Il carcere oltre i luoghi comuni, online lezioni di “libertà” di Francesca Valente Il Mattino di Padova, 16 gennaio 2021 Prevenire è meglio, anche quando si parla di legalità ed educazione civica. Con questo spirito è nato 18 anni fa a Padova il progetto nazionale “A scuola di libertà”, finanziato e sostenuto con forza dal Comune e lanciato dalla redazione di Ristretti Orizzonti, la rivista realizzata da detenuti e volontari nella Casa di reclusione di Padova. Organizzato in stretta collaborazione con il carcere, il programma è stato traghettato nove anni nella Conferenza nazionale Volontariato e Giustizia da Ornella Favero, giornalista e fondatrice di Ristretti e oggi presidente nazionale. È stata lei a dare impulso alla campagna di sensibilizzazione nelle scuole sui temi delle pene e del carcere. Per l’edizione in corso, tutta online, sono già stati fatti otto incontri per gli studenti più cinque di formazione per insegnanti e volontari. Entrambi i filoni sono stati arricchiti da testimonianze di persone entrate in contatto con il mondo del carcere e dell’esecuzione delle pene, come Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Br nel 1978, o Lucia Annibali, avvocatessa sfigurata con l’acido nel 2013. Grazie alla disponibilità dell’amministrazione penitenziaria, poi, è stato possibile fare un video-collegamento tra la redazione di Ristretti e il liceo Fermi, il primo di un nuovo filone in questa difficile epoca segnata dalla pandemia. Nell’edizione dello scorso anno sono state coinvolte 34 istituti superiori della provincia più 13 scuole medie. Dal mese di marzo al 3 giugno, giornata conclusiva del progetto con la proclamazione dei vincitori del concorso di scrittura, sono stati fatti 27 video- incontri. In tutto il Veneto i numeri sono altrettanto importanti: 51 scuole, 298 classi e oltre 13 mila 400 studenti coinvolti, con una quarantina di volontari impegnati. “Le attività sono state rimodulate per non rinunciare a formare le classi su temi complessi come i comportamenti a rischio, le pene e le alternative al carcere”, spiegano Ornella Favero e Maurizio Mazzi, presidente della Conferenza regionale: “Abbiamo coinvolto collaboratori “storici” del progetto, tra cui figli di detenuti, persone che hanno finito di scontare la pena e vittime che hanno accettato di dialogare con gli autori di reato, come Fiammetta Borsellino, Benedetta Tobagi, Silvia Giralucci. Questo ci ha permesso di arrivare in modo più efficace anche nelle regioni che hanno sempre fatto fatica a portare il progetto nelle loro scuole”. La linfa vitale del programma sono gli insegnanti e le associazioni. “La giustizia è un tema che riguarda tutti e gli insegnanti sono chiamati ad approfondirla con i loro studenti per renderli più consapevoli dei potenziali comportamenti a rischio legati all’uso di sostanze, alla guida in stato di ebbrezza, alla violenza fisica, all’aggressione social”. Il valore intrinseco del programma è “smentire stereotipi e luoghi comuni sulle pene e sul carcere presentando uno sguardo diverso e sincero, senza sottrarsi mai a nessuna delle curiosità e delle domande degli studenti”. I materiali si possono trovare sul sito della Conferenza, gli incontri già svolti sono visibili sul canale Youtube. Recovery Fund, poi amnistia e indulto: così il carcere può diventare più umano di Marco Campora e Raffaele Minieri* Il Riformista, 16 gennaio 2021 Le discussioni sull’edilizia penitenziaria continuano a essere caratterizzate da profondo populismo. L’idea di edificare nuove carceri è assolutamente irricevibile, in quanto rappresenta una falsa risposta a problemi complessi, urgenti e improcrastinabili. Il sovraffollamento delle nostre strutture non si risolve certamente con nuove carceri, la cui costruzione richiede peraltro tempi lunghissimi, ma con un radicale cambiamento di paradigma che ponga al centro del dibattito i risultati decisamente soddisfacenti raggiunti attraverso le misure alternative alla detenzione. Le intollerabili condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari sono, con crescente intensità, motivo di denuncia e di condanna da parte della Cedu che ha individuato nel sovraffollamento e nel degrado delle carceri italiane un fattore di crisi strutturale del nostro sistema penitenziario e una delle più ricorrenti ipotesi di violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo da parte dell’Italia. Un’onta che ha pesato fortemente sull’onore e sulla credibilità dell’intero Paese ma che non ha fatto sì che la situazione cambiasse poi molto. Gli istituti penitenziari versano in condizioni inumane, degradanti e incompatibili con un sistema democratico. Spesso, i bagni sono a vista, non c’è acqua calda, le celle sono senza docce, non vi è riscaldamento, gli spazi comuni sono inesistenti o privi di qualsiasi attrezzatura che garantisca un minimo di vivibilità. Numerosi istituti (circa il 20%) presentano celle dove non si rispetta il parametro dei tre metri quadrati per detenuto, soglia minima secondo la Corte di Strasburgo. Il Recovery Fund potrebbe rappresentare una grandissima occasione per migliorare la qualità di vita dei detenuti e garantire la costituzionalità della pena, perché permetterebbe interventi strutturali e non semplici ristrutturazioni di facciata. È opportuno migliorare le dotazioni tecnologiche degli istituti garantendo, per esempio, l’accesso a internet per implementare da un lato le occasioni e le possibilità di formazione a distanza e dall’altro i contatti con i familiari. Si potrebbero ripensare e attrezzare gli spazi a disposizione migliorando le aree lavoro e le parti comuni dove vengono svolte fondamentali attività formative e ricreative (sport, teatro, biblioteche). L’elenco di interventi urgenti da effettuare è lungo e variegato, proprio per questo il coinvolgimento di tutti i soggetti direttamente interessati o esperti del carcere è assolutamente necessario. Non si deve, infatti, dimenticare che l’edilizia penitenziaria è una delle forme con cui si manifesta l’idea di punizione dello Stato. Il guardasigilli Alfonso Bonafede ha istituito una commissione per l’architettura penitenziaria, evidentemente in ragione delle pessime condizioni strutturali delle carceri. Tale commissione, composta da autorevoli professionisti, non prevede inspiegabilmente alcuna partecipazione di rappresentanti dell’avvocatura. Eppure gli avvocati sono coloro che percepiscono direttamente i disagi psicofisici dei detenuti e che conoscono, compiutamente, le macroscopiche problematiche esistenti all’interno delle strutture penitenziarie. Il problema dell’affollamento, della densità abitativa, della capacità reale e non teorica di accoglimento negli ambienti destinati alla detenzione sono temi attuali e non rinviabili. La permanenza all’interno di un penitenziario in condizioni di fatto inaccettabili non favorisce certo il recupero dell’individuo nel corpo sociale. Anzi, ciò può determinare, oltre al disagio e alla conseguente sofferenza, anche il consolidamento di un profondo odio sociale verso lo Stato e le istituzioni che per primi non sono in grado di garantire, con normali regole di convivenza civile, accettabili condizioni di vivibilità detentiva. Insomma, se la funzione degli istituti penitenziari è quella di rieducare nel rispetto della dignità umana, in Italia siamo ben lontani dall’obiettivo. È arrivato il momento per tentare di costruire un carcere diverso. In tal senso è opportuno individuare modelli di giustizia riparativa per garantire condizioni di detenzione più umane e ragionevoli, incentivando modelli capaci di garantire tutte le forme di affettività e disincentivando risposte meramente punitive di esigenze umane fondamentali e insopprimibili. In tal senso esemplificativa è la diversità di impostazione del legislatore britannico che, a fronte dell’aumento dei sequestri di telefoni all’interno del carcere, ha installato linee fisse in ogni cella, laddove in Italia si sono previste nuove fattispecie penali per reprimere istanze primarie. E allora basta slogan e basta ipocrisia! È necessario un intervento immediato. La soluzione esiste ed è prevista dalla Costituzione. Amnistia e indulto restano l’unico rimedio per restituire tempestivamente dignità ai detenuti e al nostro sistema democratico. *Rispettivamente presidente e consigliere della Camera penale di Napoli Esecuzione penale e carcere convitati di pietra del Recovery plan di Daniele Caprara Il Dubbio, 16 gennaio 2021 Se è vero che l’attuale presidente del Consiglio, rispondendo alla domanda “che Paese vorremmo tra dieci anni” ha risposto “un Paese più moderno, più verde e più coeso”, non vi è dubbio che il grande assente tra i desideri governativi sia quello di un Paese più civile. L’affermazione, ben lungi dall’essere un’insolente presunzione, pare essere riscontrata dalla lettura delle notizie che riguardano il piano di ripresa e resilienza, meglio noto come Recovery plan, elaborato nella prospettiva di inquadrare i progetti di investimento dei fondi Ue per la ripresa delle economie nazionali dell’area euro. Il convitato di pietra del Recovery, del quale nessuno sembra aver cura, è l’esecuzione penale, che nella letteratura del partito di maggioranza dell’attuale governo gravita tolemaicamente attorno alla detenzione carceraria, avvolta in una visione demoniaca che priva il condannato di qualsiasi possibilità di recupero e di emenda. Da troppo tempo la liberazione dal carcere non corrisponde mai alla libertà, perché chi esce, “esce dal carcere, ma mai dalla condanna”. Irrimediabilmente condannato a non vivere, ai margini, privo di alcuna prospettiva. Miope la visione di chi pensi che l’esecuzione della pena non riguardi l’economia del nostro Paese: ma sembra fatto noto solo ad alcuni. E allora, per evitare che perduri la ottusa visione di una società “responsabile delle tenebre che ha prodotto”, è bene ripetere per quali motivi un investimento sull’esecuzione penale è un affare e contribuisce alla ripresa. Perché offre un risparmio indiretto: per ogni detenuto che recuperi la dignità e la possibilità di reinserirsi nel tessuto sociale e lavorativo, lo Stato ha un risparmio, giacché esclude, o comunque abbatte, il rischio che quel condannato abbia ricadute delittuose, e quindi rientri in carcere. È noto il dato statistico: le competenze e le professionalità acquisite da un detenuto che agevolino il reinserimento nella società, lo allontanano dal circuito criminoso. Perché consente un risparmio diretto: il potenziamento delle misure alternative al carcere abbatterebbe drasticamente i costi per il mantenimento dei detenuti, peraltro costituito in misura prevalente dal personale dell’amministrazione penitenziaria. Perché garantisce perfino un profitto: ogni condannato restituito, rinnovato, alla società, potrà produrre reddito e benefici per la stessa società nella quale, prima, era ai margini. Non sono ipotesi, ma prospettive certe, che amplificherebbero i risultati positivi dei progetti sperimentali effettuati nel corso degli ultimi vent’anni. Oggi non ci sono più alibi: all’orizzonte e a breve termine, sono disponibili le risorse economiche per intervenire con una scelta politica seriamente declinata nella prospettiva di risolvere il tema del carcere, dell’esecuzione penale e le condizioni di illegittimità nel quale versa l’Italia da decenni. Non giratevi dall’altra parte. Allarme Rems, mancano i posti: più di 70 malati mentali in carcere a rischio suicidio di Giacomo Andreoli Il Riformista, 16 gennaio 2021 Più di 70 persone sono in carcere, ma come riconosciuto da un giudice non dovrebbero essere lì. Non è il racconto di un inviato in una città del Venezuela, ma quello che avviene oggi in Italia per diversi malati mentali “socialmente pericolosi”. Insomma: chi ha compiuto reati, ma non può essere imputabile quando viene arrestato, perché manca la capacità di intendere e volere. Dovrebbero finire nelle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, aperte dal 2015. Peccato che non ci siano abbastanza posti: tra le 31 strutture presenti in tutta Italia i 609 occupati (secondo l’ultimo censimento del Garante nazionale dei detenuti) sfiorano la capienza massima di circa 670, che si riduce tra ristrutturazioni e temporanee carenze di operatori. E oltre a questi 70 in carcere, di cui 20 a Roma tra Regina Coeli e Rebibbia, ci sono le persone con misure alternative, come l’invio in comunità o la vigilanza terapeutica, ma comunque in lista d’attesa per le Rems: ad oggi più di 500, di cui un centinaio nella sola Sicilia. Da tempo è una situazione difficile quella di chi è detenuto illegittimamente, vista la difficoltà di gestione da parte degli istituti penitenziari, dove continuano senza sosta i suicidi, con i pazienti psichiatrici che sono più a rischio di tutti. Ma ora il tutto si fa potenzialmente esplosivo con il coronavirus, con centinaia di persone colpite in cella. “Come evidenzia il nostro ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione - spiega a Michele Miravalle dell’associazione Antigone - a differenza di diverse carceri in tutto il paese, il sistema Rems ha avuto una buona risposta all’emergenza Covid-19”. Lo scorso aprile, infatti, in piena prima ondata, nelle residenze si erano registrati 23 casi e solo un decesso, con 1222 tamponi eseguiti. Anche tra gli operatori, poi, solo sette colpiti e nessuna morte registrata. E nella seconda ondata: solo nove contagi registrati tra i lavoratori della struttura a San Nicola Baronia, in Campania. Vero è che la maggior parte degli ospiti ha tra i 36 e i 55 anni, ma si tratta comunque di soggetti molto vulnerabili. Non solo. “Anche se chi ha problemi mentali spesso non si ritrova in condizioni di affollamento - ci dice il presidente del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma -con la pandemia per il personale specializzato diventa ancor più difficile seguire queste persone”. Intanto il monitoraggio nazionale sulle Rems previsto dalla legge istitutiva del 2014 ancora non esiste, con le informazioni che vengono raccolte solo dallo stesso Garante, le associazioni di categoria e una piattaforma informatica della Regione Campania. “La nascita delle residenze e la chiusura dei vecchi ospedali psichiatrici giudiziari è stata una rivoluzione di civiltà - ricorda Ignazio Marino, che presiedette la Commissione parlamentare d’inchiesta decisiva per questa svolta tra il 2011 e il 2013 - noi mettemmo fine a delle situazioni disumane, su cui nessuno chiedeva informazioni e di cui lo Stato doveva vergognarsi”. “Tra le norme approvate - aggiunge - io volli fortemente un controllo continuo. Se la legge non è stata applicata fino in fondo vuol dire che c’è una responsabilità politica e morale della classe dirigente del paese. Non è nel radar del governo occuparsi delle residenze: non gli importa. Io non conosco i dati, ma dalla mia esperienza credo che effettivamente le persone in quello stallo siano più di 70: chi più di loro può essere considerato indietro rispetto agli altri?”. Per il presidente Palma c’è inoltre “un problema culturale: troppi malati che compiono reati vengono indirizzati alle Rems, ma la misura dovrebbe essere eccezionale e non di prima e immediata soluzione. Nel passato prima di mandare una persona in Opg ci si pensava quattro volte, ora le nuove strutture sembrano una soluzione accessibile, che mette al sicuro. I magistrati dovrebbero acquisire la giusta logica e in generale si dovrebbe investire di più sui servizi territoriali, per favorire le misure alternative, e sulla prevenzione medica, prima che si compiano i reati”. Una possibilità che, secondo Marino, è prevista dalla sua legge: “I soldi ci sono, precisamente 55 milioni all’anno”. Gli stanziamenti effettivi però scarseggiano, mentre, come spiega Palma, “c’è chi sotto sotto ha l’internamento diffuso nella mente, per cui vorrebbe tante Rems per risolvere le criticità”. Così non può essere. “Anche perché - chiarisce Miravalle - non è detto che poi i malati si trovino bene nelle strutture. Questi luoghi dovrebbero essere un passaggio verso altre forme di restrizione della libertà e poi il reinserimento sociale. Invece si stanno allungando i tempi di detenzione (347 su 609 sono ricoverati in via definitiva n,d,r,) e nei miei sopralluoghi ho visto alcuni posti in cui il senso di isolamento dei malati è più forte che se fossero in carcere”. Lo dimostra la storia di Valerio Guerrieri, il 22enne romano che è stato nella Rems di Ceccano, in cui, come ci racconta la madre Ester Morassi “si sentiva abbandonato” e da cui nel 2016 è scappato tre volte, prima di essere mandato a Regina Coeli e impiccarsi nella sua cella a inizio 2017, senza che nessuno lo fermasse. Per questa vicenda sono a processo sette guardie penitenziarie e una psicologa, per omicidio colposo, e forse a breve anche la direttrice del carcere e una dirigente del Dap, con accuse che vanno dall’omissione di atti d’ufficio al reato di morte come conseguenza di un altro delitto. Non solo: secondo il report del 2019 dell’Osservatorio sul superamento degli Opg e sulle Rems, nelle strutture in 4 anni ci sono stati: quattro suicidi, quattro tentati suicidi, 202 aggressioni ad altri pazienti, 161 agli operatori e 98 allontanamenti. Tra l’altro la svolta delle Rems non è nemmeno stata completata: come denuncia Antigone alcuni ex Opg, come quello di Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia, “continuano di fatto ad essere carceri per matti, perché sono detenuti in maniera classica tanti soggetti con disagi psichici”. Intanto fino a qualche mese fa tra le persone malate e imprigionate illegalmente c’era anche Giacomo Seydou Sy, ragazzo bipolare di 25 anni e nipote dell’attore Kim Rossi Stuart. Lo scorso dicembre la madre Loretta Rossi Stuart, insieme alla garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni, ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo: dopo dieci mesi di prigione ad aprile i giudici sovranazionali hanno imposto all’Italia di liberarlo da Rebibbia e hanno condannato il nostro Paese a pagare una multa. Adesso è stato trasferito nella Rems di Subiaco. Tra chi invece ancora aspetta c’è un giovane di 35 anni a Regina Coeli. La mamma, che vuole restare anonima, ci racconta che “il figlio sta male psicologicamente e ha avuto tante vicissitudini complesse: ha una causa civile in corso ed è stato arrestato solo perché ha perso il controllo e ha dato dei calci a un portone”. “Anche noi - ci anticipa - faremo ricorso alla Corte europea per provare a liberarlo”. L’Europa come estrema ratio, quindi. “È chiaro che da adesso in poi non si può fare riferimento alla Corte per ogni caso - commenta il presidente Palma - ma potrebbe arrivare una sentenza pilota che dimostri il problema sistemico”. Nel frattempo, però, per queste 70 persone l’attesa delle Rems o delle misure alternative potrebbe essere fatale. “Dovrebbero essere sorvegliate in una certa maniera perché sono persone difficili da contenere e andrebbero coinvolte in varie attività - ci dice allarmata la garante Stramaccioni - ma la polizia penitenziaria non ha il personale necessario. Così rischiano di entrare nelle residenze tra un anno. Forse troppo tardi”. Processi penali e civili, norme emergenziali prorogate al 30 aprile di Simona Musco Il Dubbio, 16 gennaio 2021 Norme emergenziali prorogate fino al 30 aprile 2021 anche per la Giustizia. Ovvero non solo per i processi amministrativi, così come stabilito dal Mille Proroghe, ma anche per penale e civile, così come chiesto dall’Associazione nazionale magistrati al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che giorno 13 aveva garantito “un intervento che tenga conto della necessità di mantenere la vigenza della normativa emergenziale”. Detto, fatto: la proroga è contenuta nel decreto legge che proroga l’emergenza sanitaria, stabilendo uno slittamento dei termini previsti all’articolo 1, comma 1, del decreto legge numero 19, del 25 marzo 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge 35 del 22 maggio 2020, che aveva fissato la fine dell’emergenza al prossimo 31 gennaio, termine valido anche per la giustizia. Le norme emergenziali, si legge nel dl 19/ 2020, mirano a limitare, tra le altre cose, la presenza fisica dei dipendenti negli uffici delle amministrazioni pubbliche, “fatte comunque salve le attività indifferibili e l’erogazione dei servizi essenziali prioritariamente mediante il ricorso a modalità di lavoro agile”. E ciò vale, dunque, anche per la giustizia, dove i processi d’appello e quelli davanti alla Corte di Cassazione continueranno a svolgersi in modalità cartolare, salvo istanza delle parti affinché le udienze si svolgano in presenza, con la possibilità di deposito degli atti via pec. “Digitalizzate” fino a primavera le indagini preliminari, con alcuni atti eseguibili da remoto: la persona offesa e la persona sottoposta alle indagini possono essere sentite anche in collegamento dallo studio del difensore che li assiste, mentre i consulenti o esperti di cui si avvale il pm o la polizia giudiziaria possono essere sentiti in collegamento dal loro studio. Il difensore dell’indagato può opporsi nel caso in cui il compimento dell’atto preveda la sua presenza. È prevista anche la possibilità di presentarsi presso l’ufficio di polizia giudiziaria più vicino al luogo di residenza, purché in grado di assicurare il collegamento da remoto, dove l’atto verrà compiuto con modalità idonee a salvaguardare la segretezza e ad assicurare la possibilità, per l’indagato, di consultarsi riservatamente con il proprio difensore. Il quale parteciperà, in questo caso, da remoto, salvo che decida di essere presente a fianco del proprio assistito. Per quanto riguarda le udienze penali, nei casi in cui la presenza fisica dei detenuti non possa essere assicurata in totale sicurezza, è possibile optare per la partecipazione in videoconferenza, con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti, ad esclusione delle discussioni finali, in pubblica udienza o in camera di consiglio, e di quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti, salvo che le parti vi acconsentano. Il deposito di memorie e documenti previsto dall’avviso di conclusione indagini avviene esclusivamente mediante deposito dal portale del processo penale telematico individuato. Per quanto riguarda le udienze dei procedimenti civili e penali alle quali è ammessa presenza del pubblico, le stesse sono sempre celebrate a porte chiuse. Prevista l’udienza cartolare per i processi civili in materia di separazione consensuale e di divorzio congiunto, nel caso in cui tutte le parti che avrebbero diritto a partecipare all’udienza vi rinuncino espressamente con comunicazione depositata almeno 15 giorni prima dell’udienza. Il nodo più critico rimane quello del processo d’appello in modalità scritta, fortemente avversato dall’avvocatura, che lamenta un’indebita compressione del diritto di difesa e la morte della collegialità: così come stabilito dall’articolo 23 del dl Ristori bis, la Camera di consiglio avviene da remoto per i giudizi in appello, con lo scambio di documenti, anziché l’intervento fisico di avvocati e pubblici ministeri. L’articolo prevede infatti che fino alla scadenza dello stato d’emergenza, fuori dai casi di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, la decisione avvenga senza l’intervento del pm e dei difensori, salvo che una delle parti faccia richiesta di discussione orale o che l’imputato manifesti la volontà di comparire. La richiesta deve essere formulata per iscritto entro 15 giorni liberi prima dell’udienza e trasmessa alla cancelleria della corte d’appello. Entro lo stesso termine l’imputato può formulare, sempre telematicamente e tramite il difensore, la richiesta di partecipare all’udienza. La proroga conferma anche la sospensione della prescrizione e dei termini di custodia cautelare nei procedimenti penali nel periodo di emergenza. Fino al 30 aprile, dunque, i giudizi penali sono sospesi durante il tempo in cui l’udienza è rinviata per l’assenza del testimone, del consulente tecnico, del perito o dell’imputato in procedimento connesso i quali siano stati citati a comparire, quando l’assenza è giustificata dalle restrizioni ai movimenti imposte dall’obbligo di quarantena o dall’isolamento fiduciario. Per lo stesso periodo di tempo sono sospesi il corso della prescrizione e i termini di durata massima di custodia cautelare. L’udienza dovrà comunque essere celebrata non oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione delle restrizioni ai movimenti. Riecco il Lodo Annibali. La guerra di Renzi inizia dalla prescrizione di Errico Novi Il Dubbio, 16 gennaio 2021 Pronto l’emendamento al ddl penale che congela la norma cara ai 5S: “Il Pd difenda la riforma Orlando, ora fase nuova sulla giustizia”. Cosa succederà con la prescrizione? Che ci si andrà a sbattere subito. La giustizia è il primo innesco, il primo ponte minato, la prima questione su cui si materializzerà, in Parlamento, la rottura di Matteo Renzi. La data è già cerchiata di rosso: giovedì 21 gennaio. Quel giorno scadono i termini per presentare gli emendamenti alla riforma del processo penale. E arriverà, nel pacchetto delle modifiche renziane, l’arma fin du monde della guerra sulla giustizia: il lodo Annibali. Contenuto: congelare l’efficacia del blocca- prescrizione di Bonafede. In vista di un tagliando alla riforma Orlando, approvata nell’estate 2017 e superata, prima che potesse dispiegare i propri effetti sui nuovi reati, dalla norma cara ai 5 stelle (in vigore dal 1° gennaio 2020). Si tratta di un ricorso storico. Perché il lodo Annibali era già stato causa di tensioni fortissime un anno fa, proprio in questo periodo del calendario, quando ancora non era alle viste la tragedia del covid. Renzi lanciò l’offensiva contro il blocca- prescrizione di Bonafede, poi la pandemia impose ben altre priorità. Il lodo Annibali “sarà presentato nelle prossime ore”, conferma al Dubbio Cosimo Ferri, il parlamentare- magistrato che rappresenta Iv in commissione Giustizia alla Camera, con la stessa Lucia Annibali e Catello Vitiello. Arbitro della partita, il presidente della commissione Mario Perantoni, dei 5 stelle. È consapevole che dovrà essere di parte. Non lo è stato certo nella conduzione dei lavori: ha accolto lui la richiesta, presentata da Italia viva a dicembre, di prorogare di una settimana il termine degli emendamenti, in vista di un’intesa sulla prescrizione con Bonafede. La mediazione tra i renziani e il ministro è fallita, com’era prevedibile. Perantoni ha già spiegato, anche con un’intervista al Dubbio, che se davvero la commissione Giustizia da lui presieduta si troverà a votare sul lodo Annibali, lui si esprimerà ovviamente contro, “anche se non mi auguro che il mio voto diventi decisivo”. Eppure lo sarà: la commissione Giustizia di Montecitorio è composta da 46 deputati, senza Perantoni la maggioranza può contare su appena 22 voti sicuri. In caso di votazione pari, il lodo non passerebbe. Il quadro è abbastanza confuso da non incoraggiare pronostici, in ogni caso. Ferri chiama il Pd - “È chiaro che fra le variabili c’è quella del Pd”, ricorda Ferri, sottosegretario alla Giustizia quando ministro era Andrea Orlando. “Noi presenteremo il lodo Annibali proprio con lo spirito di chi vuol difendere la riforma Orlando, che non è mai stata messa alla prova. Ricordo che quella modifica aveva molto esteso il tempo di prescrizione, con uno stop al cronometro di complessivi tre anni. Ci siamo sempre meravigliati dell’atteggiamento rinunciatario assunto dal Pd sulla prescrizione: era stato il loro attuale vicesegretario a riformarla appena 4 anni fa”, nota il deputato di Iv. La strategia di Italia Viva - Il punto è: il lodo Annibali rischia di essere un atto di bandiera, con prospettive di approvazione nulle? Sulla carta i numeri, seppur di un soffio, sembrano dire questo. Nelle scorse settimane, d’altra parte, il Pd non ha mancato di esprimere riservatamente cautela sui reali effetti del ddl penale. Che non pare in grado di accelerare a tal punto i processi da rendere irrilevante il blocco della prescrizione, introdotto con la spazza corrotti e in vigore da un anno. In pratica, la norma Bonafede, pur stemperata dal “lodo Conte bis” (contenuto proprio nel ddl penale) rischierebbe di esporre una percentuale di imputati a un giudizio d’appello lunghissimo, perché appunto privo di barriere temporali. Ma è chiaro che schierarsi coi renziani sul punto, per i dem, vorrebbe dire uccidere il Conte ter nella culla, ammesso che riesca a nascere. “La nostra posizione è nota”, spiega Ferri, “abbiamo segnalato già nelle nostre osservazioni al Recovery i limiti, anzi le omissioni sul processo penale. Al guardasigilli Bonafede avevamo proposto un’alternativa: possiamo mettere da parte il lodo Annibali, era il nostro discorso, ma a condizione che tu istituisca subito la commissione ministeriale sulla prescrizione, da noi sollecitata già in primavera”. Quella, per intenderci, che Renzi avrebbe voluto far presiedere da Gian Domenico Caiazza, leader dell’Unione Camere penali e più fiero avversario del blocca- prescrizine. “Esatto. Il punto”, osserva Ferri, “è che Bonafede non ha risposto alla nostra sollecitazione. Quindi il lodo Annibali lo presentiamo. Prevede di sospendere l’efficacia del blocca- prescrizione di Bonafede, in modo da poter sottoporre la riforma Orlando a un tagliando”. “Una giustizia nuova” - A pensarci, dovrebbe venire incontro alle perplessità dello stesso Pd. Anche se in una fase politica così tellurica, i dem non compiranno gesti clamorosi. “Ma se si deve parlare di una fase politica nuova”, dice Ferri, “lo si deve fare anche con una giustizia penale giusta, più efficace, più attenta ai diritti e alle garanzie. Lo abbiamo sempre detto quando eravamo in maggioranza. Figuratevi se smetteremo di dirlo ora”. “E il Pg disse: il diritto di difesa vale meno…” di Simona Musco Il Dubbio, 16 gennaio 2021 Appello cartolare salvo richiesta delle parti, recita la norma. Ma solo in teoria, almeno nel caso di Roberta De Leo, penalista milanese che martedì scorso è stata interrotta dall’accusa - e poi dal presidente della Corte d’Appello - durante la sua arringa. Rimasta, dunque, sospesa, al punto che il processo si è concluso senza la discussione della difesa. Ciò nonostante pg e parte civile avessero, invece, discusso normalmente. E ciò in nome di un’emergenza sanitaria che, in casi come questo, sembra valere solo quando è il diritto di difesa quello in gioco, l’unico a cui - questa l’impressione della penalista - sembra si possa rinunciare. Questa storia si può vedere come una rappresentazione plastica delle storture della giustizia in tempo di Covid. Perché se è vero che la salute viene prima di tutto, è vero anche che è il legislatore l’unico titolato a stabilire quale diritto salvaguardare quando la quotidianità è stravolta da cose straordinarie come una pandemia. E capita che tale bilanciamento dei diritti sembri venir meno all’atto pratico e sulla base di scelte discrezionali, che finiscono per penalizzare solo una delle parti del processo: la difesa. La vicenda costituisce l’atto finale di un delicato processo per bancarotta fraudolenta, che in primo grado aveva richiesto circa tre anni per arrivare a conclusione. “Io e il collega avevamo scritto un appello corposo e abbiamo quindi chiesto, quando è stata introdotta la novità della cartolarità in appello, che venisse trattato in presenza - spiega De Leo al Dubbio -. Quel giorno c’erano effettivamente dei disagi, tra mascherine, microfoni non funzionanti e porte aperte per garantire il ricircolo dell’aria. Ed essendo la Corte d’Appello al primo piano, si sentivano molti rumori, senza contare il freddo”. Insomma, una giornata complicata per tutti, accusa, difesa e giudici. La prima ad intervenire è stata la procura generale, che ha concluso velocemente la propria requisitoria passando la palla alla parte civile, che in 20 minuti ha concluso il proprio intervento. Infine toccava all’avvocata De Leo e al collega. “Ho iniziato esponendo tre questioni procedurali di legittimità, senza entrare nel merito del procedimento. Ho parlato per circa 15 minuti, fino a quando ho annunciato di voler affrontare le questioni relative ai capi d’imputazione, che erano ben sette”, racconta ancora. A quel punto, però, è intervenuta la procura generale, che interrompendo l’arringa ha chiesto al presidente della Corte d’Appello di togliere la parola alla difesa. “Mi ha detto “scusi se interrompo”, tanto che ho pensato ci fosse qualche allarme in tribunale, perché, francamente, non mi era mai successo in 25 anni d’attività che qualcuno interrompesse l’arringa - spiega -. A quel punto mi sono fermata e la pg ha sottolineato che faceva freddo, che i microfoni non funzionavano, che sembravamo dei matti con quelle mascherine e che non si capiva niente. Ma non solo: ha anche detto che il mio “dotto appello” lo avevano già letto, motivo per cui potevo chiudere lì. Così ha invitato la Corte ad intervenire per fermarmi, sottolineando che il diritto alla salute è prevalente sul diritto di difesa”. De Leo si è dunque rivolta alla presidente, credendo di poter continuare la propria arringa così come prevede la norma. Sperando di trovare conforto, anche. Ma così non è stato. “La presidente ha rincarato la dose, confermando che sì, c’è il covid”, sottolinea ancora De Leo. Che non ha potuto fare a meno di notare che per le altre parti tale questione non è stata posta, così che l’unico diritto compresso è stato quello alla difesa. “Non solo - aggiunge -, questo giudizio di bilanciamento tra due diritti costituzionalmente sanciti deve essere operato dal legislatore ed in effetti l’ha fatto, laddove ha previsto che ci fosse la cartolarità come principio generale del giudizio d’appello. Un principio che già, di per sé, è un mostro, ma che lascia la possibilità, per i processi più complessi, com’era il mio, di richiedere il giudizio in presenza. In questo caso il legislatore ritiene che sia prevalente il diritto di difesa - continua -, non è qualcosa che può essere stabilito, di volta in volta, dal giudice. Questo meccanismo è un’aberrazione, ma è ciò che il legislatore ha previsto”. Il processo si è concluso così, con una riduzione di pena di tre mesi per gli imputati e una difesa, di fatto, esposta soltanto nei motivi d’appello e per iscritto. Un brutto messaggio, per De Leo, per tutto il mondo della giustizia. L’avvocata ha dunque annunciato di voler presentare un esposto all’ordine degli avvocati. “Anche perché continuo a sentire storie veramente raccapriccianti anche dai miei colleghi - conclude - e sembra che sia stata sdoganata l’idea che si possa dare sfogo alle manifestazioni di autorità. Una situazione aggravata dal fatto che, con i processi a porte chiuse, la stampa non ha libero accesso alle aule, il che fa passare nel silenzio storie come questa”. Niente paura: il pm è già un quarto potere di Rinaldo Romanelli* Il Riformista, 16 gennaio 2021 A rafforzarlo ancora non sarebbe certo la pdl delle Camere penali. Le nostre proposte vanno oltre la separazione delle carriere, perché non dibattere laicamente delle idee dei penalisti? Sulle pagine di questo giornale il Dott. Alberto Cisterna, commentando l’intervista del 12 gennaio del Presidente di Anm, Dott. Giuseppe Santalucia, in merito al tema della separazione delle carriere dei magistrati, e quella “in risposta” del giorno successivo del Presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza, ha fatto affermazioni condivisibili ed altre che meritano, invece, una riflessione critica. Partiamo dalle prime, selezionando unicamente quelle di maggior rilievo. L’attuale relazione tra Giudice e Pubblico Ministero “appare a molti del tutto insoddisfacente poiché fortemente marcata da una sorta di prepotere processuale - tendenzialmente onnivoro rispetto alle cadenze formali dell’indagine preliminare - e da una esibita prepotenza mediatica della funzione inquirente”. Difficile esprimersi con parole più adeguate. Ancora, a proposito del punctum dolens: “Il nuovo codice - e anche i meccanismi della carriera e della responsabilità civile dei magistrati - hanno incentivato una sorta di innaturale compartecipazione e, in molti casi, di vera e propria cogestione delle indagini preliminari tra pubblico ministero e gip”. Ed infine: “Dall’istituzione del cosiddetto Tribunale della libertà (1982) in poi è stato tutto un continuo dilatarsi della presenza giurisdizionale nelle istruttorie (sino al 1989) e nelle indagini (a oggi) curate dagli inquirenti, con risultati del tutto insoddisfacenti se si guarda all’esito di molti dibattimenti e alle messe di assoluzioni che intervengono dopo lunghe carcerazioni e straripanti intercettazioni”. Oggettivamente innegabile. La soluzione della separazione delle carriere proposta dall’Ucpi non sarebbe però corretta, perché porterebbe all’ergersi formale di un “quarto potere” rappresentato dal Pubblico Ministero, ormai svincolato dal giudice, un’enclave chiuso insieme a migliaia di uomini della polizia giudiziaria posti alle sue dipendenze. Si creerebbe, secondo il Dott. Cisterna, una condizione unica in tutte le democrazie occidentali. Ipotizza, quindi, di sciogliere il connubio tra giudice e pm, sostanzialmente eliminando la presenza del giudice nella fase delle indagini, di modo che torni ad essere un soggetto indifferente rispetto all’esito delle stesse. Indagini brevi, limitazione delle misure cautelari e delle intercettazioni e restituzione al pm i poteri previsti da codice di rito previgente; “Certo, ovvio, limitandone oltremodo i poteri coercitivi”. Qualche rilievo critico. Il primo e più scontato è che il pm rappresenta già, a tutti gli effetti, “un quarto potere” (come autorevolmente affermato dalle pagine di questo giornale dal Prof. Sabino Cassese), che esercita discrezionalmente l’azione penale, disponendo della polizia giudiziaria, in indagini prive di limiti, che consegnano alla gogna mediatica la “verità” della pubblica accusa, destinata a restare tale, in alcuni casi, perfino dopo le sentenze assolutorie che giungono dopo anni. Indagini rispetto alle quali anche i giudici, che pervengano ad esiti assolutori, risultano delegittimati di fronte all’opinione pubblica. È difficile immaginare una qualunque modifica costituzionale che possa ulteriormente aumentare il potere di cui dispone oggi il Pubblico Ministero. Quanto alla condizione unica rispetto alle altre democrazie occidentali, come rilevato anche dalla Commissione Europea per le Democrazie del Consiglio d’Europa: “In numerosi paesi la polizia giudiziaria è, in linea di principio subordinata alle direttive del pubblico ministero” (Rapporto sulle norme europee in materia di dipendenza del sistema giudiziario: parte II - Il pubblico ministero, Venezia - 17-18 dicembre 2010). Né il quadro muta considerando che negli altri stati, normalmente, il pm risponde al potere esecutivo, poiché come rilevato dalla già ricordata Commissione “in alcuni paesi, la subordinazione del pubblico ministero al potere esecutivo è più una questione di principio che una realtà, dal momento che l’esecutivo si dimostra in realtà particolarmente attento a non intervenire nei singoli procedimenti”. Non può dirsi, quindi, come fa il Dott. Cisterna che gli altri “sistemi che tollerano una radicale separazione di carriere tra inquirenti e giudici lo fanno solo a patto di una totale indipendenza della polizia giudiziaria dai pubblici ministeri e di una completa e assoluta soggezione degli stessi pm alle prescrizioni di politica criminale provenienti dal governo”. Si immagina qualcosa che (fortunatamente) non esiste e non potrebbe esistere nel quadro normativo europeo e Cedu. E si aggiunga che nessuno “tollera” la separazione tra giudici e pm, questa è semplicemente la regola in ogni sistema a democrazia evoluta, mentre l’unitarietà è propria dei sistemi illiberali e meno “inclini” al rispetto delle garanzie e dei diritti umani. Non a caso in Europa il sistema è unitario, oltre che in Italia (ed in Francia, ove vige però ancora il codice inquisitorio ed in ogni caso il Consiglio Superiore ha due sezioni diversamente composte per giudici e pm): in Turchia, Romania e Bulgaria. Non esattamente modelli di democrazia a cui tendere. Non pare, quindi, ragionevole preoccuparsi di una minaccia che già è realtà, o di creare un sistema che costituisce la regola in tutte le democrazie evolute (pur con assetti diversi da quello proposto dall’Ucpi, rispetto alla dipendenza, spesso solo formale, del pm dall’esecutivo). Deve aggiungersi però, a questo punto, a fronte di una critica mossa dal Presidente di Anm secondo cui la legge sulla separazione delle carriere stenta ad andare avanti “perché sconta una pericolosa incompletezza del disegno ricostruttivo”, che per giudicare il disegno bisognerebbe guardarlo tutto e non solo un pezzo, per poi concludere che è monco. La proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare dell’Unione non si basa esclusivamente sulla separazione delle carriere e al contempo non compone, da sola, l’immagine della magistratura che vorremmo. Si propone, infatti, per migliorare la qualità della giurisdizione e contrastare, almeno in parte, l’autoreferenzialità corporativa della magistratura, che la legge possa prevedere la nomina di avvocati e professori a tutti livelli della magistratura giudicante. Si tratta del cosiddetto “reclutamento laterale”, finalizzato a portare in magistratura le esperienze professionali di altri operatori o studiosi del diritto. Nei paesi ove vi sono magistrature burocratiche come la nostra (alla quale si accede per concorso), attingere ad altre risorse è la norma. In Francia, ad esempio, questo fenomeno negli ultimi anni è molto cresciuto ed ora circa il 30% del corpo magistratuale è costituito da “professionisti in riconversione”: avvocati, funzionari pubblici, professori, ma non solo, anche rappresentanti di associazioni dei consumatori, amministratori di aziende, amministratori pubblici. La Scuola Superiore della Magistratura Francese, recluta circa cinquecento allievi all’anno, dei quali la metà appartiene alle categorie sopra indicate, realizzando così una magistratura aperta, multiculturale e, al contempo, specializzata. Con questi presupposti, un percorso di formazione comune, tra giudici, magistrati d’accusa e avvocati, che crei una comune cultura della legalità, è certamente auspicabile. Va chiarito poi che separazione delle carriere e delle funzioni sono concetti distinti e come tali andrebbero trattati. Una volta creati due diversi sistemi ordinamentali autonomi, uno dal quale dipendono i giudici e uno dal quale dipendono i pm (alimentati anche con il “reclutamento laterale”), nulla vieta che si possa transitare, magari per concorso, ma non necessariamente, da un sistema all’altro e dunque, da una funzione all’altra; anzi sarebbe auspicabile, in particolare, che il giudice arricchisse con la sua cultura e la sua esperienza la funzione di magistrato d’accusa. Anche in questo caso, nella maggior parte degli altri paesi si tratta di dinamiche assolutamente usuali. Si propone poi di riequilibrare la componente laica all’interno del Csm, pur mantenendo la maggioranza di togati, poiché l’esperienza ha dimostrato, anche alla luce dell’emersione della vicenda Palamara, che rapporti tra politica e magistratura esistono e, se non sono gestiti in piena trasparenza nelle sedi istituzionali, scorrono come fiumi carsici nelle sale degli alberghi. Si vorrebbe introdurre un correttivo all’obbligatorietà dell’azione penale, nel senso che la stessa, pur obbligatoria, debba essere esercitata nei casi e nei modi previsti dalla legge, posto che ad oggi questo rappresenta uno dei punti più dolenti del sistema, poiché la scelta resta consegnata all’arbitrio del pm (privo di qualunque controllo e responsabilità a riguardo). Ma la proposta di modifica costituzionale non esaurisce, appunto, il quadro. L’Unione immagina che si debbano limitare i contatti tra magistrati e politica. Come osservato dal Prof. Cassese dalle pagine del Riformista non si comprende perché i magistrati “occupano il Ministero della giustizia, che è parte in un diverso potere dello Stato, quello esecutivo”. Vi sarebbe da aggiungere che occupano anche altri ministeri e non solo. Riteniamo poi, come ricordato dal Presidente Gian Domenico Caiazza, che sia indispensabile tornare ad un sistema effettivo ed affidabile di valutazione e di “promozione” (di questo parla l’art. 105 della Costituzione), poiché in nessun altro paese al mondo il 99,9% delle valutazioni di professionalità danno esito positivo, con l’effetto che tutti i magistrati, una volta superato il concorso, possono essere certi che arriveranno al massimo livello di carriera possibile, con l’effetto che essendo tutti ugualmente “eccezionali”, quando si tratta di assegnare incarichi direttivi e semi-direttivi si apre la via all’arbitrio e all’influsso delle correnti di Anm. Infine, per venire ai rimedi prospettati dal Dott. Cisterna, far scomparire il giudice dalle indagini forse lo allontanerebbe un poco dall’abbraccio del pm, ma consegnerebbe definitivamente a quest’ultimo quella che è divenuta la fase centrale e più incisiva del procedimento, senza nessuna garanzia neppure rispetto ad un’eventuale riduzione dei tempi dell’indagine stessa, che in teoria è condivisibile, ma in pratica non sarebbe attuabile. Al contrario, il nostro disegno lo immagineremmo così: un giudice terzo e dunque libero da ogni condizionamento interno, autorevole, arricchito dal reclutamento laterale e da una formazione comune agli altri attori del processo, professionalmente effettivamente valutato e selezionato nella progressione di carriera, che rappresenta il limite all’enorme potere del pm, controllando realmente i tempi delle indagini (attraverso la retrodatazione dell’iscrizione della notizia di reato, con la sanzione dell’inutilizzabilità degli atti compiuti fuori termine) e le richieste limitative della libertà personale dell’indagato (prime tra tutte: misure cautelari e intercettazioni). Un pm autonomo, ma non chiuso e autoreferenziale, né per accesso, né per formazione e magari se questo non basta a garantire da un potere così temibile (quale già ora è), con un Csm dei magistrati di accusa che sia composto, per la parte togata, non solo da pm (come da noi proposto), ma anche da giudici. Certo possiamo sbagliare e ogni proposta è perfettibile, però ci piacerebbe che si cominciasse laicamente a parlare di quello che gli avvocati penalisti propongono, guardando tutto il quadro, magari per renderlo più bello, piuttosto che rappresentare la necessaria unitarietà delle carriere come le colonne d’Ercole, limite ultimo delle terre conosciute, oltre il quale si celano l’ignoto e inimmaginabili insidie. *Responsabile dell’Osservatorio Ordinamento Giudiziario dell’Unione camere penali L’usura al tempo del Covid: così le mafie stanno soffocando l’economia di Roberto Saviano Corriere della Sera, 16 gennaio 2021 Camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra fingono di regalare milioni di euro a chi soffre l’assenza di liquidità: e innescano così il circuito dello “strozzo”. I bonus da 25 mila euro del governo usati per infiltrare le imprese legali. Non c’è più tempo: il denaro mafioso sta erodendo il tessuto economico sano del Paese. Non è un’iperbole: la crisi generata dalla pandemia sta sgretolando la struttura portante dell’economia italiana. L’imperativo, in queste ore, è tenere sotto stretta osservazione le imprese che stanno morendo asfissiate da mancanza di liquidità e stasi del mercato, e vigilare su chi le intuba, ovvero le organizzazioni criminali. Eppure non avvertiamo il pericolo perché nessuno pretende soldi con minacce; oggi l’estorsione ha un volto diverso e si manifesta mettendo a disposizione capitali e non sottraendoli, almeno per il momento. Non è l’imprenditore in sofferenza a cercare il contatto che gli presterà soldi ma, al contrario, viene cercato, e non dal cravattaro violento che applica il 300 per cento di interesse mensile. Si presenta, invece, un imprenditore o una società a proporre alleanze economiche, strategie di evasione fiscale sicura o di ottimizzazione dei costi. E cosa chiede in cambio? Di partecipare all’impresa subito. Il “salvatore” inizia poi a spingere per aumentare il debito, pretende di rinnovare i locali, rileva pezzi di proprietà per ripagare gli investimenti e ci si trova, in un precipitare di eventi, nella morsa dello strozzo. Il contatto usuraio viene presentato spesso da altri imprenditori già caduti nella rete e che, portando nuovi “clienti”, si illudono di poter spuntare un trattamento di favore. Da consulenti legali o fiscali ma anche, come denunciato dal capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano, la procuratrice aggiunta Alessandra Dolci, “da dipendenti infedeli delle banche”. Quando chiedo spiegazioni ad Annapaola Porzio, ex Commissaria straordinaria del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, mi risponde che la situazione è drammatica: “Il Covid ha esasperato l’usura, perché trova una platea più disponibile. Quello che sta succedendo è che imprenditori che avevano un ottimo ranking nei confronti delle banche, una storia familiare e industriale solida, si sono trovati con la crisi Covid in dinamiche assolutamente sconosciute”. Il Prefetto Porzio, che ha gestito il Commissariato antiusura nel momento in cui è esplosa la pandemia, nella Relazione annuale 2020, scrive: “La fotografia di quello che è accaduto dallo scorso mese di marzo [...], ci impone di richiamare l’attenzione di tutti sull’espansione del c.d. “welfare mafioso di prossimità”, ovvero quel sostegno attivo alle famiglie degli esercenti attività commerciali e imprenditoriali in difficoltà o in crisi di liquidità. Tutto ciò in cambio di “future connivenze”, con la non remota possibilità di infiltrarsi ulteriormente nel tessuto economico”. Ciò che Stato e banche non danno, le mafie possono concederlo, e se nei primi sei mesi del 2020 i reati contro il patrimonio sono diminuiti rispetto allo stesso periodo del 2019, quelli legati all’usura sono aumentati del 6,5%. Secondo Luigi Cuomo, Presidente nazionale di “Sos Impresa” “i numeri sono tremendamente parziali. Oggi, con gli usurai, gli imprenditori sono in luna di miele. Il problema scoppierà quando chi ti è sembrato un amico poi si mostrerà per quello che è, iniziando a chiedere indietro il denaro. A quel punto le soluzioni saranno due: i suicidi o le denunce”. Ma nemmeno morendo ci si libera dal debito, che resta in eredità alla famiglia. Il rapporto, molto complesso, tra criminalità organizzata e usura negli ultimi mesi è profondamente cambiato. Camorristi e ‘ndranghetisti, nel passato, non avrebbero mai accettato di essere identificati come usurai perché praticare l’usura fa perdere consenso sul territorio. Un boss semmai i soldi li regala, e ne dà notizia per captatio benevolentiae. Dal canto suo l’usuraio, se percepito come un affiliato, vedrebbe ogni suo centesimo controllato e ogni attività compromessa. Ma la pandemia ha fatto saltare questa separazione di ruoli, e l’ingegneria usuraia utilizzata oggi in più parti d’Italia ha avuto a Rimini la sua declinazione più nitida. Subito dopo il primo lockdown, camorristi del segmento militare, con fare intimidatorio, hanno offerto soldi a diversi grandi albergatori per poter comprare le strutture. Ma questi non hanno ceduto, sostenuti dall’amministrazione regionale che ha implementato un tavolo antiusura, e dall’amministrazione comunale, abituata a difendere le attività legate al turismo da aggressioni usuraie. Aggredire le imprese in difficoltà, però, non è l’unica prassi a cui le organizzazioni criminali hanno fatto ricorso. Più spesso si rilevano imprese fallite che vengono risuscitate con danaro criminale e messe in condizione di poter accogliere alla metà del prezzo degli altri hotel. Strozzato dalla concorrenza, anche chi non ha voluto vendere è costretto a farlo, o a entrare in partnership con le imprese “legali” della criminalità organizzata. Venire a patti o a vendere: tertium non datur. I primi prestiti qualcuno li ha paragonati alle prime dosi di eroina che i pusher negli anni Ottanta regalavano per creare nuovi consumatori perché sono prestiti senza interessi né scadenza: è necessario creare un rapporto di fiducia prima che di dipendenza. E se la quantità di persone e aziende in difficoltà è enorme, più grande ancora è la disponibilità economica delle organizzazioni criminali che possono permettersi di fidelizzare investendo. Poi arriva il momento in cui il denaro prestato deve rientrare, e iniziano le pressioni che dapprima sono di tipo imprenditoriale: persone da assumere, attrezzature o immobili da comprare. Si mette in moto una girandola infinita da cui non si esce più. Luigi Cuomo di “SOS Impresa” racconta come, nel Napoletano, i clan abbiano minacciato preti per ottenere gli elenchi delle persone bisognose che ricevevano aiuti dalla Caritas. L’obiettivo? Andare a casa di queste persone, portare pacchi spesa, aiutarle a gestire il quotidiano mediando con i medici di base per ottenere visite o con i laboratori di analisi per fare un tampone. L’obiettivo era mettersi a disposizione in cambio di un bonus da 1.000 euro, una somma più che ragionevole anche per chi non ha uno stipendio, se in cambio si ha accesso a diritti altrimenti negati. Un altro varco di accesso per le organizzazioni criminali nel tessuto economico legale è stato il bonus da 25mila euro per le imprese previsto dal decreto Liquidità. Non potendo l’imprenditore contestato accedervi, si trovava costretto a cercare un garante che individuava spesso in un’impresa solida vicina però a figure ambigue; il bonus lo avrebbero diviso l’azienda in sofferenza e il garante legato ai clan. Ma per capire fino in fondo quale sia la reale potenza economica su cui le organizzazioni criminali possono contare, è sufficiente guardare anche solo alle ultimissime operazioni antidroga portate a termine, poiché il narcotraffico è il settore che dà gli introiti maggiori. Novembre 2020, operazione Rebus: se vendute al dettaglio, la cocaina e l’eroina sequestrate avrebbero fruttato 18 milioni di euro. Settembre 2020, maxi operazione Los Blancos: 5,5 milioni di euro sequestrati e quasi 4 tonnellate di cocaina che avrebbero fruttato 900 milioni di euro. Questo denaro aveva un unico scopo: sarebbe stato immediatamente iniettato nell’economia legale, sopperendo velocemente alla carenza di risorse legali e non a scopo filantropico. Ecco perché, quando vince il più forte, non abbiamo alcuna certezza che abbia vinto chi porta idee, sviluppo, crescita e ricchezza. Più facile che a vincere sia chi compromette la democrazia con danaro marcio. Le mafie hanno da sempre a disposizione una liquidità tale da poter infiltrare ogni segmento, ma per avere via libera devono mancare capitali legali che vadano a protezione. E il Covid ha fatto saltare quella protezione. I quattro decreti emanati dal Governo (Cura Italia, Liquidità, Rilancio e Agosto) hanno permesso di ridurre da 142mila - numero indicato dalla Banca d’Italia - a circa 100mila le aziende in fabbisogno, e da 48 miliardi a 33 miliardi il fabbisogno complessivo. Come si salveranno le 100mila aziende in crisi di liquidità e con sempre più difficile accesso legale al credito? Ecco la risposta: Camorra, Ndrangheta e Cosa Nostra. Coldiretti, a maggio, denuncia l’arrivo preponderante dell’usura nel settore della ristorazione messo in crisi dal Covid, e dichiara che 5mila imprese sono controllate dalla criminalità organizzata. Confcommercio, lo scorso ottobre, non dà cifre meno allarmanti e parla di 40mila imprese minacciate dall’usura. Le banche si trincerano dietro la normativa europea, cioè a persone che non hanno una storia solida, non può essere erogato alcun credito; ma la storia di una impresa economica, per poterla giudicare e valutare, bisognerebbe conoscerla. Il problema principale delle banche - come ricorda l’ex Commissario Porzio - è aver chiuso molti sportelli che erano fondamentali per conoscere la storia industriale del territorio. Mi sono spesso domandato cosa possano fare concretamente le associazioni di categoria, e la risposta è: molto. Conoscono la situazione di ciascun settore attraverso le testimonianze dei loro associati, e potrebbero quindi intervenire più rapidamente di altri soggetti. E lo Stato, cosa potrebbe fare lo Stato? Innanzitutto grandi iniziative - dice Luigi Cuomo di “SOS Impresa” - che non abbiano il sapore della passerella, e poi stare accanto alle persone che hanno denunciato, starci fisicamente, proprio dove si celebrano i processi”. Gli imprenditori si sentono soli, abbandonati, dall’estremo Nord al profondo Sud, e se lo Stato non si schiera fisicamente al fianco di chi patisce e denuncia, il rischio è che la sfiducia si impadronisca di chi economicamente tiene in piedi il Paese, e il cappio che soffoca l’economia italiana finirà per soffocare anche la nostra democrazia. E la posta in gioco, con l’arrivo dei miliardi del Next Generation EU, per le mafie sarà altissima. Trattativa Stato-mafia: così “Report” ha accreditato fake e imprecisioni di Aldo Torchiaro Il Riformista, 16 gennaio 2021 La trasmissione ha rilanciato Riggio, pentito le cui parole erano state già screditate. E anche l’infondata suggestione di una mano eversiva dietro l’omicidio di Piersanti Mattarella: bastava verificare. La trasmissione “Report” di lunedì 4 sulla presunta “Trattativa Stato-mafia” ha suscitato, oltre allo scetticismo degli addetti ai lavori, la protesta di conoscitori della materia tra i quali i legali Francesco Romito e Basilio Milio. Abbiamo ricostruito con loro alcuni dei passaggi chiave delle principali vicende: distorsioni, interpretazioni e dimenticanze rendono incomprensibile la scivolata della trasmissione di Rai Tre. Partiamo oggi dalle dichiarazioni di Pietro Riggio, collaboratore di giustizia. Voce narrante nel montaggio di Report: “Passiamo a Pietro Riggio, membro della famiglia mafiosa di Caltanissetta che da due anni racconta fatti inediti sulle stragi. Nel 1994 Riggio raccoglie le confidenze del mafioso Vincenzo Ferrara”. Dicono si sia riferito a Marcello Dell’Utri. Riggio: “Quello che mi fece capire è che l’indicatore dei luoghi dove erano avvenute le stragi fosse stato Marcello Dell’Utri. Parlo della strage dei Georgofili, di via Palestro, di San Giovanni al Velabro, di San Giovanni in Laterano e mi ricordo che vi fu un’espressione colorita dicendo: “ma tu t’immagini Totò Riina che dovesse dire o indicare via Palestro. Ma che sa Totò Riina di via Palestro o di via dei Georgofili. Cioè quello è un ignorante, altre cose sa fare”. Qua dice: “La mente è lui” (minuti 18.45 e seguenti). Le dichiarazioni di Riggio sono state riportate senza far emergere una circostanza di fondamentale importanza, affermata dal medesimo Riggio, il quale ha dichiarato che il Ferrara tutto quanto riferitogli su Dell’Utri per averlo appreso dal boss mafioso Giuseppe “Piddu” Madonia, con il quale era imparentato avendo il Ferrara “sposato una sorella della moglie del Madonia” (Esame Ferrara 26 ottobre 2020, p. 72). Va detto che le telecamere di Report erano presenti all’udienza nella quale il Riggio accreditava quel rapporto di “parentela” tra Ferrara e Madonia. Gli accertamenti anagrafici, fatti dalla difesa dei Carabinieri ed illustrati all’udienza del 18 dicembre 2020, hanno dimostrato che l’unica “sorella della moglie del Madonia” non è mai stata sposata ed è ancora nubile. Ma Report ha “dimenticato” quella parte. Romito e Basilio chiosano: “Si ritiene che il servizio pubblico abbia il dovere di informare i telespettatori di tali circostanze non certo secondarie ed agevolmente acquisibili o, ascoltandole udienze registrate da Radio Radicale o - vista l’attenzione per l’audizione del Riggio - se si fossero interpellati gli scriventi difensori”. La disponibilità del collegio di difesa, comunicata a Sigfrido Ranucci con lettera Raccomandata, non è stata presa in considerazione. Ne avrebbe guadagnato in correttezza l’informazione pubblica qualora si fosse divulgato in trasmissione che, tra l’altro, Riggio ha affermato di aver saputo dai marescialli del Ros Parrella e Del Vecchio (detenuti per un periodo insieme a lui a S. Maria Capua Vetere), presenti a Mezzojuso la mattina del 30 ottobre 1995 quando il Ros non fece scattare il blitz per prendere Provenzano, che fu Mori a non dare l’ordine. Ma Parrella e Del Vecchio erano in servizio alla Dia, all’epoca, e non erano presenti a Mezzojuso, come risulta dai documenti. Riggio ha affermato che i predetti due marescialli sono stati condannati a oltre 20 anni di carcere per calunnia ai danni del generale Mori per aver rivelato la circostanza di cui al punto che precede; ma Parrella e Del Vecchio sono stati condannati a pene molto elevate, vicine ai 20 anni, per traffico di stupefacenti, come emerso dalle sentenze prodotte dalla difesa dei Carabinieri. Dettagli, si dirà a Saxa Rubra. Certo. Come quello per cui Riggio ha deciso di raccontare certi fatti dichiarando di averlo fatto “per aver seguito il processo sulla cosiddetta trattativa”. Non proprio secondario è che lo stesso Riggio ha raccontato di aver incontrato in uno studio legale di Latina il professor Nicolò Pollari che gli avrebbe consigliato di non fare certe rivelazioni. Ma su tale circostanza è arrivata una completa smentita dallo stesso Pollari, così come dall’avvocato dello studio legale dove sarebbe avvenuto l’incontro, come risulta da recentissima inchiesta di Rainews curata dal giornalista Rai Pino Finocchiaro, che i conduttori di Report avrebbero dovuto conoscere e far conoscere. Il giudice Giovanni Falcone e le indagini su Gladio - Durante la trasmissione il Procuratore Scarpinato, intervistato, ha dichiarato: “La vicenda di Giovanni Falcone subisce una svolta in occasione delle indagini sull’omicidio Mattarella, allievo di Moro, che aveva sostanzialmente ricreato in Sicilia una sorta di compromesso storico e che per la sua statura politica si avviava ad occupare posti di vertice nella Dc nazionale viene assassinato. Falcone giunge alla conclusione che non è stato ucciso da mafiosi ma è stato ucciso da due esponenti della destra eversiva, Cavallini e Fioravanti, gli stessi che sono coinvolti nella strage di Bologna. E da quel momento in poi comincia ad indirizzare la sua attenzione su Gladio”. Voce narrante: “Successivamente alla morte di Falcone, Fioravanti e Cavallini furono assolti dall’accusa di omicidio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, ma l’indagine su Gladio rimase aperta”. (minuti 1.39.30 e seguenti) Al riguardo, anziché lasciare dubbi o sospetti, sarebbe forse stato meglio informare i telespettatori sulla base di atti pubblici, acquisiti, peraltro, dal predetto Procuratore presso il Csm, precisando che le indagini su Gladio vennero svolte ed esclusero coinvolgimenti negli omicidi politici. Il dottor Giuseppe Pignatone, sentito dal Csm il 30 luglio 1992, ha, infatti, dichiarato: “Alcuni passaggi fondamentali sul rapporto mafia-politica sono stati fatti vedere a Giovanni Falcone scritti a mano prima ancora di batterli a macchina da me e da Guido Lo Forte nelle riunioni in cui erano presenti Roberto Scarpinato e Giusto Sciacchitano, quindi la requisitoria Mattarella che è stata praticamente finita nella sua parte essenziale prima delle feste di Natale era perfettamente condivisa da Giovanni Falcone che poi l’ha letta tutta, dov’è che c’è il contrasto, perché dovevamo arrivare là, il contrasto avviene su Gladio perché? Perché in quell’epoca esplode la vicenda Gladio”. Torniamo al montaggio. “Noi” chi siamo? R: Giammanco, Sciacchitano, Scarpinato, Lo Forte ed io. D: Anche Scarpinato? R: Anche Scarpinato. Scarpinato, come al solito, era molto meno acceso nella discussione, Roberto è quello che è, però sostanzialmente era d’accordo su questa impostazione che partiva dal presupposto che l’indagine si dovesse fare (poi parlerò dei G.I. che erano i padroni del processo). L’indagine si doveva fare, però noi dovevamo farla soltanto con riferimento mirato ai singoli delitti, cioè verificare sulla base degli atti esistenti al Sismi e alla Presidenza del Consiglio e, peraltro già allora sequestrati dalla Procura di Roma, se ci fossero addentellati, e se comunque riportassero, ai delitti di cui ci occupavamo noi, che erano: Mattarella, La Torre, Reina (era una pura ipotesi, infatti le vicende di Reina sono diverse); spuntò anche Insalaco, perché spuntò un terrorista nero di Insalaco che parlò di Gladio, poi si rivelò tutta una bolla di sapone. Il problema fondamentale riguardava Mattarella e La Torre. Su questo punto il contrasto non si appianò, perché Giovanni rimase nella sua idea, noi nella nostra, di cui io sono tutt’ora convinto e il Procuratore della Repubblica in quel caso disse che aveva la responsabilità dell’ufficio, e questo è uno di quei casi in cui si giocano le scelte fondamentali dell’ufficio e quindi si doveva fare come diceva lui. Si andò al Sismi alla Presidenza del Consiglio, si chiese la collaborazione della Procura di Roma, sono tutte cose nella requisitoria Mattarella che avete. Si accertò che non c’era nessuna possibilità di collegamento fra Gladio e la Sicilia e i delitti politici. (Audizione al CSM 30.07.1992, p. 46-50). Report domanda: tutti chi? Dichiarazioni sul Protocollo Farfalla - Anche tale vicenda è stata trattata dalla trasmissione, dando tali informazioni ai telespettatori con le parole di Sabella: “Praticamente con questo protocollo Farfalla il Dap apriva le sue porte ai Servizi”. Premesso che all’epoca del c.d. protocollo Farfalla (2003-2004) la materia era regolata dalla Legge n. 801/1977 e non già dalla legge di riforma avvenuta con la legge n. 124/2007e che mai sono stati contestati reati agli uomini del Sisde (generale Mori o suoi dipendenti, ex ufficiali del Ros e non, interessati alla vicenda “Farfalla”), per una completa e corretta informazione sul punto, evitando di riproporre l’opaca immagine stereotipata di chi lavora presso strutture di intelligence, sarebbe bastato consultare la nota Relazione del Copasir, atto pubblico del quale hanno dato ampia contezza tutti i mezzi di informazione, che ha approfondito la vicenda nei seguenti termini. Il Copasir ha accertato che “Nessun incontro tra gli agenti e i dirigenti del Dap - sulla base delle risultanze emerse - si sarebbe svolto all’interno delle carceri” (Ibidem) e, citando la testimonianza dell’allora Ministro dell’Interno Pisanu, ha rimarcato quali fossero gli interessi di tutela della Nazione sottesi a quell’attività: “In quegli anni vi era stata un’attività costante nel mondo carcerario con il fine di contrastare terrorismo, stragi, convergenza tra Brigate rosse e criminalità, collegamenti occulti in essere o rapporti con ambienti esterni”. Cucchi, il Pg chiede 13 anni per i carabinieri ritenuti responsabili di omicidio preterintenzionale Il Manifesto, 16 gennaio 2021 Processo d’appello. Ilaria Cucchi: “Di fronte a fatti del genere non possono esistere attenuanti, non c’è nulla che possa giustificare tanta violenza gratuita”. Nel processo d’appello per l’omicidio di Stefano Cucchi il procuratore generale di Roma Roberto Cavallone ha chiesto di aumentare le condanne dei carabinieri coinvolti, escludendo le attenuanti generiche riconosciute in primo grado. Da 12 a 13 anni di reclusione per gli agenti Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, ritenuti responsabili di omicidio preterintenzionale. Da 3 anni e mezzo a 4 e mezzo per Roberto Mandolini, l’allora comandante della stazione Appia che secondo i giudici falsificò il verbale d’arresto del ragazzo. Nei confronti del militare Francesco Tedesco, invece, Cavallone ha chiesto l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato. Quest’ultimo aveva assistito al pestaggio avvenuto nella caserma di via Casilina, decidendo nel 2018 di rompere il silenzio e testimoniare contro i suoi colleghi. Grazie alle sue dichiarazioni è stato possibile fare luce su ciò che è accaduto. Cucchi morì a 31 anni nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini, a Roma. Era il 22 ottobre 2009 e il ragazzo si trovava in custodia cautelare dopo l’arresto avvenuto una settimana prima per possesso di piccole quantità di stupefacenti. Era stato violentemente picchiato dai carabinieri. “Se siete in grado di dire che senza quel pestaggio Cucchi non sarebbe morto, allora il reato di omicidio preterintenzionale non c’è. Ma io non credo che siate in grado di dirlo”, ha sostenuto il procuratore. E ha aggiunto: “In questa storia abbiamo perso tutti. Nessuno ha fatto una bella figura. Stefano Cucchi quel giorno doveva andare in ospedale e non in carcere. Credo che nel nostro lavoro serva più attenzione alle persone piuttosto che alle carte che abbiamo davanti. Dietro le carte c’è la vita delle persone. Quanta violenza siamo disposti a nascondere ai nostri occhi da parte dello Stato senza farci problemi di coscienza? Quanto è giustificabile l’uso della forza in certe condizioni?”. Durante la requisitoria d’accusa Cavallone ha anche ricordato Federico Aldrovandi, studente ucciso ad appena 18 anni durante un fermo di polizia il 25 settembre 2005 a Ferrara. Ilaria Cucchi, l’instancabile sorella di Stefano che dal giorno dell’omicidio del fratello non ha smesso di battersi per ottenere giustizia, ha commentato così: “È stata una giornata molto emozionante, commovente. Io credo che di fronte a fatti del genere non possano esistere attenuanti, non c’è nulla che possa giustificare tanta violenza gratuita”. L’udienza in Corte d’assise è stata aggiornata al 22 gennaio prossimo. In quella sede ci saranno gli interventi delle parti civili. Retroattiva la “scelta” delle sezioni Unite a favore di orientamento anche minoritario Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2021 Il favor rei opera solo nel caso di over-ruling sfavorevole all’imputato, ma anche totalmente imprevedibile. L’applicazione da parte del giudice di merito della nuova interpretazione nomofilattica delle Sezioni Unite che decide la legittimità di un orientamento giurisprudenziale rispetto a un altro non è impedita dal principio del favor rei in quanto non caratterizzata da imprevedibilità. Non contrasta cioè con l’articolo 7 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo che vieta l’overruling dell’interpretazione sfavorevole all’imputato, ma solo se la “nuova” regola giurisprudenziale si connota per la sua imprevedibilità. La Corte di cassazione con la sentenza n. 1731/2021 ha escluso in radice la non prevedibilità di una data interpretazione nomofilattica se questa era stata già espressa seppur in maniera fortemente minoritaria. Nel caso di specie si trattava dell’interpretazione delle nuove regole del processo in assenza relativamente alla decorrenza del termine per appellare la sentenza pronunciata a seguito di giudizio abbreviato. I ricorrenti escludevano di aver impugnato tardivamente la decisione di primo grado in quanto avevano rispettato il termine calcolato a decorrere dalla notifica della sentenza. Al contrario la Cassazione fa rilevare la legittimità della decisione di inammissibilità dell’appello in quanto i giudici di merito avevano applicato l’intervenuta decisione delle sezioni unite del 2019 che escludeva la notifica dell’estratto della sentenza all’imputato non comparso in giudizio abbreviato. E ha definito come irrilevante - ai fini del computo dell’inizio del decorso del termine a impugnare in appello - la circostanza dell’avvenuta notifica della sentenza emessa nel caso concreto. A nulla rileva che la cancelleria del giudice abbia fatto un adempimento non richiesto dalla legge. Vale quindi la regola della non dovuta notifica con il conseguente effetto sfavorevole per i ricorrenti. Contraffazione: i presupposti per la configurabilità del reato di cui all’art. 474 c.p. di Fabrizio Ventimiglia e Giorgia Conconi* Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2021 Con la decisione in commento la Cassazione si pronuncia sui reati di contraffazione di marchi o brevetti e di introduzione e commercio di prodotti contraffatti, affermando che “l’interesse giuridico tutelato dagli artt. 473 e 474 c.p. è la pubblica fede in senso oggettivo, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione, e non l’affidamento del singolo, sicché, ai fini dell’integrazione dei reati non è necessaria la realizzazione di una situazione tale da indurre il cliente in errore sulla genuinità del prodotto; al contrario, in presenza di una contraffazione, i reati sono configurabili anche se il compratore sia stato messo a conoscenza dallo stesso venditore della non autenticità del marchio”. Questa in sintesi la vicenda processuale. Il Tribunale di Catanzaro rigettava il riesame proposto avverso un decreto di sequestro probatorio emesso nell’ambito di un procedimento penale avviato in relazione all’ipotesi di reato di contraffazione. Nello specifico, la Guardia di Finanza aveva proceduto ad eseguire nei confronti dell’indagato, titolare di una impresa di ricambi per automobili, un sequestro probatorio di numerosi pezzi di ricambio, indicanti marchi di case automobilistiche, esposti accanto a un cartello recante la dicitura “compatibili ma non originali”. Ebbene, il Tribunale di Catanzaro aveva ritenuto immune da vizi il provvedimento di sequestro nell’ambito del quale (benché succintamente) venivano indicate sia la fattispecie di reato in rilievo (rispetto al quale il Tribunale ne ravvisava anche il fumus) sia le finalità probatorie sottese all’applicazione della misura ablatoria. L’indagato proponeva, pertanto, ricorso per Cassazione, deducendo, in primo luogo, difetto di motivazione del decreto di sequestro e, in secondo luogo, la violazione dell’art. 474 co. 2 c.p. in riferimento agli artt. 21 e 241 del Codice della proprietà industriale. In particolare, il ricorrente lamentava che il Tribunale non avesse replicato alla deduzione difensiva circa la natura descrittiva e non distintiva del logo sul prodotto, assumendo che, in caso contrario, si sarebbe potuta escludere - sulla base delle disposizioni del Codice della proprietà industriale - la possibilità che il cliente venisse indotto in errore tramite il collegamento tra i prodotti e i servizi del titolare del marchio e quelli del terzo fornitore. Sotto tale profilo aggiungeva, altresì, il ricorrente che la mancata apposizione sulle merci in questione di diciture quali “tipo”, “modello”, o “simile”, dovesse essere intesa come una ulteriore circostanza atta ad escludere la volontà di generare equivoci sull’“originalità” del prodotto. Ebbene, percorrendo l’iter motivazionale della sentenza, i Giudici di legittimità, nel dichiarare infondato il ricorso, giudicano immune da vizi il decreto di sequestro, correttamente motivato dal Pubblico Ministero in quanto funzionale alla necessità di prosecuzione delle indagini e al conseguente accertamento del reato oggetto di contestazione. Relativamente al secondo motivo, la Corte, aderendo al consolidato e recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha chiarito che l’art. 474 c.p. “tutela non già la libera determinazione dell’acquirente, bensì la fede pubblica, a nulla rilevando che le condizioni di vendita del prodotto siano tali da escludere la possibilità per gli acquirenti di esser tratti in inganno”. In merito, invece, alla possibilità di riprodurre fedelmente pezzi di ricambio destinati ad essere inseriti in prodotti complessi senza incorrere nella violazione dei diritti di proprietà industriale, la Cassazione ha precisato che “non sussiste la denunciata violazione dell’art. 241 del Codice della proprietà industriale (D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30), poiché la liberalizzazione concessa dalla norma non consente automaticamente di riprodurre sui componenti di un prodotto complesso - coperto da un diritto di privativa - il marchio dell’impresa produttrice dei componenti originali”. Sulla base di quanto sopra esposto, la Suprema Corte ha, in conclusione, sostenuto l’infondatezza della tesi del ricorrente, dal momento che l’affissione di un cartello dichiarativo della non originalità dei beni in vendita non rappresenta un valido argomento per escludere la configurabilità del delitto di cui all’art. 474 c.p. Infatti, l’integrazione del reato di contraffazione prescinde dalla materiale creazione di una condizione di confusione circa la genuinità del prodotto in capo al cliente, essendo, invece, sufficiente la mera riproduzione di un marchio registrato su un prodotto industriale. Cgue, non si può rimpatriare minore non accompagnato se non è garantita l’accoglienza Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2021 La valutazione sullo Stato di rimpatrio deve essere attuale e non può essere esclusa in base a diverse fasce di età del minorenne. Con la sentenza sulla causa C-441/19 la Corte di giustizia della Ue ha affermato che prima di emettere una decisione di rimpatrio nei confronti di un minore non accompagnato, uno Stato membro deve accertarsi che nello Stato di rimpatrio sia disponibile un’accoglienza adeguata per il minore. E precisa che, se al momento dell’allontanamento non è più garantita un’accoglienza adeguata, lo Stato membro non potrà eseguire la decisione di rimpatrio. La vicenda riguarda la legislazione belga che, tra l’altro, ritiene ininfluente tale verifica quando il minore ha già compiuto quindici anni lasciando che soggiorni in maniera irregolare fino al compimento della maggiore età per essere rimpatriato. Al contrario, uno Stato membro che intenda adottare una decisione di rimpatrio nei confronti di un minore non accompagnato ai sensi della direttiva “rimpatri”, esso deve, in ogni fase della procedura, prendere necessariamente in considerazione l’interesse superiore del bambino, il che implica una valutazione generale e approfondita della situazione di tale minore. Perciò se lo Stato membro adottasse una decisione di rimpatrio senza essersi previamente accertato dell’esistenza di un’accoglienza adeguata nello Stato di rimpatrio si determinerebbe la conseguenza che tale minore, nonostante la decisione di rimpatrio, non possa essere allontanato se siffatta accoglienza non sussiste. Infine la Corte precisa che l’età del minore non accompagnato costituisce soltanto uno dei vari elementi per verificare l’esistenza di un’accoglienza adeguata nello Stato di rimpatrio e determinare se l’interesse superiore del bambino debba condurre a non adottare una decisione di rimpatrio nei confronti di tale minore. Per cui è illegittima anche la distinzione tra i minori non accompagnati in base al solo criterio della loro età al fine di verificare l’esistenza di tale accoglienza. E, al contrario, nel caso in cui la verifica dei termini di accoglienza abbia dato esito positivo non è legittimo che dopo aver adottato una decisione di rimpatrio questa non venga eseguita lasciando in un incerto status giuridico il minore non accompagnato fino al compimento della maggiore età. Emilia Romagna. Stop ai “bambini detenuti”: la risposta è la casa-famiglia protetta di Ambra Notari Redattore Sociale, 16 gennaio 2021 Un convegno in Regione Emilia-Romagna per accelerare nel lavoro di individuazione di strutture idonee ad accogliere madri detenute con figli piccoli. Al 31 dicembre 2020 le donne detenute con figli in carcere erano 33: 20 nelle sezioni nido, le altre negli Icam. Sono 10 le madri che nel 2020 hanno scontato periodi di detenzione - anche per oltre 30 giorni, mentre nel 2019 si è arrivati anche a 10 mesi - in strutture carcerarie dell’Emilia-Romagna con al seguito i propri bambini. A livello nazionale, il 29 febbraio 2020 negli istituti penitenziari italiani le mamme erano oltre 60 con altrettanti bambini sotto i 3 anni; a fine anno, complice il lavoro per alleggerire le carceri in pandemia, i numeri erano quasi dimezzati. “Si tratta comunque di numeri alti - rimarca Marcello Marighelli, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale dell’Emilia-Romagna. Diventa fondamentale ricercare soluzioni alternative, è un obbligo etico, e diventa quindi centrale l’apporto della casa famiglia protetta, per fornire un contributo al benessere dei bambini e cancellare questa distorsione del sistema”. La casa famiglia protetta, aggiunge Marighelli, “oltre che luogo di vita per le madri detenute e i loro figli può essere anche uno spazio che offre supporto alla genitorialità e che favorisce il reinserimento sociale”. È questo il cuore del convegno organizzato dai Garanti dell’Emilia-Romagna Marighelli e Clede Maria Garavini, Garante per l’infanzia, “Il problema dei bambini detenuti”. Oltre i numeri, oltre le contingenze, oltre l’emergenza, l’obiettivo comune è uno solo: far comprendere la necessità di superare con urgenza le sezioni nido - che, per legge, dovrebbero essere presenti in ogni sezione femminile - e gli Icam per lavorare, congiuntamente e convintamente, per la diffusione delle case famiglie protette su tutto il territorio nazionale come unica possibilità di accoglienza per le madri detenute con figli. “Finalmente sentiamo attorno a noi partecipazione e adesione - sottolinea Marighelli -. Finalmente anche il Parlamento se ne è occupato”. Il riferimento è all’approvazione, il 19 dicembre 2020, dell’emendamento Siani della Legge di Bilancio: si tratta dell’istituzione di un fondo per l’accoglienza di genitori detenuti con i propri figli, al di fuori delle strutture carcerarie. Nello specifico con l’inserimento dell’articolo 56 - bis si crea una dotazione di 1,5 milioni di euro per ciascuno degli anni del triennio (2021-2023), per finanziare la predisposizione di case famiglia protette. Nell’articolo che istituisce il fondo si legge: “Le case famiglia protette sono state previste dall’art. 4 della legge n. 62 del 2011 (legge che ha dettato disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori), quali luoghi nei quali consentire a donne incinta o madri di bambini di età non superiore a 6 anni di scontare la pena degli arresti domiciliari o la misura cautelare degli arresti domiciliari o della custodia cautelare in istituto a custodia attenuata. Attualmente, solo poche regioni sono dotate di strutture idonee a consentire l’applicazione di queste misure, con la conseguenza che detenute, con figli anche molto piccoli, restano in carcere. Entro due mesi dall’entrata in vigore della legge di bilancio, il Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e sentita la Conferenza Unificata, provvede al riparto delle risorse tra le regioni”. Due mesi: verso la metà di febbraio, dunque, si dovrebbe essere in grado di capire quanto spetterà a ciascuna regione. Come detto, al 31 dicembre 2020 le donne detenute con figli con loro in carcere erano 33: 20 nelle sezioni nido, le altre negli Icam. I numeri li fornisce Giulia Mantovani, docente di diritto processuale penale dell’Università di Torino, che richiama le Regole di Bangkok delle Nazioni Unite sottoscritte nel luglio 2010, “primo strumento internazionale dedicato alla popolazione femminile detenuta che ha posto anche una particolare attenzione anche alle donne in gravidanze, alle madri, alle madri che allattano. Le Nazioni Unite, già allora, sottolineavano la necessità di implementare, in questi casi, misure alternative al carcere, favorendo, dove possibile, la dimensione della domiciliarietà - ma come noto molte di queste donne madri detenute non hanno un domicilio idoneo dove scontare la pena, spesso si tratta di persone di origine straniera senza una rete amicale né familiare - e, comunque, delle soluzioni extra-murarie”. La strategia, secondo Mantovani, dovrebbe essere quella di “sfruttare” le case protette già esistenti fino a ora destinate ad altre fragilità. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Sonia Specchia, segretario generale della Cassa delle ammende del Ministero della Giustizia: “Lavoriamo per favorire un reinserimento sociale che vada oltre il mero domicilio - sebbene imprescindibile -. È vero, manca un effettivo impegno pubblico. Ma, come Cassa delle ammende, assicuriamo il nostro impegno per il superamento degli Icam. Non penso all’individuazione di nuove case protette. Penso, invece, all’utilizzo di strutture adeguate già presenti sul territorio”. “Formalmente, a oggi in Italia gli Icam sono 5, di cui 4 attivi e solo uno effettivamente ‘rivoluzionantè, quello di San Vittore. Gli altri sono carceri diversi, ma sempre strutture con una dinamica reclusiva-penitenziaria”. La constatazione è di Bruno Mellano, Garante dei detenuti del Piemonte: “Non ci sono alternative, l’unica strada è quella di investire in case-famiglia protette”. E proprio dell’Icam di San Vittore parla Gloria Manzelli, provveditore dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche. “L’Icam di San Vittore è a qualche chilometro dal carcere. È un appartamento con caratteristiche strutturali non minimamente paragonabili a quelle di una struttura penitenziaria e, naturalmente, nessuno indossa la divisa. Ma è una situazione eccezionale. Ancora oggi ci sono carceri senza sezioni nido, Icam dentro il carcere. Perché? Forse perché i numeri non sono alti? È relativo, perché siamo arrivati ad avere anche 60 bimbi dentro”. Manzelli opera anche un distinguo: in passato nelle sezioni nido degli istituti penitenziari erano accolte madri per reati bagatellari, dal 2008 in avanti per reati anche gravi e dunque con condanne alte. Questo cosa significa? Che l’approccio si è trasformato. Prima era una specie di pronto soccorso delle prime ore, ora si tratta di una gestione a medio-lungo termine della diade mamma-bambino”. Come spiega Manzelli, i problemi sono tanti: chi porta i bambini a scuola? Chi al dopo scuola? “Tutto è insoluto e molto è a discrezionalità della magistratura, che spesso decide sulla base della posizione giuridica della madre, di fatto alimentando differenze. I bimbi della sezione nido vedono ciò che succede intorno, si chiedono: perché lui sì e io no? E noi cosa possiamo rispondere? Ben vengano, allora, le strutture sul territorio, idonee anche per superare queste disuguaglianze”. Strutture sul territorio che, come sottolinea la Garante Garavini, devono presentare caratteristiche adeguate: “Le esigenze relazionali e relative alla crescita dei bambini corrispondono a dei diritti e sono sancite da norme internazionali, che noi abbiamo l’obbligo di rispettare. La crescita di un bambino e la maternità sono incompatibili con il carcere. La dimensione adeguata è quella di una casa protetta dove il bambino possa crescere in una quotidianità il più normale possibile, tra scuola, attività, libertà e fiducia, senza sensi di colpa né rigidità. Un impianto educativo complesso, un solido progetto di comunità e uno ritagliato sulle esigenze delle madri e dei bambini. La bussola è solo una: la tutela del superiore interesse del bambino”. Nei giorni scorsi Federico Amico, presidente della commissione regionale per la parità e per i diritti delle persone, ha presentato un atto rivolto al governo regionale con l’obiettivo di avviare un confronto con tutti gli istituti coinvolti per attivare programmi che consentano di evitare da subito la reclusione delle donne con bambini al seguito e rendere realmente praticabili le misure alternative. “Aria, apri, fuori: sono le prime parole pronunciate da alcuni bambini in carcere. Alcuni di loro non si muovono dalla camera detentiva se non c’è il loro agente di riferimento. Tutto questo non è più accettabile”. Lombardia. Quasi 300 positivi al Covid nelle carceri lombarde: “Serve il vaccino” di Benedetta Maffioli milanopavia.news, 16 gennaio 2021 Sono circa 300, tra detenuti e agenti della polizia penitenziaria, i positivi negli istituti penitenziari lombardi. Dai nuovi numeri dell’amministrazione penitenziaria è infatti emerso che i reclusi contagiati sul territorio regionale sono 194, di cui 9 in ospedale; sono invece 90 gli agenti che hanno contratto il coronavirus. Nell’aera del milanese i numeri sono i più alti: nel carcere di Bollate, i reclusi positivi sono 83, a San Vittore 36, nell’istituto penitenziario di Opera sono, invece, 10. Un problema, causato soprattutto dal sovraffollamento delle strutture, a dicembre, infatti, uno studio presentato dalla Caritas Ambrosiana aveva evidenziato come nelle tre carceri milanesi siano circa 3.400 i detenuti presenti a fronte dei 2.923 posti disponibili. Un’emergenza carceri che porta alla luce la necessità di organizzare la campagna vaccinale anche per il mondo dei penitenziari. Entro la fine del mese, infatti, il commissario nazionale per l’emergenza Covid, Domenico Arcuri, dovrebbe dare il via al piano vaccinale dedicato alle carceri. I primi vaccini all’interno delle strutture di detenzione dovrebbero così arrivare in contemporanea con la fase due, finita quella dedicata agli operatori sanitari e agli ospiti delle Rsa. A chiedere, però, un anticipo delle vaccinazioni a detenuti e polizia penitenziaria è la presidente della commissione regionale carceri Antonella Forattini, che ha rivolto al neo assessore al Welfare Letizia Moratti e al direttore generale Marco Trivelli, una richiesta specifica. “Visti i ben noti problemi di sovraffollamento, il rischio di esplosione pandemica è concreto - ha detto la Forattini - è necessario vaccinare già in questa prima fase del piano vaccinale i detenuti e il personale penitenziario delle carceri lombarde”. “Il personale penitenziario - ha inoltre aggiunto - rappresenta un potenziale veicolo del virus, avendo vita propria al di fuori del luogo di lavoro”. “Procedere alla vaccinazione di detenuti e personale penitenziario già nella Fase 1 - ha infine concluso - è altresì utile per evitare il rischio di eventuali disordini, che già si sono verificati in molte carceri del nostro Paese”. Roma. “A Rebibbia i detenuti positivi al Covid sono alloggiati negli spazi peggiori” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 gennaio 2021 La garante di Roma, Gabriella Stramaccioni, denuncia che a Rebibbia i detenuti positivi sono attualmente alloggiati in un reparto che era stato dismesso. Ancora in salita i dati della diffusione del Covid 19 in carcere. Secondo l’ultimo aggiornamento del Dap relativo alle ore 20 di giovedì, siamo giunti a 718 detenuti e 701 agenti penitenziari positivi ai tamponi. Situazioni complicate in tutte carceri italiane, soprattutto al Pagliarelli di Palermo e a Rebibbia. Attenzione, in realtà ancora non sono stati aggiornati i dati dell’ultimo focolaio del carcere siciliano del Pagliarelli con i 31 reclusi positivi. “Non ci coglie di sorpresa - afferma Pino Apprendi, presidente Antigone Sicilia, associazione che si occupa di tutela dei diritti dei detenuti al carcere Pagliarelli di Palermo - Ormai da mesi abbiamo rappresentato il problema che c’è nelle carceri italiane, siciliane e palermitane. Il contagio è all’interno di queste strutture e diventa un problema che deve riguardare tutti noi”. Prosegue sempre Apprendi: “In carcere non si possono mantenere le distanze previste dal Dpcm della presidenza del Consiglio dei ministri. Il carcere non è un luogo sicuro: diventa una bomba innescata nel momento in cui entra il covid. I 31 casi sono in quelli accertati potrebbe crearsi un focolaio veramente enorme. Questa è purtroppo la risposta a quanti hanno sottovalutato il problema”. I numeri dei contagiati in costante aumento - Quindi i numeri attuali della diffusione nelle carceri sono ancora più consistenti rispetto all’ultimo aggiornamento del Dap. Numeri in costante aumento visto che solo una settimana fa erano 556 i detenuti e 688 gli operatori affetti da Sars CoV-2. Il primato ce l’ha il carcere di Sulmona con 52 detenuti infetti e subito dopo quello di Secondigliano con 51 casi, tra i quali 4 sono finiti ricoverati presso gli ospedali Cardarelli e Cotugno. Il tutto mentre persiste il sovraffollamento, creando situazioni al limite. C’è l’esempio del carcere di Rebibbia dove i detenuti positivi sono attualmente alloggiati in un reparto che era stato dismesso e che necessitava di importanti interventi di rifacimento. “Quindi - ha denunciato la Garante locale Gabriella Stramaccioni - per assurdo le persone che hanno bisogno di maggiori cure e monitoraggio sono alloggiate negli spazi peggiori”. Resta il dato oggettivo che le misure deflattive partorite dal Governo non sono sufficienti. La diffusione riprende il via, il disagio aumenta e cresce la tensione all’interno delle patrie galere. Roma. Protesta a Rebibbia: “Detenuti in isolamento insieme, rischiano di contagiarsi” di Natascia Grbic fanpage.it, 16 gennaio 2021 La protesta è nata dopo che un’intera sezione è stata messa in isolamento dopo alcuni casi di detenuti positivi al Covid. Quest’ultimi sono stati trasferiti, ma le persone con cui hanno avuto contatti continuano a stare insieme nella stessa cella. “Bisognava svuotare e sanificare la stanza, ma la stanza non è stata né svuotata né sanificata - spiega a Fanpage.it il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia - Il rischio è che chi ha avuto contatti con i positivi stia incubando il virus e possa potenzialmente trasmetterlo agli altri”. Chiusi, isolati, in condizioni di sovraffollamento e con un focolaio in corso. Due giorni fa i detenuti del carcere di Rebibbia hanno protestato contro le misure messe in campo dalle autorità sanitarie e dall’amministrazione penitenziaria per provare a contenere i contagi da Covid-19. I detenuti positivi sono stati trasferiti in un piano apposito. La sezione a cui appartenevano è stata isolata su disposizione della Asl, con l’obbligo dell’isolamento in stanza. Misure che sono state definite dalla popolazione carceraria inefficaci dal punto di vista preventivo. “In questo modo il virus non circola tra gli altri, ma il rischio di contagio rimane tra chi è in cella insieme, parliamo in genere di circa quattro persone - spiega a Fanpage.it il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, che questa mattina ha avuto occasione di parlare con i detenuti - Bisognava svuotare e sanificare la stanza, ma la stanza non è stata né svuotata né sanificata. Il rischio è che chi ha avuto contatti con i positivi stia incubando il virus e possa potenzialmente trasmetterlo agli altri”. I detenuti hanno protestato due giorni fa. Si è trattato, secondo quanto appreso da Fanpage.it, di un’iniziativa pacifica e che nulla ha a che vedere con le rivolte di marzo, all’inizio del lockdown. Ieri sono stati trasferiti cinque detenuti individuati come gli animatori della protesta. Alcuni di questi provvedimenti erano già stati decisi tempo fa. Dopo la protesta è stato deciso di eseguirli. “I detenuti con cui abbiamo parlato sono risultati negativi al primo tampone, ma sono ancora in isolamento perché aspettano il secondo - continua Anastasia - La coabitazione stretta nella stessa stanza non è una misura idonea volta alla prevenzione del virus. E questo ci pone il solito problema che in carcere non solo non ci dovrebbe essere il sovraffollamento, ma bisognerebbe che ci fossero meno persone della capienza consentita, così da poter fare l’isolamento come si deve”. Rebibbia è stata costruita per ospitare circa mille detenuti. A oggi, in piena pandemia, ne sono reclusi 1440. “Se dovessimo adottare criteri di salute pubblica, dovrebbero essere massimo 700, così da avere gli spazi per i casi di emergenza - conclude il Garante - Non si riesce a uscire dal carcere nemmeno dimostrando le proprie condizioni di salute. Il Decreto Ristori non riproduce ciò che è stato deciso per la riduzione”. La scorsa settimana Stefano Anastasia ha inviato una lettera all’assessore regionale alla Sanità Alessio D’Amato per chiedere che “nella campagna vaccinale sia data la giusta priorità alle persone private della libertà”. I consiglieri regionali Alessandro Capriccioli, Marta Bonafoni e Paolo Ciani hanno risposto invitando la giunta a procedere con la vaccinazione dei detenuti. “Ci sembra l’unica soluzione in grado di frenare subito alcune paure - spiega Capriccioli. Ci sono casi di detenuti senza fissa dimora che non è possibile mandare agli arresti domiciliari (come previsto dal Decreto Ristori, N.d.R.): qualche settimana fa è stata approvata una mozione a mia prima firma che impegna la Regione a mettere a disposizione luoghi che possano consentire anche a chi non ha una casa di uscire dal carcere”. “Già nella prima ondata c’è stata una contrazione delle attività - continua Capriccioli. Le associazioni non entrano più, i contatti con l’esterno sono limitati, ci sono gli incontri a distanza con limiti tecnici enormi. E la paura del Covid amplifica tutto questo”. Palermo. Focolaio Covid al Pagliarelli con 31 detenuti positivi, striscione davanti al carcere blogsicilia.it, 16 gennaio 2021 “Garantire distanziamento e rispetto della vita nelle carceri”. Uno striscione davanti il Pagliarelli firmato Antudo. È di ieri la notizia del focolaio all’interno del carcere Pagliarelli di Palermo. Sono attualmente 31 i detenuti risultati positivi al Covid-19 e questa mattina davanti la casa circondariale è apparso lo striscione. “L’esplosione di un focolaio all’interno delle carceri era stato oggetto di dure proteste da parte dei detenuti nei mesi precedenti. “Nonostante fosse prevedibile la diffusione incontrollata del Covid-19 all’interno delle carceri - sostiene Antudo - non si è fatto il necessario per scongiurare questa eventualità. È soprattutto il sovraffollamento e la scarsa igiene a non consentire misure di prevenzione adottate all’esterno come il distanziamento sociale”. “Anche ai detenuti va garantito il diritto alla vita e alla salute. Per questo e per tanti altri motivi bisogna emettere subito provvedimenti straordinari come l’Amnistia e l’indulto”. Il tampone ieri ha confermato il sospetto. “Ci sono 31 detenuti positivi - affermava Francesca Vazzana direttrice del carcere Lorusso di Pagliarelli - ma di più non posso dire”. Pare che il focolaio sia partito tra i detenuti comuni che hanno continuato ad avere i colloqui con le famiglie. Nonostante le raccomandazioni e gli inviti a mantenere le distanze, qualcuno si sarebbe avvicinato alla moglie e ai figli e da qui il passaggio del virus che ha contagiato diversi reclusi. in questo momento ci sarebbe una zona rossa all’interno della struttura detentiva nel Reparto Pianeti. Si stanno effettuando i tamponi a tutti i carcerati per cercare di limitare il focolaio. Proprio in questi giorni il garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti Giovanni Fiandaca aveva scritto al presidente della Regione Nello Musumeci e all’assessore regionale alla Salute Ruggero Razza per chiedere di inserire i detenuti e gli agenti penitenziari e il personale che lavora negli istituti nella campagna vaccinale. Polemiche anche dai sindacati. “Come avevano purtroppo preannunciato, le carceri e la Polizia Penitenziaria si confermano delle vere trincee contro il coronavirus, è in questo momento di pandemia era chiaro che non volevamo corsie preferenziali, ma solo la consapevolezza che gestire focolai di contagio nelle carceri non solo e complicato ma potrebbe essere anche pericoloso su altri versanti”. Così i segretari regionali di Calogero Navarra Sappe, Davide Scaduto Osapp, Gioacchino Veneziano Uilpa Polizia Penitenziaria, Domenico Ballotta, Fns Cisl, Francesco D’Antoni Uspp, Alfio Giurato Fp Cgil. Modena. Tre detenuti tentarono di evadere: così iniziò la rivolta a Sant’Anna di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 16 gennaio 2021 La relazione della direttrice indica la dinamica della sollevazione in carcere. Caso Piscitelli ad Ascoli. Sono tre i detenuti all’origine della rivolta dell’8 marzo scorso scoppiata nel carcere di Sant’Anna con devastazioni, saccheggi e incendi, terminata con la conta di ben nove detenuti morti. A loro si sono accodati almeno altri 98 carcerati, un quinto delle presenze in quel momento nella prigione sovrappopolata. Dopo mesi di silenzi e reticenze, ora la dinamica della rivolta sta venendo alla luce grazie anche alla divulgazione di stralci (anticipati ieri da Repubblica) della relazione della direttrice Maria Martone. Relazione inviata il 20 maggio al provveditorato regionale e poi confluita nella relazione generale del Dipartimento di amministrazione penitenziaria sulla tragica giornata di rivolte carcerarie in tutta Italia terminata con un totale di tredici morti. A questo proposito ieri il procuratore di Modena Giuseppe Di Giorgio ha spiegato che il caso di Sasà Piscitelli, il detenuto 40enne attore di teatro morto in circostanze da chiarire poche ore dopo il trasferimento da Modena ad Ascoli, è stato inviato proprio alla procura ascolana. In base alla denuncia di cinque detenuti su percosse e brutalità nei confronti di Sasà Piscitelli, le indagini ora sono di competenza territoriale della procura marchigiana perché lì il detenuto è morto. I tre carcerati che avrebbero avviato la rivolta ora hanno un nome: Vincenzo Esposito Maiello, 54enne di Casalnuovo di Napoli, molto alto e smilzo, a Sant’Anna per due rapine compiute nel 2015 con un complice in una tabaccheria di via Vignolese a Modena e in una farmacia di Spilamberto; Yassine Moutate, 22 anni, tunisino; e Axel Masakevic, 22 anni, nomade rom apolide di famiglia bosniaca, nato a Modena, in carcere dopo la revoca della sospensione della pena in seguito a una serie di furti, scarcerato in estate e oggi uccel di bosco. Nel primo pomeriggio dell’8 marzo, quando dopo il pranzo domenicale si è diffusa con certezza la notizia, fino ad allora una voce, che un detenuto in isolamento era malato di coronavirus, la tensione già fortissima tra i detenuti è esplosa. Il detonatore della furia è stato il momento in cui i tre si sono arrampicati sui muraglioni e sono usciti dal nuovo padiglione di Sant’Anna tentando un’evasione sotto gli occhi di tutti. Un centinaio di detenuti non si è più controllato ed è esplosa la violenza. Determinante, a quanto pare, è stato l’assalto e il saccheggio di un deposito attrezzi dove sono stati presi strumenti diventati armi: scalpelli, cacciaviti, martelli, picconi e anche una fresa. L’allarme dato dal comandante ha avviato la controffensiva. In armeria sono stati presi i fucili mentre veniva avvisata anche la questura. Ma il peggio era già iniziato con l’incendio di materassi, la distruzione dell’Ufficio Matricole e la devastazione di tutto ciò che si incontrava lungo il percorso per la via di fuga. I tre si sono arresi poco dopo davanti al cancello che dava sulla strada. Nel frattempo, quando il caos era ormai padrone della situazione, un quarto detenuto identificato, il tunisino Lofti Ben Mesma, ha fatto irruzione nell’infermeria carceraria terrorizzando il personale e prendendo d’assalto la cassaforte con le droghe e gli psicofarmaci. Dietro di lui si era formata una schiera di rivoltosi tossicomani che ha assalito con ogni possibile attrezzo la cassaforte fino a quando non è stata aperta con una fresa. Il saccheggio a base di metadone e benzodiazepine, droghe che, secondo i medici legali, hanno portato alla morte dei nove detenuti di Modena: cinque trovati cianotici e privi di vita nelle celle e quattro durante i trasferimenti in altri penitenziari (tra questi Piscitelli). E a proposito dei corpi in cella è emerso che molti sono morti prima che l’incendio si propagasse vicino a loro: il denso fumo non li ha soffocati. Ieri il procuratore Di Giorgio ha ribadito ancora una volta che dagli esami autoptici compiuti non solo dalla Medicina Legale di Modena ma anche delle altre città dove i detenuti sono arrivati morti o moribondi (Verona, Alessandria, Parma e Ascoli) nessuno di loro presentava ecchimosi e lesioni da percosse o da violenze esterne. Un capitolo da approfondire sarà sicuramente quello di Piscitelli, dato che cinque detenuti, come detto, hanno denunciato di aver visto che veniva picchiato durante il trasporto e al suo arrivo in cella ad Ascoli, dove sarebbe morto, e non in ospedale come scritto sull’autopsia. Ferrara. Agente della Polizia penitenziaria condannato per tortura, è la prima volta in Italia di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 16 gennaio 2021 Un detenuto di 26 anni fatto spogliare e picchiato ripetutamente: riconosciuta l’aggravante della crudeltà. Antigone: “Sentenza storica”. Per altre tre figure processo ordinario. È stato condannato a tre anni per tortura e lesioni personali P.L., 51 anni, agente della polizia penitenziaria del carcere di Ferrara, accusato di tortura nei confronti di un detenuto. Vittima Antonio Colopi, un 26enne che stava scontando 14 anni per omicidio, fatto spogliare e picchiato ripetutamente. La sentenza è stata emessa in abbreviato da un giudice che ha riconosciuto anche “la crudeltà e violenza grave”. Il Pm Isabella Cavallari aveva chiesto tre anni e sei mesi. Oltre all’agente condannato il giudice ha deciso di rinviare a giudizio altri due agenti e un’infermiera, accusata di falso e favoreggiamento. Dopo l’aggressione il detenuto, assistito dall’avvocato Paola Benfenati, venne trasferito a Reggio Emilia. Per il presidente di Antigone Patrizio Gonnella si tratta di una sentenza “storica” perché “è la prima condanna di un funzionario pubblico per il delitto di tortura”. I fatti risalgono al settembre del 2017, quando i tre agenti della penitenziaria entrarono nella cella d’isolamento in cui si trovava il detenuto per fare una perquisizione. Secondo la ricostruzione mentre uno di loro resta di guardia in corridoio, gli altri due cominciano a vessare il prigioniero. Il più alto in grado, un sovrintendente di 55 anni, gli avrebbe intimato di restare a dorso nudo e dopo averlo fatto inginocchiare lo avrebbe preso a calci. Dopo averlo ammanettato avrebbe continuato a colpirlo ferocemente, fino alla reazione del carcerato che con una testata lo aveva colpito al volto. Picchiato ancora, le richieste d’auto furono inutili. Alla fine del pestaggio, gli agenti si allontanarono lasciandolo ammanettato, fin quando non venne notato da un medico del carcere durante un giro nelle sezioni. Di falso e calunnia potrebbero essere chiamati a rispondere anche gli agenti che nei loro rapporti hanno scritto di essersi difesi da un’aggressione. Il detenuto era stato condannato in abbreviato per aver ucciso un cuoco con cui lavorava. Antigone: “Nessuno è superiore davanti alla legge” - “Non si gioisce mai per una condanna e non gioiamo neanche in questo caso, ma affermiamo comunque che la decisione di oggi ha un sapore storico”, insiste il presidente di Antigone Gonnella. “La tortura è un crimine orrendo, inaccettabile in un Paese democratico. La condanna, seppur in primo grado, mostra come la giustizia italiana sia rispettosa dei più indifesi. Si tratta di una sentenza che segnala come nessuno è superiore davanti alla legge. La legge vale per tutti, cittadini con o senza la divisa. È questo un principio delle democrazie contemporanee”. Il presidente di Antigone sottolinea poi che “fortunatamente ora esiste una legge che proibisce la tortura. In passato fatti del genere cadevano nell’oblio. È importante che tutti gli agenti di polizia penitenziaria si sentano protetti da una decisione del genere, che colpisce solo coloro che non rispettano la legge”. Antigone ha a lungo combattuto per avere questa legge, con l’ultima campagna ‘Chiamiamola tortura’. “Avevamo raccolto oltre 55mila firme a sostegno di questa richiesta. Ora possiamo dirlo - conclude Gonnella - la tortura in Italia esiste, purtroppo viene praticata, ma ora viene anche punita”. Tolmezzo (Ud). “Serve l’ok di Giletti per iscriversi all’associazione Yairaiha Onlus” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 gennaio 2021 Così ha risposto a un detenuto al 41bis la direzione del carcere di Tolmezzo. Per aderire alla Yairaiha Onlus è stato necessario presentare un’istanza del magistrato di sorveglianza. A un detenuto al 41 bis avevano bloccato la possibilità di pagare, tramite bollettino, la quota di iscrizione all’associazione Yairaiha Onlus. Proprio a lui che è iscritto fin dal 2017. Il motivo? Nell’istanza al magistrato di sorveglianza, il recluso al 41 bis scrive che la direzione del carcere di Tolmezzo “ha riferito che prima di consentire l’iscrizione (o meglio l’adesione per il 2020) è stata chiesta l’autorizzazione al Dap e a Massimo Giletti”. Sicuramente il rifermento al conduttore del programma televisivo “Non è l’Arena” è stato ironico, ma è significativo del fatto che un talk show sia diventato quasi un punto di riferimento istituzionale visto che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è dovuto ricorrere ai famosi decreti anti-scarcerazione per affievolire le indignazioni provocate dalla trasmissione de La7. Ancora più significativo che sia diventato un riferimento per fare ironia visto che si teme di finire sotto la gogna pubblica per il solo fatto di rispettare la costituzione italiana. L’istanza è stata accolta dal magistrato di sorveglianza - Infatti, come il recluso al 41 bis di Tolmezzo ha sottolineato nell’istanza, secondo l’articolo 18 della Costituzione “i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente”. Il magistrato di sorveglianza l’ha accolta e ha dato al detenuto il via libera all’iscrizione. Ma nel frattempo c’è stato un altro divieto nei confronti del detenuto al 41 bis di Tolmezzo. Questa volta da parte del magistrato di sorveglianza che ha disposto il trattenimento di una lettera in partenza e indirizzata sempre all’associazione Yairaiha. Il motivo? Conteneva una copia di un ricorso riguardante diversi periodi detentivi trascorsi dall’interessato presso le case circondariali di Cuneo, di Parma e di Tolmezzo, nel quale venivano descritte alcune caratteristiche degli istituti. Ovviamente il detenuto ha fatto subito reclamo al tribunale di sorveglianza, evidenziando due motivi: la mancata notifica del provvedimento di trattenimento della lettera, prassi che appare contraria laddove è riconosciuto il diritto di impugnare un provvedimento giurisdizionale; l’inesistenza dello scritto di elementi da cui ravvisarsi la commissione di reati né altro che possa comprendere l’esistenza di sicurezza dell’istituto penitenziario: la missiva infatti aveva un contenuto chiaro, nel quale non appariva ravvisabile alcun messaggio cifrato né qualche residua zona d’ombra. Ribadita l’inalienabilità dei diritti dei detenuti anche se in regime di 41bis - Per questo il tribunale di sorveglianza ha accolto il reclamo, sottolineando il fatto che l’invio di un atto processuale “non possa per definizione mettere in pericolo alcunché”. Non solo, i giudici hanno anche verificato che la missiva è indirizzata all’associazione Yairaiha Onlus “regolarmente costituita in data 29 marzo 2006 si sensi del decreto legislativo n.460/1997, dotata di un proprio sito internet, nel quale sono ben messi in luce i fini di solidarietà sociale nell’ambito della tutela e della difesa dei diritti umani”. Soddisfatta Sandra Berardi, presidente dell’associazione. “L’ordinanza emessa dal Tribunale di sorveglianza di Udine - racconta a Il Dubbio - va a rimarcare l’inalienabilità dei diritti dei detenuti anche se in regime di 41 bis. Il diritto alla libertà di corrispondenza, sancito dall’art. 15 della Costituzione, può essere sottoposto a riserve da parte delle autorità preposte che comunque devono essere comunicate immediatamente all’interessato e successivamente motivate”. Ma sempre Berardi osserva: “Nel corso degli anni, invece, più volte abbiamo riscontrato l’applicazione di una censura arbitraria in alcuni istituti, anche verso detenuti comuni, sia sulla nostra corrispondenza e sia su corrispondenza proveniente dall’ex europarlamentare Eleonora Forenza che, come regola, non dovrebbe essere sottoposta ad alcuna censura neanche in 41bis. E questo succedeva meno di due anni fa. Basti pensare che è stato necessario inviare una mail dall’ufficio parlamentare affinché le missive venissero accettate alla buca di ogni singolo istituto con l’elenco dei destinatari”. La presidente di Yairaiha, infine, conclude con una denuncia: “Molti detenuti, purtroppo, non hanno la perseveranza del detenuto che ha ottenuto questa sentenza e si arrendono al primo ostacolo. Riteniamo comunque inaccettabile che le istituzioni dello Stato violino costantemente la Costituzione e le sue stesse leggi, soprattutto quando si tratta di detenuti che, paradossalmente, pagano con la libertà per aver violato quelle stesse leggi”. Viterbo. In arrivo altri 120 posti nel carcere di Mammagialla di Simone Lupino Corriere di Viterbo, 16 gennaio 2021 A Mammagialla un nuovo padiglione detentivo da 120 posti. Il progetto è in fase avanzata, nonostante il rallentamento dovuto all’emergenza sanitaria nazionale: fissato al 30 settembre di quest’anno il termine per avviare le procedure di affidamento delle opere. Importo stimato dei lavori da parte del Ministero della Giustizia: 7 milioni e 697mila euro. Una risposta al problema del sovraffollamento carcerario. I tempi sono dettati nell’ultimo decreto Mille Proroghe, presentato in Parlamento l’ultimo dell’anno e ora in attesa di essere convertito in legge. Si tratta di un intervento previsto già da un paio di anni: “È necessario rilevare - spiega il provvedimento - che è stato adottato dall’amministrazione penitenziaria, nel marzo 2019, un piano finanziario per la progettazione e realizzazione di 25 nuovi padiglioni detentivi modulari a media sicurezza, da 120 posti cadauno, per complessivi 3.000 nuovi posti detentivi, da costruire in aree libere disponibili intra moenia presso complessi penitenziari già attivi. Sono stati già avviati procedimenti per 12 moduli relativamente agli istituti penitenziari di Santa Maria Capua Vetere (2 moduli), Perugia (2 moduli), Rovigo (2 moduli), Civitavecchia (1 modulo), Viterbo (1 modulo), Vigevano (1 modulo), Monza (1 modulo), Asti (1 modulo) e Napoli Secondigliano (1 modulo)”. Mammagialla oggi ha una capienza di 430 posti, ma secondo l’ultimo aggiornamento ospita 553 detenuti. Come detto, l’iter per la realizzazione del nuovo padiglione del carcere di Viterbo è tra quelli più avanti: “Allo stato risultano già ultimati i progetti preliminari di fattibilità per otto nuovi padiglioni da realizzare negli istituti penitenziari di Asti, Vigevano, Rovigo, Perugia, Viterbo, Civitavecchia, Santa Maria Capua Vetere e Napoli Secondigliano; per 5 di questi le progettazioni di livello definitivo è stata avviata la verifica progettuale da parte dei soggetti qualificati, esterni all’amministrazione appaltante, secondo quanto previsto dalla vigente normativa. Per gli altri 3 l’avvio della verifica avverrà a breve”. Non fosse stato per l’emergenza sanitaria, “che senza dubbio ha rallentato e rallenterà le successive attività”, probabilmente il cantiere sarebbe già aperto o quasi. Per questo il governo si trova costretto a prendere ancora tempo: “Tenuto conto dell’intervento straordinario per il potenziamento infrastrutturale degli istituti penitenziari del Ministero della Giustizia per cui vi è autorizzazione di spesa nello stesso articolo 26 del disegno di legge di bilancio, si rende necessario non interrompere l’attività amministrativa degli uffici tecnici dell’amministrazione penitenziaria in materia di edilizia carceraria prorogando di un anno il termine del 30 settembre 2020 (differito al 22 dicembre per effetto delle sospensioni disposte dalla disciplina emergenziale anti Covid- 19) entro il quale avviare le procedure di affidamento delle opere”. Genova. Il carcere come recupero, corsi per educare chi “educa” i carcerati di Dino Frambati genova3000.it, 16 gennaio 2021 Educare chi educa in carcere perché la pena sia, in effetti, possibilità di recupero. È questo lo scopo di un percorso online in 10 incontri aperto a tutta Italia, che costituisce un evento decisamente innovativo e un esempio che parte da Genova, dedicato alla formazione dei volontari attivi o aspiranti e alla cittadinanza. Dieci, informa una nota del Celivo, i temi affrontati attraverso l’esperienza diretta delle Associazioni di Volontariato e degli enti del terzo settore attivi sul territorio ligure. L’inizio è affidato a Ornella Favero, presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, relatrice nel primo modulo: “un giovane detenuto, dopo anni di carcere vissuti in istituti diversi con continui trasferimenti dovuti al fatto che non accettava la carcerazione passata ad “ammazzare il tempo”, arrivato a Padova, in un carcere dove per lo meno c’erano alcune attività “sensate”, aveva suddiviso la sua vita detentiva in due parti: la pena rabbiosa e la pena riflessiva. Io credo che sia una definizione perfetta: c’è un modo di scontare la pena che rovescia la situazione e fa sentire chi ha commesso un reato vittima di un sistema che, tra l’altro, non rispetta la Costituzione, e poi c’è un modo che ti fa riflettere, ti fa incontrare con chi ha subito un reato, ti fa confrontare con la società, ti fa rispondere alle domande severe di giovani studenti, coinvolti in importanti progetti di educazione alla legalità proprio con le carceri. È così che si comincia a cambiare, e che la pena comincia ad avere un po’ di senso”. Il programma tocca una grande quantità di argomenti e di “categorie” di persone: uomini e donne, giovani, stranieri, affetti da malattie e/o da dipendenze, senza dimenticare la famiglia, i sentimenti e le affezioni. I dieci incontri sono previsti on line ogni martedì dalle 17:30 alle 19:00. Inizio il 26 gennaio. Esecuzione pena in carcere o fuori, giustizia riparativa, comunità e pena, progetti in carcere, gli stranieri, le detenute, i giovani ma anche affetti, famiglie di chi è in carcere, sono i molti, variegati argomenti dell’iniziativa per la quale gli appuntamenti avverranno su piattaforma Zoom Pro, saranno registrati e resi disponibili. “Il volontariato in carcere svolge un’importante funzione di sostegno ai detenuti, affiancandoli sia nelle attività inframurarie, sia nei processi di collegamento col mondo esterno - afferma Diego Longinotti, coordinatore della Rete Tematica Carcere - Un ruolo complesso e delicato che necessita di adeguata preparazione e consapevolezza da parte delle persone che mettono a disposizione il proprio tempo. In questa fase di ulteriore complessità dettata dall’emergenza sanitaria, con gli ingressi in carcere ridotti al minimo dalle restrizioni anti-contagio, le associazioni hanno deciso di unire le forze e di investire in una formazione trasversale, con l’obiettivo di offrire un adeguato bagaglio di competenze a tutti i volontari attivi e agli aspiranti tali, a prescindere dal servizio che eserciteranno fra le mura”. “Carceri, un mondo a parte” di Bernardo Iovene rai.it, 16 gennaio 2021 Sarà questo il tema della puntata di “Report” in onda il 18 gennaio 2021, ore 21.20, su Rai 3. Cosa è successo dentro al carcere di Modena durante la rivolta di marzo? Secondo le testimonianze di detenuti e familiari che ricostruiscono quei momenti tragici, ci sarebbero stati pestaggi a freddo dopo la rivolta, e anche durante i trasferimenti, all’arrivo nei vari istituti, e nei giorni seguenti. Dai racconti intrecciati si disegna uno scenario inquietante, che deve riguardare tutti compreso le massime istituzioni, per capire se è vero; quali sono stati gli ordini, chi li ha dati e se il Ministero ne era al corrente. Nel carcere di Modena sono morti 5 detenuti, le autopsie dicono da intossicazione di farmaci e metadone. Altri 4 detenuti sono morti dopo essere stati trasferiti in altre carceri, sono stati visitati? Si potevano salvare? Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere attraverso le registrazioni delle telecamere di sorveglianza la procura ha individuato abusi che sarebbero stati commessi da 44 agenti penitenziari, altre centinaia di agenti non è stato possibile identificarli. Report è venuta a conoscenza che a operare a volto coperto è stato un nuovo reparto creato dopo le rivolte: sono i Gir, Gruppo di intervento rapido. Intanto il decreto Ristori ha posto molti paletti alla possibilità di detenzione temporanea ai domiciliari per chi ha un residuo di pena fino a 18 mesi e pochi detenuti ne hanno usufruito. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Natale è stato in visita a Regina Coeli, ma per il Garante nazionale dei detenuti e anche per alcuni magistrati di sorveglianza il decreto è timido e non affronta il problema principale del sovraffollamento. La violenza è figlia dell’ignoranza di Sarantis Thanopulos e Annarosa Buttarelli Il Manifesto, 16 gennaio 2021 Sarantis Thanopulos: “Cara Annarosa la nostra ultima conversazione si è chiusa con una tua preoccupazione: la violenza dell’ignoranza sta dilagando, anche grazie ai social. Socrate era convinto che se l’essere umano conoscesse se stesso, saprebbe distinguere tra giusto e ingiusto. Pensava alla conoscenza di sé come conoscenza del mondo e viceversa. L’ignoranza ci allontana dalla giustizia e ci fa diventare violenti. La sua fonte più diretta nei nostri tempi, è il dominio del sapere tecnico sulle “scienze umane” (mai come oggi trattate con sufficienza, discredito da parte dei governi), ma anche, cosa insospettabile per lo sguardo distratto, sulle “scienze naturali”. Cos’è infatti la tecnica al di fuori delle relazioni erotiche, affettive e intellettuali che stabiliamo tra di noi e con il mondo, se non uno strumento di auto-alienazione? A cosa servirebbe una casa costruita con un sapere iper-tecnologico e totalmente affidabile in tutte le sue funzioni, se non sapessimo perché, come e con chi la abitiamo? Quale di questi due tipi di sapere dovrebbe avere l’egemonia e quale effettivamente la detiene? Il dominio della tecnologia va di pari passo con la diseguaglianza esponenziale degli scambi e con la disgregazione dei legami umani. Ciò è fin troppo evidente, ma, al tempo stesso si riduce, per una parte di noi, a un dato astratto. Questa parte guarda da troppa distanza la realtà, perché la possa veramente amare. Vivendo nell’anestesia del distacco dalla vita e dalla sua conoscenza, rischiamo di trattare la consapevolezza di questo distacco come tensione di cui liberarci. Il distacco esercita una pressione molto violenta sul nostro mondo interno e l’estroflessione della pressione crea un sollievo ingannevole e fatale. I social quando trasformano gli spazi comuni in lande sterminate abitate da individui desolati sono violenti per chi li usa e, al tempo stesso, si offrono come strumento rapido per scaricare la violenza sugli altri”. Annarosa Buttarelli: “Caro Sarantis sono d’accordo soprattutto con la prima parte della tua riflessione. Vorrei aggiungere che oggi siamo ben oltre la tecnocrazia, superata di gran lunga dal dominio della sorveglianza capillare sulle nostre vite ad opera di giganti digitali come Google, Facebook, Twitter ecc. Sono strumenti di controllo e di consolidamento dell’ignoranza violenta dilagante. Lo mostra Shoshana Zuboff nel Capitalismo della sorveglianza, oramai un classico. Nelle recenti vicende generate dal cosiddetto trumpismo, abbiamo potuto ancora una volta sperimentare il ruolo centrale dei social nel sospingere ancora più giù il degrado dell’umano.In tutto questo, precisamente nello stabilirsi dell’egemonia dell’ignoranza violenta, mi pare quasi un obbligo etico chiamare in causa il ruolo svolto dai cosiddetti intellettuali contemporanei (soprattutto maschi, mi risulta), molto lontano dall’aver assunto le indicazioni magistrali di Gramsci circa la necessità di “sentire” empaticamente, non solo gli umori, ma le grida del “popolo”, di cui non sanno ancora nulla. La rivolta populista contro le élite ha preso di mira soprattutto le élite della cultura accademica e della genealogia patriarcale. Stiamo soffrendo perché si sta distruggendo l’onore della cultura, ma è paradossale che gli intellettuali co-responsabili di questa distruzione si autonominano paladini dell’umanesimo. All’università proponevo spesso la lettura di un articolo di Luce Irigaray di anni fa in cui disegnava l’intellettuale come lei credeva sarebbe dovuto essere per evitare la ripugnanza del “popolo” verso la cultura. Disegnava la figura di “artigiani dei processi” con cui si può concepire un’idea e anche la sua realizzazione, acquisendo la materialità dei passaggi, comprese le fotocopie da fare, le sedie da disporre in una sala, le parole da usare per farsi capire e per capire. Addio alla “dotta ignoranza” (fare e pensare l’esperienza)?”. Scuole e università chiuse, non si calcola il danno per gli studenti di Nuccio Ordine Corriere della Sera, 16 gennaio 2021 Non c’è stata una seria discussione sulle vere conseguenze disastrose che questo isolamento avrà sulle vite di milioni di alunni e inevitabilmente sul futuro del Paese. Mai come nel corso del 2020 scuole e università, a causa della pandemia, sono state al centro del dibattito nazionale. Eppure, ancora una volta, l’attenzione è stata catturata soprattutto da temi perfettamente in linea con la “ragione calculatoria” ed economicistica che ormai da anni governa ogni aspetto della vita sociale e culturale. Basta rileggere giornali e riascoltare radio e tv per cogliere in filigrana le stesse preoccupazioni: dalle elementari all’università le esigenze e i diritti degli studenti sono passati in second’ordine rispetto agli imperativi dei genitori (come possono lavorare in casa con i figli che occupano spazi e postazioni Internet?) o agli interessi commerciali fioriti intorno a istituti secondari e atenei (come ripopolare, per esempio, quelle città che vivono soprattutto della presenza studentesca?). Ma non c’è stata una seria discussione sulle vere conseguenze disastrose che la chiusura di scuole e università avrà sulle vite di milioni di studenti e, inevitabilmente, sul futuro del Paese. Come recuperare le ore perdute di lezioni in presenza e come ricostruire la rete di rapporti umani con compagni e professori dopo quasi un anno di “isolamento”? Come immaginare un ritorno alla “normalità” dopo una lunga assenza che ha aumentato la dipendenza da computer e dispositivi? E favorire un riequilibrio in cui il virtuale venga ridimensionato rispetto alla vita reale? Scuole e università hanno una funzione essenziale nella formazione: senza l’esperienza comunitaria viene meno una delle componenti fondamentali della crescita umana e culturale. Riportare, in sicurezza, gli studenti negli istituti e negli atenei è una priorità come quella di tenere aperti gli ospedali. Anche noi professori, come i medici, abbiamo una missione da assolvere. Il diritto alla vita e il diritto alla conoscenza sono due pilastri della dignità umana. Droghe. “La cocaina non è doping”: storica svolta nello sport di Marco Bonarrigo Corriere della Sera, 16 gennaio 2021 Oggi Maradona non sarebbe punito. Dal 1° gennaio lo “sballo” è consentito fino a 20 ore prima della competizione e dopo il controllo medico successivo. Un atleta positivo a cocaina, eroina, cannabis e ecstasy potrà subire una mini squalifica di 30 giorni. La tesi è che l’uso è spesso svincolato dalla volontà di alterare le prestazioni. Ma non mancano le polemiche. Se non proprio liberalizzato, dal 1° gennaio scorso lo “sballo” nello sport agonistico è consentito entro un preciso confine temporale: le 23 e 59 del giorno precedente a “quello in cui l’atleta partecipa alla competizione” e poi da subito dopo “il controllo medico successivo alla competizione” fino alla gara successiva. Se assume stupefacenti prima o dopo quella fascia temporale (20 ore al massimo), un atleta trovato positivo a una delle quattro sostanze d’abuso (cocaina, eroina, cannabis ed ecstasy) e ai loro derivati se la cava con una squalifica simbolica che va dal minimo di uno a un massimo di tre mesi contro i 2/4 anni del passato. Lo stabilisce la Wada, l’agenzia mondiale antidoping, che ha appena modificato il suo Codice rendendo lievissime le pene per chi viene trovato positivo alle “sostanze comunemente definite di abuso al di fuori del contesto sportivo” e dando luogo a una serie di richieste di revisione del processo con riduzione della pena da parte di chi sta scontando una squalifica. In sintesi, se l’atleta dimostra di averle consumato coca o cannabis fuori competizione e senza l’intento di migliorare le proprie performance se la cava con tre mesi di stop ridotti a trenta giorni qualora decida di partecipare a un programma di rieducazione approvato dalla Wada stessa. Rispetto a un passato fatto di pubblica gogna e sanzioni pesanti, un salto mortale all’indietro. Diego Maradona pagò con 18 mesi di squalifica la positività alla coca dopo il match Napoli-Bari del 1991, il suo connazionale Claudio Caniggia rimediò 13 mesi dopo un Roma-Napoli del 1993. Nel 1999 Javier Sotomayor, leggenda cubana del salto in alto e tuttora primatista del mondo, fu stoppato per un anno. In Italia, tra centinaia di squalifiche in venti sport diversi, la pena massima prevista dal vecchio Codice (due anni) è stata applicata in numerose occasioni come nel caso di Mark Juliano - trovato positivo nel 2008 quando militava nel Ravenna - a cui non venne concesso nessuno sconto di pena o del ciclista Luca Paolini che fu espulso dal Tour de France 2015 e scontò 18 mesi chiudendo la sua carriera. Caso limite quello del velocista-ciclista Mattia Gavazzi, positivo per quattro volte in carriera a partire dalla categoria juniores: per lui inevitabili i quattro anni di sospensione previsti per le recidive gravi. In genere, chi aveva buoni avvocati e federazioni più permissive (tennis e sport motoristici in prima linea) se la cavava con poco. Adesso, per vedersi accordato lo sconto di pena, l’atleta dovrà solo dimostrare di non aver preso la sostanza subito prima del match o della gara. La Wada indica alcune linee guida per determinare l’orario di assunzione (il superamento dei 1000 ng/Ml di metaboliti della coca, e di 180 per la cannabis è indice di assunzione qualche ora prima del controllo) ma precisa che ogni caso andrà discusso individualmente valutando bene gli elementi della difesa. La decisione ha scatenato polemiche furibonde tra chi la vede come un via libera a sostanze molto pericolose come ecstasy ed eroina e all’uso indiscriminato della cocaina che può effettivamente alterare le prestazioni sportive. Senza contare l’ambiguità del messaggio etico. Il portavoce della Wada James Fitzgerald se l’è cavata così: “Durante l’ampio processo di revisione per la versione 2021 del Codice mondiale antidoping abbiamo ricevuto un considerevole numero di feedback. Si è ritenuto che l’uso di questi farmaci sia spesso estraneo alle prestazioni sportive e avvenga in contesti sociali particolari. Si è ritenuto anche che nei casi in cui un atleta ha un problema di droga e non sta cercando o beneficiando di un miglioramento delle prestazioni, la priorità dovrebbe essere sulla sua salute piuttosto che su una lunga sanzione sportiva. Le notevoli risorse per discutere in udienze sulla durata appropriata della sanzione nei casi di abuso di sostanze potrebbero essere spese meglio per indagini antidoping che influiscono davvero sulla parità di condizioni dello sport”. Nelle 4.180 positività rilevate dalla Wada nel 2019 i cannabinoidi sono stati trovati 130 volte, la cocaina 77, i composti a base di ecstasy quattro volte. Nessun caso di positività all’eroina, anche se preoccupano le 30 a sostanze narcotiche come metadone e morfina. Restando in Italia, dei 119 “esiti avversi” del 2019 ben 28 sono riferibili direttamente o indirettamente a sostanze d’abuso. Colombia. Inchiesta a una svolta sulla morte di Mario Paciolla di Dario del Porto La Repubblica, 16 gennaio 2021 I genitori: “Verità a un passo, non si è suicidato”. Sei mesi dopo la morte del collaboratore dell’Onu in Colombia, la procura sta per chiudere l’indagine per omicidio. La famiglia: “Ci aspettiamo sia accertato che non si è tolto la vita, in questi mesi non ci siamo mai sentiti soli”. Sono passati sei mesi dalla morte di Mario Paciolla. E l’inchiesta della procura di Roma è a un bivio: i medici legali hanno consegnato nelle scorse settimane l’esito dell’autopsia che, seppur senza dare ancora una risposta definitiva, mette insieme una serie di elementi che accreditano la tesi dell’omicidio. L’ultima parola arriverà nelle prossime settimane, quando sul tavolo dei pm, coordinati dal procuratore aggiunto Lucia Lotti, e dei carabinieri del Ros che stanno seguendo le indagini, arriveranno gli ultimi esami di laboratorio e ulteriori riscontri. In modo da poter tirare una linea definitiva su quanto accaduto a Mario. Il ragazzo, 33 anni, collaboratore della missione Onu in Colombia, è stato trovato morto nella sua casa di San Vicente del Caguan, lo scorso 15 luglio. Aveva detto ai genitori di avere paura e di voler tornare al più presto in Italia: il giorno prima di morire aveva acquistato un biglietto di ritorno. Sono stati i collaboratori dell’Onu che avrebbero dovuto accompagnarlo in aeroporto a trovarlo morto, impiccato con un lenzuolo. Bollando così la vicenda come un suicidio. In realtà, come apparso chiaro anche alle autorità colombiane che stanno offrendo la massima collaborazione, ci sono diversi elementi che non tornano: il sangue presente in casa, le modalità dell’impiccagione, l’inquinamento della scena del delitto per mano dell’addetto alla sicurezza dell’Onu, che provvederà poi a buttare alcuni oggetti cruciali per ricostruire la verità. “Noi ci aspettiamo la verità, siamo sicuri che Mario non si è suicidato - dicono i genitori di Mario, Giuseppe e Anna, assistiti dagli avvocati Alessandra Ballerini e Emanuela Motta. “In questi sei mesi - spiegano a Repubblica - non ci siamo sentiti mai soli, abbiamo avuto la vicinanza e il contributo di solidarietà da moltissime persone venute da ogni parte del mondo per parlarci di Mario, della sua testimonianza di uomo onesto e leale, della sua arguzia e intelligenza, del suo essere minuzioso e scrupoloso nel suo lavoro, del suo essere avanti”. “Il suo sogno - continuano - era girare il mondo, conoscere e capire la gente che incontrava raccogliendo materiale per poter poi scrivere e raccontare ciò che lui aveva visto e vissuto. E quello stava facendo”. “Mario ci ha sempre parlato della sua passione per lo scrivere. Era un ragazzo di altri tempi, non era tecnologico, con la mania di scrivere a mano tutto. Abbiamo trovato numerosi articoli, alcuni taccuini dove descrive le sue esperienze vissute viaggiando. Era minuzioso Mario, descriveva i volti, gli occhi, i sorrisi delle persone che incontrava”. Stati Uniti. L’era Trump finisce con la tredicesima esecuzione federale da luglio La Stampa, 16 gennaio 2021 Dustin Higgs, afroamericano quarantottenne, ha ricevuto un’iniezione letale nel carcere di Terre Haute in Indiana. Dustin Higgs, un afroamericano quarantottenne condannato a morte per l’uccisione di tre donne, ha ricevuto un’iniezione letale nel carcere di Terre Haute, in Indiana. Si tratta della tredicesima esecuzione in sei mesi, ovvero da quando lo scorso luglio il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha ripreso le esecuzioni federali dopo 17 anni di moratoria. Un tribunale aveva chiesto di rimandare l’esecuzione sostenendo che Higgs, affetto da Covid-19, avrebbe sofferto molto a causa delle condizioni dei suoi polmoni. La Corte Suprema aveva però accolto il successivo ricorso del Dipartimento di Giustizia, dando il via libera all’iniezione letale. Nel gennaio 1996 Higgs aveva invitato tre giovani donne nel suo appartamento di Washington. Dopo che una di loro aveva rifiutato le sue avance sessuali, Higgs si era offerto di accompagnarle a casa insieme a un suo amico. Le tre donne furono invece portate in un posto isolato dove furono uccise a colpi di pistola dall’amico, su ordine di Higgs, che nel 2000 fu condannato a morte per sequestro e omicidio. L’uomo che sparò alle tre giovani fu invece condannato all’ergastolo. L’avvocato di Higgs aveva invano chiesto clemenza a Trump lo scorso dicembre affermando che fosse “arbitrario e ingiusto” che al suo assistito fosse stata inflitta una pena superiore a quella stabilita per l’esecutore materiale degli omicidi. Tra le 13 persone che, dallo scorso luglio, hanno ricevuto l’iniezione letale nel carcere di Terre Haute c’è anche la prima donna in quasi 70 anni a essere giustiziata: Lisa Montgomery. La morte di Higgs arriva a pochi giorni dal giuramento del presidente eletto, Joe Biden, che ha promesso di lavorare con il Congresso per abolire la pena di morte a livello federale. I parlamentari democratici hanno preparato un disegno di legge in materia che ha possibilità di essere approvato, ora che il partito dell’Asinello ha conquistato la maggioranza anche al Senato. Gran Brestagna. Se la musica che ascolti è la prova che ti condanna di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 16 gennaio 2021 I testi che incitano alla violenza di strada utilizzati nei processi penali contro i giovani neri dei ghetti. Allarme dei giuristi: “È una deriva”. Può il testo di una canzone diventare una prova o comunque un elemento di testimonianza rilevante in un processo per atti violenti, tale da condannare un imputato? Una domanda inquietante sulla quale si stanno interrogando avvocati, giudici e media nel Regno Unito. Sempre più spesso infatti i testi della musica trap, o meglio del suo sottogenere drill (mitraglia, arma automatica), sono indicati come veicoli di violenza ed elementi probatori per i processi penali. Pistole, denaro e scontri tra gang sono gli ingredienti base di questo genere discografico, una ricetta non nuova ma che intorno al 2010, a partire dai sobborghi di Chicago, ha cominciato a discostarsi dal rap in cui l’immagine patinata della trap ha sostituito i contenuti della “gangsta culture”. Sono emersi suoni più lenti, ipnotici, caratterizzati dall’autotune (effetto che modifica la voce). I giovani dei ghetti e non solo hanno così trovato un nuovo modo per esprimere rabbia ed emarginazione, con tratti che alcuni critici musicali non hanno esitato a definire “sociopatici”. La Drill music ha varcato velocemente l’oceano ed è attualmente la colonna sonora delle bande, quasi esclusivamente composte da ragazzi neri, che popolano le grandi città britanniche. La polizia si è interessata al fenomeno e non di rado prende in esame le parole dei brani che incitano allo scontro, fornendo materiali all’accusa per i processi (dal 2005 almeno 70 dibattimenti). Ora però molti avvocati difensori e accademici forensi denunciano questa deriva contestando questa pratica “che impedisce agli imputati di ottenere un processo equo”. Uno degli esempi più noti in Inghilterra è quello che si riferisce allo scontro avvenuto a Londra il 2 febbraio 2019. In una fredda sera che la Corte dell’Old Bailey ha paragonato ad un film di Hollywood, si sono affrontate due gang rivali, i Northumberland Park Killers contro i Wood Green Mob. Quest’ultimi ebbero la peggio, Kamali Gabbidon- Lynck, un ragazzo di 19 anni, infatti venne accoltellato a morte, otto colpi inferti dentro un affollato negozio di parrucchiere. Per l’omicidio vennero accusate e processate 5 persone, 3 di loro avevano solo 16 anni. Gli imputati erano tutti presenti sulla scena del delitto. Ma non tutti presero parte all’accoltellamento vero e proprio. L’accusa doveva invece provare che erano congiuntamente colpevoli di omicidio. Ed è proprio in questo caso che la Drill music ha contribuito a fornire un movente capace di legare tutti i protagonisti secondo la tesi pm poi accolta dal giudicie. La faida andava avanti da molto tempo, in molti erano caduti mortalmente. L’odio è stato espresso quindi anche attraverso alcuni video su youtube nei quali i membri delle gang cantavano rime che incitavano ad attaccare l’avversario e facevano riferimento a quella che poi è stata la vittima. L’accusa affermò che c’erano solo due possibili spiegazioni per i testi espressi: “O descrivono la vita che già si conduce o descrivono la vita che si aspira a condurre”. I testi dunque furono presentati come prova che gli imputati avevano abbracciato una cultura della violenza. La giuria convenne che quanto accaduto quella notte fosse una “sortita organizzata in territorio nemico”. Tutti gli imputati sono stati giudicati colpevoli di omicidio. Molti esperti hanno immediatamente sollevato dubbi. La trap dovrebbe essere infatti considerata una forma d’arte o comunque d’espressione anche se scioccante. Un’opinione espressa da Eithne Quinn, accademica dell’Università di Manchester, preoccupata per l’uso della musica come prova nri processi contro i giovani sospettati di appartenere a qualche gang. Nella sua lunga esperienza ventennale come esperto difensore, ha rivelato che alle giurie vengono mostrati video con giovani uomini con passamontagna e maschere, che “rappano” di accoltellamenti e spaccio di droga. Per i pubblici ministeri quelle esibizioni equivalgono ad una confessione. Un’interpretazione abusiva criticata anche da Abenaa Owusu-Bempah, esperta di prove penali presso la London School of Economics. L’accademica si dice “seriamente preoccupata per quello che sta succedendo nelle aule di tribunale in Gran Bretagna” perché l’accusa attinge a “immagini stereotipate di giovani uomini e ragazzi di colore dipinti come criminali amplificando gli stereotipi preesistenti”. L’elemento razziale dunque farebbe parte dello svolgimento dei processi, Owusu- Bempah infatti ha preso in esame trenta casi nei quali i condannati sono ricorsi in appello, di questi solo uno ha avuto successo. Ad essere preso di mira allora sarebbe la cultura stessa di alcune fasce di popolazione che esprimono attraverso la musica il racconto della vita di tutti i giorni, la durezza della vita nelle periferie metropolitane, le disuguaglianze sociali senza che questo significhi necessariamente l’uso sistematico della violenza. E tantomeno una prova che sbatterti in cella.