Subito il vaccino nelle carceri di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 13 gennaio 2021 Uno Stato, che sa riconoscere la condizione di estrema debolezza che stanno vivendo le persone che ha in custodia nelle sue carceri, e che ha il coraggio di non punirle ulteriormente, ma di curarle nel modo più scrupoloso e di proteggerle, è uno Stato più forte. Ogni volta che, negli incontri di confronto tra le scuole e il carcere, sento qualche studente fare delle domande sulla vita detentiva, e sento qualche persona detenuta rispondere che alcuni aspetti della giornata di un detenuto, in fondo, sono un po’ come fuori, penso che no, non è vero, non c’è niente nella vita da galera, neppure nella migliore delle galere, che assomigli alla vita libera. E anche una delle regole penitenziarie europee che dice che “La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”. mi infastidisce per quanto è lontana dalla realtà. Questa distanza siderale che c’è fra il dentro e il fuori oggi è resa ancora più profonda dalla pandemia, che ha creato delle apparenti vicinanze, come quella di aver fatto sperimentare agli uomini liberi una piccola forma di isolamento, ma in realtà ha reso ancora più pesanti le diversità. Scrivono la senatrice a vita Liliana Segre e il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale Mauro Palma, in un appello che sottolinea la necessità di considerare l’ambiente carcerario come luogo di attenzione prioritaria nel sistema di vaccinazione che il nostro Paese sta predisponendo: “Il carcere è luogo strutturalmente chiuso, dove peraltro, dati i numeri attuali, la misura preventiva del distanziamento è impossibile e dove il tempo trascorso all’interno di un ambiente stretto e condiviso, quale è la camera di pernottamento, ricopre ampia parte della giornata, se non quasi la sua totalità. La connotazione personale e sociale della popolazione detenuta rivela inoltre una particolare vulnerabilità dal punto di vista sanitario, dati i difficili percorsi di vita che molto spesso connotano coloro che giungono in carcere”. Ecco, torna con forza il tema che quasi niente in carcere si può considerare “normale”, e che pensare a una strategia della somministrazione del vaccino basata sulle regole della “società libera” sia indirettamente un modo per mettere pesantemente a rischio la vita di chi in carcere vive e di chi ci lavora. È come quando si parla di salute, e si crede che negli Istituti di pena basterebbe rendere un po’ più efficiente il sistema sanitario, i Centri clinici, il servizio di Guardia medica per evitare tante scarcerazioni per motivi di salute. No, non basta, in carcere si sommano fragilità su fragilità, in carcere i tempi di intervento sui problemi di salute sono spesso lentissimi, in carcere il tema della sicurezza schiaccia tutto, in carcere, quando c’è un problema di salute, ci si ritrova malati e in più lontani da ogni affetto e soli e spaventati. Uno Stato che sa riconoscere la condizione di estrema debolezza che stanno vivendo le persone che ha in custodia nelle sue carceri e che ha il coraggio di non punirle ulteriormente, ma di curarle nel modo più scrupoloso e di proteggerle, è uno Stato più forte, a cui si rivolge anche la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia per chiedere che i detenuti, gli operatori penitenziari e tutti coloro che svolgono attività lavorative ed educative in carcere, vengano inseriti tra le categorie prioritarie nella vaccinazione contro il Covid 19. Per prevenire l’attacco del virus, ma anche per curare carceri rese sempre più simili a deserti, vuote di relazioni e di vitalità, e per rigenerare un clima di dialogo e di assunzione di responsabilità che aiuti e avvicini sempre più persone detenute a un percorso di rientro nella società. Perché un carcere “cattivo”, lontano dalla società e chiuso ogni giorno di più non aiuta nessuno, neppure le vittime. Da vittima, che ha vissuto l’orrore dell’uccisione del padre, Agnese Moro ci ricorda che “in realtà gli anni di carcere, il fatto che il carcere sia duro, non sono un risarcimento nei confronti del dolore delle vittime. Anzi io credo che il carcere sia il più grande ostacolo a una qualsiasi risoluzione o cura del dolore delle vittime, perché il carcere per antonomasia è l’emblema della lontananza: io ti isolo, ti allontano da me, e purtroppo invece più tu stai lontano dalle persone che ti hanno fatto del male, meno tu puoi guarire. (…) Non è la lontananza che ti può aiutare, paradossalmente l’unica cosa che ti può aiutare è la vicinanza con ‘l’altro’, con chi ti ha fatto del male. È quella vicinanza che fa tornare i mostri che hai nella testa delle persone reali”. Le carceri devono allora essere vicine alla società, “aperte”, umane. Firmiamo la petizione rivolta al Ministro della Salute. “Covid19: subito il vaccino nelle carceri!”: https://www.change.org/p/ministro-della-salute-subito-il-vaccino-covid19-nelle-carceri?redirect=false *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Covid-19, subito il vaccino nelle carceri: la petizione di Dario Paladini redattoresociale.it, 13 gennaio 2021 È rivolta al ministro Speranza e al commissario straordinario Arcuri e ha raccolta in cinque giorni oltre 1.500 firme. Come nelle Rsa, anche nelle carceri persone a rischio. In cinque giorni ha già raccolto oltre 1.500 firme la petizione on line che chiede di vaccinare al più presto detenuti e chi nelle carceri lavora. Lanciata da La Società della Ragione Onlus, sta riscuotendo consenso tra gli operatori e i volontari. “Appare drammaticamente evidente che le prigioni rappresentano uno dei posti a più alto rischio di rapida diffusione del virus in caso di contagio. Anche all’esterno -si legge nella petizione indirizza al ministro della Salute, Roberto Speranza, e al commissario straordinario per l’emergenza Covid19 Domenico Arcuri. Non a caso il Comitato Nazionale per la Bioetica (nel parere “Covid-19: salute pubblica, libertà individuale, responsabilità sociale”, maggio 2020), definisce le carceri come situazione particolarmente critica, anche perché critiche sono le condizioni di partenza e inserisce le persone rinchiuse tra i gruppi più vulnerabili al contagio, assieme agli anziani confinati nelle Rsa”. “Ma se le carceri sono come le Rsa e i detenuti rappresentano un gruppo ad alta vulnerabilità bio-psico-sociale, come mai non sono stati inseriti tra le categorie prioritarie della campagna vaccinale contro il Covid-19, a differenza degli ospiti delle Rsa?”. Nella petizione si ricorda che “nelle circa 200 carceri italiane vivono e lavorano più di 100.000 persone; oltre a detenuti e detenute, anche operatori di polizia penitenziaria, personale socio-sanitario, amministrativo e di direzione. Persone non solo quotidianamente a rischio personale, ma anche potenziali diffusori del virus al di fuori”. Il testo della petizione è sulla piattaforma change.org: https://www.change.org/p/ministro-della-salute-subito-il-vaccino-covid19-nelle-carceri?redirect=false Covid: risale il contagio tra i detenuti e gli agenti ansa.it, 13 gennaio 2021 “Gli ultimi dati sui contagi da Covid-19 nelle carceri, fanno segnare una nuova inversione di tendenza al rialzo; dopo giorni di discesa, infatti, secondo i dati censiti dall’Ufficio Attività Ispettiva e di Controllo del Capo del Dap, alle ore 20.00 di ieri erano 624 i casi di positività al coronavirus fra i detenuti e ben 709 fra gli operatori (fra i quali non vengono più ricompresi i sanitari). Ricordiamo che quattro giorni prima, il 7 gennaio scorso, erano 556 i detenuti e 688 gli operatori affetti da Sars-CoV-2”. Lo riferisce Gennarino De Fazio, segretario della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, che ammonisce: “non è il momento di abbassare la guardia e, anzi, è ancora più attuale l’urgenza di interventi governativi che muovano in più direzioni: da un lato, verso il deflazionamento della densità detentiva, il rafforzamento della Polizia penitenziaria, di cui vanno migliorati anche gli equipaggiamenti, e il potenziamento del servizio sanitario reso in carcere; dall’altro, mirando alla messa in campo di una campagna vaccinale, che riguardi operatori e detenuti, con adeguati criteri di priorità contemperati con le esigenze complessive del Paese, ma che tengano conto della promiscuità delle nostre carceri, fatte anche di sovraffollamento, carenze strutturali e deficienze organizzative”. “Al netto della meritoria opera del Capo del Dap Petralia e, in generale, dei Vertici dell’Amministrazione Penitenziaria che, evidentemente, fanno ciò che possono alle condizioni date e con gli strumenti messi loro a disposizione dal Governo, si teme - rileva De Fazio - che la situazione possa presto ritornare ai picchi dello scorso mese di novembre”. “Fra gli altri, allo stato attuale preoccupano, in particolare - prosegue il leder della Uil-Pa Pp - gli istituti penitenziari di Sulmona, Napoli Secondigliano, Roma Rebibbia, Roma Regina Coeli, Vicenza, Lanciano, Venezia SMM, Vigevano, Bergamo, Trento, Belluno e Lucera. Proprio ieri, peraltro, il Covid ha fatto un’altra vittima fra gli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria, togliendo all’affetto dei suoi cari e dei colleghi un Vice Ispettore in servizio presso la Casa Circondariale di Lanciano”. “In un frangente in cui si respirano anche venti di crisi di Governo - conclude De Fazio - rivolgiamo allora un ennesimo appello a tutte le istituzioni interessate affinché si intervenga con più decisione ed efficacia sul sistema penitenziario e, lo ribadiamo, si avvii compiutamente la programmazione della somministrazione del vaccino di cui ad oggi non si hanno notizie”, conclude il sindacalista della Uilpa. Da Sulmona a San Vittore, la mappa dei contagi dietro le sbarre di Andrea Carli Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2021 L’istituto di detenzione abruzzese e il carcere di Venezia costituiscono i due i focolai principali, stando ai dati aggiornati all’8 gennaio scorso. Dimezzati i casi tra i detenuti, mentre tornano ad aumentare quelli tra i poliziotti che lavorano nei penitenziari. Sulmona, in provincia dell’Aquila, è davanti per numero di casi, seguita a stretto giro da Venezia. Bollate e San Vittore sono in coda. Il carcere è uno dei posti in cui il distanziamento tra le persone, regola base per contenere i contagi Covid, è a rischio. L’emergenza Coronavirus già da tempo ha messo nel mirino il sistema carcerario, scatenando anche la protesta dei detenuti, talvolta violenta (si pensi a quanto è accaduto fra il 7 e il 9 marzo in decine di strutture penitenziarie). Il resoconto più aggiornato vede da una parte diminuire i contagi tra i detenuti (dimezzati rispetto al picco di un mese fa), dall’altra aumentare quelli tra i poliziotti che lavorano nei penitenziari. Stando alle ultime rilevazioni del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (dati aggiornati alle 20 dell’8 gennaio scorso) i detenuti positivi sono 537. Erano invece 1.088 il 13 dicembre dell’anno scorso, giorno in cui si è raggiunto il massimo contagio nei penitenziari. La stragrande maggioranza delle persone attualmente positive è costituita da asintomatici: sono 499, a fronte di 12 sintomatici curati nelle carceri. Altri 26 detenuti sono ricoverati in ospedale. Per la prima volta si arresta la discesa del contagio tra i poliziotti penitenziari - A questi numeri sulla popolazione carceraria fanno da “contraltare” le cifre sul contagio tra la polizia penitenziaria. I positivi tra gli agenti sono 635 a fronte dei 609 del 4 gennaio. Oltre a loro, ci sono altri 60 casi tra il personale amministrativo e dirigenziale dell’amministrazione penitenziaria. In tutto i dipendenti ricoverati sono 13. Desta preoccupazione la situazione di Venezia - Per quando riguarda i detenuti, la diffusione del Coronavirus è a macchia di leopardo: la situazione non è uniforme sul territorio nazionale, con vecchi focolai in alcuni istituti che continuano a preoccupare e altri nuovi che si accendono. Così se il carcere di Sulmona resta in testa per numero di casi (52, ma il mese scorso avevano sfiorato il centinaio) ora allarma anche il carcere di Venezia con 46 positivi, tutti asintomatici. Altri focolai sono nel carcere di Lanciano con 29 contagiati e nel penitenziario romano di Regina Coeli con 35. Sempre nella capitale sono 28 i positivi nelle varie strutture di Rebibbia. In Lombardia invece il maggior numero di contagi è concentrato nel carcere di Opera (29, di cui 26 asintomatici, e altri 5 ricoverati in ospedale) e in quello di Bergamo (25 asintomatici, mentre uno dei reclusi è in ospedale). Seguono Bollate (15 gli asintomatici, 2 con sintomi e un detenuto ricoverato in ospedale) e San Vittore con 16 positivi. Individuati 17 positivi in penitenziario di Vigevano - Un focolaio di Covid è stato scoperto nei giorni scorsi all’interno della casa di reclusione di Vigevano (Pavia): 17 detenuti positivi, tutti appartenenti alla stessa sezione di media sicurezza maschile, tutti già trasferiti a San Vittore a Milano o Bollate (Milano), istituti più attrezzati dal punto di vista sanitario. Nessuno di loro risulta grave, solo 3-4 paucisintomatici e gli altri asintomatici. La diffusione del contagio si è scoperta quando uno dei detenuti l’8 gennaio ha manifestato alcuni sintomi: sono stati tracciati e sottoposti a test tutti i suoi contatti, con 17 positivi. Il personale addetto a quella sezione è stato a sua volta sottoposto a tampone: sono risultati tutti negativi. Al momento ci sono quattro agenti a casa in isolamento perché positivi, ma da tempo e senza alcuna relazione con quel cluster. Strettamente connessa alla questione dei contagi è quella del piano per le vaccinazioni. In questo contesto, infatti, gli istituti di detenzione compaiono nel cosiddetto “T3”, l’ultimo step prima della somministrazione a tutta la popolazione che non rientra nelle categorie “protette”. Uno step, cioè, che prenderà il via quando la copertura della popolazione sarà al 50%, approssimativamente in primavera inoltrata. Stando ai dati del ministero della Giustizia, ad oggi nelle Case circondariali italiane ci sono circa 4.500 over 60, soggetti, dunque, più a rischio contagio. Economia carceraria: uno spunto per tutti. Considerazione politico-sociale di Marcello Maria Pesarini Ristretti Orizzonti, 13 gennaio 2021 Dalla scorsa primavera molte volte, anche con sincerità, noi che abbiamo dovuto cambiare i nostri ritmi, ed ancor più quelli che hanno perso o indebolito il proprio lavoro ed i propri mezzi di sostentamento, abbiamo affermato che ci sentivamo reclusi, o in guerra. Ciò è lecito, ma bisogna guardare la realtà con occhi aperti. È necessario agire a favore dei precari, degli studenti, dei disabili, di chi ha perso di più, anche in contatti umani, e spingere l’attuale governo a crederci veramente. Bisogna includere fra i meno favoriti chi vive in cattività, come gli anziani, ed ancora di più i detenuti. L’appello - L’on. Liliana Segre e il Garante Nazionale dei detenuti Mauro Palma hanno lanciato un appello al Ministro Speranza per fare vaccinare i detenuti in quanto soggetti fragili, come i residenti nelle R.S.A. e il personale sanitario, e la Società della ragione Onlus ha lanciato una raccolta di firme che ne ha raggiunte 1500 in poche ore. La Giustizia e la Sanità italiane debbono riconoscere questa realtà, applicando ai detenuti i loro diritti costituzionali, fra i quali anche la rieducazione e il lavoro. Su questo fronte ricordiamo invece che solo il 30% dei detenuti era impiegato in attività lavorative al 31 dicembre 2019. Citiamo come fonte delle notizie che seguono Vanity Fair, non nuova a simili interessamenti (ricordiamo il servizio sul mancato risarcimento dell’ingiusta detenzione, battaglia tutt’ora in corso, di cui è portavoce Giulio Petrilli che ne fu vittima). Il fatto - Paolo Strano e Oscar La Rosa hanno fondato “Economia carceraria”, un progetto per promuovere la collaborazione fra imprese e cooperative che investono nelle carceri assumendo persone in esecuzione penale. Dalla nascita nel 2013 dell’associazione “Semi di libertà” per professionalizzare i detenuti, Strano è passato al birrificio artigianale “Vale la pena”. Paolo incontra Oscar La Rosa, laureatosi con una tesi sull’impatto dell’Economia Carceraria. Qui ha luogo il passo in avanti: nel 2018 nasce il Primo Festival nazionale di Economia Carceraria. Perché? Il primo, decisivo motivo è che nella “gara delle bontà”, definizione di un veterano del volontariato, spesso vengono disperse energie e non vengono superate le difficoltà legali, così come i guadagni per chi ne ha veramente bisogno, si assottigliano. Ora, con 13 realtà produttive, Economia Carceraria è una proposta valida per presentarsi sul mercato in modo positivo e compatto. Sopperendo alle difficoltà della pandemia, è stata lanciata l’e-commerce di Economia Carceraria per aiutare la distribuzione. Un po’ di storia delle Marche - In una società che si sente, a ragione, un po’ reclusa, una ventata di iniziativa. Nuova, ma non la prima. Dalle magliette Made in jail di Rebibbia degli ultimi anni 90, alle prime presenze di realtà simili a confronto alla Fiera Eco & Equo promossa dalla Regione Marche negli anni 2008-2010, fino alle tante attività esposte da molti anni all’Arte Sprigionata, giornate di incontro della Casa Circondariale di Pesaro e della Casa Mandamentale di Macerata Feltria (chiusa improvvidamente dalla Spending Review anni fa) con la cittadinanza e con altri soggetti coinvolgibili. Prima di affrontare quanto prima il presente nelle Marche, leggi, volontariato e privato-sociale, una notizia che fa piacere: per una presenza femminile che si aggira sul 4-5% del totale, moltissime iniziative produttive partono dalle detenute donne. La sfida dell’Esecutivo: stop ai processi “lumaca” di Simona Musco Il Dubbio, 13 gennaio 2021 Ecco cosa prevede il Pnrr per la giustizia: a disposizione 3 miliardi e 10 milioni. Scompare il riferimento ai “furbetti” della prescrizione. Tre miliardi e dieci milioni di euro. A tanto ammonta l’intervento sull’innovazione organizzativa della Giustizia contenuto nel Piano nazionale di ripresa e resilienza approdato ieri sera in Consiglio dei ministri. Intervento costituito per 1 miliardo e 10 milioni da risorse complementari provenienti dagli stanziamenti della Legge di Bilancio. Lo scopo del governo è quello di ridurre notevolmente i tempi della giustizia, puntando su un tema caro agli avvocati: la ragionevole durata del processo. Un passaggio non da poco se associato all’eliminazione, dal Piano, di uno dei passaggi più pruriginosi delle precedenti versioni: il giudizio implicito sulla tendenza degli avvocati a preferire la prescrizione ai riti alternativi. Nella bozza del 6 dicembre, infatti, il governo rivendicava la cancellazione della prescrizione come un primo, importante, passo verso l’adeguamento agli standard europei, criticando tra le righe la “preferenza” degli avvocati per la prescrizione. Parola che, ora, scompare quasi totalmente dal documento, se non per un passaggio finale, laddove si sottolinea la volontà di snellire il processo, e quindi evitare che si consumino prescrizioni, “senza conculcare i fondamentali diritti di azione e di difesa”. Una prova, forse, del tentativo di mediare le spinte giustizialiste del M5s con le richieste di garantismo avanzate da Italia Viva nella strategia renziana di destabilizzare la poltrona di Giuseppe Conte. Il piano punta su digitalizzazione, utilizzo delle tecnologie e su un nuovo modello organizzativo. A partire dall’ufficio per il processo, “modello di collaborazione” che porta al fianco dei giudici personale tecnico di supporto. Gli addetti all’ufficio del processo aiuteranno i magistrati nello studio della controversia e della giurisprudenza pertinente, predisponendo le bozze di provvedimenti e collaborando alla raccolta della prova dichiarativa nel processo civile. Mentre per lo smaltimento del contenzioso tributario pendente davanti alla Corte di Cassazione (52.540 procedimenti, nel 2019, contro i 51.583 di tutte le altre sezioni civili messe insieme, esclusa la materia dell’immigrazione), il piano prevede l’assegnazione, in via straordinaria, di magistrati onorari ausiliari. Le parole d’ordine per il civile sono riduzione dei riti e semplificazione. Il piano prevede dunque il passaggio ad un unico rito, la riduzione delle competenze al tribunale collegiale, la revisione del giudizio di appello, il cui atto introduttivo sarà il ricorso e prima udienza non oltre i 90 giorni, l’anticipazione dei termini per il deposito delle memorie di precisazione o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni, l’eliminazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni, l’esclusione del ricorso obbligatorio alla mediazione in materia di responsabilità sanitaria, contratti finanziari, bancari e assicurativi. Per quanto riguarda la negoziazione assistita, gli avvocati potranno anticipare, dove possibile, una parte dell’attività istruttoria, per agevolare l’accertamento dei fatti prima dell’inizio del processo. Ma la riforma punta anche a favorire conciliazioni giudiziali o transazioni extragiudiziali attraverso misure di incentivazione fiscale. Infine, “sono in fase di elaborazione alcune misure in materia di spese di giustizia”, con meccanismi premiali quando le parti “concorrano a snellire la fase decisoria in Cassazione” e un’accelerazione, attraverso la digitalizzazione, del procedimento di liquidazione. Sparita dalla bozza la previsione del riconoscimento dell’amministrazione della giustizia quale soggetto danneggiato nei casi di responsabilità aggravata per lite temeraria. Anche per il penale si punta alla digitalizzazione, con il deposito telematico degli atti e notifiche via pec. Ma la vera sfida del governo è ridurre “drasticamente” i casi in cui si arriva a dibattimento, con un’attenzione particolare per il giudizio d’appello, “vero e proprio collo di bottiglia del processo penale”. La riforma prevede una rimodulazione della durata delle indagini preliminari in base alla gravità dei reati, con l’obbligo, per il pm, di depositare gli atti una volta decorsi i termini massimi. Il magistrato dovrà presentare richiesta di archiviazione o esercitare l’azione penale entro 30 giorni dalla presentazione della relativa richiesta da parte del difensore dell’indagato o della persona offesa. Il parametro della inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa viene sostituito con quello dell’inidoneità degli stessi a consentire una ragionevole previsione di accoglimento della tesi accusatoria nel giudizio. Si punta ad una incentivazione dei riti alternativi, tranne che per reati molto gravi e per accelerare il dibattimento davanti al giudice monocratico è prevista, nei soli casi di citazione diretta a giudizio, un’udienza “filtro” per stabilire se arrivare o meno a dibattimento. Il difensore potrà appellare la sentenza di primo grado solo se munito di uno specifico mandato ad impugnare. Viene introdotto il giudice monocratico d’appello e, infine, termini di durata massima delle diverse fasi e dei diversi gradi del processo penale, la cui violazione, se imputabile a negligenza inescusabile, “potrà costituire causa di responsabilità disciplinare”. Il dirigente dell’ufficio dovrà organizzare il lavoro in modo da garantire funzionalità ed efficienza, nonché equità tra tutti i magistrati. E dovrà inoltre monitorare i ritardi ed eliminarli, attraverso piani mirati di smaltimento da verificare ogni tre mesi e l’introduzione di specifici illeciti disciplinari. La riforma prevede anche una riduzione dei tempi di accesso alla carriera di magistrato, meno magistrati sottratti all’esercizio ordinario della giurisdizione, l’estensione anche alle funzioni apicali dell’obbligo di permanenza negli uffici per almeno quattro anni, termine da garantire per poter accedere al concorso per tali posti, nonché una semplificazione dell’attività dei Consigli giudiziari. Prevista, infine, una riforma del meccanismo di elezione dei componenti del Csm e restrizioni alle condizioni che consentono la candidatura dei magistrati per incarichi elettivi. “La vera giustizia non sarà mai in una call digitale” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 gennaio 2021 Caiazza, leader Ucpi: “Il caso Giannetti prova che i processi vanno fatti in aula”. Ieri vi abbiamo raccontato di quanto accaduto all’avvocato Simona Giannetti, silenziata con un clic durante un processo per direttissima: in una udienza da remoto, mentre discuteva con il pm per una questione preliminare, viene ammutolita dal giudice che le spegne d’imperio il microfono. “Noi penalisti finiamo per essere gradualmente e magicamente espulsi dal processo come un fastidioso malware, di cui si può fare a meno”, ha detto al Dubbio. L’inquietudine dell’avvocato Giannetti e di tanti altri colleghi contrari alla remotizzazione del processo appartiene sicuramente anche al leader dei penalisti italiani, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, che ci dice: “Ciò che è accaduto alla collega conferma le nostre preoccupazioni e la giustezza della nostra posizione: il processo penale non può essere smaterializzato. E una delle ragioni per le quali questo non deve accadere è proprio la tutela della fisicità del processo penale, che serve a scongiurare la possibilità che viene data al giudice con un semplice clic di zittire il difensore”. Naturalmente non si tratta dell’unico aspetto del problema, sottolinea il presidente dell’Unione Camere penali: “Smaterializzare il processo significa perdere la percezione di quello che sta accadendo in aula, significa non riuscire a captare le reazioni psicofisiche del testimone che si sta controesaminando, significa non avere da parte del difensore il controllo sull’attenzione del giudice. Sono tutti elementi insostituibili, indispensabili e inderogabili del processo penale. Se a ciò si aggiunge che trasferendosi su una piattaforma con tanti quadratini si possono consentire atti di questa gravità, come successo all’avvocato Giannetti a cui è stata tolta la voce, questo ci fa capire quanto è difficile la situazione”. Ci sarebbe da ipotizzare che il giudice non si sarebbe mai permesso di usare lo stesso metodo di silenziamento con il pubblico ministero: “Non è importante fare questo tipo di valutazione. Anche se il giudice fosse equanime sarebbe un fatto grave lo stesso, anche se immagino che un giudice toglierebbe la parola a un pm con molta più difficoltà. Comunque è vero che il giudice dà e toglie la parola, ma privare il difensore della possibilità di reagire fisicamente anche a un ordine del tipo ‘ si taccia, le tolgo la parola’ è qualcosa di innaturale”. Nel raccontare la sua vicenda al Dubbio, l’avvocato Giannetti si è chiesta se non sia necessaria una regolamentazione rigorosa dello svolgimento delle udienze a distanza: “La posizione dell’Ucpi - precisa Caiazza- è chiara su questo: noi non chiediamo alcuna regolamentazione. Noi chiediamo la conferma del pacchetto giustizia del Ristori così com’è e che ha posto addirittura il divieto della celebrazione da remoto delle udienze di istruttoria e di discussione”. Tuttavia oggi una delegazione dell’Anm incontrerà il guardasigilli Alfonso Bonafede e fra gli argomenti di discussione ci sarà la richiesta di una proroga della normativa emergenziale per i processi penali e civili: “Si tratta - replica Caiazza - di un approdo ormai acquisito, definitivo; non si capisce in che termini il governo dovrebbe reintervenire su decreti legge appena convertiti. Non sono materie regolabili con un dpcm. Cosa gli vanno a chiedere: un Ristori ter con cui modifichiamo un decreto appena approvato?”. Se così accadesse, “sarebbe gravissimo” per l’avvocato Caiazza, che avverte: “Saremo pronti a scatenare una reazione durissima”. Ieri abbiamo pubblicato anche un articolo in cui si dà conto dell’altra proposta che l’Anm porterà all’attenzione del ministro, ossia poter includere giudici e pm fra quelle categorie a rischio per le quali è giusto prevedere una priorità nelle vaccinazioni. Come riferito su queste pagine, secondo l’Anm “i magistrati rientrerebbero nella categoria degli “esercenti di un servizio di pubblica utilità”, quindi si troverebbero de facto su una corsia preferenziale per i tempi di vaccinazione”, con la possibilità di estendere la vaccinazione anche agli avvocati”. Secondo Caiazza “la proposta è giusta e sensata per il tipo di attività che noi avvocati facciamo e che afferisce a un servizio pubblico essenziale, quello della giustizia, che ci espone a rischi di contagio superiore alla normalità. Tutti vanno garantiti: magistrati, avvocati, cancellieri”. A tal proposito chiediamo al presidente Caiazza se il raggiungimento di un numero adeguato di vaccinazioni tra gli operatori della giustizia possa incidere e mitigare le istanze di un processo da remoto. “Non mi sembra utile incamminarsi su questa strada”, risponde. “Il processo da remoto è una ipotesi improponibile perché è ontologicamente incompatibile con la natura del processo penale”. Mattarella ai giudici onorari: “Fondamentale il vostro lavoro” di Liana Miella La Repubblica, 13 gennaio 2021 Con una lettera all’Assogot, il consigliere per la Giustizia del Quirinale Erbani assicura che il capo dello Stato sta seguendo “con attenzione” il caso e ha segnalato al ministro della Giustizia le richieste della categoria. I giudici onorari chiedono e ottengono “l’attenzione” del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulla loro situazione, sulle loro richieste, sulle agitazioni che ormai da due mesi si susseguono in tutta Italia, con scioperi della fame, con flash mob, con il preannuncio di uno sciopero che, tra il 19 e il 22 gennaio, fermerà 5mila giudici che tengono in piedi il 60% della giustizia italiana. Con una lettera del Consigliere per gli Affari dell’amministrazione della giustizia Stefano Erbani, la voce di Mattarella arriva all’Assogot che ha inviato il messaggio al Quirinale prima di Natale. Poche righe, ma dense di significato, e di grande importanza per chi, da anni, cerca di trasformare un lavoro precario, ma indispensabile, in un lavoro garantito dalle necessarie tutele. Scrive Erbani: “Il presidente Mattarella segue con grande attenzione i problemi della magistratura onoraria, nella consapevolezza del fondamentale contributo che la stessa apporta, con il suo costante operato, alla funzionalità e all’efficienza del sistema giustizia”. Erbani scrive ancora che, però, non è nei poteri del capo dello Stato un intervento diretto, poiché “per posizione costituzionale”, il Quirinale “non ha facoltà di intervento e di valutazione sulle questioni rappresentante”. In questo caso, la condizione da sempre precaria di giudici che, pur esercitando appieno la giustizia con decisioni e sentenze, tuttavia vengono pagati a cottimo, non hanno coperture di alcun tipo, né sanitarie, né pensionistiche. Tuttavia - e questo passaggio è ovviamente molto importante per i magistrati onorari - Erbani assicura che “nondimeno sarà assicurata la tempestiva trasmissione delle richieste avanzate nell’interesse dell’associazione al ministero della Giustizia, sollecitandone l’attenzione”. E quelle ultime parole - “sollecitare l’attenzione” - hanno un valore enorme per i magistrati onorari, soprattutto in ore in cui - se il governo sopravvive - proprio via Arenula sarebbe intenzionata a trasformare in un decreto legge le nuove norme sui giudici onorari, come ha anticipato a Repubblica il capogruppo Dem in commissione Giustizia del Senato Franco Mirabelli. Proprio oggi, a palazzo Madama riprenderà, in commissione Giustizia, la discussione sul ddl Valente-Evangelista che dovrebbe poi trasformarsi in un decreto. Testo sul quale però gli stessi giudici onorari non sono d’accordo perché ritengono che sia un contentino per il passato e non garantisca la stabilità della categoria. Sono soprattutto convinti che la legislazione italiana su di loro debba fare un passo avanti dopo la sentenza della Corte del Lussemburgo che, a luglio, ha riconosciuto i loro diritti economici, come dimostrano anche le recenti sentenze, a cascata, dei tribunali civili. Per questo le agitazioni continuano e culminano nello prossimo sciopero. Per la responsabilità dei Magistrati di Leonardo Sciascia* Il Dubbio, 13 gennaio 2021 Un rimedio, paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone. Su questo giornale, discutendo con Pieroni dei mali d’Italia, all’incirca tre mesi fa, la campagna elettorale appena cominciata, mettevo al primo posto le carenze e disfunzioni dell’amministrazione della giustizia. Speravo - e credevo, e mi aspettavo - che un tal male trovasse priorità programmatica fra quelli che la compagine governativa venuta fuori dalle elezioni dovrebbe e deve affrontare. Ma mi pare sia stato non contemplato, e come accantonato: forse appunto perché si presentava come il più spinoso. Il che non mi pare un buon segno. L’espressione ‘ rimandare a miglior tempo’ non fa davvero al caso. Se si rimanda, si rimanda a peggior tempo. Un simile problema non può trovare nel tempo attenuazione: può soltanto aggravarsi. E si aggraverà se non si trova rimedio. Mi rivolgo perciò, come cittadino, come amico, come persona che con lui di questo problema si è trovato a parlare con concorde accoramento, al presidente del consiglio: a chiedergli che il problema non venga accantonato, che lo si affronti con serenità, con equilibrio, con criterio. A rassicurare i cittadini, a restituire quella fiducia nella giustizia che si va perdendo, se non si è addirittura perduta. Il caso Tortora è l’ennesima occasione per ribadire la gravità e l’urgenza del problema. Un mese fa, alla televisione francese, ho dichiarato le mie perplessità e preoccupazioni relativamente alla massiccia operazione contro la camorra promossa dagli uffici giudiziari di Napoli e la mia personale convinzione che Tortora sia innocente. Non mi chiedo: “E se Tortora fosse innocente?”: sono certo che lo è. Il fatto di conoscerlo personalmente e di stimarlo uomo intelligente e sensibile (non l’ho mai visto in televisione), può anche essere considerato elemento secondario e magari fuorviante; ma dal giorno del suo arresto io ho voluto dare astrazione dal rapporto di conoscenza e di stima e ho soltanto tenuto conto degli elementi di consapevolezza che i giornali venivano rilevando. Non ne ho trovato uno solo che insinuasse dubbio sulla sua innocenza. Sono tutti elementi ‘esterni’, che non trovano riscontro alcuno, non dico in quel che conosciamo della personalità e del modo di vivere di Enzo Tortora, ma che non trovano convalida alcuna in un solo indizio che possa dirsi oggettivo o probante. Trovare nell’archivio di un camorrista una lettera diretta a Tortora come complice o confratello (ma è stata trovata?) non comporta certezza che Tortora l’abbia mai ricevuta. Il solo riscontro, la sola e vera prova, sarebbe il trovare un documento simile presso Tortora, in casa di Tortora o negli ambienti da lui frequentati e in cui gli sarebbe stato possibile nasconderlo. E lasciamo stare le squallide mitomanie che casi come questo accendono (e basterebbe, da parte del magistrato inquirente, una telefonata al commissariato di quartiere qualche giorno o qualche ora prima di andare a raccattare la testimonianza), ma il mancato riscontro di quello che possiamo chiamare ‘voto sanguinario’ (nessuna cicatrice è stata trovata ai polsi di Tortora; e se ne avesse avuta una per essersi imbattuto in un bicchiere rotto?), non era già motivo per metterlo - almeno provvisoriamente in libertà? Stiamo parlando del caso capitato a un uomo che gode di tanta popolarità e simpatia. E qui insorge la domanda: i guai gli sono venuti appunto per la popolarità e simpatia di cui godeva - e nel senso che alla spettacolarità dell’operazione, la sua inclusione conferiva ulteriore spettacolarità - o un caso simile può capitare a qualsiasi cittadino italiano? Purtroppo, credo non ci sia alternativa: la risposta è affermativa, per l’una e per l’altra ipotesi. Le accuse dei camorristi pentiti a Tortora non sono state, prima dell’arresto, accuratamente e scrupolosamente vagliate, perché gli ottocentocinquantasei mandati di cattura trovavano apice, davano misura della vastità e intransigenza dell’operazione, proprio in quello contro Tortora. Del resto - come è stato detto, ripetuto e non smentito - se su ottocentocinquantasei ordini di cattura ben duecento erano sbagliati e le persone arrestate per errore sono state rimesse in libertà nel giro di pochi giorni (ma si consideri: svegliate all’alba con le loro famiglie, le abitazioni perquisite, ammanettate, portate in carcere, tenute fino a quando non si è avuta cognizione dell’errore; cose che lasciano il segno per una vita intera), è facile immaginare che in tanta fretta e confusione il nome di Tortora, fatto con sicurezza dai pentiti, appunto sia apparso come il più sicuro, oltre che il più eclatante. Non c’era possibilità di equivoco, rischio di omonimia: il presentatore televisivo, l’uomo che milioni di spettatori conoscevano. Ma sono stato impreciso nel dire che non c’è stata smentita del fatto che duecento cittadini sono stati arrestati per errore. Ne è stata fatta circolare una subdola, incredibile, allarmante: che molti dei rilasciati rientreranno in carcere. Giustamente Biagi commenta: “Come dire che si può sbagliare fino a tre volte: arresto, scarcerazione, altra cattura. Ma qual è la buona?”. Non credo nell’infermità mentale quando viene invocata o riconosciuta nei processi di mafia. Ma nella camorra e nei camorristi qualcosa di simile all’infermità mentale si intravede. Se vi piace potete anche chiamarla immaginazione, fantasia: io continuerò a considerarla infermità, criminale follia di criminali. Una follia, si capisce, non priva di metodo: e consiste il metodo nel confondere, nell’intorbidire, nel seminare sospetti e accuse, nel coinvolgere quante più persone è possibile. Un costruire, insomma, uno di quei castelli di carte che basta poi toglierne una, alla base, perché tutta la costruzione crolli. E ho l’impressione che la carta Tortora sia stata messa proprio a chiave di tutta la costruzione: una volta che si sarà costretti a toglierla, l’intera costruzione crollerà e tutto apparirà sbagliato e privo di credibilità. E resterà il problema del come e del perché dei magistrati, dei giudici, abbiano prestato fede ad una costruzione che già fin dal primo momento appariva fragile all’uomo della strada, al cittadino che soltanto legge o ascolta le notizie. E qui entriamo nel vivo. Ogni cittadino, quale che sia la sua professione o mestiere, ha l’abito mentale della responsabilità. Che faccia un lavoro dipendente o che ne eserciti uno in proprio e liberamente, sa che di ogni errore deve rendere conto e pagarne il prezzo a misura della gravità e del danno che, alle istituzioni da cui dipende e alle persone cui ha prestato opera, ha arrecato, a parte l’amor proprio che ciascuno mette nel far bene il proprio lavoro. Ma un magistrato non solo non deve rendere conto dei propri errori e pagarne il prezzo, ma qualunque errore commesso non sarà remora alla sua carriera, che automaticamente percorrerà fino al vertice, anche se non con funzioni di vertice. E credo sia, questo, un ordinamento solo e assolutamente italiano. Inutile dire che dentro un ordinamento simile che addirittura sfiora l’utopia, ci vorrebbe un corpo di magistrati d’eccezionale intelligenza, dottrina e sagacia non solo, ma anche, e soprattutto, di eccezionale sensibilità e di netta e intemerata coscienza. È altro che sfiorare l’utopia: ci siamo in pieno dentro. E come uscirne, dunque? Un rimedio, paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone o Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza. Ma mi rendo conto che contro un’utopia è utopia anche questa. Un rimedio più semplice sarebbe quello di caricare di responsabilità i magistrati senza preventivamente togliere loro l’indipendenza: e cioè di dare a ogni cittadino ingiustamente imputato, una volta che viene prosciolto per più o meno assoluta mancanza di indizi, la possibilità di rivalersi su coloro che lo hanno di fatto sequestrato e diffamato. Quanti casi non abbiamo visto di gravissime imputazioni dissoltesi nella formula dell’assoluta mancanza di indizi? Se non ricordo male, anche il dottor Sarcinelli, vicegovernatore della Banca d’Italia, è stato rimesso in libertà con tale formula. E senza possibilità di rivalsa. Il che non appartiene alla civiltà, al diritto, ma alla barbarie e alla giungla. Bisogna però dire che in un caso come questo di Tortora e dei duecento cittadini arrestati per errore non ha giocato soltanto la condizione di potere della magistratura. Ha giocato anche, e forse principalmente, l’introduzione nella legislazione italiana della figura dei pentiti. Ma già più di una volta ne ho fatto discorso, e prima ancora che ad evidenza se ne verificassero i nefasti effetti. *Articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 7 agosto 1983 Un’archiviazione e una nomina di troppo: Di Matteo richiama all’ordine il Csm di Liana Milella La Repubblica, 13 gennaio 2021 L’ex pm di Palermo oggi contesterà in Consiglio la proposta di archiviare il caso del procuratore aggiunto di Roma Racanelli per le sue chat e intercettazioni con l’allora pm Palamara. Con lui Area e i davighiani. Ma per Di Matteo è inaccettabile anche la nomina dell’ex sottosegretario all’Interno Manzione a procuratore di Lucca. A volte la coincidenza è malandrina. Capita così che, nello stesso plenum del Csm, giusto quello di oggi, possano capitare due argomenti sicuramente e fortemente divisivi. Da sempre. Solo per usare un’espressione soft. Da una parte, la nomina di un procuratore che però porta la “colpa” di essere stato, anche se da tecnico, un sottosegretario. Dall’altra l’archiviazione, in parte duramente contestata, di chi è stato protagonista delle conversazioni con Palamara. Già, il “libro mastro” delle chat, l’unico al momento disponibile sui rapporti privati tra i giudici italiani, che tormenta i sonni della magistratura nell’incertezza e nelle divisioni su chi ritenere colpevole per aver colloquiato con l’ex pm di Roma ed ex presidente dell’Anm, e su chi invece assolvere per chiacchierate del tutto innocenti. In questa tornata però - almeno stando alle conclusioni della prima commissione contenute nell’ordine del giorno - le valutazioni dei soli relatori porterebbero ad escludere possibili trasferimenti d’ufficio per incompatibilità ambientale. E stavolta di mezzo non c’è solo il procuratore aggiunto di Roma Antonello Racanelli, nota toga della destra di Magistratura indipendente, di cui è stato il “ferriamo” segretario. Ma anche, per esempio, Alessandra Camassa, la moglie del capo del Dap Dino Petralia, magistrato anche lei, e presidente del tribunale di Marsala. Nonché Alberto Liguori, procuratore di Terni, che si fa sentire dall’allora caposquadra di Unicost al Csm per una nomina al tribunale di Cosenza. La proposta dei relatori, per tutti e tre le vicende, è quella di archiviare tutto. Ma nel caso di Racanelli questa conclusione invece ha spaccato esattamente in due la prima commissione ed è contestata fortemente da Di Matteo. Ma c’è pure la seconda questione che scotta. La nomina a procuratore di Lucca di Domenico Manzione, ex sottosegretario all’Interno nei governi Letta e Renzi, fuori ruolo per dieci anni, ma soprattutto fratello di Antonella Manzione, l’ex vigilessa urbana che Renzi portò a palazzo Chigi come capo dell’ufficio legislativo e che poi è stata scelta, decisione anche questa assai contestata, come consigliera di Stato. Anche qui Di Matteo ha da ridire perché ritiene che sia trascorso troppo poco tempo dal ruolo “politico” svolto da Manzione, che però non è mai stato un parlamentare, per poter diventare il capo di un ufficio, addirittura un procuratore. Incarico che per la verità Manzione aveva già nel 2009 (era il capo della procura di Alba ufficio poi soppresso con la revisione della geografia giudiziaria) quando è cominciata la sua avventura da fuori ruolo durata fino al 2018. Nella commissione per gli incarichi direttivi, presidente il laico forzista Michele Cerabona, relatrice Loredana Micciché di Magistratura indipendente, il via libera a Manzione è stato dato senza problemi. Ma Di Matteo non ci sta. Ma è su Racanelli che Di Matteo - e con lui il gruppo di Area e quello di Autonomia e indipendenza - intende dare battaglia. In commissione è finita tre a tre, da una parte la relatrice Paola Maria Braggion, di Mi come lo stesso Racanelli, e con lei il laico di Forza Italia Alessio Lanzi e quello della Lega Emanuele Basile. Dall’altro la presidente della prima commissione Elisabetta Chinaglia, ultima eletta per Area al Csm, nonché la davighiana Ilaria Pepe. E ovviamente Di Matteo. Per tutti e tre le insistenti e abituali conversazioni tra Palamara e Racanelli - via chat e per telefono - tra il dicembre del 2017 e il 29 maggio del 2019, quando il caso esplode sui giornali, vanno ben oltre un normale rapporto tra colleghi, il primo procuratore aggiunto votato quando Palamara era al Csm, il secondo pm a piazzale Clodio e aspirante procuratore aggiunto. Soprattutto, quando si parla della prossima nomina del procuratore di Roma al posto di Giuseppe Pignatone (i due tifano per il pg di Firenze Viola contro il procuratore di Palermo Lo Voi) o dell’esposto dell’ex pm Stefano Fava contro Pignatone e l’aggiunto Ielo. Rapporti normali tra colleghi, sostiene Braggion. Comportamenti del tutto anomali, e quindi da approfondire, per Di Matteo, Chinaglia, Pepe. E che, dal loro punto di vista, configurano l’incompatibilità ambientale. Ma in plenum i numeri potrebbero favorire Racanelli. La prescrizione unica al mondo di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2021 Istituto in sé ragionevole, le modalità con le quali viene applicato nel nostro Paese (non ultima la sentenza sulla strage di Livorno) lo rende addirittura dannoso e non riduce i tempi dei processi. Come accade di frequente in Italia, una pronunzia di prescrizione ha in parte vanificato le attese di giustizia delle vittime e dell’opinione pubblica. La prescrizione è un istituto in sé ragionevole: se passa troppo tempo cessa l’interesse a ricostruire i fatti, a stabilire torti e ragioni, nel diritto penale a punire (tranne per delitti di estrema gravità che sono imprescrittibili). Nel diritto civile la prescrizione opera però solo fino a quando non inizia un processo, da quel momento cessa di decorrere. Nel processo penale la situazione è diversa e da poco tempo si è cambiata la disciplina. Nonostante gli strilli sul processo infinito e le richieste di riformare la riforma della prescrizione, l’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo ad avere (sarebbe meglio dire ad aver avuto, ma non si sa mai) una prescrizione congegnata in modo irragionevole. In linea generale tutti i sistemi processuali conoscono la prescrizione, ma di norma è un istituto di diritto processuale, mentre in Italia è di diritto sostanziale, sembra una questione di forma ma non lo è. Le norme processuali si applicano nel testo in vigore al momento della applicazione (tempus regitactum), mentre in diritto penale quelle sostanziali sono retroattive solo a favore del reo. Perciò le modifiche alla prescrizione si applicano e solo se più favorevoli, mentre se di sfavore operano solo per i reati commessi dopo la modifica normativa. Questo spiega perché la legge 9 gennaio 2019, n. 3, che peraltro vale dal 1° gennaio 2020, non poteva operare. In altri Stati la prescrizione decorre solo fino all’inizio del processo. Per esempio, negli Stati Uniti d’America per felony (cioè quello che noi chiamiamo delitto) la prescrizione è in genere di cinque anni (tranne che per i reati imprescrittibili e salve le differenze fra singoli stati e sistema federale), ma con l’inizio del processo smette di decorrere. In Italia, invece, nel processo penale, la prescrizione continuava a decorrere anche dopo l’inizio del processo. La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza 8 settembre 2015, rilevò che il nostro sistema di prescrizione era in contrasto con il diritto comunitario perché impediva l’applicazione di sanzione efficaci, proporzionate e dissuasive in materia di Iva. La Corte costituzionale segnalò i problemi che quella pronunzia comportava in ragione del nostro diritto nazionale e la Corte di Giustizia tornò sui suoi passi. Ciò non escludeva il rischio che l’Italia fosse sottoposta a procedura di infrazione. Il criterio di calcolo della prescrizione era semplice: si faceva riferimento a fasce di pena prevista, ma, siccome il sistema penale conosce aggravanti e attenuanti, nel corso del processo se qualche aggravante veniva esclusa o qualche attenuante riconosciuta (soprattutto cambiava il giudizio di comparazione fra le stesse con le attenuanti generiche ritenute prevalenti) improvvisamente la prescrizione si dimezzava. L’onorevole Edmondo Cirielli, meritoriamente, propose di sterilizzare in parte aggravanti e attenuanti per il computo della prescrizione. La legge 5 dicembre 2005, n. 251 è conosciuta come “ex Cirielli” in quanto, dopo le modifiche nell’iter di approvazione, che di fatto dimezzava i termini di prescrizione, il proponente votò contro e chiese di non chiamarla più col suo nome. Ci fu una strage di processi a carico di colletti bianchi, che se la cavarono con la prescrizione. Una sentenza di non doversi procedere per essere il reato estinto per prescrizione non è una sentenza di assoluzione, anzi se interviene nei gradi di appello e cassazione, talvolta confermale statuizioni civili, cioè la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni a favore delle vittime e ultimamente in talune ipotesi la confisca. Per queste ragioni è stata approvata la legge n. 3 del 2019 che blocca il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Gli oppositori di questa legge sostengono che la prescrizione assicurala ragionevole durata del processo. Se fosse vero i processi imprescrittibili (a esempio quelli relativi a delitti puniti con l’ergastolo) non finirebbero mai. La realtà è che molte impugnazioni sono proposte per due ragioni: differire l’esecuzione della pena (o, se l’imputato è in custodia cautelare sperare nella decorrenza di tali termini) e confidare nel sopraggiungere della prescrizione. Infatti, sempre per stare all’esempio degli Stati Uniti d’America, la sentenza di primo grado è esecutiva (come da noi la sentenza civile). In Italia invece l’imputato non è considerato colpevole fino a sentenza definitiva di condanna. L’organizzazione giudiziaria, nel nostro Paese come altrove, è strutturata in modo piramidale: esistono una Corte Suprema di cassazione, 26 Corti d’appello e 139 Tribunali, oltre ai giudici di pace. Un sistema di questo genere può funzionare solo se un numero limitato di processi passa dal primo al secondo grado e dall’appello alla cassazione, altrimenti si blocca. Non solo, ma troppe impugnazioni riducono il tempo che i giudici possono dedicare a ciascun processo, con scadimento della qualità e maggiori possibilità di errori. La Corte Suprema di cassazione in Italia definisce quasi novantamila processi l’anno (quasi 60.000 penali e la metà civili); quella francese circa mille; quella federale Usa 80, con il quintuplo della popolazione italiana. Si potrebbe anche ridurre il numero delle impugnazioni. In Italia ai giudici di appello e di cassazione, su impugnazione del solo imputato non è consentito aumentare la pena. Gli avvocati sostengono che hanno il dovere di tutelare il loro assistito con tutti i mezzi che l’ordinamento prevede ed hanno ragione. Si potrebbe aiutarli copiando dalla Francia, dove il divieto di aumentare la pena non c’è. Non si dica che si violerebbero i diritti umani: lì hanno inventati i Francesi e in Italia è già consentito aumentare la pena in caso di opposizione al decreto penale di condanna. La prescrizione è rinunciabile dall’imputato. Quando questi è accusato di reati commessi nell’esercizio di pubbliche funzioni, che secondo l’art. 54 della Costituzione dovrebbero essere svolte con disciplina e onore, non ci si dovrebbe attendere che rinunci alla prescrizione o a tali funzioni? Diversamente non si dovrebbero trarne le conseguenze prendendo le distanze da chi se ne avvale? A proposito: onore a Mauro Moretti che alla prescrizione ha rinunciato. Quell’eterno conflitto tra rabbia delle vittime e diritti degli imputati di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 13 gennaio 2021 L’anno è appena cominciato ed il primo grande argomento di discussione giudiziaria non ha tardato ad arrivare: ed infatti, la Suprema Corte di Cassazione, all’esito dell’udienza dell’8 gennaio appena trascorso, è giunta a decisone in ordine ai ricorsi proposti nell’ambito del procedimento penale relativo all’incidente ferroviario avvenuto a Viareggio nella notte del 29 giugno 2009, in occorrenza del quale persero la vita trentadue persone. Nel provvedimento, i Giudici di Legittimità hanno confermato la sussistenza del reato di omicidio colposo plurimo; tuttavia, ad eccezione della posizione riguardante Mauro Moretti, tale fattispecie è stata dichiarata prescritta a seguito della valutazione di escludere la circostanza aggravante della violazione delle norme di prevenzione sui luoghi di lavoro. Questo il primo fondamentale snodo della sentenza che ha suscitato molte polemiche. A questa ha fatto seguito poi la conferma dei risarcimenti in favore di molte parti civili e la revoca degli stessi in favore di altre. La decisione ha, in particolare, confermato per numerosi imputati la responsabilità per il reato di disastro ferroviario colposo, così confermando la condanna inflitta dalla Corte di Appello di Firenze che è stata dichiarata definitiva. Ancora, per effetto di tale decisione, le società coinvolte, sia tedesche che italiane, sono state assolte in merito agli illeciti previsti ex D. Lgs. n. 231/ 01 e, conseguentemente, alcune parti civili costituite sono state estromessi dal processo. Per altri imputati è stato, invece, disposto il rinvio alla Corte d’Appello di Firenze per una rivalutazione dei profili di responsabilità in relazione all’imputazione di disastro ferroviario: in particolare, per gli ex Amministratori Delegati di Fs e Rfi, a seguito dell’annullamento della sentenza di secondo grado dovrà essere rivalutata la responsabilità penale proprio per il reato di disastro ferroviario colposo. Anche su questo punto sono già insorte numerose questioni legate alla possibilità per i parenti delle vittime di ottenere un risarcimento. In altre parole quindi, i Giudici di Legittimità hanno configurato un radicale ridimensionamento all’impianto delle accuse e delle responsabilità degli imputati. Come anticipato, i parenti delle vittime e le Associazioni agli stessi legati hanno accolto con stupore e rabbia la notizia, definendola un “disastro”. A fronte del dispositivo della sentenza su richiamata, le cui motivazioni saranno depositate e disponibili entro i prossimi 30 giorni, risulta doverosa svolgere una riflessione sul rapporto che può intercorrere tra la Giustizia in senso tecnico, con tutte le regole che la fondano, quali elementi imprescindibili di uno stato di diritto (tra cui vi è, per l’appunto, l’istituto della prescrizione) e l’esigenza - etica e morale - di trovare risposte da parte dei parenti delle vittime. In particolare, proprio i parenti delle vittime hanno censurato la recente decisione giudiziaria in punto prescrizione, ritenendo quest’ultima un ostacolo alla vera Giustizia. Un esponente delle associazioni che raggruppano i parenti delle vittime ha, in particolare, dichiarato come “sembra di essere tornati ai tempi del Medioevo dove i signori impongono le loro leggi”, affermando peraltro che “la nostra battaglia la continuiamo ugualmente, perché una battaglia di civiltà, di giustizia, quella vera”. Ed è proprio questo il cuore su cui si fonda il su accennato contrasto, ovverosia la definizione di cd. giustizia “vera”: in questo caso, all’aspettativa dei parenti ad un ristoro, sia materiale che morale, fa da contraltare la frustrazione dovuta all’applicazione della prescrizione, istituto giuridico fondamentale in uno stato di diritto. La risoluzione del contrasto è ardua e travalica i confini del diritto arrivando fino ai concetti filosofici di reciprocità e morale ed anche distinzione tra ciò che è penalmente rilevante rispetto a ciò che, invece, non è moralmente accettato, ancorché lecito. In questa sede ci si limita ad osservare come, per perseguire nelle aule dei Tribunali la giustizia in uno Stato di diritto, sia imprescindibile porre in essere dei bilanciamenti: in altre parole, da un lato, il sistema giudiziario italiano tutela le persone offese da un reato ed i loro congiunti mediante la presenza di idonei strumenti per la costituzione in sede penale della parte civile ed il legittimo conseguimento di un ristoro; tuttavia, dall’altro lato, istituti come la prescrizione, tutelano l’altrettanto importante diritto di un soggetto imputato nel procedimento a non essere sottoposto a processo in eterno. Chi scrive già si era espresso in questa Rivista rappresentando come l’antidoto al giusto processo non è l’assenza del tempo massimo di esercizio dell’azione penale. Deve, dunque, come detto, operarsi un bilanciamento tra interessi e diritti, finalizzato alla tutela equa di tutte le parti coinvolte nel procedimento penale. Peraltro, in un caso come questo non appare corretto ritenere che gli imputati siano andati esenti da qualsivoglia responsabilità in forza della prescrizione: le responsabilità saranno valutate differentemente in sede di rinvio e quindi si potrà giungere ad una diversa lettura da quella già esaminata. Concludendo, sembra lecito affermare come la giustizia delle aule dei Tribunali debba rimanere esente da profili e valutazioni mediatiche, prescindendo da osservazioni che, sconfinando dal profilo tecnico, porterebbero a sentenze cd. simbolo ma prive di un appiglio di stretto diritto: in questo modo il confine dei processi rischierebbe di essere insediato da valutazioni soggettive ed oggetto di possibili strumentalizzazioni. *Direttore Nazionale Istituto Ispeg La figlia contesa tra la ‘ndrangheta e il boss pentito di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 13 gennaio 2021 Emanuele Mancuso è il primo del clan a collaborare con la giustizia. La moglie lo ripudia. La bambina di 30 mesi usata per farlo ritrattare. Una figlia. Un padre mafioso pentito. Una madre che lo ha ripudiato, rimanendo solidale con la famiglia. Un processo che mette i genitori l’uno contro l’altro, e la bimba parte civile contro la madre. La protagonista, suo malgrado, dell’ultima storia di ‘ndrangheta ha solo 30 mesi. Il suo torto è nel cognome: Mancuso. Famiglia tra le più potenti. Segni particolari: narcotraffico. Piedi nelle campagne di Limbadi, Vibo Valentia, e mani nel mondo: dalla Germania al Brasile, dove fu arrestato il boss Pantaleone, detto “l’ingegnere”. Suo figlio Emanuele, trentenne, per il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri “è la persona più competente nella coltivazione di marijuana che ho ascoltato in oltre trent’anni di carriera”. Quando viene arrestato, nella primavera 2018, la sua compagna Nensy Vera è incinta. “La speranza di offrire a mia figlia un futuro diverso” lo motiva a collaborare con la magistratura. Primo Mancuso a farlo, tanto che la notizia getta nel panico i familiari e li induce a una controffensiva per neutralizzarlo. Il padre Pantaleone, in libertà vigilata, si dà alla macchia con un documento falso. Il fratello Giuseppe, informato in tempo reale in carcere, si scatena. “Non parlare, le parole si pagano”, gli scrive. “Pecorone, cane, torna indietro o fai la fine degli altri”, gli urla affacciandosi di notte dalle sbarre della cella. Più sottile la strategia delle donne di famiglia. Madre Giovannina e zia Rosaria convocano Nensy Vera, che in lacrime garantisce fedeltà, e partono all’attacco del reprobo. Lo insultano (“Tossico, bugiardo, uomo di merda”). Gli passano i nomi degli avvocati pronti a “farlo passare per pazzo” (“‘u malatu”). Lo allettano con promesse di soldi, di un bar o un negozio da gestire. Magari all’estero. Ma soprattutto, dopo la nascita della bambina, se ne servono spregiudicatamente per fargli “cambiare direzione”. Gliela fanno vedere raramente, a meno che non ritratti le accuse al clan. “Hai bisogno di noi”, gli scrive la compagna Nensy Vera allegando la foto della neonata in braccio al fratello del pentito, Giuseppe, lo stesso che lo ha minacciato di morte. “Tuo fratello è ora ai domiciliari, ti aspettiamo tutti”, c’è scritto dietro la foto. E ancora: “Ti dirò ti amo solo quando tornerai a casa, altrimenti non mi interessa più di te”. L’uso cinico e spesso tragico dei figli per neutralizzare i pentiti è un classico mafioso. La sorte del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito di mafia rapito e sciolto nell’acido in Sicilia, indignò l’Italia nel 1996. A Rosarno, in Calabria, nel 2011 il desiderio di non perdere i figli costò la vita a Maria Grazia Cacciola, che aveva rinnegato il clan Bellocco: fatta rientrare a casa, finì “suicidata”. Per questo negli ultimi anni il tribunale dei minori di Reggio Calabria, sotto la guida di Roberto Di Bella, ha elaborato un protocollo per tutelare i bambini di famiglie ‘ndranghetiste, chiamato “Liberi di scegliere” e cristallizzato nel 2017 dal Csm in linee guida nazionali. Almeno 80 minori (un terzo figli di pentiti e testimoni di giustizia) sono stati sottratti al giogo criminale. Liberati, letteralmente. Il caso Mancuso è dunque ordinaria amministrazione, per la ‘ndrangheta. Lo sanno la Procura di Catanzaro e i carabinieri. Attraverso telefonate, chat e corrispondenza ricostruiscono la vicenda in cui, hanno detto gli investigatori, “non c’è onore, non ci sono valori, non c’è umanità”. Compagna, madre, zia e fratello del pentito Mancuso vengono imputati di violenza privata, favoreggiamento e altri reati aggravati dal metodo mafioso. Il processo ha due parti civili. Lo stesso Mancuso e la figlia, che quindi risulta controparte (e in ipotesi di condanna, titolare di un diritto al risarcimento del danno) della madre con cui vive e che la sta crescendo. “Da padre non riesco a darmi pace”, scrive Mancuso in una lettera aperta, manifestando “frustrazione e preoccupazione per le sorti di mia figlia”, che nonostante tutto “mantiene contatti con gli ambienti ‘ndranghetisti grazie alla disponibilità della madre, che incontra anche latitanti”. Dalle chat dei familiari depositate nel processo emerge “l’interessamento della cosca alle sorti della mia bambina, usata come merce di scambio”, per cui Mancuso chiede “a gran voce” che sia emancipata dal “maledetto cognome” e “strappata definitivamente dalle mani della ‘ndrangheta”, per vivere in un “ambiente familiare sano”. La lettera è rivolta al tribunale dei minori di Catanzaro. Che finora, con orientamento diverso dalla Procura, ha ritenuto di non spezzare il rapporto madre-figlia. Respinte tre istanze di Mancuso, per i suoi precedenti penali, gli aveva anche limitato la potestà genitoriale, poi ripristinata dalla Corte d’appello. Il tribunale, che contesta le accuse, ritiene che la bimba sia al sicuro, avendola collocata con la madre in una località protetta sotto la protezione della polizia. In attesa delle sentenze, il caso resta aperto. Come il destino della piccola Mancuso. L’unica, in questa storia, sicuramente innocente. “Le vittime di violenza hanno sempre diritto al patrocinio di Stato” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 13 gennaio 2021 La prima sentenza della Consulta depositata nel 2021. L’anno nuovo della Corte Costituzionale si apre con una sentenza a favore delle vittime di violenza di genere che potranno accedere automaticamente al patrocinio a spese dello Stato indipendentemente dal proprio livello di reddito. Si tratta di una “scelta di indirizzo politico-criminale che ha l’obiettivo di offrire un concreto sostegno alla persona offesa, la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima, e a incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità”, spiegano i giudici delle leggi in riferimento alla norma in esame. Nella parte in cui - all’articolo 76, comma 4- ter del dpr 115 2020 recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia” - questa dispone l’ammissione automatica al beneficio a prescindere da situazioni di “non abbienza”, secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione assurta a “diritto vivente”. Il dpr citato dai giudici costituzionali, infatti, stabilisce le condizioni di accesso al patrocinio in base all’ultima dichiarazione dei redditi, ma prevede una deroga per le vittime di particolari reati: violenza sessuale, stalking, maltrattamenti in famiglia e prostituzione minorile, per citarne alcuni. “Crimini odiosi”, sottolinea la Consulta che con la prima sentenza depositata nel 2021 - relatore il neo presidente Giancarlo Coraggio - dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli. Il caso di specie risale al 2019. Con ordinanza interlocutoria notificata al difensore, il Gip di Tivoli “sospendeva l’esame della domanda di ammissione al beneficio, invitando ad integrarla con l’indicazione delle condizioni reddituali e patrimoniali dell’istante”. Ma, osservava a sua volta il legale, “nella particolare fattispecie della vittima del reato di violenza sessuale” le richieste del giudice “non appaiono motivate”, rientrando il reato, di cui all’articolo 609-bis del codice penale, “tra quelli per i quali il patrocinio a spese dello Stato è sempre concesso alla parte offesa prescindendo dalle condizioni reddituali”. “La scelta effettuata con la disposizione in esame - si legge nella sentenza della Consulta rientra nella piena discrezionalità del legislatore e non appare nè irragionevole nè lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la vulnerabilità delle vittime dei reati indicati dalla norma medesima oltre che le esigenze di garantire al massimo il venire alla luce di tali reati”. La pronuncia dei giudici è in continuità con la linea espressa dalla Suprema Corte, la quale con sentenza del 20 marzo 2017 aveva “affermato il diritto della persona offesa da uno dei reati indicati nella norma a fruire del patrocinio a spese dello Stato per il solo fatto di rivestire tale qualifica”. Tale lettura sarebbe imposta dalla ratio della norma, spiegano da Palazzo della Consulta, “posto che la finalità della norma in questione appare essere quella di assicurare alle vittime di quei reati un accesso alla giustizia favorito dalla gratuità dell’assistenza legale”. “L’eccezione introdotta dal legislatore non solo non sarebbe irragionevole - si legge nella sentenza - ma avrebbe una precisa motivazione, valutabile positivamente, e cioè quella di tutela di soggetti vulnerabili, prima o in dipendenza del crimine, che potrebbero, per tale stato, avere delle remore a denunciare e a difendersi nei procedimenti penali nei confronti dei loro aggressori”. “Alla tutela di persone deboli si aggiungerebbe in senso più ampio, una finalità di prevenzione di crimini odiosi, dato che vengono in rilievo reati abituali o facilmente ripetibili in ragione dell’attitudine di alcuni soggetti a ricreare in futuro situazioni analoghe”, proseguono i giudici. La Corte rileva quindi che “nel nostro ordinamento giuridico, specialmente negli ultimi anni, è stato dato grande spazio a provvedimenti e misure tesi a garantire una risposta più efficace verso i reati contro la libertà e l’autodeterminazione sessuale, considerati di crescente allarme sociale, anche alla luce della maggiore sensibilità culturale e giuridica in materia di violenza contro le donne e i minori”. “Di qui - aggiungono i giudici - la volontà di approntare un sistema più efficace per sostenere le vittime, agevolandone il coinvolgimento nell’emersione e nell’accertamento delle condotte penalmente rilevanti”. Un segnale di particolare rilievo nel contrasto alla violenza di genere accolto positivamente dalla senatrice del Pd e presidente della Commissione Femminicidio, Valeria Valente. La pronuncia della Corte è “molto importante”, commenta la senatrice. “Si tratta di un sostegno concreto, non solo materiale ma anche psicologico, per chi denuncia - prosegue Valente. Passa il messaggio che lo Stato è dalla parte di queste bambine, ragazze e donne abusate in vario modo”. “Anche le motivazioni della sentenza chiariscono - conclude - che la ratio della legge, finalizzata appunto a incoraggiare la vittima che si trova in particolare stato di vulnerabilità, a intraprendere un percorso di denuncia e di uscita dalla violenza, è del tutto ragionevole e non può essere sottoposta a discrezionalità. È stato compiuto un ulteriore passo in avanti perché le donne non si sentano sole e siano incentivate a denunciare”. 41bis, il saluto tra detenuti di diversi gruppi di socialità non è sanzionabile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 gennaio 2021 La Cassazione ha respinto il ricorso del Ministero della giustizia. Non è sanzionabile un semplice saluto tra detenuti al 41bis appartenenti a diversi gruppi di socialità. La Cassazione, con la sentenza numero n. 35216 del 2020, mette così il sigillo al ricorso presentato dal ministero della Giustizia contro la magistratura di sorveglianza che ha annullato la sanzione disciplinare che il consiglio di disciplina del carcere de L’Aquila ha inflitto a un recluso al 41bis. Emanuele Argenti, sottoposto al regime del 41bis del carcere aquilano, aveva proposto reclamo davanti al Magistrato di sorveglianza, ai sensi dell’art. 35bis Ord. pen., avverso la sanzione disciplinare inflittagli perché aveva salutato un altro detenuto, anch’egli sottoposto al 41bis, appartenente a diverso gruppo di socialità. Con ordinanza del 6 febbraio del 2019, il Magistrato di sorveglianza dell’Aquila accolse il reclamo proposto da Argenti, sul presupposto che il saluto rivolto ad altro detenuto non integrasse alcuna forma di comunicazione, implicando tale nozione uno scambio di dati, stati d’animo, sensazioni, non ravvisabile nel semplice saluto. Il ministero della Giustizia ha fatto ricorso chiedendo l’annullamento della ordinanza impugnata, sul presupposto che il divieto di comunicazione imposto ai detenuti al 41bis abbia “la finalità di impedire i collegamenti del detenuto che vi è sottoposto con il sodalizio criminoso di appartenenza”. Il Tribunale di sorveglianza dell’Aquila ha rigettato però il reclamo del ministero, ritenendo che nella semplice dichiarazione di saluto, anche qualora accompagnata dalla menzione di un nome proprio di persona, ma non inquadrata nel contesto di una conversazione, non si ravvisa una comunicazione in senso proprio. A quel punto il ministero è ricorso in Cassazione per mezzo dell’Avvocatura distrettuale dello Stato. Per la Corte suprema, però, il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere respinto. Il comma 2quater, lett. f) della stabilisce che per il 41bis siano “adottate tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità”. La ratio di tale previsione è chiaramente quella di impedire la possibilità di una circolazione di informazioni che consentirebbe la prosecuzione dell’attività di gestione delle attività criminali dall’interno del carcere. Circolazione che sarebbe resa possibile da interazioni non soltanto di tipo linguistico, ma anche di natura non verbale. Ne consegue che non ogni tipo di interazione può essere ritenuta di natura comunicativa e che la nozione di comunicazione deve essere estesa a ogni manifestazione esteriore in grado di veicolare un contenuto informativo idoneo a vulnerare le menzionate esigenze di controllo. La Cassazione, però, sottolinea che la questione, all’evidenza, si pone in termini di particolare complessità nei casi di comunicazione occulta, ovvero nelle ipotesi in cui una interazione di carattere apparentemente neutro nasconda un significato diverso da quello apparente. “Il comportamento non verbale, invero - si legge nella sentenza della corte suprema - può essere informativo, quando i gesti assumono un identico significato tra gli interlocutori, comunicativo, comprendenti i gesti inviati da un emittente a un ricevente per trasmettere un messaggio chiaro e univoco, e interattivo, rappresentato da tutti quei gesti che influenzano il comportamento dei partecipanti alla comunicazione e degli osservatori presenti nel contesto in cui si verificano”. Ma nel caso di specie, si è in presenza di una dichiarazione di saluto rivolta dal detenuto ad altri ristretti, appartenenti ad altro gruppo di socialità e non inserita in un contesto di conversazione. “Dunque, deve escludersi che si fosse in presenza di una comunicazione nel senso indicato, non essendovi stata alcuna trasmissione di informazioni da un individuo a un altro”, osserva sempre la Cassazione per dichiarare infondato il ricorso. Dl immigrazione-sicurezza, convertito in legge n. 173/2020 Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2021 Nell’analisi della Cassazione importanti indicazioni sulla nuova disciplina legislativa. Segnaliamo e pubblichiamo - per la rilevanza della materia ed i profili inediti trattati - la relazione su novità normativa n. 100/2020 dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Suprema Corte di Cassazione in materia di “Disposizioni urgenti in materia di diritto penale introdotte dal D.L. 21 ottobre 2020, n. 130 (cd. decreto “immigrazione-sicurezza”), conv., con modif., in l. 18 dicembre 2020, n. 173”, pubblicata sul Portale pubblico del Massimario, ove è liberamente scaricabile. La relazione - redatta dal Consigliere Aldo Natalini, giudice addetto all’Ufficio del Massimario - esamina a prima lettura le molte disposizioni penalistiche e processual-penalistiche contenute nell’ultimo Dl Immigrazione-sicurezza, divenuto ormai legge dello Stato, e si affianca alla coeva relazione n. 94/2020 sui profili civilistici in tema di protezione internazionale del medesimo Ufficio (settore civile) di cui abbiamo dato notizia in queste pagine. Da segnalare la diffusa analisi del delitto di nuovo conio di cui all’articolo 1, comma 2, del Dl, incriminante la trasgressione dei divieti ministeriali di transito e sosta di navi nel mare territoriale (incriminazione che sostituisce il precedente, corrispondente illecito amministrativo introdotto dal “decreto sicurezza-bis”, nell’ambito della politica sui “porti chiusi”, severamente punito con pene a suo tempo ritenute sproporzionate dal Presidente della Repubblica: vedi NT Plus Diritto del 5 gennaio 2021). Il compilatore inquadra il novello reato come fattispecie “navigazionista” propria (cioè a soggettività ristretta), di pericolo e struttura meramente sanzionatoria, in funzione della protezione penale dei divieti di approdo (allo stato non emanati dal Viminale). Interessante è, poi, la ricostruzione in termini di inedita scriminante procedurale della disposizione che esclude espressamente l’applicabilità del divieto alle operazioni di soccorso in mare in favore dei naufraghi-migranti (art. 1, comma 2, secondo periodo). Questo il sommario della Relazione n. 100/2020: 1. Premessa: il d.l. n. 130 del 2020, conv., con modif., in l. n. 173 del 2020 2. Le attribuzioni ministeriali sui controlli di frontiera marittima (art. 1, comma 2) 2.1 Il nuovo delitto “navigazionista” di inosservanza dei provvedimenti di divieto di transito e sosta di navi nel mare territoriale (art. 1, comma 2, primo e terzo periodo) 2.2 L’inapplicabilità del divieto alle operazioni di soccorso in mare: l’inedita giustificante procedurale (art. 1, comma 2, secondo periodo) 3. Le disposizioni processuali in materia di delitti commessi nei centri di permanenza per i rimpatri: l’arresto differito (art. 6) 3.1 La correlata ipotesi di giudizio direttissimo atipico 4. Le modifiche in tema di inapplicabilità ratione materiae dell’art. 131-bis cod.pen. (art. 7) 5. Le modifiche all’art. 391-bis cod.pen. (art. 8) 6. Il nuovo delitto ex art. 391-ter cod.pen. di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti (art. 9) 7. Le modifiche all’art. 588 cod.pen. (art. 10) 8. La violazione delle prescrizioni del cd. DASPO urbano (art. 11). Il privato cittadino non può sporgere denuncia via posta elettronica certificata di Matilde Bellingeri* Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2021 La questione, di spiccato interesse se si considera l’attuale contingenza pandemica, impone di stabilire se un’email (ordinaria o Pec) contenente l’enunciazione di un possibile fatto di reato, a prescindere dalla sua fondatezza nel merito, possa essere qualificata come una vera e propria denuncia. Breve nota al provvedimento di archiviazione emesso dal Gip presso il Tribunale di Perugia (depositato in cancelleria il 13.11.2020). La questione, di spiccato interesse se si considera l’attuale contingenza pandemica, impone di stabilire se un’email (ordinaria o PEC) contenente l’enunciazione di un possibile fatto di reato, a prescindere dalla sua fondatezza nel merito, possa essere qualificata come una vera e propria denuncia. Nel caso di specie un cittadino portava all’attenzione della Procura della Repubblica tramite PEC la commissione di una pluralità di illeciti commessi nel settore della sanità pubblica. A fronte della prospettata situazione, il Pubblico Ministero avanzava richiesta di archiviazione al GIP sostenendo l’impossibilità, per il privato cittadino, di presentare una denuncia a mezzo raccomandata o, addirittura, tramite posta elettronica, sia pur certificata, in assenza di una specifica previsione normativa. L’art. 333 comma 2 c.p.p. stabilisce precise modalità attraverso cui un atto può trasformarsi in denuncia: deve essere presentato personalmente o a mezzo di procuratore speciale, al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria e, se già redatto per iscritto, deve essere formalmente sottoscritto. La ratio è ben evidente: il denunciante deve essere identificato con certezza da persona qualificata. L’interpretazione del P.M., oltre ad apparire conforme rispetto al dato letterale della norma, trova conferma in una circolare del Ministero della Giustizia (dipartimento per gli affari di giustizia - Direzione generale della Giustizia penale del 12.11.2016, prot. 328.E.) ove, al paragrafo 3, precisa che “quanto detto conduce ad escludere la configurabilità, a fronte di denunce inviate a mezzo di posta elettronica, anche certificata, di un obbligo di valutazione ai fini dell’iscrizione di notizie di reato a carico dell’Ufficio di Procura ricevente”. Come qualificare, quindi, gli scritti che pur avendo contenuto di denuncia sono trasmessi irritualmente? Il P.M. ha ritenuto di annoverare tali scritti al novero delle denunce anonime. Alla medesima conclusione sono giunte anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (S.U. n. 25932/2008, dep. 26.6.2008): “una denuncia irrituale, che si debba perciò considerare alla stregua di una denuncia anonima, pur essendo uno scritto di per sé inutilizzabile, è tuttavia idonea a stimolare l’attività del P.M. o della polizia giudiziaria al fine dell’assunzione di dati conoscitivi atti a verificare se da essa possano ricavarsi indicazioni utili per l’enucleazione di una “notizia criminis” suscettibile di essere approfondita con gli strumenti legali”. Le considerazioni del Pubblico Ministero sono state condivise dal Giudice per le indagini preliminari il quale, in ragione dell’impossibilità della verifica dell’identità del denunciante, conclude “per la non riconducibilità di tali scritti alle denunce di cui all’art. 333 c.p.p.”. L’occasione è propizia per un’ulteriore riflessione: l’esclusione della possibilità di trasmettere una denuncia tramite email (o PEC con firma digitale SPID) trova giustificazione nell’impossibilità di verificare con certezza l’identità dell’autore dello scritto, ovvero nel fatto che si tratti di modalità di trasmissione non tipizzata dalla legge? Due, le soluzioni percorribili. Da un lato, la tesi della tassatività degli strumenti di ricezione della notizia di reato, sostenuta nella richiesta di archiviazione, porterebbe ad escludere tale possibilità in quanto si tratterebbe di modalità non espressamente prevista dalla legge. Da altro lato, una tesi meno rigorosa sembrerebbe intendere il catalogo dei mezzi indicati nell’art. 333 comma 2 c.p.p. come un elenco aperto, in considerazione della possibilità di proporre una denuncia per iscritto senza ulteriori specificazioni. La fattispecie normativa, così come elaborata, sembrerebbe dunque lasciare spazio alla forma postale (sebbene non espressamente prevista) in quanto strumento idoneo a stabilire con certezza la paternità dello scritto. A sostegno di questo ragionamento, anche la disposizione di cui all’art. 337 comma 1 c.p.p., la quale ammette la possibilità di spedire per posta in piego raccomandato la querela con sottoscrizione autenticata. In accoglimento di quest’ultima tesi, non sembra ragionevole escludere (almeno in prospettiva futura) la possibilità di utilizzare la PEC con firma digitale per la trasmissione di denunce. La vicenda rimane di complessa definizione, il tema meriterebbe un adeguato approfondimento da parte del legislatore se si considera come nemmeno il processo penale possa più essere “impermeabile” alla rivoluzione tecnologica in atto. La critica al proprio caporedattore su un blog non basta di per sé a condannare il giornalista Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2021 Per la Corte europea dei diritti dell’uomo i giudici nazionali devono motivare il risarcimento nel rispetto della libertà di espressione. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto violata la libertà d’espressione di un giornalista rumeno che era stato condannato a risarcire i danni al caporedattore, che aveva criticato attraverso il proprio blog. La sentenza emessa sulla domanda n. 79671/13 afferma all’unanimità la violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo sulla libertà di espressione. In particolare, la Cedu ha ritenuto insufficienti e non sostenuti da adeguate giustificazioni i motivi che hanno portato i giudici nazionali alla condanna al risarcimento. Nella causa internazionale è stato, infatti, ritenuto che i giudici nazionali non abbiano dato informazioni rilevanti e sufficienti motivi che giustifichino l’interferenza contenuta nella condanna con il diritto alla libertà di espressione del giornalista. Secondo la Cedu comunque le norme interne applicate non sono compatibili con i principi sanciti dall’articolo 10 della Convenzione. Il giudizio nazionale è stato condotto senza considerare i post incriminati sotto il profilo del rispetto o meno dei principi che derivano dallo stesso articolo 10 sulla libertà di espressione: il contributo a un dibattito di interesse pubblico, la notorietà e la condotta precedente della persona oggetto degli articoli, che andavano anche valutati in maniera sufficiente in ordine al contenuto e alla forma utilizzata. Rileva la Cedu che in tal modo la condanna appare adottata illegittimamente de plano senza che i giudici nazionali fornissero a sostegno delle conseguenze e della severità della sanzione comminata una valutazione accettabile dei fatti rilevanti. Varese. Notti senza medico: muore detenuto di Renata Manzoni La Prealpina, 13 gennaio 2021 Ai Miogni nessun operatore sanitario dalle 18 alle 8: inutili i soccorsi a un cinquantenne appena diventato nonno. Tragedia al carcere dei Miogni dove un detenuto è morto dopo aver accusato un malore. Il detenuto, 50 anni, lamentava da ore dolori lancinanti e sempre più forti al braccio e al petto: aveva chiesto aiuto al compagno di cella, si era messo in moto il tam tam del carcere ed erano arrivate le guardie che lo avevano trasferito in infermeria. L’uomo, sentitosi male verso mezzanotte, non dava però cenni di miglioramento. Alla fine era così partita una chiamata al servizio d’emergenza ed era arrivata subito l’ambulanza del 118. Ma quando il medico si è precipitato in cella per verificarne le condizioni, per il detenuto non c’era più nulla da fare: è spirato per arresto cardiocircolatorio. La notte di sabato 9 gennaio è stata travagliata e densa di agitazione al carcere dei Miogni: il fatto che non sia stato possibile salvare il detenuto ha innescato la rabbia di tutti gli altri reclusi. All’ora d’aria di domenica mattina in cortile i detenuti hanno protestato urlando con tutta la loro voce. Sono rientrati in cella in ritardo rispetto al solito. La notizia si è diffusa in poche ore, anche al di fuori delle mura del carcere. E ha portato alla luce, una volta di più, quello che è un problema ben noto sia al personale sia ovviamente ai detenuti: durante la notte ai Miogni non c’è assistenza medica. Interviene una guardia, in caso di necessità, somministrando i medicinali di uso comune: antinfiammatori o antipiretici. Ma dalle 18 alle 8 non è in servizio un medico che possa intervenire tempestivamente, comprendendo subito la la gravità di un malore. Il detenuto si sarebbe potuto salvare con un tipo di intervento immediato che solo un sanitario sul posto poteva garantire? Questo potrà appurarlo l’autopsia sulla salma, se come probabile verrà eseguita. Certo è che quelle 14 ore senza assistenza interna qualificata pesano, nonostante sia stato chiesto - in ritardo, sostengono i detenuti - l’intervento del 118. Anche a questo è dovuta la protesta dei reclusi: hanno visto il compagno stare sempre peggio. Ora, sperano, che questa tragedia possa portare almeno a un cambiamento. Il cinquantenne era tranquillo, anzi per lui era un momento felice: aveva raccontato con un gran sorriso agli altri di essere appena diventato nonno. Neanche il tempo di rallegrarsi per il lieto evento, che ha cominciato intorno alla mezzanotte ad accusare dolori sempre più forti che lo hanno condotto alla morte tra le braccia del compagno di cella. Padova. “Il vaccino al Due Palazzi in luglio? Sarà troppo tardi” di Silvia Moranduzzo Il Gazzettino, 13 gennaio 2021 Sono 5 gli agenti di polizia penitenziaria positivi, a cui si aggiunge un detenuto del Due Palazzi, stando agli ultimi dati diffusi dal Ministero della Giustizia. Se la situazione a livello di numero di contagi all’interno della cittadella carceraria appare sotto controllo, la pentola a pressione si va scaldando e potrebbe scoppiare. Il nodo della questione sta nel vaccino che dovrebbe varcare le sbarre della prigione solo a luglio, in piena estate. Troppo tardi, secondo i sindacati che temono lo scoppio di disordini all’interno del carcere. “In questo momento la situazione non è grave all’interno del Due Palazzi dice Gianpietro Pegoraro, Cgil Penitenziaria Se la confrontiamo con Venezia (9 agenti e 45 detenuti positivi) e Vicenza (1 agente e 28 detenuti positivi) siamo messi meglio. C’è una grande attenzione al protocollo, i dispositivi non mancano e tutti seguono le regole con dovizia. È altro che crea tensione, cioè la data delle vaccinazioni stabilita per luglio. Abbiamo scritto anche una lettera al presidente della Regione Luca Zaia, perché un carcere è una realtà particolare e semmai dovrebbe essere terzo, venire quindi dopo il personale sanitario e le Rsa, assieme alle forze dell’ordine”. A Padova finora si è riusciti a mantenere la tensione e la paura sotto controllo, ma la bomba può scoppiare in qualunque momento. Il 17 dicembre morì di Covid-19 il serial killer Donato Bilancia, all’età di 69 anni. Bilancia rifiutò le terapie, si ipotizza perché non ne potesse più della reclusione e fosse attanagliato dai rimorsi, e si è spento per complicanze dovute proprio al coronavirus, che in un luogo come il carcere è facile si propaghi velocemente vista la vicinanza tra i detenuti. Secondo i sindacati, nonostante tutte le precauzioni che si possono prendere, la vita in carcere ha delle particolarità che la rendono pericolosa. “I detenuti si vedono condannare non una ma più volte continua Pegoraro Oltre alla condanna stabilita dal tribunale rischiano di ammalarsi e non possono nemmeno più lavorare o partecipare a quelle attività formative che hanno l’obiettivo di rieducare il reo. Ma anche noi che nel carcere ci lavoriamo, vederci messi in un angolino è veramente brutto. Quando lo abbiamo visto siamo rimasti davvero basiti. Siamo tutti sotto stress, la paura del contagio c’è sia tra gli agenti di polizia penitenziaria sia tra i detenuti. Abbiamo visto cosa è accaduto a Modena all’inizio di marzo dello scorso anno (le rivolte durate diverse giorni in carcere, con un bilancio di 9 detenuti morti durante gli scontri, ndr). Finora a Padova siamo riusciti a tenere la situazione sotto controllo, ma nulla garantisce che non salti tutto in aria. E allora saranno coinvolti anche polizia e carabinieri, perché il carcere è una cittadella. Per carità, giustissimo che prima di tutto vengano vaccinati i medici, gli infermieri e gli anziani delle case di riposo ma sembra che il carcere proprio non venga considerato”. La richiesta è quella di anticipare le vaccinazioni ad aprile, nello stesso momento in cui saranno vaccinate le altre forze dell’ordine. Vicenza. Troppi positivi, carcere sigillato. I sindacati accusano: “Qui è mancata la prevenzione” di Benedetta Centin Corriere del Veneto, 13 gennaio 2021 Giovedì scorso i detenuti risultati positivi al tampone erano saliti da 28 a 33. Quattro giorni dopo, lunedì, i contagiati da Covid 19 nel carcere di Vicenza sono arrivati a 37: tutti isolati dalla restante popolazione carceraria in una specifica sezione del penitenziario. Un focolaio che il provveditorato dell’amministrazione penitenziaria ha voluto arginare, per evitare ulteriori positivi. Di qui la decisione di chiudere la struttura del San Pio X. Non entrano più arrestati, che vengono trasferiti in altre carceri venete: Verona, Padova o Rovigo, ma non Venezia, con 46 positivi, a sua volta off limits. Il penitenziario di Vicenza da lunedì è blindato. Sospese anche le visite di avvocati e parenti di detenuti. “Questione di sicurezza” fa sapere il direttore Fabrizio Cacciabue. Quanto agli agenti, sono due i positivi, ma contagiati altrove. Ma Leonardo Angiulli, segretario triveneto dell’Uspp, unione dei sindacati di polizia penitenziaria, sollecita la “necessità di effettuare tamponi a tutto il personale che ha prestato servizio nelle sezioni del nuovo padiglione, dove sono stati scoperti detenuti positivi, per evitare il diffondersi dei contagi, per ovvie ragioni di opportunità e di tutela della salute pubblica dei dipendenti”. È quanto messo nero su bianco nella lettera inoltrata alle autorità competenti, dal Governatore Luca Zaia al prefetto Pietro Signoriello, passando per Usl e amministrazione penitenziaria. “La circostanza che lascia allibiti - continua Angiulli - è come mai non si è dato corso al protocollo di prevenzione dal contagio usato negli altri penitenziari della regione, dove il personale viene regolarmente controllato con i tamponi, sebbene su base volontaria, cosa che ha consentito il contenimento dei contagi”. E ancora: “Non si comprende come mai per il controllo del personale di polizia penitenziaria operante nella casa circondariale di Vicenza si è dovuti ricorrere all’uso dei pochissimi tamponi forniti dai superiori uffici alla direzione, mentre nel carcere di Padova i poliziotti vengono regolarmente controllati dall’Usl - spiega il referente sindacale - I poliziotti di Vicenza sono di rango inferiore rispetto ai colleghi di Padova per subire un trattamento sanitario differenziato? Oppure si vuole risparmiare sulla pelle dei poliziotti vicentini?”. Quello che teme Angiulli sono “gravi problemi di ordine pubblico” se gli agenti, causa mancati controlli, venissero “decimati, causando un’ingestibilità dei 360 detenuti presenti, con negative ricadute sulla collettività vicentina”. La richiesta, riportata nella missiva, è quella di “riattivare il presidio sanitario esterno ancora presente nel parcheggio del carcere, e far sì che personale medico e paramedico della Usl espleti tamponi di controllo periodici su tutto il personale”. Bergamo. Covid in carcere, 25 positivi: un detenuto in ospedale bergamonews.it, 13 gennaio 2021 Quello di via Gleno è il secondo penitenziario in Lombardia per numero di contagi. Secondo le ultime rilevazioni del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (dati aggiornati alle 20 dell’8 gennaio scorso) all’interno del carcere di Bergamo ci sono 25 detenuti positivi al Covid asintomatici e un altro in ospedale. Quello di via Gleno è il secondo penitenziario in Lombardia per numero di contagi, preceduto solo da quello di Opera (29, di cui 26 asintomatici, e altri 5 ricoverati in ospedale) e seguito da Bollate (15 gli asintomatici, 2 con sintomi e un detenuto ricoverato in ospedale) e San Vittore con 16 positivi. Sempre secondo gli ultimi dati (aggiornati alle 20 dell’8 gennaio scorso) in Italia i detenuti positivi sono 537. Erano invece 1.088 il 13 dicembre dell’anno scorso, giorno in cui si è raggiunto il massimo contagio nei penitenziari. La stragrande maggioranza degli attualmente positivi è costituita da asintomatici: sono 499, a fronte di 12 sintomatici curati nelle carceri. Altri 26 detenuti sono ricoverati in ospedale. A questi numeri sulla popolazione carceraria fanno da contraltare le cifre sul contagio tra la polizia penitenziaria. I positivi tra gli agenti sono 635 a fronte dei 609 del 4 gennaio. Oltre a loro, ci sono altri 60 casi tra il personale amministrativo e dirigenziale dell’amministrazione penitenziaria. In tutto i dipendenti ricoverati sono 13. Il carcere di Sulmona resta in testa per numero di casi (52, ma il mese scorso avevano sfiorato il centinaio). Allarma anche quello di Venezia con 46 positivi, tutti asintomatici. Altri focolai sono nel carcere di Lanciano con 29 contagiati e nel penitenziario romano di Regina Coeli con 35. Sempre nella capitale sono 28 i positivi nelle varie strutture di Rebibbia. Una questione che, anche a Bergamo, va di pari passo con quello del sovraffollamento e il conseguente problema sanitario. Un mese fa l’associazione bergamasca Carcere e Territorio aveva chiesto ai parlamentari bergamaschi di farsi parte diligente per l’adozione di misure contro il sovraffollamento nelle case circondariali nazionali che, in tempi di un’emergenza sanitaria, risulta ancora più drammatico. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Suicida in cella: era innocente, dopo 7 anni tutti assolti i coimputati di Mary Liguori , 13 gennaio 2021 Il Mattino Le strade della giustizia a volte sono infinite o talmente lunghe da smarrirsi in vicoli ciechi e ritrovare la luce solo quando è ormai troppo tardi. Sette anni dopo l’arresto e il suicidio di Mario Cantone, la tranche d’inchiesta in cui fu coinvolto si è dissolta come una bolla di sapone: il tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha assolto suo fratello Luciano e i loro ex dipendenti, imputati per gli stessi fatti contestati al deceduto, dall’accusa di essere stati in società con il clan dei Casalesi per la gestione di due sale bingo ad Aversa e Teverola. Il procedimento, datato giugno 2013, fu frutto di una maxi inchiesta che portò al sequestro di beni per 450 milioni di euro e all’arresto di decine di persone in tutta Italia. Tra loro c’era anche Mario Cantone, 46 anni, un passato da giocatore dell’Atalanta, poi imprenditore che, insieme al fratello, era titolare di sale bingo che, secondo la Dda, erano invece nelle disponibilità del clan Russo, costola aversana dei Casalesi dedita alla gestione del business del gioco e delle slot machine. Poco dopo la retata, Luciano Cantone e gli altri imputati ottennero i domiciliari. Non Mario, al quale la Dda contestava l’affiliazione alla cosca. Per due volte, dal carcere di Santa Maria Capua Vetere, il 46enne chiese aiuto e per due volte gli furono negati i domiciliari. Né ottenne agevolazioni in virtù delle sue fragili condizioni psichiatriche. Anzi, fu dichiarato compatibile con il regime carcerario e quindi lasciato in cella. Ma Mario era innocente - e forse la sentenza emessa ieri per suo fratello ne è la prova - e in quelle quattro mura non resistette. Si tolse la vita nel febbraio del 2014 impiccandosi alle sbarre della cella. “Nessuno ha voluto ascoltare nonostante fosse chiara la fragilità e la sofferenza di Mario - disse all’epoca la sorella, Luana. I magistrati non hanno tenuto conto della salute di mio fratello, rigettando le richieste di scarcerazione e negando la perizia medica esterna. Ciò ha gettato Mario nello sconforto, non ha retto al regime della detenzione”. La sentenza assolutoria di ieri riaccende il dolore e la rabbia dei familiari per una vita rovinata da quello che, almeno in questo primo grado di giudizio, appare come un clamoroso e drammatico errore giudiziario. “L’assoluzione di Luciano Cantone ristabilisce la memoria del mio amico Mario, fratello dell’attuale imputato - ha detto l’avvocato Francesco Liguori a nome della famiglia - Mario fu arrestato per gli stessi fatti e, addirittura, indiziato di appartenere al clan dei Casalesi e, proprio per questo, sottoposto al più afflittivo regime carcerario. Per mesi ha urlato la sua innocenza. Era molto prostrato, anche perché il Riesame impiegò oltre tre mesi per depositare le motivazioni del rigetto e, di conseguenza si dilatarono anche i tempi del ricorso in Cassazione”. “All’epoca - continua il penalista - depositai al gip un’istanza per far entrare in carcere uno psichiatra che potesse supportarlo, ma anche questa richiesta fu respinta e dopo poche settimane Mario si impiccò, lasciando la moglie i suoi due figlioletti per sempre privi del suo affetto. Adesso, almeno, i figli possono andare a testa alta: il padre non era un camorrista”. Per due volte Cantone fu interrogato dai magistrati e cercò di difendersi dalle gravissime accuse che gli venivano mosse. “Mi chiedevano il pizzo, non ero il loro socio: ero il loro bancomat, non potevo rifiutarmi. I camorristi mi estorcevano denaro per consentirmi di tenere aperta la sala bingo - disse ai pm in entrambe le occasioni in cui fu ascoltato - Una volta mi hanno anche picchiato perché mi ero “permesso” di comprare del mobilio da un rivenditore che non era quello sponsorizzato dai Casalesi”. Cantone stava male, ma si difese quando gliene fu data l’opportunità. Fu tutto inutile. Restò in cella. E poi si uccise. Ieri il tribunale di Santa Maria Capua Vetere, a sette anni da quei fatti, ha assolto con le formule perché il fatto non costituisce reato e per non aver commesso il fatto sia il fratello di Mario, Luciano Cantone, che gestiva con lui le sale bingo, sia i loro ex collaboratori Luca D’Errico, Ferdinando Galluccio e Anita Turro, tutti difesi dagli avvocati Francesco Liguori e Francesco Angelino. Per Mario la sentenza è arrivata troppo tardi, ma - per quanto possa valere - almeno la sua memoria è riabilitata. Roma. A Rebibbia virus in cella e detenuti in sciopero della fame Il Tempo, 13 gennaio 2021 A Rebibbia Nuovo complesso i positivi al Covid sono saliti ieri a 34, di cui 5 ricoverati in ospedale. In un post su Facebook la garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, spiega: “Sono entrata con la direttrice e il responsabile medico di Rebibbia nel reparto dove sono isolati i positivi (eravamo forniti di tutti i dispositivi di sicurezza). Da lunedì i detenuti hanno iniziato lo sciopero della fame e ieri mattina hanno iniziato a danneggiare le loro stanze detentive. Ci abbiamo parlato (attraverso la porta) e la direttrice e il medico hanno assicurato un intervento di rafforzamento per permettere loro di superare questa fase così difficile in una modalità più umana rispetto la attuale. Il problema principale è che il reparto dove sono stati allocati per l’isolamento è vetusto e quindi non adatto già per persone in salute e che possono uscire durante il giorno. Figurarsi per chi deve trascorrerci tutto il tempo convivendo con altre cinque persone. Sono stati bloccati gli ingressi dei nuovi giunti e questo permetterà a breve il loro trasferimento nel reparto limitrofo dove sono attualmente coloro in quarantena. La direttrice rafforzerà il numero di telefonate a disposizione e il responsabile medico dovrebbe ottenere la presenza di un infermiere anche di notte. La protesta è rientrata con l’auspicio che questi minimi provvedimenti possano essere attuati al più presto. Tutto ciò - sottolinea Stramaccioni - conferma che la presenza del virus in carcere non è gestibile facilmente nelle condizioni attuali di sovraffollamento. E la preoccupazione (comprensibile) del contagio rende tutto più difficile. Anche svolgere le normali funzioni come distribuire cibo o portare gli apparecchi telefonici. Alla delegazione di Senatori della Commissione Giustizia presenti ieri mattina in istituto mi sono permessa di rivolgere un ulteriore accorato appello per fare in modo intanto di vaccinare la popolazione detenuta e gli operatori penitenziari. Alle persone in isolamento - conclude - ho garantito che continuerò ad effettuare un monitoraggio costante per rendere più decente questa disumana condizione di detenzione”. Rovigo. Ancora preoccupazione per l’arrivo di detenuti positivi al Covid da tutto il Triveneto di Francesco Campi Il Gazzettino, 13 gennaio 2021 Ancora preoccupazioni sul piano che vedrebbe “la Casa Circondariale di Rovigo come contenitore di detenuti positivi al Covid provenienti da tutto il Distretto del Triveneto” e la richiesta di un confronto urgenze anche per esaminare tutte le criticità che questo comporta data la situazione della struttura polesana: questo quanto chiedono il coordinatore veneto della Fp Cgil penitenziari Gianpietro Pegoraro e la segretaria regionale della Fp Cgil Franca Vanto in una lettera inviata al presidente della Regione Luca Zaia, all’assessore Manuela Lanzarin, oltre che al garante nazionale dei diritti dei detenuti e al Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Rischio diffusione - Perché le sbarre non proteggono dal virus. Anzi, le carceri, come comunità di persone costrette a convivere sotto uno stretto tetto e in spazi volutamente angusti, sono un luogo particolarmente fragile per quanto riguarda la diffusione del contagio, come già evidenziato nella prima ondata della pandemia. In questo momento negli istituti penitenziari del Triveneto la situazione sembra complessivamente ancora sotto controllo, con l’ultimo bollettino disponibile, aggiornato al 7 gennaio, che indica la positività di 36 agenti di polizia penitenziaria e di 108 detenuti. Ma, ovviamente, ci sono situazioni diverse, alcune decisamente più critiche, come Venezia e Vicenza. Unico contagio - Non è il caso, almeno per il momento, del carcere di Rovigo, dove risulta un solo contagio, fra il personale di sorveglianza. Ma la previsione di un utilizzo della casa circondariale rodigina come carcere Covid, con 34 posti per accogliere i positivi da altre carceri nel caso i loro reparti si saturassero, continua a preoccupare la Cgil. Che torna a chiedere chiarimenti sul tema specifico ma anche l’inserimento di operatori e detenuti fra le priorità del piano vaccinale: “In materia di vaccinazioni nelle carceri sottolineano in una lettera che Pegoraro e Vanto hanno inviato chiedendo un incontro, - riteniamo che esse devono essere svolte subito dopo i lavoratori a rischio e alle Rsa, non a settembre come si vocifera: occorre ricordare che le carceri sono polveriere pronte a esplodere in qualsiasi momento, come è successo a marzo a Modena e Bologna e successivamente a Venezia, situazioni da evitare. Come sindacato poniamo al centro del nostro intervento la tutela della persona, sia essa poliziotta che detenuta in quanto entrambe fanno parte, in maniera diversa, della stessa comunità, che è il carcere”. Priorità nei vaccini - A nome della Cgil Pegoraro e Vanto si dicono poi “contrari alla ghettizzazione del carcere, come è stata individuata nel piano operativo per la prevenzione e il contenimento emergenza sanitaria Covid emanato dal Provveditorato in accordo con l’osservatorio Veneto della sanità, che individua nel carcere di Rovigo il luogo in cui inviare detenuti, positivi al Covid classificati media e alta sicurezza, provenienti da altri carceri del Triveneto”. Un tema, questo, già sollevato a più riprese. Già a novembre, all’indomani dell’elaborazione del piano operativo del Provveditorato regionale, la Cgil aveva sottolineato come secondo questi indirizzi “i detenuti di altri istituti positivi, se la sezione individuata come isolamento Covid non riesce più a contenerli, vengono trasferiti in base alle classificazioni di pericolosità: per Trento solo detenuti e detenute a media sicurezza, mentre per Rovigo ad alta e media sicurezza”, sottolineando le problematiche strutturali, legate alla posizione di questo reparto, vicino a quello dei non positivi e con scale comuni, ma anche l’assenza in carcere di ventilatori polmonari e della mancanza di aree di isolamento nell’ospedale di Rovigo con la conseguente necessità di eventuale piantonamento, oltre che di organico, sia di personale sorveglianza che infermieristico. Appello al prefetto - Preoccupazioni reiterate in un’accorata nuova richiesta di confronto, inviata il mese scorso anche al prefetto di Rovigo, al sindaco Gaffeo e al dg dell’Ulss, sottoscritta anche dal segretario polesano della Fp Cgil Davide Benazzo. Parma. Detenuto malato grave: ricoverato, ha un arresto cardiaco e la famiglia non ha notizie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 gennaio 2021 Detenuto a Parma è stato ricoverato il 29 dicembre. L’avvocato Francesco Calabrese ricorda che le istanze per i domiciliari sono state sempre respinte. Il 29 dicembre viene ricoverato d’urgenza in ospedale, con dolori al petto e febbre altissima. Una volta finito al pronto soccorso, è andato in arresto cardiaco e ricoverato in terapia intensiva. Ma a oggi i familiari non hanno più notizie dall’ospedale, nonostante l’informativa della direzione del carcere di Parma abbia scritto nero su bianco che “le informazioni sullo stato di salute del detenuto potranno essere ottenute presso i referenti dell’azienda unità sanitaria locale negli II.PP. di Parma e presso i referenti dell’azienda ospedaliero universitaria di Parma”. È un detenuto 76enne malato, ha bisogno da tempo di un defibrillatore cardiaco impiantabile che i sanitari del carcere di Parma non sono in grado di garantire, ma nonostante numerose istanze, per i giudici è compatibile con l’istituto penitenziario. L’avvocato Calabrese: “Per fortuna si è sentito male in ospedale” - L’avvocato Francesco Calabrese, legale di Giovanni Fontana, così si chiama il recluso ricoverato d’urgenza in ospedale, spiega a Il Dubbio che solo per un caso fortuito l’arresto cardiaco è avvenuto in ospedale. “In carcere si sarebbe salvato?”, si chiede l’avvocato sottolineando il fatto che il quadro clinico del suo assistito in attesa di giudizio definitivo è allarmante. Tant’è vero che nel tempo sono state fatte numerose istanze per i domiciliari, puntualmente respinte. L’ultima in ordine cronologico, è il caso di dirlo, ha lanciato un allarme che puntualmente si è concretizzato con il ricovero urgente. Non solo. Tramite una consulenza medica predisposta dall’avvocato, è emerso che il quadro clinico di Fontana è peggiorato con il tempo. Dall’analisi della documentazione sanitaria e dalla visita congiunta effettuata si evidenzia, infatti, che il detenuto è affetto da: “Scompenso in cardiopatia ipocinetica-dilatativa FE: 27% con acinesia posteriore medio-basale; laterale medio- basale settale posteriore basale, ipertensione arteriosa severa, diabete mellito di grado severo con retinopatia diabetica ed arteriopatia vascolare periferica grave e diffusa agli arti inferiori ed ai tronchi sopra aortici marcata extrasistolia ventricolare spesso organizzata bigemino, plurime rivascolarizzazioni sia chirurgiche che con angioplastica e stent; osteoartrosi grave e lombo sacralgia, TBC polmonare”. Un quadro clinico che non può essere affrontato in carcere - È quindi emerso che il quadro patologico è di tale gravità da richiedere cure e trattamenti che non possono essere adeguatamente prestati in carcere. Nell’ultimo periodo - secondo il parere del medico - è visibilmente ed obiettivamente peggiorato. Infatti si è reso necessario un trattamento con diuretici ad alte dosi e riospedalizzazioni frequenti e ravvicinate ed indicazioni per impiantare un defibrillatore. Secondo il consulente di parte, “trattasi, infatti, di patologia ad alto rischio non passibile di guarigione che sta peggiorando nel tempo”. D’altronde, come evidenziato dalla stessa relazione del direttore sanitario della Casa circondariale di Parma, le pluripatologie dell’ultrasettantenne stavano avendo una grave evoluzione. Secondo la relazione del medico di parte, il protrarsi della carcerazione sta creando grave pregiudizio alla salute di Giovanni Fontana. Difatti, già risultava affetto da un marcato quadro di cardiopatia ischemica che determina ripetuti e purtroppo sempre più ravvicinati, episodi di scompenso cardiaco acuto. Il responso è stato netto. “Malgrado l’implementata terapia farmacologica attuata - si legge nella relazione - le condizioni di salute presentano in atto caratteristiche di estrema gravità tali da risultare incompatibili con la detenzione carceraria”. Parole che sono purtroppo risultate profetiche. A fine dicembre, ricoverato d’urgenza in ospedale, ha avuto in seguito l’arresto cardiaco. È stato rianimato e portato in terapia intensiva. I famigliari sono preoccupati visto che ancora non vengono informati sulle sue attuali condizioni fisiche. Bari. Riprende “LegalItria” e lo fa dai diritti dei detenuti: appuntamento venerdì prossimo sulpezzo.info, 13 gennaio 2021 Si terrà venerdì 15 gennaio 2021, alle 18.30, sui canali social della cooperativa Radici Future, il primo degli incontri annuali di LegalItria, il Festival nazionale della Legalità ideato dalla cooperativa Radici Future Produzioni e realizzato in collaborazione con l’associazione LegalItria, promosso dal Senato della Repubblica e dalla Regione Puglia e dai Garanti regionali Piero Rossi (Garante dei diritti delle persone private della libertà) e Ludovico Abbaticchio, (Garante dei diritti del Minore). Una scelta che dipende direttamente dal trend in crescita che il Festival ha registrato nella terza edizione quando gli studenti raggiunti sono stati 110mila e 2mila i volumi distribuiti nelle scuole secondarie di primo e secondo grado. Ad oggi, ai 7 Comuni coinvolti (Alberobello, Cisternino, Fasano, Locorotondo, Manduria, Martina Franca, Noci), si sono aggiunti 12 nuovi comuni pugliesi e 2 Comuni del Veneto, e si sta definendo l’adesione di altri 10 Comuni tra Puglia, Veneto e Lombardia. Gli incontri, per il momento on line, si intitoleranno tutti “LegalItria è” con l’indicazione, di volta in volta, del settore di interesse. Racconteranno infatti tutte le declinazioni del Festival e dunque i diritti sotto ogni forma: le mafie e il rapporto tra cittadinanza attiva e legalità, il lavoro, l’informazione, i diritti delle donne e degli omosessuali, i rapporti tra chiesa e mafie. Nel primo appuntamento, venerdì 15 gennaio, organizzato in collaborazione con l’ufficio regionale del Garante dei diritti delle persone private della libertà, ci si occuperà dei diritti dei detenuti e della relazione tra l’eventuale sviluppo di attività collaterali di carattere educativo che li riguardano e l’impatto sulla società. LegalItria, in sostanza, non si fermerà ad attivare un progetto lettura, ma attiverà un percorso di acquisizione della consapevolezza sui diritti dei detenuti e sul loro impatto sulla società. Interverranno dunque il garante regionale Piero Rossi, Giuseppe Campesi, docente di sociologia del diritto all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, esperto legale e membro fondatore dell’Osservatorio sulla detenzione amministrativa degli immigrati e l’accoglienza dei richiedenti asilo in Puglia, e Leonardo Palmisano, presidente della cooperativa Radici Future Produzioni. Gli incontri saranno trasmessi on line e potranno essere seguiti su: pagina Facebook di Radici Future Produzioni, canale YouTube di Radici Future Produzioni, Lieskill.eu, il social network generalista eticamente certificato. Cagliari. Spettacolo e confronto con i detenuti, il Cada die Teatro in carcere cagliaripost.com, 13 gennaio 2021 Il Cada Die Teatro torna sul palco con “Arcipelaghi”, lo spettacolo tratto dal romanzo della scrittrice, saggista e insegnante Maria Giacobbe e diretto da Alessandro Lay, domani, 13 gennaio, per i detenuti della Colonia penale di Is Arenas, giovedì 14 per gli ospiti della Casa di reclusione “Salvatore Moro” di Massama e mercoledì 20 gennaio per una nuova sezione di detenuti della Casa circondariale di Uta. “Le nostre speranze di poter riprendere a far teatro in presenza a gennaio sono svanite. Ma per noi non è pensabile star fermi, abbiamo una responsabilità che è quella di portare l’arte ovunque, e in particolar modo nei luoghi non convenzionali, dove gli spunti di riflessione sono ancor più necessari che altrove. Sostenuti e sollecitati da operatori carcerari e insegnanti dei Cpia (Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti), abbiamo deciso di proseguire questo particolare tour nelle carceri attraverso lo strumento dello streaming, sia pur in diretta e non con la messa in onda di una registrazione” spiegano Alessandro Mascia e Pierpaolo Piludu, ideatori del progetto e interpreti dello spettacolo. Indispensabile è anche tutta la fase di preparazione dei detenuti ad opera dei docenti dei Cpia. “È la prima volta che i detenuti di Massama si confrontano con un progetto di questo tipo. La scuola e le attività di laboratorio come il teatro, sono l’unica apertura verso il mondo esterno. Ma ora tutto è fermo, da marzo scorso non abbiamo la possibilità di incontrare i nostri allievi, neppure a distanza. Pertanto, l’incontro con la cultura e la bellezza del teatro diviene un’esperienza ancora più preziosa, un ponte tra la realtà carceraria e la società esterna, un’occasione culturale e formativa che contribuisce al miglioramento della condizione attuale di ogni soggetto recluso. Per chi vive tra le pareti del carcere, anche una piccola finestra verso l’esterno rappresenta una risorsa fondamentale” spiega Carmensita Feltrin, dirigente scolastico del Cpia 4 di Oristano. D’accordo su tutta la linea anche Giuseppe Ennas, dirigente scolastico del Cpia 1 di Cagliari cui fanno capo gli istituti di Uta, Quartucciu e Isili: “Il primo obiettivo che vorremmo raggiungere è quello del recupero e della riabilitazione di chi ha commesso errori nella propria vita, ma è pronto a rientrare in società. Con i laboratori teatrali si ha poi l’opportunità di acquisire competenze in campo lavorativo. Si pensi, solo per degli esempi, ai falegnami per la costruzione delle scenografie o agli elettricisti che si occupano degli impianti. Inoltre abbiamo la dimostrazione che questo tipo di attività, e in particolare l’incontro e il confronto con i protagonisti dei progetti, favorisce la capacità di relazionarsi agli altri e incentiva una responsabilizzazione dei detenuti” conclude Ennas. Ecco perché il lavoro della compagnia assume contorni di ancora maggiore rilevanza. Pur trattandosi di un’alternativa “forzata” al contatto vero e proprio con gli spettatori, Mascia tiene a sottolineare uno degli aspetti più interessanti di questa esperienza: “Anche se separati da uno schermo, al termine dei nostri spettacoli ci confrontiamo con i detenuti. È un momento irrinunciabile e certamente uno degli aspetti che più ci stimolano ad andare avanti in questo percorso”. Piludu spiega perché è stato scelto proprio questo racconto: “La bellissima e terribile storia di Maria Giacobbe è una riflessione profonda sia sui temi della violenza, della vendetta e della pena, che sulle debolezze e difficoltà che possono spingere qualsiasi essere umano a compiere azioni delittuose. È un invito a metterci nei panni di tutti i protagonisti della storia facendoci riflettere sul dolore che ogni nostro comportamento può determinare in altri esseri umani”. Quale miglior platea dunque, di chi è chiamato a rispondere di una o più scelte sbagliate fatte nella vita?: “Il teatro, come tutta l’arte, ha il compito e il dovere non tanto di dare risposte ma di porre domande, possibilmente scomode e di non facile soluzione: domande che invitino lo spettatore a prendere posizione su quello che dal palcoscenico gli viene proposto. Lo spettacolo racconta non una ma più vicende, non espone una verità ma, come fossero vere e proprie isole che man mano affiorano, porta a galla le diverse visioni di ognuno dei personaggi, fino a formare appunto un “arcipelago” di verità in cui decidere cos’è giusto e cosa no resta un compito del lettore o, nel nostro caso, dello spettatore” aggiunge il regista Alessandro Lay. La trama dello spettacolo “Arcipelaghi” - Giosuè, un ragazzino di quattordici anni, viene ucciso perché ha visto troppo; nessuno sa chi è stato. Tre mesi dopo nella notte di S. Antonio “la notte dei fuochi”, un uomo viene freddato con un colpo di pistola. La mattina successiva Oreste, anche lui di quattordici anni, si presenta lacero e bagnato fradicio a casa dei Rudas, amici di famiglia che vivono in un paese a parecchi chilometri dal suo. Cos’è successo? Quella che pian piano iniziamo a immaginare è la verità? Applicare la legge, punire, equivale sempre a riparare all’errore? E qual è il vero significato di giustizia? Che cosa ci dice la rabbia quando scuote le nostre democrazie di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 13 gennaio 2021 Ciò che spinge la gente in piazza non sono tanto le diseguaglianze e i disagi economici. Quel che conta è il sentimento di giustizia offeso, fondato o meno che sia non importa. Oggi a Washington e domani a Roma o a Berlino? Forse no, ma qualcosa di grave sta succedendo di sicuro nelle nostre società se al loro interno stanno proliferando gruppi sempre più folti di persone convinte delle più singolari teorie a sfondo complottistico, pronte a negare verità ritenute assodate e a farsi beffe delle regole. Se sono sempre più numerose le persone che nutrono una sfiducia di principio verso istituzioni e autorità considerate con disprezzo “il potere”: persone all’apparenza normali ma disponibili in ogni istante a trasformarsi in vulcani d’odio. Certo, frange folli ci sono sempre state, ma oggi è diverso. Oggi si sente sempre più spesso salire dal fondo delle nostre società un rabbioso sentimento di anomia e di non appartenenza, una puntigliosa volontà da parte di tanti di non riconoscersi in ciò che è considerato normale, nei valori ufficialmente professati. Aleggia da molte parti un clima di diffidenza preconcetta e aggressiva verso chiunque o qualunque cosa abbia a che fare con l’ordine costituito, siano i media e i giornalisti o i princìpi del governo rappresentativo e i suoi attori. Da dove nasce tutto questo? da dove nascono il senso di anomia, il clima di sospetto paranoico, la rabbia aggressiva, la sfiducia sprezzante verso la democrazia e i suoi istituti che sempre più si vanno formando negli strati inferiori delle società occidentali? La risposta più comune è: dalle diseguaglianze economiche cresciute a dismisura negli ultimi decenni. Che esistono certamente: basta confrontare l’andamento delle retribuzioni dei manager con quelle degli operai, dove nell’arco degli ultimi decenni il differenziale è arrivato a toccare la misura di cento a uno! Diseguaglianze economiche che a loro volta sono una delle origini del crescente orientamento oligarchico che si sta producendo nei sistemi democratici. Nei quali, per l’appunto, si assiste alla concentrazione e all’esercizio di poteri cruciali in poche mani e in modi assolutamente impropri: si veda ad esempio il caso - da molti già segnalato - dei gruppi imprenditoriali padroni di Facebook e di Twitter che di loro iniziativa, senza alcuna autorizzazione dell’unico potere legittimo in un caso del genere (quello giudiziario), hanno nella crisi americana ancora in corso deciso di togliere la possibilità di comunicare al presidente Trump (che questi se lo meritasse ampiamente è un altro discorso: ma non possono essere certo i signori Bezos, Zuckerberg o Dorsey a deciderlo). Tuttavia, in aggiunta e in certo senso al di là delle cause appena elencate, ce n’è un’altra forse più importante, che specie negli strati popolari o tra la piccola borghesia semi-scolarizzata ha favorito e favorisce una crescente delegittimazione della democrazia e con essa il diffondersi di una rabbia aggressiva. È una causa che non ha nulla di economico. Consiste nel non riuscire più a riconoscersi nella società in cui si è nati e a cui un tempo invece si era sicuri di appartenere condividendone i valori. Nel non sentirsi più parte viva e organica di essa bensì quasi tollerati come un corpo culturalmente estraneo. Nel sentirsi vittime, insomma, di una sorta di vera e propria emarginazione che relega di fatto quasi nella condizione di paria civile, benché il luogo dove ciò accade sia il proprio Paese. È questo uno dei frutti avvelenati delle gigantesche trasformazioni ideologiche e del costume avvenute nelle società occidentali nel corso degli ultimi due o tre decenni. Allorché la morale tradizionale si è repentinamente dissolta e le sue agenzie di formazione, i suoi punti di riferimento - la nazione, la famiglia, i partiti politici, la Chiesa, la scuola - o hanno visto cambiare decisamente le proprie regole o sono state investiti da critiche radicali e per molti aspetti messi fuori gioco. Nel medesimo tempo i rapporti tra i sessi e quelli tra le generazioni, l’ambito della genitorialità, il senso del pudore, il principio gerarchico legato all’autorità così come quello legato al sapere e al saper fare, sono stati variamente e più o meno radicalmente contestati e sottoposti a cambiamenti decisi, talora estremi. L’aborto è stato pressoché dovunque legalizzato. La pornografia e l’uso delle sostanze stupefacenti si sono visti in ampia misura legittimati e il loro consumo è divenuto sostanzialmente di massa. Lo stesso passato storico - oggetto sovente di memorie care, personali o familiari - è oggi sottoposto a revisioni fino a qualche tempo fa impensabili, quando non addirittura rifiutato in blocco. Si badi, qui non si tratta di stabilire se questi cambiamenti siano stati in sé positivi o negativi. Si tratta piuttosto di rendersi conto della loro portata realmente enorme, della rapidità con cui sono avvenuti tutti insieme, che ne ha aumentato moltissimo l’impatto, e specialmente di un altro elemento decisivo. Del fatto che questo massiccio mutamento di valori è avvenuto in seguito a un dibattito pubblico in cui ben presto la voce dei dissenzienti è stata soverchiata: non tanto perché numericamente meno forte ma soprattutto perché priva della presentabilità e quindi dell’autorevolezza, diciamo così socio-culturale, di cui poteva invece godere la controparte. Non a caso intellettuali accreditati, scrittori e giornalisti di fama, il cinema e la televisione, leader sociali di ogni tipo, organizzazioni internazionali, si sono schierati sempre tutti o quasi dalla parte del cambiamento. E con essi regolarmente anche le classi elevate e benestanti nel loro complesso. Quest’ultimo elemento in particolare ha rappresentato un’autentica rottura storica. Nella società borghese-capitalistica sopravvissuta fin oltre la metà del Ventesimo secolo esisteva infatti, tra le classi popolari e quella proprietaria e dirigente, una notevole identità di valori e di cultura. L’etica del lavoro, l’orientamento religioso, l’apprezzamento per la probità, per il risparmio, la tenacia, l’unità della famiglia, erano tratti comuni alle une e all’altra. La grande trasformazione culturale delle società occidentali sul finire del ‘900 - non più dominate dall’etica del lavoro produttivo ma dalla terziarizzazione e dalla finanza globalizzata - avviene invece lungo linee che tendenzialmente spaccano in due la compagine sociale. Con una parte che risulta come non mai oggetto anziché soggetto, e che nel proprio intimo non può fare a meno di avvertire oscuramente di essere anche la parte sempre perdente. Alla quale, per giunta, a causa del degrado generale dell’istituzione scolastica, viene contemporaneamente meno anche il possibile aiuto dell’istruzione: vuoi per capire quanto è accaduto vuoi per potervi magari avere un ruolo non subalterno. È così che nasce e si diffonde il senso di anomia e di emarginazione di cui dicevo sopra; l’idea che la democrazia sia alla fine un gioco sempre truccato, dominato da una volontà occulta che impone di ascoltare sempre la voce di alcuni e mai degli altri. È così che acquista spazio la sensazione rabbiosa di essere condannati per principio ad essere sempre dalla parte del torto. Sarebbe bene ricordarlo: ciò che spinge la gente in piazza decisa a fare tabula rasa non sono tanto le diseguaglianze e i disagi economici. Quel che più conta è il sentimento di giustizia offeso, fondato o meno che sia non importa. In un lontano 14 luglio di tanto tempo fa la folla non diede infatti l’assalto ai forni: assaltò la Bastiglia. Morire di contenzione a Bergamo. Verità o insabbiamento? di Giovanni Rossi* Il Manifesto, 13 gennaio 2021 Salute mentale e gestione del rischio nelle attività sanitarie. Elena Casetto morì il 13 agosto del 2019, nell’incendio della stanza in cui era rinchiusa, legata al letto. Era ricoverata all’interno del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (Spdc) dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Ora il PM Letizia Ruggeri conclude le indagini ritenendo responsabili dell’incendio “per imperizia e negligenza” i due addetti al servizio di pronto intervento antincendio dell’ospedale. Occupandomi da molti anni di salute mentale ma anche di gestione del rischio nelle attività sanitarie mi pongo alcune domande. Se è vero che ogni evento avverso origina da una serie di concause organizzative, nel caso di Elena, come possiamo ricostruire la catena degli eventi? Per un corto circuito nella stanza? Per iniziativa della stessa Elena, che sarebbe stata in possesso di un accendino? Consideriamo quest’ultima circostanza. Elena fu rinchiusa e legata al letto, perché si riteneva che potesse essere di danno a se stessa. Come è potuto accadere che avesse, se dimostrato, un accendino? Possiamo fare due ipotesi sul perché Elena abbia usato l’accendino: per suicidarsi o per liberarsi delle cinghie di contenzione. In ambedue i casi, è evidente che la presenza di un operatore sanitario nella stanza avrebbe impedito che il fuoco fosse appiccato o si sarebbe potuto soffocare subito. La seconda domanda riguarda la solitudine di Elena. Nessuno si accorse che Elena stava male e perciò necessitava della presenza costante di un operatore al suo fianco, quantomeno per sorvegliarla se non, come sarebbe stato auspicabile, per darle sostegno e ascolto? Si dice: “Sono state rispettate le indicazioni che richiedono il monitoraggio ogni 15 minuti”. Questo fa porre una ulteriore domanda, sull’adeguatezza di tali indicazioni. Nel caso di Elena non furono adeguate e dobbiamo chiederci se in realtà non siano state dannose, spingendo gli operatori a osservare le regole piuttosto che Elena, con il suo star male. Continuando a risalire la catena degli eventi, c’è da chiedersi perché Elena fu isolata e contenuta. La contenzione è ormai da tutti considerata una extrema ratio, solo nei casi di “stato di necessità”, per evitare un danno grave alla persona. Dobbiamo chiederci se davvero sussistessero, all’interno di un servizio con medici e infermieri specializzati nel trattamento del disagio psichico, le condizioni di “forza maggiore” per privare Elena della libertà. La domanda è ancora più pressante, considerato che in quel Spdc risultano nel 2019 ben 300 contenzioni meccaniche nei confronti di 86 persone. Un numero decisamente elevato per giustificarle tutte con lo “stato di necessità”. Se non esistevano ragioni di necessità per contenere Elena, allora proprio la contenzione sarebbe da collegarsi alla sua morte. Infine, un’ultima domanda. Elena si era ricoverata volontariamente nell’Ospedale Papa Giovanni XXIII. Quando si ipotizzò la necessità di un Trattamento Sanitario contro la sua volontà, furono preventivamente verificate eventuali alternative insieme a lei o alla sua famiglia? Il Sistema Sanitario della Lombardia si incardina sul diritto di scelta del cittadino tra diverse opzioni di cura, pubbliche e private. Viene da chiedersi se tale principio sia stato rispettato nel caso di Elena, oppure no. Accade spesso che la scelta non sia concessa alle persone con problemi di salute mentale, quasi fossero cittadini meno uguali e con meno diritti di altri. Ancora: è stata richiesta una seconda opinione, da parte di un esperto esterno, allo scopo di migliorare nel confronto con il collega il progetto di cura? È stato richiesto il secondo parere per il TSO, come la legge richiede? Immagino che chi ha svolto le indagini giudiziarie si sia posto queste domande. Sono curioso di conoscere le risposte. *Presidente Club Spdc No Restraint Migranti. “Ministra Lamorgese, sblocchi i corridoi umanitari dalla Libia” di Giansandro Merli Il Manifesto, 13 gennaio 2021 L’appello al Viminale per cinque aerei che realizzino una prima evacuazione d’urgenza è stato firmato da Ong e reti antirazziste: “Non c’è più tempo da perdere”. Sbloccare una prima evacuazione di emergenza di alcune centinaia di rifugiati detenuti in Libia autorizzando la partenza di cinque aerei. È la richiesta avanzata ieri alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese da Ong, associazioni, reti antirazziste, esperti di immigrazione e attivisti alla vigilia della video conferenza organizzata oggi dal Viminale. L’incontro sarà coordinato dal prefetto Michele di Bari, capo del dipartimento Libertà civili e immigrazione, e vedrà la presenza dei soggetti umanitari che hanno proposto di far arrivare in sicurezza alcuni dei rifugiati che al momento si trovano al di là del Mediterraneo, messi in pericolo dal conflitto militare, dalle milizie dei trafficanti e dalla terribile situazione sanitaria. “I soggetti organizzatori, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese e la Comunità di Sant’Egidio, sono gli stessi che da anni evacuano con successo rifugiati siriani dal Libano e hanno, quindi, tutte le carte in regola per gestire accoglienza e ricollocamento di persone nei vari Paesi europei senza gravare sullo Stato italiano”, si legge nella lettera. Tra i firmatari ci sono Alarm Phone, Baobab, Borderline, Mediterranea, LasciatCIEntrare, Josi & Loni Project, Possibile e poi Don Mussie Zerai, l’ex sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, il regista Daniele Vicari, gli avvocati Fulvio Vassallo Paleologo e Arturo Salerni. Il progetto per l’arrivo in sicurezza dei rifugiati sarebbe sul tavolo del Viminale da diversi mesi, ma fino a oggi non ci sono state risposte concrete. Nel frattempo però “le condizioni dei migranti in Libia peggiorano di giorno in giorno”, scrivono le associazioni. E fanno i nomi di ragazze e ragazzi con cui sono in contatto telefonico che recentemente sono stati venduti come schiavi, torturati o destinati ai lavori forzati: Maryam, Samira, Fatima, Paul, Sebastian. Accanto a loro ci sono quelli che hanno perso la vita proprio nelle ultime settimane. Il succo della lettera è: non c’è più tempo da perdere. “Serve un’evacuazione di emergenza, vista la situazione sanitaria e le minacce alla sicurezza di queste persone, che ogni giorno vedono i propri diritti calpestati e rischiano la vita - afferma Don Mussie Zerai, prete cattolico da sempre al fianco dei rifugiati e candidato al Nobel per la pace nel 2015 - Ormai tutti sanno cosa accade nei lager libici e anche nelle città, dove i profughi sono esposti ad aggressioni e attacchi continui, derubati del poco che hanno casa per casa. È ora di agire”. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) nel corso del 2020 sono state 36.418 le persone arrivate in Europa, sulle coste italiane e maltesi, percorrendo la rotta migratoria del Mediterraneo centrale (che registra le partenze da Libia, Tunisia e in parte Algeria). Durante lo stesso anno ben 11.981 sono state catturate dalla cosiddetta “guardia costiera” di Tripoli e riportate indietro, nell’orrore dei centri di prigionia. Stati Uniti. Eseguita la condanna a morte di Lisa Montgomery La Repubblica, 13 gennaio 2021 È stata eseguita la pena di morte per l’unica donna detenuta in un braccio della morte. La prima in quasi 70 anni dopo che l’ormai ex presidente Donald Trump ha ripristinato la pena capitale per reati di competenza governativa. Il giudice distrettuale James Patrick Hanlon aveva bloccato l’iniezione letale prevista per ieri per Lisa Montgomery sostenendo che prima una corte deve accertare le capacità mentali della detenuta. Una decisione che si pensava avrebbe fatto slittare l’esecuzione a dopo l’insediamento del presidente appena eletto Joe Biden, che avrebbe potrebbe graziare o commutare la condanna essendosi impegnato a lavorare per abolire la pena di morte. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha poi dato il via libera al dipartimento di Giustizia. La sentenza ha quindi consentito all’Ufficio federale delle carceri di procedere con l’esecuzione. Nel dicembre 2004 Montgomery uccise la 23enne Bobbie Jo Stinnett, rimuovendo il bambino dal grembo della donna e poi tentando di far passare per suo il neonato. Gli avvocati di Montgomery, 52 anni, hanno affermato che abusi sessuali subiti durante l’infanzia di Montgomery abbiano portato a “danni cerebrali e gravi malattie mentali”. Violenze subite dal patrigno con l’omertà della madre. La donna partì dal Kansas e andò a casa di Bobbie Jo Stinnett, in Missouri, fingendo di voler acquistare uno dei cuccioli di cane allevati dalla donna, all’epoca incinta di otto mesi. Ma, una volta entrata, la strangolò e le tagliò il ventre con un coltello da cucina per estrarre la bambina, ancora viva, con l’obiettivo di far credere che fosse sua figlia. Il caso, che scosse l’America, ispirò libri ed episodi tv. L’ultima donna ad essere giustiziata in Usa era stata Bonnie Heady, nel 1953 in una camera a gas del Missouri. Insieme al marito Carl Hall, anche lui condannato a morte, rapì a scuola il figlio di sei anni di un ricco imprenditore, lo uccise e chiese quello che allora fu il più grande riscatto nella storia americana: 600.000 mila dollari, l’equivalente oggi di oltre 5 milioni di dollari. Trump aveva già supervisionato 10 esecuzioni, rifiutandosi di bloccare le tre restanti nonostante la consueta ‘tregua’ nel periodo di transizione: se verranno portate a termine, sarà il presidente che ne ha collezionato di più in oltre un secolo. Stati Uniti. Il presidente più letale della storia costringe il boia agli straordinari di Marco Cinque Il Manifesto, 13 gennaio 2021 Da quando il presidente uscente Donald Trump ha sottoscritto la ripresa delle esecuzioni capitali a livello federale, per la prima volta nella storia degli Usa ci sono state più uccisioni legalizzate compiute dal governo federale che in tutti gli Stati dell’Unione messi assieme. Solo nella seconda metà del 2020 sono già stati messi a morte 10 condannati, 3 dei quali spediti sul patibolo dopo l’elezione di Biden. “La politica dell’amministrazione Trump in merito alla pena di morte è storicamente aberrante - ha dichiarato Robert Dunham, direttore esecutivo del Death Penalty Information Center. Il fatto che si verifichi un numero record di esecuzioni federali, mentre siamo vicini al minimo record di esecuzioni statali, nel mezzo di una pandemia, mostra quanto l’amministrazione Trump sia anacronistica e non possa resistere dal compiere atti gratuiti di crudeltà”. Tutte queste condanne a morte eseguite a raffica e in piena emergenza pandemica hanno lasciato strascichi. Infatti, a seguito dell’esecuzione del condannato Orlando Hall, ucciso con iniezione letale il 19 novembre scorso, sei membri della squadra di esecuzione più un’altra dozzina di membri dello staff del penitenziario di Terre Haute hanno contratto il virus Covid-19. Questo non ha però fermato la mano dei boia federali. Il 10 dicembre è poi toccato al 40enne afroamericano Brandon Bernard, appena 18enne all’epoca del crimine. Durante il periodo della sua detenzione Brandon è stato un prigioniero modello, aiutando i giovani più fragili e a rischio. Di lui la stessa accusatrice federale, Angela Moore, aveva scritto: “Avendo imparato così tanto e avendo visto Brandon crescere fino a diventare un adulto, umile e pieno di rimorsi, pienamente capace di vivere pacificamente in prigione, come possiamo metterlo a morte?”. Il giorno successivo all’esecuzione di Brandon, l’11 dicembre, è stata la volta di un altro afroamericano, il 56enne Alfred Bourgeois, ucciso nonostante fosse un disabile mentale. Sia Bernard che Bourgeois sono stati entrambi condannati in Texas, notoriamente lo stato più forcaiolo d’America. Dopo questa carneficina, purtroppo, c’è ancora tempo per ammazzare qualcuno e Trump, nella sua foga sanguinaria, intende far uccidere altri 3 detenuti prima di rimettere il suo mandato, il 20 gennaio prossimo. La prima persona che doveva finire sul lettino di morte nel 2021 è Lisa M. Montgomery, unica donna nel braccio della morte federale. La sua esecuzione era prevista per ieri 12 gennaio, ma il giudice Patrick Hanlon l’ha sospesa per valutarne le capacità mentali. Infatti anche Lisa è affetta da una grave disabilità intellettiva, causata da traumi risalenti al suo passato. Trump impersona perfettamente l’imperatore nell’arena col pollice verso, padrone assoluto della vita e della morte. Come ha scritto recentemente su queste pagine Giuseppe Cassini, il presidente uscente ha concesso la grazia 94 volte a detenuti incriminati per truffa e corruzione, nonché a serial killer in divisa, distintisi per la ferocia scientifica con cui hanno sterminato civili inermi in Iraq. Il pollice verso di Trump si abbatte invece, chissà quanto casualmente, su una donna, su malati mentali e afroamericani. Per le altre due date sul calendario di morte federale, 14 e 15 gennaio, ci sono rispettivamente segnati i nomi di Cory Johnson e Dustin Higgs. A quanto pare l’amministrazione Trump non si limita ad uccidere quanti più condannati è possibile, ma vuole rendere difficile al successore Biden la limitazione della pena di morte nel Paese. Infatti il Dipartimento di Giustizia ha pubblicato una norma che consentirebbe di usare altri metodi di esecuzione oltre all’iniezione letale, cioè fucilazione, camera a gas e sedia elettrica. Quando finalmente Trump rimetterà il suo mandato, lo farà con disonore e, in tema di pena capitale, verrà comunque ricordato come il presidente più spietato della storia degli Stati uniti. Stati Uniti. Il dilemma Guantánamo per “Joe”: ancora 40 nel buco nero degli abusi di Paolo M. Alfieri Avvenire, 13 gennaio 2021 La base simbolo della lotta al terrorismo e le promesse non mantenute. A riguardarle adesso, quelle immagini sfocate dei detenuti in tuta arancione inginocchiati dietro il filo spinato, sembrano provenire da un’epoca ben più lontana. Ci parlano dei primi vagiti di un millennio nato nel segno della lotta al terrorismo e di un momento in cui, all’America post-11 settembre, (quasi) tutti avrebbero concesso tutto. Guantánamo compresa. Sono pochi o sono troppi 20 anni per chi definisce la prigione Usa in terra cubana il buco nero dei diritti umani? Pochi, per l’ex comandante della base, l’ammiraglio John Ring, che prima di essere silurato nell’aprile 2019 da Donald Trump annunciò che Guantánamo resterà aperta almeno fino al 2043. Troppi, per chi ritiene che lo “strumento” Guantánamo sia ormai inutile e superato, oltre che simbolo di ingiustizia. Nel 2008 il giovane senatore dell’Illinois Barack Obama prometteva nella campagna elettorale che lo avrebbe portato fino alla Casa Bianca che uno degli emblemi dell’America di Bush era destinato, con lui, a chiudere. Una promessa clamorosamente mancata, nonostante il netto calo del numero di prigionieri detenuti nella base. E che ora, nel ventesimo anno di operatività della prigione, fa interrogare gli analisti su quelle che saranno le decisioni del presidente eletto Joe Biden, all’epoca vice di Obama, che appare ancora dubbioso sulla questione. E questo mentre un nuovo rapporto di Amnesty International sottolinea che violazioni dei diritti umani, tortura comprese, sono ancora diffuse nel centro di detenzione. Sono quaranta i detenuti a Guantánamo, un dato certo contenuto rispetto al picco dei 700 prigionieri da oltre 50 Paesi del 2003, ma comunque significativo. Secondo le autorità Usa possono essere trattenuti per tutta la durata della guerra al terrorismo, una prospettiva senza fine. Trump ha posto fine alla pratica dell’Amministrazione Obama di riesaminare uno per uno i casi, pratica che aveva portato a trasferire o rimpatriare 197 detenuti. Con Trump soltanto un prigioniero è stato rilasciato in quattro anni e restano 26, sui 40 totali ancora in carcere, quelli che si trovano a Guantánamo senza accuse e senza processo. E c’è chi, come il saudita Toffiq al-Bihani, imprigionato dal 2003, resta in carcere nonostante da anni sia stato accordato il suo trasferimento. Scrive Amnesty che sono “molte le violazioni dei diritti umani ai danni dei detenuti, vittime di tortura, senza cure mediche adeguate e in assenza di un processo equo. Chiediamo un urgente impegno in favore della verità”. Secondo Daphne Eviatar, direttrice del programma Sicurezza e diritti umani di Amnesty International Usa, “le persone ancora detenute a Guantánamo sono inesorabilmente intrappolate a causa di multiple condotte illegali dei governi Usa: trasferimenti segreti, interrogatori in regime d’isolamento, alimentazione forzata durante gli scioperi della fame, torture, sparizioni forzate e il totale diniego del diritto a un giusto processo”. Una delle risposte più emblematiche agli attacchi dell’11 settembre rischia dunque di restare una risposta a metà, segnata dalla violenza più che dalla giustizia. Sarà Biden la “finestra di opportunità” che in molti attendevano? Per il portavoce della transizione, Ned Price, Biden è a favore della chiusura ma i dettagli su come intende muoversi non sono chiari. C’è chi ritiene che l’errore di Obama sia stato quello di dare troppa enfasi alle sue intenzioni, facendo diventare la chiusura di Guantánamo una questione divisiva. Il suo successore dovrà muoversi con molta più cautela. Medio Oriente. Donne palestinesi nell’inferno del carcere di Damon ilfarosulmondo.it, 13 gennaio 2021 La Commissione palestinese per gli affari dei detenuti e degli ex detenuti ha affermato che 36 donne palestinesi sono detenute nel carcere di Damon in condizioni di detenzione disumane. 24 di queste donne stanno scontando pene detentive diverse, di cui due a 16 anni. Nove sono in custodia cautelare e tre donne sono detenute amministrative, riferisce la Commissione. Alcuni dei detenuti soffrono di condizioni di salute molto difficili e di deliberata negligenza medica, come il caso della prigioniera Israa Jaabis, che soffre di ustioni e necessita di procedure chirurgiche. Altre donne palestinesi che necessitano anche di cure mediche speciali includono Amal Taqatqa, che è stata ferita da cinque proiettili e necessita di un’operazione per rimuovere i fissatori interni dalla gamba; il prigioniero Iman Awar, che soffre di noduli cancerosi alle corde vocali, e il prigioniero Nasreen Abu Kamil, chi soffre di ipertensione, diabete e dolori alle dita dei piedi. A dicembre, fonti ufficiali della Palestina hanno rivelato che ci sono oltre 4.400 prigionieri palestinesi all’interno delle carceri israeliane, inclusi 700 detenuti malati. Il regime israeliano continua a violare la Quarta Convenzione di Ginevra relativa alla detenzione amministrativa. Questa misura è una sorta di detenzione senza processo che permette al regime di Tel Aviv di incarcerare i palestinesi per un massimo di sei mesi, prorogabili a tempo indeterminato. In pratica, il regime di detenzione amministrativa di Israele viola numerosi altri standard internazionali. Ad esempio, i detenuti amministrativi della Cisgiordania vengono espulsi dal territorio occupato e internati all’interno di Israele, in diretta violazione dei divieti della Quarta Convenzione di Ginevra. Russia. L’amministrazione penitenziaria chiede il carcere per Alexei Navalny rainews.it, 13 gennaio 2021 Al momento il politico dell’opposizione si trova all’estero per la riabilitazione in seguito al tentativo di avvelenamento col gas nervino Novichok. L’amministrazione penitenziaria russa ha chiesto al Tribunale di Mosca di tramutare la condanna condizionale per l’oppositore Alexei Navalny in quella reale, ossia reclusione in carcere. Il motivo è “inottemperanza agli obblighi imposti dalla legge, evasione del risarcimento dei danni o compimento di un nuovo reato”. L’amministrazione penitenziaria della Federazione Russa (Fsin) accusa il politico d’opposizione Alexei Navalny di evasione dell’obbligo di firma e dei controlli da parte degli ispettori. Navalny si trova all’estero per riabilitazione in seguito al tentativo di avvelenamento con gas nervino Novichok. L’amministrazione penitenziaria, basandosi sulla stampa estera, afferma che Navalny è completamente guarito già dal 12 ottobre scorso, per cui sarebbe dovuto rientrare in Russia e sottoporsi all’obbligo di firma. La condanna condizionale di Navalny decadeva lo scorso 30 dicembre, mentre al suo avvocato a Mosca è stato notificato l’obbligo di presentarsi all’ispettorato dell’amministrazione penitenziaria per controlli soltanto il 28 dicembre. La trasformazione della condanna condizionale in quella reale significa per Navalny la reclusione per 3,5 anni. Secondo alcuni osservatori, la mossa dell’amministrazione penitenziaria russa potrebbe fungere da deterrente, per tenere il politico d’opposizione lontano dalla Russia.