Braccialetti elettronici: una telenovela di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 18 gennaio 2021 Ce ne sono 10.155 ma, in base al contratto da 23 milioni con Fastweb, dovrebbero essere almeno 24.000. Eppure ne sono stati commissionati altri 1.600 alla stessa azienda. Aritmetica va cercando chi si perde nella sempre più straniante telenovela dei braccialetti elettronici. Nel dicembre 2016 lo Stato avvia una procedura ad evidenza pubblica che in agosto 2018 aggiudica a Fastweb la fornitura - da dicembre 2018 a dicembre 2021 per 7,7 milioni l’anno - di 1.000 (incrementabili sino a 1.200) braccialetti elettronici, dunque un totale di 23 milioni nel triennio per 36.000/43.000 dispositivi. Al 15 maggio 2020, però, cioè dopo 16 mesi di contratto, la relazione tecnica del decreto legge “Cura Italia” ne conteggia 2.600, e non i 16.000 che a quell’epoca ci si aspetterebbe. In dicembre il sottosegretario grillino alla Giustizia, Vittorio Ferraresi, in risposta all’interpellante Roberto Giachetti si inerpica in uno slalom che a un certo punto spende la cifra 5.000 ma “fermo restando che tutte le procedure relative alla gestione sono rimesse alla competenza esclusiva del Ministero dell’Interno”. Il quale, tre giorni fa alla Camera per bocca del viceministro Vito Crimi (reggente del M5Stelle), sempre su pungolo di Giachetti comunica che al 31 dicembre 2020 i braccialetti in uso sono 4.215 e quelli usabili 5.940, quindi in totale 10.155; e che il commissario all’emergenza Covid, su richiesta del Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, il 10 aprile 2020 ha affidato a Fastweb “una fornitura di 1.600 braccialetti per le finalità dei decreti legge per far fronte alla pandemia”. Risposta che circumnaviga sia il perché mai i braccialetti oggi siano 10.155 se, in base al contratto da 23 milioni con Fastweb per 1.000/1.200 al mese da fine 2018 a fine 2021, oggi dopo 24 mesi dovrebbero già essere almeno 24.000; sia che senso abbia, per la struttura di Arcuri, commissionarne altri 1.600 al medesimo fornitore il cui contratto ha sinora partorito meno della metà di quanto pattuito nel 2018. Ingiusta detenzione, è boom anche di risarcimenti Il Dubbio, 18 gennaio 2021 Nel 2019 sono stati mille i casi di ingiusta detenzione nel 2019, come rileva “Errorigiudiziari.com”, che ha analizzato i dati del ministero dell’Economia. Mille casi di ingiusta detenzione nel 2019 (ultimo dato disponibile): è quanto rilevato da “Errorigiudiziari.com”, che come ogni anno ha analizzato i dati in possesso del ministero dell’Economia e delle Finanze, incaricato dei risarcimenti, stilando una classifica dei casi distretto per distretto. Gli ultimi numeri disponibili raccontano di un incremento dei casi accertati (105 in più rispetto al 2018), con un aumento del 33 per cento della spesa, per un totale di risarcimenti pari a 44.894.510,30 euro. La città con più casi accertati è Napoli, che conta 129 ingiuste detenzioni, seguita da Reggio Calabria (120), Roma (105), Catanzaro (83), Bari (78), Catania (57), Messina (45), Milano e Venezia (42), Palermo (39). Sul piano dei risarcimenti, a guidare la classifica, con la spesa più alta, è Reggio Calabria, dove lo Stato ha dovuto sborsare poco meno di 10 milioni di euro (9.836.865), seguita a gran distanza da Roma (4.897.010 euro, circa la metà), Catanzaro (4.458.727 euro) e poi Catania, Palermo e Napoli (poco più di tre milioni a testa), Bari, con due milioni e mezzo circa, Lecce e Messina (poco meno di due milioni) e infine Venezia, con un milione e 300mila euro. Perché le toghe combattono la corruzione di Giuseppe Pignatone La Stampa, 18 gennaio 2021 Tra le tante polemiche che investono oggi la magistratura una delle più frequenti è espressa dall’affermazione, formulata con riferimento soprattutto alla mafia e alla corruzione, che essa “non deve fare indagini sul fenomeno nel suo complesso, ma si deve limitare ad accertare la responsabilità di singoli in ordine a fatti specifici”. In apparenza si tratta di una critica di natura squisitamente tecnica, che può sembrare addirittura inconfutabile. La realtà delle cose, come spesso avviene, è più complessa. In relazione alla mafia questa affermazione è frutto di una non adeguata comprensione dei reali termini del problema. È fuori discussione che la responsabilità penale, come sancisce l’articolo 27 della Costituzione, è personale e che quindi ogni singolo indagato o imputato risponde solo per i fatti specifici a lui contestati. L’esperienza di questi ultimi decenni, quanto meno dal maxiprocesso in poi, ci ha però insegnato che per fenomeni come le mafie tradizionali le singole responsabilità possono essere individuate, e poi correttamente giudicate, solo se inserite nel quadro complessivo dell’associazione, della sua struttura e delle sue regole di funzionamento. Questo insieme di elementi deve quindi essere oggetto prioritario e imprescindibile di indagine e conoscenza anche in sede processuale. La questione si pone invece, secondo me, in modo diverso per la corruzione, un campo in cui le polemiche e le accuse sono ancora più violente. In questo caso, (salvo errori o addirittura abusi, sempre possibili, che vanno perseguiti), la conoscenza del fenomeno “corruzione” in generale non può e non deve formare oggetto dell’indagine e del processo che devono restare limitati ai fatti specifici contestati alle singole persone. Anche se talvolta - e sempre più spesso - i fatti specifici sono numerosi e ripetuti nel tempo e anche se queste persone agiscono come componenti di associazioni per delinquere, tanto da giustificare poi nel linguaggio giornalistico l’uso di termini come “sistema” o “metodo” (fermo restando, è bene ricordarlo, che corruzione e mafia restano cose ben diverse). La conoscenza del fenomeno complessivo, cui contribuiscono in modo significativo anche le informazioni acquisite nel corso delle indagini, costituisce piuttosto un patrimonio collettivo, di interesse per studiosi, operatori dell’informazione, comuni cittadini ed anche magistrati; ma soprattutto, io credo, per la politica e per il legislatore. Naturalmente, non sempre questa distinzione è chiara a tutti i protagonisti. Per restare alle cronache più recenti, possiamo ricordare la lettera del presidente della Regione Lombardia che è sembrata chiedere alla procura della Repubblica un’autorizzazione ad acquistare i vaccini anti-influenzali a trattativa privata, un placet che naturalmente i pubblici ministeri non possono e non devono dare. Oppure, in senso opposto, l’intervista dell’ex procuratore della Repubblica di Napoli il quale ha raccontato che nel 2010, di fronte alle strade della città piene di rifiuti, si interrogava con i suoi colleghi sul modo di “spingere i sindaci a intervenire, a darsi da fare”, aggiungendo poi con evidente soddisfazione che la contestazione del reato di epidemia colposa “funzionò abbastanza bene, servì da sprone”. In qualche caso, invece, si ha la sensazione che con l’accusa alla magistratura di interessarsi del fenomeno invece che dei fatti specifici si voglia piuttosto dire che i reati di corruzione sono oggi troppo spesso oggetto di indagine e di giudizio. Bisogna allora ricordare non solo il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma anche, più specificamente, che è stato il Parlamento a introdurre - per parlare solo degli ultimi anni - nuovi reati e nuove e più gravi sanzioni, prima nel 2012 con la cd. Legge Severino, e poi, nel 2019, con la cd. Legge spazzacorrotti. Come è stato ancora il Parlamento ad autorizzare l’utilizzazione di nuovi strumenti di indagine, per esempio il trojan, entro margini molto più ampi di quelli che erano stati fissati dalla Corte di Cassazione. Insomma, l’indicazione della corruzione come uno dei reati oggi più gravi e dannosi per la società, da perseguire in via prioritaria, con attenzione e impegno, viene dal legislatore. E i magistrati, forse è banale ricordarlo, devono applicare la legge. La Consulta: il processo penale dura troppo di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2021 La Corte salva lo stop alla prescrizione ma ne afferma il ruolo di garanzia. Un approccio pragmatico all’eccezionalità della prima fase della pandemia, non una fatwa contro la prescrizione di cui, al contrario, viene sottolineata la natura di garanzia costituzionale che ne vieta applicazioni retroattive sfavorevoli all’imputato. E, tra le righe, si può anche leggere un monito per il blocco indifferenziato della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, introdotto dalla legge 3/2019 a far tempo dal i° gennaio 2020, la cui compatibilità coni principi costituzionali della ragionevole durata del processo e proporzionalità della sanzione è stata al centro di accese polemiche. È quanto emerge dalla sentenza 278/2020 della Corte costituzionale, che ha salvato la sospensione della prescrizione nei procedimenti penali rimasti fermi dal 9 marzo al 20 maggio 2020, durante la prima fase della pandemia, per arginare i contagi negli uffici giudiziari, in base agli articoli 83 del decreto legge 18/2020 e 36 del decreto legge 23/2020 (si veda II Sole 24 Ore del 24 dicembre 2020). Norme che sono state portate da più giudici di fronte alla Corte costituzionale proprio perché la sospensione retroattiva della prescrizione appare come una lesione delle garanzie. La Consulta ha ora chiarito che lo stop alla prescrizione, anche se ha riguardato fatti precedenti alla promulgazione della legge, non è incostituzionale perché ha contemporaneamente sospeso le attività giudiziarie con un limite temporale ragionevole e proporzionato alla finalità di tutela della salute collettiva. Se il blocco avesse riguardato solo la prescrizione, spiega la Corte, si sarebbe leso il principio di legalità della norma penale; un principio che si affianca, nello statuto delle garanzie costituzionali del diritto di difesa, alla presunzione di innocenza e alla ragionevole durata del processo. Non è tutto. Se è prerogativa del legislatore fissare la durata della prescrizione, la Consulta ricorda di poter intervenire su scelte manifestamente irragionevoli o sproporzionate alla gravità del reato, e che l’imputato, se lo Stato non è stato in grado di processarlo in un tempo ragionevole, può vantare un “diritto all’oblio”. Sono considerazioni che fanno apparire il congelamento indiscriminato della prescrizione per tutti i reati, a prescindere dalla loro gravità - come prevede la legge 3/2019 - una scelta esposta a censure di irragionevolezza e sproporzione, anche perché incide in larga misura su reati di minore allarme sociale. Infatti, già da prima dell’entrata in vigore della legge, la maggior parte dei reati più gravi - se non tutti - è soggetta a meccanismi di blocco della prescrizione che li rende di fatto imprescrittibili. Il vero problema, ammonisce la Corte, sono i tempi processuali. Non a caso, nella sentenza è scritto che “non può non notarsi la eccessiva durata di giudizi che già solo in primo grado, ancora in corso, hanno quasi esaurito il tempo massimo di prescrizione”. Si tratta di un problema che può essere risolto solo riducendo i tempi morti in cui non si svolge alcuna attività, che caratterizzano in modo diffuso la giurisdizione penale. Ma per farlo occorre - soprattutto - individuare le risorse. Censura al docente che punisce la vittima al posto del bullo di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2021 Il Tribunale conferma la sanzione disciplinare decisa dal preside. L’insegnante che scambia la vittima per il bullo deve essere sanzionata disciplinarmente. Lo ha stabilito il Tribunale di Bologna, sezione lavoro, con la sentenza 633 pubblicata il 29 dicembre 2020 (giudice Cosentino), che ha fatto il punto sulle responsabilità degli insegnanti durante l’orario scolastico. Al centro del processo la condotta di una professoressa di una scuola superiore della provincia di Bologna che aveva messo in punizione una studentessa, la quale, in realtà, aveva in precedenza denunciato al preside di aver subito atti di bullismo da parte dei compagni di classe. Lara-gazza era stata vittima inoltre di lanci di oggetti da parte degli alunni più grandi, ripetenti, problematici e con precedenti di aggressività anche in ambito extrascolastico. Ma l’insegnante evidentemente aveva dato più credito alla ricostruzione dei fatti dei compagni che sostenevano di essere stati insultati dalla ragazza. Infatti la docente, anziché indagare sulla situazione e parlarne col preside, aveva isolato la studentessa e l’aveva colpita con una nota disciplinare. L’aveva inoltre costretta a scrivere una lettera di scuse ai compagni e a ripetere una verifica (dopo averle fatto confessare di aver copiato) mentre tutti gli altri insieme scrivevano una lettera al preside riportando i comportamenti negativi dell’alunna. I genitori della ragazza però hanno inviato una segnalazione al preside. All’insegnante è quindi stata irrogata la sanzione disciplinare della censura, che la docente ha impugnato in tribunale. L’insegnante si è difesa sostenendo che il suo comportamento aveva la finalità di tutelare la ragazza, non di punirla. Da qui la motivazione della sentenza che definisce la situazione paradossale. “Ci si chiede - scrive il giudice - cosa avrebbe fatto l’insegnante se avesse voluto sanzionare l’allieva, se per tutelarla la si è umiliata, isolata, messa alla gogna”. Può darsi - continuala sentenza - che nel lavoro “per fare del bene si faccia involontariamente del male, ma se dopo la contestazione non si comprendono gli errori commessi allora la censura è davvero una sanzione troppo modesta”, anche per il rischio di ripetere in futuro errori simili. La sentenza si concentra sulla responsabilità degli insegnanti nei casi di bullismo, definendo grave la condotta di chi non segnala i fatti al dirigente e non riesce a inquadrare correttamente gli episodi, finendo per isolare la vittima. Va ricordato che la legge 71/2017 contro il cyberbullismo ha rafforzato il ruolo preventivo ed educativo degli insegnanti quando si trovino a dover fronteggiare episodi di prevaricazione all’interno della classe, prevedendo precise azioni di contrasto che mettano al centro la tutela della vittima. Minimizzare, ridicolizzare 0 non ascoltare le richieste di aiuto di un alunno rappresentano condotte gravi da parte dell’insegnante che perciò deve essere censurata. I docenti - si legge nella sentenza - hanno il compito di arginare le situazioni di conflitto all’interno della classe, evitando i casi di isolamento dal gruppo. Dare la colpa agli altri, autoelogiarsi, non informare il superiore gerarchico e non ammettere i propri errori fa scattare la mala fede che legittima sanzioni disciplinari anche più gravi della censura. Lazio. Anastasìa: “97 detenuti positivi al Covid, si diano risposte immediate” romalife.it, 18 gennaio 2021 “Ha ragione il ministro Speranza: non bisogna abbassare la guardia contro il Covid. La sua diffusione è ancora intensa, in modo particolare negli ambienti e tra le persone con maggiore vulnerabilità, come nelle Rsa e nelle carceri. A Roma, dopo quello di Regina Coeli, che va finalmente chiudendosi, è attivo dall’inizio dell’anno un focolaio a Rebibbia Nuovo complesso. Questa mattina erano 23 i detenuti positivi al virus, ma lo screening è ancora in corso e potrebbero aumentare”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, in merito ai dati sulla diffusione dei dati sul Covid-19 nelle carceri, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) del ministero della Giustizia. Secondo i dati del Dap aggiornati alle 20 dell’11 gennaio scorso, sono 624 i detenuti negli istituti penitenziari d’Italia positivi al Coronavirus, 587 dei quali asintomatici, 26 i ricoverati. Gli agenti della polizia penitenziaria contagiati sono 647, 64 dei quali sintomatici. Sessantuno i positivi fra il personale amministrativo e dirigenziale penitenziario. Secondo lo stesso report, i detenuti contagiati nelle carceri del Lazio sono 97. “Gli operatori sanitari e gli operatori penitenziari - prosegue Anastasìa - stanno affrontando queste sfide con grande senso di responsabilità e spirito di sacrificio, ma questa situazione e il continuo rischio dell’accendersi di nuovi focolai, anche con il coinvolgimento degli stessi operatori è difficile da sostenere. Per questo, rinnovo l’appello alla riduzione del numero dei detenuti e alla tempestiva vaccinazione di detenuti e operatori. Nonostante le autorevoli indicazioni del procuratore generale Salvi, in carcere sono ancora numerose le persone in attesa di giudizio, anche per reati non violenti, di cui sarebbe auspicabile la immediata scarcerazione”. “Ci aspettiamo che governo e parlamento rinnovino i permessi e le licenze straordinarie a semiliberi, lavoranti e permessanti fino al nuovo termine della emergenza Covid, che il ministro ha anticipato sarà portato al 30 aprile. Infine - conclude Anastasìa - aspettiamo risposte dal ministro, dal commissario Arcuri e dalle regioni sulla necessaria anticipazione della campagna vaccinale nelle carceri, a partire dagli anziani e dai portatori di patologie a rischio”. Santa Maria C.V. (Ce). Torture in carcere, 144 agenti nel mirino della Procura casertanews.it, 18 gennaio 2021 Prosegue l’indagine sulla “Mattanza della Settimana Santa”. Simulata una rivolta dopo il pestaggio. Reclusi minacciati per evitare denunce: “Dì che sei caduto dalle scale”. È ad un punto di svolta l’inchiesta della magistratura di Santa Maria Capua Vetere sulla rappresaglia ai danni dei detenuti del carcere “Francesco Uccella” avvenuta lo scorso 6 aprile. Sono 144 gli appartenenti alla polizia penitenziaria finiti nel mirino degli inquirenti per quella che è stata ribattezzata la “mattanza della settimana Santa”: 92 in forza al nucleo operativo di Napoli Secondigliano, 36 appartenenti al Notp di Santa Maria Capua Vetere e 18 in forza al Notp di Bellizzi Irpino (Avellino). La protesta dopo un caso Covid - Un vero e proprio pestaggio in piena regola con numerosi detenuti picchiati ed umiliati. Ma riannodiamo il nastro. Lo scorso 5 aprile, dopo aver appreso della positività al Covid di uno dei detenuti, c’è stata una protesta di alcuni internati del reparto Nilo consistita nella cosiddetta “battitura”, cioè del battere oggetti contro le porte delle celle, e nel mancato rientro in cella di un gruppo di facinorosi. Una protesta che rientrò già nel corso della serata dello stesso giorno. L’intervento dell’unità speciale - Il giorno successivo già dalle prime ore del pomeriggio si registrò un notevole afflusso di persone in servizio nei vari reparti della penitenziaria a livello regionale. Si tratta di un’unità speciale istituita nel marzo 2020 dal provveditore Antonio Fullone con il compito di svolgere “attività di supporto agli interventi che dovessero rendersi necessari in ambito penitenziario regionale”. Un ‘commando’ di circa 100 agenti che sarebbero dovuti intervenire “in caso di estrema necessità e per la sola temporanea esigenza associata al ripristino dei principali presidi posti a garanzia della turala dell’ordine e della sicurezza delle strutture penitenziarie”, si legge nel decreto del provveditore. La rappresaglia - A Santa Maria Capua Vetere, però, l’unità speciale è andata ben oltre il proprio compito. Secondo gli inquirenti, gli agenti avrebbero prelevato i detenuti dalle le sezioni del reparto Nilo costringendoli a subire una serie di violenze fisiche e psicologiche. In particolare, i reclusi sarebbero stati costretti ad inginocchiarsi, denudarsi, fare flessioni oltre a ricevere calci, schiaffi, pugni, manganellate e testate da parte degli agenti che indossavano caschi antisommossa. Picchiato detenuto sulla sedia a rotelle - Piano dopo piano i detenuti vennero fatti sfilare in un corridoio circondato dagli agenti e picchiati selvaggiamente fino ad essere condotti nelle sale destinate alla socialità. Qui le violenze sono proseguite al punto che qualche recluso è stato condotto in infermeria. Comunque, gli agenti si sarebbero accaniti sferrando colpi anche a detenuti a terra. Tra i reclusi che hanno ricevuto botte anche un detenuto su una sedia a rotelle ed il suo accompagnatore, entrambi presi a manganellate. La simulazione di una rivolta - Per giustificare tale atteggiamento, dopo aver ricondotto i reclusi nelle celle, gli agenti avrebbero fatto una nuova irruzione all’interno di una delle sale socialità dove avrebbero messo tutto a soqquadro. In qualche caso, addirittura, avrebbero calpestato abiti ravvedendosi di lasciare bene le impronte delle suole. Un’azione che per gli inquirenti rappresenta una simulazione di una rivolta poi sedata. Roma. Rebibbia, scavalca la recinzione ed evade: caccia all’uomo in tutta la città di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 18 gennaio 2021 Deve ancora scontare sei anni di carcere, ma ieri pomeriggio, approfittando probabilmente del fatto di poter circolare da solo in alcuni locali del carcere di Rebibbia, ha raggiunto un muro che si affaccia su via Bartolo Longo, e dopo aver scavalcato la recinzione, è fuggito. Un altro evaso dall’istituto in via Tiburtina, al quale gli investigatori della Penitenziaria stanno dando la caccia da ieri pomeriggio, poco prima delle 17, insieme con polizia e carabinieri. Le note di ricerca su Manolo Gambini, 41 anni, originario di Cerveteri, in passato arrestato per una serie di furti in abitazione, anche a Castiglion della Pescaia, in provincia di Grosseto, sono state diramate subito alle pattuglie: più volte è bastato questo per stringere subito il cerchio sugli evasi e riportarli in cella al massimo nel giro di qualche giorno, se non di qualche ora. Sembra che Gambini facesse parte di un ristretto gruppo di detenuti ai quali, come provvedimento premio, da qualche tempo era consentito frequentare i luoghi di lavoro all’interno di Rebibbia. E così sarebbe riuscito ad avvicinarsi a posti altrimenti inaccessibili per gli altri reclusi. Non è chiaro ancora se il 41enne abbia messo in atto un piano organizzato da tempo, oppure se abbia sfruttato l’occasione di un attimo in cui è rimasto da solo, ma si indaga anche sul motivo dell’evasione, visto che aveva comunque ottenuto qualche beneficio e non doveva scontare una lunga pena. Per il segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria (Spp), Aldo Di Giacomo, il recluso sarebbe fuggito “approfittando della carenza di personale. Molto probabilmente ha scavalcato la rete dei passeggi per poi arrampicarsi e scavalcare il muro di cinta. Questa ennesima evasione - aggiunge - mette a nudo tutte le criticità di un sistema carcerario sempre più in difficoltà sia per la natura delle strutture sia per le gravi carenze organiche e di sistemi di allarme adeguati. È sicuramente necessario investire in nuove strutture e nell’assunzione di personale della Penitenziaria. I governi nell’ultimo decennio hanno investito invece cifre insignificanti e l’evasione da Rebibbia ne è il risultato concreto”, conclude Di Giacomo. Pavia. Eletta la nuova Garante dei diritti dei detenuti nelle carceri provinciali di Daniela Scherrer La Provincia Pavese, 18 gennaio 2021 Cinque anni di impegno a tutto tondo. Si è chiuso il quinquennio di incarico di Vanna Jahier come garante provinciale dei diritti dei detenuti delle case circondariali di Pavia, Vigevano e Voghera. Al suo posto è subentrata Laura Cesaris, professore a contratto del corso di Diritto dell’esecuzione penale al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pavia e professore a contratto del corso di Diritto processuale penale alla Bocconi di Milano. Cesaris è stata componente “esperto” del Tribunale di sorveglianza di Milano dal 2008 al 2016. È stata eletta all’unanimità in Consiglio provinciale, dove è stata scelta in una rosa di cinque candidati: oltre a lei erano in corsa Valentina Bertoli, Anna Bruni, Deborah Galbo e Fabio Gandi. La figura del garante è particolarmente delicata, dal momento che coopera con le istituzioni penitenziarie e contribuisce alla piena realizzazione della finalità rieducativa della pena; inoltre verifica che siano garantite le prestazioni inerenti il diritto alla salute, il miglioramento della qualità della vita, l’istruzione e la formazione professionale oltre che l’inserimento al lavoro dei detenuti; è chiamata inoltre a controllare le condizioni dei luoghi di reclusione. Nell’esercizio delle funzioni può quindi effettuare colloqui con i detenuti e visitare gli istituti penitenziari senza necessità di autorizzazione. Vanna Jahier continuerà peraltro ad offrire il proprio sostegno all’interno del carcere di Torre del Gallo nella veste di volontaria. Tantissime le attività che la vulcanica ex-garante ha promosso a favore dei detenuti, dal teatro alla musica alla recente realizzazione di mascherine. Ed ora sta lavorando alla realizzazione di un canile interno al carcere. Laureana di Borrello (Rc). Riapre il carcere per detenuti a basso indice di pericolosità approdocalabria.it, 18 gennaio 2021 La decisione assunta dal Provveditorato regionale fa seguito alle dichiarazioni del ministro della Giustizia che aveva annunciato la volontà di riaprire il carcere. A darne notizia il Sappe che attraverso la sua dirigenza esprime soddisfazione per la decisione assunta. Per il momento nella struttura saranno ospitati solo detenuti a bassa pericolosità. È ufficiale: riapre la casa di reclusione “Luigi Daga” di Laureana di Borrello. Ad affermarlo sono il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante, e il segretario nazionale, Damiano Bellucci, che fanno riferimento ad una nota ufficiale inviata alle organizzazioni sindacali dal Provveditore regionale. “Nella stessa nota - aggiungono Durante e Bellucci - il provveditore ha comunicato che all’istituto saranno destinati detenuti a basso indice di pericolosità, ripristinando, quindi, l’originaria destinazione di istituto a custodia attenuata. Attualmente a Laureana prestano ancora servizio cinque agenti della polizia penitenziaria e a questi, sempre secondo quanto riferito dal provveditore, dovrebbero aggiungersene altri 10. Prendiamo favorevolmente atto - dicono ancora Durante e Bellucci - dell’iniziativa. La battaglia condotta dal Sappe al momento della chiusura è stata quanto mai utile ed efficace”. La casa di reclusione a custodia attenuata di Laureana di Borrello, istituita nel 2004 e diventata una struttura modello, era stata chiusa nell’ottobre dello scorso anno per decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La decisione aveva provocato proteste da parte degli enti locali, delle istituzioni locali e regionali ma anche prese di posizione di ex detenuti. Inizialmente al carcere di Laureana saranno assegnati detenuti a bassissimo indice di pericolosità, “possibilmente - recita la nota del provveditorato regionale - già destinatari di benefici penitenziari, essendo l’istituto a custodia attenuata con regime aperto e sorveglianza dinamica”. Asti. Il Garante dei detenuti critica il progetto del nuovo padiglione del carcere di Daniela Peira lanuovaprovincia.it, 18 gennaio 2021 Servirebbe raddoppiare tutti gli spazi di socialità. Il carcere di Asti è il più sovraffollato del Piemonte. Il passaggio da Casa circondariale a casa di reclusione del carcere di Quarto non è stato accompagnato da adeguamenti strutturali e di personale necessari. Già lo hanno dichiarato nel recente passato i sindacati degli agenti penitenziari e ora lo ribadisce anche il Dossier sulle criticità delle carceri piemontesi realizzato dal Garante dei Detenuti regionale Bruno Mellano. Carcere per carcere ha stilato una scheda in cui emergono i problemi più grossi da affrontare e risolvere. Per Asti si parte dalla notizia di pochi mesi fa riguardo all’annuncio di costruzione di un nuovo padiglione “modulare” per aumentare la capienza di altri 120 posti da aggiungere agli attuali 214 (anche se, come si vede all’articolo qui a fianco, di fatto le presenze sono mediamente oltre le 300 unità). I Garanti dei detenuti hanno posto problemi relativi a questo progetto che prevede l’eliminazione delle aree verdi e del campo sportivo. “Non si possono non considerare le conseguenze dell’eliminazione di queste aree, né tralasciare la compatibilità trattamentale fra una popolazione di detenuti che sarebbe per tre quarti in alta sicurezza e un quarto in media sicurezza. A questo punto - proseguono i Garanti - tutti gli spazi e i locali di socialità, di formazione, di scuola, di biblioteca, di uffici educatori, di infermeria, di aria aperta, di laboratorio, di lavorazioni dovranno essere raddoppiati per garantire la necessaria differenziazione e per rispettare l’incompatibilità dei circuiti detentivi”. Serve inoltre ripensare ai servizi di accoglienza dei parenti dei detenuti, sempre tenendo conto che si tratta di persone che spesso arrivano da lontano e viene chiesto il potenziamento delle reti informatiche per intensificare i colloqui a distanza, le attività scolastiche, formative e progettuali. Tutto questo, dice il Garante Mellano, dovrebbe essere messo nel conto delle risorse europee che l’Italia si accinge a ricevere per mettere in cantiere un completo rinnovamento del Paese. È un problema che ha attanagliato il carcere di Quarto fin dalla sua realizzazione: quello del sovraffollamento. Era così quando era solo carcere circondariale, è così oggi che è Casa di Reclusione, ovvero penitenziario che accoglie nella sua quasi totalità di celle detenuti con lunghe pene da scontare o ergastolani. Ed è il più sovraffollato del Piemonte, stando alla lettura dei dati sulla presenza e capienza nelle 13 carceri per adulti del Piemonte allegati al Dossier sulle criticità strutturali e logistiche delle carceri elaborato dal Garante regionale per i Detenuti. Al 28 dicembre 2020, nella casa di reclusione di Asti erano presenti 301 detenuti a fronte di una capienza dichiarata di 214 con una percentuale del 141% di affollamento, o meglio, di sovraffollamento. Ed è una percentuale che si discosta di poco dai dati di febbraio, sempre raccolti nello stesso dossier. In Piemonte nessun altro carcere ha questa percentuale di affollamento, solo Alba vi si avvicina. Intendiamoci, tutte le carceri ospitano più detenuti rispetto alle capienze dichiarate, ma Asti supera quasi di una volta e mezza. Sassari. Tesi di laurea su 4 detenuti al lavoro sull’archivio storico di Gavino Masia La Nuova Sardegna, 18 gennaio 2021 La ricerca storica nel vecchio archivio dell’Asinara diventa oggetto di una tesi di laurea, “Rieducazione non violenta, il lavoro dei detenuti”, discussa la settimana scorsa da una studentessa dell’università di Milano in Scienze politiche, economiche e sociali. La relatrice si chiama Elena Soldati e il relatore è il professore Davide Galliani. Il lavoro è stato incentrato sui detenuti del carcere di Bancali in articolo 21 che lavorano al recupero dei vecchi archivi del carcere dell’Asinara. Un lavoro che si svolge nella sede del Parco nazionale, in via Ponte Romano a Porto Torres e di cui si occupano quattro archivisti - Lorenzo, Mario, Gurdeep e Ylli - seguiti nel lavoro dalla responsabile dell’area educativa di Bancali Ilenia Troffa e dalle archiviste Claudia Sini e Lorena Piras. Il lavoro all’esterno della struttura fa parte dei benefici previsti nell’ordinamento penitenziario ed è quello di acquisire competenze specifiche in campo archivistico e informatico di cui potranno beneficiare in eventuali inserimenti nel mondo del lavoro. I quattro detenuti hanno potuto maturare anche il senso dell’utilità culturale e sociale del loro impegno e acquisire sul campo fiducia e stima per la propria persona. La ricerca storica e archivistica è iniziata diversi anni fa grazie a due progetti Por finanziati dall’Unione Europea, che hanno coinvolto anche le ex colonie penali di Tramariglio, Cuguttu, Castiadas, San Bartolomeo e quelle ancora attive di Is Arenas, Mamone e Isili. I detenuti hanno potuto così analizzare decine di migliaia di carte e di documenti inerenti l’organizzazione carceraria, la complessità della struttura detentiva e soprattutto l’amara quotidianità vissuta dagli uomini di pena. Un viaggio nella memoria che gli ha permesso di recuperare e analizzare diverse testimonianze del passato, pensieri e lettere di reclusi, documenti per lo più censurati provenienti da ogni parte d’Italia. Torino. Il teatro che rinasce dietro le mura del carcere di Dario Basile Corriere di Torino, 18 gennaio 2021 Torino avrà un nuovo teatro di quartiere, ma non sarà una sala come le altre perché questo spazio artistico verrà realizzato all’interno del carcere minorile e sarà gestito dai ragazzi reclusi. Le carceri sono generalmente percepite come degli spazi esterni e lontani. Le mura di cinta segnano un distacco netto tra chi sta dentro e chi sta fuori, come se le case circondariali non facessero pienamente parte della città. Eppure, il Ferrante Aporti si trova a poche fermate di tram dal centro città e anche i ragazzi ristretti appartengono alla nostra comunità. Il progetto Wallcoming, un nuovo teatro pubblico all’interno del carcere minorile di Torino, porta con sé un messaggio chiaro. Il carcere deve divenire trasparente davanti alla città e i ragazzi reclusi devono poter interagire con gli abitanti del quartiere, per favorire il loro reinserimento nella società. La casa di reclusione è uno specchio deformato che riflette (anche se in modo distorto e amplificato) i problemi della nostra società. L’arresto è per i minori oggi una misura estrema, ove possibile si cercano per i ragazzi delle misure alternative alla detenzione, come dei percorsi sanzionatori o l’inserimento in comunità di recupero. Il Ferrante Aporti ospita mediamente tra i trenta e i quaranta ragazzi, sono tutti maschi perché non c’è la sezione femminile. Oltre ai ragazzi che hanno dai 14 ai 17 anni, la struttura accoglie anche giovani di età compresa tra i 18 e 24 anni che hanno commesso il reato quando erano minorenni. Tra i reclusi c’è una leggera prevalenza di giovani di origine straniera. Sono le seconde generazioni di immigrazione e le nazionalità più ricorrenti sono il Marocco, la Romania, l’Albania e i Paesi dell’ex Jugoslavia. Tra i reati più comuni si registrano il furto, la rapina e le lesioni personali. Frequenti sono anche i reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Oltre a frequentare la scuola i giovani ristretti sono impegnati in varie attività ed eventi che un tempo venivano realizzati in un teatro presente all’interno del Ferrante Aporti. Quello era uno spazio importante, perché aveva assunto un ruolo centrale nella quotidianità dei ragazzi reclusi. Poi nel 2010, a seguito di alcuni lavori di ristrutturazione della struttura, il teatro viene completamente smantellato e al suo posto è rimasto un grande salone spoglio, ribattezzato dai ragazzi “la stanza del fumo”, che accoglie non più di qualche sedia e due calcetti. La nuova sala è poco funzionale perché ha, tra le altre cose, dei grossi problemi di acustica e male si adatta agli eventi che, ciclicamente, si cerca di organizzare all’interno del carcere. Nasce così l’idea di trasformare quella grande sala sguarnita in uno spazio multifunzionale a vocazione prevalentemente teatrale. Un nuovo teatro di quartiere, interno all’istituto ma aperto alla cittadinanza. Il progetto ha coinvolto i ragazzi detenuti, che hanno partecipato attivamente alla progettazione della trasformazione degli spazi comuni interni al carcere. È stata quindi lanciata una campagna di crowdfunding, che nella prima fase ha già raccolto 17.000 euro e ha ottenuto la sponsorizzazione tecnica di alcune aziende, che hanno offerto dei materiali. Come Traiano Luce che ha donato i fari per il palco. In questi giorni verrà dato il via ai lavori. Dopo la sistemazione dell’acustica verrà allestita la scena, che sarà realizzata con delle pedane modulari. Infine, in via Berruti e Ferrero verrà issata un’insegna che renderà visibile il teatro alla città. La sala ha infatti il vantaggio di avere un ingresso che dà direttamente sulla strada, permettendo ai visitatori di entrare senza dover percorrere tutta la struttura carceraria. Nel corridoio attiguo alla sala c’è il laboratorio di arte bianca con dei forni, da qui l’idea di aprire anche una nuova pizzeria di quartiere dove i pizzaioli saranno i ragazzi del Ferrante. Racconta Simona Vernaglione, direttrice dell’istituto: “All’inizio si pensava di realizzare il solito teatro interno, poi chiacchierando con gli operatori si è pensato a qualcosa di inclusivo, che non coinvolgesse solo gli ospiti dell’istituto. Se noi vogliamo che un ragazzo rientri nella società lo dobbiamo far sentire parte della comunità anche durante la fase detentiva, perché fai parte della città quotidianamente, non solo il giorno in cui vieni scarcerato. Anche la città non ci deve vedere semplicemente come un muro di cinta, ma ci deve percepire come un pezzo del suo quartiere”. L’idea è quella di realizzare un vero centro polifunzionale che può ospitare anche dei convegni sulle problematiche giovanili come la violenza e il bullismo. “È un progetto che io amo moltissimo - aggiunge la direttrice - perché è l’espressione di quello che cerchiamo di fare quotidianamente. Proviamo a riaccompagnare verso l’esterno un ragazzo che ha avuto delle difficoltà famigliari, economiche o ambientali e ha commesso degli errori o degli incidenti di percorso. Per insegnarti a nuotare devo portarti al mare, per questo bisogna dare a questi ragazzi delle opportunità per non farli sentire esclusi o dimenticati”. La comunicazione sbagliata nella selva oscura dei divieti di Paolo Graldi Il Mattino, 18 gennaio 2021 Nella selva oscura delle direttive su come muoversi dentro la pandemia nelle diverse regioni spunta il perfido gioco della mosca cieca: “fonti di palazzo Chigi”, da una parte, informano che è sempre possibile raggiungere le seconde case, anche fuori Regione, mentre se si legge con attenzione il relativo Dpcm di questa opportunità non v’è traccia alcuna. Si può dare il caso che, fermati a un posto di blocco, Dpcm alla mano, i tutori dell’ordine si sentano obbligati ad applicare le sanzioni previste. Non si tratta di dettagli, di piccoli refusi, di vuoti del testo: qui si gioca su un equivoco di fondo che alimenta confusione, frustrazione, disincanto, e in più si crea un campo di conflitti. Le famose “fonti” bene informate troppo spesso sbarellano, costrette a correzioni, notazioni, dietrofront. Tanto la fonte è ignota per definizione. I destinatari, noi tutti, sono così obbligati ad aggiornamenti e aggiustamenti in corsa, continui, nevrotizzanti. Nel pieno della giornata festiva, ieri, il ministro della Salute Speranza ha convocato d’urgenza il Comitato Tecnico Scientifico e ha ottenuto per oggi il rientro a scuola del 50 per cento degli studenti delle superiori, eventualità non prevista fino a un’oretta prima. Salvo le differenze tra Regioni e i comportamenti dei presidenti. Alcuni di essi già pronti con carta e penna, per i ricorsi al Tar, altra specialità di stagione: governo e istituzioni locali litigano quasi su tutto e i magistrati dirimono le questioni. A leggere le sentenze, poi, servono comitati di esperti crittografi, addetti alla traduzione in lingua italiana corrente, comprensibile agli italiani. La questione della comunicazione del governo, ma non solo di quello, del burocratese dilagante e del compiacimento sadico che ne consegue, in tempi di guerra alla pandemia, rappresentano un tema primario, fondamentale. Tema, dicono i fatti, ignorato e anche vilipeso. La lingua utile e comprensibile viene strapazzata, piegata, costretta nei labirinti di linguaggi intraducibili e, dunque, incomprensibili. Se è vero che il messaggio è come un dardo che viene lanciato da una postazione per colpire il centro del bersaglio, il dardo che esce di traiettoria, prende strade diverse dalla rotta corretta: la comunicazione si accartoccia, manda segnali sbagliati, perde di efficacia, si trasforma in un danno. Comunicare sembra facile, non lo è. Quel che è peggio è la presunzione che lo sia. Ad ogni ondata di provvedimenti ministeriali sono necessarie squadre di pompieri del linguaggio per sciogliere i nodi del burocratese, per rendere intellegibili i rimandi ad altre leggi, per svelare l’arcano dei commi e sottocommi, per sciogliere parole difficili che dovrebbe viceversa essere facile comprendere e utilizzare. In varie epoche, e anche di recente, sono cresciute ampollose promesse per una riforma del linguaggio, per una grammatica delle leggi e una nuova sintassi ministeriale capaci di superare il politichese, il burocratese e tutto l’armamentario del compiacimento delle complicazioni linguistiche. Non si è visto ancora niente all’orizzonte. Il fatto è che occorrono dei professionisti. E se ne vedono pochi. Occorrono staff specializzati. E ce ne sono, ma rari. Un conto è raccontare attraverso il linguaggio delle veline i retroscena, gli arabeschi, il gossip, i veleni, gli aut aut della chimica politica quotidiana, un altro conto è disporre di leggi lineari. Il vezzo di decidere a notte fonda per il giorno dopo scuote la paziente disponibilità del suddito della Costituzione, il quale vorrebbe confrontarsi con una migliore organizzazione del pensiero governativo e dell’azione che lo muove. Quante volte è stato criticato il metodo di emanare circolari attuative in prossimità massima del loro impiego? E tutti a dire: come possiamo fare a rispettarle in così ristretti margini di tempo? Di qui, direttamente, rabbia, frustrazione, voglia di rivolta. La pandemia, nella sua enorme e multiforme complessità, porrà sempre di più problemi di comunicazione. Lo vediamo già ora con la campagna vaccinale ai primi passi. Si assiste al susseguirsi degli ordini e dei contrordini, delle grida e dei silenzi, delle affermazioni e delle smentite in un clima di crescente incertezza (A chi tocca? E quando? E dove? E come?). Anche qui le leggi della comunicazione vengono piegate ad un dilettantismo deleterio. Serve e presto una informazione tempestiva e corretta, comprensibile per definizione, che attinga alla scientificità della materia. Serve professionismo e un taglio netto con i vizietti del velinismo d’autore. Un cambio di passo, insomma. Il rapporto dialogante con il cittadino in questa fase specialmente diviene essenziale, risolutivo. E quando al cittadino si chiede di adottare comportamenti che implicano sacrifici e costi, che sono comunque virtuosi, ecco che ogni indecisione, sgrammaticatura, ritardo si traduce in uno strappo, in una stizzita indifferenza. Se dalla pandemia si deve uscire tutti insieme chi scandisce il passo deve farlo senza balbuzie. Restituire campo al privato e restaurare spazi di libertà di Alberto Mingardi Corriere della Sera, 18 gennaio 2021 Il coronavirus ha costituito l’occasione per rinforzare il “pubblico”. Se il centro-destra vuole costruire un’alternativa deve porsi il problema di superare questa fase. In tutto il mondo, il Covid-19 ha prodotto più “pubblico” e meno “privato”. Da anni diciamo che le ideologie sono finite. Forse però non è un caso che la sinistra al governo abbia considerato la pandemia come un’occasione da non sprecare. Per quei partiti la politica resta lo strumento privilegiato per “perfezionare” le società, ha una funzione ortopedica. L’accentramento di poteri determinato dallo stato d’emergenza è un’opportunità. Persino le restrizioni alla libertà di movimento sono una prova generale per fare sul serio nella riduzione delle emissioni di CO2, ad esempio limitando drasticamente i voli internazionali, raddrizzando così a colpi di norme il rapporto fra uomo e ambiente. Piaccia o meno, è un’idea di governo chiara. Questo è vero anche in Italia e, nelle sue mosse di queste settimane, Matteo Renzi forse ha sottovalutato proprio questo aspetto: come esista una sensibilità ideologica comune, nei suoi ex compagni di strada. Ma in ogni crisi politica che si rispetti il gioco si allarga all’opposizione che ha il ruolo di prefigurare altre soluzioni. Che cosa vuole fare il centro-destra? L’incertezza di questi giorni, la possibilità, per quanto remota, di un ritorno alle urne lo obbligano a mettere a punto un’alternativa. Può amministrare con persone diverse lo Stato “più grande” che i suoi avversari stanno costruendo, contando sull’esperienza nei governi locali. Può giocare ancora la carta della politica dell’identità, come hanno fatto Salvini e Meloni con grande successo. Non da oggi, il centro-destra in Italia è più statalista dei suoi corrispettivi di altri Paesi e più refrattario a dotarsi di un armamentario di idee e proposte che inevitabilmente circoscriverebbe la creatività dei suoi leader. Forse però “questa volta è diverso”. È diverso il contesto in cui si terranno le prossime elezioni, è diverso il Paese che chi le vincerà dovrà governare. I dieci punti di Pil che abbiamo perso nel 2020, il fatto che a pagarne lo scotto sia stata la componente privata e non garantita del Paese, rappresentano una ferita profonda. Più profonda in Italia che altrove, dal momento che nel 2019 non eravamo ancora ritornati ai livelli di reddito precedenti la crisi finanziaria. L’allargarsi del “pubblico” a spese del “privato” è avvenuto, in questi mesi, su tre dimensioni diverse. Le libertà personali si sono ridotte. Se il diritto serve per proteggere i cittadini dall’onnipotenza dello Stato, quella protezione è oggi assai meno solida che in passato. Abbiamo capito che non possiamo dare per scontate cose apparentemente banali come la libertà di andare a fare shopping. Spesa e debito hanno sperimentato un aumento senza precedenti. Quei quattrini in parte hanno tamponato la riduzione delle entrate fiscali, inevitabile conseguenza del rallentamento dell’attività economica, in parte hanno cercato di ridurre il disagio sociale. I “ristori” sono stati una strategia obbligata, e lo sarebbero stati chiunque fosse al governo. Ma è difficile pensare che i ristori da una parte, il rischio di non poter svolgere la propria attività a causa dall’emergenza dall’altra, non influenzino il sistema di incentivi con cui le persone debbono confrontarsi. Come la disponibilità del reddito di cittadinanza avrà un qualche effetto sull’offerta di lavoro, così i ristori smorzeranno la propensione ad intraprendere. Per chi governa, può essere persino, cinicamente, una grande operazione: gli aiuti di oggi possono diventare voti domani. Per chi crede che le decisioni dei singoli siano miopi, e quelle dello Stato lungimiranti, stiamo facendo passi avanti in una direzione auspicabile. L’opposizione ha giocato fin qui sullo stesso terreno. Nella legge di Bilancio è stato recepito l’emendamento della Lega che esenta le partite Iva dal versare i contributi previdenziali per il 2021. A ogni nuova chiusura, i partiti di centro-destra hanno richiamato il governo sulla necessità di risarcimenti congrui alle attività interdette. È un’idea di governo alternativa a quella della sinistra? C’è chi sostiene che le innovazioni dell’ultimo anno dovrebbero essere permanenti. L’opposizione dovrebbe, quasi per definizione, sostenere che così non deve essere. Che per quanto possa essere faticoso e difficile, dovremo provare a invertire la tendenza: a restituire campo al privato, a restaurare spazi di libertà, a evitare insomma che tutto ciò che è “emergenziale” diventi “regolare”. Partiti e programmi sono in una certa misura l’esito delle circostanze, non solo di precise inclinazioni ideologiche. Pensando al futuro, il centro-destra non può eludere una questione “esistenziale”. C’è un blocco sociale, tradizionalmente allineato con esso, che le politiche di contrasto al Covid hanno costretto a chiedere aiuto ma che non ha l’assistenzialismo come sua massima aspirazione. Desidera anzi tornare a lavorare e rischiare, perché è nel lavoro e nel rischio che trova la sua identità. Aiutarlo a riconquistare i suoi spazi sarebbe già un programma politico. Censura arbitraria, i pericoli dei social di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 18 gennaio 2021 Erano considerati “mostri”, ma se mettono a tacere il nemico (Trump) non lo sono più? Fino all’altro ieri erano mostri giganteschi che divoravano i cervelli e la democrazia, oggi, se decidono di silenziare (insomma: censurare) il disgustoso nemico, diventano esclusivi club per soli gentiluomini, mere “agenzie private” che potranno pur decidere se mettere alla porta gli screanzati che violano le buone maniere di casa. Bisognerà pur scegliere una strada coerente, però: non si può lanciare l’allarme contro le mega-compagnie del web che svuotano i valori classici delle istituzioni democratiche, che incarnano un potere globale senza controlli e contrappesi e poi, solo per giustificare un’auspicata censura, minimizzare il loro ruolo come fossero innocui circoli degli scacchi autorizzati a scegliere i propri ospiti. Oggi, piaccia o non piaccia, la politica passa da lì, è quella la piazza contemporanea, e negare l’accesso a qualsivoglia soggetto politico diventa, per usare le sagge parole liberali di un’acerrima nemica di Trump come Angela Merkel (ben consapevole, nativa nella Germania comunista, della deriva totalitaria del potere), quanto meno una scelta “problematica” e fortemente lesiva della libertà d’espressione politica. Tanto più se quella scelta diventa zigzagante, opportunistica, mutevole, lasciando libero il campo a dittatori e attentatori seriali dei diritti fondamentali e ciarlatani di varia matrice, e non avendo nulla da eccepire, ad esempio, alle manifestazioni dell’antisemitismo “progressista” che si alimenta sui social con ripetuti attacchi a Israele e ripetuti inviti di radere al suolo l’”entità sionista”. E dunque si stabilisce che siano le mega-compagnie, talvolta demonizzate fino al giorno prima, ad essere investite del compito di stabilire, in uno spazio formalmente privato ma capace di coinvolgere milioni e forse miliardi di “utenti”, cosa è lecito dire e cosa non lo è. Una privatizzazione del diritto e della sanzione che dovrebbe preoccupare i custodi del santuario democratico. E invece, attraverso una rappresentazione iper-banalizzante dei padroni dei social (“agenzie private” come un club per soli uomini), a prevalere è il godimento per la messa al bando dell’orrido nemico. Senza considerare che la ruota della storia gira, e i sostenitori della censura arbitraria potrebbero diventare un giorno i nuovi censurati in base a una decisione “problematica”. Diritti umani, cosa è successo nel 2020 nei Paesi dell’area mediorientale di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 18 gennaio 2021 Il report di Human Rights Watch. Gravissima la situazione in Siria e Yemen dove milioni di persone soffrono la fame e la violenza. L’Egitto ha emesso 171 condanne a morte nel 2020. “Un generale peggioramento per la popolazione civile”. È stato presentato ieri il Report 2021 di Human Rights Watch. Il documento sintetizza i principali avvenimenti del 2020, Paese per Paese, e lancia uno sguardo al futuro. Forte l’attenzione per il cambio di presidenza negli Stati Uniti. Donald Trump è stato “un disastro per i diritti umani, ma il cambio di presidenza non rappresenta una panacea”, afferma Kenneth Roth, direttore di Human Rights Watch. “Non basta rimandare l’orologio indietro di quattro anni per rimediare ai danni. Il mondo non è più lo stesso”. Con questa dichiarazione, prosegue l’analisi regionale dello stato dei diritti umani. Il 2020 ha lasciato segni profondi nella zona del Medio oriente e nord Africa per l’intrecciarsi delle crisi sanitaria, economica, umanitaria. Embargo armi Usa. Human Rights Watch rileva con preoccupazione la vendita di armi da parte degli Stati Uniti a paesi come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, colpevoli di pesanti interventi militari in Yemen. In particolare, è sotto i riflettori la vendita di caccia F-35 e droni agli Emirati Arabi Uniti per un valore di oltre 23 miliardi di dollari. L’accordo sulla vendita fa parte degli “Accordi Abraham” tra Israele ed Emirati Arabi Uniti siglati il 15 settembre 2020 e mediati dagli Stati Uniti. Questo trasferimento di armi renderebbe gli Emirati l’unico paese dell’area, oltre a Israele, a possedere un tale equipaggiamento. Yemen e Siria. La situazione in Yemen è precipitata ulteriormente a causa della crisi sanitaria ed economica. Prosegue il conflitto che in sei anni ha ucciso almeno 18.400 civili e tiene in ostaggio di fame e povertà milioni di persone. Le organizzazioni umanitarie stimano che 24 milioni di civili hanno bisogno di assistenza umanitaria, alimentare, sanitaria e solo nel 2020 l’80% della popolazione, tra cui 12 milioni di minori, ha necessitato dell’assistenza umanitaria. Analoga la condizione della Siria, dove oltre 9 milioni di civili vivono insicurezza alimentare e oltre l’80% della popolazione è al di sotto della linea di povertà. Anno nero per il Libano Il 2020 per il Libano si è aperto con una pesante crisi economica. La moneta locale è crollata a partire dalla fine del 2019, e ha eroso la capacità della popolazione di approvvigionarsi e compare beni di prima necessità. La pandemia ha ulteriormente aggravato la situazione, provocando una grave crisi umanitaria. In agosto un’esplosione al porto della città ha ucciso oltre 200 persone, ferite 6000, distrutto 300mila abitazioni. Governi corrotti e inaffidabili. Il commento di Human Rights Watch: “la situazione per le associazioni umanitarie e di cooperazione internazionale è molto difficile, perché i governi abusanti e corrotti di paesi come Libano, Siria, Yemen confiscano gli aiuti internazionali e li utilizzano in modo poco limpido. Questo rende difficile aiutare la popolazione e distribuire fondi in modo imparziale”, afferma Ahmed Benchmasi, direttore della comunicazione per la regione Mena di Hrw. Egitto, diritti umani dimenticati. Il caso dello storico blogger attivista Alaa Abdel Fattah, incarcerato e torturato in Egitto, è un emblema dello stato dei diritti umani in Egitto, afferma poi Roth, che ha criticato duramente la posizione internazionale nei confronti del Paese. “La comunità internazionale tollera gli abusi gravissimi del regime di al-Sisi e anzi gli rende onore”, afferma alludendo alla Legion d’Onore ricevuta da al-Sisi a Parigi lo scorso dicembre. “Lo utilizza come guardiano dell’ordine regionale, anche se si tratta di una falsa stabilità. La repressione crea radicalizzazione e instabilità”. L’Egitto ha emesso 171 condanne a morte nel corso del 2020. Nell’area, molti paesi hanno rilasciato prigionieri per diminuire la diffusione del Covid-19 nelle carceri. Tuttavia, osserva Hrw, sono stati esclusi tutti gli oppositori politici, giornalisti, attivisti e difensori dei diritti umani. Si parla di Iran, Egitto, Bahrain, Algeria. Lavoratori e lavoratrici migranti. Il disastro sanitario ed economico ha colpito in modo durissimo lavoratori e lavoratrici migranti, che in paesi come il Libano nel 2019 erano 156mila. Qui, nel pieno dell’emergenza sanitaria decine di lavoratrici di nazionalità etiope sono state abbandonate dai datori di lavoro senza salario, documenti o sussistenza di alcun tipo. In generale, osserva Hrw, la condizione femminile è stata messa a dura prova in tutta la regione e sono aumentati i casi di violenza domestica. Tunisia. Dieci anni dopo l’inizio della primavera araba i giovani in rivolta contro la crisi di Francesco Battistini Corriere della Sera, 18 gennaio 2021 Sabato, mentre ricorre l’anniversario della morte di Mohamed Bouazizi che diede inizio alle rivolte nel 2011, 242 persone, perfino dodicenni sono state arrestate. Morì invano? Dieci anni dopo le fiamme che trasformarono l’ambulante Mohamed Bouazizi in una torcia umana, nel cerino della Rivoluzione dei Gelsomini e nel detonatore delle Primavere arabe, a un decennio da quel gennaio 2011 in cui il dittatore Ben Ali salì su un aereo e fuggì in Arabia Saudita, c’è una Tunisia impoverita, impaurita e di nuovo infiammata che non si fa più domande e ha una sola risposta: sì, Bouazizi morì per nulla e la sua protesta non è servita a molto. Dieci anni dopo, i gelsomini sono marciti. Secondo un sondaggio, il 58 per cento dei tunisini pensa si stesse meglio quando si stava peggio, il 28 si sente frustrato, l’84 odia tutti i politici e solo il 2 per cento onora ancora la memoria di Bouazizi e del suo sacrificio. Il decimo anniversario della prima delle Primavere, quelle che poi s’estesero all’Egitto di Mubarak, alla Libia di Gheddafi e alla Siria di Assad, non è una festa: oggi il Paese è sigillato dal Covid, l’economia è murata dalla crisi e i pugni si chiudono nella protesta. Sabato è stata una notte di ferro e fuoco, sassaiole e lacrimogeni da Tunisi a Sousse, da Hammamet a Tozeur, da Monastir a Djerba, migliaia di giovani in piazza e bande di ragazzini a saccheggiare negozi, case, banche, anche un canile comunale. La polizia ha arrestato 242 persone, perfino dodicenni. Barricate, copertoni in fumo, bombe molotov, taniche di benzina, un manifestante fermato mentre brandiva un machete. Decine d’agenti feriti e d’auto incendiate. Il governo parla di manifestazioni “contemporanee e organizzate” nelle aree popolari della capitale, da Kram al quartiere 5 dicembre, tutte scattate non appena alle 16 è cominciato il coprifuoco sanitario. E la sensazione è comunque che non finirà qui. “Il nostro lockdown politico dura da dieci anni!”, gridano le folle. L’emergenza coronavirus - 5.528 morti, 175mila casi, lo scorso venerdì da cifre record - s’è solo aggiunta alle mille di questo decennio: una disoccupazione giovanile al 35 per cento, un tunisino su cinque sotto la soglia di povertà, il crollo del turismo, delle esportazioni e degli investimenti stranieri, un’economia pubblica vicina alla bancarotta. I migranti verso l’Italia, che di nuovo salpano coi barconi da Sfax, da Zarzis o da Mahdia, sono un termometro preciso della crisi: erano 5.200 due anni fa, 2.654 nel 2019, sono stati più di 13mila nel 2020. Il gruppo più grosso di richiedenti asilo nel nostro Paese, spiega la ministra italiana dell’Interno, Luciana Lamorgese, è proprio quello dei tunisini. I disordini dell’ultimo weekend sono l’eco di una protesta generazionale, spinta anche dalle restrizioni per il virus, che sta investendo un po’ tutta l’Africa (in Algeria come in Namibia, in Ciad come in Uganda, nello Zimbabwe come in Angola). E si sommano a un migliaio di manifestazioni di protesta degli ultimi tre mesi, dice il Forum tunisino per l’economia e la disoccupazione: è forse più per questo che per il Covid, se le celebrazioni per il decimo anniversario della Rivoluzione dei Gelsomini sono state cancellate. Il governo è in grave ritardo sull’emergenza e qui, al contrario che nei vicini Marocco ed Egitto, i vaccini non sono ancora arrivati. Sono stati fissati quattro giorni di totale lockdown, proprio giovedì 14, tanto da rendere spettrale l’Avenue Bourghiba di Tunisi, di solito un brulichio di cortei. Più che il fallimento del nono governo in dieci anni, è il fallimento d’uno Stato. Il premier Hichem Mechichi promette il rimpasto di dodici ministri, a partire da quelli dell’Interno, dalla Sanità e della Giustizia, ma per il 68 per cento dei tunisini dovrebbero andarsene a casa lui e tutti gli altri: anche il potente leader degli islamisti di Ennahda, Rashid Gannouchi, ora presidente del Paramento; pure il presidente-populista Kais Saied, un professore universitario che era stato eletto meno di due anni fa perché fuori dai giochi e che, gli ultimi sei mesi, ha perso 46 punti nei sondaggi. L’assenza di riforme, la mancanza di prospettive, il terrorismo, la crisi della vicina Libia: i troppi fallimenti del dopo Ben Ali pesano sulle conquiste della Rivoluzione - dalla nuova Costituzione alla libertà di parola, dalle elezioni al premio Nobel della pace - che tutto il mondo ha riconosciuto alla Tunisia. Per i 132 morti e 4mila feriti nei giorni della repressione di dieci anni fa, nessuno è mai stato condannato. I poliziotti e i politici locali che esasperarono il povero Bouazizi, spingendolo a darsi fuoco, sono tornati in gran parte ai loro posti. Il tesoro di Ben Ali, morto nel 2019 con tutti i suoi segreti, è rimasto all’estero. E gli aiuti promessi dall’Occidente a una delle poche, vere democrazie del mondo arabo, sono rimaste chiacchiere: si campa d’elemosine Ue, americane e della Banca mondiale, ma nessun piano di sviluppo è stato adottato per evitare che questo piccolo Paese finisca nel caos del jihadismo. Bruciano ancora i copertoni nella notte, sulle circonvallazioni di Tunisi. Le strade sono svuotate dalla paura e dal virus. I murales dedicati a Bouazizi sono coperti di manifesti e di pubblicità. Morì invano? Sì, forse sì. Russia. Navalny arrestato all’aeroporto di Mosca di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 18 gennaio 2021 Al suo arrivo da Berlino gli agenti hanno chiesto all’oppositore di Putin - che poche settimane fa era stato avvelenato - di seguirlo al controllo passaporti. La moglie lo ha baciato in segno di saluto. È stato fermato poco dopo aver messo piede sul suolo russo, come i burocrati del servizio penitenziario avevano preannunciato. Aleksej Navalny, che si trovava da agosto in Germania dove i medici lo hanno salvato dall’avvelenamento al Novichok che aveva subìto in Siberia, non aveva potuto presentarsi negli ultimi mesi ai controlli di legge proprio perché ancora convalescente. Ma il fatto di non essersi precipitato a Mosca ha spinto l’autorità penitenziaria a sospendere la libertà condizionale di cui il principale oppositore russo godeva per una condanna del 2014. Ora verrà probabilmente portato davanti a un tribunale che dovrà decidere se fargli scontare per intero i tre anni e mezzo ai quali era stato condannato in un processo per truffa che anche la Corte europea dei diritti umani ha giudicato ingiusto. Non solo, perché nelle ultime settimane, quasi a volerlo convincere che non era il caso di tornare in patria, è scattata contro di lui una nuova denuncia di appropriazione indebita. Secondo gli inquirenti (definiti “fantasiosi” dai sostenitori di Navalny), il blogger avrebbe usato per spese personali quasi quattro milioni di euro del suo fondo anticorruzione. Il paladino della battaglia contro politici e funzionari che intascano mance, tangenti e quant’altro messo alla gogna per lo stesso peccato. E per questo reato potrebbe farsi fino a dieci anni dietro le sbarre. Navalny doveva arrivare all’aeroporto di Vnukovo su un volo low cost da Berlino, seguito da alcuni giornalisti che si erano imbarcati assieme a lui Ma all’ultimo momento l’aereo è stato fatto invece scendere in un altro scalo, quello di Sheremetyevo. A Vnukovo era stato vietato a tutti, compresi i cronisti, l’accesso “per motivi sanitari”. Ma centinaia di sostenitori avevano raggiunto l’aeroporto per accogliere Navalny. Alcuni collaboratori del suo fondo anticorruzione, compresa la sua vice Lyubov Sobol, sono stati fermati fuori del terminal. Altri sono stati costretti a scendere dal treno a San Pietroburgo mentre erano diretti verso la capitale. In volo Navalny ha confermato di aver sempre avuto intenzione di tornare. “Non sono andato all’estero per mia scelta, ma perché ero stato avvelenato. Sono arrivato in Germania in un contenitore sanitario sterile perché avevano tentato di uccidermi”. Fin dall’inizio l’esponente dell’opposizione ha accusato direttamente il Cremlino dell’attentato. Poi, con la collaborazione dell’organizzazione investigativa Bellingcat ha individuato gli agenti dell’Fsb (il successore del Kgb) che lo avevano seguito in Siberia e che si erano poi recati nell’ospedale dove l’avvocato era stato curato prima del trasferimento all’estero. Negli ultimi giorni Navalny aveva telefonato a uno degli agenti del commando, tale Konstantin Kudryavtsev, spacciandosi per un alto funzionario governativo. Nella conversazione registrata, l’uomo aveva raccontato di come lui e altri specialisti erano stati inviati in Siberia per far sparire le tracce del Novichok, soprattutto dalle mutande che erano state impregnate particolarmente “attorno all’area genitale”. La telefonata è stata definita falsa dal Cremlino che ha parlato di una provocazione dei servizi segreti internazionali. L’avvelenato è in carcere e sotto processo. “Si sono offesi perché mi sono rifiutato di morire”, ha commentato sarcastico. Invece, incredibilmente, fino ad ora non è stata aperta alcuna indagine sull’attentato. Questo perché il Cremlino continua a ripetere che in Russia non è stata mai trovata traccia della potente sostanza chimica con la quale già tre anni fa un altro servizio segreto, il Gru, aveva provato a eliminare in Inghilterra una spia passata al nemico, Sergej Skripal. Negli ultimi giorni però le autorità tedesche hanno consegnato agli inquirenti russi le analisi compiute su Navalny e copia di tutti gli interrogatori svoltisi fino ad ora, come richiesto insistentemente da Mosca. E a questo punto ci si aspetta che, almeno formalmente, un qualche cosa si muova su quello che tutto il mondo ritiene un fatto gravissimo. In quanto a Navalny, la situazione per il Cremlino non è affatto facile. In cella, e magari condannato a lunghe pene detentive, l’uomo diventerà un eroe per tutti gli oppositori di Putin. Inoltre è assai probabile che l’arresto inneschi nuove sanzioni economiche contro la Russia. E un peggioramento drastico delle relazioni con la nuova amministrazione americana che si insedierà a giorni. Fatti che darebbero un altro colpo alla già traballante economia del paese. D’altra parte, dal punto di vista del capo del Cremlino, un Navalny libero in vista delle elezioni politiche di settembre sarebbe forse ancora peggio. Putin conta di nuovo su una affermazione della sua compagine politica, Russia Unita. Ma oramai, grazie al blogger, sono sempre di più quelli che nel paese lo chiamano “il partito dei ladri e dei truffatori”. Ancora oggi Navalny è popolare solo in alcune fette della popolazione, soprattutto la borghesia urbana. Putin controlla ancora buona parte dell’elettorato, tanto che un recente sondaggio indipendente ha riscontrato come il 49 per cento della popolazione ritenga tutta la vicenda dell’avvelenamento un’invenzione dello stesso blogger o dei servizi dell’Ovest. Ma le cose, grazie anche a Internet, possono cambiare in Russia, come si è visto anche dall’attenzione con la quale vengono seguite in rete queste vicende. Basti pensare che la telefonata del finto dirigente pubblico all’agente dell’Fsb Kudryavtsev è stata vista su YouTube da 23 milioni di persone. Joe Biden, per bocca del suo consigliere per la sicurezza nazionale, chiede la scarcerazione immediata di Navalny: “Deve essere immediatamente liberato - afferma Jake Sullivan - e i responsabili del vergognoso attacco alla sua vita devono essere perseguiti”. Sullivan aggiunge che “gli attacchi del Cremlino a Navalny non sono solo una violazione dei diritti umani ma anche un affronto al popolo russo che vuole che la propria voce sia ascoltata”. Proteste contro la Russia anche dai vertici Ue: “Le autorità russe devono rispettare i diritti di Aleksei Navalny e rilasciarlo immediatamente”, twitta l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la sicurezza Josep Borrel. “La politicizzazione del sistema giudiziario è inaccettabile”. “La Russia e l’Europa sono agli antipodi nella protezione dei diritti umani” di Larissa M. Bieler swissinfo.ch, 18 gennaio 2021 Olga Romanova ha lasciato la Russia dopo essere stata messa sotto pressione a causa delle sue attività contro il regime. Ora la dissidente vive in Germania e denuncia gli abusi che accadono nel suo Paese. Al centro del suo lavoro: il problematico sistema giudiziario russo e la lotta per i diritti dei detenuti. Mentre la partecipazione diretta del popolo al governo dello Stato è una tradizione di lunga data in Svizzera, il popolo russo non ha ancora molte opportunità per farlo. Per questo motivo, personalità pubbliche e attivisti creano fondazioni e organizzazioni senza scopo di lucro per aiutare la società nel suo complesso e alcuni individui in ambiti che destano preoccupazione. Il sistema penitenziario è uno di questi ambiti. Rus Sidyashchaya (Russia dietro le sbarre) è la più nota organizzazione russa per i diritti umani e si occupa di questioni rilevanti. È diretta dall’attivista e saggista Olga Romanova. L’organizzazione aiuta i detenuti e le loro famiglie in varie fasi del loro percorso: durante il processo, dopo l’eventuale condanna, fino all’adattamento a una nuova vita dopo il rilascio. Gli ultimi tre anni sono stati molto intensi per Romanova: si è trasferita a Berlino per motivi politici, ha scritto un altro libro ed è diventata una blogger influente. Quali emozioni suscitano le notizie che provengono dalla Russia? Quando abbiamo sentito per la prima volta dell’avvelenamento di Navalny mi sono spaventata, davvero spaventata. Era come se le autorità del nostro paese cercassero di dire a tutti noi: “Sì, può succedere a chiunque”. Quale sarebbe la risposta adeguata della Svizzera a situazioni come il caso Navalny? Per la società civile che resiste in Russia, ogni reazione è importante. Abbiamo bisogno di percepire segnali di ascolto. Una notizia sulla stampa svizzera? Eccellente! Un forum, un workshop o un festival con la partecipazione di personalità politiche d’opposizione russe, attivisti, giornalisti e sostenitori dei diritti umani potrebbero rappresentare un grande sostegno. Le sanzioni svizzere contro determinate persone sono una mossa intelligente. Anche l’indagine sull’origine dei beni appartenenti a funzionari e ufficiali russi delle forze di sicurezza depositati in Svizzera potrebbe essere un’ottima risposta. Inoltre, ad esempio, se un residente svizzero che parla russo o che sta studiando russo scrivesse una lettera a un prigioniero politico in Russia, potrebbe essere di grande aiuto, perché una lettera in una busta affrancata proveniente dalla Svizzera potrebbe impressionare molto la direzione del carcere e quindi questo prigioniero potrebbe sfuggire alla tortura. Se cercassimo di confrontare la tutela dei diritti umani in Russia e in Europa, quali caratteristiche comuni e quali differenze emergerebbero? Siamo due mondi agli antipodi. Il compito principale degli attivisti per i diritti umani nella Russia del XXI secolo è quello di spiegare che la tortura è un male e proibita dalla Convenzione di Ginevra e che le persone non possono essere torturate in nessun caso. Dobbiamo ancora giustificarlo e dimostrarlo. In Russia, c’è una legge che permette l’uso della forza fisica e delle pistole stordenti contro un individuo in caso di aggressione fisica e gli agenti di polizia possono sempre sostenere di essere stati aggrediti, mentre l’opinione pubblica è abituata a credere che “non c’è fumo senza arrosto”. Quindi ci sono differenze sia nella legge che nell’applicazione della legge? Perché il sistema giudiziario russo è così raccapricciante, così corrotto? Perché l’élite russa crede di essere immune rispetto a questo stesso sistema e vive secondo il principio “Tutto per gli amici, la legge per i nemici”. Le persone che lavorano nelle carceri europee non sono gravate da pensieri sul loro stesso operato, ma qui osserviamo anche la differenza di mentalità. Una volta ho parlato con un impiegato di un carcere in Germania e gli ho chiesto se urlasse e reagisse violentemente contro i detenuti. Mi ha risposto: “No, mai. Perché? Se urlo, a loro non piacerebbe. Reagirebbero male e probabilmente si comporterebbero in modo irragionevole. Tutto questo porterebbe a insoddisfazione, lamentele e ispezioni. Perché dovrei provocare tutto questo? Non ho nemmeno provato a chiedergli delle torture. La durata delle pene in Russia e in Svizzera o in Germania è ovviamente differente. Qual è la differenza nei metodi? Il principale problema russo è quello della riabilitazione degli ex detenuti. L’Europa si concentra sul reinserimento di una persona nella società, fornendo un lavoro agli ex detenuti, evitando che diventino emarginati. In Russia il sistema di rinserimento è organizzato male e la detenzione è paragonabile a una condanna a vita. Una persona detenuta è semplicemente cancellata dalla società e stigmatizzata, di solito insieme alla sua famiglia. Come mai la Russia non rispetta i diritti umani fondamentali? Uno dei problemi principali è che le persone non sono consapevoli dei propri diritti. Lo Stato può prendere una ragazza di 14 anni da casa e rinchiuderla in un ospedale psichiatrico con il consenso dei genitori. Si è scoperto che alla madre è stato detto: “Sua figlia non sta bene”, le è stato dato un foglio da sottoscrivere e la madre ha firmato. La ragazza è stata trovata in tempo e salvata, ma è stato un caso molto complicato, perché i suoi genitori non avevano formalmente nulla contro il suo ricovero coatto. Come è considerato il lavoro della vostra organizzazione in Europa? Abbiamo ricevuto la sovvenzione dell’UE per monitorare il rispetto dei diritti umani nelle carceri. Ma dobbiamo affrontare alcuni ostacoli legati alle differenze di mentalità. Faccio un esempio: ogni Paese ha la quota Interpol che limita il numero di persone ricercate da rivendicare. La quota della Russia è molto alta, 160 persone, il doppio di quelle che Cina e Stati Uniti hanno insieme. Inoltre, il 99% dei ricercati è ceceno. Perché? Difficilmente possiamo spiegare agli europei che la maggior parte dei casi sopracitati sono persecuzioni politiche. Questo è il modo in cui il nostro governo tratta i suoi avversari. I documenti presentati per l’estradizione vengono eseguiti alla perfezione. Questo è un problema per le organizzazioni locali per i diritti umani, perché è difficile dimostrare che questi documenti sono falsi in sostanza. Dopo averli esaminati, l’europeo capisce che la persona in questione è un terrorista o un islamista, comunque un criminale che deve essere estradato. Così ha funzionato per diversi anni fino all’assassinio di Zelimkhan Khangoshvili a Berlino nel 2019, quando la Corte costituzionale si è fatta un quadro completo del caso e ha annunciato che i documenti provenienti dalla Cecenia non erano più validi perché lì la giustizia veniva violata. Come funziona concretamente la vostra organizzazione? A quali progetti state lavorando? Durante uno dei nostri ultimi progetti abbiamo intervistato i detenuti e le loro famiglie e, sulla base delle loro risposte, ci siamo fatti un’idea della situazione in un determinato carcere: come funziona il sistema di riscaldamento, se gli avvocati hanno contatto con i detenuti, se ci sono reclami presso la Corte europea dei diritti dell’uomo e così via. Come è andata? Abbiamo fatto un buon lavoro e gli effetti ci hanno stupito: di solito, le persone che ci parlano sono detenuti e parenti, ma in questo caso siamo stati contattati da funzionari della prigione e del campo. Sono stati un terzo di tutti gli intervistati. Ci hanno rivelato una serie di fatti: alcuni di loro sono stati costretti a lavorare per tre settimane senza un giorno di riposo, altri hanno dovuto convertire i locali della prigione in ospedali senza alcun controllo da parte dei medici. Le autorità li hanno lasciati senza alcun sostegno durante questa crisi e si sono rivolti a noi per paura, ovvero perché non ripongono alcuna fiducia nel governo. L’organizzazione ha festeggiato i 10 anni nel 2020, un anno piuttosto turbolento. A che punto è del suo percorso? “Russia Behind Bars” è sopravvissuta e si è sviluppata in modo significativo. La School of Public Defender - il progetto a lungo termine dell’organizzazione - è ancora in corso, anche se ora dobbiamo gestirla online a causa della pandemia. Inoltre, abbiamo creato degli studi legali affiliati, che forniscono finanziamenti per molti altri progetti. A dire la verità, Russia Behind Bars rimane il progetto della mia vita. Abbiamo affrontato la pandemia preparati perché durante i tre anni passati, quando ho vissuto fuori dalla Russia, abbiamo operato a distanza. Che impatto ha avuto la pandemia sulla vita nelle prigioni? La pandemia ha aggiunto il tema Covid-19 alla nostra agenda. Volevamo sapere quanti prigionieri sono stati effettivamente contagiati. La Svizzera e diversi Paesi dell’UE hanno smesso di inviare nuovi detenuti nelle prigioni durante la prima ondata. I condannati sono rimasti rinchiusi in casa e hanno aspettato di essere convocati per scontare la loro pena in carcere. I tribunali hanno cercato di evitare le pene detentive sostituendole con multe. Anche le estradizioni criminali sono diminuite. E in Russia? Secondo i dati ufficiali dell’aprile 2020, 3.000 dipendenti e 2.000 detenuti sono stati contagiati dal coronavirus nelle carceri russe. Ovviamente è impossibile. Le autorità hanno bisogno dei dati per renderli noti, mentre noi ne abbiamo bisogno per capire la reale portata del problema e trovare il modo di risolverlo. Norvegia. Utoya, a dieci anni dalla strage il memoriale di Oslo divide i norvegesi di Andrea Tarquini La Repubblica, 18 gennaio 2021 La costruzione di un memoriale con 77 colonne di bronzo (tante quante le vittime) provoca la protesta degli abitanti del quartiere della capitale dove sta sorgendo l’opera: “Non vogliamo vivere con il ricordo di quell’incubo davanti alle nostre finestre”. Il nazista Breivik, responsabile dell’eccidio, sconta la condanna a 21 anni in un trilocale con tutte le comodità in un carcere di massima sicurezza. Settantasette colonne di bronzo alte tre metri, come tante grandi lapidi tombali. Così, come un solenne cimitero, apparirà il memoriale della strage di Utoya, l’isola non lontano da Oslo dove il fanatico neonazista norvegese Anders Behring Breivik il 22 luglio 2011 massacrò a freddo, spietato con le sue armi di precisione, 69 ragazzi della gioventù laburista norvegese, dopo aver assassinato altre otto persone in centro con un attentato dinamitardo che distrusse il palazzo del governo. Il memoriale sorgerà a Utoyakaya, quel tratto di spiaggia sulla terraferma da dove parte il traghetto per l’isola. Le autorità e i giovani laburisti sperano che sia pronto il 22 luglio di quest’anno, per loro è una degna celebrazione del decennale, in nome della Memoria. Ma molti abitanti del luogo non sono d’accordo, e si sono rivolti alla giustizia per bloccare il cantiere già al lavoro: non vogliono vivere con il ricordo dell’eccidio davanti alle loro finestre o alla porta di casa. Dieci anni dopo, mentre Breivik - condannato a 21 anni - consuma i suoi giorni da detenuto di lusso in un trilocale nel più sorvegliato carcere di massima sicurezza del regno, la sofferta polemica spacca la Norvegia. “Io c’ero, ricordo ancora quelle ore terribili”, narra alla Agence France Presse un abitante del posto, Terje Lien, oggi pensionato 75enne. “Udii spari e raffiche. Mio figlio mi chiamò, vedeva decine di giovani, alcuni feriti, che tentavano di scampare alla strage nuotando su quel corto tratto di mare di seicento metri da Utoya e la terra ferma. Prendemmo subito la nostra barca, altra gente di qui fece lo stesso. Riuscimmo alla fine a salvare e portare a riva 28 giovani, mentre il massacro continuava, e udivamo raffiche e urla. Poi alla fine, tardi, arrivarono gli agenti speciali. Non conoscevano bene il luogo, li accompagnammo, e davanti ai nostri occhi vedemmo quelle decine di giovani uccisi, vite spezzate dal nazista, e altre decine giacere a terra feriti in pozze di sangue”. Terje Lien fu ricompensato con una medaglia, il popolare sovrano, re Harald, gliela consegnò di persona e gli strinse a lungo la mano. “Ma cosa volete che importi, non vogliamo vivere ogni giorno nel trauma davanti il ricordo di quell’incubo, che il memoriale riaccenderebbe”. La denuncia di gruppo degli abitanti del posto contro governo e gioventù laburista per bloccare la costruzione del memoriale divide il Paese. I familiari delle vittime non cedono, vogliono il monumento a ogni costo. “È giusto che sorga là a Utoyakaya, il luogo dove tutto avvenne”, afferma Lisbeth Kristine Royneland, rappresentante dell´associazione dei genitori e parenti dei giovani assassinati. “Là i nostri ragazzi si imbarcarono sul traghetto per Utoya, per il loro ultimo viaggio, là furono guidate le operazioni di soccorso”. Molti psicologi, citati dall’avvocato Pal Martin Sand, legale dei giovani laburisti nella causa in corso contro gli abitanti del litorale, esigono che sia stabilita e rispettata una gerarchia del dolore: che quindi il memoriale sia costruito, dando la priorità alla sofferenza di chi è stato più colpito dalla strage, cioè i familiari delle vittime e i sopravvissuti, rispetto al dolore e al trauma indiretto dei locali. Anne-Gry Ruud, un´altra abitante del posto, non è d´accordo. “Ricordo ancora gli spari, il rumore degli elicotteri, poi quei giovani in fuga feriti o morti in acqua, sparsi come caramelle multicolori; e adesso dovrei vivere con l’orrore sempre rammentato dal memoriale? Cosa significherebbe per noi qui, e rispetto a turisti e visitatori?”. Una precedente proposta di edificare là un memoriale era stata bocciata nel 2017. Un monumento, una lastra metallica circolare con i nomi delle vittime, sorge già sull’isola. Qualche anno fa ignoti vandali simpatizzanti di Breivik la imbrattarono spruzzandoci sopra una svastica con la vernice spray nera. In Burkina Faso, il Paese del terrore di Giovanni Porzio La Repubblica, 18 gennaio 2021 Stragi nei villaggi. Scuole chiuse. Un milione di disperati in fuga. Siamo stati nel cuore dell’avanzata jihadista in Africa. Che ormai sembra davvero inarrestabile. Reportage. In fuga dai villaggi in fiamme, dai cadaveri carbonizzati, dai proiettili di assassini senza volto. Arrivano sfiniti dopo giorni di cammino sui sentieri della savana, donne con i figli al collo, vecchi che trasportano quel che resta di una vita: una pentola, un catino di plastica, una coperta. “Sono piombati su Zimbeoga alle 8 del mattino” racconta Fatimata Soudri, madre di tre bambini. “Una quarantina di uomini armati di mitra e di machete, in sella alle moto, la faccia nascosta dal turbante. Sparavano senza motivo, gridavano Allahu akbar! ma hanno attaccato la moschea e ucciso l’imam. Hanno incendiato le capanne e il raccolto di miglio, hanno rubato il bestiame. Non abbiamo più niente e nessun posto dove andare”. Sono più di un milione gli sfollati del Burkina Faso. Gruppi jihadisti affiliati ad Al Qaeda e allo Stato islamico, milizie etniche e bande criminali dedite al traffico di armi, droga e migranti massacrano e terrorizzano la popolazione civile. Dal gennaio 2016, quando un commando di Al Qaeda nel Maghreb islamico uccise trenta persone all’hotel Splendid e al ristorante Cappuccino nel centro della capitale Ouagadougou, gli attacchi si sono moltiplicati: più di mille nel 2020 con oltre duemila vittime. Migliaia di scuole hanno dovuto chiudere lasciando a casa centinaia di migliaia di studenti. L’esercito, male equipaggiato e accusato di efferate violazioni dei diritti umani, sta perdendo il controllo di ampie zone del territorio: nelle votazioni dello scorso 22 novembre, che hanno riconfermato alla presidenza Roch Kaboré, quasi mezzo milione di elettori non ha potuto registrarsi. In queste terre di nessuno i fondamentalisti islamici guadagnano consensi con i metodi già sperimentati dai taliban in Afghanistan e dall’Isis in Siria: terrore e persuasione. Applicano rigidamente la sharia, condannano a morte o a dure pene corporali chi fuma, beve alcolici, ascolta musica, si prostituisce; ma garantiscono la sicurezza e i servizi sociali che lo Stato non è in grado di fornire: scuole coraniche, medicine e un salario mensile ai giovani che imbracciano il Kalashnikov. L’ex Alto Volta, ribattezzato Burkina Faso, la “Terra degli uomini integri”, dal leader rivoluzionario Thomas Sankara assassinato nel 1987, è oggi il principale teatro operativo dei gruppi jihadisti più attivi nella fascia sub-sahariana: lo Stato Islamico nel Grande Sahara dell’emiro Abu Walid al-Sahrawi e i qaedisti riuniti nel Gruppo di sostegno all’Islam e ai Musulmani guidato dal capo tuareg Iyad Ag Ghali, che puntano ad aprire un corridoio per espandersi verso i Paesi della costa atlantica. Da una saldatura con i nigeriani di Boko Haram e dello Stato islamico in Africa occidentale rischierebbe di prendere corpo un nuovo Califfato integralista con ramificazioni dal Mediterraneo al Golfo di Guinea. Il conflitto nel Sahel, da tempo latente, esplose dopo la caduta del regime di Gheddafi, quando nell’autunno 2011 centinaia di combattenti tuareg arruolati nella Legione araba del Colonnello libico si riversarono nel Nord del Mali in convogli carichi di mitragliatrici, esplosivi, lanciagranate: fecero causa comune con i jihadisti algerini e in poche settimane conquistarono Gao e Timbuctu, liberate solo in seguito al massiccio intervento militare della Francia. L’Occidente, allarmato dalla crescente instabilità in un’area ricca di uranio, oro e idrocarburi, ha dispiegato nei Paesi del Sahel un nutrito contingente multinazionale: cinquemila francesi inquadrati nell’operazione Barkhane, centinaia di forze speciali europee (operazione Takuba) e americane, sedicimila caschi blu africani, oltre a droni, sistemi di sorveglianza satellitare, addestratori, aerei e mezzi blindati. Ma la soluzione militare, come in Afghanistan e in Iraq, si è rivelata una chimera. I focolai insurrezionali, gli eccidi, le imboscate, gli attentati e i rapimenti sono in aumento in tutta la regione. La fragilità delle istituzioni, la povertà, la disoccupazione giovanile, le ingiustizie sociali, la corruzione, la carenza d’infrastrutture e la porosità dei confini offrono agli adepti della guerra santa le condizioni ideali per espandersi. E in Burkina Faso la crisi è esacerbata da potenti fattori endogeni: la recrudescenza dei conflitti agropastorali, amplificata dal cambiamento climatico e dalla contrazione delle terre arabili; la proliferazione delle milizie etniche; l’insorgenza di movimenti integralisti autoctoni; l’assenza dello Stato nelle aree più remote. A bordo di una Toyota blindata dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati posso spingermi a nord fino ai limiti della zone rouge, il triangolo della morte dove s’incrociano le frontiere di Mali, Niger e Burkina. A Barsalogho, polveroso agglomerato di casupole di fango spazzate dall’harmattan, il vento del deserto, gli sfollati sono sessantamila: ma i Peul, allevatori di bestiame, vivono segregati dagli altri profughi, agricoltori Mossi, l’etnia maggioritaria. “I jihadisti hanno attaccato il mio villaggio, 15 chilometri da qui, e hanno trucidato tre dei miei figli” racconta Bamogo Tibsiguia, 64 anni. “Parlavano il foulfouldé, la lingua dei pastori”. I Peul vivono nel terrore: “Solo noi donne usciamo dal campo per raccogliere legna e toéga, le foglie di baobab per la minestra” dice Saudata Diallo. “Alcune ragazze sono state aggredite e stuprate. Molti Peul sono scomparsi, uccisi dai soldati e dai koglweogo”. La scorsa estate, nei pressi della città di Djibo, sono state identificate due fosse comuni con i corpi di 180 “terroristi. I koglweogo, “guardiani della boscaglia “ in mooré, l’idioma dei Mossi, sono le temibili milizie di autodifesa, legalizzate nel gennaio 2020: cinquantamila uomini armati di fucili da caccia e di coltelli che dovrebbero garantire la sicurezza nelle zone rurali dove militari e poliziotti non sono presenti. Ma sono implicati, assieme ai reparti speciali dell’esercito, in numerosi episodi di giustizia sommaria, rappresaglie e massacri della minoranza Peul, che cerca di conseguenza la protezione, e la vendetta, dei miliziani islamisti. Oltre la cittadina di Dori non è possibile andare. Le strade sono minate. L’intera provincia fino ai confini maliani e nigerini è controllata dai gruppi jihadisti. Il campo profughi dell’Acnur, evacuato dopo avere subito quattro attacchi, si sta lentamente ripopolando, ma la situazione resta precaria. “Le zone sicure si stanno riducendo” spiegano i responsabili del campo. “Non siamo più in grado di distribuire aiuti nei villaggi. Ogni giorno arrivano donne disperate e bambini traumatizzati: hanno visto mariti e padri uccisi davanti ai loro occhi”. In ottobre un convoglio che trasportava sfollati è caduto in un’imboscata: 25 uomini sono stati trucidati. Nel mirino dei commando jihadisti sono finiti anche i cristiani, il 2 per cento dei venti milioni di burkinabè: ottanta vittime in due anni, soprattutto nelle diocesi di Dori, Kaya e Ouahigouya. “Se nessuno interviene, i cristiani sono destinati a scomparire” afferma il vescovo di Dori Laurent Dabiré, che ha dovuto chiudere tre delle sei parrocchie della diocesi e ospita i fedeli sfollati nell’edificio della cattedrale. “Il governo accusa i terroristi stranieri, ma non è così: gli aggressori sono giovani di questo Paese”. La regione a nord e a ovest di Dori è la culla del movimento jihadista burkinabè. Nel 2009 un imam radicale di Djibo, Ibrahim Malam Dicko, cominciò a predicare denunciando la corruzione dilagante, i soprusi dell’esercito e la marginalizzazione dei Peul. Nel 2013 fu arrestato in Mali dai militari francesi e scontò due anni di carcere a Bamako. Tornato in Burkina, fondò Ansarul Islam, i “Difensori dell’Islam”, e diede inizio all’insurrezione armata con assalti a caserme e stazioni della polizia. Dopo la sua morte, nel maggio 2017, è stato rimpiazzato dal fratello Jafar, che ha rafforzato i legami con i qaedisti di Iyad Ag Ghali. Inizialmente circoscritti alle regioni settentrionali, gli attacchi si sono propagati e intensificati in tutte le zone frontaliere del Paese, con sempre più frequenti incursioni anche al sud e in prossimità della capitale. A Nouna, 90 chilometri dal confine maliano, cinque ore di auto a ovest di Ouagadougou, l’ong italiana Intersos assiste centinaia di sfollati accampati in tende di fortuna e nei ruderi di fatiscenti edifici: costruisce latrine dove mancano le fognature, allestisce spazi educativi dove mancano le scuole, distribuisce kit igienici e soldi per le medicine. È una provincia florida, irrigata dal fiume Mouhoun: mais, cotone, manghi, pecore e vacche. Ma le condizioni dei profughi sono miserande: ragazzini malnutriti costretti a mendicare, bambini che vomitano per la malaria, famiglie con quattro mogli e venti figli ammassate in ricoveri di plastica e lamiera, donne che cucinano radici ed erbe su fuochi di sterpi. Moussa, 32 anni, parla a bassa voce. È un cacciatore Dozo, fiero di appartenere alla milizia popolare: “Siamo abituati a combattere. Gli amuleti ci proteggono dalle pallottole e ci rendono invisibili. Eravamo una cinquantina a difendere Kombori con i fucili calibro 12. Loro erano più di trecento, armati di kalashnikov, mitragliatrici e mortai. Abbiamo resistito un’ora, abbastanza per lasciar fuggire i quattromila abitanti del villaggio”. Mahmoudou Gana era consigliere al municipio di Kombori: “Hanno bruciato tutto, saccheggiato l’ospedale, distrutto le case. Ora controllano tutta l’area: almeno nove dei 17 villaggi della municipalità. Una parte della popolazione collabora con i jihadisti, per soldi, per paura, per ignoranza o perché è stata indottrinata. Amadou Koufa, il leader del Fronte di Macina, è molto influente in questa zona: ha ovunque infiltrati e informatori, la gente lo teme e lo rispetta”. Tolofudie Bourema è un miracolato. La sera del 3 settembre era nella sua casa in attesa di uscire per andare alla moschea. “All’improvviso” racconta “cinque uomini armati con in mano delle torce sono entrati e mi hanno sparato gridando Allahu akbar! Mi hanno ferito ma sono ancora vivo. Qualcuno mi aveva venduto ai terroristi perché ero uno dei notabili del villaggio”. Per sopravvivere, molti sfollati, bambini e adolescenti, vanno alla ricerca dell’oro, scavando giorno e notte profondi tunnel nel terreno argilloso: poche pagliuzze estratte a fatica dalle pietre macinate e dilavate, addensate dal mercurio in minuscole pepite, possono valere un pasto per tutta la famiglia. Le miniere informali sono dappertutto, lungo le strade, nei campi profughi, nella boscaglia. Ma anche su queste i gruppi armati hanno allungato i tentacoli, convertendole in una lucrosa fonte di finanziamento. I jihadisti acquartierati nelle foreste del parco nazionale W, a cavallo del Niger e del Benin, si sono impadroniti delle zone aurifere del sudest. “Sono riusciti a convincere la gente che stare con loro conviene” spiega l’analista Mahmadou Sawadogo. “Hanno cacciato i ranger dai parchi e dalle riserve protette, aprendole ai cercatori d’oro, ai bracconieri, ai trafficanti di droga, di carburante, di armi e di legname”. In Burkina Faso, Mali e Niger le miniere informali producono circa cinquanta tonnellate di oro all’anno, contrabbandato soprattutto in Togo, principale snodo verso il mercato degli Emirati Arabi Uniti: un business da due miliardi di dollari, in gran parte gestito dai gruppi jihadisti, che non hanno risparmiato sanguinosi attacchi alle installazioni e al personale delle multinazionali minerarie nel Sahel. Nel Burkina le concessioni accordate a società straniere, come la canadese Semafo e la Nordgold del magnate russo dell’acciaio Alexey Mordashov, non si traducono in vantaggi concreti per la popolazione rurale. Alimentano piuttosto il fuoco della propaganda integralista: dai pulpiti delle moschee e di internet gli imam maledicono il neocolonialismo che depreda le risorse nazionali. “I militari francesi bombardano dal cielo e se ne vanno” dice sconsolato Mahmadou Sawadogo. “Non hanno la minima idea di quello che sta succedendo in questo Paese”.