Covid in carcere: aumentano i casi, piano vaccinale solo per il personale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 gennaio 2021 Per contrastare il Covid in carcere il Dap ha diffuso ieri la circolare con i moduli di adesione solo per il personale penitenziario. Il presidente del Consiglio Conte ha detto che era tutto sotto controllo per il Covid in carcere, forte dei dati dei contagi che fisiologicamente erano scesi in carcere. Ma come Il Dubbio ha più volte scritto, c’era il rischio che potesse ripetersi ciò che è avvenuto alla fine della prima ondata: la quiete prima della tempesta. Gli ultimi dati sul Covid in carcere ci dicono che i contagi sono di nuovo in risalita. A darne per prima la notizia è Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, che ammonisce: “Non è il momento di abbassare la guardia e, anzi, è ancora più attuale l’urgenza di interventi governativi che muovano in più direzioni: da un lato, verso il deflazionamento della densità detentiva, il rafforzamento della Polizia penitenziaria, di cui vanno migliorati anche gli equipaggiamenti, e il potenziamento del servizio sanitario reso in carcere; dall’altro, mirando alla messa in campo di una campagna vaccinale, che riguardi operatori e detenuti, con adeguati criteri di priorità contemperati con le esigenze complessive del Paese, ma che tengano conto della promiscuità delle nostre carceri, fatte anche di sovraffollamento, carenze strutturali e deficienze organizzative”. Circolare del Dap: piano vaccinale solo per il personale - Il Dap ha accolto l’allarme lanciato dalla Uilpa sul Covid in carcere. Ma in parte. Sì, perché ha avviato il piano vaccinale esclusivamente per il personale penitenziario. Tramite circolare, ieri ha diffuso i moduli di adesione che dovrà essere compilato dagli agenti penitenziari, entro e non oltre il 28 gennaio. L’adesione preliminare non è vincolante, ma revocabile in qualsiasi momento. Per i detenuti, ancora nulla. Ma veniamo ai dati del Covid in carcere. Alle ore 20.00 di lunedì risultano 624 i casi di positività al coronavirus fra i detenuti e ben 709 fra gli operatori (fra i quali non vengono più ricompresi i sanitari). Ricordiamo che quattro giorni prima, il 7 gennaio scorso, erano 556 i detenuti e 688 gli operatori affetti da SARS-CoV-2. Allo sato attuale preoccupano gli istituti penitenziari di Sulmona (52 casi), Napoli Secondigliano (47), Roma Rebibbia (32), Roma Regina Coeli (36), Vicenza (35), Lanciano (31), Venezia SMM (20), Vigevano (16), Bergamo (17), Trento (12), Belluno (10) e Lucera (10). A Lanciano è morto per Covid un agente penitenziario - Proprio lunedì, fa sapere sempre il sindacalista De Fazio, Covid in carcere ha fatto un’altra vittima fra gli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria, togliendo all’affetto dei suoi cari e dei colleghi un Vice Ispettore in servizio presso la Casa Circondariale di Lanciano. A Rebibbia, grazie alle visite effettuate dalla garante Gabriella Stramaccioni, ha potuto constatare che in realtà i casi di contagio sono saliti a 34, di cui 5 ricoverati in ospedale. La garante spiega che da qualche giorno, alcuni detenuti hanno iniziato lo sciopero della fame e questa mattina hanno iniziato a danneggiare le loro stanze detentive. “Ci abbiamo parlato (attraverso la porta) - spiega la Stramaccioni - e la direttrice ed il medico hanno assicurato un intervento di rafforzamento per permettere loro di superare questa fase così difficile in una modalità più umana rispetto la attuale”. Rita Bernardini ha ripreso lo sciopero della fame dal 7 gennaio - Il tutto avviene quando il decreto Ristori non ha avuto una modifica significativa, senza misure deflattive efficaci. Per questo motivo, oltre alla promessa mancata di Conte, c’è l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini che dal 7 gennaio ha ripreso lo sciopero della fame. Ricordiamo che precedentemente ha intrapreso l’azione nonviolenta per ben 35 giorni. Interrotta dopo che il presidente del Consiglio l’ha ricevuta a Palazzo Chigi promettendole che si sarebbe attivato per sensibilizzare il ministro della giustizia sul tema. Salvo poi dire, durante la conferenza di fine anno, che tutto era sotto controllo in carcere e che lo ha visto con i propri occhi dopo una visita di una sola ora nel carcere romano di Regina Coeli. L’esponente radicale, assieme a centinaia di giuristi e intellettuali, chiede amnistia, indulto, liberazione anticipata speciale (proposta di legge del Partito Radicale e di Nessuno tocchi Caino presentata da Roberto Giachetti anche sotto forma di emendamento al “Decreto Legge Ristori”). Modifiche sostanziali del decreto Ristori che, purtroppo, una volta convertito in legge, è rimasto così com’è, salvo posticipare di un altro mese le misure esistenti e poco efficaci. Ma perché bisogna ridurre la popolazione penitenziaria? In realtà questo dovrebbe avvenire già in condizioni normali, figuriamoci durante la pandemia. Bisogna garantire stanze libere nelle carceri per attivare l’isolamento sanitario, distanziamento fisico e assistenza sanitaria. Il sovraffollamento rende di difficile attuazione tutto ciò. Ma l’incertezza sulle misure operative, la comunicazione da parte delle autorità che dipinge una situazione idilliaca, potrebbe di nuovo creare tensione all’interno delle carceri. Ricordiamo ciò che è accaduto a marzo scorso: eventi drammatici, con morti e feriti in numerosi istituti penitenziari, dal Nord al Sud della Penisola. Hanno tentato di nascondere il disagio parlando di regia mafiosa, mentre in realtà - come scrisse il magistrato di sorveglianza e presidente di Magistratura Democratica Riccardo De Vito - “l’emergenza sanitaria ha scoperchiato una pentola che era già in ebollizione, lasciando in superficie tutta la drammaticità di una situazione carceraria, ormai al collasso”. Bambini in carcere con le madri: liberi solo a sei anni di Laura Fazzini osservatoriodiritti.it, 14 gennaio 2021 Le associazioni chiedono urgenti correzioni alla legge che permette ai bambini di restare in carcere con le mamme fino a 6 anni d’età. L’accesso alle case famiglia protette è troppo limitato, mentre gli istituti a custodia attenuata sono troppo usati. E a rimetterci sono i bambini, privati della libertà nel loro percorso di crescita. Diverse associazioni che si occupano di carcere domandano di cambiare la legge 62 del 2011: nata con l’intenzione di far uscire i bambini dagli Istituti di pena femminili promuovendo sei Istituti a custodia attenuata per madri (Icam), la norma ha finito per raddoppiare la carcerazione dei più piccoli, che possono stare in queste strutture fino a 6 anni d’età, contro i 3 previsti in precedenza. La legge 62 del 2011, infatti, sostituiva alcuni articoli del codice penitenziario e del codice di procedura penale, dedicati alla vita intramuraria delle madri e dei figli. Lo scopo era quello di spingere per gli arresti domiciliari e la creazione di case famiglia protette, dove alloggiare le detenute con figli e vedere il carcere come estrema ratio. Una legge voluta anche da alcune associazioni del terzo settore. Ma nonostante le premesse e i principi che l’hanno positivamente ispirata, la norma sembra contenere alcune storture. Non elimina la carcerazione dei bambini, come detto, perché si fa un ricorso frequente agli Istituti a custodia attenuata per madri, dimenticando che si tratta comunque di una forma di detenzione. E allungando così di fatto l’età fino a 6 anni d’età. E l’accesso alle case famiglia protette è molto limitato, perché gli oneri di spesa finora non sono stati a carico dallo Stato. “La nostra prima richiesta è quella che sia il ministero della Giustizia a pagare per le casa famiglia”, dice a Osservatorio Diritti Gustavo Imbellone, dell’associazione A Roma insieme. Cosa che dovrebbe comunque avvenire già da quest’anno, visto che un emendamento all’ultima legge di bilancio prevede uno stanziamento per il 2021, 2022 e 2023. Nella sezione femminile del carcere di Rebibbia esiste un nido dove vivono circa 6 bambini all’anno. “Un secondo punto a sfavore di questa legge è il percorso che questi piccoli carcerati devono fare dentro le mura. Chiediamo con forza che escano per andare a vedere spazi senza sbarre”, continua Imbellone. “L’accompagnamento dei bambini all’esterno non dev’essere solo costituito dal volontariato, ci vuole un servizio che venga istituzionalizzato dal ministero, perché se i volontari rimangono a stretto contatto con bambini e madri, poi non possono essere esclusi da qualsiasi riflessione sui loro bisogni, mentre l’istituzione potrebbe non volerne accogliere il pensiero. È quello che è successo a noi. Il conflitto tra istituzioni e volontariato esiste, purtroppo. A volte le istituzioni vogliono solo usare il volontariato”. Aggiunge Carla Forcolin, che per oltre 15 anni ha gestito decine di volontari necessari a portare i bimbi del carcere nelle scuole dell’infanzia di Venezia: “È giusto che l’accompagnamento dei bambini alla scuola dell’infanzia sia fatto a cura del ministero, perché se il compito di finanziare gli accompagnatori ricade sui Comuni, non appena questi sono in difficoltà economica lo accantonano. Noi dovevamo prima fare autofinanziamento per poi pagare gli accompagnatori. Diverso era nei festivi, quando bastavano davvero solo i volontari”. Da tempo, a causa del nuovo coronavirus, non si portano più i bambini a scuola e nemmeno a spasso. L’aiuto che dava loro il volontariato è per ora sospeso. In questo periodo di epidemia si Carla Forcolin, insegnante, punto di riferimento a Venezia per il grande mondo della solidarietà ai minori più sfortunati, ha pubblicato recentemente il libro “Uscire dal carcere a sei anni”. “I primi mesi di vita devono essere passati accanto alla madre, ma già stare in carcere con la madre per tre anni, senza certezza di frequentare un asilo nido, era troppo, per me. Più i bambini crescono e più soffrono dentro. Si chiedono se sono cattivi per essere costretti a vivere in carcere o se è cattiva la loro madre. Per questo abbiamo chiesto di modificare nella legge 62/11. Il diritto alla libertà non deve essere in antitesi con quello dello stare con le madri, i bambini devono essere spinti a vivere una vita fuori dal carcere dall’età di tre anni al massimo. Vivranno con la famiglia della madre, del padre o costruendo rapporti stabili con adulti che si offrano come punti di riferimento, a meno che non si utilizzi l’affidamento diurno”, dice. “Questo istituto (l’affidamento diurno, ndr) - continua l’insegnante - potrebbe essere molto utile, facendo star fuori di giorno i bambini, che sarebbero non solo accompagnati a scuola sempre dalla stessa persona, ma farebbero una vita molto simile a quella dei coetanei e di sera, o durante le malattie, starebbero con la mamma. Non perderebbero il rapporto con lei, che potrebbe lavorare e studiare a sua volta, e vivrebbero una vita ricca di esperienze e stimoli”. Il deputato Paolo Siani (Pd), insieme a un gruppo di parlamentari della maggioranza e sostenuto da diverse realtà del terzo settore, tra cui Cittadinanzattiva, A Roma Insieme, Terre des Hommes, La Gabbianella e Acat, si è fatto promotore di un emendamento per ottenere dalla legge di bilancio fondi per l’uscita dei bambini dal carcere in supporto delle case famiglia. Il 19 dicembre è stato approvato l’emendamento, che prevede la destinazione di un milione e mezzo di euro per finanziare le case famiglia protette tra il 2021 e il 2023. Dice Paolo Siani: “Ho visitato personalmente l’Icam di Avellino e una casa famiglia protetta di Roma. Sono due mondi completamente diversi: il primo è un carcere, il secondo è il luogo adatto a far crescere un bambino quando rimane con la madre detenuta”, commenta. Il lavoro politico ora è arrivare in commissione Giustizia per modificare gli altri punti della legge utilizzando le proposte delle associazioni. Un percorso ancora lungo, che viene monitorato anche da Terre des Hommes. Per Federica Giannotta, responsabile per l’ong dei progetti italiani, “il diritto supremo che manca a questi bimbi è il diritto alla libertà in generale. Crescono con obblighi e divieti, senza avere la possibilità di sperimentare pienamente quella dimensione di libertà e crescita completa, che solo fuori dal carcere è possibile vivere. Occorre quindi che si dia priorità a questo, sia adeguando il piano normativo che oggi disciplina la presenza dei bimbi in carcere, sia investendo con risorse funzionali a permettere che il territorio in cui risiede un bimbo incarcerato possa attivarsi per rendere la sua vicinanza alla sua mamma il meno traumatico possibile”. Recovery Giustizia, 2mld per tagliare i tempi del processo con digitalizzazione e giudici onorari Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2021 “L’obiettivo è garantire la ragionevole durata del processo attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi e assicurando un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. Ci sono 2 miliardi di euro per l’”Innovazione organizzativa della Giustizia” nella bozza di Recovery plan approvata la notte scorsa dal Consiglio dei ministri senza il voto dei ministri di Italia Viva (Teresa Bellanova ed Elena Bonetti) che lamentano l’assenza del Mes. Ad essi vanno poi aggiunti, si legge nel documento, “risorse complementari per 1 miliardo e 10 milioni dagli stanziamenti della Legge di Bilancio”. Le risorse serviranno a ridurre “notevolmente” i tempi, vero male della giurisdizione italiane, anche grazie all’implementazione dell’”Ufficio per il processo”. “L’obiettivo - si legge - è garantire la ragionevole durata del processo attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi e assicurando un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. Si prevede dunque una forte spinta alla digitalizzazione ma scorrendo il testo si scopre anche il ruolo di jolly che ancora una volta viene attribuito alla magistratura onoraria, peraltro impegnata proprio in queste settimane in un una dura battaglia per il riconoscimento di una serie di diritti che la categoria ritiene negati. Ed è forse anche per questo che nella giornata di ieri è stata assegnata la sede deliberante in Commissione giustizia del Senato al Ddl di riforma della magistratura onoraria che dovrebbe evitare alcune storture della riforma Orlando la cui entrata in vigore è prevista per quest’anno. L’ufficio per il processo - A spiegare quale sia il ruolo dell’ufficio del processo è lo stesso PNRR: “è un modello di collaborazione integrata attraverso il quale i giudici professionali possono avvalersi del contributo di personale tecnico di supporto, così da concentrare le proprie energie sui profili decisionali”. Per meglio operare dunque viene prevista l’immissione di personale tecnico (informatici, architetti, ingegneri) per l’attività edilizia, e di responsabili di organizzazione per lo sviluppo e il monitoraggio dei risultati. Gli addetti all’ufficio del processo, inoltre, avranno il compito di collaborare allo studio della controversia e della giurisprudenza pertinente, di predisporre le bozze di provvedimenti, di collaborare alla raccolta della prova dichiarativa nel processo civile. Il ruolo degli onorari - Negli uffici del processo dei tribunali “maggiormente gravati da arretrato nel settore civile”, è previsto “l’innesto straordinario di professionalità già strutturate e, quindi, in grado di operare da subito a pieno regime, con la finalità specifica di collaborare con il magistrato nell’adozione della decisione e nella redazione della sentenza”. Sono i “magistrati onorari aggregati” ai quali viene di fatto subappaltato il processo. Essi infatti “concorreranno all’attività di definizione dei procedimenti mediante la redazione di progetti completi di sentenza al fine di consentire la riduzione dei tempi di durata dei procedimenti civili e la definizione anticipata dei procedimenti per i quali sia stata fissata udienza per la precisazione delle conclusioni”. Il contenzioso tributario in Cassazione - Anche per lo smaltimento del contenzioso tributario pendente davanti alla Corte di Cassazione si prevede il massivo, per quanto temporaneo, ricorso alla magistratura onoraria. Peraltro proprio sulla possibilità degli onorari di far parte di collegi giudicanti è atteso in queste ore un verdetto della Corte costituzionale. La solo sezione tributaria infatti ha una pendenza, al 2019, di 52.540 procedimenti, mentre tutte le altre sezioni ordinarie civili assieme hanno una pendenza di 51.583 procedimenti (esclusa la materia dell’immigrazione). Dunque, “Al fine di affrontare questa perdurante criticità, si prevede che possano essere assegnati, in via straordinaria, magistrati onorari ausiliari in via temporanea e contingente alle sezioni tributarie della Corte, e per due cicli, al fine di abbattere l’arretrato endemico”. Sicurezza informatica e tecnologia - In ultimo il capitolo più strettamente tecnologico: il rafforzamento della sicurezza e l’innovazione dei software e delle infrastrutture digitali. Tali interventi, secondo la bozza, “combinandosi con il completamento della digitalizzazione del processo civile e di quello penale e con le riforme normative in programma, le misure relative al personale garantiranno performance di durata all’altezza di parametri europei”. Le riforme dei codici - Ai fini dell’efficientamento della Giustizia, oltre che della “tutela dei diritti di azione e di difesa, e di valorizzazione della professionalità e dell’indipendenza della Magistratura”, il Recovery cita poi i progetti di riforma, in Parlamento, del processo civile, penale e dell’ordinamento giudiziario, tutti “naturalmente aperti ai contributi che verranno avanzati nel corso dell’iter parlamentare e che si dimostreranno capaci di conseguire, con ancora più efficacia”. Iter veloce per il ddl sui giudici onorari. Che però dicono: “Testo deludente” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 gennaio 2021 Come bisogna leggere l’accelerazione data in commissione Giustizia al Senato alla riforma della magistratura onoraria? La domanda non ha una risposta scontata, come vedremo a breve. Intanto, ecco cosa è successo: due giorni fa, su proposta dell’opposizione, si è deciso all’unanimità che l’esame del testo procederà in sede deliberante, senza cioè passare per la trattazione in Aula. Il testo rappresenta la sintesi di vari provvedimenti: un disegno di legge governativo presentato nel Conte I, e altri quattro di modifica di passati decreti. Secondo i senatori M5S della commissione “è indispensabile integrare la normativa Orlando del 2017 che si è rivelata insufficiente a garantire dignità e maggiore sicurezza a tanti professionisti che portano avanti una mole di lavoro enorme”. Mentre per i senatori Balboni (FdI), Pillon (Lega) e Caliendo (Forza Italia), “ciò consentirà un esame e un’approvazione più celeri della riforma, segnale concreto di sensibilità per le legittime richieste di tutela degli elementari diritti dei magistrati onorari, a favore dei quali si sono espressi sia l’Anm sia numerose pronunce della magistratura”. Al Dubbio il senatore dem Franco Mirabelli, capogruppo in commissione Giustizia, precisa: “Abbiamo anche noi sostenuto la necessità di fare in fretta perché i temi che sono stati posti dalle sentenze e dalle mobilitazioni di questi ultimi mesi richiedono risposte che non possono essere date nei tempi dei tradizionali percorsi parlamentari. La sede deliberante è una occasione per accelerare, ma continuo a pensare che la nostra proposta di un decreto sia l’unica che possa dare risposte in tempi più rapidi”. Se l’accelerazione e un testo di sintesi sono sicuramente segnali positivi, c’è da ravvisare comunque il persistente malcontento nella categoria: Vincenza Gagliardotto, giudice onoraria al Tribunale di Palermo e da 8 giorni di nuovo in sciopero della fame, teme che “in commissione non stiano prendendo in considerazione le istanze per cui stiamo lottando. Continuano a parlare di ‘ indennità’ e non di retribuzione. Ciò significa non volerci riconoscere come lavoratori subordinati. Addirittura c’è la possibilità che si preveda un tetto massimo di 1.300 euro e senza alcuna tutela sociale. Queste sarebbero le migliorie a cui stanno lavorando? Spero che a fine mese il ministro Bonafede incontri una nostra delegazione, perché la strada intrapresa fino ad ora è quella sbagliata”. Stessa critica arriva dall’Associazione Assogot: “Una riforma che continui a prevedere solo indennità a cottimo, legate a specifiche prestazioni o, in alternativa, a partire non si sa bene da quando, ad imprecisati ‘ impegni’, rinviando a un futuro più che mai incerto tutto quanto attiene ai basilari diritti giuslavoristici, non è certo la soluzione che ci aspettiamo dal Parlamento”. Ancora, per Raimondo Orrù, presidente di Federmot, “è positivo che si abbrevino i tempi ma in realtà le proposte che abbiamo letto fino ad ora non ci soddisfano. La soluzione migliore sarebbe un decreto d’urgenza, come già prospettato dal sottosegretario Ferraresi, anche perché con una crisi di governo c’è il rischio che tutto si areni. Peggio di questo testo c’è solo la proroga della riforma Orlando: gli uffici giudiziari stanno cercando, anche tramite l’Anm, di fare pressione politica perché per i togati un nostro impegno di soli 3 giorni a settimana significherebbe la chiusura”. Cristina Piazza, delegata della Consulta della Magistratura onoraria, sostiene che “occorrerà capire quali modifiche si intendono far passare. Se i senatori vogliono modificare il testo in discussione con opportuni emendamenti, saremmo ben felici di dare il nostro apporto alla stesura”, dice, “perché al momento sappiamo poco, stiamo vivendo un momento molto delicato. Certamente saremo molto combattivi se il risultato finale che vogliono raggiungere è quello di inquadrarci come liberi professionisti, con un tetto di 31.000 euro lordi all’anno e con l’iscrizione alla sezione separata Inps totalmente a nostro carico. Si tratterebbe di una Orlando camuffata che ci dipinge come equiparati agli autonomi. Dopo le parole del presidente della Corte costituzionale e i passi avanti fatti anche in sede europea, non possiamo pensare di tornare indietro rispetto a una sistemazione analoga a quella definita dalla legge 217 del 74”. A imprimere uno slancio a favore della tutela della magistratura onoraria sono state anche le parole del consigliere giuridico del Capo dello Stato, Stefano Erbani, rivolte alla presidente del direttivo AssoGot Valeria Pappalardo. Il presidente Mattarella “segue con grande attenzione - scrive Erbani - i problemi della Magistratura onoraria, nella consapevolezza del fondamentale contributo che la stessa apporta, con il suo costante operato, alla funzionalità e all’efficienza della giustizia. Sarà curata la tempestiva trasmissione delle richieste avanzate nell’interesse dell’associazione al competente ministro della Giustizia, sollecitandone l’attenzione”. Molestie e violenza sul lavoro, l’Italia ratifica la Convenzione internazionale Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2021 Il Senato ha approvato definitivamente il Ddl 1944 di Ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro n. 190. Il Senato ha approvato definitivamente il Ddl 1944, Ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, adottata a Ginevra il 21 giugno 2019 nel corso della 108ª sessione della Conferenza generale della medesima Organizzazione. Hanno svolto dichiarazione di voto favorevole i senatori Laura Garavini (IV-PSI), Isabella Rauti (FdI), Loredana De Petris (Misto-LeU), Anna Rossomando (PD), Aimi (FI), Iwobi (L-SP), Alessandra Maiorino (M5S). “Con l’approvazione definitiva del Ddl il Parlamento italiano compie un passo decisivo verso l’adozione di una normativa che preveda strumenti di tutela, di denuncia, di prevenzione”. Lo dichiara la senatrice Pd Valeria Fedeli. “Mi auguro che si possa procedere il prima possibile ascoltando tutti i diversi soggetti in causa per comprendere a che punto siamo e quali azioni concrete mettere in campo per liberare il mondo del lavoro dalla violenza. Ma è fondamentale anche la prevenzione, gli strumenti di tutela come il congedo dato alle donne che denunciano, valorizzare il ruolo delle consigliere e dei consiglieri di parità e individuare nelle aziende figure incaricate di monitorare condizioni e ambiente di lavoro in chiave di rispetto della libertà e integrità delle persone.”. “Nel nostro Paese - afferma Laura Boldrini, deputata PD - una donna su due subisce molestie sul lavoro. E l’81%, per paura, resta in silenzio. Sono orgogliosa di aver presentato, alla Camera, la proposta di legge con cui è stata ratificata questa Convenzione. Con l’approvazione di oggi, compiamo un passo avanti importante sulla strada del pieno riconoscimento dei diritti e della dignità delle donne”. “È sempre una soddisfazione - commenta la vicepresidente del Senato, Paola Taverna (M5S) - quando si fa un passo avanti nella direzione dell’uguaglianza e della maggior tutela dei diritti delle donne, in ogni ambito della vita. Il lavoro, infatti, resta purtroppo un contesto dove ancora troppo spesso avvengono violenze ignobili e abusi inaccettabili. Adesso abbiamo un importante strumento in più”. “Il mio pensiero va, in particolare, a tutte le donne e giovani donne - aggiunge - che quotidianamente devono difendersi da comportamenti vergognosi”. Vota favore le anche da parti di Fratelli d’Italia. “Abbiamo votato nella convinzione che il recepimento dei suoi tre cardini, protezione, prevenzione e verifica dell’applicazione, permetterà ai lavoratori e alle lavoratrici di poter denunciare le violenze e le molestie subite”, ha dichiarato la vicepresidente FdI, Isabella Rauti, responsabile del dipartimento Pari opportunità al Senato. La senatrice ha ricordato che “questo genere di abusi in Italia riguarda centinaia di migliaia di persone, uomini e donne, con una percentuale addirittura tripla per quest’ultime”. “Ci auguriamo, quindi - ha concluso -, che questa Convenzione possa rappresentare un passo importante verso una maggiore tutela della dignità delle persone sui luoghi di lavoro e che il recepimento della normativa internazionale consenta di prevenire e combattere il fenomeno”. Il caso Sofri e i frutti avvelenati dell’albero del pentitismo di Leonardo Sciascia* Il Dubbio, 14 gennaio 2021 Quando ho sentito dell’arresto di Adriano Sofri, ho subito pensato: se è davvero colpevole, appena davanti al giudice confesserà. E non che il fatto che non abbia confessato assuma per me piena convinzione di innocenza: ma è un elemento di intuizione, di impressione, cui altri più razionali, si aggiungono. Io non ho conosciuto Sofri negli anni ruggenti intorno al Sessantotto. L’ho conosciuto dieci anni dopo. E mi è parso, di fronte alla vita, di fronte ai libri, nei rapporti umani, un uomo ‘religioso’. Davvero era tanto diverso prima? Non riesco a crederlo. Io ho avuto un amico, che è stato anche amico di Vitaliano Brancati e di cui Brancati, dandogli altro nome, parla in un racconto, che per la sua idea e il suo sentimento della rivoluzione, specialmente negli anni del fascismo, avrebbe incendiato il mondo, ma non c’era persona, comunque la pensasse, che non fosse degna del suo rispetto. Così mi pare Sofri, per carattere oltre che per delusione ideologica e per le riflessioni su quella delusione: e posso immaginare le sue intemperanze di un tempo, ma tra le intemperanze e l’omicidio e per giunta, a freddo, commissionato ad altri c’è una gran differenza. Se è suo, lo stesso articolo pubblicato da ‘ Lotta continua’ all’indomani dell’assassinio di Calabresi e che può sembrare di rivendicazione, a me pare risponda a degli astratti canoni rivoluzionari e mi pare, anche, che segni oggi un punto per la difesa piuttosto che per l’accusa. Nel senso della domanda che dobbiamo pur porci: possibile che Sofri e i suoi più vicini, se dalla loro decisione fosse venuto l’assassinio di Calabresi, siano stati tanto sciocchi da attirare subito l’attenzione della polizia sul loro gruppuscolo? So, per come l’istruttoria viene istruendosi, qual è la risposta: avevano bisogno di segnalarsi come guida dell’intero movimento, e da eroi quasi assumersi la paternità di quel delitto. Ma, ritenendo che non fossero sciocchi nemmeno allora, nel furore rivoluzionario, per me regge l’ipotesi di segno opposto: che erano sicuri la polizia non potesse trovar traccia tra loro dell’organizzazione di quel delitto, e per il semplice fatto che era stato da altri organizzato e consumato; e non potendo dunque essere accusati di omicidio, potevano permettersi di incorrere nell’apologia di reato: irrisoria imputazione, e specialmente in quel momento. E nasceva, l’apologia, bisogna riconoscerlo, da una ‘ provocazione’ dello Stato che non solo toccava i rivoluzionari, ma la gran parte degli italiani. Ancora oggi, quale verità abbiamo sulla morte dell’anarchico Pinelli se non quella che ciascuno e tutti ci siamo costruita facilmente, e con più o meno gravi varianti a carico di coloro che lo interrogavano? Pinelli non ha resistito alle torture morali e psichiche, e si è buttato giù dalla finestra: variante la più leggera. O non ha resistito alle torture fisiche, cogliendo il momento di distrazione degli astanti per buttarsi giù. O alle torture non ha resistito, morendo, ed è stato buttato giù. Ipotesi, quest’ultima, che trova riscontro di probabilità nel più recente e accertato caso verificatosi negli uffici di polizia palermitani. Ed è da ribadire che un delitto cosi consumato ‘dentro’ le istituzioni è incommensurabilmente più grave di qualsiasi delitto consumato ‘fuori’. (Alberto Savinio diceva: ‘Avverto gli imbecilli che le loro proteste cadranno ai piedi della mia gelida indifferenza’. Ma si possono dire soltanto imbecilli coloro che disapproveranno questa mia affermazione?) E comunque: non è il momento di dire la verità sulla morte di Pinelli, restituendo onore alla memoria di Calabresi se, com’è stato detto, non c’entrava? Non è possibile trovare, tra chi c’era, un ‘pentito’ che finalmente dica la verità? Ma tornando a Sofri, è da dire che casi come il suo sono di quelli che non solo si presentano ambigui nell’immediato, ma sono destinati, nell’opinione dei più, a restar tali; di interna contraddizione, di doppia verità. Perché non ai dati di fatto, alla concomitanza di indizi, al convergere di testimonianze più o meno dirette, la ricerca della verità può affidarsi e arrivare a una soluzione ‘al di là di ogni dubbio’, ma alle soggettive impressioni che si possono avere dal trovarsi di fronte agli accusati e all’accusatore, dall’averli conosciuti o, come sta accadendo ai giudici, dal conoscerli ora, dal dialogare con loro, dallo scrutarli. Ed è dentro questo limite dell’averlo conosciuto, dello stimarlo, del crederlo incapace di aver ordinato un assassinio che è stata firmata, anche da me, una lettera che a Sofri sarà più di conforto che di aiuto. Non mai, come da qualche parte è stata intesa, in quanto affermazione di una equivalenza tra l’intellettualità e l’innocenza. Nemmeno lo spirito di corpo o di casta, di cui peraltro sono sprovvisto, può far stravedere fino a questo punto. Ci sono stati intellettuali capaci di delitti più ignobili ed efferati; e un intellettuale che volesse ignorarlo non sarebbe un intellettuale ma un cretino. Ed è inutile dire che si era ben lontani, con quella lettera, dal vagheggiare l’impunità o dall’invocare il ‘ perdonismo’. Si voleva e si vuole, soltanto e assolutamente, la giusta giustizia. Da quel che il cosiddetto segreto istruttorio lascia affluire ai giornali, la condizione di Sofri e di altri due imputati sembra esser questa: c’è un quarto uomo che si autoaccusa e li accusa dell’omicidio Calabresi. Due mandanti, Sofri e Pietrostefani; due esecutori, Bompressi e Marino: e Marino è quello che si autoaccusa ed accusa. Ma dopo sedici anni, e nel vigore delle leggi che beneficano i pentiti. Altro sembra che non ci sia, a suffragare le accuse di Marino, se non la confidenza a polizia e magistratura di altri pentiti, che appartengono alla preistoria del pentitismo, che l’assassinio di Calabresi sia stata opera del gruppo di ‘Lotta continua’. E qui le domande si affollano: che riguardano il passato e il presente, la storia del terrorismo e la storia del ‘perdonismo’. Ma per fermarci all’oggi: in che misura, una volta accertata, Marino pagherebbe la sua partecipazione al delitto? Quali sono stati i suoi rapporti con Sofri in questi sedici anni? Fino a che data gli si rivolse per avere qualche soccorso finanziario e da qual giorno ne fu deluso? Si rivolse anche a Pietrostefani? Quale la sua situazione economica e morale al momento in cui va ad autoaccusarsi e ad accusare, la sua situazione familiare, i suoi rapporti con la moglie particolarmente? Ma il cittadino qualsiasi non ha, come invece ha il magistrato, né l’opportunità né i mezzi per aver risposta a queste e ad altre simili domande. Chi conosce Sofri e lo stima, si sente in diritto di avere l’opinione, fino a contraria e netta prova, che Marino sia un personaggio che ha trovato il suo autore nella legge sui pentiti. In quanto ai moventi psicologici che possono aver suscitato in lui la decisione di autoaccusarsi per accusare, tanti se ne possono trovare, a lume di esperienza di vita come di letteratura dal sentimento della gratitudine, per molti difficile e insostenibile e di cui spesso si scaricano con sentimento opposto, al rancore in cui non rare volte si mutano ammirazioni, devozioni e mitizzazioni; dal fissarsi nell’idea che il passato rivoluzionario sia stato di giovamento ai furbi e di danno a se stessi ingenui, alla voglia di giungere a una notorietà, a una forma di successo, per altre strade preclusa e da quella delle rivelazioni giudiziarie aperta. E così via. E non si dice che i moventi di Marino siano questi, ma questi possono essere stati, se crediamo nella estraneità di Sofri a quel delitto. L’albero del pentimento può dare, come ha dato, di questi frutti. Avremmo potuto sperare che i segni del ‘prima ti arresto e poi cerco le prove’, che anche in questo caso purtroppo si intravedono, i giudici riuscissero al più presto a dissolverli. Ma la comunicazione giudiziaria a Boato e ad altri allontana di molto questa speranza. *Articolo pubblicato su L’Espresso del 28 agosto 1988 Spiraglio per la revisione del processo. Così Bossetti può tornare a sperare di Gianluigi Nuzzi La Stampa, 14 gennaio 2021 Caso Yara, la Cassazione accoglie il ricorso sull’accesso ai reperti. La strada (stretta) per sospendere la carcerazione. L’ergastolano Massimo Bossetti potrà accedere ai vestiti che indossava Yara Gambirasio quando la sera del 26 novembre del 2010 lasciò dopo gli allenamenti la palestra di Brembate di Sopra, salì, senza conoscerlo e per motivi rimasti ignoti, sul furgone verde chiaro Daily Iveco del muratore assassino e venne poi ritrovata priva di vita nel febbraio successivo in un campo a Chignolo d’Isola. È quanto ha deciso la Cassazione che ha annullato, rinviando alla corte d’Appello di Bergamo, le precedenti pronunce dei giudici di secondo grado che avevano negato a Bossetti di accedere ai 98 reperti tra i quali 54 campioni di Dna ritrovati sui leggings e gli slip dell’adolescente. In sei anni e mezzo dal giorno delle manette, per Bossetti è la prima volta che i giudici accolgono una sua istanza. I suoi difensori, Claudio Salvagni e Piero Camporini, sono convinti che in questi reperti si troveranno gli elementi per ottenere la revisione del processo e quindi scardinare la prova regina che inchioda alla responsabilità dell’omicidio della ragazzina: una traccia mista di Dna di carnefice e vittima sugli slip, resistita per mesi alle intemperie, priva della parte mitocondriale. Bossetti in carcere a Bollate (alle porte di Milano) torna a sperare e così la moglie Marita che dopo un periodo di tensione con il marito detenuto sembra essersi riavvicinata al congiunto. Ora spetterà ai giudici di Bergamo ritornare a pronunciarsi sull’accesso a una serie infinita di reperti. Appunto si parte dagli indumenti di Yara, e quindi pantaloni, scarpe da ginnastica, slip, reggiseno, felpa di colore nero, giubbotto scuro e maglietta blu, si arriva alle provette di Dna, fino alle paillettes prelevate sotto il sedile posteriore sinistro del furgone. Basterà tutto questo a trovare elementi decisivi per chiedere e ottenere la riapertura del processo? E’ ancora prematuro dirlo, di certo i giudici non potranno ignorare la scelta della suprema corte di annullare la precedente decisione, dopo un lungo braccio di ferro. Infatti, il presidente della corte d’assise Giovanni Petillo già nel novembre del 2019 aveva concesso la riesamina dei reperti per poi fare una mezza marcia indietro solo quattro giorni dopo quando tracciò i confini in cui si sarebbe potuta muovere la difesa, ovvero “una mera ricognizione dei corpi di reato (…) operazione che dovrà essere eseguita sotto la vigilanza della polizia giudiziaria (…) rimanendo esclusa qualsiasi operazione di prelievo o analisi degli stessi”. Ma qui interessa soprattutto quanto la difesa chiese il 30 aprile 2020 ovvero “un’istanza intesa a ottenere dalla corte d’assise, l’accesso ai corpi di reato e la ricognizione degli stessi, e, in generale, di tutti i reperti mancanti”. Ed è qui che si aprirà la battaglia finale per la revisione del processo. Il codice infatti prevede il nuovo processo “se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto”. In realtà la giurisprudenza della Suprema Corte da qualche tempo ha introdotto una interpretazione sicuramente più ampia del dettato, sottolineando che vanno considerate prove nuove rilevanti, al fine dell’ammissibilità dell’ istanza di revisione, vanno intese non solo quelle scoperte successivamente alla sentenza di condanna, ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite, ma non soppesate neanche indirettamente, purché non si tratti di prove ritenute ininfluenti dal giudice. È chiaro quindi che il dettato che scolpiva nelle “nuove prove” l’unica strada per sperare in un dibattimento bis, oggi è assai più ampio. Ecco spiegato perché l’istanza di revisione può essere accolta anche quando ha ad oggetto prove non nuove. E’ quindi requisito fondamentale che si tratti di prove preesistenti già nel fascicolo ma non acquisite ovvero acquisite ma non valutate adeguatamente. Nel caso di Yara, Bossetti ritiene che ci si trovi proprio in quest’ultimo caso. Da qui la guerra sui reperti. Ma c’è anche un altro aspetto rilevante. Seppur di certo prematuro, non bisogna nemmeno dimenticare che l’istanza di revisione qualora ritenuta ammissibile può determinare la sospensione dell’esecuzione della pena. In altre parole se un domani venisse presentata la richiesta di un nuovo processo e questa venisse ritenuta esaminabile, gli avvocati potrebbero ottenere la scarcerazione del proprio assistito in attesa del dibattimento da celebrare. Tutti argomenti ed elementi che fino a ieri sembravano nella storia dell’omicidio della povera Yara fantascienza giudiziaria ma che oggi iniziano a coagularsi in uno scenario alternativo da spingere l’avvocato Salvagni a gridare all’orrore contro “uno dei più gravi errori giudiziari della storia italiana”. Mae invalido se non è basato su mandato d’arresto nazionale o atto equivalente Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2021 Spetta la giudice richiedente illustrare le conseguenze sulla libertà personale della mancanza di un atto presupposto valido. Un mandato d’arresto europeo è considerato non valido se non è basato su un mandato d’arresto nazionale o su qualsiasi altra decisione giudiziaria esecutiva avente la stessa forza. Spetta al giudice competente dello Stato membro emittente determinare, conformemente al diritto nazionale, quali conseguenze può avere la mancanza di un mandato d’arresto nazionale valido per la decisione di custodia cautelare e, successivamente, per la detenzione di una persona sottoposta a procedimento penale. La Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza sulla causa C-414/20 PPU ha, infatti precisato che il sistema del mandato d’arresto europeo si basa sul principio del reciproco riconoscimento, che si fonda sulla fiducia reciproca tra gli Stati membri per quanto riguarda il fatto che il mandato d’arresto europeo è stato emesso in conformità ai requisiti minimi da cui dipende la sua validità. Il diritto dell’Unione prevede in particolare che il mandato d’arresto europeo debba essere basato su un “mandato d’arresto o su qualsiasi altra decisione giudiziaria avente la stessa forza”. A nulla rileva la denominazione dell’atto presupposto, ma la sostanza dei suoi effetti giuridici e le relative garanzie di difesa. Mentre nel caso specifico l’atto nazionale in base al quale è stato emesso il mandato d’arresto europeo aveva il solo scopo di notificare all’interessato le accuse a suo carico e di dargli la possibilità di difendersi fornendo spiegazioni e offerte di prova. Per la Cgue è assente in tal caso la verifica, che spetta al giudice nazionale, sul Mae mirata ad accertarne il fondamento giuridico, ossia l’esistenza di “un mandato d’arresto nazionale o una decisione giudiziaria esecutiva avente la stessa forza”. Da tale circostanza deriva l’invalidità del Mae. Inoltre la Cgue conclude che il sistema del mandato d’arresto europeo offre una protezione a due livelli. Pertanto, oltre alla protezione giudiziaria fornita al momento dell’adozione di una decisione nazionale, come il mandato d’arresto nazionale, esiste anche una protezione giudiziaria fornita al momento dell’emissione del mandato d’arresto europeo. Poiché la misura può incidere sul diritto alla libertà della persona interessata, tale protezione implica che una decisione che soddisfi i requisiti dei due livelli di protezione deve essere presa in considerazione dalle autorità competenti. Puglia. Covid, 26 detenuti e 45 agenti positivi nelle carceri regionali foggiatoday.it, 14 gennaio 2021 Coronavirus: 26 detenuti e 46 agenti positivi nelle carceri in Puglia. “La situazione è molto delicata”. La denuncia di Federico Pilagatti, segretario del Sappe, il sindacato degli agenti penitenziari che chiede l’intervento della Regione a garanzie della salute dei detenuti e degli operatori carcerari. Secondo il report carceri aggiornato all’11 gennaio del Dap, Dipartimento Amministrazione Penitenziario, gli attualmente positivi al Covid-19 nei 12 istituti penitenziari puglisi sono 71, di cui 26 detenuti e 45 agenti. Di queste dieci sono reclusi nella casa circondariale di Lucera, da dove vengono anche gli unici due ricoverati del territorio. Tutti negativi, invece, a Melfi, San Severo, Trani (femminile) e Turi. Manca la strumentazione necessaria per fare i test rapidi. E gli agenti della polizia penitenziaria delle carceri pugliesi attendono. La denuncia arriva da Federico Pilagatti, segretario del Sappe, il sindacato degli agenti penitenziari che chiede l’intervento della Regione a garanzie della salute dei detenuti e degli operatori carcerari. Come riporta l’agenzia di stampa Dire, il sindacalista evidenzia che “le Asl pugliesi si comportano diversamente: le aziende di Foggia, Bat, Bari si dimostrano collaborative con l’amministrazione penitenziaria, quelle di Lecce e Taranto non sembrano tanto preoccuparsi della questione, nonostante siano state invitate in più occasioni ad effettuare i testi ai poliziotti al fine di tracciare eventuali situazioni anomale”. Milano. Nelle tre carceri cittadine i positivi al Covid sono 129 Il Giorno, 14 gennaio 2021 Dai dati ministeriali più recenti, Lombardia maglia nera per diffusione del virus. Contagiati in regione anche 90 poliziotti. Lombardia maglia nera tra le regioni d’Italia per numero di positivi al virus in cella. E i tre penitenziari milanesi danno il loro contributo. Come riportato nel report carceri del Dap, aggiornato all’11 gennaio, nei 18 istituti penitenziari del territorio lombardo sono 185 i detenuti contagiati e 9 quelli ricoverati in ospedale. Nel milanese, 83 sono i casi positivi nel carcere di Bollate, dove è stato allestito un hub covid per i detenuti con virus provenienti da tutti gli istituti della Regione. Tra loro anche quelli che arrivano da San Vittore, dove i positivi sono 36, 10 quelli di Opera. Novanta, invece, gli appartenenti al corpo di Polizia Penitenziaria positivi al virus in regione, dei quali 15 al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria con sede a Milano. Più in generale, stando ai dati di questo inizio settimana sono 624 i detenuti positivi al virus negli istituti penitenziari d’Italia, 587 dei quali asintomatici, 26 ricoverati. Un numero complessivo che cresce, a sorpresa, per gli agenti della polizia penitenziaria: 647 i contagiati, 64 dei quali sintomatici. Sessantuno i positivi, invece, fra il personale amministrativo e dirigenziale penitenziario. Sono dati che assumono un certo peso anche in considerazione di quello complessivo: 52.404 i detenuti reclusi nei 190 istituti penitenziari del Paese all’11 gennaio scorso, 36.939 i poliziotti penitenziari. “Quella del virus tra i detenuti è una situazione difficile che monitoriamo giorno per giorno - spiega il Garante per i detenuti della Lombardia Carlo Lio - la mia solidarietà va a loro ma anche agli addetti della Polizia penitenziaria che stanno affrontando il virus”. Lio ieri ha scritto una lettera al nuovo assessore regionale al Welfare Letizia Moratti, anche per chiederle un incontro sul tema della salute dietro le sbarre. “Nonostante i problemi legati alla pandemia - aggiunge il Garante - stiamo continuando i colloqui via web con i detenuti dei vari istituti che chiedono di parlare con il nostro uffici per i motivi più diversi”. Nei giorni scorsi anche la Caritas ambrosiana è intervenuta mettendo il dito nelle piaghe del sistema carcerario milanese dove il sovraffollamento è ancora oltre i limiti di guardia, si registra un aumento dei positivi al Covid rispetto alla prima ondata e sofferenze aggiuntive comportano ai detenuti le misure coercitive assunte in nome della sicurezza sanitaria, come la sospensione di alcune attività risocializzanti, per esempio la scuola, e quella di servizi essenziali affidati ai volontari, la cui presenza è stata drasticamente ridimensionata in nome della sicurezza sanitaria. Temi, questi, emersi dal documento elaborato dagli operatori dell’area carcere di Caritas Ambrosiana, in particolare sulla situazione degli istituti penitenziari di San Vittore, Bollate e Opera. Napoli. Poggioreale, doppia prigionia: ascensore guasto, detenuti malati isolati di Viviana Lanza Il Riformista, 14 gennaio 2021 Da più di un mese il padiglione San Paolo del carcere di Poggioreale, quello che ospita i detenuti con problemi di salute, è senza ascensore e le stanze allestite per consentire ai detenuti di sottoporsi a dialisi restano ancora chiuse, le apparecchiature inutilizzate. E tutto a causa di problemi alla guaina del tetto e delle infiltrazioni che ne sono state la conseguenza. Le infiltrazioni di acqua piovana sarebbero infatti all’origine del guasto al vano motore che ha messo fuori uso l’ascensore con tutto quello che ciò può significare per quei reclusi con problemi di deambulazione, ma anche per coloro che, a causa di patologie varie, hanno comunque difficoltà a fare a piedi le scale per raggiungere, dal secondo o terzo piano dove si trovano le loro celle, il piano dove ci sono i locali per eseguire screening e visite mediche specialistiche. E così, da diverse settimane, tra i reclusi del padiglione San Paolo in molti sono costretti a vivere una sorta di doppia prigionia, non riuscendo ad allontanarsi dalle proprie celle nemmeno per la cosiddetta ora d’aria perché non possono spostarsi fino alla zona passeggio e, soprattutto, senza poter sottoporsi alle visite mediche perché impossibilitati a muoversi a piedi da un piano a un altro. Con l’ascensore fuori uso, l’unica alternativa possibile sarebbe quella di portare questi reclusi in braccio ma è facile immaginare che si tratta di una eventualità assai remota. Quindi si attende. Si attende che il guasto all’ascensore venga riparato. Il caso è stato segnalato al grande regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, il quale nelle scorse settimane ha scritto al direttore del carcere Carlo Berdini per rappresentare i disagi visti dai detenuti. Il direttore del carcere ha risposto spiegando di aver richiesto gli interventi di manutenzione per rimettere in funzione l’impianto. Certo, c’è una burocrazia e si sono tempi “tecnici” da rispettare, ma il guasto non è stato ancora riparato. Ieri una squadra di operai avrebbe dovuto eseguire la riparazione ma c’è stato l’ennesimo intoppo. E dire che il padiglione San Paolo del carcere di Poggioreale è un padiglione rimesso a nuovo non da molto tempo, che la struttura è dotata di mezzi e risorse per garantire assistenza medica e specialistica ai reclusi che necessitano di cure e monitoraggi periodici e che c’è anche una cucina dove vengono preparati i pasti adatti alle esigenze di salute dei reclusi che vivono in quel padiglione. Si tratta di 54 detenuti, una dozzina dei quali costretti su una sedia a rotelle e da settimane costretti a trascorrere le giornate in cella, rinunciando a utilizzare gli altri spazi per l’impossibilità di fare le scale senza l’uso dell’ascensore. “Sono queste piccole cose, dal valore non quantificabile, che incidono sulla garanzia dei diritti e sulla tutela della dignità di una persona”, osserva il garante Ciambriello. Il riferimento è anche alla situazione dei locali dove i detenuti che hanno bisogno di cicli di dialisi potrebbero sottoporsi alle terapie senza dover affrontare i trasferimenti e le attese per ottenerli. Anche in questo caso a fermare la tutela del diritto alla salute in carcere è un problema tecnico, un guasto, una perdita dal tetto che causa infiltrazioni. Può sembrare una causa apparentemente banale ma finisce per determinare conseguenze ben più gravi. Le stanze all’ultimo piano del padiglione San Paolo, infatti, sono pronte da mesi eppure non si può inaugurarle né si possono utilizzare i macchinari che Asl e amministrazione penitenziaria hanno messo a disposizione dei detenuti. Perché? Perché le infiltrazioni hanno causato macchie di umidità in una delle stanze destinate al personale sanitario. Di qui lo stop, e l’attesa. E il diritto alla salute continua a essere messo a dura prova. Il caso di Poggioreale riapre un antico dibattito e accende i fari sul diritto alla salute in carcere che è un diritto spesso sacrificato, sulla necessità di investimenti per migliorare l’edilizia penitenziaria che è in molti casi un’edilizia vecchia o fatiscente, sulla difficile vita dietro le sbarre. Vigevano. Focolaio Covid nel carcere, risultano contagiati 17 detenuti di Selvaggia Bovani La Provincia Pavese, 14 gennaio 2021 Sono stati trasferiti a Bollate e San Vittore. La Cgil: “Subito individuati grazie agli screening giornalieri”. Diciassette detenuti nel carcere di Vigevano sono stati trovati positivi al Covid: è già scattata l’operazione di smistamento in altre strutture. “Tutto è nato con un tampone rapido eseguito a un detenuto sintomatico - spiega Patrizia Sturini, sindacalista della Cgil - esame che è risultato appunto positivo. Grazie a un grande lavoro di equipe e alla prontezza del direttore Davide Pisapia, che ha acquistato subito i test rapidi, è stato possibile identificare tutti i casi sospetti, che sono stati immediatamente isolati in un settore Covid. La scoperta è avvenuta domenica e martedì sono stati trasferiti nelle strutture hub del milanese indicate da Regione Lombardia, come il carcere di San Vittore e quello di Bollate”. Crotone. Sportello legale gratuito per detenuti, aderisce anche il Movimento Forense calabria7.it, 14 gennaio 2021 Anche il Movimento Forense di Crotone, attraverso il presidente Salvatore Rocca, aderisce all’iniziativa per la stipula di un accordo che definisce i criteri organizzativi e di gestione operativa dello Sportello di orientamento al percorso legale da istituire presso la casa circondariale di Crotone. L’idea, promossa dal Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale del Comune di Crotone, Federico Ferraro, è da concordare di concerto con il provveditorato dell’amministrazione penitenziaria regionale Calabria, la direzione della casa circondariale di Crotone, oltre a tutte le istituzioni e associazioni Forensi del crotonese. “Compito dello Sportello - dice il presidente Rocca - è fornire ai detenuti che lo richiedano informazioni e orientamento al percorso legale su tutte le materie del diritto e, se necessario, l’assistenza nell’individuazione di un professionista iscritto in appositi elenchi per l’eventuale conferimento del mandato. È vietata l’informazione sui giudizi pendenti, secondo quanto previsto dall’art. 1 Reg. Cnf 19 aprile 2013, al servizio possono accedere tutti i detenuti tramite la compilazione di un’apposita domanda che viene raccolta e gestita da personale volontario messo a disposizione dello Sportello.” Bologna. Torna la radio nel carcere della Dozza di Elisa Grossi Corriere di Bologna, 14 gennaio 2021 Torna la voce che porta cultura, spiritualità e intrattenimento nel carcere della Dozza. Dopo una fase sperimentale tra aprile e ottobre 2020 e un’edizione speciale natalizia, la trasmissione radiotelevisiva “Liberi dentro-Eduradio” entra a pieno titolo nel programma educativo e didattico dell’istituto. Il progetto è nato durante il lockdown per mantenere una vicinanza ai detenuti quando, a causa della pandemia, si sono dovute sospendere tutte le attività educative e didattiche che animano l’istituto in via del Gomito. Ora il programma viene rilanciato con il sostegno del Comune e di Asp (Azienda pubblica di servizi alla persona). A partire dalla settimana prossima, tutti i giorni da lunedì a venerdì, dalle 9 alle 9.30 sulle frequenze di Radio Città Fujiko 103.1 Fm e poi dalle 10.30 alle 11 sul canale 636 Teletricolore, riprenderà il filo diretto con i detenuti grazie alla trasmissione “Buongiorno da Liberi dentro Eduradio”. Da febbraio saranno coperti anche il fine settimana e altre fasce orarie con rubriche e approfondimenti curati dall’ampia rete di partner del progetto. Il palinsesto prevede lezioni scolastiche, rubriche culturali, messaggi spirituali, consigli di lettura e ascolto dal mondo del volontariato, musica e teatro. Alla conduzione c’è sempre Caterina Bombarda, affiancata da Frate Ignazio De Francesco. Nella squadra dei relatori ci sono insegnanti, volontari, il cappellano della Dozza Padre Marcello Matté e i Garanti dei detenuti. Volterra (Pi). Punzo: qui nascono grandi idee di Chiara Dino Corriere Fiorentino, 14 gennaio 2021 Il regista della Compagnia della Fortezza: ora serve il teatro stabile. Trent’anni di Compagnia della Fortezza per un grande progetto: riuscire a trasformare un’esperienza da tanti premi Ubu in una compagnia di teatrale stabile. Armando Punzo, il napoletano Punzo, si è trasferito a Volterra negli anni 80 per incontrare il Gruppo Internazionale L’Avventura, un’esperienza autonoma figlia del parateatro grotowskiano, e qui è rimasto lavorando su uno dei più innovativi progetti teatrali italiani: quello che vede andare in scena i detenuti in un dialogo costante con il tema delle prigioni, fisiche o mentali. È grazie a lui che Aniello Arena è diventato un grande attore. Per l’anno da capitale Punzo porterà in scena, nel carcere di Volterra, la settima puntata, se così può dirsi, di Naturae, spettacolo che come tutti i precedenti sarà l’esito dei laboratori svolti dentro le mura della prigione. Come in un processo di astrazione - partito da quando questi presero il via nel 1988 - tutte le sue azioni sceniche accompagnano lo spettatore in un viaggio che per usare le parole di Punzo “vuole ricalcare quello dantesco che dall’Inferno arriva al Paradiso passando dal Purgatorio. I primi anni sono partito dal teatro shakespeariano con i suoi sentimenti e caratteri così vividi da renderci immediata l’identificazione, poi sono passata a una visione della mente umana più borgesiana in cui i sentimenti non sono realtà immutabili. Volevo dare spazio alla possibilità di trasformazione e di evoluzione dell’essere umano. Siamo alle idee di Borges più che alle storie tangibili di Shakespeare. La terza fase di questo viaggio è Naturae, appunto, dove senza autori ci si allontana dall’umanità e ci si imbatte in personaggi più eterei che sono le qualità dell’essere umano”. Tutto questo è avvenuto e continua ad avvenire a Volterra perché lo stesso Punzo a un certo punto della sua vita ha capito di aver bisogno della prigione per comprendere e raccontare la prigione esistenziale cui tutti noi siamo reclusi. “Si tratta di veri muri di cui è necessario prendere consapevolezza - ci dice - e che vanno raccontati per fare i conti con essi. Per fare tutto questo non volevo professionisti che mi parlassero di arte poesia e cultura”. Oggi, sperimentata lungamente questa esigenza, volge lo sguardo al futuro per dare concretezza alla realizzazione dentro alle mura del carcere di Volterra di un Teatro Stabile e manda a dire al ministro Dario Franceschini: “Questa candidatura merita di andare in porto perché dimostra che ci sono luoghi impensabili dove si riuniscono persone con sensibilità e idee e questi luoghi non sono per forza grandi città. Qui non siamo a Roma, Milano o Napoli”. Un valore aggiunto. Casal del Marmo (Rm). Il Natale all’Ipm, con quella paura di restare soli di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 14 gennaio 2021 I giorni delle feste natalizie raccontati dal cappellano dell’istituto penale per minori di Casal del Marmo. “Non lasciatevi rubare la speranza. Sempre avanti!”. L’esortazione di Francesco del 28 marzo 2013 riecheggia ancora lungo i corridoi dell’Istituto Penale maschile e femminile per minorenni Casal del Marmo, a Roma. Era giovedì santo e qui il Papa celebrò la messa in Cena Domini e lavò i piedi a dodici ragazzi di nazionalità e di fedi diverse. Tra loro anche musulmani perché, allora, la maggior parte dei giovani ospiti erano stranieri, per lo più nordafricani e slavi. Sei anni prima, il 18 marzo 2007, fu Benedetto xvi a visitare l’Istituto presiedendo la liturgia nella cappella del Padre Misericordioso. Nell’occasione il Pontefice parlò ai ragazzi del Figliol prodigo e del suo cammino di conversione: “Voleva una vita libera, diceva di voler essere solo e avere la vita tutta e totalmente per sé, con tutte le sue bellezze. Ma la vita senza Dio - spiegò Ratzinger -non funziona, perché manca la luce, manca il senso di cosa significa essere uomo”. Di quella luce, soprattutto durante il periodo natalizio, ne ha parlato con i suoi ragazzi don Nicolò Ceccolini, cappellano a Casal del Marmo: “Molti di loro mi hanno chiesto: “Che senso ha festeggiare il Natale in queste condizioni? Perché celebrarlo dentro un carcere? Ha ancora da dire qualcosa quel Dio bambino in cui i cristiani credono nato a Betlemme”? Gli ho risposto che il Natale, anche in questi luoghi così opprimenti, è la festa di una grande luce che entra nel buio delle nostre vite, nel buio dei guai e dei problemi. Oggi non vediamo la vittoria piena di questa luce, ma possiamo essere coloro che seminano piccoli lampi nella vita di tanti. È il Natale in fondo a seminare questa bellezza in mezzo a questa bruttezza”. Don Ceccolini racconta le feste accanto ai suoi ragazzi, descrivendo il clima di collaborazione che si è creato con gli agenti e con tutti coloro che, a vario titolo, lavorano nella struttura. “Qualche settimana fa abbiamo allestito un bellissimo presepe nella chiesa del carcere. La cosa più bella è stata la collaborazione nata tra i ragazzi e gli agenti di polizia penitenziaria” prosegue il cappellano. “A cosa serve il presepe, che di per sé è un segno così piccolo, se non a seminare un momento bello nel cuore di questi ragazzi, ad insegnare loro a custodirlo, a tenerlo lì affinché possa in futuro tornare fuori come punto luminoso della propria vita e restituirlo ad altri? In fondo - rileva il sacerdote - penso sempre che duemila anni fa non stavano meglio di noi, i problemi c’erano ieri, come ci sono oggi, eppure quel Dio in cui i cristiani credono non ha avuto problemi a entrare nella mangiatoia povera di un paese sperduto. Non ha provato vergogna a bussare ai nostri cuori per seminare qualcosa di bello, unico e irripetibile. Dio ama in modo speciale ognuno e questa è la luce che permette di vincere la notte più oscura della paura”. I giovani di don Ceccolini sono portatori di disagi personali enormi. Disagi che si ingigantiscono ulteriormente quando subentra la coscienza di essere ghettizzati, reclusi tutti insieme, come scarto della società. “Qualche tempo fa ho chiesto ad uno di loro che cosa fosse per lui la paura, sentimento oggi così dominante davanti all’emergenza sanitaria che stiamo vivendo. Mi ha risposto che ragazzi come lui non hanno tanta paura della morte, in quanto sono sempre tentati a sfidarla all’uscita delle discoteche, sfrecciando sulle strade, quanto piuttosto della vita. Hanno timore di rimanere soli davanti all’esistenza”. Negli anni trascorsi a Casal del Marmo, il giovane cappellano ha scoperto che “quella paura di rimanere soli si trasformava in rabbia, in vendetta e l’odio diventava la scintilla che faceva compiere a questi ragazzi atti sbagliati, a volte anche efferati”. Parlando della doppia detenzione, la prima dovuta alla pena da scontare, l’altra al Covid, rivela: “Oggi anche noi viviamo il tempo della paura e siamo bloccati, incarcerati. La pandemia che ci sta accompagnando e che ha così fortemente segnato il 2020 ci ha costretto a rinunciare all’abbraccio dei nostri cari, a muoverci, facendoci sentire un po’ tutti reclusi. È un’esperienza a cui non eravamo abituati, né tantomeno pronti, ma forse questo ci permetterà di condividere e di comprendere almeno un po’ quella sofferenza dovuta all’isolamento, alla solitudine e a volte anche all’abbandono che tanti dei nostri ragazzi vivono dentro le carceri”. Il cappellano spesso affianca l’educatore che, in carcere, non è unicamente una figura professionale. Men che meno lo è in un istituto penale minorile perché il rapporto che si stabilisce è molto intenso, un legame forte, fatto di emozioni, di affetti. “Quando arrivano le feste, prevale la tristezza e il rammarico di non poter trascorrere quei giorni insieme a loro” spiega Elisabetta Ferrari, coordinatrice dell’area pedagogica. “Spesso si creano delle relazioni che durano anni, sia per la lunghezza della pena, sia perché entrano ed escono più volte. A Natale ci si rende ancora più conto della loro sofferenza causata dalla lontananza dai cari. Non hanno la possibilità di parlare con le famiglie, se non tramite il telefono. E stiamo parlando di giovanissimi, per cui la privazione è ancora più sentita. Gli unici riferimenti siamo noi che diventiamo la loro famiglia”. L’educatrice descrive, poi, i momenti della festa: “Cerchiamo di organizzare un pranzo o una cena. Prestando servizio al fianco delle ragazze, regalo un fondotinta, un ombretto, una t-shirt. Doni dal valore irrisorio, ma che assumono un significato importante nel momento in cui si ricevono. Gli occhi cominciano a brillare e si riapre, anche se per pochi attimi, il mondo alla normalità. La gratitudine per quell’oggetto di una manciata di euro diventa il collante che ci unisce”. E la “loro” festa? “Per me il Natale vuol dire famiglia” spiega uno dei ragazzi. “Ma io non ricordo più cosa è il Natale e quale è il suo significato perché ormai sono quattro anni che lo trascorro da solo. Prima in carcere, poi in casa senza nessuno e quest’anno di nuovo dietro le sbarre. Quindi per me è un giorno come tutti gli altri. A causa del Covid, fuori di qui - prosegue - sono tutti nelle stesse nostre condizioni e questo mi fa sperare che si riesca a capire meglio quanto sia difficile per noi vivere questo tempo da detenuti. Ma spero soprattutto che nessuno si trovi mai in situazioni simili, perché il carcere è proprio un posto brutto. Mi auguro che questa esperienza finisca al più presto perché voglio tornare ad essere felice come una volta e a stare di nuovo vicino ai miei cari. L’auspicio è quello di recuperare tutto il tempo che ho perso”. Gli fa eco un suo compagno: “Senza la famiglia e senza i nostri figli, qui è dura. Spero che questo virus finisca presto, così potremo tornare a stare insieme, senza preoccupazione per chi è fuori. Quando penso al Natale, mi viene in mente la nascita di quel Bambino che ci ha lasciato una speranza, quella che Dio è sempre con noi e non ci abbandonerà mai perché ci ama anche se siamo peccatori. In un mondo pieno di violenza e di cattiveria, esiste la strada della speranza che ci offre l’opportunità di scegliere che vita fare. Il Natale ci insegna che è possibile amarci ed aiutarci a vicenda perché siamo tutti imperfetti e abbiamo tutti bisogno degli altri. Ogni persona ha cose buone da donarci ed esperienze cattive da cui possiamo imparare”. Migranti. Verità e giustizia per Abdallah Said, mailbombing contro le navi quarantena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 gennaio 2021 È riuscito a sopravvivere alle violenze in Libia e al mare, ma nel nostro Paese no. C’è chi chiede verità e giustizia per Abdallah Said e l’immediata dismissione delle navi quarantena. Quella di Abdallah è una vicenda ancora da chiarire e forse qualche responsabilità da parte della autorità italiane c’è. A ripercorrere la sua storia è Lasciate-CIEentrare, lanciando una campagna di MailBombing: invio massiccio di email indirizzate ai ministeri e la Croce rossa. Abdallah, migrante minore di origine somala affetto da tubercolosi, è morto all’ospedale Cannizzaro di Catania per encefalite il 14 settembre scorso, dopo aver trascorso diversi giorni sulla nave quarantena GNV Azzurra, in rada al porto di Augusta. Il confinamento sulla nave, giustificato dalle misure per il contenimento della pandemia da Covid- 19, secondo LasciateCIEntrare si sarebbe “svolto in condizioni di mancanza di assistenza sanitaria e di tutela del diritto alla salute e alla vita, nonché alla protezione in quanto minore”. Infatti, è emerso che le condizioni di salute di Abdallah erano già gravi durante il trasbordo sulla nave quarantena GNV Azzurra, dove aveva manifestato sintomi di malessere. La patologia tubercolare di cui era affetto non sarebbe stata seriamente presa in carico e il ritardo nell’identificazione del suo stato di sofferenza avrebbe provocato l’aggravamento delle condizioni di salute del minore. Sono già tre le morti che riguardano persone tenute sulle navi quarantena: gli altri due sono Bilal Ben Messaud a maggio 2020 e di Abou Dakite ad ottobre 2020. Ciò dimostrerebbe che questi luoghi non sono in grado di svolgere la funzione di presidi sanitari. “Condizioni di promiscuità, di affollamento e di non rispetto delle misure sanitarie, fanno delle navi quarantena dei luoghi non idonei alla tutela della salute, nonché dei dispositivi privativi della libertà personale che producono gravi violazioni dei diritti”, denuncia sempre LasciateCIEntrare. Ricordiamo il recente documento sottoscritto da oltre 150 associazioni dove si chiede che vengano dismesse le navi quarantena, che sembrano rispondere più a paure indotte che a criteri di una gestione sicura, ragionevole e umana dell’epidemia e dei flussi migratori e reinvestiti i finanziamenti previsti nell’adeguamento dei centri di accoglienza a terra; e che, nel mentre, vengano fornite comunicazioni pubbliche ed esaustive sulla situazione a bordo delle navi, rendendo trasparenti e pubbliche le procedure adottate in particolare nei confronti dei minori e di persone anche con gravi vulnerabilità. Il documento inoltre pone l’attenzione sulla necessità di garantire un’adeguata informazione legale e sanitaria a tutte le persone attualmente presenti sulle navi e l’impegno formale affinché non vengano più trasferite sulle navi anche persone già presenti sul territorio. Infine, chiedono che venga sospesa la prassi della consegna dei decreti di respingimento differito e delle espulsioni consegnate al momento dello sbarco. La Bosnia abbandona i migranti nella neve, l’Unione europea promette gravi conseguenze di Francesco Battistini Corriere della Sera, 14 gennaio 2021 L’Organizzazione internazionale per i migranti parla di “catastrofe umanitaria”, ma le colpe sono anche e soprattutto europee: tutti si voltano tutti dall’altra parte, lasciando Sarajevo da sola, come accadeva all’Italia di fronte alla Libia. “Non vogliamo un’altra Moria!”. Nel mare bianco dei Balcani, quando cala il buio e si va anche a meno dieci, nemmeno il fiato resta ai pakistani e agli afgani che congelano a piedi nudi sul confine tra Bosnia e Croazia. E bisogna risparmiarlo, il vapore che esce dalla gola, per scaldare le dita ghiacciate e passare la ventesima notte nel nulla degli aiuti e nel niente del futuro. “Non vogliamo un’altra Moria!”, hanno gridato tutto il giorno, manganellati e anche di più dalla polizia croata: non vogliono restare a bivaccare qui com’era nel campo di Moria, sull’isola di Lesbo, i turchi alle spalle che li spingevano in mare e i greci di fronte che li respingevano indietro. “Non lasciateci morire…”, sussurrano appena scende la sera, le forze che si cristallizzano e la voglia di protestare che si scioglie, esausta. Qui è lo stesso imbuto della Grecia o di Lampedusa, con la differenza d’un gelo artico da “catastrofe umanitaria” (parole dell’Organizzazione internazionale per i migranti) e nessuno che dia una mano: duemila migranti della Rotta balcanica mollati soli, in boschi da lupi, senz’acqua, senza luce, senza cibo, senza stufe calde, senza una parola di conforto. Le proteste dell’Onu e dell’Ue hanno sortito un primo risultato, e lunedì sera 900 profughi sono stati finalmente soccorsi in novanta tende riscaldate del vecchio campo bosniaco di Lipa, incendiato prima di Natale: sei docce, materassi, coperte, pasti caldi, finalmente. Ma gli altri? Vagano. Aspettano. Tremano. Sperano. S’è di nuovo rotta l’Europa, sulla Rotta dei Balcani. In quelle che l’Italia chiama con un eufemismo “riammissioni”, e che non sono altro che i soliti respingimenti alla frontiera: “riammissioni” in Slovenia, dove a loro volta li fanno “riammettere” in Croazia, in Serbia, in Bosnia Erzegovina e così via, in un silenzioso e vergognoso scarica-migrante. L’Italia blocca tutti prima di Gorizia? La Slovenia ha già progettato un muro di 40 chilometri lungo la frontiera. Il lavoro più sporco è stato commissionato ai croati, ultimo dei Paesi Ue: le torture e le violenze della polizia sono la regola, circolano le immagini di corpi manganellati o peggio, con buona pace della solidarietà internazionale invocata solo dieci giorni dalla Croazia fa per i poveri terremotati e senzacasa di Petrinja. Ma la patata bollente, o ghiacciata, resta in mano ai bosniaci. Che si sono rifiutati di stabilire un campo permanente a Lipa - per questo bruciato dagli immigrati disperati - e ora fronteggiano le proteste dei sindaci e della popolazione: da Bihac a Bradina e fino a Blazuj, dove il campo stavolta sarebbe stato incendiato dagli abitanti, nessun bosniaco vuole i rifugiati sotto casa. La Bosnia ha già accolto 16 mila disperati, 11 mila li ha bloccati al confine meridionale, 6.300 li sta sistemando in campi di fortuna, ma ce ne sono almeno due-tremila che bevono neve e mangiano muschio, indosso soltanto una coperta, ai piedi le infradito (quando va bene), donne e bambini abbandonati come cani randagi. Il web rilancia immagini terribili di filo spinato, facce smagrite, memorie di lager. “Ora basta - tuona il sindaco di Bihac, Suhret Fazlic -, hanno sistemato un campo nella vecchia fabbrica di Bira, ma la gente non vuole qui nessuno! Non abbiamo ricevuto un euro di compensazione né da Sarajevo, né dall’Ue, né da tutti quelli che ci accusano di xenofobia”. I soldi sono uno dei misteri di questa storia. Bruxelles ha versato 90 milioni alla Bosnia e ha sistemato Bira - come Josep Borrell, “ministro” degli Esteri europeo, ha ricordato in una telefonata al presidente bosniaco, Milorad Dodik - ma che fine hanno fatto? Servivano per l’accoglienza: sono finiti solo a rafforzare gendarmerie e dogane, mentre molti campi restano vuoti per non turbare la sensibilità di politici locali e di popolazioni furiose. Circolano accuse e ipotesi, fra le ong sul territorio: gli strani appalti per il cibo ai campi profughi, gestiti da società vicine a ministri del governo, e il dubbio che la corruzione sia diffusa sulla pelle dei migranti come i segni lasciati dalle torture. “State attenti, vi giocate la reputazione”, ha avvertito Borrell, minacciando “gravi conseguenze” per la Bosnia se continuerà a far morire la gente nella neve: se Sarajevo vuole entrare nell’Ue come Stato membro, non è questa la strada. Ma le colpe sono anche e soprattutto europee. Dal 22 dicembre, inizio della nuova emergenza, al solito si voltano tutti dall’altra parte. E lasciano la Bosnia da sola, come accadeva all’Italia di fronte alla Libia. “L’Ue non può restare indifferente - protesta Pietro Bartolo, il medico che per trent’anni ha soccorso i naufraghi di Lampedusa e oggi è eurodeputato. Questa colpa resterà nella storia, come queste immagini di corpi congelati. Che fine hanno fatto i soldi che abbiamo dato a questi Paesi perché s’occupassero dei migranti? Ai Balcani c’è il confine europeo della disumanità. Ci sono violenze inconcepibili, la Croazia, l’Italia e la Slovenia non si comportano da Paesi europei: negare le domande d’asilo va contro ogni convenzione interazionale, questa è la vittoria di fascisti e populisti balcanici con la complicità di molti governi”. La solidarietà è scarsa, rispetto a quel che s’è visto nel Mediterraneo… “Perché per ora ci sono meno morti, nei Balcani. E perché i numeri sono inferiori. Ma i respingimenti sono più disumani. A Lampedusa non è stato quasi mai torto un capello, ai migranti: qui abbiamo prove di decine di torturati. Bisogna svegliare le coscienze!”. Padre Alex Zanotelli ha annunciato uno sciopero della fame, in sostegno alle poche ong e alla Croce rossa che s’occupano di questa folla disperata. E il vescovo di Banja Luka, monsignor Franjo Komarica, ha voluto parlare al cuore dei suoi connazionali: “Bosniaci, tanti di voi hanno provato il pane amaro dei rifugiati e dei profughi di guerra. Oggi, molti di voi fanno i politici. Perché non capite?”. Stati Uniti. Dopo la speranza la morte: uccisa Lisa Montgomery di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 14 gennaio 2021 La Corte federale americana ha annullato la sospensione dell’esecuzione della vigilia. Affetta da disturbi mentali aveva assassinato una donna incinta per rubarle il feto. Una funzionaria della prigione accanto al lettino dove vengono legati i condannati a morte in attesa dell’iniezione letale, si toglie la mascherina e chiede a Lisa Montgomery se volesse proferire le sue ultime parole, lei risponde di no e chiude per sempre la sua bocca. All’1.31 della notte di ieri (le 6.31 in Europa) presso il penitenziario di Terre Haute, stato dell’Indiana negli Usa, si è consumata l’ennesima esecuzione decisa a livello federale e il boia ha messo fine alla vita dell’unica donna detenuta nel braccio della morte da 67 anni a questa parte. Eppure solo lunedi, in una tesissima quanto clamorosa udienza serale, il giudice distrettuale Patrick Hanlon aveva deciso che la pena capitale andava sospesa. Il togato infatti aveva accolto le istanze dei difensori della Montgomery specificando che “l’attuale stato mentale della signora è così separato dalla realtà che non riesce a comprendere razionalmente le ragioni del governo per la sua esecuzione”. Il tribunale poi avrebbe fissato l’ora e la data per un ulteriore udienza “in un ordine separato a tempo debito” in attesa del ricorso, già annunciato, dai pubblici ministeri. Sembrava aver fatto breccia dunque la tesi dei difensori che avevano puntato sulle condizioni psichiche di Lisa Montgomery, mentalmente disturbata a causa degli abusi sessuali subiti da parte del patrigno, con la sostanziale compiacenza della madre, durante l’infanzia. Le violenze subite, secondo altri membri della famiglia natale, sono state così feroci che potevano equivalere a vere e proprie torture. Un’opinione sostenuta anche da 41 avvocati (alcuni a riposo e altri in attività), nonché da organizzazioni umanitarie come la Commissione interamericana sui diritti umani. Ma nonostante tutto ciò, ieri la Corte Suprema, a maggioranza repubblicana, ha ribaltato la sentenza del giudice Hanlon e ha dato via libera all’esecuzione. A niente sono valse le prese di posizioni e le ragioni portate avanti contro la pena di morte a livello nazionale compresa quella della suora cattolica anti pena di morte Hellen Prejean. Probabilmente, in una nazione ancora fortemente caratterizzata dal sentimento biblico degli evangelici, ha contato molto lo spirito di vendetta, non di giustizia, della famiglia e gli amici di quella che fu la vittima di Lisa Montgomery. Era il 2004 quando a Skidmore, nel Missouri, la 23enne Jo Stinnet venne uccisa in circostanze tragiche e inquietanti che molto spiegano circa la personalità disturbata della donna condannata a morte. La vittima venne contattata in rete, un “corteggiamento” lungo e studiato condividendo la passione per i cani. Ma la ragione principale per la Montgomery era che la ragazza era incinta. Un giorno con una scusa guidò quindi fino a casa sua, l’aggredì strangolandola e poi estrasse il feto mentre Jo Stinnet moriva dissanguata. La bambina, che oggi ha 16 anni e vive con il padre, sopravvisse miracolosamente. Quando la polizia arrivò sul luogo del delitto si trovò di fronte una scena da film thriller psicologico, Lisa Montogomery cullava la bambina sostenendo di averla partorita il giorno precedente. Solo dopo qualche tempo la sua storia inverosimile andò in frantumi e confessò l’assassinio. La condanna a morte arrivò nel 2007, l’anno successivo Lisa Montgomery è stata internata in una prigione federale del Texas dedicata a prigioniere con bisogni “speciali”, dove ha ricevuto cure psichiatriche e posta in isolamento per timore che potesse suicidarsi. Le sentenze di morte sono state bandite nel 1972 e poi autorizzate nuovamente 4 anni più tardi, da allora 16 donne oltre a Lisa Montgomery sono state giustiziate, tutte però a livello statale piuttosto che federale. L’ultima a morire per mano del boia governativo fu Bonnie Heady in una camera a gas del Missouri nel 1953. Nella decisione della Corte Suprema potrebbe aver avuto un peso significativo l’attuale clima politico negli Stati Uniti; da 17 anni vigeva una moratoria interrotta da Trump che ha ordinato di riprendere le esecuzioni federali all’inizio dell’anno scorso. E quella della Montgomery è caduta proprio a una sola settimana dall’insediamento di Joe Biden il quale aveva espresso pubblicamente la sua contrarietà. Inoltre Trump ha interrotto una consuetudine che voleva il fermo della pena di morte nell’imminenza di un cambio di presidenza. Stati Uniti. Il silenzio e l’orrore dell’”ultima” esecuzione capitale di Riccardo Noury* Il Manifesto, 14 gennaio 2021 L’esecuzione di Montgomery ha risvegliato dal torpore un’opinione pubblica europea e italiana che sulla pena di morte negli Usa non provava indignazione da molti anni. “Stanotte la vile sete di sangue di un’Amministrazione fallimentare si è mostrata in tutta la sua evidenza. Tutti coloro che hanno preso parte all’esecuzione dovrebbero vergognarsi. La nostra Costituzione è stata violata”. “Infatti proibisce l’esecuzione di una persona che non è in grado di comprendere razionalmente cosa sta per accadere. L’Amministrazione Trump questo lo sapeva bene. E l’hanno uccisa comunque”. Lisa Montgomery non ha detto una parola. All’una e 31 minuti (le 7,30 in Italia) di ieri è stata dichiarata morta. Al suo posto ha parlato la sua avvocata Kelley Henry e ha detto tutto, ma veramente tutto, quello che c’era da dire. Nelle 24 ore precedenti era successa ogni cosa: una sospensione dell’esecuzione decisa da una corte federale, l’annullamento della sospensione da parte della Corte suprema, un nuovo ricorso per la sospensione accolto da una corte federale, un altro annullamento della Corte suprema, un ricorso direttamente alla Corte suprema respinto con un voto di scarto, un vano appello direttamente a Donald Trump per la clemenza. Ieri mattina intorno alle 6.30, dopo centinaia di tweet che per tutta la notte avevano dato aggiornamenti in tempo reale, per un’ora c’è stato un silenzio tombale: il segnale che l’esecuzione era imminente e poi in corso e infine terminata. Dentro, i testimoni senza possibilità di comunicare con l’esterno. Fuori i giornalisti ad attendere. Quel silenzio, quel vuoto di comunicazione è stato impressionante. Per gli appassionati dei numeri e dei record, quella di Montgomery è stata l’undicesima esecuzione federale sotto l’amministrazione Trump in soli otto mesi; è stata anche la prima esecuzione federale di una donna dopo 57 anni; è stata, infine, la prima esecuzione federale durante il periodo di transizione da una presidenza all’altra degli ultimi 130 anni. Per tutti gli altri, è stata una sconfitta. La sconfitta di coloro aveva creduto fino in fondo che “una persona che non è in grado di comprendere razionalmente cosa le sta per accadere” non sarebbe stata messa a morte. La sconfitta di coloro che avevano sperato che la decisione di chi, per la prima volta all’interno delle istituzioni statunitensi (un giudice federale), aveva dato ascolto a Montgomery, reggesse all’impatto con la Corte suprema. Soprattutto, è stata una sconfitta dello stato. Che non ha saputo proteggere la bambina Montgomery dallo stupro, dal suo affitto per sesso ad altri uomini da parte della madre, dalla violenza sessuale del patrigno e dei suoi amici. Che non ha saputo curarla dai traumi provocati dall’orrore subito e da quello visto (lo stupro della sorella maggiore, a sua volta bambina). Che infine non ha riconosciuto la sua malattia. L’esecuzione di Montgomery ha risvegliato dal torpore un’opinione pubblica europea e italiana che sulla pena di morte negli Usa non provava indignazione da molti anni. Le immagini delle manifestazioni di fronte all’ambasciata statunitense a Roma, le veglie per scongiurare le esecuzioni nelle principali piazze delle città italiane sembrano in bianco e nero. Ieri se n’è tornato a parlare. Certo, per l’orrore eccezionale del delitto commesso da Montgomery nel 2004 (l’omicidio di una donna all’ottavo mese di gravidanza con successiva rimozione del feto, brandito come finalmente figlio suo, come a dire “Nel mio corpo è entrato l’orrore, ma ne è anche uscito qualcosa di bello”). Ma anche per l’accanimento dell’amministrazione Trump, per la sua insistenza a chiedere la messa a morte di una persona affetta da danni cerebrali e grave malattia mentale e per l’ostinazione a cercare, mentre scrivo, di annullare la sospensione (dovuta alla positività al Covid-19 di entrambi i condannati) delle esecuzioni previste oggi e domani. La scia di sangue che ha contrassegnato gli ultimi sei mesi di presidenza Trump è stata spaventosa: 11 esecuzioni federali da luglio dopo 17 anni di assenza, la pena di morte (e dunque la vita dei condannati) utilizzata come argomento elettorale per fare presa sul suo elettorato e convincere qualche altro indeciso e impaurito. Negli ultimi decenni si diceva, per paradosso, che se il Texas si fosse dichiarato indipendente la pena di morte avrebbe cessato di essere un problema negli Usa. Nel 2020, con 10 esecuzioni su un totale di 17 (e da ieri siamo a 11 e chissà se dopodomani saremo a 13), è stata l’Amministrazione Trump a proclamare la sua indipendenza: dallo stato di diritto, dai principi costituzionali, dalla decenza e dall’umanità. Tra le tante cose che quella parte di mondo si aspetta da Biden a partire dal 20 gennaio c’è anche l’abolizione della pena di morte a livello federale. La speranza, poiché quell’impegno è stato preso pubblicamente e c’è già una bozza da presentare al Congresso, è che questo sia uno dei primi atti della sua amministrazione. *Portavoce di Amnesty International - Italia Caso Shalabayeva, i giudici: “Fu un vero e proprio sequestro di Stato” di Simona Musco Il Dubbio, 14 gennaio 2021 Le motivazioni della condanna di Cortese e Improta. Un vero e proprio “rapimento di Stato”, una grave “menomazione della libertà personale”. Pesano come un macigno le parole dei giudici di Perugia, che hanno depositato ieri la sentenza con la quale il 14 ottobre scorso hanno condannato a cinque anni di reclusione l’ex capo della Squadra mobile di Roma e attuale questore di Palermo, Renato Cortese, e l’ex dirigente dell’Ufficio immigrazione, Maurizio Improta, per il sequestro di Alma Shalabayeva e della figlia di sei anni Aula. Shalabayeva è la moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov, che nel maggio del 2013, secondo la Procura umbra, è stata sequestrata per essere rimpatriata. La donna e la figlia sono poi tornate in Italia e a Shalabayeva è stato riconosciuto l’asilo politico. Secondo la sentenza, il loro trattenimento forzoso e la successiva espulsione verso la Repubblica del Kazakistan “rappresentano un caso eclatante non solo di palese illegalità - arbitrarietà delle procedure seguite dalle istituzioni italiane, ma, soprattutto, una ipotesi di palese violazione dei diritti fondamentali della persona umana”. Per i giudici si tratta di “un crimine di eccezionale gravità, lesivo dei valori fondamentali che ispirano la Costituzione repubblicana e lo Stato di diritto”. Al punto da spingersi a definire la norma incriminatrice “quasi non adeguata a rappresentare, compiutamente, le dimensioni della condotta delittuosa e le devastanti conseguenze che essa ha cagionato”. Un unicum nella storia giudiziaria italiana che presenterebbe “chiari segnali di eccezionalità e di straordinario accanimento persecutorio”. La circostanza più scioccante, per il Collegio, è che nessun dirigente o funzionario della Polizia di Stato abbia riflettuto sul fatto che la possibile estradizione di Ablyazov e la successiva espulsione della moglie e della figlia “sarebbero avvenute in favore di un paese, il Kazakistan, messo all’indice, nella comunità internazionale, proprio perché nazione che violava i diritti umani, anche praticando la tortura e la eliminazione fisica degli oppositori”. Ablyazov era stato dipinto “con le sembianze di un Bin Laden kazako, cioè di un pericoloso terrorista internazionale, quasi certamente armato, che metteva in “pericolo la sicurezza del nostro paese” (furono queste le parole usate dal ministro dell’Interno nel colloquio con il suo Capo di Gabinetto, sollecitandolo ad incontrare i rappresentanti del Kazakistan)”. Le autorità kazake, però, avevano mentito, nel tentativo di far apparire Ablyazov come persona legata ad ambienti terroristici e, pertanto, pericoloso, in quanto “avrebbe potuto adoperare le armi in caso di arresto”. Ma non solo i reati di cui era accusato erano di natura economica, “nel maggio 2013 gli investigatori privati italiani e israeliani, che lavoravano per conto dei committenti kazaki, non avevano mai avuto occasione di constatare che Ablyazov circolasse armato o disponesse di una scorta armata”. La domanda chiave, rimasta senza risposta, è chi diede l’ordine di tale “deportazione”. Ovvero il livello istituzionale di tale decisione. Domanda che lo stesso tribunale si è posto, pur senza essere in grado di risolvere il quesito, pur potendo sostenere comunque “una limitazione o compressione della nostra sovranità nazionale”. E ciò perché i rappresentati dello Stato imputati nel processo “accantonarono il giuramento prestato alla Costituzione e di fatto servirono gli interessi di altra nazione, cioè della dittatura kazaka”. Insomma, tutta l’operazione fu “eterodiretta dall’autorità kazaka, deus ex machina dell’intera procedura espulsiva”, una procedura che di fatto ha prodotto “una plateale violazione della norma che garantisce la libertà dello straniero di corrispondenza, anche telefonica, con l’esterno”. “La sentenza è molto puntuale e ha uno sviluppo logico estremamente rigoroso - ha commentato al Dubbio il professor Astolfo di Amato, legale di Shalabayeva e della figlia. I magistrati hanno fatto un lavoro eccellente nell’analisi e nella valutazione delle prove”. E anche se l’interrogativo sulla catena degli ordini non ha trovato risposta, il tribunale ha ricostruito le telefonate che, fino all’ultimo minuto, ci sono state tra i diplomatici del Kazakistan e il prefetto. “Non è dunque assolutamente vero - ha concluso - che la polizia si sia disinteressata. E le telefonate risultano anche tra i kazaki e Cortese”. Human Rights Watch. “Il 2020 in Cina l’anno più buio dal massacro di Tienanmen” di Luca Geronico Avvenire, 14 gennaio 2021 Pechino maglia nera dei diritti umani per la repressione ad Hong Kong e contro le minoranze. Nei 4 anni di Trump “erosa la credibilità degli Usa all’estero”. Diritti umani violati in molti Paesi. “Dopo quattro anni con al potere Trump, indifferente e spesso ostile ai diritti umani, la presidenza Biden rappresenta una opportunità per un cambiamento fondamentale”, ha esordito Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, presentando a New York il “World Report 2021” che fotografa la situazione dei diritti umani in 100 nazioni. Quattro anni di “vuoto” che hanno lasciato il segno, ed “eroso la credibilità degli Stati Uniti all’estero. La condanna statunitense di Venezuela, Cuba o Iran è suonata vuota come, in parallelo gli elogi a Russia, Egitto, Arabia Saudita o Israele”, ha aggiunto Roth, ex procuratore federale. Scontate le speranze dell’Ong statunitense verso la nuova Amministrazione democratica, anche se nel frattempo “altri governi si sono fatti avanti per difendere tali diritti. L’amministrazione Biden - ha aggiunto il direttore di Hrw - dovrebbe cercare di unirsi e non sostituirsi a questo nuovo sforzo collettivo, mentre gli altri governi dovranno continuare l’impegno nella difesa dei diritti umani senza dipendere da quello che fanno gli Stati Uniti”. È questa la “nuova frontiera” per la più importante organizzazione umanitaria statunitense. Si sono infatti create nuove coalizioni per proteggere i diritti: i governi dell’America Latina e il Canada in Venezuela, l’Organizzazione della cooperazione islamica per difendere i Rohingya, numerosi governi europei sono intervenuti ad esempio in Bielorussia, Arabia Saudita, Siria ed è cresciuta una coalizione di Paesi pronti a condannare la persecuzione degli Uiguri in Cina. Ed è infatti a Pechino che viene assegnata la maglia nera nella violazione dei diritti umani nell’anno appena concluso: “La Cina è nel pieno del suo periodo più buio sul fronte dei diritti umani dal massacro di Tienanmen del 1989”, denuncia il direttore di Human Rights Watch, additando la repressione delle minoranze etniche nello Xinjiang, Mongolia e Tibet, la repressione politica a Hong Kong e il tentativo di insabbiare l’insorgenza della pandemia da Covid-19. Una situazione “emblematica del peggioramento della situazione dei diritti umani sotto il presidente Xi Jinping”, ha affermato Roth. Anche la pandemia da Covid-19 ha avuto pesanti ricadute sui diritti delle persone: è aumentata la forbice delle diseguaglianze sociali ed economiche, come sono in crescita le discriminazioni ai danni di migranti e minoranze in tutto il mondo, Europa compresa. Oltre che in Cina, sempre molto problematica è pure la situazione in Russia, ma altri Paesi con derive autoritarie hanno sfruttato l’emergenza socio-sanitaria per governare con il “pugno di ferro”. Una tendenza che Hrw denuncia in particolare in Egitto e in Ungheria. “Basta essere indulgenti, Egitto e Cina sono dittature. Il business non è sovrano. Dopo Regeni, l’Italia non deve più vendere armi ad Al Sisi” ha concluso Roth. Anche per l’Unione Europea “è stato un anno impegnativo per la protezione dei diritti: alcuni Stati membri stanno scivolando sempre più verso un governo autoritario”, è stata l’analisi di Benjamin Ward, responsabile di Hrw per l’Europa. La malattia e le conseguenze economiche dei lockdown in alcuni casi sono state il pretesto per alcuni governi per rafforzare il potere, promuovere politiche anti-diritti, limitare le libertà. Messico. Bambini migranti in detenzione e più di 100.000 persone sul confine di Vittoria Romanello La Repubblica, 14 gennaio 2021 Gran numero di attacchi contro bambini e adolescenti, ma anche di sparizioni e omicidi di persone spesso senza documenti. Si è trasformato il panorama migratorio dell’America Latina. I bambini sono a rischio. Tra le persone costrette ad aspettare in Messico l’esito delle loro richieste di rifugio negli Stati Uniti, i minori sono le più vulnerabili e urge che le autorità messicane garantiscano che non saranno detenuti nelle stazioni migratorie, ma accolti in spazi che proteggano la loro integrità psicofisica. Lo afferma Jorge Vidal Arnaud, direttore nazionale dei programmi dell’organizzazione civile Save the Children Mexico, il quale ha sottolineato come sono proprio i minori a risentire maggiormente dello stress del processo migratorio. Arnaud ha indicato che attualmente ci sono più di 100.000 persone sul confine settentrionale del paese, nell’ambito del programma Stay in Mexico, in attesa che le autorità statunitensi rispondano alla loro richiesta di rifugio, spesso sono persone esposte ad attacchi da parte di gruppi della criminalità organizzata. “Siamo molto preoccupati soprattutto per il numero di attacchi contro bambini e adolescenti: l’incidenza di sparizioni e omicidi in Messico è più grave per la popolazione migrante, a volte senza documenti”. Il nuovo governo di Joe Biden: una speranza. Dopo aver avvertito che il numero di richiedenti rifugio aumenterà e che molti di loro potrebbero scegliere di rimanere in Messico, Vidal ha insistito che i bambini dovrebbero rimanere “in spazi dove la loro protezione è garantita, ma il grosso problema è che non ci sono soldi per farlo. Il budget 2021 per la loro protezione è insufficiente “. Per quanto riguarda la possibilità che la politica migratoria degli Stati Uniti possa cambiare con l’arrivo di Joe Biden, Vidal ha stimato che potrebbe esserci una maggiore apertura sulla linea di confine, ma questa non è una garanzia di un trattamento più appropriato. Importante includere i migranti nei piani di vaccinazione. Anche Il capo della Missione in Messico dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), Dana Graber Ladek, ha detto che il Messico dovrebbe dare la priorità ai migranti nella fase di vaccinazione contro il coronavirus nel 2021 e promuovere schemi che favoriscano il non detenzione. Secondo l’IOM, la pandemia dovuta alla pandemia ha trasformato il panorama migratorio dell’America Latina, dove un gran numero di persone ha perso il lavoro nei paesi di origine. Secondo il capo dell’IOM in Messico, i governi dovrebbero includere i migranti nei piani di riattivazione economica post- pandemia, così come nei piani di vaccinazione. Graber Ladek ha affermato che c’è grande preoccupazione per la prevalenza di barriere che impediscono ai migranti di accedere ai servizi sanitari, inclusi bambini, donne incinte e adulti più anziani. l’IOM stima che il 25% dei migranti residenti nel paese e inizialmente diretti negli Stati Uniti abbia cambiato idea a causa della pandemia. “Vogliono restare in Messico o tornare nei loro paesi di origine”, ha detto il rappresentante della Missione. Le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni indicano che ci sono circa 272 milioni di migranti internazionali nel mondo, che equivale al 3,5% della popolazione mondiale. In Libano curarsi è un privilegio. Paese in crisi, non solo per il Covid di Pasquale Porciello Il Manifesto, 14 gennaio 2021 Da oggi scatta il lockdown. Sanità in mano ai privati, corruzione, numeri dei contagi che non tornano. E la campagna vaccinale partirà solo a febbraio. Ospedali strapieni costretti a rifiutare malati, sanità pubblica e privata in tilt, numeri da incubo: è questo l’attuale scenario apocalittico libanese. Una sola parola d’ordine: wasta, che in dialetto significa “aggancio”, “conoscenza”, ovvero quel “contatto” giusto che serve anche per trovare un posto in ospedale e che oggi significa “vita o morte”. È questo del resto il cardine su cui uno stato assente e corrotto fin nelle viscere fa girare la società libanese da decenni. La sanità è inoltre in Libano - eccetto pochi presidi pubblici - totalmente privata, come buona parte dei settori strategici, effetto di quelle politiche di neo-liberismo sfrenato degli ultimi trent’anni e di cui il popolo non ha certo beneficiato. “Per mio padre abbiamo pagato 2,5 milioni al giorno per il posto letto, 1.300 dollari - abbiamo dovuto pagare in dollari - per 5 dosi di Remdesivir, più 4 milioni per esami vari”. Il tasso di cambio applicato è di circa 4mila lire per 1 dollaro, 1milione per 250 dollari. Per fortuna il padre di Lama ce l’ha fatta. Se l’è potuto permettere. Tra 4 e 6mila casi, 30 e 60 morti al giorno nell’ultima settimana, positività oltre il 15% su un territorio grande come l’Abruzzo. Solo “la punta dell’iceberg” per il dottor J. Khalife, specialista di sanità pubblica e membro del comitato indipendente “Zero Covid”, che ipotizza invece 15/20mila casi giornalieri, essendo i tamponi a pagamento, non accessibili, e il monitoraggio inadeguato. I primi vaccini solo a febbraio. L’Alto Consiglio della Difesa ha dichiarato lunedì lo stato di emergenza sanitaria. Da oggi al 25 gennaio il paese è in un lockdown strettissimo: coprifuoco dalle 17 alle 5. Uffici, banche, negozi e bar chiusi, solo gli alimentari aperti, a eccezione dei supermercati che potranno operare unicamente consegne, come pure i ristoranti. Restrizioni anche all’aeroporto: obbligo di entrata con tampone negativo e di prenotazione in albergo a prezzo fisso di 100 dollari a notte - fino all’esito del tampone all’arrivo in aeroporto sempre a pagamento in dollari e non in lire - anche per chi ha un’abitazione privata. È ancora il solito business à la libanaise. Il Libano attraversa dall’ottobre 2019 una profonda crisi sociale, politica ed economica che ha portato a una massiccia protesta popolare, alla svalutazione della moneta dell’80%, al congelamento dei conti in banca dei libanesi e alla dichiarazione di insolvenza a marzo. Poi il Covid, la chiusura dell’unico aeroporto da marzo a luglio, il 4 agosto la terribile esplosione che ha devastato la città, provocando circa 200 morti e migliaia di feriti. Da novembre 2019 a oggi si sono succeduti quattro premier (Hariri, Diab, Adib e ancora Hariri). Da ottobre il paese è in attesa della formazione del nuovo governo in teoria spalleggiato dalla Francia per riformare il paese e uscire dalla crisi. Che il ministro della sanità sia in stato di isolamento perché i suoi collaboratori sono risultati positivi ieri al Covid è, anche se solo sul piano simbolico, emblematico di quanto la situazione sia sfuggita di mano. L’impennata di contagi è senza dubbio dovuta anche alle aperture in pratica senza regole nel periodo natalizio, che se da un lato hanno dato un minimo di linfa all’economia in ginocchio, dall’altro hanno portato all’emergenza. Le file ai supermercati alla vigilia del lockdown non hanno certo aiutato. L’Osservatorio per i Diritti Umani ha ieri dichiarato che nel paese è in corso “il più drastico deterioramento dei diritti umani in decenni” che il Covid ha esasperato. Un baratro dal quale il Libano e il suo popolo difficilmente usciranno indenni.