Perché i detenuti vanno vaccinati prioritariamente di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 17 gennaio 2021 Il focolaio delle carceri. Il carcere è un luogo dove purtroppo si vive affollati, dove è complicatissimo mantenere le distanze, dove le condizioni igienico-sanitarie non sono sempre ottimali. La galera, in quanto focolaio tipico, determina la sottrazione di energie mediche ai bisogni della comunità libera. L’American Medical Association ha raccomandato le autorità statunitensi di inserire i detenuti tra le categorie da vaccinare prioritariamente. Negli Usa i diciannove focolai più consistenti sono avvenuti in altrettante prigioni. Le cattive condizioni di vita e il sovraffollamento hanno aggravato il problema. Il Comitato consultivo del Centers for Disease Control and Disease Prevention ha sostanzialmente lasciato ai governi statali la possibilità di vaccinare i detenuti tra i primi gruppi sociali. Il Governatore democratico del New Jersey Phil Murphy, poco preoccupato della reazione isterica dei repubblicani di Trump, ha autorizzato la vaccinazione dei detenuti. Ha seguito le indicazioni della scienza e del buon senso, senza farsi dettare le priorità dal circolo vizioso mediatico-politico che si era schierato contro di lui. È partito dalla South Woods State Prison di Bridgeton, la più grande struttura penitenziaria dello Stato. Decine di migliaia di detenuti nel Massachusettes sono stati tra i primi a essere vaccinati nello Stato contro il coronavirus. Anche i prigionieri di Connecticut, Delaware, Maryland, Nebraska e New Mexico sono stati inseriti nella prima fascia. In Canada alcune centinaia di detenuti ristretti nelle carceri federali hanno cominciato a ricevere i vaccini Covid-19 nell’ambito di un progetto pilota. Si è scatenato un putiferio populista contro il governo canadese. Il ministro della Pubblica Sicurezza Bill Blair ha difeso l’approccio del governo federale affermando perentoriamente che il linguaggio del risentimento e della paura non deve avere posto in questa discussione. Dunque non si tema il linguaggio della paura e dell’odio e si aprano le carceri al vaccino per detenuti e staff penitenziario nel più breve tempo possibile. Si segua quanto autorevolmente richiesto dalla senatrice a vita Liliana Segre e dal Garante Nazionale Mauro Palma. Secondo i dati forniti dall’Amministrazione Penitenziaria vi sono ad oggi 109 positivi nel carcere milanese di Bollate, 59 nell’altro carcere milanese di San Vittore, 54 a Roma Rebibbia NC, 35 nell’altro carcere romano di Regina Coeli, 53 a Sulmona, 40 a Secondigliano e a 40 a Palermo, 29 a Lanciano. Tanti focolai per un totale di 718 detenuti positivi ai quali vanno aggiunti altri 701 operatori penitenziari. Perché la comunità penitenziaria va inserita nelle fasce di popolazione a cui destinare prioritariamente il vaccino? Per due ragioni, una delle quali riguarda la salute pubblica e l’altra l’etica dei diritti umani. Il carcere è un luogo dove purtroppo si vive affollati, dove è complicatissimo mantenere le distanze, dove le condizioni igienico-sanitarie non sono sempre ottimali. La galera, in quanto focolaio tipico, determina la sottrazione di energie mediche ai bisogni della comunità libera. A partire da marzo i detenuti sono stati costretti a vivere in uno stato di isolamento che si è andato a sommare a quello prodotto dalla carcerazione. Paura e solitudine hanno reso la pena ben più afflittiva rispetto a quella già ordinariamente sofferta. La vaccinazione di staff e detenuti consentirebbe la ripresa di una vita oggi ferma. Vaccinare i detenuti non è poi operazione complessa. Ad esempio i circa 1.300 detenuti di Bollate li si potrebbe vaccinare in poco tempo girando per le celle. Per questo ci rivolgiamo al Comitato Tecnico Scientifico del Ministero della Salute affinché, attraverso la somministrazione del vaccino, restituisca alla vita i detenuti, le loro famiglie, i lavoratori delle carceri. E ci rivolgiamo al Ministro della Salute Roberto Speranza affinché faccia sue le parole coraggiose del suo collega canadese. *Presidente di Antigone Covid, allarme per i contagi nelle carceri. Impennata a Milano ansa.it, 17 gennaio 2021 In tutta l’Italia sono aumentati del 25%. È il quadro che emerge dagli ultimi dati comunicati dal Dap ai sindacati della polizia penitenziaria. Impennata di contagi da Covid 19 nelle carceri milanesi. In una settimana i casi tra i detenuti sono cresciuti di oltre il triplo, mentre in tutta l’Italia sono aumentati del 25%. È il quadro che emerge dagli ultimi dati comunicati dal Dap ai sindacati della polizia penitenziaria, aggiornati al 14 gennaio. A Bollate erano 36 il 7 gennaio i positivi e ora sono saliti a 109, a cui va aggiunto un altro detenuto ricoverato in ospedale. A San Vittore invece i casi sono 59 (erano 17). In tutto il Paese i detenuti positivi sono 718 (681 asintomatici, 11 con sintomi e 26 ricoverati). Il 7 gennaio erano 556. In tutte le carceri della Lombardia i casi di Covid 19 sono 228, quasi un terzo di quelli nazionali. È invece il Lazio la seconda regione per numero di contagi, quasi tutti concentrati nei penitenziari romani. A Rebibbia sono 54 i positivi (altri 4 detenuti sono ricoverati in ospedale), 35 a Regina Coeli. Sessanta i casi in Veneto (37 a Vicenza e 23 a Venezia). Gli altri focolai di maggiore entità sono a Sulmona (53 detenuti), a Napoli nel carcere di Secondigliano (40), a Palermo nel penitenziario di Lorusso (40) e a Lanciano (29). In tutta Italia i poliziotti penitenziari contagiati sono 640. Sommati al personale (61) portano a 701 il totale dei positivi nell’amministrazione penitenziaria Italia Viva: “Sui braccialetti elettronici sosteniamo lotta di Giachetti e Bernardini” ansa.it, 17 gennaio 2021 “La risposta del Governo all’interpellanza urgente n. 2-01022 presentata da Italia Viva alla Camera, sull’affaire dei braccialetti elettronici, che il Governo e il commissario Arcuri avrebbero di fatto acquistato due volte, non fuga dubbi e lascia anzi presagire, come ben dice Roberto Giachetti, una realtà oscura e inquietante”. Lo dichiarano in una nota Raffaella Rojatti e Mirko Sotorino, rispettivamente responsabili Giustizia e Diritti Civili di Italia Viva della Provincia di Roma. “La battaglia contro la diffusione del Covid nelle carceri e per i diritti della popolazione carceraria, unitamente a quelli degli operatori che vi lavorano, incarnata dall’esponente radicale Rita Bernardini è sostenuta in Parlamento da Roberto Giachetti e altri parlamentari di Italia Viva, fa emergere anomalie e approssimazioni nella gestione degli appalti. L’interpellanza chiedeva “Chiarimenti in ordine alla fornitura e disponibilità dei braccialetti elettronici e all’affidamento di un’ulteriore fornitura alla società Fastweb da parte del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19?, è stata fatta nella consapevolezza che il ricorso ai braccialetti elettronici, previsto dal decreto Cura Italia, rappresenta un indispensabile strumento per alleggerire la pressione sulla popolazione carceraria. In risposta ai nostri parlamentari - continua la nota - il Ministero degli Interni, rappresentato in aula dal viceministro Crimi, ha dovuto di fatto ammettere che a fronte degli oltre 30 mila braccialetti commissionati a Fastweb nel lontano 2017-18, solo poco più di 10.000 sono stati consegnati. Nessuna risposta invece è pervenuta sul motivo per cui, anziché pretendere da Fastweb l’adempimento degli obblighi contrattuali, il commissario Arcuri abbia deciso di commissiariare, con trattativa diretta, la produzione di ulteriori 4 mila braccialetti. Il Covid è un’emergenza inedita. Con rammarico notiamo che, anche sul fronte carcerario, viene gestita dal Governo e dal Commissario Arcuri, con approssimazione e disattenzione. Siamo a fianco dei nostri parlamentari in questa battaglia fondamentale, per i diritti di chi in carcere è detenuto o lavora”. Così concludono Raffaella Rojatti e Mirko Sotorino, rispettivamente responsabili Giustizia e Diritti Civili di Italia Viva della Provincia di Roma. Covid, Ardita (Csm): “La vaccinazione dei detenuti è un’urgenza assoluta” Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2021 “Solo così si evita la scarcerazione di soggetti pericolosi”. “La vaccinazione della popolazione carceraria, e non solo dei detenuti, è assolutamente una urgenza. Va fatta subito questa scelta, senza il timore di andare contro l’opinione pubblica, perché questa decisione ha una sua razionalità”. Sono le parole pronunciate ai microfoni della trasmissione “Italiani contro le mafie”, su Inblu2000 Radio, da Sebastiano Ardita, consigliere del Csm e tra il 2002 e il 2011 direttore generale del Trattamento detenuti del Dap. Ardita spiega le due ragioni fondamentali della necessità di vaccinare i detenuti: “In carcere esiste un welfare rafforzato, cioè c’è un’azione sociale diversa da quella che riguarda i cittadini liberi. In più, in questo momento c’è un dibattito nel Paese secondo cui la carcerazione è una condizione che favorisce la diffusione del Covid. È un dibattito che ancora non è venuto a una certezza, ci sono dei dati in base ai quali non è esattamente così, ma non importa. Questo dibattito ha prodotto alcune scelte, come ad esempio dei provvedimenti normativi che hanno consentito la concessione della detenzione domiciliare, anche in condizioni di pericolosità o pericolo di fuga, cioè in condizioni che normalmente non avrebbero consentito la scarcerazione per alcuni soggetti. E questo, come è noto, ha prodotto delle polemiche”. Il magistrato chiosa: “Il punto qual è? Se c’è il dubbio che possa esserci una maggiore diffusione di Covid in carcere e la risposta è la scarcerazione, io penso che i cittadini preferiscano che siano somministrati i vaccini in tempo ai detenuti e si eviti, quindi, di risolvere il problema con la scarcerazione. Su un piatto della bilancia c’è la vaccinazione anticipata; su un altro c’è la possibilità di far uscire dal carcere un soggetto pericoloso che ha commesso reati gravi, perché i soggetti non pericolosi normalmente sono ammessi a misure alternative. Di fronte a una realtà simile qualunque persona di buon senso direbbe: ‘Vacciniamo subito i detenuti’. Quindi, ci sono due buonissime ragioni per procedere alla vaccinazione prioritaria dei detenuti e naturalmente del personale penitenziario”. Tortura. Il reato negato esiste ed è utile di Antonio Marchesi Il Manifesto, 17 gennaio 2021 A tre anni e mezzo dall’introduzione, nel 2017, del reato di tortura nel codice penale, la condanna di Ferrara è dunque, al di là delle considerazioni specifiche, un’occasione per un primo, provvisorio bilancio. Davvero una svolta per l’Italia. Un agente della polizia penitenziaria in servizio presso il carcere di Ferrara è stato condannato venerdì scorso, 15 gennaio, per tortura aggravata in quanto commessa da un pubblico ufficiale. Finora erano state inflitte condanne per tortura “ordinaria”, commessa da privati (da una banda di giovani che ha preso di mira una persona anziana). E per tortura erano stati condannati dal Tribunale di Messina due egiziani e un guineano colpevoli di maltrattamenti nei confronti dei migranti trattenuti in un campo di detenzione libico. Di tortura del pubblico ufficiale sono accusati i protagonisti di vicende avvenute in diverse altre carceri italiane (la lista è piuttosto lunga), ma i procedimenti sono ancora in corso. A tre anni e mezzo dall’introduzione, nel 2017, del reato di tortura nel codice penale, la condanna di Ferrara è dunque, al di là delle considerazioni specifiche, un’occasione per un primo, provvisorio bilancio. La battaglia per introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento aveva un valore sia politico sia giuridico e pratico: politico perché andava respinta la tesi, infondata e mistificatoria, secondo la quale in Italia un problema di tortura non si pone e che una nuova fattispecie penale non sarebbe servita; pratico perché nei trent’anni trascorsi tra la ratifica italiana della Convenzione contro la tortura e l’approvazione delle nuova legge, gli episodi di tortura, che non sono certo mancati, non sono stati mai puniti. La tortura non è stata punita neppure quando, a Genova, nel 2001, è stata praticata in modo sistematico. In quella come in altre occasioni, i giudici hanno accertato i fatti e li hanno definiti “tortura”. Di fronte alla mancanza di un reato specifico, però, si sono dovuti arrangiare: hanno incriminato i responsabili per reati generici (che il codice metteva loro a disposizione), punibili con pene lievi. E quando le pene sono lievi i reati si prescrivono in poco tempo e i responsabili restano impuniti. È per questo, per l’impunità, oltre che per le torture in sé, che l’Italia è stata condannata per i fatti di Genova dalla Corte di Strasburgo. Ed è stata la necessità di eseguire tali condanne che ha finalmente convinto la maggioranza dei parlamentari a legiferare. L’approvazione della nuova legge è stata preceduta peraltro da un dibattito vivace fra tre schieramenti: i contrari all’introduzione del nuovo reato, convinti, indipendentemente dalla sua definizione, che questo fosse contro le forze di polizia; il “fuoco amico”: coloro che erano convinti che l’inadeguatezza della definizione, peraltro frutto di un compromesso faticoso, la rendesse controproducente, al punto da preferire la non approvazione della legge; infine, i favorevoli i quali, pur condividendo un giudizio critico sulla definizione, ritenevano che fosse “meglio di niente”. Oltre a sottolineare l’importanza di porre fine alla rimozione politica della tortura, sul piano giuridico questi facevano affidamento sul fatto che i giudici avrebbero potuto correggere alcuni dei suoi difetti, attraverso un’interpretazione conforme al diritto internazionale. Si sono espresse in questo senso, fra le associazioni, Amnesty International, le cui richieste di adeguare l’ordinamento alla Convenzione contro la tortura risalgono ai primi anni novanta, e Antigone; fra le istituzioni, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. La prima condanna per tortura aggravata e il quadro complessivo che si va delineando sembrano dare ragione a questi ultimi. Pronunciandosi, qualche mese fa, su uno dei casi di tortura “ordinaria”, la Corte di Cassazione è riuscita a neutralizzare i punti più critici della legge facendo affidamento sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ora la prima condanna di un pubblico ufficiale dimostra che contro gli abusi di potere si può combattere e che lo si può fare anche nelle aule dei tribunali, dove la tortura può essere chiamata con il suo nome, senza ricorrere all’ipocrisia degli eufemismi. Non vi è dubbio che la ricerca di verità e giustizia continuerà a incontrare ostacoli formidabili quando di mezzo ci sono gli apparati dello Stato: è così ovunque, non solo nei paesi non democratici. Il reato di tortura si sta rivelando tuttavia uno strumento valido, per quanto imperfetto, nell’affrontare quegli ostacoli. Un passo avanti nel cammino dei diritti umani che un approccio pragmatico ha permesso di raggiungere. I segreti di una rivolta di Carlo Bonini, Giuliano Foschini, Lorenza Pleuteri e Fabio Tonacci La Repubblica, 17 gennaio 2021 La storia taciuta delle violenze del marzo 2020 nelle carceri italiane alla vigilia e nei primi giorni del lockdown. Quando i detenuti di 21 penitenziari misero in atto proteste, saccheggi ed evasioni. Con il bilancio di tredici morti. Dimenticati. Domenica 8 marzo 2020, il cielo di Modena promette pioggia. L’Italia si risveglia da una notte difficile. Che non dimenticherà. Circolano le bozze del drammatico decreto con cui il presidente del Consiglio si prepara a chiudere a tempo indeterminato il Paese per proteggerlo dalla prima ondata della pandemia Covid che ha cominciato a fare strage negli ospedali e nelle residenze per anziani. Tocca per prima alla Lombardia diventare zona rossa. Il resto dell’Italia la seguirà ad horas. Alle 13.15, nella Casa circondariale “Sant’Anna”, il grande carcere modenese, scoppia una rivolta. E così cominciano le sessanta ore più difficili della storia penitenziaria italiana. Vengono divelti i cancelli, branditi gli estintori, smontati i letti per farne mazze di ferro, un centinaio di detenuti assale i poliziotti della penitenziaria distruggendo tutto quello che capita a tiro. Telecamere di sorveglianza comprese. Modena, però, non è né un fuoco isolato, né un fuoco di paglia. È la scintilla che innesca una polveriera. La rivolta che travolge il “Sant’Anna” ha avuto infatti un prologo il giorno prima, nel carcere di Salerno. Un’esplosione di violenza sedata la sera stessa del 7 marzo, con il ritorno all’ordine. E che ora, a Modena, riprende vigore. Diventa incontenibile. Si prende le galere di tutta Italia. Dalla Puglia alla Lombardia, da San Vittore a Rebibbia. Alla fine, le carceri coinvolte saranno 21. Scontri, incendi, violenze, devastazioni, furti, evasioni di massa. Per un bilancio che conta 107 agenti feriti, 69 detenuti ricoverati in ospedale. E, soprattutto, tredici detenuti, tredici uomini che si trovavano nella custodia dello Stato, morti. Tre i deceduti a Rieti, uno a Bologna, cinque a Modena, altri quattro, trasferiti da Modena, e deceduti ad Alessandria, Parma, Verona e Ascoli. Si chiamavano Marco Boattini (40 anni), Ante Culic (41 anni), Carlos Samir Perez Alvarez (28 anni), Haitem Kedri (29 anni), Hafedh Chouchane (37 anni), Erial Ahmadi (36 anni), Slim Agrebi (40 anni), Ali Bakili (52 anni), Lofti Ben Mesmia (40 anni), Abdellah Rouan (34 anni), Artur Iuzu (42 anni), Ghazi Hadidi (36 anni), Salvatore Cuono Piscitelli (40 anni). È una strage che si consuma all’interno e a ridosso delle mura di cinta delle carceri. Una rivolta collettiva che, nei numeri, fa impallidire anche quella rimasta nella storia e nell’immaginario del circuito penitenziario italiano. Quella che, 40 anni prima, il 28 dicembre 1980, ha messo a ferro e fuoco il carcere speciale di Trani. Eppure, in quei giorni di fine inverno, in una sorta di nemesi simbolica, schiacciata come è dall’enormità dell’inedita esperienza collettiva della segregazione sanitaria, quella storia di carcerati che arriva dalle galere - quelle vere - si perde nelle cronache delle edizioni cartacee dei quotidiani, annega nei siti web, scivola in coda ai notiziari radiofonici. Quelle tredici morti vengono liquidate con la superficialità che si riserva a vicende che si ritiene non meritino domande, a maggior ragione se incrociano un’umanità di serie B quale viene considerata quella dei detenuti, e per le quali, dunque, la prima e più innocua delle spiegazioni è quella destinata a fare fede. “Erano tossicodipendenti in astinenza”, si dice. “Hanno assaltato le infermerie delle carceri e sono morti per overdose di farmaci”. Per giorni, dei morti non si conoscono neanche i nomi. “Ciò che più mi sconvolge - osserva oggi Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti - è che questa strage, in tempi di Covid, sia stata considerata come un effetto collaterale. I protagonisti Tuttavia, in questi dieci mesi, qualcosa si è mosso. Qualcuno delle domande ha cominciato a farle. Diverse procure hanno aperto indagini e stanno ancora investigando. Francesco Basentini, l’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), si è dimesso, e al suo posto il ministro Alfonso Bonafede ha scelto il magistrato antimafia Bernardo Papalia. Si sono mobilitate le associazioni e gli attivisti che hanno a cuore il presente, e dunque il futuro, di chi è costretto in prigione. Quei 13 detenuti sono davvero morti tutti per overdose? A nessuno di loro poteva essere risparmiato quel destino? E se qualcuno ha sbagliato, chi? Chi ha taciuto e continua a tacere una parte di verità? Abbiamo deciso anche noi di riavvolgere il nastro tornando a quei giorni di marzo. Abbiamo fatto domande, raccolto testimonianze inedite, documenti ufficiali, tra cui i rapporti dei direttori degli istituti penitenziari inviati al Dap e alcuni atti d’indagine. Ne emergono una ricostruzione inedita, molte omissioni, e la cattiva coscienza di chi, da quasi un anno, continua a volgere altrove lo sguardo. L’incipit 7 marzo 2020, ore 14.40, Casa circondariale “Antonio Caputo”, Salerno. La voce si era sparsa in un baleno. Rapida e incontrollata. Come sempre accade all’interno di un universo chiuso da mura di cinta quando la voce, la “notizia”, è potenzialmente capace di stravolgere la routine che scandisce il tempo e la vita dei reclusi. Il colloquio con i familiari, le visite, i permessi di uscita, i diritti. La faccenda, del resto, è enorme: pare che il governo stia per varare un decreto epocale, il cui impatto sulla vita degli italiani non ha precedenti dal dopoguerra ad oggi. E riguarderà anche le carceri. Forse. Dicono che per contenere il contagio da Covid-19 già fuori controllo, saranno eliminati i colloqui settimanali. Rita Romano, la direttrice del carcere di Salerno, una capienza ampiamente superata di 88 detenuti, ha convocato il comandante della polizia penitenziaria e il dirigente sanitario. I detenuti sono nervosi, vanno tranquillizzati. E anche con una qualche urgenza. Gli va spiegato che le misure restrittive sono dettate dalla straordinarietà della situazione. Che la stretta non riguarda la sola Salerno ma tutti gli istituti penitenziari del Paese. E che quella stretta, auspicabilmente, sarà temporanea. Per questo, Romano ha deciso di procedere a una visita all’interno della struttura. Inizieranno dalla Prima sezione (la media sicurezza) al primo piano B. Sono le 14.40 di sabato 7 marzo. Lei e i collaboratori hanno appena cominciato a parlare con i detenuti della sezione, quando dal secondo piano arriva improvviso un boato, provocato dallo sbattere incessante e violento delle brande metalliche contro le porte blindate delle celle e i cancelli di sbarramento. È il segnale. Romano e il personale che la accompagna trovano di corsa riparo al piano superiore, nella zona dell’edificio che chiamano “la Rotonda”. Lo spettacolo che si anima di fronte ai loro sguardi li atterrisce. Eccitati da urla belluine, uomini con il volto coperto da maglie e da scaldacollo, si sono armati con pezzi di ferro acuminati ricavati dalle brande e dalle gambe dei tavolini. Sciamano liberi fuori e dentro i settori di reclusione. Gli insorti hanno preso il controllo del piano dopo essersi impossessati delle chiavi che aprono i cancelli delle semisezioni A e B, rubandole a due poliziotti che adesso tengono in ostaggio. Hanno fracassato le telecamere di sorveglianza. Qualcuno ha divelto i cardini di un idrante antincendio e sta sparando acqua a due atmosfere di pressione su altri detenuti. A guidare la rivolta sono cinque italiani. “La colpa di tutto questo è dell’amministrazione penitenziaria!”, gridano alla direttrice. “I colloqui non si devono interrompere!”. La polveriera 8 marzo 2020, ore 13.15, Casa circondariale “Sant’Anna”, Modena. La scintilla si accende in cortile dopo pranzo. E dopo che i telegiornali hanno spiegato all’Italia cosa la aspetta. Mentre gli ospiti in cerca di aria cominciano a uscire dal Nuovo padiglione, alcuni detenuti si arrampicano sui muraglioni e raggiungono il camminamento della ronda della vigilanza. È il segnale che altri attendono. Il tunnel di collegamento tra il reparto e l’edificio principale della casa circondariale, che sulla carta conta 366 posti, viene preso d’assalto. Scoppiano disordini nella Terza sezione, i vetri vengono frantumati a calci e bastonate, i ribelli afferrano gli estintori e li azionano contro i poliziotti, che arretrano fino alla piazza davanti alla portineria. Dove rischiano di essere accerchiati. Alle loro spalle, infatti, sta avanzando un gruppo che ha appena scavalcato i divisori dei cortili dei passeggi. Il comandante della penitenziaria allerta la centrale operativa e tutto il personale presente in caserma. Agenti e graduati fuori servizio vedono apparire con sgomento messaggi drammatici nelle chat WhatsApp di lavoro. Il comandante si precipita nei locali dell’armeria centrale, ne apre gli armadi con le sue chiavi, afferra fucili e pistole che distribuisce ai suoi uomini e alle sue donne. È in atto un tentativo di evasione, il carcere è preso d’assedio dal suo interno. In tre - l’italiano Vincenzo Esposito Maiello, il tunisino Yassine Moutate e lo slavo Axel Mesarevic - guidano la rivolta, cui partecipano attivamente 98 carcerati. Il piano prevede di scavalcare il muro di cinta, ma servono armi per respingere le guardie. Il detenuto cui è affidata la custodia degli attrezzi per la manutenzione ordinaria del fabbricato ha aperto la porta ai rivoltosi, che hanno saccheggiato il deposito. Ora brandiscono martelli, mazze, cacciaviti, picconi, sassi, scalpelli, una mola elettrica. Hanno preso anche le scale di metallo per raggiungere la cima della recinzione esterna, ma alcuni colpi esplosi in aria li fanno desistere. Si spostano dunque tutti verso la porta carraia e la portineria. Pestando con i chiusini in ghisa riescono a superare la prima barriera, distruggendo i vetri delle porte di accesso pedonale. Tra la massa dei rivoltosi e la libertà c’è solo un ultimo diaframma: la porta carraia esterna. Che la Penitenziaria ha fortificato come l’ultima trincea, disponendo una barriera di macchine e mezzi blindati per contenere l’impatto. La visuale è offuscata dalla polvere degli estintori. A fatica, gli agenti respingono anche questo secondo assalto. Al terzo, però, capitolano. Un manipolo di uomini che si è staccato dal grosso dei rivoltosi, ha raggiunto l’infermeria. Con loro c’è Lofti Ben Mesmia, il primo a entrare e a dare il via al saccheggio. Dopo aver distrutto le porte degli ambulatori, il passo per arrivare al deposito delle medicine è stato breve. Due infermiere che stanno preparando le dosi da distribuire ai pazienti per la terapia quotidiana fuggono nel terrore. Come in preda all’astinenza più spaventosa, i carcerati afferrano i grossi sacchi neri usati per la spazzatura, li riempiono di tutto il metadone e gli psicofarmaci che riescono a trovare e li trascinano fuori. È il vero bottino di questa giornata di rabbia e violenza. Qualcuno comincia a ingerire pastiglie mentre è ancora nell’infermeria, altri escono con mani e tasche piene di confezioni e flaconi di metadone condensato. Litigano e si spingono per la spartizione della roba. Sul terreno del campo sportivo interno si forma un bivacco, dove ci si droga e ci si imbottisce di psicofarmaci. La rabbia si diluisce nel metadone. Relazione di servizio 20 maggio 2020. Relazione al provveditorato regionale di Bologna della direttrice del carcere di Modena, Maria Martone, sui fatti dell’8 marzo. Vincenzo Esposito Maiello, nato il 24-8-1974 a Casalnuovo di Napoli “Danneggia il box degli agenti nella Prima sezione del Vecchio padiglione, distrugge l’arredo della sezione stessa, poi per evadere dall’istituto insieme ad altri dotati di armi improprie (estintori, mazze di ferro, cacciavite, martelli, gambi di legno, liquidi infiammabili) danneggia la porta carraia interna e tenta di forzare la porta carraia esterna. Minaccia di morte e aggredisce il personale che lo respingeva. Successivamente appicca il fuoco a una cella e ai cassoni dell’immondizia. Lancia oggetti contundenti contro il personale e appicca il fuoco a un materasso nell’atrio prossimo alla portineria interna. Offende e minaccia di morte il personale della polizia penitenziaria. Assume farmaci sottratti all’area sanitaria”. Erial Ahmadi, nato l’1-1-1983 a Casablanca (Marocco) “Insieme ad altri soggetti danneggia la Settima sezione del Nuovo padiglione. Sottrae un quantitativo di beni e si introduce nel magazzino farmaci dell’area sanitaria, sottrae un cellulare dall’ufficio matricole”. Deceduto. Slim Agrebi, nato il 21-5-1979 a Sfax (Tunisia) “Danneggia il box degli agenti della Terza sezione. Malgrado gli inviti a desistere, minaccia gravi lesioni al personale. In possesso di armi improprie (estintori, bastoni, caditoie), approfittando del lancio di oggetti contundenti verso il personale, danneggia la porta carraia interna, si introduce all’interno incitando gli altri a un tentativo di evasione. Nella sua camera vengono rinvenuti beni e farmaci sottratti dall’ufficio della sorveglianza generale e all’area sanitaria. Dopo aver assunto imprecisati quantitativi di metadone con altri detenuti della sezione, perde conoscenza. Alcuni dei presenti tentano di rianimarlo, prima di portarlo al piano terra e consegnarlo al personale della polizia penitenziaria”. Deceduto. Lofti Ben Mesmia, nato il 17-10-1979 in Tunisia “Saccheggia la farmacia riportando in sezione un consistente quantitativo di medicinali, insieme ad altri detenuti alcuni dei quali travisati”. Deceduto. Hafedh Chouchane, nato il 9-1-1984 a Mahdia (Tunisia) “Unitamente ad altri detenuti, dotati di cacciaviti e martelli, con l’intento di procurare lesioni al personale della penitenziaria che ne impediva l’evasione dal muro di cinta, in prossimità della garitta 4 lancia oggetti. In possesso di un flacone di metadone, partecipa a un’estesa e violenta rissa tra soggetti di origine tunisina e soggetti di altre nazionalità originata dall’ottenimento di farmaci. Dopo aver assunto quantitativi di metadone perde conoscenza. Altri detenuti tentano di rianimarlo prima di portarlo al piano terra e consegnarlo al personale di polizia penitenziaria”. Deceduto. Sasà Ascoli, 10 marzo 2020. In morte di Salvatore Piscitelli, detto Sasà. Del carcere di Modena è rimasto poco. Diciamo pure quasi niente. Si contano i cadaveri. Cinque ragazzi non ce l’hanno fatta. Nei verbali di autopsia, la causa di morte è così riassunta: “Decesso riconducibile a edema polmonare acuto produttivo di insufficienza respiratoria acuta irreversibile”. A provocarla, overdose di metadone e ingestione di psicofarmaci. “Benzodiazepine, alprazolam, diazepam e pregabalin, lorazepam, ddp, pregabalin, lprazolam, nordezepam”, annoteranno i medici legali dopo le analisi di laboratorio. Per nessuno si evidenziano, invece, tracce di intossicazione da fumo: eppure le celle bruciavano e loro non sono riusciti a scappare. La rivolta ha reso il carcere “Inagibile”, certificano da Modena al Dipartimento centrale. “Possiamo ospitare pochissime persone”. Da Roma arriva l’ordine immediato di trasferire tutti, con poche eccezioni. In 471 partono per Porto Azzurro, Cagliari, Sassari, Cuneo, Trento, Vercelli, Belluno, Perugia, Rovigo, Sanremo, Genova, Ascoli, Terni, Parma, Reggio Emilia, Bollate. Tra loro c’era un uomo di 40 anni che sembrava un ragazzo. Si chiamava Salvatore Piscitelli. Per chi gli voleva bene, semplicemente Sasà. Di Sasà è infatti necessario parlare al passato. Perché non c’è più. Ha lasciato Modena da vivo, destinazione Ascoli. E dalla città marchigiana non è più tornato. A distanza di quasi un anno, non è ancora chiaro dove Sasà sia deceduto: in ospedale, dice la direttrice del carcere di Ascoli. In cella, giurano i suoi amici. In realtà sulla morte di Sasà tutto è ancora poco chiaro. Ecco perché la sua storia è forse il paradigma perfetto dei segreti che la sommossa ancora nasconde. Salvatore Cuono Piscitelli era nato ad Acerra il 10 gennaio del 1980. Orfano dei genitori (a soli due mesi del padre, a undici anche della madre), viene cresciuto dalla nonna. È il più piccolo di quattro fratelli, un maschio e due sorelle che ora vivono lontani: una in Svizzera, l’altra a Saronno. L’incontro con la droga è precocissimo. E, da ragazzo, quale è, infila strade inevitabilmente e invariabilmente storte. Il suo certificato penale è l’autoscatto di un tossico. In prigione a Modena era entrato per il furto e l’uso di una carta di credito rubata. Sarebbe uscito il 17 agosto. Ma non è escluso che prima o poi ci sarebbe ritornato. Non era la prima volta, infatti che finiva dietro le sbarre. Era stato anche nel carcere di Bollate, a Milano. Dove però aveva scoperto qualcosa. Qualcosa di particolare, che aveva giurato di non voler lasciare mai più: il teatro. Sasà era un attore. Era stata la galera a farlo salire per la prima volta su un palcoscenico. Ma aveva continuato a farlo anche da uomo libero, nella comunità Cascina Verde di Azzate, provincia di Varese. E nella casa Don Guanella di Barza d’Ispra, a pochi chilometri di distanza. Da qui Sergio Besi, uno dei dirigenti, racconta: “Sasà è arrivato da Bollate in affidamento in prova per motivi terapeutici a novembre 2017, caldeggiato da tutte le educatrici delle quali era la mascotte, nel senso buono. Era benvoluto da tutti. Si era inserito molto bene a livello lavorativo, era un ottimo lavapiatti. E le cose erano andate bene anche a livello di socializzazione, nonostante tutte le sue fragilità. Era un ragazzo che aveva le sue debolezze. Ma nello stesso tempo c’era bisogno di qualcuno che lo gestisse. Era un ragazzo di buon cuore ma molto fragile con alle spalle una vita e una famiglia estremamente sfortunata, di indole tutt’altro che criminale, un ragazzo che a mio modo di vedere avrebbe però trovato la sua dimensione sempre e solo in ambienti ‘protetti’. Con regole precise e staff qualificati: penso a psicologi, assistenti sociali. Ma penso anche alla protezione ‘materna’“. Besi ha ragione. Fuori dalla comunità Salvatore Piscitelli era di nuovo inciampato. E così era tornato in prigione, a Modena appunto. I report interni lo descrivono come un detenuto senza particolari problemi. Fino al giorno della rivolta. L’ultimo viaggio Il carcere di Modena è in fiamme. E Salvatore riesce a recuperare del metadone. Ne abusa. La situazione nella quale si trova non viene però notata da nessuno. Né dagli agenti, né dal personale sanitario. I documenti che Repubblica ha potuto consultare riportano infatti che Piscitelli, sedata la rivolta, viene fatto salire con altre persone su una camionetta. La direzione che il furgone della Penitenziaria prende è quella dell’istituto di pena di Ascoli. Da Modena giurano che al momento di lasciare il “Sant’Anna” Sasà sia in buone condizioni. O per lo meno non manifesti alcun problema che possa sconsigliare il lungo viaggio verso le Marche. “Sono tutti stati visitati da un medico”, diranno poi al Dap e al ministero della Giustizia. Ma è una bugia. O, almeno, questo indicano una serie di circostanze. Innanzitutto i numeri, che non tornano. Quanti sono i medici che hanno visitato i 471 detenuti? In quanto tempo l’hanno fatto? Cosa hanno potuto constatare? Ma ci sono poi le testimonianze raccolte fino a questo momento da un paio di giornalisti e dalla Procura. Assertive nel sostenere che quando parte da Modena Sasà è già in pessimo stato. E probabilmente ha bisogno di essere curato. “Stava malissimo - scrive un detenuto nel suo italiano sgrammaticato in una lettera - ed è stato anche picchiato sull’autobus. Quando siamo arrivati ad Ascoli, non riusciva a camminare”. “Quando ci hanno scaricato - aggiunge un secondo detenuto, anche lui in una lettera in cui dice di temere ritorsioni per aver parlato - lo hanno trascinato fino alla cella. Lo hanno buttato dentro come un sacco di patate… Hanno picchiato di brutto. A Modena era troppo debole. Non è riuscito a resistere a quelle botte. Forse ha preso qualcosa. Solo Dio lo sa. Medicinali. Lui è morto a Ascoli Piceno”. Le testimonianze sono finite in uno dei tre fascicoli giudiziari aperti dalla procura di Modena. Un altro deriva da un lungo esposto presentato da cinque compagni di carcere di Salvatore, una denuncia consegnata alla procura generale di Ancona nel novembre scorso e trasmessa ai pm della cittadina emiliana. L’ipotesi di reato è omicidio colposo, al momento contro ignoti. Ma l’indagine potrebbe tornare di nuovo ad Ascoli, per una questione di competenza. “Ci hanno pestato a sangue” Raccontano i cinque compagni di detenzione di Sasà nelle loro quattro pagine di esposto: “Salvatore è arrivato ad Ascoli in evidente stato di alterazione da farmaci. Era stato brutalmente picchiato a Modena e durante il trasferimento. Non riusciva nemmeno a camminare e doveva essere sostenuto da altri detenuti”. Nessuno all’arrivo lo avrebbe visitato. Lui come gli altri circa 50 ragazzi trasferiti da Modena che, stando alla denuncia, sul corpo portavano i segni delle violenze: “Hanno picchiato con il manganello in faccia persone in palese stato di alterazione dovuta all’abuso di farmaci. Noi stessi siamo stati picchiati selvaggiamente dopo esserci consegnati agli agenti. Ci hanno ammanettato e tolto le scarpe, non abbiamo opposto resistenza. Ci hanno minacciato, sputato, insultato e preso a manganellate, un vero pestaggio di massa”. Caricati sui mezzi della penitenziaria per essere trasferiti, raccontano di essere stati di nuovo picchiati durante il viaggio verso Ascoli Piceno. All’arrivo, poi, ancora botte. E botte ancora la mattina seguente, quando “molti vengono presi a calci, pugni e manganellate all’interno delle celle”. All’opera - scrivono i cinque - “c’è un vero e proprio commando di agenti della penitenziaria”. “Mio fratello è al freddo e si sta ammalando. Subisce ritorsioni per aver denunciato le violenze” dice la sorella di uno dei cinque detenuti che hanno presentato un esposto per i pestaggi subiti nei penitenziari di Modena e Ascoli Piceno, dove è morto Sasà Piscitelli. È una denuncia, va da sé. Potrebbe essere la verità. O, al contrario, una calunnia. Il racconto dei cinque non è avvalorato dagli esiti certificati dall’autopsia, che ha escluso segni di violenza sul corpo di Sasà. E tuttavia quel racconto combacia con le dichiarazioni di altri detenuti, trasferiti dal carcere di Modena. Si vedrà. Quello che per il momento resta sono due verità e troppe domande: Salvatore Piscitelli è morto. E con lui altri tre compagni di prigione che sono stati trasferiti da Modena dopo i fatti dell’8 marzo. Artur Iuzu nel carcere, o forse all’ospedale, di Parma. Abdellah Rouan ad Alessandria. Ghazi Hadidi durante il viaggio verso Trento, all’altezza di Verona, dove la scorta ha deciso di fare una sosta. Potevano viaggiare? Perché non sono stati portati in ospedale, come invece è successo per altri? Potevano essere salvati? È un fatto che nessuno potrà tornare a interrogare le spoglie di Sasà in cerca di risposte postume. Il suo corpo è stato cremato. Ai parenti è stato detto che era necessario a causa del Covid. La cerimonia funebre si è tenuta 4 luglio, nel cimitero di Saronno. C’erano i familiari e gli altri amici teatranti. Hanno messo Who wants to live forever dei Queen, per salutarlo. Mistero a Rieti 9 marzo 2020, ore 14.30, Casa circondariale “Nuovo complesso” di Rieti. I cancelli di sbarramento delle nove sezioni detentive dell’istituto di pena di Rieti sono stati chiusi con quattro mandate, ma non è bastato. La furia per l’interruzione dei colloqui con i familiari dovuta al Dpcm con le misure anti-Covid deflagra alle 14.30. I detenuti dei reparti G1, G2 e G3 tirano fuori dalle stanze le brande e iniziano a sbattere i letti sui cancelli. Un gruppo di 80 rivoltosi fracassa gli impianti di videosorveglianza e le telecamere, sradica i termosifoni, saccheggia l’armadio della farmacia dell’infermeria. Gli insorti rubano e inghiottono metadone e psicofarmaci. In tre salgono sul terrazzo dell’edificio e, dall’alto, lanciano sassi e tutto quel che trovano. Sono gli stessi che intavolano una trattativa con la direzione dell’istituto, il “Nuovo complesso” (capienza: 295 posti). Che va avanti per ore. Fino alle 19. Poi i ribelli desistono, rientrano in cella. La rivolta è finita. I danni materiali alla struttura sono importanti: le prime stime parlano di due milioni necessari solo per ripristinare l’arredo devastato. Il bilancio umano è drammatico. Tre detenuti - l’italiano Marco Boattini, il croato Ante Culic e l’ecuadoregno Carlo Samir Perez Alvarez - muoiono tra il 9 e il 10 marzo. Ufficialmente, per le complicanze dovute a overdose di metadone e altre sostanze trafugate dall’infermeria. Secondo un detenuto, Perez Alvarez è stato male durante la notte. Il compagno di cella ha chiesto aiuto per ore, ma nessuno è accorso. La circostanza è contenuta nella denuncia presentata dall’avvocata della famiglia Alvarez, Simonetta Galantucci. L’autopsia sul cadavere dell’ecuadoregno ha escluso segni di violenze sul corpo, ma le indagini per accertare le cause della morte di Perez, Culic e Boattini, condotte dalla Procura di Rieti, guidata da Lina Cusano, sono tuttora aperte. Così come le domande ancora sul tavolo: dopo la rivolta, e la razzia di medicinali e metadone, i tre detenuti sono stati mai visitati? Lo Stato, che li teneva in custodia, si è chiesto in che condizioni fisiche fossero? “Archiviato” Bologna, 13 luglio 2020, Palazzo di Giustizia. Fa un caldo impossibile, come può esserlo soltanto Bologna d’estate, quando la pm Manuela Cavallo deposita un provvedimento di due pagine. “Richiesta di archiviazione”, è scritto nell’intestazione. “In data 11 marzo del 2020 veniva rinvenuto il corpo senza vita di Haitem Kedri all’interno di una cella della casa circondariale di Bologna”. Haitem è uno dei 13 morti della rivolta. Meglio, è l’ultimo dei 13. Ventinove anni e cinque o sei nomi diversi, tunisino, finisce in carcere a Bologna in attesa di un giudizio: le ultime due volte lo hanno arrestato per rapina e per spaccio, è uno dei tanti migranti sbarcati a Lampedusa nella primavera del 2011, fotosegnalati e colpiti da un decreto di espulsione non rispettato, superato dalla richiesta di asilo politico. Non ha partecipato alla rivolta ma è morto lo stesso. Suicidato, forse. O comunque disperato. Riepiloga la sostituta procuratrice: “La ricostruzione dei fatti più plausibile - anche alla luce delle informazioni fornite dal compagno di cella e riscontrate dall’esame autoptico, nonché dal sopralluogo nella cella del detenuto - è che Haitem, già destinatario di farmaci per il controllo dell’ansia e degli stati di agitazione, abbia assunto volontariamente sostanze prelevate abusivamente dalla farmacia del carcere durante la rivolta dei detenuti dei due giorni antecedenti alla morte e che quest’ultima sia avvenuta per overdose”. Gli esami tossicologici diranno che i singoli psicofarmaci e il metadone (alcuni previsti dalla terapia prescritta, altri procacciati da chi ha rubato) singolarmente non erano in dosaggi pericolosi. Fatale è stato il mix. Riassume la pm: “Dagli accertamenti svolti sulla salma non è emersa la responsabilità di terzi”. La morte è “stata causata dalla massiccia assunzione di farmaci e sostanze psicotrope in combinazioni e dosi letali. Sul corpo, infatti, non sono state rinvenute lesioni, né segni di contenzione”. Tutte le sostanze individuate nei liquidi prelevati dal cadavere di Kedri, altro passaggio testuale, “appartenevano alle tipologie di farmaci legittimamente presenti presso la struttura carceraria in quanto utilizzati per la cura di patologie ed il trattamento delle dipendenze”. Tradotto: Haitem ha ingoiato un miscuglio di farmaci. Ha voluto morire così, o forse è stato un incidente. Raccontata così, tuttavia, la storia di Haitem, un po’ come quella di Sasà, è una storia sbagliata. E lo sa il garante dei detenuti, Mauro Palma, che a questa richiesta di archiviazione ha presentato opposizione. Oltre a ulteriori accertamenti su Lofti e Bakili, ha chiesto che il corpo di Haitem possa essere esaminato da un medico legale di sua fiducia, Cristina Cattaneo, professore ordinario a Milano, la più nota anatomopatologa italiana. “L’ho scelta - dice Palma - perché aveva uno spessore internazionale: a Lampedusa ha fatto uno straordinario lavoro per l’identificazione dei migranti morti in mare. E non sapevo, come mi hanno fatto notare, che era stata lei a firmare la prima perizia sul corpo di Stefano Cucchi. Quella in cui non ci si accorse del pestaggio”. Haitem Bologna, mattina dell’11 marzo 2020. Haitem non partecipa alla rivolta nel carcere di Bologna, iniziata la mattina del 9 marzo e conclusa il pomeriggio del 10. Lo scrive e poi lo fa mettere a verbale il suo compagno di cella. “Era strano, come un po’ ubriaco”. Gli chiede il perché e lui gli racconta che “durante la rivolta ha assunto farmaci”. Gli spiega che è stanco e che vuole dormire. E a lungo. La mattina dell’11 marzo, il compagno di cella sente russare e si rigira sulla branda, fino alle 10.30. Che sia a letto fino a tardi non è insolito. Capita di frequente. Alle 12.40 altri carcerati (mai identificati e dunque mai interrogati) si avvicinano per parlare con il ragazzo. Non risponde, però. Il compagno lo scuote per svegliarlo e si accorge che non respira più, dando un inutile allarme. Soltanto in quel momento, a decesso avvenuto, la cella viene perquisita. E sotto il materasso del ragazzo morto saltano fuori 103 pasticche e 6 siringhe, una delle quali usata. Ma perché la stanza non è stata accuratamente controllata prima, sapendo che i detenuti ribelli avevano rubato e distribuito sostanze potenzialmente nocive? Perché la polizia penitenziaria è arrivata dopo? E i medici non hanno fatto il giro, post rivolta? “Il carcere - spiega Domenico Maldarizzi, dirigente nazionale della Uilpa, sigla sindacale della polizia penitenziaria - non era in una situazione ordinaria. Chi non c’era non può capire. Era devastato, inagibile, terremotato. Mancava la luce, l’acqua allagava i reparti. Abbiamo passato due giorni drammatici. Siamo riusciti a portare via il metadone prima del peggio. Non è stato possibile raggiungere tutte le celle. Le priorità erano altre. La rivolta era finita da poche ore, andavano disposti e organizzati i trasferimenti d’urgenza”. Tra agenti e detenuti si sono contate 22 persone contuse o ferite, 16 medicate in loco e 6 portate in ospedale. Insomma, non ci sarebbe stato il tempo per perquisire cella per cella e per recuperare tutti farmaci sottratti e non ancora consumati. Fatto sta che Kedri è morto. Nel suo diario clinico risulta indicato che era a rischio medio di suicidio e prendeva metadone e farmaci. Dopo la rivolta, sebbene fosse un soggetto da tenere monitorato, non è stato visitato. Dalla cella aveva più volte chiesto di cercare la fidanzata, che fa la badante e vive a Reggio Emilia. Avrebbe voluto che lo andasse a trovare per un colloquio. Non si è mai presentata. Il ministro Roma, ministero della Giustizia, ottobre 2020. “Atti criminali”. Sono le prime parole che il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede pronuncia l’11 di marzo mentre le carceri italiane vanno in fumo, gli uomini muoiono e il Paese si chiude in lockdown. Un modo come un altro per liquidare la faccenda, pur nella sua gravità, confinandola in un’esplosione improvvisa di rabbia e assolvere la struttura carceraria prima ancora di cominciare a fare qualche domanda e ottenere qualche risposta. E tuttavia, una fonte di via Arenula racconta a Repubblica che qualcosa comincia a cambiare a metà aprile. “Sul nostro tavolo - spiega - arrivano i primi report dettagliati, inviati da amministrazioni e referenti territoriali. E ci si rende conto che qualcosa, evidentemente, non ha funzionato”. Cosa? “Le vittime sono tantissime, non si è stati in grado di intercettare i malumori, dare rassicurazioni. E intervenire”. Questo qualcosa, in realtà, ha un nome e cognome: si chiama Francesco Basentini. È un magistrato lucano scelto da Bonafede nel giugno 2018 per il delicatissimo ruolo di numero uno del Dap. È stato preferito a Nino Di Matteo, il pm antimafia di Palermo, oggi alla Direzione nazionale a Roma. Basentini tra marzo e aprile è al centro di polemiche feroci: il suo ufficio ha firmato un provvedimento che, in nome dell’emergenza Coronavirus, ha l’obiettivo di decongestionare gli istituti di pena. E che quindi apre alle misure alternative, detenzione domiciliare soprattutto, anche per chi ha condanne e imputazioni per mafia o per reati collegati alla criminalità organizzata. Si tratta di un atto non concordato con la Dna. Fa infuriare il procuratore nazionale Federico Cafiero de Raho. E ha un effetto devastante sull’opinione pubblica. Di più: al ministero si consolida la certezza che troppe cose, nella prevenzione e nella gestione delle rivolte carcerarie, non hanno funzionato. Ci sono i morti. E c’è l’incredibile caso del penitenziario di Foggia, dove in 440 su 614 provano a evadere: riuscendovi in 77. Tra i fuggitivi, si contano assassini ed esponenti della mafia locale. L’ultimo verrà riacciuffato soltanto a luglio. Ma a Foggia nulla accade per coincidenza o per sbaglio. E nemmeno quell’evasione, “con i detenuti nelle retrovie che gridavano e incitavano gli altri a interrompere ogni forma di dialogo con la Penitenziaria”, avviene per caso: i magistrati sono convinti che dietro ci sia una regia criminale. E questo preoccupa molto Roma. Gli uffici giudiziari. E anche il palazzo della Politica. Dove cominciano, tra l’altro, ad arrivare anche altri tipi di messaggi. Chiari. Gli amici di Sasà hanno preso coraggio e inviato il lungo esposto. Le Procura di mezza Italia stanno indagando sui decessi e, più in generale, sulle rivolte. Le autopsie raccontano che sono morti di overdose, è vero. Ma c’è il fondato sospetto delle violenze. Di pestaggi sistematici. E, soprattutto, delle responsabilità degli istituti: i medici legali parlano chiaramente di abusi di droghe (metadone) e psicofarmaci. Erano ben custoditi? Sono stati messi in sicurezza in tutte le galere, appena si è saputo dei cadaveri contati a Modena e dell’assalto alle scorte? I detenuti sono stati visitati, come è d’obbligo in caso di trasferimenti, all’arrivo in un carcere e dopo azioni in cui la Polizia penitenziaria abbia fatto uso della forza? In sintesi e di nuovo: la strage era evitabile? La congiura del silenzio ormai è stata spezzata. Si iniziano a raccogliere i frutti di mesi di impegno del Comitato legato a dirittiglobali.it, di blog come giustiziami.it, dei volontari che operano in carcere, dei movimenti, di parenti a lungo inascoltati e di pochi parlamentari firmatari di interrogazioni, alcune delle quali rimaste senza riposta. “Ritengo che tutte queste morti e gli atti di ribellione e protesta si potevano e si dovevano evitare”, dice il garante Mauro Palma. “La rivolta parte da una componente psicologica. Dalla paura di essere improvvisamente privati dei colloqui prima fossero garantite le video chiamate. È il terrore della gabbia. Ora dunque dobbiamo approfondire la mancanza di cure, se c’è stata, e non lasciare alcuna ombra su quanto accaduto. È possibile che siano stati commessi degli errori di comunicazione da parte dei provveditorati, che non sia stato spiegato bene ai detenuti che i loro affetti sarebbero stati comunque tutelati”. Al ministero alcuni ex detenuti hanno spedito una locandina teatrale. Che ricorda uno spettacolo del luglio del 2019. Al teatro Argentina di Roma andava in scena una rappresentazione di avanguardia. La regia era di Michelina Capato Sartore. Sul palco c’era un attore che di nome faceva Salvatore Piscitelli, Sasà. E il titolo dell’opera, a suo modo, era una premonizione prima ancora che un’epigrafe: “Che ne resta di noi?”. “La giustizia non può sposare del tutto le attese delle vittime” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 gennaio 2021 Ennio Amodio, avvocato penalista, dopo le polemiche sulla sentenza di Viareggio: “Le vittime devono essere rispettate ma le stesse vittime devono rispettare il processo”. Per Ennio Amodio, avvocato penalista, professore emerito di procedura penale all’Università di Milano e autore, tra l’altro, di “A furor di popolo” (Donzelli editore), la risposta alle aspettative delle vittime di giustizia è semplice: “Le vittime devono essere rispettate ma le stesse vittime devono rispettare il processo”. Dietro questa frase c’è tutta la cultura illuminista e garantista di giudice con la bilancia in mano. Professore, alla decisione della Cassazione di prescrivere alcuni reati, diversi parenti delle vittime della strage di Viareggio hanno urlato: “la nostra battaglia la continuiamo ugualmente, perché una battaglia di civiltà, di giustizia, quella vera”. In un altro caso la madre di una vittima, per una condanna lieve all’omicida di suo figlio, gridò ai giudici “Vergognatevi”. Con quale sentimento dobbiamo affrontare queste rivendicazioni? Le vittime devono essere rispettate ma le stesse vittime devono rispettare il processo. Non si può pensare che per il solo fatto di essere vicini alla persona che ha subìto il reato si abbia la legittimazione a costruire un processo personale, di famiglia che si sostituisce, in ragione del dolore che si è provato, alla giustizia degli uomini in toga che applicano la legge. Nella storia giuridica si è avuto il passaggio da uno spirito vendicativo ad uno che è rappresentato dal giudice con la bilancia in mano, che interpreta anche il volere dei parenti delle vittime di avere una risposta. Ma se la giustizia in toga finisce per sposare interamente le attese delle vittime viene completamente travisato il significato e pure la funzione del processo che è incentrata nella nostra storia del mondo occidentale sull’equilibrio e sulla ragionevolezza anche delle pene. Secondo lei la funzione del processo penale - di garanzia per l’imputato - è compatibile con il ruolo sempre più preponderante che la vittima del reato ha assunto nel nostro sistema processual-penalistico? C’è chi ritiene infatti che la presenza del danneggiato nel processo, come protagonista e parte, può alterare la rigorosa parità tra accusa e difesa che si deve realizzare innanzi a un giudice terzo e imparziale. È giusta questa analisi? Non solo è giusta, ma questa esigenza di equilibrio viene incarnata nel processo del Common Law con l’assenza in dibattimento di un rappresentante della persona offesa o di quella che chiede il risarcimento del danno. Ciò viene giustificato dai giuristi inglesi e americani con il fatto che se ci fosse anche la presenza di questo soggetto si altererebbe l’equilibrio perché nel processo l’imputato avrebbe due controparti: il pm che rappresenta la collettività e un rappresentante della persona offesa. Ha dunque un fondamento la tesi secondo cui oggi come oggi nel processo penale la presenza della parte civile costituisce un aspetto incompatibile con il rito che abbiamo adottato nel 1988, ossia quello accusatorio. Persino il Presidente della Commissione redigente, il professor Gian Domenico Pisapia, diceva sempre che il Parlamento ha voluto confermare la parte civile in questo nuovo processo ma la presenza della parte civile è incompatibile con il ruolo garantistico che deve avere il processo accusatorio. A questo giornale Giorgio Spangher ha detto: “tutto il processo viene sempre governato dall’imputazione del pm”, intendendo che il peso assegnato alle conclusioni del pubblico ministero orienta pesantemente le aspettative di giustizia delle vittime dei reati. È d’accordo con questo pensiero? Sì, è così. Esiste una aspettativa che è popolare e che è riflessa in una massima che ho imparato da un giurista americano secondo cui la collettività, le persone che non fanno parte dell’apparato della giustizia pensano sempre che una accusa abbia un qualche fondamento, in quanto la popular mind, cioè la credenza popolare va nel senso che se è stata sollevata una accusa allora qualche cosa ci deve essere. Ed ecco che quindi nasce la spinta populista a ritenere che laddove il giudice nella sua ricerca, ovviamente mirata e regolata dal sistema delle prove, ritenga che l’imputato sia innocente tradisce quella spinta iniziale e quella posizione di partenza che è contrassegnata dall’accusa del pm. Ma questo è un modo di riscrivere e di concepire il processo che la nostra cultura occidentale ha superato con l’Il-luminismo, quando si è affermato il principio che le pene ci devono essere ma devono essere equilibrate, che c’è una presunzione di innocenza, che la prova sta al centro del processo penale e che le spinte emotive non possono superare la razionalità dell’accertamento. Il populismo finisce per derogare da questo impianto razionale e passare ad un sistema che è quello emotivo che pone a fondamento dell’edificio della procedura la risposta vendicativa. Ritiene che i giudici siano immuni dalla condizione emotiva che la vittima può esercitare sulla correttezza dei processi decisionali? Nella maggioranza dei casi direi di sì. Tuttavia ci sono dei fatti che sono talmente gravi che evidentemente e naturalmente suscitano delle impressioni nel giudice. E quindi a volte i giudici, non dico che sono fuorviati, ma sono influenzati dall’impatto emotivo che un certo reato ha sulla società. A suo parere il processo penale può ancora raggiungere i suoi scopi se la comunità in cui si celebra non ne condivide le regole ed i valori fondanti? Ma certo, è sempre stato così. Oggi viviamo in un’epoca in cui sotto la spinta del populismo la bandiera delle vittime sventola in alto, sostenuta anche dalla stampa, e si finisce per cercare una risposta contro il garantismo e contro gli ideali di una giustizia con la bilancia in mano. Credo che nel nostro sistema nonostante queste spinte la gran parte della nostra magistratura è ancora capace di consegnare alla collettività uno strumento come il processo penale in grado di compiere un accertamento equilibrato e di dare una sentenza giusta. Nel suo libro “A furor di popolo” lei scrive: “è una giustizia senza bilancia, figlia di umori e paure, che si muove sotto la spinta della collera e di una insaziabile sete di vendetta”. Quali sono gli anticorpi a questo fenomeno? Una operazione di tipo culturale e politico: non bastano le norme di legge perché la spinta populista di certi partiti ha i suoi effetti. Ma c’è anche una parte che desidera che il Paese venga guidato per quanto attiene alla giustizia con la ragionevolezza e non con la vendetta. Del resto è stato sempre così storicamente: ad un processo come quello dell’ancient regime, dove le persone erano presunti colpevoli, è subentrato poi il pensiero dell’Illuminismo, a cui principi si ispirano i nostri codici. Ora ritorna una forte spinta emotiva ma se pensiamo ai principi della Costituzione e a quelli europei ci rendiamo conto che essi promuovono una giustizia che deve muoversi in modo equilibrato per colpire sì la criminalità ma senza gli eccessi dovuti alla paura, all’ansia della collettività con le sue richieste di pene gravissime e carcere per tutti. Lanciano (Aq). Protocolli per il reinserimento dei detenuti Il Centro, 17 gennaio 2021 Un protocollo di intesa con l’associazione onlus Medea per l’apertura di uno sportello antiviolenza all’interno del carcere al quale si possono rivolgere i detenuti, i loro familiari e il personale dell’istituto penitenziario, e un protocollo con il Comune di Castel frentano per l’esecuzione di lavori socialmente utili o di pubblica utilità da parte dei detenuti. Sono gli ultimi due accordi firmati prima di lasciare Lanciano dalla direttrice del carcere Maria Lucia Avantaggiato che negli anni ha promosso diversi progetti di inclusione, culturali, sociali e sportivi per i detenuti e aperto il carcere verso l’esterno. Tra le varie iniziative portate avanti in questi anni, spesso in collaborazione con il Comune di Lanciano, e con l’appoggio della polizia penitenziaria e le associazioni, ci sono l’organizzazione del concorso Lettere d’amore dal carcere, il progetto Biblioteche fuori le mura nato nel 2016 che ha ridato vita alla biblioteca del carcere. E poi il giornalino della casa circondariale di Villa Stanazzo, L’Arcobaleno e il teatro, ribattezzato il Piccolo Fenaroli, dove la compagnia teatrale di detenuti Il Ponte per la Libertà ha spesso portato in scena spettacoli a scopo di beneficenza. E ancora lo sport, con la squadra di detenuti Libertas Stanazzo che partecipava al campionato di calcio a 5, in serie D, e Correre LiberaMente, manifestazione podistica fatta con l’associazione sportiva Podisti Frentani e il Coni. Pavia. La Procura chiede archiviazione denuncia di quattro detenuti per percosse Il Giorno, 17 gennaio 2021 La Procura di Pavia ha avanzato quattro richieste di archiviazione al Giudice di Pace di Pavia relativamente alle denunce presentate nei mesi scorsi da alcuni detenuti del carcere pavese di Torre del Gallo, che avevano segnalato all’autorità giudiziaria di essere stati percossi da un gruppo di agenti penitenziari. I fatti denunciati si sarebbero svolti a marzo, quando nel carcere, così come in numerose altre case circondariali italiane, era scoppiata una rivolta dei reclusi in seguito alle restrizioni sulle visite nell’ambito dell’emergenza sanitaria per il coronavirus. Erano stati appiccati roghi nel carcere e un gruppo di detenuti si era arroccato sul tetto dell’istituto, scendendo solo dopo lunghe negoziazioni. Le cinque denunce presentate da parte di altrettanti detenuti raccontano di maltrattamenti che sarebbero stati inflitti il giorno seguente all’accaduto. Tra gli episodi contestati, i detenuti hanno segnalato che sarebbero stati costretti a spogliarsi e a eseguire alcuni piegamenti sulle gambe, per poi essere picchiati. I detenuti hanno anche raccontato che alcuni agenti avrebbero tirato loro le vivande della sezione. Ora per quattro segnalazioni è stata chiesta l’archiviazione: “Faremo opposizione alla richiesta di archiviazione per tutti e quattro i miei assistiti, che contestano tutti la stessa dinamica dei fatti - spiega l’avvocato Pierluigi Vittadini che segue i detenuti coinvolti. In tali opposizioni, le parti offese indicheranno anche chiaramente i nomi delle persone coinvolte negli episodi”. Modena. La didattica in carcere si svolge tutta in presenza di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 17 gennaio 2021 Corsi di italiano, scuola secondaria di primo grado e istruzione di secondo livello. L’assessora Baracchi ha risposto a un’interrogazione di Federica Venturelli (Pd). “Nella casa circondariale S. Anna la didattica si svolge attualmente tutta in presenza: sia i corsi di italiano per stranieri e di scuola secondaria di primo grado che dipendono dal Cpia, sia i percorsi di istruzione di secondo livello che dipendono dall’Ipsia Corni”. Lo ha spiegato l’assessora all’Istruzione Grazia Baracchi rispondendo nel consiglio comunale di giovedì 14 gennaio a un’interrogazione di Federica Venturelli del Pd. L’istanza chiedeva in particolare “se sono state riscontrate criticità nel reperimento dei dispositivi elettronici e nel garantire la didattica a distanza durante la prima emergenza da Covid-19; in che modo sarà garantita la continuità della didattica agli studenti ristretti, per i quali la scuola rappresenta da sempre un’opportunità importante di crescita e di riprogettazione della propria vita; quante sono le persone che seguono attività scolastiche e di formazione professionale”. L’assessora ha premesso che negli istituti penitenziari per adulti le attività scolastiche sono curate dal Ministero dell’Istruzione e negli ultimi anni gli interventi normativi sono stati volti “a creare un sistema integrato in grado di accompagnare lo sviluppo della persona nell’arco della vita, garantendo il diritto all’apprendimento ed il pieno esercizio del diritto di cittadinanza soprattutto delle fasce deboli”. Baracchi ha quindi spiegato che nella casa circondariale Sant’Anna si svolgono corsi di Italiano L2 e di scuola secondaria di primo grado che dipendono dal Centro provinciale per l’istruzione degli adulti di Modena, “gli insegnanti sono personale di ruolo e con esperienza, a garanzia della continuità delle attività e dei rapporti con una realtà problematica e in continuo mutamento”. Per i corsi di italiano ci sono due docenti di Italiano L2 assegnati alla sede di Sant’Anna (uno alla Casa di Lavoro di Castelfranco), mentre per la scuola secondaria di primo grado ci sono due cattedre di lettere, una di matematica, una di inglese e una di tecnologia. Nel secondo quadrimestre saranno avviati anche i progetti di formazione al lavoro che non si sono potuti fare lo scorso anno, proposti dal Cpia e accolti favorevolmente dalla direzione del carcere: un corso di barberia per i detenuti e di manicure per le detenute. Il Cpia ha anche acquisito pc portatili che saranno, utilizzati dai docenti per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro degli studenti a fine pena. “Nonostante la rivolta di marzo in pieno lockdown, l’attività didattica è ripresa appena possibile ed è stata fornita la strumentazione digitale necessaria alla didattica a distanza, in carcere gli studenti non fruiscono però di connessione internet autonomamente e le lezioni venivano fatte via Skype alla presenza delle guardie carcerarie”, ha aggiunto l’assessora. Anche per quanto riguarda i percorsi di istruzione di secondo livello, afferenti all’Ipsia Corni, frequentati da 25 studenti, la didattica presso la Casa circondariale si svolge in presenza poiché il curricolo prevede attività prevalentemente laboratoriali e per i particolari bisogni degli utenti. Al momento scarseggiano invece gli spazi dedicati alla scuola, poiché si è in attesa dell’apertura del padiglione ristrutturato, per cui non si possono svolgere le lezioni pomeridiane dalle 13 alle 16. D’altra parte, l’eventuale didattica a distanza non dovrebbe fare i conti con mancanza di strumentazione - l’Istituto ha acquistato notebook e la struttura penitenziaria ha attrezzato le aule con lavagne multimediali interattive - quanto piuttosto con la disponibilità di agenti di polizia penitenziaria in ausilio alle attività per garantire la sicurezza delle abilitazioni all’accesso a internet. Vercelli. I detenuti-calciatori del Forrest non giocano più di Filippo Simonetti La Stampa, 17 gennaio 2021 “Ma il Covid non fermerà lo sport in carcere”. “Forrest” avevano chiamato la formazione di calcio, per celebrare la pellicola da Oscar con Tom Hanks che richiamava quella voglia di correre e di costruirsi da soli il proprio avvenire, nonostante tutto. E loro, i detenuti del carcere di Billiemme, ne avevano tanto bisogno. Per anni il pallone ha regalato anche questo sogno a chi sconta una pena nella casa circondariale all’ingresso di Vercelli: partite del torneo Csi con squadre ospiti - per ultime quelle del girone di Novara - che venivano qui a regalare attimi di spensieratezza. Poi, più nulla. Per ultimo è arrivato il ciclone Covid a rendere tutto più difficile. E, infine, a cancellare la speranza di tornare a correre tutti insieme dietro a un pallone. Ma le misure per la pandemia, qui a Billiemme, non potevano fermare ogni cosa. Lo sport ora è tutto nelle palestre (una per piano, oltre a quella per la divisione femminile), fino a quando le temperature non saranno più miti e non si potrà tornare a utilizzare il campo da calcio, rigorosamente divisi in gruppi e contingentati. “Si tratta di un’ottima valvola di sfogo - racconta Antonella Giordano, dal 2019 a capo dell’istituto penitenziario -. Inoltre, al quinto piano, si stanno effettuando lavori di ristrutturazione: ci sono 6 detenuti impegnati nell’opera di implementazione. Abbiamo adottato un lavoro di squadra in maniera ancora più sistematica: il vero valore aggiunto per fronteggiare la crisi sanitaria”. Ma c’è dell’altro. La scuola, il lavoro. Corsi professionali di decorazione e stucco, giardinaggio e apicultura. Le mansioni lavorative finanziate dal progetto “Cassa delle ammende” e gli impieghi nei cantieri esterni in collaborazione con il Comune. “Almeno il 50% della popolazione di detenuti è impegnata in attività lavorativa di vario tipo: un fattore fondamentale per l’autostima, oltre che una fonte di sostentamento per i loro familiari”. L’anno appena iniziato ha portato con sé alcune novità importanti dal punto di vista dei rapporti quotidiani tra detenuti e famigliari: “Abbiamo incrementato i contatti grazie e soprattutto anche ai video-colloqui via WhatsApp e via Skype. “I detenuti, anche in quest’ultimo anno di pandemia, hanno proseguito con la didattica a distanza, mentre sono rimasti in vigore i rapporti settimanali con gli operatori del Sert e con gli psicologi così come l’attività all’interno dello sportello carcere-lavoro”, prosegue la direttrice. Nelle ultime settimane i detenuti del penitenziario cittadino si sono distinti per un gesto di generosità: “Hanno contribuito alla raccolta di beni destinati al Banco Alimentare”, racconta Valeria Climaco dell’area educativa. A causa dei protocolli più restrittivi non è stato possibile organizzare il solito pranzo natalizio: i detenuti hanno comunque ricevuto alcuni pacchi regali grazie alla comunità di Sant’Egidio e all’associazione “Migrantes”, mentre la Caritas ha donato i panettoni. L’altra faccia di San Patrignano, la risposta della Rai a Netflix di Fulvia Caprara La Stampa, 17 gennaio 2021 Oggi su Rai1 il documentario “Lontano da casa” di Maria Tilli. L’altra faccia della medaglia. Tutto quello che è successo prima, tutto quello che è accaduto durante, e tutto quello che, ci si augura, potrà venire dopo. Quando la spirale autodistruttiva della droga si sarà spenta, soffocata dalla voglia di ricominciare. A pochi giorni dal gran clamore scatenato dalla serie Netflix SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano va in onda stasera su Raiuno per Speciale Tg1, il documentario “Lontano da casa” di Maria Tilli. La chiave della narrazione è differente, al posto delle testimonianze concentrate in prevalenza sui discussi metodi di disintossicazione adottati dalla comunità fondata da Vincenzo Muccioli nel 1978, ci sono le confessioni dei ragazzi risanati, le cronache dei giorni neri che li hanno spinti a entrare nell’incubo della dipendenza, le loro ragioni intime e profonde, spesso legate a disagi infantili e traumi familiari, che, passo dopo passo, li hanno condotti nel baratro: “Questo documentario - spiega Maria Tilli - nasce dalla volontà di raccontare la tossicodipendenza oggi”. L’energia dell’opera viene, continua l’autrice, “dal sentimento umano di rinascita di questi ragazzi poco più che ventenni. Ed è questo quello che, per me, ha reso il documentario un’esperienza di vita, oltre che artistica e lavorativa”. I protagonisti sono Daniela, Caterina, Stefano, “tre voci distinte che raccontano insieme la stessa storia. Una storia che, però, non riguarda solo loro, ma tutti”. Al film, prodotto con Rai Cinema per Bielle Re da Giuseppe Lepore e Simone Isola (quest’ultimo autore, con Fausto Trombetta, del documentario Se c’è un aldilà sono fottuto - Vita e cinema di Claudio Caligari) prendono parte anche Nicol, Martina, Filippo, ragazzi della comunità di San Patrignano, cresciuti in città diverse, pronti a descrivere i loro percorsi “tra sogni infranti, vuoti, rinunce, momenti bui e anni di astinenza, non solo dalle sostanze, ma anche dagli affetti”. Quando entrano in comunità gli ospiti “devono lasciarsi tutto alle spalle, non possono avere contatti con l’esterno. Quando escono è la speranza nel futuro che li spinge a riprendere finalmente la vita interrotta”. Inutile dire che la programmazione del documentario, dopo la fiammata della serie Netflix, ponga diversi interrogativi, primo fra tutti quello sul perché si sia deciso di proporlo proprio adesso: “Naturalmente - risponde l’ad di Rai Cinema Paolo Del Brocco - il film non è una risposta a quello di Netflix, che è un biopic, di taglio diverso”. Lontano da casa, aggiunge Del Brocco, “era stato pensato per essere destinato alla sala cinematografica, magari con una uscita evento. Ma, a causa della chiusura dei cinema, abbiamo preferito renderlo disponibile per la messa in onda nello spazio privilegiato dello Speciale Tg1, proprio per il particolare peso specifico delle testimonianze e per lo stile narrativo”. Nel film di Tilli il discusso impero Muccioli fa solo da sfondo, ci sono riprese sulle mense, sui bagni, sulle lavatrici in funzione, su un acquario, sulla piscina, ma in primo piano restano sempre loro, giovani sopravvissuti all’inferno che si mettono a nudo senza filtri, con sincerità commovente: “I ragazzi - continua Del Brocco - sono o sono stati ospiti della comunità di San Patrignano, ma i metodi e il lavoro di recupero svolto dagli operatori della comunità non sono il focus di questo film. All’autrice interessa capire il percorso compiuto e il sentimento di rinascita che li spinge a riprendere le loro esistenze laddove si sono interrotte”. La pandemia, con i suoi nuovi drammi, è uno tsunami che ha travolto ferite preesistenti: “Vogliamo mostrare al grande pubblico le motivazioni di questi ragazzi, vittime di un problema di cui non si parla più abbastanza come si dovrebbe”. La regista Maria Tilli ha 33 anni e ha già diretto documentari di successo: “Il suo lavoro colpisce soprattutto per la giovane età dei protagonisti, per la semplicità e la sincerità delle loro parole, per le storie familiari “normali” che hanno alle spalle. Racconti che arrivano come lame taglienti, in cui la facilità dell’approccio e dell’avvicinamento alle droghe diventa uno degli elementi sconcertanti di queste testimonianze”. Se SanPa ha provocato accuse ai produttori Netflix dai membri della Comunità, oltre a riaccendere il contrasto tra Andrea Muccioli e la famiglia Moratti, finanziatrice di San Patrignano, Lontano da casa potrebbe riaprire il dibattito sulle radici della droga. Che, forse, sono in certi vecchi filmati, con i protagonisti bambini che guardano in macchina, sorridenti, ignari, nelle loro infanzie perdute. Sulla pandemia lo Stato conta più delle Regioni di Sabino Cassese Corriere della Sera, 17 gennaio 2021 L’ordinanza della Corte costituzionale del 14 gennaio chiarisce che gli interventi resi necessari dalla pandemia spettano esclusivamente al governo, con cui le regioni debbono collaborare. Pochi se ne sono accorti. L’ordinanza della Corte costituzionale del 14 gennaio scorso non ha solo sospeso l’efficacia della legge della Valle d’Aosta. Una legge che consente attività economiche e sociali in deroga alla normativa statale sulla pandemia, accogliendo la richiesta del presidente del Consiglio dei ministri. Ha anche stabilito che “la pandemia in corso ha richiesto e richiede interventi rientranti nella materia della profilassi internazionale di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera q, Cost.”. Una affermazione di principio che la Corte non potrà non tener ferma il 23 febbraio, quando prenderà la decisione sul merito della questione. Questo importa che la strada imboccata dallo Stato fin dal marzo scorso è sbagliata. Gli interventi resi necessari dalla pandemia non rientrano tra quelli nei quali Stato e regioni si spartiscono i compiti, ma tra quelli che spettano esclusivamente al governo, con cui le regioni debbono collaborare. Il governo ne esce ancor più colpito della piccola regione Valle d’Aosta. Dovrà ora reimpostare tutta la sua strategia. Con un anno di ritardo ci accorgiamo che un fenomeno mondiale non può essere fronteggiato dividendosi. Il pluralismo anti-pandemia è una contraddizione in termini. Meglio tardi che mai, possiamo dire. Anche perché questo è un altro segno del nuovo corso, inaugurato lo scorso anno dalla Corte costituzionale, che pare aver riscoperto il coraggio che ebbero i suoi primi componenti. Le sentenze della Corte riguardano leggi, che toccano tutti: quindi, è stata giusta l’introduzione, nel febbraio 2020, del diritto di intervenire anche di chi non è parte in causa. La Corte costituzionale non è soltanto un giudice (la Costituzione non la disciplina tra le norme sull’ordine giudiziario): quindi è stata giusto ricorrere - come ha fatto nei giorni scorsi - al potere di prendere l’iniziativa, sollevando dinanzi a sé stessa una questione di costituzionalità (quella della assegnazione del nome paterno al figlio naturale). Troppe sono le lesioni, elusioni, erosioni delle regole costituzionali perché la Corte possa svolgere la sua funzione di correzione soltanto con le sentenze: quindi è bene che colga altre occasioni per pronunciarsi. Enrico Cuccia, in una lettera del 1965 a David Lilienthal (ora citata nello splendido libro di Giovanni Farese su “Mediobanca e le relazioni economiche internazionali dell’Italia”, edito nei giorni scorsi da Mediobanca stessa) ha scritto: “Bernard Berenson disse una volta che gli italiani nel loro intimo sono politicamente atei, perché non credono alla possibilità del buon governo”. Chi ha fiducia in un governo efficiente e non ama le troppo numerose infrazioni delle regole del gioco, vorrebbe avere, nel pieno rispetto dell’agenda e delle scelte politiche, se non un arbitro almeno un guardalinee. Benvenuto, quindi, il nuovo corso della Corte costituzionale. Emergenza Covid-19 e informazione di Giancarlo Capozzoli L’Espresso, 17 gennaio 2021 Da qualche tempo ormai sto discutendo con Giovanni Piero Spinelli “Gianpiero” su diverse questioni legate ai più importanti temi d’attualità. L’emergenza covid ha messo in risalto quanto il compito di una informazione chiara e corretta sia fondamentale. Dal nostro ultimo scambio è venuta fuori questa riflessione che vuole sollevare delle questioni importanti. Ci è parso evidente che ci siano delle analogie tra quanto accade subito dopo un attentato terroristico, riguardo alle responsabilità sia da parte del decisore politico, che dei media rispetto alla divulgazione delle informazioni legate alla pandemia di covid-19. Questioni emerse anche in una lunga chiacchierata fatta con un nostro amico israeliano, che da oltre 20 anni si occupa per l’intelligence israeliana (che per ragioni di anonimato non possiamo menzionare) di terrorismo e media, e di quel sottile ma conveniente legame di opportunità che in qualche modo li lega. Il punto su cui pensiamo dover riflettere è quella che in gergo si chiama o viene identificata all’interno degli studi dell’anti-terrorismo come “ansia irrazionale”, ovvero quell’ansia che sorge tipicamente in seguito ad un’azione terroristica, come quelle a cui purtroppo troppo spesso abbiamo assistito. La questione che si pone è quanto il decisore politico, i media e pseudo scienziati da “Talk Show”, abbiano provocato questa “Ansia Irrazionale”. In che modo le attività di anti-terrorismo e il covid-19 sono correlate e che cosa sia l’Ansia Irrazionale è l’argomento che abbiamo discusso. Da quanto abbiamo approfondito, siamo arrivati alla conclusione che l’ansia irrazionale è uno dei più alti livelli di paura, e, cosa molto importante, non ha alcuna relazione con la reale portata di una minaccia. È creata ad hoc, al fine di impedire alla società presa di mira di poter svolgere le proprie attività quotidiane, di paralizzarla e causare danni all’economia statale e alla capacità di recupero e al modo della vita. Questa è quella moderna strategia usata oggi dai gruppi terroristici, maggiormente conosciuti. Esistono molti metodi per innescare questo stato di ansia irrazionale. Le esecuzioni spettacolari messe in atto da alcuni gruppi terroristici hanno proprio questo scopo. Ma, ed è questo il punto emerso con chiarezza dalla discussione con Spinelli, si può dire che ci sia una certa analogia che lega queste esecuzioni spettacolarizzate alla sfilata dei camion militari durante il trasporto dei morti per Covid a Bergamo. Le due cose hanno in comune proprio questa spettacolarizzazione della paura. Anche il riferire delle statistiche quotidianamente, purtroppo sempre in crescendo, hanno aumentato quest’ansia irrazionale che è una delle cause di rallentamento dei principi di resilienza sociale. In molti hanno personalizzato l’evento stesso facendolo proprio, molte volte creando dei muri di ragionamento logico, dovuti alla mancanza di informazioni reali e soprattutto di reale presa di conoscenza del problema. La questione da discutere è se sia stata messa in capo un’operazione psicologica mirata a cambiare l’equilibrio delle necessità delle persone. Per Spinelli è una questione evidente. Io nutro invece un maggiore scetticismo a riguardo. Anche se va riconosciuto che questa situazione di ansia irrazionale causata dalla pandemia mondiale per il Covid ha costretto e costringe la popolazione in misure che le fa percepire come presa di mira e a comportarsi in modo irrazionale: le attività quotidiane sospese e il tempo libero eliminato alimenta questa paura estrema e questa ansia del contagio. Nella nostra discussione Spinelli mi ha sottolineato che uno dei primi passi per contrastare gli effetti psicologici della pandemia è identificare i fattori scatenanti che consentono alle persone comuni di passare dalla paura razionale all’ansia irrazionale. E che tuttavia, ogni individuo ha una sottile linea rossa molto personale, dinamica e unica che esiste tra la sua paura razionale e quella irrazionale. Linea rossa che è il risultato delle esperienze passate, delle convinzioni, delle narrazioni, del livello di esposizione al pericolo di un individuo e di una varietà di ulteriori fattori. Sulla base di quanto detto ognuno dovrebbe essere in grado di identificare la propria linea personale e agire di conseguenza con lucidità e cercare una costante resilienza. Identificata la propria linea, si possono cercare misure che aiutino a limitare la propria ansia rispetto alla pandemia alla stregua di quanto viene fatto, ad esempio, per altri eventi catastrofici come ad esempio per il terrorismo e cercare di diventare più razionali nel proprio comportamento. Ciò non vuol dire che questa pandemia non debba spaventare: è importante temerla ma mantenendo un certo raziocinio, concentrandosi, cioè, a mettere in campo tutte quelle misure che possano portare ad un livello di resilienza aderente. A partire da quanto detto ci siamo chiesti la responsabilità dei media riguardo a quanto accaduto e a quanto sta accadendo. Si può determinare il migliore approccio in merito a tale questione? Evidentemente non la censura, che rappresenta un limite ai diritti democratici. Il miglior modo è allora un approccio più responsabile. I media hanno svolto un ruolo determinante nell’informare poco e male l’opinione pubblica in merito a questa pandemia di Covid-19, agendo in maniera irresponsabile da volano anche nel creare uno stato confusionale. Spinelli sostiene che si è prodotta una visione d’insieme e una sorta di manipolazione collettiva riguardo alla pericolosità della pandemia: pur senza sottovalutare l’evento in questione, dovrebbe essere interpretato, allo stesso tempo, come un evento non più drammatico di altri problemi sociali, che comunque ci hanno colpito e ci colpiscono continuamente. La questione che è emersa dalla nostra discussione è molto importante e riguarda il ruolo dei media. Pur senza colpevolizzarli, ci si chiede se probabilmente possono essere stati usati come vettori non consenzienti (come si dice in gergo nel mondo dell’Intelligence), alla stregua di quanto accade con le organizzazioni terroristiche. E allora la questione fondamentale è chiedersi chi potrebbe esistere l’attore che in qualche modo possa aver avuto interesse in merito? È un problema evidentemente fondamentale e resterà una questione aperta per i prossimi anni anche. La questione importante da porsi, ben oltre semplicistici discorsi complottistici, è quella di analizzare, come a causa dell’evento sistemico/catastrofico Covid-19, qualcuno abbia potuto trarre vantaggio dal potere della comunicazione affidato ai media. I media non sono causa della pandemia di Covid-19, questo è banale sottolinearlo. Ma ci siamo chiesti se esiste una relazione reciprocamente vantaggiosa tra l’evento sistemico e i media stessi. Evento sistemico/catastrofico che nella lettura che ha fatto Spinelli, si è presentato o è stato presentato al mondo come un evento spettacolarmente vizioso, con un’assoluta tendenza dei media a sopravvalutare le minaccia stessa. si è voluto dipingere la stessa pandemia come un quadro più scuro di quanto lo sia nella realtà, alla stregua di quanto accade in seguito ad un attentato terroristico, dove allo stesso atto viene data una spettacolarizzazione che molte volte non corrisponde al suo livello di pericolosità. Il Covid-19 ha subito da parte dei media una specie di “glorificazione”? Probabilmente senza farlo intenzionalmente, si è creata una narrativa di invulnerabilità, che è stato l’elemento di distruzione sociale ad altissimo impatto. La copertura mediatica inoltre ha accresciuto l’effetto emulativo dei cosiddetti scienziati dello “Show Biz”, che visto il successo della messa in campo di indottrinate teorie di copione assolutamente non allineate e distorsive, e molte volte con fattori valutativi assolutamente legati a processi di disinformation costruita. I media hanno contribuito da sonda per la valutazione dei fattori sistemici sociali da parte del decisore politico, involontariamente o volontariamente? Il decisore politico a sua volta ha iniettato una serie di informazioni, al fine di trovare potenziali bersagli per strategie adattive dai programmi televisivi o da Internet? Sono queste le questioni da affrontare, ben oltre l’emergenza pandemica. Di certo la disseminazione di molte informazioni hanno creato quell’ansia irrazionale a cui abbiamo fatto riferimento all’inizio, che, a sua volta è stata sfruttata come altoparlante amplificato tanto dal decisore politico per poter giustificare misure draconiane. Come detto in precedenza, uno dei più grandi vantaggi ottenuti dai decisori politici attraverso i media è stata la capacità di diffondere un messaggio di paura e ansia, per poter giustificare misure restrittive, secondo la lettura che ne fa Spinelli. Di sicuro siamo assediati dal virus, ma ben oltre il quadro drammatico, uno degli errori più gravi che i media hanno commesso, è stato quello di promuovere se stessi come piattaforma per la diffusione di un tale messaggio. Come accade con le organizzazioni terroristiche. Profughi, diritti umani respinti sotto la neve dei Balcani di Serena Tarabini Il Manifesto, 17 gennaio 2021 La denuncia della rete “RiVolti”, composta da decine di associazioni. Ue sott’accusa. Code interminabili di persone vestite alla meno peggio, a volte in ciabatte, in coda sotto la neve per un pasto al giorno; baracche improvvisate nel bosco o fra gli scheletri del campo bruciato dove si cerca di riscaldarsi attorno a un falò, acqua non potabile presa da tubi di scarico. Le immagini sconvolgenti che arrivano da Bihac, in Bosnia, dopo l’incendio del campo profughi di Lipa, indicano un dramma che è in corso da tempo nel cuore dell’Europa. Sono anni, da quando l’esplosione della crisi siriana ha aperto una breccia attraverso i Blacani, che lungo queste rotte si verificano violenze, negazione di diritti, stato di abbandono: questo significa la politica di respingimenti messa in atto dall’Europa. La rete RiVolti ai Balcani, costituita nel 2019 da 34 associazioni e realtà impegnate a difesa dei diritti delle persone e dei principi fondamentali sui quali si basano la Costituzione italiana e le norme europee e internazionali, da tempo denuncia le condizioni di vita di migranti e rifugiati lungo la rotta balcanica. Ieri, dalla nave Mare Jonio in collaborazione con Mediterranea Saving Humans, ha presentato la seconda edizione del dossier di RiVolti ai Balcani “La rotta balcanica. I migranti senza diritti nel cuore dell’Europa”. La prima edizione era stata presentata a Milano lo scorso 27 giugno 2020, con dati aggiornati sulle violazioni in atto lungo le rotte migratorie della penisola balcanica - dalla Grecia alla Slovenia, attraverso la Bosnia Erzegovina - fin dall’accordo tra Unione Europea e Turchia del marzo 2016, con il quale l’Ue ha di fatto delegato ad Ankara il controllo di parte delle proprie frontiere esterne. Questo secondo rapporto si concentra sulla frontiera che l’incendio del campo di Lipa ha messo sotto i riflettori, quella Croato Bosniaca. La regione dal 2018 è diventata il collo di bottiglia della rotta balcanica, via di transito che, dovendo le persone spostarsi in base alle possibilità, ha cambiato faccia in questi anni con le varie chiusure, come quella dell’Ungheria. Ecco quindi la Bosnia, regione lacerata, i cui cittadini quando erano iniziate le migrazioni avevano dato supporto e aiuti alle persone in transito, diventare il bacino di raccolta del meccanismo dei respingimenti a catena che avvengono alle frontiere europee: in Croazia, in Slovenia, in Italia, ed implodere schiacciata dal braccio di ferro fra autorità europee, governative e locali. Una catastrofe annunciata quelle 1500 persone senza riparo, dice Silvia Maraone (cooperante da due anni Bihac con Ipsia, Ong delle Acli, che lavora nei Balcani dal 1997. Dati inquietanti di una violenza generalizzata dice Gianfranco Schiavone di Asgi - Associazione studi giuridici sull’immigrazione: i respingimenti sono illegali perché si impedisce di accedere ai meccanismi contenuti nelle politiche europee che prevedono tutele, come la protezione internazionale. Secondo il Danish Refugee Coucil solo da marzo 2019 sono state respinte dalla Croazia verso la Bosnia 21 mila persone, un numero tale da escludere che avvenga per effetto di azioni isolate e locali, ma che parla di un’operazione pianificata. Inoltre, sempre secondo il rapporto, il 60-70% delle persone respinte ha subito violenza. La Slovenia ha partecipato a questo meccanismo, con 9 mila respingimenti che vengono chiamati “riammissioni”. “Il problema è l’Europa - continua Schiavone - ad aver fatto una scelta politica che la fa sprofondare in un abisso di violenza”. Quello che si vede in queste ore in Bosnia come lo scorso anno in Grecia, è la politica dei respingimenti che è il cuore della crisi umanitaria perché crea questi tappi. Anche l’Italia fa la sua parte nella catena di respingimenti illegali. Nel corso del solo 2020 ha respinto 1300 persone, e questo è avvenuto senza che vi fossero provvedimenti formali: e senza notifiche non si può fare nessun ricorso; procedura messa in atto anche con i richiedenti asilo ed è ammessa pubblicamente: la ministra dell’interno Lamorgese pochi giorni fa in audizione parlamentare ha riconosciuto che le procedure di riammissione sono illegali nei confronti dei richiedenti asilo. Cannabis, il mondo si muove e l’Italia sta ferma di Marco Perduca L’Espresso, 17 gennaio 2021 Mentre in Italia il dibattito pubblico ruota attorno al colore delle regioni e crisi di governo, altrove, anche dove la situazione è molto tesa, la politica continua nel suo business as usual - anzi no! Dai primi di novembre è un susseguirsi di decisioni legislative, giurisdizionali e istituzionali che hanno posto la cannabis al centro di misure di “normalizzazione”; sviluppi che lasciano ben sperare per il futuro della pianta e, più in generale, per la libertà di scelta, di accesso alle terapie, d’impresa nonché amministrazione della giustizia. Negli Usa l’elezione di Biden è stata surclassata percentualmente dalle vittorie referendarie che in Arizona, Montana, New Jersey e South Dakota hanno legalizzato la cannabis per qualsiasi tipo di consumo, mentre il Mississippi è diventato il 35esimo stato a consentirne l’uso terapeutico. Il 19 novembre, in risposta al ricorso di un’azienda francese, la Corte europea di giustizia ha chiarito che il principio attivo della pianta noto come Cbd non dev’essere trattato come una sostanza stupefacente e che i prodotti che lo contengono possono circolare in Europa anche se un solo membro ne autorizza il commercio. Il 2 dicembre, con una decisione storica, la Commissione droghe delle Nazioni Unite ha votato per cancellare definitivamente la cannabis dalla tabella che riconosce il potere terapeutico di piante e sostanze sotto controllo internazionale ma ne evidenzia la pericolosità per la salute pubblica. Nel pomeriggio dello stesso giorno la Commissione europea ha chiarito che i prodotti contenenti Cbd frutto di gambi, foglie e fiori della pianta possono essere inseriti nella lista dei novel food (nuovi alimenti) dell’Ue dando il via libera per il loro finanziamento coi fondi della Politica Agricola Comune. Il 4 dicembre la Camera dei Rappresentanti di Washington ha approvato il “More Act”, una legge che toglie la cannabis dalla tabella nazionale delle droghe pericolose cancellando le sanzioni federali e consentendone vendita e tassazione. Molto probabilmente il Senato non confermerà la riforma, ma si tratta di un chiaro segnale politico visto che prima firmataria è la senatrice Kamala Harris, eletta vicepresidente. Altrove riforme strutturali sulla cannabis avanzano in Australia, Israele, Georgia, Macedonia, Messico e Sudafrica mentre nell’Africa subsahariana e in America latina molti governi hanno adottato leggi per consentirne la produzione per fini terapeutici. E da noi? La proposta di legge d’iniziativa popolare “Legalizziamo” giace alla Camera dei Deputati da oltre quattro anni assieme a un manifesto collettivo recentemente trasformato in bozza di norme. La Commissione giustizia della Camera è bloccata dietro a una proposta leghista, di indurire le pene per detenzione e consumo di stupefacenti, anche di piccole quantità, mentre in Commissione agricoltura non si chiariscono le destinazioni d’uso di prodotti a base di Cbd e Thc ri-legalizzati nel 2016. Un emendamento di Riccardo Magi ha quasi raddoppiato i fondi per l’approvvigionamento di cannabis terapeutica ma senza una radicale riforma dei meccanismi di produzione o acquisto i problemi di reperimento dei prodotti resterà. Girano voci sulla costituzione di un tavolo tecnico sulla cannabis ma non si rintracciano conferme della sua effettiva composizione. Le decisioni europee e quella dell’Onu sono di fondamentale importanza per la canapa industriale e quella terapeutica. L’Italia ha da tempo regolamentato il settore della canapa - già il (pessimo e redivivo) Testo unico del 1990 conteneva misure su produzione e importazione della terapeutica - questo nuovo clima globale dev’essere sfruttato per rilanciare riforme. Viste anche l’impatto economico del settore, occorre aprire la produzione della cannabis terapeutica ai privati e semplificarne l’importazione; investire in ricerca e sperimentazioni cliniche e includere la cannabis nei Livelli Essenziali di Assistenza; fare formazioni e informazione a tutti gli operatori coinvolti; definire il catalogo di cosa può essere prodotto industrialmente tenendo conto dell’instabilità delle percentuali dei principi attivi per consolidare un comparto che ha caratteristiche di sostenibilità ambientale. In attesa di una revisione radicale della legge e delle politiche sulle droghe, occorre chiarire che sanzionare chi coltiva a casa o usa la cannabis casualmente - ma anche tutte le altre sostanze proibite - non è una delle priorità di politica criminale della Repubblica italiana. Stati Uniti. L’era di Trump finisce sul patibolo. E la lobby delle armi fa bancarotta di Luca Geronico Avvenire, 17 gennaio 2021 A 5 giorni dall’insediamento di Joe Biden l’esecuzione di Dustin Higgs, malato di Covid, chiude il ciclo voluto dal presidente. La Nra lascia New York per il Texas: è indagata per distrazione di fondi. A cinque giorni dal giuramento di Joe Biden, l’ultimo spietato colpo di frusta di Donald Trump. Dustin Higgs è stato ucciso con un’iniezione letale di pentorbital nel penitenziario di Terre Haute, in Indiana. L’uomo, un afroamericano di 48 anni, nel 2000 era stato condannato a morte per l’uccisione di tre donne. È la tredicesima esecuzione in sei mesi da quando lo scorso luglio Donald Trump ha ripreso le esecuzioni federali dopo 17 anni di moratoria. Quella di Higgs è l’ultima delle tre esecuzioni programmate per questa settimana, dopo Lisa Montgomery uccisa dal boia il 13 gennaio, e Corey Johnson, tutti detenuti nel carcere di Terre Haute. Un tribunale aveva chiesto di rimandare l’esecuzione sostenendo che Higgs, era affetto da Covid-19 a causa di un focolaio scoppiato nel carcere dell’Indiana. La Corte Suprema aveva però accolto il successivo ricorso del Dipartimento di Giustizia, dando in questo modo il via libera all’iniezione letale. Nel gennaio 1996 Dustin Higgs aveva invitato tre giovani donne nel suo appartamento di Washington. Dopo che una delle ragazze aveva rifiutato le sue avance, Higgs si era offerto di accompagnarle a casa insieme a un suo amico. Le tre donne furono uccise in un posto isolato a colpi di pistola dall’amico, su ordine di Higgs che nel 2000 fu condannato a morte. L’esecutore del triplice omicidio fu invece condannato all’ergastolo perché incastrò Higgs. A dicembre l’avvocato di Higgs aveva invano chiesto clemenza a Trump affermando che fosse “arbitrario e ingiusto” che al suo assistito fosse stata inflitta una pena superiore a quella dell’esecutore materiale degli omicidi. Intanto il prossimo “cambio della guardia” alla Casa Bianca - oltre ad alzare la tensione alle stesse con 25mila soldati della guardia nazionale schierati sul National Mall a Washington per il giuramento di Joe Biden di mercoledì - produce già forti “fibrillazioni” fra le organizzazioni che più hanno sostenuto il presidente uscente. La potente National Rifle Association (Nra), la lobby delle armi statunitense, ha deciso di trasferirsi in Texas. La decisione, comprensiva di una dichiarazione di bancarotta, è un tentativo di sfuggire alla Procura di New York che minaccia lo scioglimento dell’organizzazione per violazione del suo status di non profit. In estate il procuratore di New York Letitia James, aveva avviato una procedura legale per rimuovere dal suo incarico Wayne La Pierre, leader dell’Nra, accusandolo di aver usato i fondi dell’organizzazione per scopi personali. L’Nra ha il suo quartier generale a Fairfax, in Virginia, nell’area di Washington D.C. Ma ora pare meglio traslocare in Texas. Cina. “Io, sopravvissuta due anni in un campo di rieducazione” di Martina Santamaria L’Espresso, 17 gennaio 2021 Gulbahar Haitiwaji racconta al Guardian la vita alienata degli appartenenti alla minoranza islamica Uiguri nei campi di detenzione della Repubblica Popolare. Una delle prime testimonianze dettagliate di quella che il governo di Pechino continua a raccontare come una guerra giusta. “La conoscete non è vero?”. “Sì, è nostra figlia”. “Vostra figlia è una terrorista!”. È iniziato così l’incubo di Gulbahar Haitiwaji, raccontato sulle pagine del Guardian. Anzi, è iniziato con una telefonata ricevuta nel novembre del 2016 nel suo appartamento di Boulogne; una giornata tranquilla, comune come la vita che Gulbahar e suo marito Kerim avevano scelto dieci anni prima, quando si erano trasferiti in Francia per seminare alle loro spalle anni di discriminazioni. Erano Uiguri dello Xinjiang e questo significa che, per la loro Cina, erano una potenziale fonte di tensione in una regione strategica. La voce al telefono ha detto a Gulbahar di chiamare per conto della compagnia petrolifera in cui lei e suo marito avevano trovato il primo impiego da ingegneri, chiedendole di tornare a Karamay per firmare dei documenti. Karamay era la parentesi che Gulbahar e famiglia avevano chiuso da tempo, quella dei “niente uiguri” alla fine degli annunci di lavoro, quella delle buste paga rosse per le minoranze, meno pesanti delle paghe dei colleghi Han, il gruppo etnico dominante. Convinta a tornare in Cina, con quel timore che sperava di aver dimenticato, le tappe del suo viaggio hanno confermato i suoi presentimenti: prima i documenti da firmare, poi l’interrogatorio nella stazione di polizia e, infine, quelle parole: “Sua figlia è una terrorista”. Davanti ai suoi occhi i poliziotti hanno piazzato la foto della ragazza a una manifestazione a Parigi del Congresso mondiale degli uiguri, organizzata per denunciare la repressione esercitata dal governo cinese contro l’autonomia dello Xinjiang. La figlia, nella foto, sventolava una bandiera del Turkestan, bandita dallo Stato: è una terrorista. Separatismo, islamismo e terrorismo per lo stato cinese sono un tutt’uno e tutti gli uiguri, di conseguenza, sono terroristi. La pena per Gulbahar è stata la peggiore possibile. Cinque mesi nelle celle della stazione di polizia e poi la “scuola”. La scuola formalmente è quel programma di ri-educazione destinato alla minoranza islamica e rientra nella cornice della campagna Strike Hard contro il terrorismo violento; si tratta di strategie di difesa che risalgono alle pagine più buie della storia della Cina, ma che hanno trovato sempre più pretesti a partire dagli attacchi dell’11 settembre prima e dagli attentati terroristici a Pechino, alla stazione di Kunming e al mercato di Urumqi più di recente. Però dietro la maschera di legalità c’è una deportazione di massa - la più grande dopo Mao - che viola in blocco tutti i diritti umani. I report ormai rivelano numeri da vero e proprio genocidio; sono in milioni a essere internati, costretti all’indottrinamento forzato, uccisi, allontanati. Le scuole di rieducazione sono campi di detenzione, “a sort of no-rights zone”, li ha definiti Gay McDougall, il membro delle Nazioni Unite preposto al rispetto dei diritti umani e della Convenzione Internazionale per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. La rieducazione è in realtà violenza fisica, psicologica, culturale, che si spinge alla cancellazione dell’identità uigura. Il governo cinese nega tutto e la storia continua a raccontarla in termini assai differenti, ma le inchieste giornalistiche, i numeri e le testimonianze di ex detenuti stanno delineando un quadro sempre più chiaro di ciò che avviene nei campi di detenzione cinesi. Gulbahar Haitiwaji è la prima sopravvissuta a parlare senza filtri, e la sua testimonianza è un libro di prossima uscita in Francia. Racconta della “scuola”, di cui nessuno sapeva qualcosa con certezza se non che era un luogo di formazione per correggere gli uiguri; racconta del filo spinato sul recinto dell’edificio nel Baijiantan, mentre tutto intorno c’è solo il deserto. Racconta dell’esercitazione militare, di come ai corpi dei detenuti non fosse permesso vacillare, perché chi sveniva veniva picchiato e schiaffeggiato. A volte chi sveniva o cadeva più volte veniva trascinato fuori dalla stanza, per non fare più ritorno. Racconta di come i corpi inizialmente recalcitranti alla coercizione pian piano si abituano anche all’orrore e perdono spirito, eseguono gli ordini in automatico. La cuccetta da dividere con un’altra donna, un secchio per i bisogni e telecamere che controllano ogni movimento, a ogni ora del giorno e della notte; il letto con le assi di legno e senza materasso, niente mobili e niente biancheria. Il tempo era scandito dai fischi e dagli ordini impartiti. “Il silenzio era imposto ma, fisicamente stremati, non avremmo parlato comunque”. I detenuti cercavano di nascondere persino gli sbadigli, perché ogni movimento della bocca poteva essere scambiato per una preghiera. Anche solo chiudere gli occhi per le autorità poteva significare pregare. Quindi si stava bene attenti a evitarlo. Nel campo non esiste tempo, non esiste luogo e nemmeno più il pensiero, dopo un po’. Nessuno al suo arrivo nel campo pensa davvero che un manuale di propaganda e la ripetizione in coro di “Lunga vita al presidente Xi Jinping “ nelle undici ore quotidiane di lezione possano resettare il proprio pensiero critico e convincerlo di ciò che ha sempre condannato, ma alla fine succede a tutti. Succede di dimenticare cosa si pensava, persino chi si amava prima di arrivare al campo; succede di non avere più senso critico, tanto che molti educatori non sono Han, ma sono uiguri convertiti. Trovarsi di fronte ad una donna della propria etnia che impone di giurare lealtà al governo centrale all’inizio turba le uigure detenute, ma poi ci si abitua, non ci si chiede nemmeno più che cosa le educatrici pensino davvero e se pensino ancora. La testimonianza di Gulbahar è quella di chi nel campo è rimasta per ben due anni, tanto da iniziare a credere per davvero di essere una terrorista, tanto da arrivare quasi a denunciare la famiglia. “Tutti intorno a me cercavano di farmi credere alla massiccia menzogna senza la quale la Cina non avrebbe potuto giustificare il suo progetto di rieducazione: che gli uiguri sono terroristi” e alla fine si cede, ci si mette in ginocchio e si rinnegano i propri principi, persino la propria identità. L’ingegnere Gulbahar Haitiwaji, o meglio la donna della cuccetta n. 9, confessa di aver dimenticato, a un certo punto, persino i volti del marito e delle due figlie. Tutti i detenuti diventano animali programmati per lavorare come automi. “La Cina non vuole ucciderci a sangue freddo, ma farci sparire lentamente. Così lentamente che nessuno se ne possa accorgere”. Nel campo, la morte può essere nelle forbici che usano per tagliare i capelli, nei passi delle guardie di notte, in un fischio, nell’ago del vaccino. Che poi vaccino non era, perché in realtà era una tecnica di sterilizzazione delle detenute, allo scopo di azzerare la rigenerazione della stirpe. Così, la salute mentale abbandona le vittime, a volte per sempre, anche quando escono dal campo di detenzione. L’unico modo, ricorda l’autrice, in cui è possibile continuare a credere nella verità e a mantenerla viva nella propria mente è fingere di cedere alla menzogna. Gulbahar ricorda tutto, ogni parola pronunciata contro la volontà, ogni volta in cui ha rinnegato la propria ideologia; anche di essere stata per tanto tempo convinta che quella verità sarebbe rimasta soltanto nella sua testa, perché nessuno le avrebbe mai prestato ascolto. Invece dopo due anni, il 2 agosto 2019, è stata dichiarata innocente nel tribunale di Karamay, quando ormai l’alienazione della sua persona era compiuta: “Le donne come me che escono dai campi di rieducazione non sono più le stesse di prima. Siamo ombre. Le nostre anime sono morte”. Afghanistan. Commando di terroristi uccide due giudici donna della Corte suprema di giordano stabile La Stampa, 17 gennaio 2021 Sospetti sull’Isis. Ennesima esecuzione mentre prosegue il ritiro americano. Un commando di terroristi ha ucciso a colpi di armi automatiche due giudici donna della Corte suprema. Erano dirette verso i loro uffici quando sono state prese di mira dagli uomini armati, almeno due. Nessun gruppo ha ancora rivendicato l’attacco. I sospetti si concentrano sull’Isis, anche se non è esclusa un’azione di altri gruppi jihadisti, come il Network Haqqani o frange dei Taleban che vogliono la guerra totale contro il governo di Kabul, anche in vista del ritiro delle truppe americane previsto per inizio maggio. Messaggio jihadista - Le due giudici erano a bordo di un’auto che le portava al posto di lavoro, ha spiegato un portavoce della Corte Suprema, Ahmad Fahim Qaweem. Anche il loro autista è rimasto ferito. Taleban e altri gruppi jihadisti predica una visione conservatrice della società, dove non c’è posto per donne al di fuori delle mura domestiche. Sono contrari anche all’istruzione delle ragazze, se non in scuole separate dai maschi. Nei vent’anni seguiti alla caduta del regime del mullah Omar (1996-2001) c’è stata invece una grande apertura, soprattutto nella capitale. Moltissime ragazze studiano, lavorano, poche portano ancora il burqa, il velo integrale. Conquiste sociali appese a un filo - Le conquiste di questi due decenni sono però appese a un filo. L’accordo di Doha, firmato lo scorso febbraio fra rappresentanti americani e talebani, prevede la fine delle missioni militari occidentali in cambio di una condivisione pacifica del potere fra studenti barbuti e l’attuale governo del presidente Ashraf Ghani. Ma gli attacchi dei jihadisti contro le forze di sicurezza governative non si sono mai fermati. Circa il 40 per cento del territorio è sotto controllo totale o parziale degli insorti. Il governo ha salda la presa nelle città principali e nei dintorni, anche se infiltrati talebani sono già presenti alla periferia di Kabul, minacciano uomini che non si fanno crescere la barba e vestono all’occidentale, e le ragazze senza velo.