza bruta, il delitto, l’economia criminale. Dieci, cento bande come i Kali di Tarhuna controllano quartieri, città, regioni, si eliminano e si fondono secondo indecifrabili (per noi) geroglifici tribali e criminali. Tarhuna non è una piccola città senza importanza di una periferica guerra civile. È l’abbecedario delle guerre del nostro tempo in cui il crimine si militarizza e i ribelli usano mezzi criminali, dove è il bottino il vero scopo. E dove il massimo della ferocia è sempre necessaria per controllare gli inermi e spaventare i nemici. Il dilatarsi della violenza diventa Storia. Pensate che in fondo tutto si è concluso bene, i fratelli assassini sono fuggiti o morti, Tarhuna è sotto il controllo del nostro alleato, il democratico al Serraj? Vi sbagliate. La città è passata al dominio della famiglia criminale rivale dei Kali, il clan Na’aja. Libia. A Tripoli scompare il pane. Sarraj se la prende con la Banca Centrale di Roberto Prinzi Il Manifesto, 19 gennaio 2021 Prezzi della farina troppo alti, i panifici chiudono. Il premier va allo scontro con il governatore al-Kabir. Poi annuncia una nuova agenzia per la sicurezza, che indebolisce il ruolo del super ministro degli Interni Bashagha. Non c’è pace per il capo del Governo di Accordo nazionale libico (Gna) Fayez al-Sarraj. Nonostante i progressi con le autorità rivali dell’est, ad agitare il premier è ora il rischio di una crisi del pane. Sabato le prime avvisaglie quando la maggior parte dei panifici della capitale Tripoli è rimasta chiusa per mancanza di farina e per il caro-prezzi degli ingredienti usati per fare il pane. “L’Autorità della Guardia municipale ha iniziato a controllare le panetterie che vendono tre pagnotte per un dinaro perché le raccomandazioni del ministero dell’Economia sono di vendere una pagnotta per 20 centesimi di dinaro”, ha raccontato alla rete 218 Tv Ali Abu Azza, capo del comitato di controllo delle panetterie. Una raccomandazione inaccettabile però per i panettieri che, secondo Abu Azza, non possono ottenere prodotti a prezzi “conformi alle prescrizioni ministeriali”. In effetti, la decisione ministeriale sembra basarsi sui dati di mercato dell’anno passato: ora il prezzo per un sacco da 50 chili di farina è balzato a 210 dinari. Senza poi considerare che nelle 680 panetterie di Tripoli la farina è in esaurimento. A questi costi, spiegano i panettieri, non resta che aumentare il prezzo di vendita. La crisi del pane ha causato un nuovo scontro tra Sarraj e il governatore della Banca centrale al-Sadiq al-Kabir. La tensione tra i due - già evidente negli scorsi mesi per le divisioni delle entrate della vendita del petrolio - è aumentata domenica quando il premier ha inviato ad al-Kabir una lettera in cui ha sottolineato come l’esaurimento delle scorte di farina potrebbe “far entrare il Paese in una crisi alimentare”, osservando che l’ultimo credito per l’importazione di farina risale all’agosto 2020 mentre enormi somme di denaro sono state investite per importare beni non necessari. Accusato, al-Kabir si è difeso: la mancanza di farina è dovuta al contrabbando - la sua replica - e andrebbero pertanto monitorati meglio i confini e i porti. In una parola: è necessaria più sicurezza. Tema sentito da molti libici a cui ieri il premier ha risposto annunciando la creazione di un nuovo apparato securitario. Una decisione che va letta anche come l’ennesimo attacco al potente ministro degli Interni Bashagha con cui il rapporto è pessimo: l’organismo sarà infatti affidato ad al-Kikli, il capo delle milizie Abu Salim di Tripoli, concorrenti di quelle della città-stato di Misurata che fanno capo a Bashagha. Le tensioni interne in Tripolitania non devono però oscurare i progressi del Foro del Dialogo politico i cui 75 membri si sono espressi ieri sul meccanismo di selezione del governo che dovrà traghettare il Paese alle elezioni fissate per il 24 dicembre 2021. Un meccanismo complesso studiato per evitare i precedenti stalli politici e che è stato concordato sabato dai 18 membri del Comitato consultivo composto da sei esponenti per ciascuna delle tre regioni della Libia (Tripolitania a ovest, Fezzan a sud-ovest, Cirenaica a est). I risultati della votazione sono attesi per oggi. Honduras. Il sogno tradito dei poveri latinos di Francesca Paci La Stampa, 19 gennaio 2021 Non sapevano dove sarebbero arrivati i migranti che a centinaia, cinque giorni fa, si sono messi in marcia dal cuore industriale e depresso dell’Honduras puntando dritto al confine guatemalteco e da lì a quello messicano e poi, ancora più su, 3483 chilometri di polvere fino al muro che segna il limitare della libertà, il sogno americano. Non sapevano dove sarebbero arrivati perché l’importante era incamminarsi verso il futuro, l’elezione del nuovo inquilino della Casa Bianca Joe Biden e l’archiviazione del blindato quadriennio Trump. Lui, il presidente in pectore, gli aveva fatto sapere che bisognava aspettare perché non si cambia verso alla Storia dal giorno alla notte, che gli Stati Uniti avrebbero onorato “gli impegni nei confronti dei richiedenti asilo”, che gli aiuti non avrebbero tardato e il muro probabilmente sarebbe venuto giù. Ma rassicurazioni e buon senso non saziano la fame. Li hanno fermati ieri a bastonate e raffiche di lacrimogeni a Chiquimula, in Guatemala: un esercito a mani nude cresciuto lungo la strada come un fiume in piena, mille persone, duemila, forse tremila. Le cronache raccontano di decine di feriti, uomini scalzi perché nella fuga perdi sempre le scarpe, ragazzini, una falange che esplode disperdendosi nella giungla di cemento come già i profughi del campo di Lipa nella ghiacciata foresta bosniaca. Il Guatemala è la Bosnia latinoamericana e l’America siamo noi che, all’occorrenza, versiamo una lacrima per l’oltre muro. In mezzo ci sono gli altri, tutti gli altri, quelli che in queste ore camminano da San Pedro Sula a Tijuana come nel 2015 camminavano i tremila sopravvissuti alla rotta balcanica, in fuga dall’Ungheria con la bandiera europea nella destra e la foto della Merkel nella sinistra. Gli altri. Quelli che non sanno dove arrivano ma sanno perché partono: e i lacrimogeni possono poco quando le lacrime sono finite. Cambogia. Processo di massa contro decine di dirigenti dell’opposizione di Raimondo Bultrini La Repubblica, 19 gennaio 2021 Accusati di tradimento e cospirazione contro lo Stato perché mettono in discussione il governo del premier Hun Sen, al potere da quasi mezzo secolo. Amnesty International: “È una parodia della giustizia”. I giudici hanno dovuto dividere gli imputati in due gruppi, tanti erano i dissidenti accusati di aver cospirato contro lo Stato cambogiano e il suo inamovibile primo ministro Hun Sen al potere da circa mezzo secolo. Oggi è stata la volta del secondo gruppo di membri del disciolto partito di opposizione Cambodia National Rescue Party, eliminato con un decreto legge pochi mesi prima delle elezioni del 2018, quando il suo leader Kem Sokha venne messo agli arresti dove si trova ancora. Lo accusarono di aver ordito un complotto con gli Stati Uniti per rovesciare il premier. Inutili le proteste di Washington, che pure un pensiero potrebbe avercelo fatto, visto che Hun Sen propende decisamente verso l’asse di Pechino piuttosto che quello a ovest. Nell’aula dovevano esserci 61 persone, ma non è chiaro quanti fossero i presenti visto l’alto numero di esuli e fuggiaschi. La foto più drammatica ritrae la moglie di uno degli accusati che tenta inutilmente di raggiungere il palazzo di giustizia dove si svolge a porte chiuse il processo. In altre si vedono prima del loro ingresso l’avvocatessa-imputata Theary Seng che ha anche passaporto Usa e fa dichiarazioni battagliere contro chi vuole zittirla, e Sok Phat, un ex dirigente del Cnrp dal braccio mutilato. Ma è stata dal suo esilio americano la vice presidente del partito Mu Sochua a indicare il numero esatto degli imputati di questo secondo turno: 62. Ha anche annunciato, come hanno fatto in parecchi almeno a parole, che vorrebbe tornare nel suo Paese a combattere contro quella che ritiene poco meno di una dittatura. Anche a rischio di arresto. Né Mu Sochua né gli altri esuli in America e Europa possono però decidere di atterrare come e quando vogliono a Phnom Penh. Costretto come tutti ad andarsene per evitare processi, celle, minacce e persecuzioni, nel novembre scorso tentò - o fece finta - di tornare in patria anche Sam Rainsy, il vero e storico leader dell’opposizione al Super-presidente. Comprò un biglietto Parigi-Bangkok e andò all’aeroporto Charles de Gaulle con i fotografi. Dovette fermarsi al check-in della Thai Airways. Proprio quel mese iniziava il primo turno delle udienze contro i suoi compagni di partito e di opposizione accusati di tradimento e cospirazione contro lo Stato o favoreggiamento. Reati che secondo gli attivisti dei diritti umani sono solo il mezzo scelto per riaffermare il monopolio politico del Partito del Popolo di Sen, in sella dalla fine dell’emergenza seguita al delirante regime dei khmer rossi di Pol Pot che devastò il Paese alla fine anni ‘70. Dopo aver sciolto il Cnrp, messo in cella un po’ di capi e costretto ad andarsene gli altri, il premier - un ex khmer rosso pentito - stravinse a man bassa il voto del 2018. Hun Sen sapeva che i dissidenti potevano essere avversari temibili, visto che in precedenza gli avevano tolto parecchi consensi nonostante i presunti brogli. E continuavano a sobillare il Paese contro di lui utilizzando gli stessi media che sono stati in gran parte addomesticati con acquisti di quote e licenziamenti dei giornalisti troppo indipendenti. È in questo clima che suona ancora surreale l’ipotesi di un ritorno degli esuli. A quanti gli chiedevano se gli imputati fuggitivi - tra i quali molti parlamentari - sarebbero potuti tornare per il processo senza temere arresti, il portavoce del governo Phay Siphan ha garantito di sì. “Possono venire liberamente”, ha detto. “…Ma devono attenersi alle decisioni della Corte”. Ovvero rischiare una pena fino a 16 anni. Il direttore regionale di Amnesty International, Yamini Mishra, ha parlato del nodo più delicato di quella che definisce una parodia della giustizia. “Questi processi di massa sono un affronto agli standard internazionali del giusto processo”, ha detto. Secondo la dirigente esule Mu Sochua le autorità stanno spargendo paura per scoraggiare i sostenitori dell’opposizione dal radunarsi e protestare pubblicamente per l’arresto dei loro leader. Ma “alla fine dei conti - spiega Theary Seng - la decisione nei nostri riguardi sarà presa da politici, non da giudici”.