Sale il contagio anche nelle carceri: “Vaccinate subito” di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 gennaio 2021 I detenuti positivi sono 624, mentre tra i lavoratori dei penitenziari se ne contano 708. Il primo cittadino di Bergamo scrive ad Arcuri. C’è un universo, quello penitenziario, dove la paura del contagio si soffre all’ennesima potenza, perché nelle carceri italiani non c’è possibilità di igiene, né di distanziamento. Allo stesso tempo, il virus sembra l’unica via di fuga da un lockdown che può portare dritto alla follia. Da quando la curva dei positivi Covid è tornata a crescere, infatti, le carceri (che non erano mai state riaperte completamente neppure durante l’estate scorsa) sono state progressivamente richiuse: niente visite, nessun volontario, niente scuola. Neppure in Dad, perché sono pochissimi gli istituti attrezzati a sufficienza (nel Lazio, il consiglio regionale ha approvato l’emendamento alla legge di stabilità proposto da Alessandro Capriccioli di +Europa che stanzia 600mila euro per la digitalizzazione e il potenziamento delle dotazioni telematiche nelle carceri). Ecco perché in qualche istituto, come nel romano Nuovo complesso di Rebibbia, dove si è sviluppato un focolaio di 31 positivi, ieri mattina e il giorno precedente alcuni detenuti hanno inscenato per qualche ora una protesta, subito rientrata. Stando ai dati del ministero di Giustizia, i detenuti positivi al Covid-19 in tutto il territorio nazionale sono attualmente 624 di cui 26 ricoverati in ospedale. Tra il personale di polizia penitenziaria ci sono 647 positivi, di cui 14 ricoverati, 61 invece i nuovi casi tra il personale amministrativo. Nuovi focolai si sono sviluppati anche nel carcere di Palermo, con 31 malati. E negli istituti della Campania “sono in aumento tra i detenuti i contagi a Secondigliano, con 65 unità e 3 ricoverati, una contagiata a Pozzuoli e 3 contagiati a Salerno. A livello regionale invece, vi sono oggi (ieri, ndr) 58 contagiati tra agenti di polizia e operatori penitenziari”, secondo la denuncia del garante regionale Samuele Ciambriello che chiede di procedere “periodicamente, almeno ogni 20 giorni, ad uno screening per la popolazione detenuta, per operatori sanitari e penitenziari”. Dal Lazio, dove si contano un centinaio di contagiati tra i reclusi, il garante regionale Stefano Anastasia rinnova “l’appello alla riduzione del numero dei detenuti e alla tempestiva vaccinazione di detenuti e operatori. Nonostante le autorevoli indicazioni del procuratore generale Salvi, in carcere sono ancora numerose le persone in attesa di giudizio, anche per reati non violenti, di cui sarebbe auspicabile la immediata scarcerazione”. Con lo stesso obiettivo, la radicale Rita Bernardini, aveva ripreso lo sciopero della fame dopo una breve interruzione quando era stata ricevuta dal premier Conte. Ieri però ha comunicato di aver interrotto di nuovo la sua azione nonviolenta “per mancanza di interlocutori politici”, causa crisi governativa. Insiste anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori che, insieme alla direttrice del carcere cittadino Teresa Mazzotta e alla Garante dei detenuti Valentina Lanfranchi, ha scritto una lettera al commissario Domenico Arcuri perché disponga di “vaccinare con urgenza detenuti e personale penitenziari”. La campagna vaccinale non dimentichi i detenuti di Giorgio Gori*, Valentina Lanfranchi** e Teresa Mazzotta*** Il Domani, 15 gennaio 2021 Egregio commissario straordinario dottor Domenico Arcuri, ci preme scriverle, confidando nella sua attenzione, per sottoporle il problema della vaccinazione delle persone private della libertà personale e degli operatori penitenziari del nostro paese. Le carceri italiane risentono storicamente di grandi e ben noti problemi di sovraffollamento: il rischio di esplosione pandemica, in questa fase in cui il numero di positivi al Covid-19 è purtroppo in ripresa nonostante i controlli e le attenzioni del personale sanitario e penitenziario, è quindi più che mai concreto. A oggi, i detenuti in eccesso nelle nostre carceri sono poco meno di 4.000, e, secondo i dati del monitoraggio settimanale del ministero della Giustizia, a metà dicembre i detenuti positivi al Covid-19 erano 1.030, in aumento rispetto ai 958 rilevati al 7 dicembre. Di questi detenuti positivi, 951 risultano asintomatici, 44 sono ricoverati all’interno delle strutture carcerarie e 35 sono ricoverati in strutture sanitarie esterne. Gli agenti della polizia penitenziaria positivi al coronavirus, sempre al 14 dicembre, erano poi 754; 714 risultavano in degenza a casa, 22 in caserma e 18 erano i ricoverati all’esterno. Infine sono stati rilevati 70 positivi tra il personale amministrativo e dirigenziale dell’amministrazione penitenziaria, di cui 69 si stanno curando a casa e uno è ricoverato. Tra i detenuti, quindi, la percentuale di positivi è pari all’1,9 per cento, tra gli agenti al 2 per cento. Sono numeri preoccupanti, soprattutto considerando la persistenza della seconda ondata Covid-19, anche per la stessa natura degli ambienti di detenzione. Lungi da noi contestare, con questo, la scelta di vaccinare prioritariamente il personale medico e sanitario del nostro paese. Crediamo, però, che con urgenza sia necessario intervenire anche sul sistema carcerario, non solo per preservare la salute delle persone detenute e del personale penitenziario, ma anche per allontanare il rischio che possano insorgere eventuali disordini, che già si sono verificati in molte carceri del nostro paese quando isolamento e quarantena si sono sommate alle limitazioni alla libertà dovute alla detenzione. Confidiamo in un positivo accoglimento della nostra, sentita, istanza. Cogliamo l’occasione per porgerle i nostri più cordiali saluti e rimaniamo in attesa di un Suo cortese riscontro. *Sindaco di Bergamo **Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale ****Direttore della Casa circondariale di Bergamo Vaccini solo al personale del carcere e non ai detenuti, mentre il contagio riparte di Federica Olivo huffingtonpost.it, 15 gennaio 2021 Il Dap ha inviato una Circolare per raccogliere le adesioni di agenti e operatori. Bernardini: “Reclusi trattati come topi in trappola”. Appelli da Gori e Nardella. I numeri non sono più quelli della fase acuta della seconda ondata, ma il contagio nelle carceri continua a fare paura. Soprattutto in alcuni istituti, dove i casi di Covid continuano ad aumentare. E mentre si moltiplicano gli appelli affinché a tutti coloro che gravitano nelle carceri - i detenuti e gli operatori - sia fatto il vaccino il prima possibile, il Dap si muove. Ma solo per il personale penitenziario. È datata ieri, 13 gennaio, la circolare del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con la quale, in sostanza, si raccolgono le adesioni degli operatori che vorranno vaccinarsi. Una data di inizio della somministrazione delle dosi non c’è, ma nel documento si chiede di inviare i moduli entro il 28 gennaio. Da settimane più voci si stanno spendendo perché al mondo carcerario venga data una priorità nelle vaccinazioni. Una scelta che contribuirebbe ad arginare il contagio, dal momento che - come abbiamo visto in tutti questi mesi - nei penitenziari, sovraffollati anche se molto meno del periodo pre-Covid, il distanziamento è molto più complicato che altrove. Si chiedeva, però, di somministrare la dose sia a chi in carcere ci vive che a chi ci lavora. È di pochi giorni fa, ad esempio, una nota della Uilpa, sindacato degli agenti penitenziari guidato da Gennarino De Fazio, in cui si chiede di pensare “alla messa in campo di una campagna vaccinale, che riguardi operatori e detenuti, con adeguati criteri di priorità contemperati con le esigenze complessive del Paese, ma che tengano conto della promiscuità delle nostre carceri, fatte anche di sovraffollamento, carenze strutturali e deficienze organizzative”. Focolaio a Palermo, proteste a Rebibbia. Appello accolto, ma solo in parte. I detenuti, almeno per il momento, restano fuori dal piano, mentre in cella in contagio continua ad entrare. Al 12 gennaio risultavano positivi 624 detenuti e 647 agenti. Ma i numeri rischiano di farsi più pesanti. Trentuno detenuti, infatti, sono risultati positivi al Covid19 al carcere Lorusso di Pagliarelli a Palermo. Lo ha reso noto la direttrice, Francesca Vazzana. La scoperta è stata fatta ieri dopo che uno dei reclusi ha accusato sintomi febbrili. Il tampone ha confermato il sospetto. Pare che il focolaio sia partito tra i detenuti comuni che hanno continuato ad avere i colloqui con le famiglie. Sono in corso tamponi anche sul personale. A Rebibbia, invece, nel Nuovo Complesso i detenuti in tutto sono 38. Nel pomeriggio di ieri, dopo la diffusione di una circolare sul Covid, nel carcere romano si è sviluppata una protesta, rientrata dopo qualche ora. “Invito tutti coloro che ancora continuano a dichiarare che in carcere il Covid non arriva a farsi un giro per gli istituti e verificare le difficoltà che si stanno vivendo. Altri mesi così sono difficili da gestire. È necessario intanto prevedere la somministrazione immediata dei vaccini alle persone detenute e agli operatori penitenziari”, ha scritto su Facebook la Garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni. Rita Bernardini: “Il Dap tratta i detenuti come i topi in trappola”. Sulla questione è intervenuta Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino ed esponente dei Radicali. “Come topi in trappola - dice all’Adnkronos - così il Dap tratta le persone detenute nelle carceri italiane. La circolare emanata dal dipartimento, che ha riservato al solo personale dell’Amministrazione Penitenziaria la possibilità di vaccinarsi, non vuole tener in alcun conto quanto suggerito dal Garante nazionale, dai garanti locali e da quanti conoscono la realtà penitenziaria, a differenza dei vertici dell’Amministrazione che, avendo fatto i Pm a lungo, in carcere non ci hanno mai messo piede. Sia consentito, dunque a tutti i detenuti di potersi vaccinare”. Da Gori a Nardella, aumentano gli appelli per i vaccini nelle carceri. A inizio anno è stato pubblicato su Repubblica l’appello di Liliana Segre e di Mauro Palma per l’inserimento dei detenuti tra i soggetti a cui spetta la priorità nel piano vaccinale. Alle due voci se ne sono aggiunte altre con il passare dei giorni. Da ultimo sono arrivare le dichiarazioni dei sindaci di Bergamo e di Firenze. “Le carceri italiane - scrive Giorgio Gori insieme con la direttrice del carcere di Bergamo Teresa Mazzotta e la Garante dei diritti dei detenuti della città lombarda Valentina Lanfranchi - risentono storicamente di grandi e ben noti problemi di sovraffollamento: il rischio di esplosione pandemica, in questa fase in cui il numero di positivi al Covid 19 è purtroppo in ripresa nonostante i controlli e le attenzioni del personale sanitario e penitenziario, è quindi più che mai concreto”. Un appello in questo senso giunge anche dalla Regione Toscana e dal sindaco di Firenze. “Dobbiamo impedire il più possibile che il virus vi entri portato da chi arriva da fuori”, è il messaggio che arriva da Dario Nardella e Antonio Mazzeo. Coronavirus, le carceri sono ormai lazzaretti: “Vaccinate detenuti e operatori” affaritaliani.it, 15 gennaio 2021 Ventitré positivi al coronavirus nel carcere di Rebibbia, e il garante chiede anche scarcerazioni. I penitenziari romani continuano a generare focolai: 23 i positivi a Rebibbia. E il garante dei detenuti chiede scarcerazioni e vaccini veloci per chi stia scontando la pena e per quanti lavorano all’interno. “Ha ragione il ministro Speranza: non bisogna abbassare la guardia contro il Covid. La sua diffusione è ancora intensa, in modo particolare negli ambienti e tra le persone con maggiore vulnerabilità, come nelle Rsa e nelle carceri. A Roma, dopo quello di Regina Coeli, che va finalmente chiudendosi, è attivo dall’inizio dell’anno un focolaio a Rebibbia Nuovo complesso. Questa mattina erano 23 i detenuti positivi al virus, ma lo screening è ancora in corso e potrebbero aumentare”. A dirlo è il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, commentando i dati sulla diffusione del coronavirus nelle carceri, forniti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) del ministero della Giustizia. Secondo i dati del Dap aggiornati alle 20 dell’11 gennaio scorso, sono 624 i detenuti negli istituti penitenziari d’Italia positivi al Coronavirus, 587 dei quali asintomatici, 26 i ricoverati. Gli agenti della polizia penitenziaria contagiati sono 647, 64 dei quali sintomatici. Sessantuno i positivi fra il personale amministrativo e dirigenziale penitenziario. Secondo lo stesso report, i detenuti contagiati nelle carceri del Lazio sono 97. “Gli operatori sanitari e gli operatori penitenziari - prosegue Anastasia - stanno affrontando queste sfide con grande senso di responsabilità e spirito di sacrificio, ma questa situazione e il continuo rischio dell’accendersi di nuovi focolai, anche con il coinvolgimento degli stessi operatori è difficile da sostenere. Per questo, rinnovo l’appello alla riduzione del numero dei detenuti e alla tempestiva vaccinazione di detenuti e operatori. Nonostante le autorevoli indicazioni del procuratore generale Salvi, in carcere sono ancora numerose le persone in attesa di giudizio, anche per reati non violenti, di cui sarebbe auspicabile la immediata scarcerazione”. “Ci aspettiamo che governo e parlamento rinnovino i permessi e le licenze straordinarie a semiliberi, lavoranti e permessanti fino al nuovo termine della emergenza Covid, che il ministro ha anticipato sarà portato al 30 aprile. Infine, - conclude Anastasìa - aspettiamo risposte dal ministro, dal commissario Arcuri e dalle regioni sulla necessaria anticipazione della campagna vaccinale nelle carceri, a partire dagli anziani e dai portatori di patologie a rischio”. Covid, tensione per i nuovi focolai al Pagliarelli di Palermo e Rebibbia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 gennaio 2021 I dati della diffusione del Covid 19 in carcere, sono da aggiornare. Scoppiano nuovi focolai negli istituti penitenziari. L’ultimo in ordine cronologico si è registrato ieri al carcere siciliano del Pagliarelli con 31 casi di detenuti postivi. Lo ha reso noto la direttrice del penitenziario, Francesca Vazzana. La scoperta è stata fatta mercoledì dopo che uno dei carcerati ha accusato sintomi febbrili. Il tampone ha confermato il sospetto. Pare che il focolaio sia partito tra i detenuti comuni che hanno continuato ad avere i colloqui con le famiglie. Nonostante le raccomandazioni e gli inviti a mantenere le distanze, qualcuno si sarebbe avvicinato alla moglie e ai figli, da qui il passaggio del virus che ha contagiato diversi reclusi. Sono in corso tamponi anche sul personale. C’è tensione al carcere di Rebibbia nuovo complesso con altri quattro nuovi casi, passando quindi a 39 detenuti positivi. Tensione che si è affievolita grazie all’intervento della garante locale Gabriella Stramaccioni che è andata a far nuovamente visita. Non solo. Oggi, assieme a lei, ci sarà anche il garante regionale Stefano Anastasìa per fare pressione alla Asl locale affinché intervenga con più incisività. “I positivi sono attualmente alloggiati in un reparto che era stato dismesso e che necessitava di importanti interventi di rifacimento - denuncia la garante locale di Roma -, quindi per assurdo le persone che hanno bisogno di maggiori cure e monitoraggio sono alloggiate negli spazi peggiori”. Per questo chiede un intervento immediato delle istituzioni preposte per fronteggiare questa situazione difficile, a partire dal rafforzamento del comparto sanitario con la presenza h24 di personale qualificato nei reparti dove sono allocate le persone positive. Una situazione difficile al livello generale sottolineata dall’azione di Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale, che a causa della crisi di governo ha sospeso lo sciopero della fame per mancanza di interlocutori. Le celle sono un inferno, nasce Commissione per renderle più umane tramite l’architettura di Viviana Lanza Il Riformista, 15 gennaio 2021 Nella Commissione per l’architettura penitenziaria, istituita martedì con decreto del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ci sono anche il magistrato Gemma Tuccillo, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria minorile, e Marella Santangelo, architetto e docente universitaria. Sono due donne, entrambe napoletane, impegnate nel rispetto dei principi costituzionali nel mondo della giustizia e del carcere. Nel corso della sua carriera Gemma Tuccillo è stata giudice presso il Tribunale per i minorenni di Napoli e, alla fine degli Ottanta, magistrato di Sorveglianza presso l’Ufficio di Santa Maria Capua Vetere, oltre che vicecapo di Gabinetto al Ministero e consigliere presso la Corte di Cassazione, nonché presidente del Tribunale per i minorenni di Potenza. Marella Santangelo è professoressa presso il Dipartimento di Architettura dell’università Federico II di Napoli e responsabile del polo universitario penitenziario della Campania nonché membro del Consiglio direttivo della Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari ed ex componente del tavolo 1 degli Stati generali dell’esecuzione penale. Parteciperanno ai lavori della nuova Commissione che entro giugno dovrà elaborare un format di riqualificazione delle strutture carcerarie per allineare i luoghi dell’esecuzione penale alla funzione costituzionale di responsabilizzazione del detenuto. La Commissione è presieduta da Luca Zevi, architetto e urbanista. Ne fanno parte anche il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia, il presidente della Cassa delle ammende Gherardo Colombo, il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna Antonietta Fiorillo e di Trieste Giovanni Maria Pavarin, il direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap Gianfranco De Gesu, il direttore generale del personale e delle risorse del Dap Massimo Parisi, il dirigente della direzione generale per il coordinamento delle politiche di coesione Paola Giannarelli, l’architetto e docente presso il Politecnico di Torino Paolo Mellano, l’architetto Mario Pittalis, l’esperto di Edilizia Penitenziaria Cesare Burdese. Scrive il ministro Alfonso Bonafede in premessa: “Occorre avviare un percorso di studio, approfondimento e proposte sull’architettura penitenziaria valorizzando la correlazione esistente tra la qualità dello spazio di esecuzione della pena e la sua funzione riabilitativa in un’ottica di dignità degli ambienti e rafforzamento della responsabilità delle persone detenute, quali obiettivi convergenti dello Stato di diritto e della società civile”. Nel decreto firmato martedì scrive anche che “la progettazione di un formato costruttivo e logistico è necessaria per orientare le future scelte in materia di edilizia penitenziaria per potenziare l’offerta trattamentale in chiave moderna, distante da connotazioni esclusivamente affettive e contenitive”. Finalmente, viene da dire leggendo il decreto e pensando alle condizioni di tante carceri, in primis quelle della Campania, pensando ai detenuti costretti a vivere anche in dieci e più in stanze concepite per ospitarne meno della metà, pensando ai bambini che trascorrono i primi anni della loro vita dietro le sbarre solo perché non ci sono abbastanza spazi alternativi al carcere per ospitare le detenute madri con figli al seguito. Pensando alle attività trattamentali che negli istituti di pena sono insufficienti non solo per le carenze di personale ma anche di spazi. E pensando a come spazi più vivibili, tanto più in una condizione di reclusione, diventano fondamentali per la garanzia dei più elementari diritti umani. Nel decreto il ministro Bonafede fa riferimento pure agli Stati generali dell’esecuzione penale, esperienza che avrebbe dovuto portare a una nuova fisionomia della condizione detentiva e invece è rimasta un progetto sospeso e sacrificato a consensi politici orientati su altri temi. Questa nuova Commissione sull’architettura penitenziaria avrà sei mesi di tempo per presentare un progetto per una diversa e più umana idea di carcere. E la speranza è che questa volta non lo si lasci solo sulla carta. Le carceri, quello specchio rovesciato della società di Gianluca Biccini L’Osservatore Romano, 15 gennaio 2021 I penitenziari sono “lo specchio rovesciato di una società, lo spazio in cui emergono le contraddizioni e le sofferenze” di una realtà “malata”: basterebbe quest’intuizione del cardinale Carlo Maria Martini a spiegare l’importanza della pastorale carceraria, che negli ultimi anni ha assunto un ruolo sempre maggiore tra le priorità dei Papi. Un rapporto, quello tra i vescovi di Roma e i detenuti, che si è fatto sempre più prossimità, ascolto e attenzione reciproci, in un crescendo culminato con il pontificato di Francesco, durante il quale solo per elencare le visite ai reclusi e gli appelli per la loro dignità e per un segno di clemenza nei loro confronti servirebbero diverse pagine del nostro giornale. Limitandosi al 2020 che si è appena concluso, con un’attività pubblica fortemente ridotta a causa del covid-19, si potrebbe ricordare che Papa Bergoglio ha dedicato al mondo dei “ristretti” più di una delle messe celebrate in diretta streaming a Santa Marta ogni mattina durante il lockdown e che ha deciso di affidare le meditazioni per la Via crucis del venerdì santo - tenutasi in piazza San Pietro e non come da tradizione al Colosseo - alla comunità del Due Ponti di Padova; fino a giungere alla recente udienza generale di un mese e mezzo fa, era il 2 dicembre, quando ha confidato commosso che gli tornano spesso in “mente quelle tante volte” in cui in Argentina vedeva “mamme in fila per entrare e vedere il loro figlio carcerato”. Un’attenzione privilegiata la sua, fatta anche di gesti concreti, come il dono di termo scanner per i detenuti di Panamá, inviati nell’agosto scorso in piena pandemia, e che ha trovato espressione magisteriale anche nell’enciclica Fratelli tutti, in cui Francesco esorta a non vedere la pena come una vendetta, ma come parte di un processo di guarigione e di reinserimento sociale, e a migliorare le condizioni delle carceri, nel rispetto della dignità umana di chi le abita, anche con il fermo convincimento che l’ergastolo sia “una pena di morte nascosta” (263-269). Questa predilezione risale all’episcopato a Buenos Aires ed è stata mantenuta viva dopo l’elezione alla sede di Pietro, manifestandosi con tanti gesti di prossimità: dalle telefonate domenicali ai detenuti argentini con cui è rimasto in contatto, alle soste nei penitenziari durante i viaggi internazionali (soprattutto quelli nella sua America latina) e in Italia; o nel tradizionale rito della lavanda dei piedi del Giovedì santo, quasi sempre riservato proprio ai carcerati: a cominciare dai minori dell’Istituto penale romano di Casal del Marmo, passando poi per Rebibbia (2015), Paliano (2017), Regina Coeli (2018) e Velletri (2019). “Perché loro e non io?”: l’interrogativo che Francesco ripete spesso quando parla di questo tema è risuonato anche durante l’udienza del 7 febbraio 2019, in quel caso riservata al personale della storica casa circondariale di Trastevere. Ed è proprio a Regina Coeli, con i famosi “tre scalini” cari al folklore popolare romano, che è in qualche modo iniziata la tradizione “contemporanea” delle visite dei Papi a quei luoghi di sofferenza in cui donne e uomini pagano i conti in sospeso con la giustizia. Da Giovanni xxiii a Paolo VI, da Giovanni Paolo ii a Benedetto XVI, tutti hanno voluto testimoniare la loro prossimità a quella porzione di umanità che vive dietro le sbarre, in obbedienza al comando evangelico “ero in carcere e mi avete visitato”. Erano le 8.05 del 26 dicembre 1958, festa di santo Stefano, quando Roncalli, eletto appena due mesi prima, attraversò l’ingresso di via della Lungara, inaugurando di fatto il Pontificato con un’opera di misericordia. Anche il suo successore, Montini, ne varcò la soglia il 9 aprile 1964 per celebrare la messa al centro della rotonda e invitare i presenti a non cedere alla disperazione. Da parte sua Wojtyla, che nel 1980 si era recato a Casal del Marmo e nel 1983 a Rebibbia per incontrare Alì Agca, andò a Regina Coeli durante il grande giubileo del 2000, così come fece in varie carceri d’Italia e del mondo. Infine Ratzinger non mancò di incontrare i detenuti di Casal del Marmo (il 18 marzo 2007) e di Rebibbia (il 18 dicembre 2011). Nei secoli passati le cronache ricordano altri simili gesti di attenzione da parte dei Pontefici: sia Innocenzo X (nel 1650) sia Clemente xi (nel 1704) visitarono i cantieri per la costruzione delle carceri di via Giulia e di Porta Portese, preoccupandosi di far garantire condizioni più umane agli ospiti. E a inizio Ottocento (nel 1824 e nel 1827) Leone xii si recò sia a via Giulia sia nel carcere minorile di via del Gonfalone. E Pio IX, prima dell’annessione di Roma al regno d’Italia, visitò i reclusi del bagno penale di Civitavecchia e i detenuti politici nelle prigioni cittadine. Dopo Mastai Ferretti, però, questa pia pratica si era interrotta a motivo della “questione romana” con i Papi che si consideravano a loro volta “prigionieri” e non uscivano mai dal Vaticano. Processi “cartolari”. Così anche la condanna all’ergastolo si può decidere via mail di Errico Novi Il Dubbio, 15 gennaio 2021 Follie dell’appello cartolare: in teoria è possibile per tutti i reati. Cos’è la “trattazione cartolare” del processo penale? È la celebrazione di un giudizio con uno scambio di atti depositati telematicamente. In pratica, con una discussione svolta non con la toga indosso e gli occhi dei giudici che fissano l’imputato, ma con dei messaggi: sostanzialmente, con delle semplici mail. Ebbene, tra i paradossi della giustizia virtuale introdotta in tempo di Covid c’è pure il rischio, sì astratto ma in teoria possibile, che persino un processo in corte d’assise d’appello per un reato da ergastolo, che può annullare la vita dell’imputato, si svolga così, a colpi di clic. Anche se in concreto l’ipotesi è al limite dell’implausibile, fa riflettere il fatto stesso che non debba essere lo Stato a provvedere affinché, di fronte al rischio di una condanna così grave, la trattazione cartolare sia esclusa. Deve essere l’avvocato a chiedere, entro termini perentori, la discussione orale, o l’imputato a manifestare la “volontà di comparire”. Come se il processo vero fosse una gentile concessione del sovrano elargita su richiesta. È un’ipotesi astratta, certo. I processi penali d’appello si “celebrano” per via cartolare, come stabilisce il famigerato decreto Ristori bis, ma non se l’avvocato chiede lo svolgimento della discussione in presenza o l’imputato manifesta la “volontà di comparire”. Quindi la persona accusata e il suo difensore possono scongiurare l’assurdo di una vita decisa con un semplice scambio di mail. O meglio, di atti depositati per via telematica, a voler essere precisi, che però sono pur sempre una forma di comunicazione elettronica. È così dal 9 novembre, giorno in cui è stato emanato il secondo decreto “Ristori”, che è il 149 del 2020. È in ogni caso una sclerosi della civiltà giuridica. E il Covid non basterà mai a giustificarla. Perché, in astratto, nessuno può garantire che in un caso estremo, per carità remotissimo, di un processo per un reato grave, punito con l’ergastolo, in cui è dunque in gioco la vita dell’imputato, il difensore ometta per qualsivoglia motivo di presentare l’istanza con cui chiede che la discussione si svolga dal vivo. E che l’imputato stesso, magari già detenuto, non conosca la norma, non sappia di avere diritto a un giudizio in aula, se lo chiede. È un’ipotesi ai limiti del plausibile, certo. Ma in anche in linea teorica, è davvero pensabile che la vita di un essere umano, il rischio di doverla trascorrere tutta in prigione, debbano dipendere dalla richiesta di procedere con le modalità del processo vero? È davvero privo di significato il fatto che la norma sull’appello cartolare non abbia escluso i reati più gravi, quelli che possono essere puniti con il fine pena mai? Eccezioni per i reati gravi solo contro l’imputato - Il quesito è legittimo se si considera che in molti casi i reati più gravi, punti con le pene più alte, sono causa di esclusione dai benefici, per esempio nell’ordinamento penitenziario. Così come la gravità di alcune fattispecie consente il ricorso a strumenti investigativi particolari, ad esempio quando si tratta di intercettazioni via trojan e della loro utilizzabilità anche in procedimenti diversi da quello per il quale erano state autorizzate. Ebbene, se la gravità dell’accusa o del reato è così rilevante, nella procedura, perché non deve esserlo anche nel senso di tutelare l’imputato in circostanze che possono costargli la vita? Rispetto a una persona processata per omicidio, che sa di poter essere anche condannata all’ergastolo, perché non è stato escluso in ogni caso il ricorso alla trattazione cartolare dell’appello? Com’è possibile che si sia lasciata la possibilità di celebrare un giudizio dinanzi a una corte d’assise d’appello con il mero deposito di atti scritti, senza che i giudici possano decidere se condannare o meno l’imputato quanto meno dopo averlo visto in carne e ossa? I paradossi infiniti del “penale virtuale” - È un altro interrogativo posto dal processo virtuale. L’Anm ha chiesto mercoledì scorso a Bonafede di prorogare il ricorso alle udienze da remoto, e ai processi cartolari, almeno fino ad aprile. Dei paradossi determinati dalla remotizzazione del processo si è parlato su queste pagine martedì scorso a proposito del caso dell’avvocata Simona Giannetti, del Foro di Milano, che nel pieno di una serrata discussione col pm ha visto il proprio microfono virtuale silenziato dal giudice. Una censura materiale che in un’aula fisica non potrebbe mai verificarsi. E proprio l’avvocata Giannetti ci sottopone un altro caso che rientra perfettamente nel paradosso appena evocato a proposito di condanne all’ergastolo inflitte “per via cartolare”. “È necessario parlarne anche perché”, ricorda l’avvocata, “la stessa camera di consiglio può tenersi con una banale videochiamata, se la discussione finale non si svolge in presenza. Lo stabilisce il combinato disposto fra le norme emanate col decreto Ristori bis e quelle del primo decreto Ristori, in base alle quali le camere di consiglio possono tenersi appunto con un collegamento da remoto. Una norma, quest’ultima, inapplicabile solo nei casi in cui la discussione finale si sia svolta in presenza. Premesso che noi penalisti riteniamo intollerabile la trattazione cartolare”, osserva Giannetti, “lo è allo stesso modo lo svolgimento in call conference della camera di consiglio”. Il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza lo ha segnalato al guardasigilli Alfonso Bonafede in una lettera datata 30 novembre. “Spiegò, il nostro presidente, un possibile paradosso legato all’incrocio dei decreti Ristori”, ricorda l’avvocata Giannetti. In teoria un penalista potrebbe chiedere la discussione orale dell’appello anche in quei casi in cui le circostanze non sembrano imporlo, pur di evitare che il collegio decida con una videochat, col rischio dunque che solo il relatore possa davvero accedere alle carte, vista la lontananza dalla cancelleria. “Si immagini cosa voglia dire una camera di consiglio da remoto quando si è in corte d’assise d’appello”, dice Giannetti, “quando cioè la maggioranza dei componenti del collegio è composta da non togati. Immaginate cosa significhi in termini di riservatezza e di possibili condizionamenti. Mentre sei lì”, fa notare la penalista milanese, “tu, giudice popolare, che nella vita ti occupi in genere di tutt’altro, e devi magari decidere in un processo per omicidio, che può costare l’ergastolo all’imputato, potresti ricevere messaggi sul telefonino da chiunque, senza che neppure il presidente del collegio possa rendersene conto. E soprattutto, potresti condannare una persona al carcere a vita senza guardarla mai. Vi pare possibile?”. Il diritto di difesa sospeso a un’istanza - Giannetti difende un uomo accusato di omicidio con l’aggravante dell’occultamento di cadavere davanti alla corte d’assise d’appello di Milano. Il suo assistito si professa innocente da sette anni, da quando è stato arrestato. Lei, la professionista del Foro di Milano, ha chiesto ovviamente la discussione in presenza. E ha così evitato che potesse svolgersi in forma “immateriale” anche la camera di consiglio. “Ma è rispettoso della dignità umana”, chiede, “che debba essere un uomo sempre professatosi innocente, condannato a 22 anni in primo grado e per il quale il pm insiste nel chiedere l’ergastolo, a dire, tramite il proprio difensore, “almeno giudicatemi dopo avermi guardato negli occhi?”. È assurdo che lo si debba chiedere. E questa degli appelli in corte d’assise è un’altra questione da affrontare. Non possiamo banalizzare il processo penale e trasformarlo nella sbrigativa liquidazione di vite umane ritenute di scarto. Il dolore delle vittime è sacro, ma la base del processo è il diritto di Alberto Cisterna* Il Dubbio, 15 gennaio 2021 Il processo penale non consuma vendette né pubbliche né private. Meglio. Non dovrebbe consumarne e, soprattutto, non dovrebbe essere percepito come il luogo in cui chi ha subito un torto vede necessariamente affermate le proprie ragioni con le manette ai polsi del colpevole. Per il ristoro delle vittime esistono i tribunali civili ove, in tutto il mondo, chi ha subito un danno qualunque trascina il responsabile per ottenere un equo risarcimento a prescindere da ogni condanna penale. Come non ricordare il caso di O.J. Simpson, assolto dall’accusa di aver ucciso la moglie e un amico di questa, eppure obbligato in sede civile a risarcire con otto milioni di dollari i parenti dell’uomo. Era il 5 febbraio 1997 quando una giuria civile riconobbe ai parenti di Ronald Goldman, trucidato assieme a Nicole Brown Simpson il 12 giugno 1994, l’enorme somma di denaro. “Giustizia è finalmente fatta” ebbe a dichiarare come riportano le agenzie del tempo - “con la voce spezzata dal pianto il padre di Ronald Goldman”. Un contegno impensabile nel nostro paese in cui è lecito immaginare piuttosto il risentimento e la rabbia dei parenti per l’assoluzione di un presunto colpevole che avrebbero avuto le prime pagine dei giornali, delle news e dei talk show. Tenere distanti e distinte le vittime dei delitti dal processo penale è una scelta di civiltà che il nostro ordinamento non ha mai voluto operare e che troppi casi di cronaca ci consegnano come probabilmente necessaria. La parte civile partecipa al processo penale aspirando, non solo al giusto risarcimento dei danni subiti, ma anche alla condanna dell’imputato, meglio se esemplare. È una posizione che, da sempre, è stata considerata ambigua e fonte di incertezze. Esponenti di primo piano della scienza giuridica processuale sono stati accaniti oppositori della presenza della parte civile nei giudizi penali. Carnelutti e Amodio, sopra tutti, a più riprese avevano messo in guardia dal pericolo che la presenza del danneggiato nel processo, come protagonista e parte, potesse alterare la rigorosa parità tra accusa e difesa che si deve realizzare innanzi a un giudice terzo e imparziale. Al punto da annotare che l’intervento della parte civile “provocherebbe uno sbilanciamento degli interessi in gioco a favore dell’accusa tale da potere compromettere la serenità del decidere, anche tenuto conto del fatto che il giudice potrebbe subire una pressione inconscia a rendere comunque giustizia alla vittima del reato costituita parte civile”. Naturalmente è una sintesi estrema e poco circostanziata che corre il rischio di riversare sul giudice il sospetto di un silente condizionamento “ambientale” a rimedio del quale il codice di procedura penale prevede, in effetti, qualche mezzo di tutela, sebbene largamente insufficiente: si pensi alla cd. remissione per legittima suspicione che può determinare la scelta di un tribunale diverso da quello previsto per legge a decidere del caso. Se non fosse che, in una società multimediale e ipercomunicativa, non esiste alcun ambiente circoscritto e al riparo da influenze esterne; non esiste un mondo davvero distante da una scena del delitto moltiplicata all’infinito negli schermi delle televisioni. L’attenzione mediatica su un caso lo rende di per sé esposto al rischio di condizionamenti e pressioni con cui la macchina giudiziaria è chiamata a fare i conti. Due le questioni salienti. È evidente che il peso assegnato alle conclusioni del pubblico ministero - lo ha ben ricordato il professor Spangher su queste pagine - orienta pesantemente le aspettative di giustizia delle vittime dei reati. Il doloroso e inenarrabile calvario dei parenti trova un punto di approdo, un appiglio, forse anche una parziale mitigazione nelle convinzioni dell’accusa pubblica che addita un colpevole e lo esibisce, troppe volte, con voluttuosa prepotenza mediatica. Uno modo d’agire rispetto al quale, poi, non può certo criticarsi l’atteggiamento di chi, nella sofferenza, si muova in sintonia con quelle convinzioni e partecipi al giudizio nella assoluta certezza di avere alla sbarra il colpevole. Il pre- giudizio che il pubblico ministero esprime sulla colpevolezza del proprio imputato è certamente un fattore ineliminabile del processo penale che si muove proprio per la verifica di una tale ipotesi. Quel che agita polemiche e innesca devianze e distonie è l’accompagnare la doverosa iniziativa processuale con un circuito mediatico che, per un verso, gratifica la bravura degli inquirenti giunti alla scoperta del “colpevole” e, per altro, addita alle vittime come concluso il percorso di ricerca della verità. Proprio quando quel percorso deve ancora iniziare innanzi al giudice. Nessuno lo ammetterà mai, ma certo aprire le gabbie per colui che per mesi o per anni è stato indicato pubblicamente come il certo colpevole di un reato non deve essere semplice, né scontato. Soprattutto se si corre il rischio di manifestazioni e urla di protesta dentro e fuori delle aule. La questione è complessa, ma a occhio e croce si può escludere che qualche giudice inserisca nel proprio percorso curriculare una clamorosa assoluzione. In genere fanno titolo le condanne, non le assoluzioni, per la carriera delle toghe. Il secondo punto è che, in una società pur fortemente secolarizzata, materialista e anche semi- scolarizzata, ha acquistato spazio la convinzione - invero tutta ideologica - che il processo penale, come la democrazia, sia “un gioco sempre truccato, dominato da una volontà occulta che impone di ascoltare sempre la voce di alcuni e mai degli altri” e, con essa, è cresciuta la “sensazione rabbiosa di essere condannati per principio ad essere sempre dalla parte del torto” (come scrive Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 13 gennaio). E soprattutto quando una verità acquisita come immutabile e incontrovertibile trova l’ostacolo di una sentenza che la nega e la contraddice. Non si tratta, si badi bene, solo dei processi che vedono tante vittime innocenti, ma anche di quelli che - pompati mediaticamente - si infrangono infine sugli scranni di corti imparziali e libere. La folla di coreuti che sorregge le verità provvisorie di tanti indagini o, addirittura, di tante semplici suggestioni investigative e le alimenta irresponsabilmente additandole come i fatti oggettivi che inesplicati poteri oscuri intenderebbero negare o sovvertire non è altro che una componente di quel più vasto mondo di complottisti, terrapiattisti, ufologi e negazionisti che affollano social network e mezzi di telecomunicazione parlando di verità nascoste, occultate e negate. Quando questa “sensazione rabbiosa” di impotenza investe il processo penale e si impadronisce di vittime innocenti la tentazione di dover dare una risposta a qualunque costo bussa alla porta del giudice e ignorarla non è solo un atteggiamento morale della singola toga, ma il risultato di oggettivi accorgimenti processuali che diano al dolore nelle aule di giustizia la giusta enfasi per decidere semmai dell’entità di una pena non una condanna. *Magistrato del Tribunale di Roma Petrelli: “Il giudice ridotto a passacarte dei pm, se assolve certamente sbaglia” di Angela Stella Il Riformista, 15 gennaio 2021 “Fiducia nel controllo dei giudici di fronte allo strapotere della pubblica accusa? Caro Santalucia, le cose stanno esattamente all’opposto. E le toghe devono rispondere delle proprie scelte”. L’avvocato Francesco Petrelli, già Segretario dell’Ucpi e attualmente direttore della rivista Diritto di Difesa, torna a discutere dei temi più attuali di politica giudiziaria che hanno interessato il Paese in questo ultimo anno. La rivista da Lei diretta si pone l’obiettivo di essere un luogo di incontro e confronto tra avvocatura, accademia e magistratura. In questo clima, con il nuovo presidente Anm, è possibile riaprire un vero dialogo? E su quali basi e a partire da quali condizioni? La crisi pandemica con i suoi rimedi emergenziali non ha solo messo in tensione tutti i valori fondamentali del giusto processo ma è anche venuta a cadere in un momento di difficoltà sistemica per la giustizia penale e di crisi profonda per la magistratura e la sua rappresentanza (Csm e Anm) e questo ha reso difficile il dialogo per tutti. Noi crediamo che la crisi possa essere una opportunità di cambiamento e di modernizzazione del processo e fare della tecnologia uno strumento a favore delle garanzie. E su queste basi il confronto fra avvocatura, accademia, politica e magistratura è aperto. La condizione è che non si confonda l’opportunità con l’opportunismo e non si approfitti dell’emergenza per stabilizzare quelli che sono rimedi straordinari facendo retrocedere il nostro sistema di valori e di garanzie. Secondo Lei è stato fatto abbastanza dalla magistratura per rispondere adeguatamente allo scandalo Palamara? A qualcuno non piace che venga definito “capro espiatorio”. L’Anm rivendica di aver fatto molto per colpire il sistema. È d’accordo? Mi pare che di recente il Presidente di Anm abbia proprio fatto riferimento alla necessità di evitare di fare del dott. Palamara il capro espiatorio di una degenerazione che ha cause ben più profonde e strutturali e che non possono certo essere ascritte né a deviazioni etiche di tipo personale e neppure ad una deriva del sistema correntizio. Penso che il sistema delle carriere dirigenziali sia piuttosto una delle cause più importanti della degenerazione delle correnti che hanno avuto una nobilissima storia e sono state piegate ad interessi spartitori. Preso atto che la vicenda Palamara è solo un sintomo occorre comprendere come si intende affrontare la patologia e, per rimanere nella metafora, quale sia per il dott. Santalucia il “vaccino”. Occorrono riforme radicali separando la giurisdizione dall’amministrazione e riequilibrando il potere dei vertici delle procure. Mi pare che il dott. Santalucia sia d’accordo con la separazione dell’amministrazione dalla giurisdizione. È d’accordo anche sulla necessità di operare un riequilibrio del potere dei vertici delle procure? Su questo giornale abbiamo ospitato due interviste a Caiazza (Ucpi) e Santalucia (Anm): un tema divisivo è quello della separazione delle carriere. Il punto di rottura ricade sempre sul destino del pm. Secondo Lei chi usa questo argomento è in malafede o ignaro della proposta dell’Ucpi? L’Ucpi con la sua proposta di riforma costituzionale di iniziativa popolare ha dato un contributo fondamentale nel “laicizzare” questo tema sottraendolo a strumentalizzazioni politiche nelle quali in passato era rimasto incagliato. Ora i tempi sono maturi per liberarci anche da tali paradigmi dialettici obsoleti. Il luogo comune secondo il quale separare le due carriere significa sottoporre il Pm all’esecutivo è divenuto un alibi per non affrontare la questione nel merito. Il destino del Pm è scritto in quella proposta: due carriere separate e due distinti Csm, uno per i giudici ed uno per i Pm. Sta alla serietà delle parti dire a questo punto se si tratta di una soluzione sufficiente a garantire l’autonomia e l’indipendenza dell’organo dell’accusa dal potere politico. L’assetto attuale non garantisce di certo né la terzietà dei giudici né l’autonomia dalla politica. E questo non è luogo comune… Legato a questo tema c’è quello che per qualcuno è uno “strapotere” dei pm. Per Santalucia basta avere fiducia nel controllo dei giudici. Basta davvero? Le democrazie moderne si salvano se garantiscono gli equilibri fondamentali fra i diversi poteri dello Stato. vi è dubbio che l’esercizio discrezionale e non regolato dell’azione penale, coniugato con gli attuali assetti ordinamentali, consegna alle Procure una capacità di incidere in tutti i settori determinanti della vita del Paese: amministrativi, politici, economici. Ma questo strapotere è ovviamente il risultato della mancanza di un bilanciamento reale che provenga dalla giurisdizione. I Pm sono gli autori veri della giustizia, al giudice spetta solo la vidimazione delle loro scelte e il giudice che assolve è un giudice che sbaglia. Il risultato è quello del giudice delegittimato. A ben vedere la questione si pone in termini esattamente opposti a quel che dice il Presidente Santalucia …. E arriviamo al tema della responsabilità professionale dei magistrati: Albamonte, segretario di Area, ha detto che la proposta dell’Ucpi è una “baggianata pazzesca”. Qual è il suo commento? Nel nostro Paese la questione è ancora assoggettata alla cosiddetta “etica dei principi” (se mi comporto per il bene della collettività non posso rispondere degli esiti pur negativi delle mie scelte) e non a quella della responsabilità secondo la quale ognuno deve risponNon dere delle proprie scelte specie quando incidono sulle vite dei cittadini e sono il risultato di un potere così esteso e così spaventoso come quello giudiziario. Non può esistere un sistema nel quale la magistratura è di fatto sottratta ad ogni tipo di seria valutazione professionale, disciplinare e civile al tempo stesso. A suo parere il processo penale può ancora raggiungere i suoi scopi se la comunità in cui si celebra non ne condivide le regole ed i valori fondanti? Mi riferisco al fatto che oggi è in atto uno scontro tra il populismo penale e una concezione garantista del diritto e della pena... Certamente no. Soffriamo di un handicap culturale che ha radici più antiche del populismo penale, e che lega il processo penale ad una base etica in una visione che una moderna democrazia liberale non dovrebbe mai condividere. Scontiamo un sentimento popolare che spesso confonde il reato con il peccato ed una formazione autoritaria del fascismo che fa - come scriveva Grandi - di ogni magistrato un sacerdote. Dice Armando Spataro: “Bisogna spiegare ai magistrati come “non si comunica”. Il compito del magistrato non è quello di formulare ipotesi affascinanti, ma di mettere a nudo la verità con prove inconfutabili”. Pensando però ad alcuni magistrati requirenti sembra che invece ci sia una gran voglia di andare in tv e reclamare attenzione mediatica. Che ne pensa? Il dott. Spataro ha ragione ma non è solo questo. Ancora di recente ho sentito dire a un noto PM che scopo di un processo da lui istruito era quello di ricostruire un determinato fenomeno criminale. Il problema è ricondurre il processo alla cultura liberale della giurisdizione e convincerci che il suo scopo non è quello di combattere fenomeni criminali e tanto meno quello di farne la storia ma di accertare le responsabilità dei singoli. La vicenda del processo per la cosiddetta Trattativa stato mafia mi pare paradigmatica di questa deviazione clamorosa. Tema carcere: si è persa, durante la pandemia, un’altra occasione per ripensare il carcere? Quello del carcere è nel nostro Paese uno scandalo permanente oggetto di una costante rimozione. Dalle condanne Cedu nulla è cambiato. La timida ripresa della riforma partorita dagli Stati generali del Ministro Orlando stenta a farsi strada. La politica ha mostrato in quel passaggio tutta la sua incapacità di riaffermare i principi costituzionali formando l’opinione pubblica e non facendosi condizionare da un pubblico privo di opinioni e vittima del risentimento sociale. Insegnare che la sicurezza passa attraverso la riabilitazione ed il riconoscimento della dignità radicale dell’individuo e non la carcerizzazione. Secondo Lei dinanzi agli episodi di presunti pestaggi nei confronti dei detenuti sarebbe utile una qualsiasi presa di posizione del Ministro Bonafede che non sia il silenzio? Il Ministro Bonafede ha sempre aderito a parole alla necessità di tutelare i diritti dei detenuti ma nei momenti di crisi non ha mai agito di conseguenza. Il mondo della detenzione è pensato come mondo chiuso e di fatto consegnato solo alla retribuzione. Esigenze cautelari e assistenza del minore autistico da parte dei genitori forogiurisprudenzacptp.blogspot.com, 15 gennaio 2021 La Cassazione conferma che l’Italia non ha prigionieri di guerra. Pare utile segnalare la pronuncia della Corte pen. Sez. V n. 36884/2020 per la sua portata interpretativa dell’art. 275 IV co. C.p.p., ma soprattutto per avere implicitamente ricordato che nelle carceri italiane non vi sono prigionieri di guerra, per quanto gravi possano essere i delitti agli stessi ascritti. Procediamo con ordine: la Suprema Corte è investita del ricorso di un indagato avverso il provvedimento dei Giudici territoriali che avevano respinto la sua istanza di sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari. Sin dalle prime righe della sentenza di legittimità si evince la rilevanza degli interessi in gioco: infatti, per quanto le esigenze cautelari non erano state ritenute di eccezionale rilevanza, è pur vero che il detenuto, già gravato da precedenti penali, è allo stato indagato per il delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso e per più episodi di traffico di sostanze stupefacenti. Inoltre egli avrebbe partecipato anche a dei summit per la spartizione dei proventi derivanti da estorsioni e gli sarebbe stato commissionato un omicidio, poi non portato a termine. Per quanto si tratti di mere accuse, esse non sono certamente di poco momento. Tuttavia l’indagato è padre di un minore di cinque anni affetto da un grave disturbo dello spettro autistico con compromissione intellettiva e del linguaggio (il piccolo utilizza esclusivamente la parola mamma in maniera indifferenziata), associata a disregolazione emotiva e atteggiamento oppositivo, con disturbi del sonno, eteroaggressività e tendenza all’autolesionismo. La necessità di coadiuvare la moglie nel problematico accudimento del minore è stata invocata quale motivo dell’invocata sostituzione della misura. Orbene è evidente che la fondatezza dell’istanza dipende dall’esegesi dell’art. 275 c.p.p., comma 4, a mente del quale il padre di prole di età inferiore ad anni sei non può essere sottoposto alla custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole. Ciò posto, dalla lettura della sentenza di legittimità si coglie che il Tribunale del riesame aveva rigettato la prefata istanza, considerando che: 1) la rilevanza del ruolo paterno nell’ambito delle ipotesi di cui all’art. 275 c.p.p., comma 4 risulta ancora circoscritta all’ambito di una mera supplenza, onde l’incompatibilità con il carcere sorge per il padre esclusivamente ove la madre sia in condizioni fisiche, psicologiche od esistenziali, tali da non poter prestare assistenza ai minori, condizioni che non ricorrevano nel caso di specie; 2) la madre comunque potrebbe ricorrere a figure private o strutture pubbliche di sostegno, per provvedere alle esigenze del figlio; 3) in ogni caso sarebbe incongruente una soluzione che affidasse alla discrezionalità del giudice penale l’apprezzamento, caso per caso, della particolare condizione del minore, derivando da essa l’incoerente condizione di un giudice chiamato ad applicare una misura nei confronti di un imputato sulla base di valutazioni relative non già a quest’ultimo, ma ad un soggetto terzo (il minore) estraneo al processo. Tuttavia la Corte di cassazione sembra aver dato luogo ad un cambio di paradigma nell’interpretare il disposto di legge: il focus per cogliere la ricorrenza della richiamata “impossibilità” materna non è costituito dalle condizioni della genitrice, ma da quelle del minore. Al riguardo la Corte regolatrice ha ritenuto che interpretare la nozione di assoluta impossibilità della madre di accudire la prole sulla scorta della sola idoneità fisica, psicologica od esistenziale della genitrice, senza avere riguardo alle concrete condizioni del minore, sia non aderente alla ratio della norma ed ai valori costituzionali che l’hanno ispirata. In tale nuovo paradigma “l’assoluta impossibilità” di cui all’art. 275 si apprezza soprattutto in considerazione del rischio in concreto derivante per il minore dal “deficit” assistenziale, dovuto alla mancata, valida ed efficace presenza di entrambi i genitori. Al riguardo i Giudici hanno precisato che “se la ratio dei divieti di cui all’art. 275 c.p.p., comma 4 è da ravvisarsi nella necessità di salvaguardare l’integrità psicofisica di soggetti diversi dalla persona da assoggettare a custodia in carcere, nella consapevolezza dei gravi effetti che le mutazioni del rapporto affettivo possono provocare su soggetti in tenera età, occorre effettivamente porre al centro del perimetro valutativo del giudice, anche nell’analisi dell’”assoluta impossibilità” della madre ad occuparsi della prole, proprio l’integrità psico-fisica del minore da accudire, in relazione alla necessità di assistenza da parte dei genitori in un momento particolarmente significativo e qualificante per la formazione fisica e, soprattutto psichica, qual è quella fino ai sei anni di età”. Né la Corte ha mancato di rilevare che ciò che il Giudice della cautela deve valutare è proprio la “situazione concreta nella sua interezza su cui la custodia cautelare in carcere del padre di prole di età inferiore a sei anni va incidere”. All’esito del suo scrutinio la Corte ha annullato il provvedimento, onerando i Giudici di merito, in sede di rinvio, di verificare, in concreto, la sussistenza per il minore di un “deficit” assistenziale, sotto il profilo della irreversibile compromissione del processo evolutivo-educativo per la mancata, valida ed efficace presenza di entrambi i genitori. La sentenza conferma che l’Italia non ha prigionieri di guerra e che vi sono dei Giudici a ricordarcelo. La Consulta “gela” le Regioni: l’ultima parola sulla tutela della salute spetta allo Stato Il Dubbio, 15 gennaio 2021 La pronuncia sull’allentamento delle misure in Valle d’Aosta. Un no alla Valle d’Aosta che diventa per estensione un no a tutte le Regioni che intendessero legiferare sui temi legati alla tutela della salute pubblica, inserendo norme meno severe rispetto a quelle fissate dal Governo e dunque dallo Stato, per fronteggiare la pandemia da coronavirus. La Corte Costituzionale, con l’ordinanza depositata ieri al palazzo della Consulta, relatore il giudice Augusto Barbera, chiude definitivamente la diatriba più volte aperta fra Stato e Regioni al tempo del Covid, su a chi spettasse dire l’ultima parola sul livello di tutela della salute pubblica: spetta allo Stato. Nella motivazione della Corte si sottolinea infatti che “la materia della profilassi internazionale è riservata alla competenza esclusiva dello Stato”, richiamando anche a “una gestione unitaria dell’epidemia a livello nazionale”. Ecco perché la Consulta ha sospeso gli effetti della legge regionale della Valle d’Aosta, che consentiva misure di contenimento della diffusione del contagio da coronavirus che erano di “minor rigore rispetto a quelle statali”. I giudici hanno dato dunque ragione al Governo, accogliendo l’istanza che era stata proposta in via cautelare dal Presidente del Consiglio dei ministri, nell’ambito del ricorso contro la legge regionale valdostana. E si tratta di una decisione “storica”, in quanto si interviene in modo specifico e puntuale sulla gerarchia istituzionale riguardo alla tutela della salute pubblica sospendendo in via cautelare gli effetti di una legge, decidendo tra l’altro di depositare immediatamente l’ordinanza con la relativa motivazione, per evitare il rischio di “un irreparabile pregiudizio” verso “l’interesse pubblico a una gestione unitaria dell’epidemia a livello nazionale”, nonché di “un pregiudizio grave e irreparabile per la salute delle persone”. “Nessun passaggio pericoloso per la salute dei valdostani è mai stato fatto, tant’è che da fine ottobre e soprattutto nel mese di novembre la Valle d’Aosta è stata la regione in cui il miglioramento dei dati è stato più rapido - ha commentato il presidente della Valle d’Aosta, Erik Lavevaz. È stata chiamata in modo erroneo legge anti Dpcm, ma così non è perché è una legge che è stata applicata con una logica di prudenza e di correttezza rispetto agli ambiti sanitari e scientifici”. Sempre ieri, la Consulta ha esaminato la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Bolzano sull’articolo 262, primo comma, del Codice civile, là dove non consente ai genitori di assegnare al figlio, nato fuori dal matrimonio ma riconosciuto, il solo cognome materno. In attesa del deposito dell’ordinanza, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere che il collegio ha deciso di sollevare davanti a sé stesso la questione di costituzionalità del primo comma dell’articolo 262 del Codice civile che stabilisce come regola l’assegnazione del solo cognome paterno. La Corte ha ritenuto che tale questione sia pregiudiziale rispetto a quella sollevata dal Tribunale di Bolzano. La Corte di Giustizia Ue: no ai rimpatri per i minori se manca l’accoglienza di Simona Musco Il Dubbio, 15 gennaio 2021 “Laddove non sia disponibile un’accoglienza adeguata nello Stato di rimpatrio, il minore interessato non può essere oggetto di una decisione di rimpatrio”. A stabilirlo è la Corte di Giustizia Ue, che si è pronunciata sul caso di un minore nato in Guinea nel 2002 e che nel 2017 ha presentato nei Paesi Bassi una domanda di permesso di soggiorno a tempo determinato a titolo di diritto d’asilo. Il ragazzo era arrivato in Europa dopo la morte della zia con la quale viveva in Sierra Leone, ritrovandosi vittima di tratta di esseri umani e di sfruttamento sessuale ad Amsterdam. A seguito di tali fatti, il giovane ha sviluppato gravi turbe psichiche. Nonostante questo, nel marzo 2018 il Segretario di Stato alla Giustizia e alla Sicurezza dei Paesi Bassi ha stabilito, d’ufficio, il rifiuto del permesso di soggiorno a tempo determinato nonché dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria. Decisione che, secondo il diritto dei Paesi Bassi, aveva come conseguenza il rimpatrio. Il giovane ha dunque proposto ricorso davanti al giudice del rinvio, evidenziando di non sapere dove si trovino i suoi genitori né altri familiari. Ma anche per il giudice del rinvio il giovane, una volta raggiunti i 18, avrebbe dovuto lasciare il Paese, secondo quanto previsto dal diritto dei Paesi Bassi per i minori di età pari o superiore a quindici anni alla data di presentazione della domanda di asilo. Secondo la norma, infatti, nel periodo compreso tra la sua domanda di asilo e il raggiungimento della maggiore età la permanenza del minore risulterebbe tollerata, anche se ritenuta irregolare. Il giudice del rinvio ha quindi chiesto alla Corte se la norma dei Paesi Bassi fosse coerente con il diritto dell’Unione nella distinzione tra i minori non accompagnati di età superiore ai quindici anni e quelli di età inferiore, per i quali invece la norma prevede un’indagine sull’esistenza di un’accoglienza adeguata nello Stato di rimpatrio, in assenza della quale verrebbe concesso un permesso di soggiorno ordinario. Per la Corte, qualsiasi Stato membro che intende rimpatriare un minore non accompagnato deve necessariamente, in ogni fase della procedura, considerare come prioritario l’interesse superiore del bambino. E in caso di un’accoglienza non adeguata nello Stato di rimpatrio il minore non può essere allontanato, in quanto si troverebbe “in una situazione di grande incertezza quanto al suo status giuridico e al suo futuro, in particolare quanto alla sua frequenza scolastica, al suo legame con una famiglia di affidamento e alla possibilità di rimanere nello Stato membro interessato, il che sarebbe contrario all’esigenza di tutelare l’interesse superiore del bambino in ogni fase della procedura”. L’età è, dunque, solo uno degli elementi da considerare. Secondo la Corte, il fatto che lo Stato membro interessato adotti una decisione di rimpatrio senza essersi prima accertato dell’esistenza di un’accoglienza adeguata nello Stato di rimpatrio avrebbe come conseguenza che il minore, pur essendo stato oggetto di una decisione di rimpatrio, non potrebbe essere allontanato nel caso in cui un’accoglienza non fosse disponibile. Roma. Covid a Rebibbia: nel Reparto AS siamo tutti in isolamento, in cella 24 ore su 24 di Fabio Falbo e Giuseppe Perrone* Il Riformista, 15 gennaio 2021 Anche a Rebibbia si lotta contro il Covid. È scoppiato un focolaio nel reparto G12 di alta sicurezza. Direzione e personale sono molto attenti, ma l’ansia ci logora. Governo e parlamento: non pervenuti. Il primo dell’anno ci siamo svegliati con un focolaio da Covid 19 nel reparto G12 di alta sicurezza. Nel momento in cui scriviamo la situazione è di 36 persone contagiate su 117 presenti nel reparto che è suddiviso in tre sezioni. In una sola sezione, i contagiati sono 29 su 40, mentre altri 7 sono nelle altre due sezioni. Dei 36 contagiati, 31 sono stati isolati nel reparto G9 destinato al Covid, gli altri 5 sono stati ricoverati in ospedale e non sappiamo le loro effettive condizioni di salute. Le misure adottate nei confronti di chi non è stato contagiato sono stringenti. Tutte le attività sono state chiuse. Non entrano volontari, professori universitari o tutor, anche le funzioni religiose sono sospese. Praticamente siamo tutti in isolamento, chiusi in cella 24 ore su 24, usciamo solo per telefonare ai nostri cari e per la doccia. La spazzatura prodotta nelle celle viene ritirata in appositi contenitori monouso per rifiuti sanitari speciali, mentre i cartoni e le plastiche di imballaggio della spesa acquistata e distribuita vengono prima sanificati sui carrelli e poi portati fuori dal reparto. Siamo ansiosi, stressati, preoccupati e in apprensione non solo per le sorti dei nostri compagni contagiati. L’ansia aumenta a ogni tampone perché si teme che altri di noi possano risultare positivi. In questa situazione di emergenza, la Direttrice Rosella Santoro ha subito attivato un dialogo con noi. Le abbiamo dato i nomi delle persone che a causa delle patologie conclamate, dell’età e, soprattutto, del focolaio in corso avrebbero bisogno di una sospensione della pena. Consapevole delle nostre preoccupazioni e di quelle delle nostre famiglie, la direzione ha aumentato le telefonate e le ha autorizzate anche nei giorni festivi, nei quali non venivano effettuate. Anche gli agenti di custodia hanno mostrato professionalità e attenzione alla situazione nella quale siamo tutti coinvolti. Un plauso va dato agli infermieri. Abbiamo inviato una missiva al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte chiedendogli di intraprendere una politica che riconsideri le cose da fare, anche per il carcere. Lo abbiamo ringraziato per aver ricevuto Rita Bernardini, dal 7 gennaio di nuovo in sciopero della fame, e per la visita fatta a Regina Coeli. Tuttavia, la sua affermazione “per le carceri è tutto sotto controllo” per noi ha avuto il sapore dell’abbandono politico. Prima del focolaio a Rebibbia, abbiamo inviato un reclamo - ai sensi dell’art. 35 dell’Ordinamento penitenziario - al Presidente della Repubblica, dal quale emerge chiaro un quadro delle preoccupazioni e degli interventi mancati nelle carceri della Repubblica da qualche decennio a questa parte. Avevamo fatto riferimento a un peggioramento della situazione che nella nostra struttura penitenziaria si è puntualmente verificato. All’evidente abbandono politico delle carceri dobbiamo registrare anche l’abbandono della Costituzione. Infatti, a oggi, nessun provvedimento serio di decongestionamento è stato preso da Governo e Parlamento. Ancora ad oggi non si è capita l’importanza dei laboratori “Spes contra spem” nelle carceri. Finalizzati al dialogo, alla nonviolenza e quindi alla consapevolezza di dover la persona assumere un comportamento responsabile, hanno contribuito a stemperare le tensioni alimentate dalla pandemia. Noi che abbiamo fatto l’esperienza dei Laboratori di Nessuno tocchi Caino e la formazione giuridica e umanistica alle spalle, abbiamo aiutato diverse persone a preparare e inviare istanze di differimento pena, arresti o detenzione domiciliari. Siamo rimasti sbigottiti leggendo le motivazioni di rigetto delle istanze della prima ondata da Covid 19 che riguardavano persone allora non contagiate ma che ora lo sono. Mancano i riferimenti medico-scientifici e si paragona il carcere a qualunque altro luogo della società. Di chi è adesso la responsabilità se una delle persone a cui era stata rigettata l’istanza dovesse morire? Siamo resilienti in questa caverna di Rebibbia dove stiamo lottando contro questa pandemia e sperando che tutto presta finisca. Però, resta incomprensibile il silenzio del servizio pubblico sul focolaio scoppiato a Rebibbia. Evidentemente, la vita delle persone detenute in questa valle di lacrime vale meno di quelle libere. *Detenuti nel carcere di Rebibbia Roma. “Più sicurezza contro il Covid”, a Rebibbia protesta dei detenuti dire.it, 15 gennaio 2021 Intervento della Polizia Penitenziaria per riportare la calma. Protesta nel carcere romano di Rebibbia. I detenuti hanno chiesto maggiore sicurezza contro la diffusione del Covid all’interno del penitenziario. La polizia penitenziaria riferisce di una protesta “per niente pacifica” che si è svolta nel reparto G12 dell’istituto: “Prendendo a pretesto problematiche relative alla situazione pandemica dell’istituto penitenziario, i detenuti hanno inscenato una protesta che via via ha preso i connotati di una protesta violenta, con azioni tese a impedire l’apertura dei cancelli con stracci bagnati, allagando il corridoio, assembrandosi davanti al cancello d’ingresso della sezione in chiaro atteggiamento minaccioso e intimidatorio. Le azioni violente dei detenuti sono state sedate grazie al pronto intervento degli agenti di Polizia Penitenziaria, intervenuti in assetto operativo, che con grande determinazione hanno ripristinato l’ordine e la sicurezza interni, senza provocare feriti. È stato sufficiente dimostrare la fermezza con cui il personale sarebbe intervenuto per far desistere i facinorosi da ulteriori atti di resistenza ingiustificati e riportare la serenità nel reparto detentivo”. La Polizia penitenziaria, quindi, “non può che ribadire il valore e la necessità di equipaggiare adeguatamente gli agenti, al fine di prevenire ed eventualmente contenere azioni del genere che si manifestano di frequente nelle carceri italiane, ma soprattutto la necessità di avere un adeguato numero di agenti che possono essere impiegati nelle attività quotidiane di vigilanza e nelle operazioni di repressione nei casi in cui esse si verificano. Per questo ci si aspetta che il ministero della Giustizia e il Dap si facciano portavoce dell’esigenza, più volte rappresentata dall’Uspp, di coprire le carenze d’organico degli istituti in generale e di Rebibbia, in questa circostanza”. Belluno. Covid in carcere: isolati nove detenuti della sezione autori di reati sessuali di Paola Dall’Anese Corriere delle Alpi, 15 gennaio 2021 Focolaio di Covid-19 nel carcere di Baldenich. Il contagio è stato scoperto il 30 dicembre durante una normale sessione di screening su personale e detenuti. Subito è scattato il protocollo, con l’apertura di una sezione Covid, dove sono stati isolati i nove detenuti asintomatici ma infetti. “Durante i controlli con tampone rapido”, racconta Marco Cristofoletti, medico dell’Usl che si occupa dall’aspetto sanitario nella casa di detenzione, “abbiamo riscontrato cinque positività nella nuova sezione “sex offender”, che contiene venti detenuti provenienti dal carcere di Modena. I contagiati sono stati subito isolati nell’area Covid, gli altri 15 in quarantena. Passati dieci giorni, ai 15 è stato rifatto il tampone: per quattro di loro, che nel frattempo si erano positivizzati, si sono aperte le porte del reparto Covid”. Scoppiato il focolaio, all’interno della casa circondariale di Baldenich tutte le sezioni sono state “isolate”, nel senso che sono stati impediti contatti tra carcerati di comparti diversi per provare a contenere il contagio. Una mossa che ha portato gli effetti desiderati. Anche gli agenti di polizia penitenziaria sono stati divisi in gruppi, destinati a singole sezioni. “I detenuti infetti”, fa presente Cristofoletti, “sono seguiti da medici e infermieri del carcere. Ogni giorno, oltre a misurare loro la temperatura corporea e la saturazione di ossigeno, li visitiamo al mattino e al pomeriggio. Sappiamo, infatti, che la malattia può avere un rapido peggioramento. Sono tutti monitorati e nessuno a oggi ha la febbre”. Anche all’interno di Baldenich è stato creato un percorso “sporco”, destinato a pazienti e operatori che si muovono in area Covid, e uno “pulito”, per chi opera in sezioni no-Covid: “Gli stessi agenti hanno fatto un corso di vestizione e svestizione per evitare contagi. Come il personale sanitario in ospedale, infatti, anche chi controlla questa sezione deve indossare tutti i dispositivi di protezione dalla visiera ai calzari”. La situazione per ora è tranquilla e sotto controllo - conclude Cristofoletti - soddisfatto anche dall’organico a sua disposizione: “Siamo a posto. Abbiamo quattro medici di continuità assistenziale per 16 ore al giorno, un medico di base e un servizio infermieristico. Così stando le cose, nell’arco delle 24 ore è sempre garantita la presenza di un sanitario: i medici sono presenti per 19 ore, gli infermieri per 14. Anche il clima all’interno della struttura per ora è buono”. A essere preoccupati, invece, sono gli agenti della polizia penitenziaria, che lanciano l’allarme per la carenza di personale e il sovraffollamento del carcere bellunese. “Siamo al completo”, precisa Robert Da Re, delegato della Cisl, “nel nostro carcere abbiamo un centinaio di detenuti, invece dei settanta previsti. La sezione psichiatrica avrebbe dovuto essere trasferita a Padova e invece è ancora a Belluno con sei pazienti. C’è poi la sezione trans e quella nuova che ospita venti persone accusate di reati legati alla sfera sessuale. Infine, abbiamo la sezione dei detenuti “comuni”, quella Covid e quella per la quarantena dei nuovi arrivati”. Per gestire questa massa di persone, ci sono soltanto 80 agenti. “E trenta di loro svolgono soltanto attività di ufficio”, sottolinea Da Re che aggiunge: “Da mesi chiediamo dei rinforzi, perché il personale è ormai allo stremo delle forze. Oltre alla normale tensione che implica questo mestiere, si è aggiunta anche quella derivante dal Covid e dalla paura del contagio per noi e, di riflesso, per le nostre famiglie”. Il personale, vista l’insufficiente numero di agenti, è costretto a ore di straordinario per riuscire a coprire tutti i turni di servizio: “Lo ripetiamo, servono nuovi agenti”, conclude Da Re. Bergamo. “In carcere a 25 contagiati? Dal ministero dati falsi, sono molti di più” bergamonews.it, 15 gennaio 2021 La lettera di tre famiglie di detenuti nel carcere di Bergamo: “Soltanto giovedì mattina sono stati spostati 40 positivi al Covid-19”. A seguito dei dati ufficiali del ministero della Giustizia, comunicati dal Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria del carcere di Bergamo (aggiornati alle 20 dell’8 gennaio scorso e pubblicati da Bergamonews mercoledì 13 gennaio), riceviamo e pubblichiamo la testimonianza di una donna, moglie di un detenuto. Nella lettera, firmata da tre famiglie di detenuti, vengono contestati i numeri diffusi dal ministero in merito ai contagi all’interno della casa circondariale. Viene anche contestata la mancanza di chiarezza e comunicazione alle famiglie sul trasferimento dei detenuti positivi in altre strutture. “Una sera mi ha telefonato una persona che non conoscevo per dirmi che mio marito era stato portato - in quanto positivo - in un carcere milanese e mi mandava i saluti - si legge nella lettera -. La mattina seguente ho provato a telefonare al carcere di Bergamo, senza riuscire ad avere alcuna informazione, per tre lunghissimi giorni, quando finalmente qualcuno mi ha avvisata, dicendomi anche di andarmi a riprendere il pacco che avevo consegnato quando ancora pensavo che mio marito fosse lì”. Ecco la lettera. Gentile redazione, scrivo per portare la testimonianza mia e di tante famiglie di persone detenute nel carcere di via Gleno che - con amara sorpresa - hanno letto i numeri pubblicati ieri sul contagio, numeri purtroppo, assai lontani dalla realtà. Ed è importante che la verità e la situazione reale sia conosciuta da tutti e non solo da chi ha la sfortuna di vivere la detenzione di un proprio parente. Non sono 25 i contagiati asintomatici e una la persona in ospedale come riportano i dati… Non sappiamo chi abbia dato queste informazioni, ma i numeri sono molto più alti. Soltanto giovedì mattina sono partite (con un autobus) oltre 40 persone positive dal carcere di via Gleno, alla volta del carcere di San Vittore. È lì che stanno spostando tutti i detenuti positivi asintomatici di Bergamo. E così è stato nei giorni scorsi verso il Covid hub di Bollate, finché anche Bollate non è diventato saturo e non ha più potuto accogliere nessuno. Quando si viene spostati altrove, non si sa quando si torna a Bergamo. E noi non sappiamo dove sono i nostri famigliari. Prima di Natale vi è stato almeno un decesso e i contagiati sono oltre 40 per ogni sezione. Tanto che sono tutte chiuse. Non conosciamo la situazione reale se non attraverso quello che riusciamo a sapere dai nostri figli, fratelli, mariti, padri, reclusi in condizioni drammatiche o dai loro compagni di prigionia che usano il poco tempo delle telefonate per trasmettere numeri e nomi di familiari da avvisare. I colloqui con i familiari sono sospesi da mesi e ora consentiti (uno solo al mese, in luogo dei soliti 6 previsti) solo a chi è residente a Bergamo, con una ingiustizia nell’ingiustizia. Avete idea di cosa significhi per un bambino non vedere il proprio papà per mesi e mesi? Ecco. Questa è diventata la nostra vita. Sono sospese tutte le attività, la scuola ma anche i colloqui con gli psicologi, le visite mediche per cui anche malattie di altra natura sono trascurate, nel silenzio generale, e spesso neanche gli avvocati vengono fatti entrare per parlare con i propri assistiti, anche se ci sono i processi, le udienze… Viviamo nell’assenza totale di informazioni sulla salute dei nostri parenti, solo sperando che non arrivi una telefonata che ci avvisa che il nostro congiunto è malato. Una sera mi ha telefonato una persona che non conoscevo per dirmi che mio marito era stato portato - in quanto positivo - in un carcere milanese e mi mandava i saluti. Mi diceva di non preoccuparmi. Ma come potete immaginare, non è così facile. La mattina seguente ho provato a telefonare al carcere di Bergamo, senza riuscire ad avere alcuna informazione, per tre lunghissimi giorni, quando finalmente qualcuno mi ha avvisata, dicendomi anche di andarmi a riprendere il pacco che avevo consegnato quando ancora pensavo che mio marito fosse lì. Allora mi chiedo e vi chiedo se questo è un modo di comportarsi civile e degno di uno stato civile. E mi chiedo anche cosa stanno facendo le istituzioni che di questo dovrebbero preoccuparsi. Dove è il Comune e il suo Sindaco che pure ha tanto frequentato il carcere per celebrare altri (importanti, per carità) progetti? non potrebbe andare e almeno dare la propria vicinanza? Dove è il garante dei detenuti che abbiamo provato a contattare, scoprendo che il numero di telefono riportato non è del Comune e lei è irraggiungibile da mesi anche via email? Dove è carcere e territorio che pure dovrebbe occuparsi dei detenuti? invece di scrivere ai parlamentari, per improbabili proposte di legge, non potrebbe affacciarsi dentro il carcere e presidiare dove noi non possiamo? I nostri cari avranno anche sbagliato e sono lì perché condannati, ma quanto stanno subendo è ingiusto e drammatico. E nessuno ne sta parlando. Nessuno di noi, presi da altro, ha mai scritto alla stampa, ma leggere dei 25 contagiati è stata una pugnalata per chi conosce la situazione reale e abbiamo deciso per questo di scrivere queste poche righe. Sappiamo che tutti stanno affrontando un momento difficile. Ma quello che chiediamo è che quanto meno l’informazione non sia mistificata. (Lettera firmata da tre famiglie di detenuti) Brindisi. Nel carcere positivi al Covid tre detenuti e un agente brindisireport.it, 15 gennaio 2021 In corso screening a tappeto su detenuti, agenti e personale medico. Effettuati fino a oggi 300 tamponi di controllo. Carcere di Brindisi: positivi al Covid tre detenuti e un agente. Almeno quattro casi di positività al Covid-19 sono stati accertati nei giorni scorsi presso la casa circondariale di Brindisi. Si tratta di tre detenuti e di un agente di polizia penitenziaria. Di concerto con l’Asl di Brindisi è stato avviato uno screening di tutta la popolazione carceraria, inclusi anche medici e operatori sanitari. Sinora sono stati effettuati 300 tamponi di controllo. Ulteriori test verranno effettuati nei prossimi giorni. A scopo precauzionale sono stati sospesi i trasferimenti in carcere. Tutti e tre i detenuti, uno dei quali era appena giunto da un’altra struttura, sono in isolamento, in buone condizioni. Nel corso della prima ondata pandemica si erano registrati due soli contagi fra i detenuti. Le misure anti contagio sono rigorose. All’arrivo il detenuto asintomatico viene ospitato nella cosiddetta zona gialla e sottoposto a un primo tampone dopo 72 ore. Se è negativo passa in un’area verde per ulteriori quattro giorni, al termine dei quali viene effettuato un nuovo tampone. Se è negativo anche questo può entrare in comunità. Una zona rossa, invece, è riservata ai casi sospetti sintomatici o accertati di infezione da Covid-19. Quando un detenuto già presente in carcere ha sintomi che possono suggerire un’infezione da Covid, la visita medica si svolge in una zona dedicata che viene poi accuratamente sottoposta a sanificazione. I detenuti che arrivano da altri istituti penitenziari e sono in possesso di risultato negativo al tampone eseguito nel luogo di provenienza vengono sottoposti a un secondo test a 72 ore dall’ingresso: se la negatività viene confermata possono essere ospitati negli spazi comuni. Se invece sono sprovvisti di certificazione del tampone saranno trattati come “nuovi giunti”, così come i detenuti che rientrano dall’esecuzione di permessi. I ristretti in regime di semilibertà, infine, sono ospitati in zone separate dalla restante popolazione detenuta e al rientro serale in Istituto devono compilare la scheda di autocertificazione ed essere sottoposti a rilevazione della temperatura corporea. Caserta. Imprenditore assolto 7 anni dopo il suicidio in carcere: “Riabilitata la memoria” di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 15 gennaio 2021 Era accusato, insieme con altri ex dipendenti, di gestire due sale bingo nel Casertano in società con esponenti del clan Russo, una costola dei Casalesi. A distanza di sette anni dall’apertura dell’inchiesta, Luciano Cantone è stato assolto con formula piena dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Un motivo di gioia per l’imprenditore che, con questa sentenza, vede riabilitata anche la memoria del fratello Mario. Già, perché Mario Cantone, anch’egli coinvolto nell’indagine che nel 2013 portò all’arresto di decine di persone e al sequestro di beni per 450 milioni di euro in tutta Italia, finì ben presto in carcere e nel 2014 si suicidò impiccandosi alle sbarre della cella. All’epoca 46enne, Mario Cantone fu l’unico ad andare in prigione; chiese gli arresti domiciliari per due volte e per due volte gli furono negati, sebbene versasse in condizioni psicologiche alquanto precarie; in una circostanza il Riesame impiegò circa tre mesi per depositare le motivazioni del provvedimento. Ora, a distanza di circa sette anni dalla sua morte, Mario Cantone viene di fatto assolto insieme con il fratello e i loro ex dipendenti. La vicenda colpisce non solo per il dramma umano che porta con sé, ma soprattutto per l’immagine della giustizia campana e italiana che restituisce. Lascia basiti la lentezza con cui i magistrati hanno accertato l’insussistenza di qualsiasi legame tra i Cantone e la camorra. Sette anni sono tanti, troppi, e confermano una giustizia pachidermica, farraginosa, capace di costringere indagati e imputati ad autentiche odissee nelle aule di tribunale. La giustizia che ha assolto Cantone a sette anni dall’apertura dell’inchiesta sulle sale bingo è la stessa che poche settimane fa ha sbattuto in carcere un 47enne napoletano condannato per reati commessi nell’ormai lontano 1999; è la stessa che ha impiegato 18 anni per fissare la prima udienza istruttoria nel processo davanti a un giudice di pace; è la stessa che ha richiesto quasi vent’anni per chiarire definitivamente la correttezza dell’operato dell’ex sindaco e governatore Antonio Bassolino. A prescindere dal fatto che la sentenza finale sia di assoluzione o di condanna, una giustizia tanto lenta travolge necessariamente vite e carriere, famiglie e aziende, imponendo a indagati e imputati una compressione delle libertà personali, un surplus di tensione emotiva e spese legali e, spesso, una gogna mediatica francamente inaccettabili. Oltre che lenta, però, la giustizia si dimostra tutt’altro che infallibile: nel 2019, nel solo distretto di Napoli, sono stati registrati 129 errori giudiziari che hanno portato alla liquidazione di indennizzi per l’ingiusta detenzione pari a tre milioni e 200mila euro. In tutta Italia, però, le azioni disciplinari avviate nei confronti dei magistrati non sono state più di 24 e quasi in nessun caso hanno portato a qualche forma di sanzione. Segno che, a più di trent’anni dal caso Tortora, troppe toghe continuano a sbagliare e a non pagare per gli errori commessi. Tutto ciò s’inserisce in un contesto generale in cui la credibilità dei giudici è ridotta ai minimi storici dal sistema di spartizione degli incarichi tra le diverse correnti e dai rapporti poco trasparenti tra queste ultime e ampi settori della politica. Ecco perché servono riforme serie: per restituire efficienza alla giustizia e credibilità alla magistratura. Firenze. Quelle crudeltà subite dai detenuti nel carcere di Sollicciano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 gennaio 2021 Per i presunti pestaggi a Sollicciano il Garante si è presentato come “persona offesa dal reato”, nominando come proprio legale l’avvocato Michele Passione. Per i presunti pestaggi avvenuti nel carcere di Sollicciano, uno commesso nel 2018 e l’altro nel 2020, nei confronti di due detenuti, il Garante nazionale delle persone private della libertà si è presentato come “persona offesa dal reato”, nominando come proprio legale l’avvocato Michele Passione del foro fiorentino. “Tale decisione - spiega il Garante -, ben lungi dal voler trarre conclusioni relativamente a ciò che la magistratura valuterà, costituisce un segno di garanzia per tutte le parti coinvolte e di rassicurazione dell’opinione pubblica circa l’esistenza di uno sguardo istituzionale esterno, attento a che nessun messaggio di impunità possa essere inviato, così come nessuna generalizzazione possa essere avanzata nei confronti di chi lavora all’interno di un contesto difficile”. Tuttavia quanto finora risulta dagli atti, il Garante sottolinea che tutto ciò richiede una riflessione attenta. Già a luglio il Garante nazionale ha incontrato i vertici delle diverse Forze di Polizia, tra cui anche il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, a seguito di gravi fatti emersi in alcune indagini che avevano coinvolto operatori delle diverse Forze. “Al centro di tali incontri - osserva sempre il collegio del Garante - è stata, sin da allora, la condivisione della necessità di rafforzare e diffondere una cultura che sappia tenere insieme l’essenziale funzione di repressione del reato e la scrupolosa tutela dei diritti fondamentali anche del suo autore. Proprio per questo occorre investire sulle condizioni di lavoro e sulla formazione di chi opera in tali contesti”. Sono 9 gli agenti raggiunti dalle misure cautelari - Ricordiamo che sono nove gli agenti raggiunti dalle misure cautelari perché avrebbero pestato due detenuti in momenti differenti nel carcere di Sollicciano. Uno nel 2018 e l’altro a maggio del 2020. Il caso del detenuto Mohamed è descritto nei minimi particolari. Si apprende dall’ordinanza del Gip che gli agenti prima lo minacciarono e successivamente avrebbero commesso “gravi e reiterati atti di violenza (posti in essere da ben sette uomini fisicamente e da una donna nelle qualità di istigatrice) contro un uomo solo inerme ultra cinquantenne e di costituzione esile, agendo con estrema crudeltà, atti che concentrano in un arco di tempo di circa un’ora”. Lo avrebbero preso a schiaffi, a pugni, a calci fino a salire sopra la sua schiena oltre che tenendolo per le braccia in modo che non possa difendersi. Non solo. Risulta che gli indagati, in cella di isolamento, per giorni gli fecero tenere addosso i pantaloni bagnati di urina, senza minimamente pensare a salvaguardare la sua dignità e - si legge nell’ordinanza del Gip “al fine di farlo vergognare e di procurargli ulteriori umiliazioni”. Tale circostanza è stata confermata da uno degli indagati durante un’intercettazione ambientale, dato che lo stesso dichiarava che il detenuto si era fatto la pipì addosso. Mohamed punito per aver chiesto di telefonare ai parenti in Francia - Come se non bastasse, due degli agenti che avevano partecipato al presunto pestaggio di Sollicciano, sarebbero rientrati nella cella di isolamento e lo fecero spogliare e rimanere nudo davanti a loro per due o tre minuti, dicendogli anche “che gli riservano quel trattamento particolarmente umiliante proprio perché aveva voluto fare in precedenza “il duro”. Tutto questo - avvenuto Il 27 aprile del 2020 - non è accaduto perché il detenuto compì un gesto violento o abbassò la cerniera scagliandosi contro l’ispettrice. Tutti gli elementi raccolti dalle indagini conducono a far ritenere che Mohamed sia stato punito per aver chiesto di telefonare ai parenti in Francia e per aver reagito alle minacce dell’agente con una ingiuria. Per questo motivo i novi agenti indagati devono rispondere anche di falso ideologico in atto pubblico, perché avrebbero fatto passare gli abusi come resistenze e aggressioni sessuali da parte dei detenuti. Di fronte alle due denunce contrapposte, il direttore del carcere di Sollicciano fece acquisire le immagini delle telecamere che hanno confermato il racconto del detenuto. Da lì le indagini hanno ricostruito un altro episodio di violenza, avvenuto nel 2018, quando un detenuto italiano. Giorgio, denunciò la rottura di un timpano. Lui si era lamentato della mancata fruizione integrale dell’ora d’aria. A quel punto un agente tra i presenti l’avrebbe preso con un braccio dietro il collo e lo avrebbe stretto così forte da impedire di muoversi, respirare e parlare. Nel frattempo gli altri agenti lo avrebbero preso per le gambe e i polsi: a quel punto un altro agente gli avrebbe sferrato un pugno colpendolo con forza tra la mascella sinistra e la tempia. Non soddisfatti, lo avrebbero poi trascinato verso l’ufficio dell’ispettore e di nuovo sferrato pugni. Il detenuto, a quel punto, si sarebbe chinato in avanti coprendosi il volto con le mani. Lo avrebbero preso a ceffoni, fino a farlo cadere esausto per terra e ancora una volta altra scarica di calci e pugni alla testa. Poi lo presero e condotto in cella di isolamento. Il diario clinico è lapidario: tumefazioni sella guancia sinistra con ecchimosi sulla faccia e perforazione del timpano sinistro. Tutti e nove gli agenti sono accusati tortura e falso ideologico. Tre si trovano agli arresti domiciliari: l’ispettrice Elena Viligiardi coordinatrice del reparto penale, l’assistente Luciano Sarno e l’agente Patrizio Ponzo. Gli altri sei sono invece interdetti dalla professione per un anno. A coordinare le indagini è Christine Von Borries, pm della procura di Firenze. Firenze. Il Garante nazionale “persona offesa” nell’indagine sui fatti di Sollicciano garantenazionaleprivatiliberta.it, 15 gennaio 2021 Certamente, preoccupa fortemente il Garante nazionale l’indagine che ha portato ai provvedimenti di misure cautelari nei confronti di operatori di Polizia penitenziaria della Casa circondariale di Firenze-Sollicciano. Per seguire da vicino l’evolversi della situazione, il Garante nazionale si è presentato come “persona offesa dal reato”, nominando come proprio legale l’avvocato Michele Passione del foro fiorentino. Tale decisione, ben lungi dal voler trarre conclusioni relativamente a ciò che la magistratura valuterà, costituisce un segno di garanzia per tutte le parti coinvolte e di rassicurazione dell’opinione pubblica circa l’esistenza di uno sguardo istituzionale esterno, attento a che nessun messaggio di impunità possa essere inviato, così come nessuna generalizzazione possa essere avanzata nei confronti di chi lavora all’interno di un contesto difficile. Tuttavia, quanto finora risulta dagli atti richiede una riflessione attenta. Già a luglio il Garante nazionale aveva incontrato i vertici delle diverse Forze di Polizia, tra cui anche il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, a seguito di gravi fatti emersi in alcune indagini che avevano coinvolto operatori delle diverse Forze. Al centro di tali incontri è stata, sin da allora, la condivisione della necessità di rafforzare e diffondere una cultura che sappia tenere insieme l’essenziale funzione di repressione del reato e la scrupolosa tutela dei diritti fondamentali anche del suo autore. Proprio per questo occorre investire sulle condizioni di lavoro e sulla formazione di chi opera in tali contesti. Firenze. Sollicciano, chiamata al ministro: “Servono più risorse e più agenti” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 15 gennaio 2021 Visita di Nardella e del presidente del Consiglio regionale Mazzeo: il governo intervenga. Sollicciano, Firenze chiama Roma. Il sovraffollamento del carcere e le poche attività sociali e rieducative all’interno del penitenziario fiorentino, come raccontato nei giorni scorsi dal Corriere Fiorentino, sono un problema sotto gli occhi di tutti e per questo il sindaco Dario Nardella e il presidente del Consiglio regionale Antonio Mazzeo hanno deciso di invitare a un tavolo il ministro della giustizia Alfonso Bonafede, chiedendo anche la vaccinazione contro il Covid per il personale e i detenuti. “Qui servono interventi strutturali - hanno spiegato Nardella e Mazzeo - su cui né il Comune né la Regione possono agire, per questo abbiamo deciso di invitare a un tavolo anche il ministro che, riteniamo, anche come cittadino di Firenze, avrà grande attenzione per affrontare e risolvere la situazione di Sollicciano”. E poi: “Come Comune e città metropolitana - ha aggiunto Nardella - ci faremo portatori di un’iniziativa forte anche sul fronte della carenza di organico della polizia, degli educatori e del decadimento della struttura”. Il Presidente Mazzeo ha confermato la volontà della Regione di essere parte attiva ampliando le azioni già in essere come quelle per la formazione e il lavoro “perché abbiamo il dovere civico di aiutare ogni persona, anche quelle che hanno sbagliato e stanno pagando per i loro sbagli, a cambiare vita e come prevede la nostra Costituzione a essere recuperate alla vita civile. Per questo il lavoro e la formazione sono uno strumento indispensabile”. “Il carcere non può essere avulso dalla vita sociale dei nostri territori - ha aggiunto il sindaco Nardella - purtroppo non si riesce a dare piena ed effettiva attuazione alla finalità rieducativa della pena che consente al condannato di diventare una persona diversa e di non cadere più nella trappola della recidiva”. Gli impegni per Sollicciano sono stati annunciati all’indomani dell’incontro che si è svolto mercoledì alla casa di reclusione di Firenze con la direttrice Antonella Tuoni e i responsabili della polizia penitenziaria. Con Nardella e Mazzeo erano presenti l’assessore al welfare Sara Funaro, il presidente del consiglio comunale Luca Milani, il garante toscano dei detenuti Giuseppe Fanfani e quello del Comune di Firenze Eros Cruccolini. Milano. Presunti pestaggi a un detenuto, per 11 imputati inizia oggi il processo di Valentina Stella Il Dubbio, 15 gennaio 2021 I fatti avvenuti tra il 2016 e il 2017 nel carcere di San Vittore. Si apre oggi a Milano il processo a carico di undici persone, tra ispettori e agenti di polizia penitenziaria, per presunte intimidazioni e pestaggi, avvenuti tra il 2016 e il 2017, ai danni di un tunisino di 52 anni, Ismail Ltaief, detenuto allora per tentato omicidio nel carcere milanese di San Vittore. Le accuse verso gli agenti (non più in servizio nel carcere del capoluogo lombardo, ma in altri istituti) sono, a vario titolo, intralcio alla giustizia, lesioni, falso e sequestro di persona. Reato quest’ultimo contestato solo ad alcuni imputati, in quanto in uno dei due pestaggi, l’uomo 50enne sarebbe stato ammanettato e trasferito in una stanza in uso ad uno degli agenti sotto inchiesta per poi essere picchiato con un tirapugni. Le aggressioni contro il recluso sarebbero state inflitte con l’obiettivo di punirlo perché nel 2011, quando era in cella a Velletri (Roma), aveva denunciato altri agenti per furti in mensa e percosse. Ismail Ltaief all’epoca dei fatti lavorava nelle cucine del carcere laziale. Quando si accorse che alcuni agenti di polizia penitenziaria sottraevano regolarmente cibo destinato ai detenuti per portarlo fuori dal carcere, li ha denunciati. Da quel momento per lui iniziò un incubo, fino al brutale pestaggio. E violenza chiamò violenza perché i pestaggi che avrebbe subito a San Vittore sarebbero avvenuti anche con lo scopo di impedirgli di testimoniare in aula in quell’altro processo. Il caso era stato sollevato dal Partito Radicale in una conferenza stampa tenuta alla Camera da Marco Pannella, Rita Bernardini, Irene Testa e l’avvocato Alessandro Gerardi che lo ha assistito per i fatti di Velletri. Per quella vicenda due agenti sono stati condannati in primo grado (il terzo è morto durante il processo), altri due assolti in appello. Adesso, come ci spiega il legale che segue Ismail a Milano, l’avvocato Matilde Sansalone “ci auguriamo che il processo proceda senza interruzioni, considerato che sarebbe dovuto iniziare a febbraio dello scorso anno. L’auspicio è che possa essere celebrato con la massima serenità tra le parti, nonostante il tema sia molto delicato e spinoso. Non vogliamo di certo criminalizzare tutta la categoria degli agenti di polizia penitenziaria”. A corroborare la versione del detenuto ci sarebbe la relazione di un medico incaricato dal pm, insieme alle dichiarazioni di due testimoni oculari e di una volontaria del carcere. La novità è che il ministero della Giustizia è stato citato, su richiesta dell’avvocato di Ismail, in qualità di responsabile civile perché i presunti pestaggi sono avvenuti mentre gli agenti erano in servizio. Albenga (Sv). Morto in cella di sicurezza. “Ho sentito Emanuel che urlava: aiuto, basta!” di Marco Preve La Repubblica, 15 gennaio 2021 Le rivelazioni ai pm di un altro detenuto. Il tragico decesso di Emanuel Scalabrin avvenuto a dicembre nella caserma dei carabinieri. In esclusiva il referto medico di una visita al pronto soccorso durata appena tre minuti. Possibili a breve i primi avvisi di garanzia. L’ipotesi dell’omissione di soccorso Con la testimonianza di un altro detenuto, il caso della morte del 33 enne Emanuel Scalabrin, avvenuta in circostanze ancora misteriose in una cella della caserma dei carabinieri di Albenga, imbocca, almeno per ora, la strada più scabrosa. Perché se fino ad oggi le domande e i dubbi sul decesso di Scalabrin ruotavano attorno a una serie di situazioni che qualcuno poteva anche spingersi a definire una sfortunata concatenazione di eventi, dopo le due ore di interrogatorio di Paolo Pelusi, l’inchiesta avviata dalla procura di Savona si apre a nuovi scenari. E se il fascicolo d’indagine inizialmente procedeva nei confronti di ignoti, ora potrebbe presto far registrare l’iscrizione nel registro degli indagati di alcuni dei militari che si sono avvicendati nei turni di guardia nelle ore della detenzione e del decesso di Scalabrin. “Scalabrin urlava “aiuto” - Pelusi, che ha 57 anni e una vita segnata dallo spaccio e dal consumo di droga, ha raccontato che nel pomeriggio del 4 dicembre, mentre era stato fatto uscire dalla cella e portato in una stanza sotto sorveglianza di due militari, aveva sentito le grida di Scalabrin. “Urlava “aiuto, aiuto, basta”, non ho visto cosa gli succedeva ma lui chiedeva aiuto”. Pelusi ha aggiunto di essere stato picchiato dentro la caserma della compagnia da un carabiniere che lo avrebbe colpito anche con un bastone sui fianchi. Pelusi, che è assistito dall’avvocato Andrea Cechini non ha sporto denuncia ma ora spetterà ai pm savonesi Chiara Venturi ed Elisa Milocco stabilire se nei suoi confronti siano state commesse violenze o abusi da parte dei carabinieri. La vicenda è evidentemente tanto scottante quanto scivolosa. Pelusi è un testimone “facile” da smontare in un eventuale contenzioso: tossicodipendente, pluripregiudicato, per di più era stato arrestato con Scalabrin nell’ambito della stessa indagine: insomma, inaffidabile. Ma proprio il suo curriculum di lunga convivenza nel milieu criminale lo rende un soggetto attento alle dinamiche e ai rapporti con le forze dell’ordine. Insomma, Pelusi, a meno che non venga ritenuto incapace di intendere e di volere, è certamente consapevole che una calunnia nei confronti dei carabinieri potrebbe diventare un marchio a vita. Inoltre, a quanto risulta, non avrebbe chiesto contropartite o benefici per le sue dichiarazioni rilasciate al termine dell’interrogatorio cui è stato sottoposto nel carcere di Imperia dalle due pm. Esiste naturalmente una terza opzione: quella di un equivoco su quanto sentito. Come è morto Emanuel? Emanuel Scalabrin viene arrestato alle 12.55 del 4 dicembre assieme ad altre persone fra le quali la sua compagna Giulia, madre del loro bambino, e appunto Pelusi. Scalabrin viene fermato nella sua abitazione perché trovato in possesso di cocaina e hashish. Nel verbale i carabinieri spiegano che ha opposto resistenza, si è ribellato e che il suo arresto è stato complicato. La sua compagna lo racconta da un’altra visuale: quello di un uomo a lungo bloccato sul letto, ammanettato e immobilizzato al punto di essersi defecato e urinato addosso. Poi l’ingresso nella caserma dalla quale uscirà cadavere il mattino seguente. Verso le 21 Scalabrin accusa un malessere e i carabinieri fanno intervenire la guardia medica. La dottoressa che lo visita riscontra tachicardia e pressione alta. Consiglia “l’accompagnamento al pronto soccorso per somministrazione metadone e monitoraggio delle condizioni cliniche”. I carabinieri seguono le indicazioni della Guardia Medica e accompagnano Scalabrin al pronto soccorso di Pietra Ligure. La permanenza nell’ospedale è uno degli elementi oggetto di approfondimento dell’inchiesta del pm Chiara Venturi. Il referto segnala l’ingresso alle 22.57, l’apertura della cartella clinica alle 22.59 e la chiusura della cartella clinica alle 23.02. In soli tre minuti, riferisce il referto, gli vengono somministrati 90 millilitri di metadone - che la madre di Scalabrin aveva consegnato ai carabinieri - e viene sottoposto a “visita pronto soccorso”. Napoli. Il punto sulla ristrutturazione delle carceri cittadine di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 15 gennaio 2021 Incontro tra il Garante campano Ciambriello e il provveditore alle opere pubbliche D’Addato. Il Garante delle persone private della libertà personale della regione Campania Samuele Ciambriello, ormai da più di un anno, scrive alle autorità competenti, e denuncia ritardi per la ristrutturazione e l’adeguamento dei padiglioni fatiscenti di Poggioreale. Eppure sono stati messi a disposizione dal Ministero delle Infrastrutture 12 milioni da più di 3 anni. Ha chiesto ed ottenuto un incontro col Provveditore interregionale alle opere pubbliche della Campania, Giuseppe D’Addato, competente per l’appalto e i lavori nel carcere di Poggioreale e per la costruzione del nuovo carcere di Nola. Nell’incontro, che si è tenuto ieri, il Garante ha posto diversi quesiti al Provveditore: quali sono i padiglioni coinvolti in questa progettualità a Poggioreale? Che cosa si farà piano per piano, sezione per sezione? Quando iniziano e quando terminano i lavori? Inoltre ha anche richiesto notizie sul nuovo carcere di Nola. Durante l’incontro, il provveditore D’Addato ha comunicato che “Per la Casa Circondariale di Poggioreale il piano comprende un intervento di ristrutturazione e l’adeguamento al D.P.R. 230 del 30/06/2000 di alcuni padiglioni detentivi facenti parte dell’intero complesso immobiliare. I Padiglioni oggetto di intervento sono: “Genova” (completamento). “Italia”, “Salerno” e “Napoli”. L’importo dei lavori ammonta a circa 13 milioni di euro. L’inizio dei lavori si ipotizza entro il 2021 con durata prevista di 36 mesi.” Il Garante, durante l’incontro, ha avuto garanzie riguardanti gli spazi minimi utili per le “celle” - camere di pernottamento, i servizi igienici, gli spazi adibiti per la cucina, sala della socialità, stanza per gli educatori, infermeria, servizi all’istruzione. “Il progetto, nel considerare comunque prioritaria l’esigenza di dover garantire la maggiore capienza possibile, è il frutto di una verifica della rispondenza degli spazi detentivi alle indicazioni provenienti sia dai recenti pronunciamenti della Corte Europea dei diritti dell’Uomo che dalle indicazioni provenienti dagli uffici sia del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, che da quello Regionale. Saranno garantiti gli spazi utili minimi per le camere, introdotte camere detentive per disabili. Tutte le camere detentive saranno dotate di servizio igienico in vano annesso. Tutti i locali dove si svolgono attività comuni saranno dotati di servizi igienici posizionati in adiacenza. I servizi igienici saranno tutti dotati di lavabo vaso bidet e doccia. I servizi igienici saranno provvisti di acqua fredda e calda. Per ogni padiglione, ad ogni piano fatta eccezione per il rialzato, sarà previsto un locale per il servizio di barbiere/parrucchiere. Due porzioni dei piani rialzati, saranno adibite a cucina attrezzata e dimensionata per la preparazione dei pasti per 200 persone”, ha dichiarato lo staff del Provveditore D’Addato. Al termine dell’incontro, il Garante regionale Ciambriello ha dichiarato: “Resto basito per la decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di non aver coinvolto i padiglioni fatiscenti Milano e Roma nella selezione per la ristrutturazione e l’adeguamento del carcere di Poggioreale. Spero che nel piano carceri l’amministrazione penitenziaria trovi i finanziamenti per questi 2 padiglioni. Sono contento che in ogni sezione sia prevista la presenza di una sala socialità all’interno della quale è possibile condividere i pasti. Nel padiglione, ai piani rialzati, è stata prevista l’infermeria di padiglione. Per ogni sezione, sono previsti spazi e servizi dedicati all’istruzione, alla formazione, vi sarà un’aula multifunzionale e una stanza per gli educatori. L’intervento persegue inoltre gli obiettivi di miglioramento sismico e della prestazione energetica degli edifici.” Il Garante Ciambriello infine comunica alcune notizie riguardanti il nuovo carcere di Nola: “È stata individuata l’area, è stata fatta la progettazione di fattibilità, è stata Consiglio Regionale della Campania Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale assegnata la gara alla ditta vincitrice per la costruzione. Adesso bisogna fare la conferenza dei servizi e mandare il tutto al Consiglio superiore dei lavori pubblici. Il carcere avrà una capienza organica di 1200 posti. Ringrazio il Provveditore per avermi incontrato, per i chiarimenti e le informazioni che mi ha dato, e per la possibilità che l’opinione pubblica possa conoscere quello che purtroppo non è conosciuto né dagli addetti ai lavori e né dalla politica”. Perugia. “Io riesco”, un intervento contro il sovraffollamento carcerario perugiatoday.it, 15 gennaio 2021 Il progetto di Regione Umbria, Frontiera Lavoro e Cassa delle ammende, è rivolto a 30 detenuti cui restano massimo 18 mesi di pena, ma che non hanno un domicilio. “Io riesco”, un intervento contro il sovraffollamento carcerario e un’opportunità per chi può scontare la pena fuori. Intervenire sul problema del sovraffollamento delle carceri, aggravato durante l’epidemia da Covid-19, attraverso laboratori che coinvolgono un gruppo di detenuti che potranno scontare gli ultimi 18 mesi di detenzione in una struttura ricettiva di Perugia. È quanto si propone di realizzare il progetto “Io Riesco”, promosso dalla Regione Umbria attraverso uno specifico finanziamento di 140 mila euro da parte di Cassa delle Ammende, e gestito da Frontiera Lavoro. “Il progetto è rivolto a quei detenuti che possono scontare gli ultimi 18 mesi di detenzione all’esterno del carcere, ma sono sprovvisti di un domicilio - dichiara il coordinatore Luca Verdolini - I beneficiari indicati dal magistrato di sorveglianza sconteranno il residuo di pena presso la struttura individuata e saranno sottoposti alle misure di tutela previste dagli Uffici per l’esecuzione penale esterna del Ministero della Giustizia. Continueranno, dunque, a essere a tutti gli effetti dei detenuti, soggetti a restrizioni della loro libertà personale e ai controlli di polizia”. I trenta carcerati coinvolti nel progetto saranno impegnati in laboratori esperienziali della durata di 150 ore relativi alle figure professionali di addetto alla cucina, addetto alla manutenzione del verde, addetto ai servizi di pulizia e addetto ai servizi di segreteria al fine di favorire l’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro e favorirne l’orientamento. Sono previste attività di auto mutuo aiuto con interventi relativi alla conoscenza della lingua italiana per i detenuti stranieri, un laboratorio sulle dipendenze al fine di avere l’opportunità di trovare conforto e supporto per i problemi connessi alla loro situazione attuale e un’attività finalizzata all’educazione alla legalità. Ciascun destinatario del progetto sarà orientato circa le opportunità presenti sul territorio e ai servizi pubblici e del privato sociale che si occupano di protezione, lavoro, casa e accesso alle cure. L’emergenza coronavirus sta facendo venire al pettine tanti nodi irrisolti. Tra questi, quello del sovraffollamento del carcere che, a causa dell’epidemia in corso, potrebbe assumere caratteristiche tragiche. “Una questione molto seria sono le carceri, dove bisognerebbe provvedere alle vaccinazioni in via prioritaria, dichiara il garante, riflettendo sulle implicazioni umane e sociali dell’epidemia - spiega Stefano Anastasia, garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria - Sono sospese le attività formative e la presenza dei volontari, questa situazione aumenta il senso di isolamento e di solitudine. È come se il carcere tornasse indietro, quando era un ‘corpo’ del tutto separato dalla società. Il cronico sovraffollamento degli istituti, l’emergenza sanitaria e l’isolamento dall’esterno imposto per prevenire i contagi, stanno creando grandi difficoltà e sofferenze ai detenuti come agli agenti di polizia Penitenziaria”. Sondrio. Il sacerdote messaggero dei detenuti in carcere di Alessandra Polloni La Provincia di Sondrio, 15 gennaio 2021 Don Mariano è il cappellano del carcere: “Con il Covid non possono vedere nessuno tranne me. “Sono l’unica persona che entra nelle carceri di Sondrio, oltre al personale, lì, in servizio, e mi riferisco a medici, infermieri, agenti di Polizia Penitenziaria. Perché tutto il mondo del volontariato che, normalmente, vi ruota attorno, non ha accesso, causa Covid, e sono sospese o, estremamente, diradate, anche le visite dei famigliari”. Parola di don Mariano Margnelli, cappellano delle carceri di Sondrio dal 1° settembre dello scorso anno, quando è stato nominato nell’incarico su indicazione di don Andrea Salandi, vicario episcopale per la provincia di Sondrio. “Di fatto ho iniziato intorno alla metà del mese di settembre e, il primo giorno, me lo ricorderò per sempre. Ero terrorizzato - assicura don Mariano -. Mi sentivo squadrato da capo e piedi, fino a quando, il primo detenuto, ha rotto il ghiaccio ed è venuto a salutarmi”. Da lì in avanti, è stato un crescendo di tentativi di mettersi a disposizione di tutti coloro che avessero bisogno di ascolto, di confronto, di aiuto, nei limiti del possibile. Attività divenuta, addirittura, fondamentale, in epoca Covid. “Son qui pieno di fogliettini di appunti su quello che devo fare e non devo fare per i detenuti - assicura don Mariano -, perché, anche se la struttura, per grazia ricevuta, è completamente Covid free, il bisogno di confronto è esponenziale e, a mancare, soprattutto, sono i colloqui con i famigliari”. “Tant’è che io sto costantemente al telefono con le mamme per rassicurarle - prosegue il sacerdote. Lunghe telefonate in cui faccio solo in tempo a dire che va tutto bene, dentro il carcere, poi, ascolto loro, che mi raccontano tutte le traversie.”. Ai detenuti, del resto, vengono sottratti i telefonini, ed hanno a disposizione pochissime telefonate da fare alla settimana. Il tutto in base a quanto dispone il giudice nei loro confronti. Hanno una cabina, all’interno, da cui possono chiamare, ma solo determinate persone. “Tanti chiamano le mogli o le fidanzate ed esauriscono, così, il loro ‘gettone di chiamata’ - dice don Mariano -, per cui chiedono a me di rassicurare le madri. Per questo sono qui, carico di foglietti con numeri da chiamare. E, poi, c’è tutto il capitolo dei bisogni di vestiario o di prodotti per l’igiene personale, cui provvedono, solitamente, le dame di San Vincenzo, ma, dato che non possono entrare in carcere, anche qui, faccio da tramite. Per cui, ogni volta che entro, son carico di vestiti, scarpe, asciugamani, shampoo. È una cosa incredibile”. Sembra di vederlo, don Mariano, con borsoni al seguito, modello “venditore ambulante”, pronto a dispensare il “necessaire” ai 30 detenuti ospitati a Sondrio. “Cerco di dar loro una mano a superare il momentaccio del Covid che li taglia fuori ancora di più dal resto del mondo - dice - perché, per loro, sia il fatto di non vedere i famigliari, sia il fatto di non poter uscire a lavorare, almeno chi aveva questa possibilità, o di continuare a fare attività interne, quasi tutte interrotte, come il pastificio per la produzione di prodotti senza glutine, li abbatte completamente. Sì, c’è la palestra, c’è la biblioteca, ma a loro non basta. Hanno bisogno di fare attività lavorativa, almeno un poco”. I doni graditi, carta e francobolli - Ed è così, che, per non pensare, per ammazzare il tempo, scrivono. Fiumi di lettere. “Questo lo possono fare - assicura don Mariano -, tant’è che mi chiedono in continuazione prodotti di cancelleria. Fogli per scrivere, buste, francobolli. È’ una cosa incredibile. A Natale ho portato loro tantissimi bigliettini augurali, che ho ricevuto in dono da volontari, proprio per loro, ed erano felicissimi. Son piccole cose, ma, purtroppo, altro non possiamo fare”. Il rigido protocollo anti Covid, irrobustisce ancor più il “parco regole” in carcere, tant’è che vige l’isolamento di 10 giorni in aree riservate per tutti i detenuti al primo ingresso o di rientro da permessi premio. Don Mariano entra in carcere quattro giorni a settimana, per due ore al giorno, il mercoledì, il giovedì, il venerdì e la domenica per la Messa. E c’è sempre la fila per andare a parlargli, in cappellina. “C’era già prima, ma, ora che col Covid vedono solo me - assicura - è quasi una processione”. Treviso. Carcere minorile di Santa Bona, la Cgil: “Un educatore in meno, non si regge” trevisotoday.it, 15 gennaio 2021 Marta Casarin, segretaria generale della Funzione Pubblica Cgil di Treviso denuncia una grave situazione organizzativa e pesanti carichi di lavoro all’interno del carcere di Treviso. “Grande preoccupazione per la situazione dell’area pedagogica nel carcere minorile di Santa Bona, dove a breve verrà a mancare un altro educatore, con ulteriore e ormai insostenibile aggravio dei carichi di lavoro per il resto del personale in servizio”. La denuncia arriva da Marta Casarin, segretaria generale della Funzione pubblica Cgil di Treviso. “Il carcere minorile di Treviso resterà presto con solo due educatori. Ci risulta, infatti, che la direzione dell’istituto dovrebbe essere affidata a un educatore oggi in forza all’area pedagogica - prosegue Casarin - L’amministrazione centrale ha deciso di congedare il direttore del carcere minorile di Treviso che, seppur in una posizione di distacco da diversi anni, per il profilo rivestito era comunque la figura più autorevole e competente a gestire una realtà penitenziaria non semplice, che lo stesso dipartimento, quest’anno, aveva inserito tra gli istituti di media complessità gestionale. L’area pedagogica - sottolinea Casarin - era già stata sottodimensionata e i professionisti che vi operano sono gravati da incarichi di direzione e responsabilità. Una scelta incomprensibile scelta, presa dunque in un già più che difficile quadro organizzativo causa emergenza sanitaria. Carcere minorile di Santa Bona: “Un educatore in meno, non si regge” Dopo decenni di lavoro educativo svolti dall’Ipm nel costruire progetti di rilievo nazionale in ambito scolastico, socio-sanitario e con il terzo settore, una scelta - rincara la sindacalista - che è indicativa della scarsa attenzione proprio verso il personale pedagogico rimasto in organico che, di fronte a questa difficile condizione non può far altro che rimettere tutti gli incarichi chiedendo il distacco ad altri uffici. La solidità del lavoro di questi professionisti - tiene a puntualizzare la Casarin - è dimostrata dal fatto che anche durante la fase più critica della pandemia, l’area educativa è riuscita a mantenere un legame tra i ragazzi detenuti e la rete educativa esterna, che non ha fatto mancare il suo appoggio. Pertanto - conclude - chiediamo al Dipartimento di rivedere questa scelta che a nostro giudizio mortifica la professionalità e il lavoro dei funzionari pedagogici”. Una patologia sociale senza vaccino di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 15 gennaio 2021 Nonostante tutto molti repubblicani Usa sono ancora con Trump. E un numero crescente di cittadini, nel mondo, non si fida delle istituzioni, della politica, della stampa, neanche delle Ong. Marjorie Taylor Greene, appena entrata in Congresso come deputata dell’ala trumpiana più radicale, quella delle teorie cospirative QAnon, è scatenata: riecheggiando vecchi slogan del suo presidente afferma che “i democratici sono i nemici del popolo”, giudica la messa in stato d’accusa di Trump un atto violento e annuncia che il 21 gennaio, dopo il suo insediamento, chiederà alla Camera l’impeachment di Joe Biden. L’ultima giapponese nella giungla, che oltre a non conoscere leggi e procedure parlamentari, non ha capito che il vento è cambiato, visto che oggi anche Trump invita alla calma, parla di pacificazione e riunificazione del Paese? I sostenitori di tesi estreme esisteranno sempre, e Marjorie non farà molti proseliti tra i parlamentari del suo partito. Ma la sua posizione estrema, un invito alla rivolta contro la nuova presidenza mentre il mondo è ancora sotto lo choc dell’assalto al tempio della democrazia americana, è così isolata? Ne dubito e non solo perché l’improvvisa moderazione di Trump è più apparente che reale: nei comizi della recente campagna senatoriale in Georgia i due candidati repubblicani, David Perdue e Kelly Loeffler, sono stati accolti con applausi cortesi, mentre l’entusiasmo è esploso quando sul palco è salita Marjorie. I sondaggi parlano chiaro: quello di ieri di Ipsos-Axios dice che, nonostante tutto quello che è successo e si è visto, il 64% dei repubblicani approva i comportamenti di Trump degli ultimi giorni e il 57% vuole lui come candidato della destra nel 2024. Quella di decine di milioni di persone che ormai credono alle teorie cospirative più che alla realtà verificabile dei fatti è una grande tragedia americana. Solo americana? Sempre ieri Edelman, gigante mondiale della consulenza, ha diffuso il suo barometro annuale sulla fiducia: un sondaggio tra decine di migliaia di cittadini di 28 Paesi. Emerge un quadro deprimente: non solo la fiducia nelle istituzioni, la politica, la stampa, perfino le Ong, continua a essere in caduta libera, ma per un numero crescente di cittadini i governi non sono l’autorità riconosciuta ma la principale fonte di disinformazione. Meglio gli amministratori delegati delle grandi imprese che almeno sanno come risolvere i problemi. Secondo Edelman imperversa una patologia sociale per la quale, a differenza del coronavirus, non c’è vaccino. Scuola, manca una regia. Studenti e prof ostaggio dell’incertezza di Gianna Fregonara Corriere della Sera, 15 gennaio 2021 Dopo le decisioni del Tar, ancora confusione sui rientri in classe. La protesta degli studenti. Il timore che sia una falsa partenza. Non potevano mancare anche un paio di decisioni dei Tar nel garbuglio della riapertura delle scuole. Almeno ora però, gli studenti lombardi qualche certezza in più rispetto ai loro coetanei delle altre parti d’Italia ce l’hanno. A stabilire se lunedì torneranno sui banchi lo deciderà l’ormai popolare indice Rt che sarà annunciato oggi. Fine dello scontro tra governo e Regione, tra genitori e governatore: saranno i numeri a fissare i paletti per le prossime settimane. In Sicilia invece i giudici amministrativi hanno dato ragione e torto insieme alla Regione, che ha chiuso le scuole superiori fino all’inizio di febbraio. A Bari la decisione sulle scuole è da settimane nelle mani dei genitori che hanno avuto la scelta di tenere a casa in Dad o mandare in classe i loro figli più piccoli: non è, dicono i giudici, una violazione del diritto allo studio. Bandiera bianca - È invece la fotografia più nitida di una politica e di un’amministrazione che in questi mesi, dopo aver fatto una gran confusione, hanno alzato bandiera bianca: per trovare una soluzione per gli studenti si sono esercitati un po’ tutti, con l’eccezione degli esperti di didattica. Sono intervenuti ministri, Regioni, sindaci, persino i prefetti e poi medici, virologi ed esperti di pandemia. Senza avere però quella regia unitaria che serve a governare le emergenze e a indicare il percorso. Ancora ieri sera, presidi professori e studenti che lunedì dovrebbero tornare in classe - oltre cinquecentomila - non avevano idea di che cosa si stava decidendo sul loro futuro prossimo. Ostaggi - In questa incertezza la scuola è rimasta ostaggio dello scontro nel governo tra l’ala della massima cautela (Pd e Leu) che ha fatto pressione per chiudere e tenere chiuse le scuole superiori e la ministra Lucia Azzolina che, dopo essere stata molto prudente la scorsa primavera, si è poi battuta per le lezioni in presenza l’autunno scorso, ma senza provare davvero a costruire un consenso sulle sue idee nella maggioranza, con le Regioni e nel mondo della scuola, e costretta ad arretrare ad ogni decisione. La lezione scordata - Purtroppo la lezione della scorsa primavera non è servita a molto: l’Italia è stato uno dei pochissimi Paesi che non era riuscito a riaprire le scuole prima della fine dell’anno scolastico. Ma a novembre è stata uno dei primi a sacrificare le lezioni in presenza per gli adolescenti, senza riflette su quello che era successo. È da settembre che le scuole superiori sono in balia degli eventi: il governo era riuscito a garantire le lezioni in classe per i bambini delle elementari e i ragazzini delle medie. Ma per le superiori, che sono le più affollate, il lavoro con Regioni ed enti locali non aveva funzionato e la soluzione della didattica mista, un po’ in classe un po’ a casa, era già una realtà in molte scuole. Ora, dopo due mesi di lezioni davanti al computer, tre rinvii decisi all’ultimo minuto, il dietrofront delle Regioni, gli allarmi dei medici, i contagi che non scendono come si sperava, i dati che si accavallano, la soluzione offerta ai ragazzi è quella di una scuola dimezzata. Si tornerà, meno male. Ma solo per la metà delle lezioni o forse un po’ di più, con gli scaglionamenti che non piacciono ai prof e neppure troppo ai ragazzi. Non c’è da stupirsi che gli studenti stiano organizzando un nuovo sciopero per lunedì. Una scuola così sarà davvero più efficace della Dad? C’è da sperare che funzioni comunque, che gli studenti deboli non si perdano nel dedalo delle nuove regole, che non sia di nuovo una falsa partenza. Egitto. Al Sisi rimuove il generale sotto accusa per la morte di Regeni di Francesca Caferri La Repubblica, 15 gennaio 2021 Tareq Saber è il più alto in grado fra i quattro ufficiali indagati: ora si occuperà di carte d’identità. Coinvolto anche nel caso Zaky. L’uomo più temuto dalla società civile egiziana è uscito di scena. Il generale Tareq Ali Saber della National Security Agency (il servizio segreto interno) è stato rimosso due giorni fa dal suo incarico di capo dell’ufficio incaricato di monitorare ong, sindacati e organizzazioni politiche. Non si tratta di un avvicendamento qualunque: Saber è l’ufficiale più alto in grado fra quelli messi sotto accusa dalla Procura di Roma nell’abito dell’inchiesta per il rapimento e l’omicidio di Giulio Regeni. È a lui che arriva la denuncia del capo del sindacato ambulanti Mohammed Abdallah sulle presunte attività sospette di Giulio e lui a deciderne la sorveglianza, l’arresto e in definitiva la tortura e la morte. Benché non si possa ufficialmente parlare di una rimozione - non c’è perdita di grado - di fatto lo è: Saber, 56 anni, sarà responsabile dell’ufficio che si occupa di emettere certificati di nascita e carte di identità. Lontano dalla catena di comando che risponde al presidente Abdel Fatah Al Sisi, dove finora aveva un ruolo di primo piano. A portare allo spostamento, una serie di decisioni che hanno creato ad Al Sisi più di un problema. La morte di Regeni prima di tutto. E, più recentemente, gli arresti dei tre dirigenti dell’Egyptian initiative for human righst (Eipr) l’ong con cui collaborava Patrick Zaky: fu Saber a ordinare a novembre il fermo di Mohammed Basheer, Karim Ennarah e Gasser Abdel Razek per mettere a tacere la società civile alla vigilia del cambio di presidenza negli Stati Uniti, in previsione di un ritorno al centro della scena della questione diritti umani. “Possiamo reggere alla pressione che ne verrà”, disse Saber ai suoi. Si sbagliava: due ore dopo l’ultimo fermo, al ministro degli Esteri Sameh Shoukry arrivava una lettera di 19 ambasciatori occidentali - fra cui l’italiano Giampaolo Cantini, che firmò soltanto a patto che rimanesse riservata - per chiedere una risoluzione della vicenda. L’inizio di una crisi che sarebbe durata due settimane, con articoli sui principali giornali del mondo, l’intervento dell’Onu e di diversi governi europei. E che - nonostante il rilascio dei tre - avrebbe travolto Al Sisi durante la visita di Stato in Francia. Di lì, la scelta del trasferimento. Saber è coinvolto anche nel caso di Zaky, il ricercatore dell’università di Bologna arrestato al Cairo quasi un anno fa. Il 7 marzo fu contattato da una persona che segue il caso con un messaggio: Patrick è un ricercatore, come Regeni. Se non verrà rilasciato i problemi cresceranno, perché in Italia non verrà dimenticato. Saber garantì che si sarebbe occupato della vicenda: ma poi scomparve. Se la sua sostituzione rappresenterà una svolta per Zaky è da vedere: fra due giorni il ricercatore sarà davanti ai giudici. Ma i legali non si fanno illusioni: se pure dovesse esserci un gesto di clemenza, è difficile che arrivi prima del 25 gennaio, anniversario della rivolta di piazza Tahir, quando la pressione è massima per il timore che la protesta si riaccenda. Il 25 gennaio 2016, nella rete cadde Giulio Regeni: e questo il generale lo sa bene. Colombia. Sei mesi senza Mario Paciolla e senza giustizia di Simone Scaffidi Il Manifesto, 15 gennaio 2021 Il ricordo degli amici del volontario Onu morto in circostanze ancora da chiarire il 15 giugno scorso a San Vicente del Caguán. E il loro impegno per la ricerca della verità. “Said era in grado di immaginare un mondo in cui l’eredità del colonialismo potrebbe finire e un rapporto di uguaglianza nella differenza potrebbe prendere il suo posto nelle terre della Palestina. Capiva che il lavoro dell’immaginazione è centrale per la politica, senza una visione “irrealistica” del futuro, non si potrebbe fare alcun movimento nella direzione di una pace fondata su una giusta e duratura soluzione”. Con queste parole la filosofa Judith Butler racconta Edward Said, autore di Orientalismo e uno dei maggiori critici dello sguardo colonialista nella cultura occidentale. Mario Paciolla deve aver letto Said o perlomeno deve essere entrato in contatto con il suo pensiero se a Ramallah, come ricorda Alessia Carnevale, amica e collega, le chiede di fargli una foto con il suo idolo. “Fammi una foto con Edward Said!”, Mario sorride e alza gli indici al cielo a indicare il cartello che recita “Edward Said Street”. Alessia scatta, è il 2015, e oggi, cinque anni dopo, partendo da quella foto, ricorda: “Mario, ogni volta che esprimevo preoccupazioni per il mio, per il nostro futuro, incerto, precario, mi rassicurava dicendo che stavamo percorrendo una strada, e il percorso si sarebbe fatto da sé, si sarebbe sciolto davanti ai nostri passi, camminando”. “Mario si era impegnato in progetti sociali in Giordania, in India, a Palermo, in Argentina e stava lavorando in Colombia da quattro anni” ricordano Davide Del Prete e Simone Campora, amici di Mario e fra gli animatori del comitato informale Giustizia per Mario Paciolla. “Aveva una professionalità e un’esperienza solida, questo deve essere raccontato”. Stava lavorando con la Missione Onu di Verifica degli Accordi di Pace quando il 15 giugno è stato ritrovato impiccato nella sua casa di San Vicente del Caguán in circostanze ancora da chiarire. All’indomani della morte violenta di Mario Paciolla gli amici e le amiche si sono organizzate per mantenere viva la sua memoria e rendere pubblica la sua storia. È stata celebrata una commemorazione pubblica che ha visto la presenza e l’impegno nella ricerca della verità del presidente della Camera, il ministro degli Esteri e il sindaco della città di Napoli. Hanno organizzato “vere e proprie assemblee popolari partecipate”, come racconta Davide Del Prete, “ci ospitava l’ex Asilo Filangieri, purtroppo dopo l’estate a causa della pandemia ma anche per il fatto che non potessero uscire nuove informazioni per il segreto istruttorio, si sono fermate”. Dal comitato informale Giustizia per Mario Paciolla sono state attivate anche piattaforme social, facebook, twitter e instagram per ricordare Mario, è stata lanciata una petizione su Change.org e un sito internet dove si raccolgono alcuni articoli scritti in diverse lingue sulla vicenda giudiziaria. Quel lavoro di immaginazione necessario per trasformare il presente, quell’utopia della pace evocata da Butler in relazione al pensiero di Said, sembra essere stata, leggendo gli articoli di Mario e ascoltando le voci di chi lo ha conosciuto, una componente centrale del suo percorso professionale. “È stato un amico, una persona importante che ci è stata vicino e per questo continua a remare con noi” ricorda Carlos Aries García, coordinatore dell’agenzia turistica Caguán Expeditions formata da ex guerriglieri e membri delle comunità locali, in occasione del festival Remare per la Pace, uno dei progetti a cui Mario Paciolla ha collaborato durante il suo incarico presso la Missione Onu di Verifica degli Accordi di Pace in Colombia. Il Festival è stato raccontato dal servizio di Valerio Cataldi, mandato in onda da Rai News il 18 dicembre 2020, nel quale riemergono le contraddizioni che avvolgono le indagini parallele svolte alle autorità colombiane e dalla Procura di Roma e i risultati potenzialmente discordanti delle autopsie svolte in Colombia e in Italia ancora protetti dal segreto istruttorio. Viene inoltre confermato il silenzio dell’Onu, la preoccupazione dei colleghi di Mario e si segnala la rapidità con la quale le Nazioni unite hanno classificato come suicidio la morte del lavoratore italiano nonostante siano ancora in corso le indagini per omicidio. Sono passati sei mesi dalla morte violenta di Mario Paciolla, la famiglia e gli amici, in attesa dei riscontri giudiziari, continuano ad alimentarne la memoria anche attraverso ricordi che possono farci comprendere meglio quella strada, evocata dall’amica Alessia Carnevale, che ha portato Mario fino in Colombia. In un video risalente al 2008, incluso nella campagna Outing Civile lanciata da Sabina Guzzanti, Mario appena ventenne recita una poesia, citando “nu car compagn nuost”, Massimo Troisi, capace con la sua ironia dissacrante di sfidare anche la morte. Mario conclude la poesia con un invito alla vita e alla resistenza: “Student ‘e Napoli, assieme ‘e frat ro’ stival: Primm ‘e murì vulimm campà”. Stati Uniti. Lisa Montgomery a morte in fretta e furia perché rischiava di salvarsi di Sergio D’Elia e Valerio Fioravanti* Il Riformista, 15 gennaio 2021 Giustiziata quando il mandato di esecuzione era già scaduto, quello successivo è stato emesso senza rispettare il termine di venti giorni che avrebbe permesso a Biden di fermare il boia Lisa Montgomery è stata giustiziata tramite iniezione letale nel carcere federale di Terre Haute, nell’Indiana. Dopo un rinvio deciso da un giudice federale che aveva disposto una perizia sulla sua condizione mentale, il via libera all’esecuzione è arrivato in fretta e furia dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, dove i giudici conservatori sono attualmente in forte maggioranza. Lisa doveva essere uccisa martedì 12 gennaio. Invece risulta morta mercoledì 13 gennaio all’1.31 del mattino ora locale, un paio d’ore dopo la decisione della Corte Suprema. L’orario in cui è stato certificato il decesso lascia capire che è successo qualcosa di strano. I mandati di esecuzione scadono alla mezzanotte del giorno previsto e, secondo un giudice federale, scaduto un mandato, quello nuovo non può essere emesso prima di venti giorni. Nel caso di Lisa forse lo hanno emesso in venti minuti. Se avessero rispettato la regola dei venti giorni, Lisa avrebbe guadagnato tempo, un tempo utile al nuovo Presidente per porre fine - come promesso - alla pratica arcaica della pena capitale federale. Gli esecutori materiali dell’iniezione letale sono coperti da un velo di segretezza. È noto che, dopo il contagio che ha colpito almeno 8 membri dello staff che avevano partecipato alle esecuzioni di Orlando Hall il 19 novembre scorso, il Governo ha assunto alcuni appaltatori privati per portare a termine il piano di esecuzioni programmate. Il Governo non ha rivelato chi sono gli appaltatori o perché li ha assunti. Ma dai documenti del tribunale si è appreso che “alcuni membri dello staff di esecuzione provenivano da altre strutture federali”. La frase è ambigua e sembra voler dire che, su base volontaria o dietro il semplice pagamento di una diaria e di alcune ore di straordinario, erano stati convocati per le varie esecuzioni agenti provenienti da altre carceri federali. ProPublica, che si autodefinisce “testata giornalistica non-profit che investiga gli abusi del potere”, ha usato invece per questo personale il termine più suggestivo di “contractors”. Uno degli scandali dell’amministrazione Trump, ad esempio, è che il Presidente abbia rinnovato tutti i contratti in scadenza delle carceri federali per altri 10 anni, legando così le mani a Biden che diceva di volerli dismettere. I “contractors” quindi potrebbero anche essere agenti provenienti dalle carceri private. Ma “contractors” potrebbe avere un significato ancora più preoccupante. Trump ha nel suo Governo una donna, Betsy De Vos, Segretario di Stato all’Educazione, il cui fratello è il fondatore di Blackwater, e i “contractors” di Blackwater sono veri e propri “mercenari” che operano nei principali teatri di guerra in cui sono impegnati gli Stati Uniti. È indicativo del suo modo d’essere che l’unico momento di pietà che il Presidente dell’occhio per occhio l’abbia manifestato nei confronti proprio di quattro contractors di Blackwater condannati per aver massacrato 14 civili in Iraq e graziati a dicembre, a un mese dalla fine del suo mandato. Anche se non si riesce a determinare con chiarezza chi siano questi “appaltatori esterni” e quale tipo di contratto “a progetto” li leghi all’Amministrazione Trump, resta il fatto che il piano di esecuzioni a Terre Haute è andato avanti grazie alla disponibilità di “boia” privati che il governo ha assunto allo scopo e che hanno presumibilmente dovuto rivedere l’agenda dei loro fitti impegni familiari e di lavoro ordinario per far fronte allo straordinario di mandare i condannati all’altro mondo. Gli stessi avvocati del Dipartimento di Giustizia hanno incredibilmente sostenuto in tribunale che l’inconveniente di riprogrammare questi appaltatori privati avrebbe “danneggiato irreparabilmente” il Governo. Evidentemente, più di quanto i prigionieri sarebbero stati irreparabilmente danneggiati dalla morte di Stato tramite iniezione letale. Quando la procedura di esecuzione è iniziata, una donna dello staff si è sporta su Lisa Montgomery, ha rimosso delicatamente la mascherina anticovid dal volto della donna e le ha chiesto se voleva fare un’ultima dichiarazione. “No,” ha risposto Lisa con voce calma e soffocata. Non ha detto altro. Il suo difensore, Kelley Henry, ha espresso la sua delusione per gli eventi della giornata e nei confronti di un Governo che ha violato la Costituzione, la legge federale e il proprio regolamento pur di raggiungere il suo scopo mortale. “La vile sete di sangue di un’amministrazione fallita stasera era in piena mostra. Tutti coloro che hanno partecipato all’esecuzione di Lisa Montgomery dovrebbero provare vergogna”, ha detto in una dichiarazione resa dopo la mezzanotte. È il modo triste e crudele con il quale Trump ha deciso di uscire di scena. Speriamo che questo tramonto segni la fine di un modo di pensare, di sentire e di fare la giustizia, il superamento della logica rettiliana, reazionaria, primordiale del delitto e del castigo, della violenza da contrastare con violenza, del male da riparare con un male di ugual misura. *Associazione Nessuno Tocchi Caino Stati Uniti. Ex narcotrafficante giustiziato nonostante avesse il Covid La Repubblica, 15 gennaio 2021 Corey Johnson ha ricevuto un’iniezione letale: un giudice aveva sospeso la condanna, spiegando che viste le cattive condizioni dei polmoni, l’uomo sarebbe stato sottoposto a una sofferenza maggiore. Ma la sentenza è stata ribaltata. Un ex narcotrafficante condannato a morte per il suo coinvolgimento in 10 omicidi, Corey Johnson, è stato giustiziato ieri negli Stati Uniti nonostante fosse malato di Covid-19. Lo riportano i media americani. Un tribunale aveva sospeso l’esecuzione di Johnson e di un altro condannato a morte, Dustin Higgs, proprio perché entrambi avevano contratto il coronavirus, ma una corte d’appello federale ha revocato lo stop mercoledì e la Corte Suprema ha dato il via libera all’esecuzione di Johnson ieri. L’uomo, un afroamericano di 52 anni membro di una gang responsabile di 10 omicidi nel 1992 nello Stato della Virginia, è stato giustiziato ieri sera con un’iniezione letale nel carcere di Terre Haute, in Indiana. “Avrei voluto chiedere scusa prima, ma non sapevo come”, sono state le ultime parole di Johnson rivolte ai familiari delle sue vittime, “spero troverete pace”. Per oggi, è in programma l’esecuzione del 48enne Dustin Higgs, condannato per il rapimento e l’uccisione di tre giovani donne vicino a Washington, nel 1996. Anche lui è positivo al Covid-19. Per il fatto che a causa delle condizioni dei polmoni dei due l’iniezione letale avrebbe potuto causare loro sofferenze proibiti dalla Costituzione, un giudice, martedì, aveva posticipato la loro esecuzione di alcune settimane. Un tribunale d’appello, però, ha ribaltato il verdetto e la Corte Suprema ha deciso per l’esecuzione questa settimana. Qualche giorno fa era stata messa a morte Lisa Montgomery, nella prima condanna federale di una donna avvenuta in 70 anni. Tunisia, una rivoluzione in quarantena di Arianna Poletti Il Manifesto, 15 gennaio 2021 Il 14 gennaio 2011 Ben Ali lasciava Tunisi per fuggire in Arabia Saudita. Dieci anni dopo, la Tunisia non può festeggiare l’anniversario della sua rivoluzione. Più di duemila persone si sarebbero dovute riunire ieri in Avenue Bourguiba per commemorare la caduta della dittatura, ma un annuncio imprevisto del ministro della Sanità le ha costrette a rinunciare alla manifestazione che ogni anno si tiene lungo la via principale di Tunisi. Proprio a partire da questo 14 gennaio, per un periodo di soli quattro giorni, nel paese è tornato il lockdown a causa di un nuovo aumento dei casi di Covid-19 (più di 3500 nelle ultime 24 ore). Una scelta che fa storcere il naso ai pochi passanti che si incontrano per le vie centrali della capitale. Se per qualcuno “la rivoluzione si può festeggiare a casa quando la situazione sanitaria nel paese si aggrava di ora in ora”, altri interpretano in maniera diversa la decisione del governo. “Fino a ieri non è stato fatto nulla per prevenire l’aumento dei contagi. Questa scelta è politica”, sostiene Hishem, che era in piazza nel 2011, mentre insacchetta la spesa poco prima del coprifuoco, anticipato dalle 20h alle 16h. Per lui la rivoluzione continua: “Il braccio di ferro tra popolo e polizia non è ancora finito, e lo vediamo oggi”. Nonostante il lockdown, mercati e supermercati della capitale restano aperti, come la maggior parte degli uffici. Qualche bar serve il caffè di nascosto, tram e taxi circolano normalmente in città. Ma più ci si avvicina ad Avenue Bourguiba, più i posti di blocco della polizia aumentano. Gli striscioni sono rari, qualcuno si affaccia alla finestra per scattare una foto. Il viale simbolo della rivoluzione del 2011 ieri era è vuoto, silenzioso, inaccessibile. Come non lo si vedeva da dieci anni. Il contrasto tra le immagini di quel 14 gennaio 2011 - quando la folla gridava “dégage” (vattene) di fronte alla sede del Ministero dell’Interno, emblema dell’apparato repressivo - e quelle del 14 gennaio 2021 fa discutere sui social, unico spazio di confronto per la società civile in questa giornata di festa nazionale. Per strada, nessuno ha il diritto di oltrepassare le recinzioni che circondano Avenue Bourguiba senza un’autorizzazione del ministero dell’Interno. Nemmeno l’unico gruppo di manifestanti che osa sfidare le direttive del governo Mechichi, il gruppo dei martiri e dei feriti della rivoluzione, respinti con violenza dalle forze dell’ordine dopo aver tentato di oltrepassare un posto di blocco. Dal 17 dicembre, le famiglie delle vittime della repressione nel 2011 occupano la sede dell’Autorità generale dei combattenti della resistenza, dei martiri e dei feriti della rivoluzione e degli attacchi terroristici tentando di attirare l’attenzione del governo sulla propria sorte. Chiedono l’applicazione delle raccomandazioni pubblicate dal Comitato superiore per i diritti umani e le libertà fondamentali e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della lista definitiva delle vittime di gennaio 2011. Questa garantirebbe loro cure mediche, un sussidio economico e, non meno importante, un riconoscimento simbolico del proprio sacrificio. La lista è pronta e include i nomi di più di 600 persone tra morti e feriti, ma il governo tunisino continua a ritardarne la pubblicazione, rimandata ieri al 20 marzo 2021. Riconoscere ufficialmente le responsabilità morali e giuridiche dell’apparato di repressione statale rimane una questione politica in un paese in piena transizione democratica, dove l’apparato di polizia è ancora molto influente. Proprio in rispetto delle vittime della rivoluzione, l’attivista volto delle proteste Lina Ben Mhenni, deceduta nel 2020, rifiutava l’attributo floreale di “rivoluzione dei gelsomini”. Ma chi racconta la propria esperienza di ieri non può fare a meno di ricordare quella di oggi. La Tunisia affronta la peggiore crisi economica dai tempi della sua indipendenza nel 1956. “Dove sono oggi il lavoro, la dignità, la libertà?”, si interroga un partecipante al sit-in dei martiri e dei feriti di fronte alle telecamere delle televisioni locali, ricordando il celebre slogan della rivoluzione tunisina. Le stesse richieste delle rivolte di allora, cominciate con l’immolazione di Mohamed Bouazizi a Sidi Bouzid, le ritroviamo oggi sugli striscioni dei manifestanti che da mesi scendono in piazza in tutto il paese, da sud a nord, scandendo: “thawra mustamirra”, la rivoluzione continua. Il Forum tunisino per i Diritti economici e sociali (Ftdes), una delle principali organizzazioni della società civile, ha contato 8.759 movimenti di protesta nel 2020, più di 1000 solo a dicembre. Secondo l’ultimo comunicato dell’associazione “una vera transizione democratica coerente con le aspirazioni popolari e le conquiste costituzionali raggiunte richiede la garanzia di nuove politiche pubbliche, basate su più giustizia sociale e dignità per tutti i tunisini e capaci di rompere con un modello economico che svuota del suo contenuto ogni richiesta di maggior sviluppo nel paese”.