Subito il vaccino nelle carceri di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 12 gennaio 2021 Uno Stato, che sa riconoscere la condizione di estrema debolezza che stanno vivendo le persone che ha in custodia nelle sue carceri, e che ha il coraggio di non punirle ulteriormente, ma di curarle nel modo più scrupoloso e di proteggerle, è uno Stato più forte. Ogni volta che, negli incontri di confronto tra le scuole e il carcere, sento qualche studente fare delle domande sulla vita detentiva, e sento qualche persona detenuta rispondere che alcuni aspetti della giornata di un detenuto, in fondo, sono un po’ come fuori, penso che no, non è vero, non c’è niente nella vita da galera, neppure nella migliore delle galere, che assomigli alla vita libera. E anche una delle regole penitenziarie europee che dice che “La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”. mi infastidisce per quanto è lontana dalla realtà. Questa distanza siderale che c’è fra il dentro e il fuori oggi è resa ancora più profonda dalla pandemia, che ha creato delle apparenti vicinanze, come quella di aver fatto sperimentare agli uomini liberi una piccola forma di isolamento, ma in realtà ha reso ancora più pesanti le diversità. Scrivono la senatrice a vita Liliana Segre e il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale Mauro Palma, in un appello che sottolinea la necessità di considerare l’ambiente carcerario come luogo di attenzione prioritaria nel sistema di vaccinazione che il nostro Paese sta predisponendo: “Il carcere è luogo strutturalmente chiuso, dove peraltro, dati i numeri attuali, la misura preventiva del distanziamento è impossibile e dove il tempo trascorso all’interno di un ambiente stretto e condiviso, quale è la camera di pernottamento, ricopre ampia parte della giornata, se non quasi la sua totalità. La connotazione personale e sociale della popolazione detenuta rivela inoltre una particolare vulnerabilità dal punto di vista sanitario, dati i difficili percorsi di vita che molto spesso connotano coloro che giungono in carcere”. Ecco, torna con forza il tema che quasi niente in carcere si può considerare “normale”, e che pensare a una strategia della somministrazione del vaccino basata sulle regole della “società libera” sia indirettamente un modo per mettere pesantemente a rischio la vita di chi in carcere vive e di chi ci lavora. È come quando si parla di salute, e si crede che negli Istituti di pena basterebbe rendere un po’ più efficiente il sistema sanitario, i Centri clinici, il servizio di Guardia medica per evitare tante scarcerazioni per motivi di salute. No, non basta, in carcere si sommano fragilità su fragilità, in carcere i tempi di intervento sui problemi di salute sono spesso lentissimi, in carcere il tema della sicurezza schiaccia tutto, in carcere, quando c’è un problema di salute, ci si ritrova malati e in più lontani da ogni affetto e soli e spaventati. Uno Stato che sa riconoscere la condizione di estrema debolezza che stanno vivendo le persone che ha in custodia nelle sue carceri e che ha il coraggio di non punirle ulteriormente, ma di curarle nel modo più scrupoloso e di proteggerle, è uno Stato più forte, a cui si rivolge anche la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia per chiedere che i detenuti, gli operatori penitenziari e tutti coloro che svolgono attività lavorative ed educative in carcere, vengano inseriti tra le categorie prioritarie nella vaccinazione contro il Covid 19. Per prevenire l’attacco del virus, ma anche per curare carceri rese sempre più simili a deserti, vuote di relazioni e di vitalità, e per rigenerare un clima di dialogo e di assunzione di responsabilità che aiuti e avvicini sempre più persone detenute a un percorso di rientro nella società. Perché un carcere “cattivo”, lontano dalla società e chiuso ogni giorno di più non aiuta nessuno, neppure le vittime. Da vittima, che ha vissuto l’orrore dell’uccisione del padre, Agnese Moro ci ricorda che “in realtà gli anni di carcere, il fatto che il carcere sia duro, non sono un risarcimento nei confronti del dolore delle vittime. Anzi io credo che il carcere sia il più grande ostacolo a una qualsiasi risoluzione o cura del dolore delle vittime, perché il carcere per antonomasia è l’emblema della lontananza: io ti isolo, ti allontano da me, e purtroppo invece più tu stai lontano dalle persone che ti hanno fatto del male, meno tu puoi guarire. (…) Non è la lontananza che ti può aiutare, paradossalmente l’unica cosa che ti può aiutare è la vicinanza con ‘l’altro’, con chi ti ha fatto del male. È quella vicinanza che fa tornare i mostri che hai nella testa delle persone reali”. Le carceri devono allora essere vicine alla società, “aperte”, umane. Firmiamo la petizione rivolta al Ministro della Salute. “Covid19: subito il vaccino nelle carceri!” *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Come si vive in carcere in piena emergenza Covid-19 di Maria Laura Iazzetti L’Espresso, 12 gennaio 2021 Mille detenuti e circa settecento agenti sono stati contagiati. E, nonostante la riforma del 2008, mancano medici, infermieri e farmaci negli istituti penitenziari. E il disagio psichico si diffonde in modo devastante. “Lavorare in carcere è come iniziare una partita a Monopoli: ti siedi al tavolo conoscendo le regole (quelle scritte) e impari lentamente anche quelle non scritte. I giocatori sono tanti: alcuni giocano per loro esplicita decisione (gli operatori civili, la polizia) altri vi sono costretti (i detenuti). Ognuno gioca per vincere. Per i detenuti significa paradossalmente uscire dal gioco (leggi: uscire dal carcere; leggi: libertà)”. Era il 2 febbraio del 2007 quando Michelangelo Poccobelli, dirigente sanitario della Casa circondariale di Milano Opera, pubblicava quest’intervento sul sito della Società italiana di medicina penitenziaria. In quegli anni l’organizzazione dell’assistenza sanitaria ai detenuti era affidata all’amministrazione penitenziaria. I controlli erano pochi. L’accesso alle visite e ai farmaci spesso non veniva garantito. Chi era in carcere, fra i detenuti comuni o in alta sicurezza (esclusi quelli al 41bis), viveva in condizioni pietose. I dottori lamentavano un sistema inefficace. Quando nel 2008 è arrivata la riforma della medicina penitenziaria, le regole del gioco sono cambiate: la salute dei detenuti è stata affidata al Servizio sanitario nazionale. In molti parlavano di una rivoluzione. Ma dopo dieci anni le criticità rimangono: i controlli sono pochi, l’accesso alle visite e ai farmaci spesso non viene garantito, chi è in carcere vive in condizioni pietose, i dottori lamentano un sistema inefficace. Elisabetta Dalmonte lavora da cinque anni nel carcere di Forlì. È vicedirigente e medico di guardia. “Mi occupo di organizzare i turni e coordinare le visite”, racconta. Ammette che lavorare in un istituto penitenziario non è facile. Bisogna avere un’attitudine particolare. “Mi sono appassionata per caso a questo lavoro. Mi ero iscritta al concorso mentre seguivo un master in geriatria e, quando sono stata selezionata, ho deciso di accettare”. Non esistono corsi di specializzazione o formazione che preparino i neolaureati a diventare medici penitenziari. Si impara sul campo. Elisabetta ama il suo lavoro, ma sa benissimo che le difficoltà non sono poche. Oggi, con la diffusione del nuovo coronavirus e con delle strutture sempre più fatiscenti, le carceri sono bombe a orologeria. “Quando è stato stilato il disegno di legge nel 2008 ero seduto a quel tavolo. Rivendico il principio che era alla base dell’intervento”, spiega Stefano Anastasia, portavoce dei garanti regionali. L’obiettivo della riforma era garantire il diritto alla salute anche nelle carceri, non luoghi in cui il singolo tende ad annullarsi. Gli istituti penitenziari non dovevano più essere contenitori di sofferenze fisiche e psichiche, “fabbriche di malattia”, come le chiama il sociologo Giuseppe Mosconi. Da quel momento in avanti l’assistenza sanitaria sarebbe stata una prerogativa del Servizio sanitario nazionale e non delle singole amministrazioni penitenziarie. Il percorso, però, è ancora lungo. “La situazione è diversificata da regione a regione e da istituto a istituto. Ognuno è gestito da un’azienda sanitaria locale differente”, precisa Sandro Libianchi, medico a Rebibbia e responsabile dell’associazione “Conosci” (Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri Italiane). I problemi sono di diversa natura. Mancano dottori e infermieri, in primo luogo. Nel 2019 erano 1000 i medici penitenziari presenti in Italia. Troppo pochi per poter garantire un’assistenza sanitaria adeguata tanto agli oltre 65mila detenuti dell’epoca quanto agli attuali 55mila. A Casal del Marmo (Roma) il medico di base è disponibile sei ore al giorno, gli infermieri 12. I detenuti sono 88. “Tutte queste figure dovrebbero essere presenti 24 ore al giorno”, evidenzia Franco Corleone, ex garante toscano. Quando stava per scadere il suo mandato, ha deciso di intraprendere un digiuno dimostrativo per denunciare le promesse non mantenute da parte delle amministrazioni penitenziarie. “Mancano assunzioni, questa è la realtà”, precisa. Non solo. “Molte volte mancano gli strumenti per poter effettuare gli esami”, aggiunge la dottoressa Elisabetta Dalmonte. Da poco nell’istituto di Forlì hanno potuto comprare un ecografo. Prima dovevano arrangiarsi. “Così lavorare non è facile”. Il rischio è quello di dover richiedere spostamenti verso strutture, ospedali o cliniche, dove possono essere garantiti gli esami. I tempi di attesa sono lunghi. Il Nucleo traduzioni, che si occupa del trasferimento dei detenuti, non è sufficientemente attrezzato: anche in questo caso manca personale. Ci sono regioni in cui l’attesa è più breve. Altre in cui i tempi si dilatano. In Campania, nel carcere di Poggioreale prima di effettuare una tac possono trascorrere anche sei mesi. Quattro per una gastroscopia all’istituto di Arienzo. Garantire in tutte le Asl delle vie preferenziali per prenotare gli esami specialistici potrebbe essere una soluzione efficace. “È importante tenere a mente che, a dispetto del tipo di assistenza sanitaria, il pubblico deve garantire le cure basilari. In questi contesti non è possibile accedere al privato. O ci si cura tramite le Asl o non ci si cura”, chiarisce il portavoce dei garanti, Stefano Anastasia. Proprio per questo motivo, oltre che per le condizioni logistiche, il sistema sanitario carcerario continua a essere messo a dura prova dall’epidemia di Covid-19. Secondo gli ultimi dati disponibili, risultano contagiati quasi 1000 detenuti e circa 700 agenti. Dalla seconda metà di dicembre i numeri stanno gradatamente diminuendo. Manca una strategia comune. Isolare i positivi in aree dedicate è stata l’unica soluzione adottata per evitare la diffusione del virus. Ma gli spazi non sono sufficienti; nonostante gli arresti domiciliari concessi a marzo e con il decreto ristori, le strutture sono sovraffollate. Dal primo lockdown i detenuti non hanno mai smesso di avere paura. Si stima che il 70 percento sia affetto da una malattia cronica. La possibilità di accedere facilmente ai medicinali è, quindi, indispensabile. Nel 2015 c’è stato un accordo tra le regioni in cui veniva stabilito che i farmaci di fascia C fossero forniti gratuitamente in tutti gli istituti penitenziari. “L’obiettivo era integrare la legge del 2008 e uniformare il sistema”, ricorda Sandro Libianchi, responsabile dell’associazione “Conosci”. Le disposizioni prese sono state attuate soltanto in parte. Gli esposti sulla mancata fornitura di medicinali arrivano da tutti i territori. “Controllare non è così facile”, evidenzia Libianchi. Sembra che qualsiasi tipo di denuncia rimanga inascoltata. Anche quelle 119 che i detenuti hanno presentato formalmente l’anno scorso. Secondo Stefano Anastasia per poter preservare davvero il diritto alla salute servono risorse “umane e economiche”. Dal 2008 i finanziamenti destinati alla gestione dell’assistenza sanitaria nelle carceri si aggirano intorno ai 160 milioni. Guardando le condizioni in cui versano le strutture, a parte alcuni casi virtuosi, è lecito chiedersi dove finiscano i soldi investiti. Più di 3 istituti su 10 non garantiscono l’accesso all’acqua calda e i riscaldamenti nel 7 per cento dei casi non funzionano. I dati sono forniti dall’ultimo report redatto dall’associazione Antigone, che nel 2018 ha visitato 85 case circondariali e di reclusione (su 189). In 46 strutture l’accesso alle docce è garantito soltanto in spazi esterni alle celle. “I locali - scrivono gli osservatori - sono spesso ammuffiti e insalubri”. Rimane radicata nella cultura dominante, “l’idea che la detenzione debba consistere nell’afflizione di una sofferenza (fisica e psicologica)”. Nell’ultimo anno la situazione non è cambiata, anzi. I volontari dell’associazione Antigone stanno concludendo le visite negli istituti penitenziari prima di redigere il consueto rapporto annuale, che verrà pubblicato nel 2021. “Non c’è stato nessun miglioramento. Il deterioramento è andato avanti”, racconta Hassan Bassi di Antigone. Prima di Natale ha ispezionato il carcere di Frosinone. “Molte docce non funzionano, la struttura sembra abbandonata. Sono rimasto sconvolto”, aggiunge. Una cella era completamente allagata e lì dentro, seduto sul suo materasso, c’era un uomo con i piedi immersi nell’acqua. “Faceva freddo, il riscaldamento non funzionava. Aveva uno sguardo spaventato”, ricorda Hassan. Quell’uomo era lì, in isolamento, ma non sapeva il perché. “Era un ragazzo di colore, penso di origini nordafricane. Non parlava l’italiano e non era riuscito a capire il motivo per cui era stato arrestato”. Capita spesso: negli istituti penitenziari mancano i mediatori culturali. Sono figure considerate accessorie. “Come è possibile tutto questo?”, si chiede Hassan. Nel carcere di Frosinone si sta in cella praticamente tutto il giorno. “Il campo da calcio deve essere ristrutturato da due anni, la serra è inagibile da tempo e, visto che nel 2017 c’è stata un’evasione, sono state sospese tutte le attività esterne. Poi adesso con il Covid, sono stati interrotti anche i corsi professionali e i laboratori”. Sono queste condizioni di vita, oltre alla pena in sé, ad avere un effetto psicologico devastante. “Il disagio psichico è uno dei problemi maggiori”, sottolinea Franco Corleone. I casi di autolesionismo sono molto frequenti. Nel 2016 ne sono stati registrati quasi 9mila. Con il Covid è possibile ipotizzare che siano in aumento. “A Frosinone nel corso dell’ultimo anno ci sono stati otto tentati suicidi e 178 casi di autolesionismo”, specifica Hassan Bassi. In tutta Italia, però, nelle strutture scarseggiano psicologi e psichiatri. Si ricorre spesso alla somministrazione di psicofarmaci, medicalizzando disturbi che potrebbero essere risolti in modo diverso. Secondo la dottoressa Elisabetta Dalmonte i medici nelle carceri devono imparare a essere anche un po’ psicologi. Bisogna fare due, tre, quattro lavori in uno. Lo spiega bene Franco Corleone: “Fare parti uguali tra diseguali non è l’obiettivo. Una persona in carcere deve avere di più, perché non ha la libertà: il suo corpo è nelle mani dello Stato”. O meglio: dovrebbe avere di più. “Niente domiciliari, in cella si è più protetti dal rischio Covid” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 gennaio 2021 Così la corte d’Assise d’Appello di Milano ha motivato il rigetto dell’istanza di domiciliari, presentata dalle avvocate Simona Giannetti e Maria Battaglini. Chi è in carcere è più protetto dal rischio di contagio del Covid-19 e avrebbe immediate cure rispetto a chi vive all’esterno. Questa è in sintesi uno dei punti con cui la corte d’Assise d’Appello di Milano ha motivato il rigetto dell’istanza, presentata da un detenuto in attesa di giudizio definitivo, per i domiciliari con tanto di consenso al braccialetto elettronico. Eppure, fanno sapere i suoi avvocati milanesi, Simona Giannetti e Maria Battaglini, il detenuto si trova nel carcere di Monza dove da qualche giorno ha anche contratto la scabbia e quotidianamente sta usando una pomata al cortisone, non senza conseguenze. Non solo. A causa del sovraffollamento, in cella si è aggiunto un terzo uomo: sono talmente stretti che quest’ultimo dorme su una branda, che estraggono per la notte e che durante il giorno viene riposta chiusa sotto a uno dei due letti. Tutto questo quando c’è una epidemia in corso. Per la corte d’Assise d’Appello di Milano si è più sicuri in carcere - Nonostante i numeri dei contagi siano diminuiti, l’emergenza rimane e i focolai all’interno delle carceri sono sempre in agguato. Ma per la corte d’Assise d’Appello di Milano, in linea con la vulgata popolare, si è più sicuri e protetti in carcere, che fuori. “Spiace dover rilevare che la Corte non sembra aver tenuto in considerazioni le osservazioni della difesa, che ha riferito di un sovraffollamento pari quasi al 200% nel carcere monzese”, osservano le avvocate a Il Dubbio dopo la decisone di respingere l’istanza per i domiciliari. I numeri e le condizioni del sovraffollamento del resto sono stati riportati dalla difesa, come già resi noti dall’avvocata Giannetti, del direttivo di Nessuno tocchi Caino, che nel febbraio 2019 aveva potuto prenderne visione di persona nel corso di una visita, che aveva guidato con la delegazione radicale dell’Osservatorio Carcere Lucio Bertè. “Non possiamo fare a meno di chiederci come si possa pensare che in carcere si stia più protetti che nella società libera, quando al contrario è certamente più difficile realizzare ogni minima cautela proprio per il fatto che il distanziamento in una cella con tre persone estranee e costrette a vivere in promiscuità sia pressoché impossibile”, dichiarano al Dubbio le avvocate, sottolineando che “nessun rilievo in motivazione è stato offerto sul tema del diritto alla Salute, inteso come diritto di non ammalarsi a fronte di una persona che non è nemmeno ancora stata giudicata con sentenza definitiva. Si pensi anche alla difficoltà di avere colloqui difensivi, che fino a pochi giorni fa erano quasi impossibili per il divieto al nostro assistito di uscire dalla sezione cristallizzata e raggiungere l’area colloqui per effettuare la telefonata con l’avvocato di dieci minuti; un altro tema che non possiamo considerare secondario”. Da due anni è detenuto in attesa di giudizio - Il detenuto in attesa di giudizio definitivo si chiama Nello Placido, da due anni in carcere preventivo e con una condanna in primo grado per omicidio. La sua è una vicenda complessa, l’uomo si è professato innocente fin dalle prime battute. L’indagine è durata ben 6 anni, nel corso dei quali è stato sempre libero, oltre ad essere tornato spontaneamente da un impiego all’estero per presenziare alle udienze. All’esito del processo non sono mancati colpi di scena e le avvocate sono giunte perfino a denunciare gli investigatori per depistaggio in relazione alle attività d’indagine svolte nei riguardi di Placido. Ma come detto, oltre ai temi delle esigenze cautelari che saranno impugnati nelle sedi opportune, non si può fare a meno di interrogarsi su come la Corte abbia affrontato il tema dell’emergenza Covid e della concessione dei domiciliari, in un carcere sovraffollato e con contagi che hanno costretto Nello Placido ad essere “cristallizzato” in cella senza poter uscire, se non per pochi minuti di aria al giorno, né lavorare o svolgere alcuna attività. Ma la corte d’Assise d’Appello di Milano, liquida in poche righe la questione: “Il rischio di contagio del virus Covid 19, considerati i numeri diffusi, non appare essere più rilevante in carcere che all’esterno, dove anzi l’attenzione per il rispetto delle cautele e un intervento sanitario immediato risultano per alcuni versi meno garantiti rispetto alla condizione carceraria”. Il diritto di Difesa non può essere ignorato neanche in tempo di Covid - Secondo i legali del detenuto, che si è visto rigettare l’istanza per i domiciliari, anche la compressione del diritto di Difesa del detenuto in custodia cautelare in tempo di Covid non può essere ignorata: a fianco al diritto alla Salute, anche quello di Difesa resta un diritto inderogabile nel suo esercizio, soprattutto se i detenuti sono in corso di processo e non vengono tradotti in udienza, effettuando il collegamento solo in videoconferenza. Nell’istanza si leggono anche le parole del procuratore generale della corte di Cassazione Salvi, che invita ad applicare la carcerazione preventiva solo in caso di extrema ratio proprio per deflazionare le presenze in carcere: “Prendiamo atto che alla nostra citazione non è stata data alcuna attenzione, in mancanza di ogni motivazione che faccia i conti con lo stato di emergenza, che a quanto pare esisterebbe solo nel mondo dei liberi”. Eppure, perfino un magistrato intransigente come Sebastiano Ardita, ha recentemente scritto dell’importanza dei vaccini ai detenuti visto che il carcere è un luogo di pericolo e diffusione. Sos dei Garanti delle persone detenute: “subito vaccini in carcere” di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 12 gennaio 2021 Il perdurare dell’emergenza Covid sta mettendo a dura prova la gestione della quotidianità nelle carceri italiane: la Pandemia si è innestata in una situazione di criticità dei penitenziari della Penisola che soffrono da decenni di carenze strutturali, mancanza di personale e sovraffollamento che rendono complicata - in alcuni casi al limite dell’accettabile - la gestione delle norme anticontagio. Non si stanca di denunciarlo fin dal primo lockdown Bruno Mellano, garante dei detenuti della Regione Piemonte, che a metà dicembre aveva inviato un appello al presidente della Giunta regionale Alberto Cirio, all’assessore alla Sanità Luigi Icardi e al commissario generale dell’Unità di crisi Vincenzo Coccolo perché, accanto agli operatori sanitari e ai degenti delle Rsa, venissero inseriti nelle priorità della campagna vaccinale agenti, personale e detenuti per evitare che i penitenziari diventino focolai di contagio. “Come tutti i luoghi chiusi, a cominciare dalle Rsa” sottolineava Mellano “anche il carcere è un ambiente particolarmente a rischio per il diffondersi del Covid-19. Si tratterebbe di tutelare i circa 4300 detenuti e i circa 3500 operatori penitenziari tra agenti e collaboratori amministrativi delle carceri piemontesi: un’azione per prevenire l’esplosione di focolai di contagio assai difficili da gestire per la mancanza di spazi d’isolamento e di distanziamento sociale e per disinnescare possibili tensioni e timori che facilmente possono innescarsi nell’ambiente penitenziario”. Un appello condiviso anche da alcuni politici, tra cui la senatrice Liliana Segre, che sembra essere stato accolto stando alle ultime direttive per cui anche al personale carcerario e ai ristretti verrà data priorità nella somministrazione del vaccino anti Covid. I reclusi positivi nelle carceri piemontesi, alla vigilia della chiusura del 2020, erano 37: 13 a Cuneo, 12 a Saluzzo, 11 a Torino e uno ad Alessandria; gli operatori penitenziari contagiati 22: 9 a Torino, 7 ad Alessandria, 3 a Cuneo e uno rispettivamente a Fossano, Biella e Verbania. Numeri che potrebbero lievitare se non si interviene urgentemente cercando di prevenire i contagi nelle sezioni sovraffollate. E al termine del 2020, come di consueto anche se on line per via delle norme anticovid, il garante Mellano ha presentato in videoconferenza stampa il “Quinto dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi”. Mellano pone due interrogativi al Governo - il documento, elaborato dal garante regionale in collaborazione con il Coordinamento piemontese dei garanti, è stato inviato al capodipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia, al provveditore dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte Pierpaolo D’Andria, al ministro di Giustizia Alfonso Bonafede e ai sottosegretari di Stato Vittorio Ferraresi e Andrea Giorgis. “Se non ora quando? Come non pensare di utilizzare parte dei fondi Ue destinati all’Italia per far compiere un salto di qualità alla sanità e all’edilizia penitenziaria?”. “La raccomandazione, raramente rispettata, di non giungere mai al 100% di posti occupati per far fronte a necessità di spostamenti o di emergenze” ha evidenziato Bruno Mellano “è diventata particolarmente drammatica nel corso della pandemia. Occorre operare (anche con i fondi Ue, ndr) affinché l’affollamento, che in alcuni Istituti piemontesi raggiunge anche il 130%, non superi il 98% della disponibilità. Ed è necessario operare in fretta per adeguare gli ambienti affinché il carcere possa sempre più essere vissuto come un’occasione di recupero, di formazione, di reinserimento nella società per trasformare il tempo della detenzione in un’occasione di riscatto personale e sociale”. Covid: dimezzati i contagi tra i detenuti di Sandra Fischetti ansa.it, 12 gennaio 2021 Meno detenuti positivi al Covid 19, con il numero dei casi finalmente dimezzato rispetto al picco di un mese fa. Dal mondo delle carceri arriva una notizia positiva sul fronte della diffusione del Coronavirus. Ma a controbilanciarla ce n’è un’altra di segno opposto. Per la prima volta si arresta la discesa del contagio tra i poliziotti penitenziari e la curva riprende a salire. Il quadro di luci e ombre emerge dalle ultime rilevazioni del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Secondo i dati aggiornati alle 20 dell’8 gennaio scorso i detenuti positivi sono 537. Erano invece 1.088 il 13 dicembre dell’anno scorso, giorno in cui si è raggiunto il massimo contagio nei penitenziari. La stragrande maggioranza degli attualmente positivi è costituita da asintomatici: sono 499, a fronte di 12 sintomatici curati nelle carceri. Altri 26 detenuti sono ricoverati in ospedale. A questi numeri sulla popolazione carceraria fanno da contraltare le cifre sul contagio tra la polizia penitenziaria. I positivi tra gli agenti sono 635 a fronte dei 609 del 4 gennaio. Oltre a loro, ci sono altri 60 casi tra il personale amministrativo e dirigenziale dell’amministrazione penitenziaria. In tutto i dipendenti ricoverati sono 13. Tornando alla diffusione del Covid tra i detenuti, la situazione non è uniforme sul territorio nazionale, con vecchi focolai in alcuni istituti che continuano a preoccupare e altri nuovi che si accendono. Così se il carcere di Sulmona resta in testa per numero di casi (52, ma il mese scorso avevano sfiorato il centinaio) ora allarma anche il carcere di Venezia con 46 positivi, tutti asintomatici. Altri focolai sono nel carcere di Lanciano con 29 contagiati e nel penitenziario romano di Regina Coeli con 35. Sempre nella capitale sono 28 i positivi nelle varie strutture di Rebibbia. In Lombardia invece il maggior numero di contagi è concentrato nel carcere di Opera (29, di cui 26 asintomatici, e altri 5 ricoverati in ospedale) e in quello di Bergamo (25 asintomatici, mentre uno dei reclusi è in ospedale). Seguono Bollate (15 gli asintomatici, 2 con sintomi e un detenuto ricoverato in ospedale) e San Vittore con 16 positivi. Il carcere quale extrema ratio e sue valide alternative di Carla Ciavarella* dimensioneinformazione.com, 12 gennaio 2021 La nostra Costituzione all’art. 27 stabilisce che “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il Legislatore costituente, scrivendo al plurale la parola pena, immediatamente consente di affermare che nel nostro ordinamento è possibile disciplinare diverse forme di condanna per il fatto reato, non necessariamente quella della pena detentiva in carcere. Il nostro ordinamento, nell’ambito del sistema dell’esecuzione penale, vanta una produzione normativa di tutto rispetto e soprattutto negli ultimi decenni si è particolarmente orientato verso la declinazione di norme che potessero agevolare la scelta da parte del magistrato di comminare sanzioni alternative in luogo della detenzione. La pena alternativa al carcere deve prevedere la possibilità di trascorrere il periodo di detenzione nel proprio domicilio (se l’autore del reato ne abbia uno), ovvero in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza (ove disponibile); il soggetto dovrebbe per esempio avere una occupazione da poter svolgere in costanza di espiazione della pena, ovvero svolgere un lavoro a compensazione del danno prodotto con l’azione criminosa commessa, privilegiando condotte riparative ed ove possibile l’attività di mediazione con la vittima del reato. Le condizioni sopra genericamente descritte sono declinate in dettaglio da norme specifiche che descrivono le pre-condizioni per potere accedere alle diverse misure alternative alla pena detentiva: dall’affidamento in prova al servizio sociale, alla detenzione domiciliare ed alla messa alla prova con la sospensione del procedimento penale di più recente introduzione (2014). Parrebbe, pertanto, davvero possibile pensare che tale ventaglio di offerte abbia consentito negli anni una concreta contrazione del numero di presenze all’interno dei nostri istituti penitenziari. Sappiamo tutti che non è così. I dati di fine 2020 ci dicono che le presenze in carcere in vigenza dell’emergenza sanitaria è di circa 54mila unità. Ad inizio del 2020 il numero delle presenze era di circa 62 mila detenuti. Nell’anno appena concluso le misure alternative in esecuzione risultano essere meno di 60mila (nel totale si calcolano anche le 18.000 concesse direttamente in udienza-messa alla prova). Nel 2020 i provvedimenti emanati dal Governo finalizzati alla riduzione del sovraffollamento hanno agevolato la riduzione del numero di presenze che tuttavia resta elevato a fronte di una disponibilità di spazi detentivi che è di 45mila posti. Resta attuale in molti ambienti politici e culturali lo slogan “liberarsi dalla necessità del carcere”, al quale fanno eco altri commenti analoghi, l’ultimo dei quali in ordine di tempo è quello di affermare l’inutilità del carcere stesso dichiarandone di fatto il suo fallimento. Le Convenzioni internazionali e le Raccomandazioni europee invitano gli Stati Membri a considerare il carcere come soluzione estrema (last resort) e, quindi, ad orientare la scelta della pena da comminare verso altri istituti giuridici piuttosto che privilegiare quello della carcerazione. In ripetute occasioni il nostro Capo dello Stato ha richiamato il Governo e le forze politiche a riflettere sulle condizioni detentive e sul sovraffollamento in cui versano i nostri istituti penitenziari (in Italia sono 189 gli istituti penitenziari attivi). Lo scorso 12 aprile, Papa Francesco ha dedicato le quattordici meditazioni della Via Crucis della Pasqua 2020 al mondo penitenziario in una Piazza San Pietro deserta e quindi ancora più imponente nella sua perfezione architettonica. “…Penso ad un problema grave che c’è in parecchie parti del mondo. Io vorrei che oggi pregassimo per il problema del sovraffollamento nelle carceri. Dove c’è un sovraffollamento - tanta gente lì - c’è il pericolo, in questa pandemia, che finisca in una calamità grave. Preghiamo per i responsabili, per coloro che devono prendere le decisioni in questo, perché trovino una strada giusta e creativa per risolvere il problema”. Papa Francesco non si accontenta di offrire una prospettiva di salvezza, come spesso la Chiesa si è limitata a fare. Non si affida alla retorica della rieducazione del reo. Il suo è un manifesto contro le derive securitarie degli ultimi decenni e contro un diritto penale che tratta le persone come nemici. La giustizia per papa Francesco deve essere sempre una giustizia “pro homine”. L’associazione Antigone, nel rapporto annuale “Carcere in Italia” afferma che il costo medio di un detenuto è di 150 euro al giorno (calcolo che comprende anche il costo della retribuzione del personale preposto ai servizi penitenziari). Assicurare l’esecuzione della pena in misura alternativa è invece dieci volte inferiore. Per tale motivo si potrebbero risparmiare almeno 500 milioni di euro all’anno se la metà di queste persone potesse scontare all’esterno la sua pena. Il vantaggio economico appare evidente. Tuttavia resta nella mente, ma soprattutto nella dimensione emotiva di molti, l’invocazione di condanne esemplari, di aumento della previsione di pene edittali e della introduzione di sempre più specifiche fattispecie di reato che possano sempre più in dettaglio definire i perimetri della colpevolezza. Sempre leggendo i numeri, scopriamo che il 70% dei detenuti è in carcere per reati contro il patrimonio o per violazione della legge stupefacenti. La percentuale restante è invece in carcere per scontare pene per reati contro la persona. Sono circa 18mila i detenuti stranieri ristretti in carcere e 17.500 circa i detenuti in attesa di una sentenza definitiva (sempre l’art. 27 della nostra Costituzione afferma al comma 2 che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”). Il numero dei condannati definitivi è di circa 37mila unità, di questi solo il 30% deve scontare una condanna superiore ai 10 anni (dato che comprende i condannati alla pena dell’ergastolo e coloro i quali sono stati condannati per reati associativi ex art. 416 bis). Dalla lettura dei numeri è possibile rilevare che la metà dei detenuti deve scontare una pena detentiva inferiore ai tre anni, condizione questa che prevede per legge la possibilità di fruire di misura alternativa. Studi di settore sostengono che l’esecuzione della pena in misura alternativa è più efficace della pena scontata in carcere, perché pare soddisfare meglio l’istanza rieducativa in quanto riduce fortemente il rischio di reiterazione di condotte illecite. Tuttavia, le misure alternative nel nostro sistema vengono percepite da sempre (sin dalla loro introduzione nel 1975 e successive modifiche ed ampliamento) come “non pene”. Misure per evitare la galera, per “farla franca”. In realtà, in molti casi l’esecuzione della pena in misura alternativa può essere molto più faticosa ed impegnativa rispetto a quella trascorsa in carcere. In misura alternativa è necessario mostrare ogni giorno responsabilità ed adesione alle prescrizioni che ovviamente sono stringenti e prevedono comunque limitazioni di orari, di frequentazioni di luoghi, di rendimento lavorativo. La violazione delle prescrizioni comporta la revoca della misura e quindi il rientro della persona in carcere. Per contro, la pena detentiva per sé consente alla persona di potersi sottrarre a qualunque stimolo ed opportunità trattamentale e di mostrarsi non disponibile a partecipare al programma rieducativo, attendendo inerme che il tempo della pena trascorra e giunga il giorno della scarcerazione. Ragionare di efficacia delle modalità di esecuzione della pena significa parlare di individualizzazione dei percorsi di recupero sociale, senza facili generalizzazioni ed avendo consapevolezza della complessità del tema. Intanto la rieducazione del condannato non può essere considerata un mandato esclusivo dell’amministrazione penitenziaria, che ha il compito di assicurare condizioni dignitose per tutte le persone ristrette e facilitare i percorsi di riabilitazione. Il compito di rieducare e di assicurare il reinserimento della persona che ha commesso reato è un compito che riguarda l’intero contesto sociale e le politiche di prevenzione che lo Stato intende attuare. Questi percorsi hanno possibilità di compiersi ove esistano spazi idonei in grado di assicurare la presenza di aule scolastiche, sale di lettura e biblioteche, locali per la realizzazione di lavorazioni artigianali e di piccola industria, palestre e spazi aperti per l’attività fisica. Il sovraffollamento riduce e limita queste possibilità e, quindi, è causa di inefficacia dell’azione trattamentale riabilitativa. La legge penitenziaria Italiana è del 1975 e per molto tempo è stata ritenuta una delle più avanzate nel sistema dell’esecuzione penale in Europa e nel mondo. Già in quegli anni la nostra legge prevedeva la istituzione di equipe multidisciplinari per l’osservazione dei comportamenti dei detenuti, al fine di poter costruire dei programmi trattamentali individuali rispondenti alle caratteristiche, esigenze, aspettative personali dei singoli. Una legge che stabiliva i diritti delle persone detenute sottolineando il principio della umanizzazione della pena, della dignità delle persone, che deve essere rispettata e mantenuta anche se in regime di privazione della libertà. Una legge che stabiliva il diritto di tutti ad avere una possibilità di recupero e di reinserimento. Questa bella costruzione di principi valoriali e di diritti ha trovato l’adesione convinta degli operatori penitenziari. Di quelle persone che hanno deciso di lavorare in carcere e di occuparsi delle persone detenute. I dirigenti penitenziari a capo degli istituti, il Corpo degli Agenti di custodia (oggi Polizia penitenziaria), gli educatori, il personale amministrativo. Ed insieme a loro i cappellani, gli insegnanti che, dipendenti del Miur, accettano l’incarico di fare lezione in carcere, i volontari delle organizzazioni non governative che promuovono attività trattamentali e di sostegno. Ci sono anche imprese che hanno avviato con successo produzioni industriali all’interno degli istituti penitenziari assumendo detenuti e che vendono i prodotti all’esterno. Accanto a loro i magistrati di sorveglianza (che nel nostro ordinamento hanno il compito di esaminare e concedere ovvero respingere le richieste di misure alternative avanzate dai detenuti e di vigilare sulle condizioni detentive e sul rispetto dei diritti dei detenuti), l’ Ufficio del garante dei diritti delle persone private della libertà, i garanti regionali, provinciali e locali che sono nominati dalle rispettive istituzioni in rappresentanza delle relative comunità territoriali di riferimento per vigilare sulle condizioni di detenzione dei ristretti e creare anche il necessario collegamento tra il carcere ed il territorio, alcune Università e centri di ricerca, che si accostano a questo mondo per comprenderlo e per contribuire a fare crescere la conoscenza del sistema dell’esecuzione della pena oltre il muro. Tuttavia non basta. Il mondo del carcere non sale all’onore delle cronache se non in occasione di fatti eclatanti, per lo più negativi, con lo scopo di continuare a fornire del carcere una sola versione: quella del luogo brutto, sporco e cattivo. Altre volte invece viene raccontato come luogo eccessivamente confortevole dove i cattivi vengono trattati con eccessiva indulgenza e buonismo. Anche il cinema ha dato e continua a dare il proprio contributo alla conoscenza del sistema di esecuzione della pena. Tuttavia solo i fratelli Taviani sono riusciti ad andare oltre l’interesse dei “soliti noti addetti ai lavori” quando hanno realizzato all’interno del carcere di Rebibbia la versione cinematografica di un testo teatrale scritto per gli attori della compagnia teatrale di Rebibbia da Fabio Cavalli. Mi riferisco a “Cesare deve morire”, che nel 2012 ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino. Mi occupo di carcere da più di 30 anni e ho avuto la possibilità di svolgere esperienze all’esterno e di confrontarmi con colleghi di altre amministrazioni europee e non solo. Con poche e rare eccezioni (mi riferisco ai paesi scandinavi e al Canada), il prevalente sentimento comune delle società civili resta quello di rifiuto, distanza, disinteresse per le politiche penitenziarie. Nel maggio 2015 il Ministro della Giustizia dell’epoca, Andrea Orlando, promosse gli “Stati Generali dell’esecuzione penale”, un inclusivo esercizio di approfondimento dei temi dell’esecuzione penale, al quale parteciparono rappresentanti delle istituzioni regionali e locali, del volontariato, della comunità scientifica e degli operatori penitenziari. La consultazione articolata per tavoli tematici durò poco meno di un anno e produsse utili documenti e raccomandazioni che il Ministero raccolse in un documento programmatico con allegato anche un testo normativo che prevedeva anche modifiche all’Ordinamento penitenziario. Nel documento conclusivo e di presentazione del lavoro dei tavoli si legge, tra le altre cose “se non cambia la cultura sociale della pena e se non si debella il pregiudizio in forza del quale, limitando i diritti dei condannati, si ottiene maggiore sicurezza, qualsiasi progresso rimarrà precariamente esposto alla prima “risacca legislativa” giustificata con indifferibili esigenze di tutela della collettività”. … “Se non si riesce a contrastare la diffusa convinzione che il carcere sia l’unica risposta alle paure del nostro tempo e la corrispondente tendenza politica - elettoralmente molto redditizia - ad affrontare ogni reale o supposto motivo di insicurezza sociale ricorrendo allo strumento, meno impegnativo e più inefficace, dell’inasprimento della repressione penale e della restrizione delle possibilità di graduale reintegrazione del condannato nel consorzio civile, ogni riforma normativa sarà fatalmente esposta a “scorrerie legislative” di segno involutivo e “carcerocentrico”, che torneranno a determinare sovraffollamento penitenziario e a minare la credibilità stessa della funzione risocializzativa della pena. Il problema è culturale, prima ancora che normativo.” La presentazione del lavoro svolto degli Stati generali ebbe luogo nell’aprile 2016 presso la sala teatro della Casa Circondariale di Rebibbia alla presenza del Capo dello Stato e del presidente della RAI dell’epoca (Monica Maggioni), al quale fu dato incarico di moderare una sessione dei lavori. Nonostante l’alto profilo istituzionale dato all’evento e la partecipazione dell’azienda di Stato per le telecomunicazioni, l’evento non riuscì ad ottenere la copertura mediatica nazionale che invece era lecito aspettarsi. Tutto questo per sottolineare quanto su questo tema non si sia riusciti fino ad oggi a fare crescere cultura ed informazione adeguati. Chi scrive partecipò al lavoro degli Stati generali, precisamente al tavolo incaricato di occuparsi di analizzare comparativamente i sistemi dell’esecuzione penale degli altri paesi europei. In quell’ambito nel corso della ricerca mi colpì in particolare l’esperienza della Finlandia. Certo si tratta di un paese molto distante da noi con il quale non abbiamo grandi affinità, tuttavia la lettura di un articolo pubblicato da una rivista scientifica di settore resta un chiaro ricordo. L’amministrazione penitenziaria finlandese sin dagli anni ‘60 aveva avviato una progressiva e stringente strategia per ridurre il numero dei detenuti in carcere. In quegli anni il governo finlandese constatava che la presenza di detenuti in carcere superava le 150 unità per 100.000 abitanti. Dato questo all’epoca registrato come il più alto tra i paesi scandinavi. Il governo finlandese comprese la necessità di avviare una riforma del sistema penale attraverso un sistematico progressivo rimodellamento della politica detentiva. Tra gli anni ‘60 e gli anni ‘90 il percorso prescelto fu quello di depenalizzare alcuni reati (es: ubriachezza) e di annullare la norma che prevedeva automaticamente la prigione per coloro che non pagavano le multe. In seguito il processo di riforma ha riguardato la diminuzione delle pene per i reati contro la proprietà e quelli di guida in stato di ebbrezza, prevedendo l’applicazione di misure alternative e della liberazione anticipata. Quindi, è stato aumentato l’importo delle pene pecuniarie al fine di dare credibilità alla sanzione sostitutiva della pena detentiva breve (per i reati per i quali era prevista). Il sistema penale finlandese annullò la norma che prevedeva l’applicazione automatica di aumento di pena per i condannati con precedenti penali. Furono anche annullate le norme che prevedevano i casi di condanna a pena detentiva per i minori. Negli anni ‘90 sono state introdotte le misure alternative di comunità. Il numero delle presenze in carcere oggi risulta tra i più bassi dei paesi europei (57 per 100.000 abitanti). L’esperienza finlandese dimostra che è possibile ridurre concretamente il numero della popolazione ristretta in carcere. Ma cosa ha caratterizzato il successo di quella esperienza? In primo luogo una forte volontà politica che nel corso di quarant’anni è stata in grado di realizzare con coerenza ed in continuità una riforma sistematica della giustizia penale attraverso l’utilizzo graduale dello strumento legislativo. I testimoni di quel percorso affermano che è stato molto importante il consenso raggiunto con tutti gli attori coinvolti: da coloro che hanno scritto le riforme a coloro i quali le hanno approvate. Consenso e condivisione che hanno consentito di non arrestare il percorso riformatore di fronte ad episodi di cronaca che parevano mettere a rischio la prospettata efficacia della riforma. Su questo punto anche il qualificato supporto della stampa e delle televisioni è servito a rassicurare l’opinione pubblica e a fornire corrette e complete informazioni. Le ragioni del successo sono, quindi, da ricercare nella collaborazione e cooperazione di differenti attori: la magistratura, gli avvocati, i dirigenti ed i funzionari dell’amministrazione penitenziaria, la polizia, l’università. Questa collaborazione è stata resa possibile attraverso l’organizzazione di corsi di formazione e seminari realizzati nel corso degli anni per promuovere ed informare sui contenuti della riforma penale che si stava realizzando tutte le istituzioni coinvolte. L’esperienza finlandese testimonia che una umana e razionale riforma delle politiche criminali si promuove attraverso un approfondito processo di conoscenza dei problemi che danno origine alla commissione dei reati, alla conoscenza del funzionamento del sistema di amministrazione della giustizia penale e delle strategie di prevenzione del crimine. Non esiste una formula che possa essere applicata e considerata valida per tutte le giurisdizioni del mondo! Tuttavia l’esperienza della Finlandia con i necessari distinguo di contesto normativo e sociale potrebbe essere presa a riferimento per elaborare alcune linee guida atte a fornire il sentiero metodologico da percorrere nel corso dei prossimi 10 anni con coerenza e costanza. Per esempio: - è necessario avere cognizione del lavoro che si svolge nelle aule di giustizia e che riguarda i provvedimenti di carcerazione preventiva, delle sentenze di condanna e dell’applicazione delle misure alternative. Pertanto, è utile disporre di una banca dati in grado di fornire informazioni relative anche alle caratteristiche ed al profilo sociale delle persone ristrette, sul tipo di reato commesso, sul tempo trascorso in carcerazione preventiva, sulla durata delle sentenze, sui costi della detenzione. Le banche dati devono essere in grado di dialogare tra di loro. Ad oggi ne abbiamo diverse, ciascuna a suo modo efficace, ma non ancora idonea ad integrarsi con quelle di altre analoghe istituzioni per lo scambio dei dati e per fornire un quadro unitario e non frammentato del fenomeno della devianza; - la revisione delle norme è necessaria al fine anche di decriminalizzare quelle condotte che inutilmente contribuiscono ad aumentare la popolazione ristretta in carcere. La legge dovrebbe prevedere un chiaro mandato diretto ai giudici, affinché prediligano l’applicazione di misure alternative in luogo della detenzione. La legge stessa dovrebbe stabilire il principio dell’uso della carcerazione solo come opzione residua (estrema ratio). Ogni riforma legislativa, non potendo auto implementarsi, dovrebbe essere accompagnata da un programma articolato di seminari e corsi di formazione da rivolgere a tutti i soggetti coinvolti nella sua attuazione: dai giudici a tutti coloro che, se pur con diversi livelli di responsabilità, sono coinvolti nell’attuazione delle norme per assicurarne l’esecutività; - il percorso di riforma dovrebbe anche prevedere piani d’intervento fuori dal sistema della giustizia penale, in materia di welfare e di servizio sanitario, assegnando alle Regioni competenti un mandato non generico ma di dettaglio rispetto alla realizzazione di progetti di inclusione e di partecipazione attiva ai percorsi trattamentali alternativi inclusi quelli di giustizia riparativa. Tra gli addetti ai lavori qualcuno, leggendo queste mie brevi considerazioni di inizio d’anno, potrebbe dire che tali programmi sono già esistenti. Certo la programmazione finanziaria dei budget regionali prevede i programmi di sostegno a gruppi svantaggiati compresi i detenuti, gli ex detenuti e loro famiglie. Alcune esperienze possono definirsi buone prassi, altre sono assolutamente insoddisfacenti perché non sono in grado di garantire la sostenibilità nel lungo periodo. Anche in questo caso, come abbiamo scoperto essere per il sistema sanitario, non siamo in grado di vedere assicurati interventi uniformi ed efficaci a parità di condizioni; - le riforme ed i programmi attuati per l’implementazione di misure alternative al carcere, dovrebbero essere costantemente monitorati, prevedendo anche la possibilità di rivedere, modificare, adattare la loro concreta attuazione, secondo le esigenze che via via emergono; - le istituzioni, coinvolte nei progetti di attuazione dei programmi alternativi alla carcerazione, dovrebbero curare anche la costruzione di una strategia capace di raggiungere la condivisione dell’opinione pubblica. Una strategia così concepita potrebbe essere realizzata attraverso il coinvolgimento delle associazioni professionali e di organizzazioni non governative operanti nel settore della giustizia e dell’esecuzione penale con le quali siglare protocolli d’intesa per collaborare allo sviluppo di una rete operativa in grado di divulgare obiettivi, modalità ed ambiti di applicazione delle misure alternative. Tale percorso dovrebbe anche coinvolgere le associazioni delle vittime, al fine di dimostrare che i vantaggi connessi all’applicazione delle misure alternative al carcere producono effetti positivi anche sulle persone che hanno subito reati; - le ricerche di settore rilevano come l’opinione pubblica generalmente sostiene di preferire l’imposizione di sentenze sempre più punitive, prestando più attenzione alla punizione da scontare in carcere. Le ricerche fanno anche emergere che tali opinioni sono basate su una inaccurata conoscenza del sistema penale e le opinioni mutano quando vengono invece fornite maggiori informazioni. Maggiore impegno, quindi, dovrebbe essere assicurato dai rappresentanti delle istituzioni attraverso la realizzazione di campagne d’informazione al fine di contrastare quell’opinione pubblica che incoerentemente, molto spesso perché poco informata, invoca l’utilizzo della carcerazione quale esclusiva forma possibile di punizione. Le autorità dovrebbero mettere a disposizione le loro competenze per fornire agli organi d’informazione chiari riferimenti alle regole dell’esecuzione penale, ai suoi costi, alle esperienze positive in termini di riduzione di recidiva e quindi crescita di sicurezza sociale e, quindi, di vantaggio anche economico per tutta la collettività. *Direttore Ufficio di coordinamento dei rapporti di cooperazione istituzionale - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Vaccini, Anm pronta a chiedere la priorità per giudici e avvocati di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 12 gennaio 2021 I magistrati: tutela imposta dalla legge per chi lavora nei tribunali, ma è necessaria anche per i difensori. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede riceverà domani mattina a via Arenula una delegazione dell’Associazione nazionale magistrati. Fra gli argomenti oggetto dell’incontro, la proroga della normativa emergenziale per i processi, termine ultimo il prossimo 31 gennaio, e la questione scottante delle vaccinazioni anti covid per gli operatori della giustizia. Dunque certamente per i magistrati e i cancellieri, che sono dipendenti pubblici. Ma è altrettanto evidente come un’iniziativa dell’Anm sulla questione porrà di fatto anche quella degli avvocati. Cioè: qualora il guardasigilli condividesse l’idea, sostenuta dai magistrati, di poter includere giudici e pm fra quelle categorie a rischio per le quali è giusto prevedere una priorità nelle vaccinazioni, sarà impensabile non discutere di una tutela altrettanto immediata e rigorosa anche per chi frequenta i Tribunali in condizioni spesso assai meno garantite dei giudici: vale a dire gli avvocati. Idea sulla quale, a quanto risulta, all’interno della stessa Anm tutte le componenti sarebbero d’accordo. L’aspetto delle misure sanitarie e organizzative era stato affrontato già nello scorso fine settimana all’ultima riunione del comitato direttivo centrale del “sindacato” delle toghe. “Abbiamo richiesto misure a tutela della salute del personale della giustizia”, aveva affermato il giudice della Corte d’appello di Roma Salvatore Casciaro, segretario generale dell’Anm, segnalando “l’estrema difficoltà negli uffici giudiziari, che si è acuita per via dell’emergenza covid”. I Palazzi di giustizia, frequentati ogni giorno da diverse migliaia di utenti, fra magistrati, avvocati, personale amministrativo, forze di polizia, testimoni, sono stati in questi undici mesi tra i luoghi di diffusione per eccellenza del virus. Il Tribunale di Milano, ad esempio, è stato uno dei primi focolai del covid in Italia. Le prime avvisaglie si erano avute a metà dello scorso febbraio, un mese prima del lockdown, allorquando quattro avvocati di uno studio di Napoli e due segretarie, al ritorno da una trasferta di lavoro a Milano, erano risultati positivi al virus. Il 22 febbraio, il giorno dopo l’estensione della zona rossa in diversi comuni della provincia di Lodi, i presidenti della Corte d’appello e del Tribunale del capoluogo lombardo emanarono le prime di una lunga serie di disposizioni interne per tentare di contenere la diffusione del covid. Inizialmente, infatti, venne decisa la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, dei cinema, dei teatri, delle chiese, delle palestre e di qualsiasi luogo dove ci possano essere assembramenti di persone. Nessuna chiusura, invece, venne disposta per i Tribunali. In assenza di un provvedimento governativo, nei primi giorni fu delegata ai singoli giudici la gestione dell’emergenza. Con il virus che già dilagava, le indicazioni date invitano a non fare udienza se l’aula fosse stata troppo affollata, raccomandando di tenersi almeno a due metri di distanza dalle parti. L’applicazione di queste linee guida determinò da un lato lo “svuotamento” delle aule, dall’altro l’affollamento dei corridoi dei Tribunali, soprattutto nel settore civile, con centinaia di persone che davano vita ai pericolosi assembramenti che si volevano evitare assolutamente. Con una drammatica esposizione, appunto, soprattutto per gli avvocati. Da qui, dunque, la diffusione del virus, con centinaia di magistrati, avvocati e amministrativi contagiati, anche in maniera molto grave nella fase iniziale della pandemia. “Numerosissimi sono stati i focolai di contagio che impattano in termini negativi sulla funzionalità degli uffici e del servizio giustizia, un servizio essenziale reso nell’interesse dei cittadini”, ha aggiunto Casciaro, introducendo così il tema delle vaccinazioni. “Serve un piano strategico - ha precisato - legato alle vaccinazioni che preveda come, sia pure in tempi diversi, ci siano altre categorie di lavoratori addetti a servizi essenziali nel novero dei quali riteniamo che il personale giustizia debba potere auspicabilmente essere incluso”. I magistrati rientrerebbero nella categoria degli “esercenti di un servizio di pubblica utilità”, quindi si troverebbero, secondo l’Anm, de facto su una corsia preferenziale per i tempi di vaccinazione. Non si può, però, non estendere fin da subito tale piano vaccinale anche agli avvocati che quotidianamente frequentano i Tribunali. Su questo aspetto c’è la condivisione da parte dell’Anm. Il motivo è infondo anche banale: ad ogni positività riscontrata in Tribunale, avvocato o magistrato che sia, scatta il blocco delle attività giudiziarie, la necessità di procedere alla sanificazione dei luoghi, e la quarantena fiduciaria per chi è venuto in contatto con il soggetto positivo al virus. Con la conseguenza immediata che i tempi dei processi, già dilatati, continuano a dilatarsi ancora di più. E questo a prescindere dallo status giuridico rivestito: esercenti servizio di pubblica utilità o meno. Adesso resta solo da comprendere quanti saranno i vaccini per il comparto giustizia e quali i tempi della loro somministrazione. Risposta che non sarà facile da fornire per Bonafede vista l’incertezza che regna in questa prima fase delle vaccinazioni. “Quell’inchiesta di Report su Stato-mafia ha troppe lacune” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 gennaio 2021 Esposto a Csm, Antimafia e Vigilanza Rai. Gli avvocati degli ex ufficiali dei Ros hanno presentato un esposto a Csm, Antimafia e Vigilanza Rai per la trasmissione Report. La puntata di Report del 4 gennaio scorso ha dato per certo l’avvenuta trattativa Stato-mafia, basandosi solo sull’esito del processo di primo grado. Nessun condizionale, nonostante l’esistenza di ben sei sentenze di tribunale che hanno anche decostruito la tesi sulla presunta trattativa Stato-mafia, condotta dagli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno tramite l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Non solo. Nella medesima trasmissione, servizio pubblico della Rai, sono intervenuti i magistrati inquirenti rappresentanti l’accusa nel processo del quale si sta svolgendo il II° grado. Sono i punti principali che gli avvocati Basilio Milio e Francesco Romito, legali degli ex ufficiali dei Ros, hanno segnalato con un esposto inviato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini. al presidente della commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, al presidente della commissione parlamentare per la Vigilanza dei servizi radiotelevisivi, Alberto Barachini, e al presidente della Rai Marcello Foa. Gli avvocati, nella segnalazione rivolta all’autorità, denunciano che il servizio è andato in onda infondendo certezze ai telespettatori, senza però mostrare i documenti che smentiscono alcune ricostruzioni date anche dai magistrati intervistati. Tutto ciò è avvenuto - si legge nell’esposto - “nonostante la Rai sia un ente assimilabile ad un’amministrazione pubblica in quanto - oltre a beneficiare della riscossione di un canone di abbonamento per la copertura dei costi del servizio pubblico, avente natura di imposta gravante su chi possiede apparecchi radiotelevisivi - è concessionaria ex lege dell’essenziale servizio pubblico radiotelevisivo, che è previsto debba esser svolto nell’interesse generale della collettività nazionale per assicurare il pluralismo, la democraticità, l’ imparzialità e la completezza dell’informazione”. L’intervista a Claudio Martelli e ciò che, però, disse altrove - Durante il servizio, il giornalista di Report chiede all’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli: “Quella trattativa fu un’iniziativa di polizia o un’iniziativa anche politica, con un mandante politico, mi faccia l’identikit?”. Martelli risponde: “Io penso di sì. Il Presidente della Repubblica dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro”. Gli avvocati Milio e Romito, fanno però presente che Report avrebbe dovuto mettere a conoscenza dei telespettatori i fatti cristallizzati nei processi. Ci sono le motivazioni della sentenza di assoluzione di Calogero Mannino, dove i giudici hanno ritenuto “probabile che gli ufficiali del Ros avessero informato di tale iniziativa anche Borsellino - che con Mori e De Donno aveva all’epoca un rapporto di assoluta ed esclusiva fiducia, tanto da chiedere di vederli, riservatamente, nei locali della Caserma dei Carabinieri e non in quelli della Procura, per parlare del rapporto “mafia-appalti” poco prima della sua uccisione - giacché quando il giudice ne era stato informato dalla Ferraro, non ne era rimasto affatto stupito, né contrariato, rispondendo alla dirigente degli Affari Penali del Ministero che andava bene e che se ne sarebbe occupato lui”. I legali segnalano anche una intervista che lo stesso Martelli rilasciò a Il Tempo nel 2009. A domanda se “c’è stata questa trattativa tra lo Stato e la mafia?” ha affermato: “c’è stata nei termini, se mi aiuti a prendere Riina io ti do qualcosa in cambio, come avviene con i pentiti. Probabilmente i Ros offrirono qualcosa in cambio dell’arresto del capo dei capi, ma nulla di più. Penso che bisognerebbe abbandonare questa teoria, troppe cose non tornano, evitiamo di arrivare al punto in cui Riina si auto assolva per far ricadere le colpe sulle istituzioni”. Pignatone: “Falcone aveva già scartato l’ipotesi Gladio” - A Report è intervenuto anche Roberto Scarpinato, capo della procura generale di Palermo che rappresenta l’accusa nel processo attuale ancora in corso. Ad un certo punto, riferendosi all’omicidio Mattarella, dice: “Falcone giunge alla conclusione che non è stato ucciso da mafiosi ma è stato ucciso da due esponenti della destra eversiva, Cavallini e Fioravanti, gli stessi che sono coinvolti nella strage di Bologna. E da quel momento in poi comincia ad indirizzare la sua attenzione su Gladio”. Si sussegue la voce narrante che dice: “l’indagine su Gladio rimase aperta”. In questo modo, sottolineano gli avvocati, può indurre i telespettatori a pensare che in effetti Falcone non avrebbe fatto in tempo ad indagare su Gladio. Ma non è così. “Al riguardo - si legge nella segnalazione all’autorità -, anziché lasciare dubbi o sospetti, sarebbe stato doveroso informare telespettatori sulla base di atti pubblici, acquisiti, peraltro, dal predetto Procuratore presso il Csm, precisando che le indagini su Gladio vennero svolte ed esclusero coinvolgimenti negli omicidi politici”. E infatti nei verbali c’è l’audizione del magistrato Giuseppe Pignatone che dice due cose fondamentali: una che Falcone era d’accordo con la requisitoria sull’omicidio Mattarella, due che su Gladio ci furono inizialmente dei contrasti sul come fare le indagini. “Noi - disse Pignatone al Csm - avevamo una preoccupazione diversa, dico noi perché su questo eravamo tutti d’ accordo”. Alla domanda “Tutti chi?”, rispose: “Giammanco, Sciacchitano, Scarpinato, Lo Forte ed io”. Il Csm: “Anche Scarpinato?”. Rispose sempre Pignatone: “Anche Scarpinato. Scarpinato, come al solito, era molto meno acceso nella discussione, Roberto è quello che è, però sostanzialmente era d’accordo su questa impostazione che partiva dal presupposto che l’indagine si dovesse fare”. Poi Pignatone spiegò che alla fine Falcone svolse le indagini con lui. Conclusione? “Giovanni fece tutti gli accertamenti che ritenne, dopo di che fu chiaro che Gladio non c’entrava minimamente”. In effetti, come Il Dubbio ha potuto riscontrare, nell’ultimo atto a firma di Falcone sull’omicidio Mattarella si legge che non ha trovato nulla che portasse alla pista Gladio, tranne che rinvenire un appunto dei servizi concernente uno dei presunti killer di Mattarella, ma palesemente estraneo ai fatti. Subranni, falange armatae protocollo farfalla - A Report è intervenuto anche Nino Di Matteo dicendo che Paolo Borsellino parlò in termini estremamente negativi e con un atteggiamento che la signora Agnese definisce sconvolto del suo ex amico generale Antonio Subranni. I legali di Mori e De Donno segnalano che Report avrebbe dovuto - per questioni di imparzialità nei confronti dei telespettatori - riportare fedelmente le parole di Agnese dove si evince tutt’altra interpretazione. Aggiungendo anche altre testimonianze. A partire dai verbali al Csm dove emerge che nell’ultima riunione a cinque giorni dalla strage di Via D’Amelio, Borsellino si è fatto portavoce delle lamentele dei Ros circa la conduzione del procedimento mafia-appalti. Report ha intervistato anche il magistrato Roberto Tartaglia, attuale vice capo del Dap, che dà per certo che la Falange armata sia espressione dei servizi segreti. Ma gli avvocati spiegano che Report, per completezza di informazioni, avrebbe dovuto citare il provvedimento del giudice Monteleone dove - attraverso indagini - ha smentito tale ricostruzione. Così come il Protocollo farfalla, operazione di intelligence che nulla ha a che vedere con la presunta trattativa. Anzi, come ha scritto il Copasir, era volto a scovare una regia mafiosa dietro le proteste contro il 41bis. Operazione, tra l’altro, fallimentare. “La Trattativa Stato-mafia non c’è stata”: ecco le sentenze ignorate da Report di Aldo Torchiaro Il Riformista, 12 gennaio 2021 Nel dossier consegnato a Colle, presidente Rai e Csm, l’elenco delle assoluzioni definitive, note ai giornalisti ma rimosse dalla trasmissione, che fanno a pezzi la teoria della trattativa e smentiscono la regia del generale dei Ros. “Gogna inammissibile”. La puntata di Report dello scorso lunedì 4 ha innescato la reazione delle parti in causa. Anche perché interviene su un procedimento penale in corso presso la Corte d’appello di Palermo, quello sulla presunta “trattativa Stato-mafia”, con il Generale Mario Mori e il Colonnello Giuseppe De Donno che contestano su tutta la linea la ricostruzione messa in onda su RaiTre. Così i legali si sono riguardati la puntata e hanno preso appunti, messi nero su bianco in una nota che costituisce il preambolo di una segnalazione inoltrata alle autorità competenti. Gli avvocati Basilio Milio e Francesco Antonio Romito si indirizzano al presidente della Repubblica, al vice presidente del Csm, Davide Ermini; al senatore Barachini, in qualità di presidente di vigilanza Rai, al senatore Morra per la commissione Antimafia e al presidente Rai, Marcello Foa. Protestano nel merito e nel metodo, sottolineando le ripetute negligenze e le congetture sperticate che hanno riscontrato nella trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci. Al conduttore Rai era arrivata già prima della messa in onda una doverosa precisazione, declinando da parte di De Donno l’invito a partecipare come intervistato. Lo scorso 28 dicembre De Donno scrive al giornalista Mottola e a Ranucci: “La ringrazio per il cortese invito ma in linea con la decisione - del Gen. Mario Mori, mia e dei nostri difensori - di non interferire in alcun modo con lo svolgimento del procedimento penale a nostro carico con qualsiasi iniziativa che non sia il confronto dibattimentale nelle aule di Giustizia, dobbiamo declinare. Nella circostanza, confermandole la nostra totale estraneità ai fatti contestatici, le ricordo che potrà trovare ogni utile riferimento alla nostra posizione processuale negli atti ormai pubblici e nelle memorie difensive dei nostri legali che sono, eventualmente a sua disposizione per ogni chiarimento, nonché nelle sentenze di assoluzione ormai definitive quali quelle emesse nel processo per la cosiddetta mancata cattura di Provenzano - che ha visto imputati il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu - e nel processo nei confronti dell’onorevole Calogero Mannino, coimputato nello stesso identico reato a noi contestato, sentenze che sono sicuro conosca e alle quali sono certo non mancherà di attingere per una veritiera ricostruzione dei fatti”. E d’altronde, si incaricano di elencare i legali, la trasmissione fa stralcio delle sentenze di assoluzione passate in giudicato: quella del Tribunale di Palermo sent. n. 4035/2013; Corte di Appello di Palermo, sent. n. 2720/2016; Cass. sent. n. 39562/2017. Gup Palermo sent. n. 1744/2015; Corte di Appello di Palermo sent. n. 3920/19; Cassazione sent. emessa l’11.12.2020. Sentenze che, dando un’argomentata e documentata ricostruzione dei fatti, hanno valutato e giudicato anche le condotte di Mario Mori e Giuseppe De Donno circa una presunta trattativa tra lo Stato e “cosa nostra”, in relazione alla medesima fattispecie di cui all’art. 338 c.p. Sentenze che la trasmissione, chissà perché, ignora. Il danno è evidente, stando ai legali Basilio Milio e Francesco Antonio Romito: “L’inchiesta giornalistica, con un approccio rivelatosi del tutto deficiente dei necessari requisiti di completezza ed imparzialità, indica, come certamente avvenuta una trattativa tra uomini del Ros e Cosa Nostra, nonostante le menzionate pronunce l’abbiano esclusa, affrontando vicende oggetto di un delicato processo in corso, così determinando oggettivamente una indebita interferenza sullo stesso processo, anche attraverso interviste rilasciate dai magistrati inquirenti rappresentanti l’accusa nel processo del quale si sta svolgendo il II° grado”. In effetti a procedimento aperto è davvero curioso che una parte del dibattimento si svolga nelle aule di Saxa Rubra, invece che in quelle di Palermo. E questo, recita ancora la missiva - “nonostante la Rai sia un ente assimilabile ad un’amministrazione pubblica, concessionaria dell’essenziale servizio pubblico radiotelevisivo”. Ecco che gli interessati ricostruiscono in una precisa memoria cronologica i fatti e le circostanze della cui travisazione accusano Report. La “Trattativa del Gen. Mori con la mafia” - Sia Di Matteo (minuti 1.05.30 e seguenti) che, più volte, il conduttore e anche la voce narrante, nel corso della trasmissione, ripetono come un mantra che il Gen. Mori è “l’uomo che ha condotto la trattativa con la mafia nel periodo stragista” (minuti 9.15 e seguenti ed ancora minuti 1.13.30 e seguenti ed ancora 1.51.15 e seguenti). Si ha buon gioco nel sottolineare qualche “dimenticanza”. “Una imparziale informazione avrebbe, quanto meno, fatto conoscere ai telespettatori che già nel 2006 i giudici che hanno assolto il Gen. Mori ed il Cap. De Caprio hanno scritto una sentenza chiarissima”, dichiarano gli avvocati Milio e Romito. “Se gli elementi di carattere logico e fattuale di cui sopra sono idonei a smentire l’ipotesi della ‘Trattativa Stato-mafia’ avente ad oggetto la consegna del Riina, deve concludersi che più verosimilmente l’iniziativa del gen. Mori fu finalizzata solo a far apparire l’esistenza di un negoziato, al fine di carpire informazioni utili sulle dinamiche interne a “cosa nostra” e sull’individuazione dei latitanti. Sembra confermare una tale interpretazione anche il rilievo che il comportamento assunto dal cap. De Donno e dall’imputato apparirebbe viziato - ponendosi nell’ottica di una trattativa vera invece che simulata - da un’evidente ed illogica contraddizione, solo se si consideri che gli stessi si recarono dal Ciancimino a “trattare” chiedendo il massimo, la resa dei capi, senza avere nulla da offrire”. (Sentenza Mori-De Caprio, pagg. 116-117).” A parte questa sentenza, anche essa passata in giudicato, i giudici che hanno assolto il Gen. Mori ed il Col. Obinu nel 2013 sono andati oltre, precisando: “In tale contesto, l’eventualità che il col. Mori ed il cap. De Donno si siano attivati con lo scopo precipuo di evitare il ripetersi di iniziative stragiste di Cosa Nostra non potrebbero obliterare una semplice considerazione: detta, eventuale, finalità non potrebbe, di per sé, rivelare un atteggiamento volto a favorire le ragioni dei mafiosi ed, anzi, dovrebbe senz’altro apprezzarsi come lodevole”: così recita la sentenza del tribunale di Palermo, Sez. IV penale, n. 4035/2013, p. 158. Un documento di cui il pubblico di Report viene tenuto all’oscuro. E gli stessi giudici mettono le mani avanti, esecrando già nel 2013 il tentativo di fare dietrologia: “Una interpretazione degli avvenimenti che non tenga conto della peculiarità dei contesti temporali in cui si è operato rischia di essere fuorviante e di fare apparire, attraverso facili dietrologie ed impropri richiami moralistici, senz’altro complicità o connivenze, gli sforzi di chi magari cercava in quei difficili momenti di evitare eventi sanguinosi in attesa di tempi migliori” (Sentenza Tribunale di Palermo, Sez. IV penale, n. 4035/2013, p. 81. Nella stessa sentenza passata in giudicato la Corte di Appello ha valorizzato il lavoro “in un rapporto di esclusiva fiduciarietà coi Giudici Falcone e Borsellino fino alla loro morte” di Mori e De Donno, definendo poi i contatti con Vito Ciancimino come nient’altro che una “attività info-investigativa” (p. 756) finalizzata a “creare un rapporto fiduciario con costui per trasformarlo in confidente/infiltrato prima, e … collaboratore poi, sempre all’unico fine della cattura dei latitanti e della cessazione delle stragi” (p. 616). Anche tale sentenza è irrevocabile dall’11 dicembre 2020. I riferimenti di Claudio Martelli alla “Trattativa” - Intervistando l’On. Claudio Martelli, Report ha chiesto all’allora Ministro della Giustizia: “Lei ha raccontato solo dopo molti anni di aver saputo della trattativa, perché?”. Claudio Martelli: “Pensai che fossimo davanti ad un comportamento molto anomalo da parte dei Ros, e per prima cosa dissi a Liliana Ferraro di informare Borsellino. Cosa dice Mori? “Sì, io ho incontrato Vito Ciancimino, l’ho incontrato, gli ho parlato” e la trattativa. “Sì ho trattato in questo senso, che gli ho detto “ma dobbiamo continuare con questo muro contro muro tra lo Stato e cosa nostra?”. Questo io lo trovo abbastanza stupefacente…”. Intervistatore: “Quella trattativa fu un’iniziativa di polizia o un’iniziativa anche politica, con un mandante politico?” Claudio Martelli: “Io penso di sì. Del presidente della Repubblica dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro” (minuti 1.53.30 e seguenti). Anche qui, il microscopio dei legali ha evidenziato l’inocularsi virale della cattiva informazione. Sul punto, si fa rilevare, manca qualche notizia utile: i giudici della Corte di Appello che hanno assolto Mannino hanno ritenuto “probabile che gli … ufficiali del Ros avessero informato di tale iniziativa anche Borsellino - che con Mori e De Donno aveva all’epoca un rapporto di assoluta ed esclusiva fiducia, tanto da chiedere di vederli, riservatamente, nei locali della Caserma dei Carabinieri e non in quelli della Procura, per parlare del rapporto “mafia-appalti”. Poco prima della sua uccisione - giacché quando il giudice ne era stato informato dalla Ferraro, non ne era rimasto affatto stupito, né contrariato, rispondendo alla Dirigente degli Affari Penali del Ministero che andava bene e che se ne sarebbe occupato lui”. (Sentenza Corte di Appello di Palermo, Sez. I penale, n. 3920/2019, p. 752). Se poi Report si fosse premurato di assumere informazioni dai legali, avrebbero acclarato come il presidente Scalfaro non risulta esser stato mai indagato, tantomeno imputato, sebbene nel capo di imputazione figurino i defunti Francesco Di Maggio e Vincenzo Parisi. Peraltro, Martelli aveva già parlato. In un’aula vera di tribunale, senza telecamere e montatori. Rileggendo il verbale dell’udienza 15 giugno 2016, troviamo a pag.162 e 163: “Io non ho mai pensato che fossimo di fronte... Sa un conto poi, ripeto, è estremamente evidente, un conto è dire: la trattativa tra Stato e mafia. Beh, scambiare due ufficiali dei Carabinieri per Stato già mi sembrerebbe una certa approssimazione generalizzante, no? Poi se per questo si intende quello che lo stesso colonnello Mori ha dichiarato a Firenze, l’intervista è stata data in tutte le televisioni d’Italia, io l’ho vista lì e ho fatto un salto, trattativa. Ma certo che io ho trattato, c’è stata la trattativa, c’è stata la trattativa con Ciancimino”. Conclude Martelli: “E quando poi è finita la trattativa con Ciancimino, i miei collaboratori mi hanno detto: ‘Eh, ma cos’è? Non hai guadagnato nulla’. E Mori ci tenne a dire: ‘No, non è vero, si è creata una premessa che sarà utile anche in futuro’. Ma questa che c’è stata, questa è trattativa Stato - mafia forse? No”. Al Csm la battaglia finale sulle chat di Palamara di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 12 gennaio 2021 Scontro sul trasferimento del pm romano Racanelli, intercettato nell’inchiesta di Perugia. I dossier contro Pignatone e Ielo. Oltre un secolo fa, in America, un gruppo di medici condusse un esperimento per dimostrare che l’anima ha una massa, e misurarla. Monitorando il peso di alcune persone poco prima e subito dopo la morte, conclusero che l’anima umana pesa 21 grammi. Dopo la sentenza disciplinare che a metà ottobre ha privato della toga Luca Palamara, i 21 grammi del più grave scandalo della magistratura italiana sono le sessantamila pagine di chat trovate sul suo cellulare, quando fu sequestrato dalla Procura di Perugia il 30 maggio 2019. Del caso Palamara molto si è scritto, anche a sproposito. Molto si è detto, talvolta alludendo. Non tutto, in ogni caso. Il processo di Perugia (l’udienza preliminare entrerà nel vivo a febbraio) si annuncia meno scontato del previsto, dopo che la Procura ha nuovamente cambiato il capo di imputazione, circoscrivendo l’ipotesi di corruzione sia dal punto di vista temporale (2013-2017) che da quello funzionale (il ruolo di Palamara nel Csm come giudice disciplinare e membro della commissione nomine). L’indagine parallela sulle fughe di notizie ha già riservato qualche sorpresa con le deposizioni contrastanti di due membri (e un tempo sodali) del Csm, Piercamillo Davigo (nel frattempo pensionato) e Sebastiano Ardita. Il processo disciplinare a Cosimo Ferri, deputato-magistrato gran visir della politica correntizia, è impantanato per una serie interminabile di istanze difensive (uscieri a parte, Ferri al Csm ha ricusato tutti). Quello agli altri cinque ex membri del Csm, partecipi dell’incontro notturno con il deputato-imputato Luca Lotti all’hotel Champagne per discutere le nomine nelle Procure, prosegue con passo lisergico al riparo dai riflettori. Ma prima o poi entrerà nel vivo e darà soddisfazioni, se le linee difensive non si sovrapporranno. Nell’attesa, ci sono le chat. Le chat sopravvivono all’espulsione di Palamara e prescindono dagli altri processi. Unite alle intercettazioni e alle conversazioni captate con il trojan, disegnano una fitta trama di rapporti di potere che coinvolge centinaia di magistrati lungo un arco temporale che abbraccia due consiliature del Csm. Nelle chat c’è di tutto. Chiacchiere tra colleghi e faccende personali. Le partite di calcetto, in cui Palamara eccelleva. Ma anche questioni che riguardano l’organizzazione degli uffici giudiziari, i rapporti tra le correnti, le nomine, le promozioni, le rivalità, i sospetti e i veleni. Un recente libro di Antonio Massari, intitolato Magistropoli, ne dà diffusamente conto. Basandosi sulle chat, per 27 magistrati la Procura generale della Cassazione ha avviato procedimenti disciplinari, contestando a vario titolo la violazione di obblighi di correttezza. Non è stata una scelta semplice né priva di contrasti. Alla fine il procuratore generale Giovanni Salvi con un provvedimento pubblicato sul web ha dato conto del criterio usato per distinguere la rilevanza disciplinare di alcune conversazioni da quelle non rilevanti, tra cui per esempio i messaggi di autopromozione a fini di carriera purché senza denigrazione di colleghi concorrenti. E tutte le altre chat? E tutti gli altri magistrati? Il malloppo è stato inviato da Perugia anche al Consiglio superiore della magistratura. Perché le chat possono essere utilizzate per valutare le progressioni di carriera, il conferimento di incarichi e i trasferimenti per “incompatibilità ambientale”. Una forma, quest’ultima, di responsabilità non a caso (e con un certo margine di ambiguità) definita paradisciplinare. La prevede il regio decreto del 1946 come deroga al principio di inamovibilità. Il Csm può dunque trasferire un magistrato, anche incolpevole, se valuta che in una certa sede o in una certa funzione non possa più garantire “piena indipendenza e imparzialità”. Benché sganciati da processi e sanzioni, spesso i trasferimenti per incompatibilità ambientale nascondono un retrogusto punitivo, perché evidenziano passi falsi, mosse inopportune, incapacità di lavoro in squadra, se non scivoloni comportamentali. Insomma mettono fuori gioco. Isolano. Precludono ambizioni di carriera. E sono molto temuti dai magistrati. Quasi un anno fa, sulla base delle prime intercettazioni con Palamara, fu trasferito in questo modo un pm della Procura nazionale antimafia, Cesare Sirignano, nonostante una difesa agguerrita e accorata. Si capisce come mai la chiavetta usb con le migliaia di chat di Palamara sia diventata un’arma nucleare che si presta agli usi (anche mediatici) più disparati, non sempre palesi e irenici. Una chat può sporcare un curriculum immacolato, azzerare carriere, regolare conti. Può sommergere o salvare. Crocifiggere o graziare. Motivo per cui, qualche mese fa, lo stesso Salvi, durante una seduta del Csm, aveva sollecitato (con tono da intimazione) la prima commissione, competente sulle chat, a stabilire un metodo e un criterio di valutazione omogeneo, trasparente e rispettoso dei magistrati chattanti o semplicemente citati. Negli ultimi due mesi, guidata con piglio sabaudo da Elisabetta Chinaglia, la prima commissione ha messo le mani nel pentolone delle chat. E la discussione ha subito preso una piega pirotecnica, anche perché tra le prime posizioni esaminate ce n’è una tra le più importanti e controverse. Si tratta del fascicolo che riguarda il procuratore aggiunto di Roma, Angelantonio Racanelli. Benché sconosciuto al grande pubblico, un nome pesante. Racanelli è un pezzo grosso di Magistratura Indipendente, la corrente conservatrice delle toghe. È legato a Palamara, con cui nelle chat manifesta confidenza e intelligenza politica. Palamara era nel Csm che nel 2016 l’ha nominato procuratore aggiunto. Ma Racanelli è anche l’uomo di Cosimo Ferri nella Procura di Roma, l’ufficio giudiziario più importante d’Italia. Nel 2019, quando scoppia il caso Palamara, si dimette dal vertice della sua corrente “perché non voglio partecipare al festival dell’ipocrisia”. I messaggi tra Racanelli e Palamara coprono il periodo tra la fine del 2017 (quando Palamara è ancora nel Csm) e il maggio 2019, nei giorni caldi delle manovre sulla Procura di Roma. Sintetizza la prima commissione: “Emerge che vi erano rapporti di conoscenza e amicizia tra i due e consiglieri del Csm e colleghi dello stesso ufficio che commentano anche ciò che accade in Consiglio dopo il termine del mandato di Palamara, dapprima con riferimento alla elezione del vicepresidente (David Ermini i cui grandi elettori furono Lotti, Ferri e Palamara, ndr) e poi in ordine alle informazioni su alcune nomine fatte dal Csm, su rapporti associativi relativi all’Anm e sulle votazioni della quinta commissione per il procuratore di Roma”. Sempre lì si torna, alla scelta del nuovo procuratore di Roma nella primavera del 2019. I pm che hanno lavorato più in sintonia con il procuratore uscente Giuseppe Pignatone sperano in un successore che ne condivida il metodo, come il palermitano Franco Lo Voi. Palamara e Racanelli sostengono Marcello Viola e ragionano su come agevolarne la vittoria (cosa non facile, è il meno titolato tra i concorrenti rimasti in gara). Nella partita entra in gioco l’ormai famoso dossier del pm romano Stefano Fava contro il procuratore uscente Pignatone e l’altro aggiunto Paolo Ielo. Fava (un pm fuori dalle correnti e con approccio investigativo molto aggressivo) sospetta conflitti di interessi e si rivolge al Csm. Palamara, amico di Fava, ritiene il dossier utile per sostenere la tesi della “discontinuità” nella Procura di Roma, che indurrebbe a nominare Viola. A cascata, conta di farsi nominare a sua volta procuratore aggiunto, chiudendo il cerchio. Racanelli condivide e sostiene il disegno. Con Pignatone, che gli ha affidato i reati informatici, non s’è trovato bene. E con Ielo, viceversa un pupillo di Pignatone che gli ha dato le più importanti indagini di corruzione, non va proprio d’accordo. Queste le forze in campo. Il contesto delle conversazioni (chat, telefonate, in ufficio) Palamara-Racanelli nel maggio 2019. In particolare, i due monitorano passo passo l’andamento dei lavori della commissione nomine del Csm (non pubblici) e Racanelli propone di “far succedere casino” in caso di rinvio del voto in favore di Viola; valutano le conseguenze dell’inchiesta su Palamara che iscrivono nella battaglia di potere in corso, avendo saputo che gli atti (ancora segreti) sono stati mandati da Perugia al Csm proprio in quei giorni; discutono l’uso del dossier Fava per contrattaccare, tanto che Racanelli dice: “Bisogna insistere per avere le carte” non ancora mandate dal vertice del Csm alla prima commissione “e incominciare a muovere le carte … incominciare a convocare” presumibilmente Fava e poi a ruota Pignatone e Ielo, con grande e inevitabile scandalo. Quanto pesi il caso Racanelli è testimoniato dal fatto che le solitamente soporifere sedute della commissione del Csm si sono fatte elettrizzanti, al punto da indurre anche consiglieri esterni a godersi lo spettacolo a cavallo della pausa natalizia. Nella commissione, come prevedibile, si sono formati due blocchi. Da una parte quello rigorista, formato dal pm Nino Di Matteo (che si presentò al Csm parlando di “metodo mafioso delle correnti”), dalla giudice Ilaria Pepe, della corrente Autonomia & Indipendenza di Davigo e, prima di astenersi, anche dalla presidente Chinaglia (Area, corrente di sinistra). Essi ritengono che il ruolo attivo di Racanelli nelle trame contro i colleghi dell’ufficio sia incompatibile con la sua permanenza nella Procura di Roma, per lo più con funzioni semi-direttive. Dall’altro quello “minimalista” formato dai due membri laici di centrodestra nonché avvocati penalisti (Alessio Lanzi di Forza Italia ed Emanuele Basile della Lega) e dalla giudice Paola Braggion, di Magistratura Indipendente come Racanelli. Secondo loro, Racanelli esprimeva con Palamara “mere opinioni personali” su vicende già di dominio pubblico. Quanto al dossier Fava, non interveniva sul contenuto ma solo sul “metodo” al fine di un “corretto accertamento dei fatti anche in considerazione della sua esperienza in prima commissione quando era consigliere del Csm” tra il 2010 e il 2014. Stesso discorso per le valutazioni degli atti perugini a carico di Palamara. E sulla scelta del procuratore di Roma manifestava “pure opinioni” sulla base di quanto avvenuto in passato, ma senza “diretta interferenza” con il Csm. Inoltre il suo ruolo ha avuto scarso risalto mediatico con “pochissimi articoli di stampa” (in realtà ci fu anche un’intervista in una puntata di Report). Ragioni per cui “deve escludersi ogni incidenza sulla credibilità del magistrato all’interno del suo ufficio”. Per sostenere la tesi, la relazione Braggion cita in modo incidentale (ma tutt’altro che casuale) un solo precedente, molto noto e facilmente identificabile sebbene i nomi siano omessi: l’intenso rapporto tra il giudice-scrittore Giancarlo De Cataldo e Salvatore Buzzi, “pregiudicato per omicidio” e poi condannato nel processo “mafia capitale”. Su De Cataldo (giudice romano e di sinistra) il Csm di divise furiosamente per due anni, a parti invertite: gli attuali sostenitori della linea “minimalista” battagliarono per il trasferimento, ma persero per un voto. In quel caso Palamara, in dissenso con il suo gruppo Unicost, difese De Cataldo. Poche righe, ma dense di significati. E di sottotesti. La parola definitiva spetta ora al plenum. Il caso Racanelli è all’ordine del giorno mercoledì 12 gennaio. Si preannuncia una discussione accesa e una votazione al fotofinish. La decisione avrà conseguenze, in ogni caso. Stabilirà un precedente nella valutazione delle chat. Il no al trasferimento significherebbe, sostanzialmente, l’irrilevanza delle chat correntizie se non per espliciti profili penali o disciplinari. Al contrario, il trasferimento fisserebbe un’asticella alta ai comportamenti inaccettabili, benché non sanzionabili sotto quei profili. Tutto questo al netto dei rapporti di forza tra le correnti nella nuova giunta dell’Associazione nazionale magistrati. A parole unitaria. Nei fatti, non meno rissosa e “disunitaria” della maggioranza parlamentare. Santalucia (Anm): “Palamara? Io dico no ai capri espiatori” di Angela Stella Il Riformista, 12 gennaio 2021 “Il tema del capro espiatorio è all’antitesi del rendere giustizia. Nessuno ha voluto o vuole caricare sul singolo le colpe di un sistema, polarizzare il confronto/ scontro tra l’accusato e gli accusatori, in modo che sull’uno ricada l’intera responsabilità di una stagione triste, e tutti gli altri siano magicamente emendati. La giustizia è fenomeno più complesso, che necessita di tempi adeguati e di seri approfondimenti”. Intervistato dal Riformista, il neo presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia risponde così sul caso Palamara. E a proposito del correntismo dice: “Si è affermato in un lungo periodo di distrazione dall’impegno collettivo e di ripiegamento in una dimensione privata”. Le sentenze impopolari? “Bisogna mostrarsi forti di fronte alle polemiche contingenti, l’obiettivo è la credibilità della funzione. Bene hanno fatto i giudici di sorveglianza a reggere l’urto delle critiche per le scarcerazioni”, dice al Riformista il leader dell’Associazione nazionale magistrati. Il carcere? “Deve offrire opportunità di risocializzazione e va riservato ai casi più gravi” Il dottor Giuseppe Santalucia, da poco eletto a guida dell’Anm, ha il privilegio di poter guardare alle questioni di politica giudiziaria avendo un bagaglio professionale e culturale costruito ricoprendo diversi importanti ruoli: sostituto procuratore, gip, giudice di Cassazione ma anche capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia ai tempi di Andrea Orlando. È esponente di Area ma conserva la tessera di Magistratura democratica e non si è sottratto ad affrontare la divisione tra i due corpi associativi. Si è appena concluso un anno molto difficile sotto diversi aspetti. Lei per esempio è alla guida dell’Anm dopo la bufera del caso Palamara. Da dove si ricomincia? Si ricomincia dalla consapevolezza della gravità di quanto si è, ancora solo in parte, accertato; consapevolezza che è pungolo per la ricerca e per la realizzazione di un rinnovamento effettivo. L’evocazione del rinnovamento ad alcuni suona come stanca e ipocrita formula che vuol celare l’incapacità di cambiare le cose. So che oggi è forte il pericolo di non esser creduto, perché l’Anm sconta una diffusa sfiducia. Per questo ci affideremo alla concretezza delle nostre azioni. Oltre il caso Palamara, per alcuni unico capro espiatorio, grandi divisioni ci sono state per l’affaire Davigo. Qual è la sua posizione su questo? Il tema del capro espiatorio è all’antitesi del rendere giustizia. Nessuno ha voluto o vuole caricare sul singolo le colpe di un sistema, polarizzare il confronto/scontro tra l’accusato e gli accusatori, in modo che sull’uno ricada l’intera responsabilità di una stagione triste, e tutti gli altri siano magicamente emendati. La giustizia è fenomeno più complesso, che necessita di tempi adeguati e di seri approfondimenti. Sbaglia chi ritiene che con il caso Palamara si sia cercato di mettere sotto il tappeto la (tanta) polvere che è venuta fuori. Nessuna rimozione, da un lato; nessun accertamento sommario, dall’altro. Sul caso Davigo ho veramente poco da dire. Si sono già pronunciati i giudici amministrativi, è una questione che ormai appartiene alle aule di giustizia più che al confronto politico-istituzionale. Qual è la cura alle degenerazioni del correntismo? La cura è eminentemente culturale. Il correntismo si è affermato in un lungo periodo di distrazione dall’impegno collettivo e di ripiegamento in una dimensione privata. In molti la sfiducia verso l’assunzione di compiti nella sfera pubblica, latamente politica, ha comportato una chiusura egoistica in se stessi e nei piccoli e personali interessi di carriera. Le correnti sono state private dell’apporto diffuso di un collettivo ampio e le dirigenze associative si sono ritrovate più sole e meno vigilate, più fragili perché non irrobustite dal confronto sulle idee e sui progetti. In questo scenario di allontanamento dalla politica, dalla politica associativa, anche in nome di un malinteso modello di magistrato chiuso tra le sue carte e imprigionato alla sua scrivania, ha preso corpo il correntismo. Bisogna riscoprire l’essenzialità dell’impegno associativo come ineliminabile dimensione professionale di un magistrato che ambisca a rendere effettivo il valore dell’autogoverno. In una intervista al nostro giornale Sabino Cassese ha descritto le Procure come un quarto potere. È d’accordo? No, non sono per nulla d’accordo, ma raccolgo la preoccupazione. L’azione penale è esercizio, oltre che di un dovere costituzionale, di un potere per necessità fortemente invasivo. Questo non va dimenticato, perché, come è stato detto, la giustizia penale è un male necessario, ed occorre che sia sempre contenuta entro i margini della stretta necessità. Se i giudici adempiono con scrupolo la loro funzione di controllo, il pericolo di un “quarto potere”, di un potere dunque che si distacchi e si autonomizzi dal potere giudiziario, tradizionalmente inteso come “terzo potere”, non prende consistenza. Occorre, pertanto, avere a cuore l’efficienza di Tribunali e Corti, perché la soluzione non può essere ricercata nello spuntare le armi delle Procure, rimedio che sarebbe assai peggiore del male che si vuole evitare, ma nel rafforzare i legittimi controlli. La proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere promossa dall’Ucpi giace in Commissione Affari Costituzionali della Camera. Sembra difficile solo discuterne. Qual è il suo pensiero su questo? Sull’argomento si discute da tanti anni, e non si è ancora delineata una proposta che possa tranquillizzare quanti temono che la separazione potrà essere un fattore di squilibrio nel delicato assetto tra i Poteri. Una volta che avremo separato il pubblico ministero, che ne faremo? Lo consegneremo al Governo, al potere politico? Oppure lo renderemo autonomo, inverando proprio quello che il prof. Cassese prospetta come timore, ossia la strutturazione di un “quarto potere”? È proprio necessario allontanarlo dalla giurisdizione, recidere quel legame di formazione comune e di condivisione di percorsi professionali, pur nella già accentuata separazione delle funzioni, che allo stato definiscono la cornice entro la quale il pubblico ministero può alimentarsi di una cultura delle garanzie? Per questo il progetto sulla separazione delle carriere fatica ad andare avanti. Perché sconta una pericolosa incompletezza del disegno ricostruttivo. In un documento del 6 gennaio l’Ucpi si rivolge direttamente a Lei per sollecitare un dibattito sulla responsabilità professionale dei magistrati. Come risponde a questo appello? Bisogna chieder conto ai magistrati di inchieste completamente fallite, di accanimenti verso alcuni personaggi politici la cui carriera è stata stroncata? Sono certo che le Camere Penali non vogliano una responsabilità dei magistrati sulla base di risultati ottenuti o mancati. Sarebbe il peggior servizio alla tutela dei diritti e all’effettività delle garanzie far dipendere il giudizio di professionalità sui magistrati dall’esito dei processi. Si introdurrebbe un fattore di inquinamento dell’attività processuale, perché i magistrati, almeno a volte o in parte, agirebbero nel processo avendo di mira non tanto e non solo la verità e la giustezza delle soluzioni, quanto le sorti delle proprie carriere. Altro discorso è invece dare rilievo a dati abnormi nella conduzione e nell’esito di indagini e di processi. Spingersi al di sotto di questa soglia, con l’illusoria convinzione di sanzionare gli abusi, sarebbe, lo ripeto, prima ancora che una minaccia per i magistrati, un pericolo di compromissione della serenità di giudizio e della indifferenza ai risultati che, fisiologicamente intesa, è l’unica via per dare effettività al principio della neutralità della funzione. L’anno scorso all’inaugurazione dell’anno giudiziario il pg Salvi disse: mai cercare, nell’azione inquirente “il consenso della pubblica opinione”. Eppure il fenomeno continua, con pm che intervengono in prima serata, reclamando attenzione alle loro inchieste, o addirittura lanciando accuse al Ministro della Giustizia. Qual è il suo pensiero su questo? Il monito del Procuratore generale della Corte di cassazione è sacrosanto. Esistono e convivono, dentro la magistratura, diversi modelli di magistrato, diverse opzioni culturali su come intendere la professione. Le differenze possono essere proficuamente oggetto di un dibattito interno all’Associazione, possono stimolare il confronto di opinioni e di sensibilità, concorrendo ad innalzare la qualità del livello professionale dell’intero Corpo. La nuova legge sulle intercettazioni sembra aver scontentato un po’ tutti, avvocati e magistrati per vari motivi. Il professor Spangher su questo giornale ha criticato fortemente la “pesca a strascico” e il possibile abuso del trojan da parte dei pm. Lei condivide questa critica? L’aver scontentato tutti lo registro come un segnale che quella legge ha cercato di incidere effettivamente sull’esistente. Le varie modifiche, intervenute sino al varo del decreto-legge n. 169 del 2019, e la sua legge di conversione, hanno conservato il nucleo della riforma tanto criticata, che provo così a riassumere. Le conversazioni irrilevanti non entrano nel processo; il pubblico ministero deve vigilare affinché non siano riassunte nemmeno nei verbali delle operazioni onde evitare che, a causa della sommaria annotazione, possano essere esposte al pericolo di indebita divulgazione; le parti devono attentamente selezionare il materiale utile a fini di prova, in modo che il resto, tutto il resto, non transiti nel processo e quindi in una dimensione destinata a diventare interamente pubblica. Sul pericolo della cd. pesca a strascico, dico che si verifica soltanto se e quando pubblici ministeri e giudici perdono di vista che la legge consente le intercettazioni a condizione della loro indispensabilità o, in taluni casi, della loro necessità, criteri fortemente selettivi e di garanzia. Secondo Lei è necessario dover rimettere mano alla riforma della prescrizione, come chiedono i penalisti visto che la riforma del processo penale è in una fase di stallo? Una riforma che liberi il processo dallo scorrere impeditivo del tempo della prescrizione deve farsi carico di un governo dei tempi ragionevoli del processo. La scelta, apprezzabile, di separare la prescrizione dei reati dal processo, il tempo dell’oblio sul reato dal tempo della memoria del reato che si consuma nel processo, deve affrontare il tema, complesso e rilevante in punto di garanzie e dei diritti dell’imputato come della vittima, dei tempi del processo e del loro controllo. Esiste il rischio che la normativa emergenziale sui processi penali e civili diventi poi la normalità? È un timore che ritengo ingiustificato. Il cd. processo da remoto vive e vivrà solo in ragione dell’emergenza pandemica. Ma per tutto il periodo dell’emergenza è soluzione essenziale, perché è l’unica che può coniugare la tutela del diritto alla salute con il bisogno che l’attività giudiziaria non si arresti. È indubbio che il nostro Paese soffra di un brutto male: il panpenalismo. Esiste un rimedio a questo fenomeno? Sì, il coraggio della Politica. La Politica deve saper rinunciare alla risposta penale sovrabbondante e quindi alla legislazione meramente simbolica e rassicurante. Di fronte alla complessità dei fenomeni, la scorciatoia è stata la criminalizzazione. Gli esiti non sono incoraggianti. È tempo di cambiare rotta in vista di una seria e robusta depenalizzazione. Avvocati e giudici sono ormai accomunati dal fatto di ricevere minacce quando difendono quelli che il Tribunale del Popolo chiama “mostri” o quando emettono sentenze impopolari, soprattutto di assoluzione o di riduzione della pena. Qual è l’anticorpo a questo fenomeno? Il tasso di professionalità di magistrati e avvocati. Il facile e mediatico consenso rassicura gli insicuri, e gli insicuri sono quelli non attrezzati professionalmente. Non bisogna mirare al consenso ma alla credibilità della funzione, mostrandosi forti rispetto alle polemiche contingenti. Quelle passano, il bene della fiducia collettiva nell’istituzione giudiziaria si costruisce e si mantiene con un impegno costante nel tempo. Durante la prima ondata la magistratura di sorveglianza è stata sotto attacco per alcune concessioni di detenzioni domiciliari per motivi di salute anche di detenuti al 41bis o in alta sicurezza. Cosa pensa di quanto accaduto? Penso che non sia stata una bella pagina, ma sono contento di come la magistratura di sorveglianza abbia saputo reggere l’urto delle polemiche, spesso alimentate dalla disinformazione, e abbia proseguito, con serenità e senza disorientamenti, nella sua azione. Sono tanti i motivi di sconforto, ma bisogna anche saper compiacersi del grado di effettiva autonomia e di indipendenza che la magistratura italiana sa dimostrare; come è stato in quella occasione. La pandemia avrebbe potuto rappresentare un pretesto per riflettere seriamente sul carcere. Così non è stato. Secondo Lei invece c’è bisogno di ripensare il carcere? E se sì, come? Con più carceri o puntando sulle misure alternative? Il carcere è un tema di riforma che non può essere eluso. Una occasione, qualche anno fa, è stata persa con la mancata attuazione della delega contenuta nella legge Orlando, ma la direzione che anche la giurisprudenza, di legittimità, costituzionale e sovranazionale, indica è netta e chiara. Il carcere non deve essere il luogo della segregazione avvilente, ma una offerta di opportunità risocializzanti, nel pieno rispetto dei diritti dei detenuti, riservata ai casi più gravi. Solo così, ed è stato già dimostrato, si riduce e di molto il rischio di recidiva. In ultimo non posso non farle questa domanda. Lei è iscritto a Md. Qual è il suo pensiero su quanto sta accadendo tra Md ed Area? Non credo che ci sia da interpretare quanto è avvenuto. I colleghi che hanno lasciato Md hanno spiegato a sufficienza le loro ragioni e si è aperta una discussione con i dirigenti di Md che è stata portata, attraverso interviste e articoli di stampa, alla pubblica attenzione. Abbiamo avuto modo tutti di leggere e di comprendere. Io non avverto per quegli eventi timori o disagio, perché so che l’intera magistratura associata può contare, quali che siano le scelte dei singoli e dei gruppi, sulla vitalità di una sua componente, individuabile in quell’ambito senza differenze di sigle, particolarmente sensibile ai temi delle garanzie e dei diritti fondamentali, aperta al confronto con la società, formata ai valori costituzionali e consapevole della importanza dell’orizzonte europeo come futuro di crescita democratica della nostra comunità. Detenuto al 41bis saluta gli altri carcerati: niente sanzione, non è una “comunicazione” quotidianogiuridico.it, 12 gennaio 2021 Cassazione penale, sezione I, sentenza 10 dicembre 2020, n. 35216. Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza aveva rigettato il reclamo proposto dal Ministero della Giustizia contro l’ordinanza con la quale il magistrato di sorveglianza aveva annullato la sanzione disciplinare dell’ammonizione inflitta ad un detenuto in regime di “41bis” dal Consiglio di disciplina della Casa circondariale per aver salutato un altro detenuto, anch’egli sottoposto al medesimo regime, appartenente a diverso gruppo di socialità, la Corte di Cassazione (sentenza 10 dicembre 2020, n. 35216) - nel disattendere la tesi del Ministero della Giustizia che, tramite l’Avvocatura distrettuale dello Stato, aveva proposto ricorso per cassazione, sostenendo che nella dichiarazione di saluto potesse ravvisarsi una comunicazione in senso proprio - ha infatti affermato che, in presenza di una dichiarazione di saluto rivolta da un detenuto ad altri ristretti, appartenenti ad altro gruppo di socialità e non inserita in un contesto di conversazione, deve escludersi che si sia in presenza di una “comunicazione” vietata ai sensi dell’art. 41bis, ord. pen., non essendovi alcuna trasmissione di informazioni da un individuo a un altro, ovvero un’interazione tra soggetti diversi nell’ambito della quale gli stessi costruiscono insieme una realtà e una verità condivisa. Ne discende, pertanto come il mero saluto ha natura neutra, non potendosi in esso cogliere alcuna particolare informazione e non avendo l’atto, in definitiva, un vero e proprio intento comunicativo. Reati contro la libertà sessuale, patrocinio a spese dello Stato anche per gli “abbienti” Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2021 Lo ha confermato la Corte costituzionale dichiarando non fondate le questioni di legittimità sollevate dal Gip del Tribunale di Tivoli. È legittima la previsione del patrocinio gratuito per le vittime di reati contro la libertà e l’autodeterminazione sessuale, in particolare se minori, a prescindere dalle condizioni economiche. Lo ha stabilito la Corte costituzionale, sentenza 1/2021, dichiarando non fondate le questioni di legittimità sollevate dal Gip del Tribunale di Tivoli. Secondo il rimettente invece l’art. 76, comma 4-ter, del Dpr 30 maggio 2002, n. 115, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)”, sarebbe contrario agli articoli 3 e 24, 3 comma, della Costituzione nella parte in cui, secondo l’interpretazione della Corte di cassazione assurta a “diritto vivente”, dispone l’ammissione automatica - a prescindere dunque dai limiti di reddito - al patrocinio a spese dello Stato delle persone offese dai reati di cui agli artt. 572, 583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis, nonché, ove commessi in danno di minori, dai reati di cui agli artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies del codice penale. Per la Consulta però la scelta “rientra nella piena discrezionalità del legislatore e non appare né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la vulnerabilità delle vittime dei reati indicati dalla norma medesima oltre che le esigenze di garantire al massimo il venire alla luce di tali reati”. La norma infatti si inquadra nella volontà di “approntare un sistema più efficace per sostenere le vittime, agevolandone il coinvolgimento nell’emersione e nell’accertamento delle condotte penalmente rilevanti”. Ed infatti, nel preambolo del Dl 23 febbraio 2009 n. 11, che ha introdotto la disposizione in esame, si richiama “la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure per assicurare una maggiore tutela della sicurezza della collettività, a fronte dell’allarmante crescita degli episodi collegati alla violenza sessuale, attraverso un sistema di norme finalizzate al contrasto di tali fenomeni e ad una più concreta tutela delle vittime dei suddetti reati”. Non diverse sono le considerazioni sviluppate nel preambolo del Dl 14 agosto 2013, n. 93. “È evidente, dunque - prosegue la decisione - che la ratio della disciplina in esame è rinvenibile in una precisa scelta di indirizzo politico-criminale che ha l’obiettivo di offrire un concreto sostegno alla persona offesa, la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima, e a incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità”. Del resto, nell’ordinamento sono presenti “altre ipotesi in cui il legislatore ha previsto l’ammissione a tale beneficio a prescindere dalla situazione di non abbienza”. Per quel che concerne, infine, la prospettata violazione dell’art. 24, terzo comma, Cost., la Corte evidenzia che il parametro evocato impone di assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione: “Esso non può, dunque, essere distorto nella sua portata, leggendovi una preclusione per il legislatore di prevedere strumenti per assicurare l’accesso alla giustizia, pur in difetto della situazione di non abbienza, a presidio di altri valori costituzionalmente rilevanti, come quelli in esame”. Riciclaggio: il mero possesso ingiustificato di denaro non legittima il sequestro preventivo di Fabrizio Ventimiglia e Laura Acutis* Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2021 Nota a margine della sentenza della Cassazione, sezione II, 16 novembre 2020, n. 32112. Con la decisione in commento, la Cassazione torna ad occuparsi del reato di riciclaggio e degli obblighi di motivazione che incombono sul Giudice del Riesame in ordine al sequestro preventivo di beni ritenuti di provenienza delittuosa. In particolare, i Giudici di legittimità chiariscono che “ai fini della legittimità del sequestro preventivo di cose che si assumono pertinenti al reato di riciclaggio di cui all’art. 648- bis cod. pen., pur non essendo necessaria la specifica individuazione e l’accertamento del delitto presupposto, è tuttavia indispensabile che esso risulti, alla stregua degli elementi di fatto acquisiti e scrutinati, almeno astrattamente configurabile e precisamente indicato, situazione non ravvisabile quando il giudice si limiti semplicemente a supporne l’esistenza, sulla sola base del carattere asseritamente sospetto delle operazioni relative ai beni e valori che si intendono sottoporre a sequestro”. Questa in sintesi la vicenda processuale - Con l’impugnata ordinanza, il Tribunale di Messina rigettava l’istanza di riesame avanzata dai ricorrenti avverso il decreto con cui il PM aveva convalidato il sequestro di una considerevole somma di denaro in relazione al reato di cui all’art. 648-bis c.p. Pur in assenza di specifiche circostanze di fatto attestanti la natura del delitto presupposto, il Tribunale del Riesame riteneva che la disponibilità ingiustificata di una considerevole somma di denaro e le modalità di occultamento costituissero elementi convergenti nella dimostrazione della provenienza illecita di quanto sequestrato, integrando il fumus del delitto di riciclaggio. Il difensore degli indagati proponeva, pertanto, ricorso per Cassazione, deducendo la violazione degli artt. 253 c.p.p. e 648-bis c.p. In particolare, la difesa evidenziava come il Tribunale cautelare avesse omesso di considerare che la giurisprudenza di legittimità sul punto aveva più volte ribadito che il mero possesso di una somma di danaro, in assenza di qualsivoglia riscontro investigativo circa l’esistenza del delitto presupposto, non può giustificare l’addebito di riciclaggio e anche con riguardo all’occultamento della somma si è evidenziata la necessità di precisi elementi fattuali che possano ricondurre la provenienza del denaro ad una determinata fattispecie di reato ovvero ad una evasione fiscale penalmente rilevante. Percorrendo l’iter motivazionale della sentenza, i Giudici, in accoglimento del ricorso, osservano quanto segue. Sebbene in sede di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali al giudice siano preclusi sia l’accertamento del merito dell’azione penale sia il sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa, egli deve pur sempre operare uno scrupoloso controllo dei dati fattuali del caso concreto sottoposto al suo esame, secondo il parametro del fumus, tenendo conto delle risultanze processuali e della effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti. Pertanto, osservano i Giudici di legittimità, “ai fini dell’applicazione delle misure cautelari reali è imprescindibile la verifica delle risultanze processuali al fine di ricondurre alla figura astratta del reato contestato la fattispecie concreta e dare conto della plausibilità di un giudizio prognostico negativo per l’indagato”. Secondo la Suprema Corte le doglianze difensive sono, pertanto, meritevoli di accoglimento in ragione delle mancate valutazioni operate dal Tribunale cautelare, il quale non aveva nemmeno ipotizzato il reato presupposto del riciclaggio, limitandosi a riscontrare la sussistenza del fumus nel rilievo di carattere meramente congetturale circa la plausibile derivazione illecita del denaro sequestrato, sulla base della quantità del contante, delle modalità di occultamento e delle condizioni soggettive degli indagati. Tale valutazione si pone in netto contrasto con il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità in base al quale “il mero possesso di una pur ingente somma di denaro non può giustificare ex se, in assenza di qualsiasi riscontro investigativo, l’addebito di riciclaggio senza che sia in alcun modo stata verificata l’esistenza di un delitto presupposto, anche delineato per sommi capi, attraverso, ad esempio, il riferimento all’esistenza di relazioni tra i ricorrenti ed ambienti criminali, ovvero la precedente commissione di fatti di reato dai quali possa attendibilmente essere derivata la provvista, o l’avvenuto compimento di operazioni di investimento comunque di natura illecita a qualsiasi titolo” (cfr. Cass. Sez. II, n. 9355/2018). Affinché sia configurabile il delitto di riciclaggio, così come quello di ricettazione, non è necessario che il giudice operi una ricostruzione puntuale del delitto presupposto in tutti gli estremi storici e fattuali, bensì che individui la tipologia di delitto all’origine del bene da sottoporre a vincolo, in quanto, appunto, di provenienza delittuosa. Non risulta, infatti, sufficiente il richiamo ad indici sintomatici privi di specificità in relazione alla derivazione della disponibilità oggetto di espropriazione e suscettibili esclusivamente di provare un mero ingiustificato possesso di denaro: è necessario che il delitto presupposto, se pure non giudizialmente accertato, sia specificato. Nel caso in esame è del tutto mancante la motivazione relativa all’individuazione degli elementi di fatto in grado di rappresentare a quale delle condotte tipiche indicate dall’art. 648-bis c.p. sia riconducibile il comportamento tenuto dagli indagati così come accertato in sede di indagini, imponendosi, pertanto, l’annullamento dell’ordinanza impugnata. In particolare, la descrizione del fatto sarebbe stata carente di indicazioni sia rispetto alla specifica condotta di riciclaggio contestata che all’individuazione di elementi fattuali da cui poter evincere la provenienza delittuosa dei beni da assoggettare a vincolo. Provenienza che deve essere concretamente accertata sulla base di specifici elementi di fatto che consentano di ritenere configurabile il delitto presupposto. Sicilia. Pd: “Subito i vaccini nelle carceri” blogsicilia.it, 12 gennaio 2021 Barbagallo: “La situazione nei penitenziari è critica. Bisogna garantire la salute di tutti”. “Subito vaccini per gli agenti di polizia penitenziaria, le detenute e i detenuti, gli operatori carcerari e per coloro che entrano negli istituti di pena per motivi di difesa. La protezione deve essere più rapida laddove la vulnerabilità è maggiore”. Lo dichiarano Anthony Barbagallo, segretario regionale del Pd Sicilia, Marco Guerriero, componente della segreteria regionale e Maria Grazia Leone, responsabile dipartimento Diritti, unendosi all’appello lanciato da Mauro Palma, presidente dell’Autorità Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e da Liliana Segre, senatrice a vita. “Inserire tra le priorità la vaccinazione nelle carceri - continuano i dirigenti democratici - assume carattere di emergenza dal momento che si tratta di luoghi particolarmente soggetti al rischio di diffusione dell’infezione da Covid. Il comitato nazionale per la Bioetica, nel parere del 28 maggio ha definito ‘particolarmente critica’ la situazione carceraria, proprio perché critiche sono le condizioni di partenza. Luoghi strutturalmente chiusi, carenti di spazi adeguati, dove peraltro, visti i numeri attuali delle presenze, la misura preventiva del distanziamento - aggiungono - risulta impossibile da mantenere e la convivenza forzata crea una costante promiscuità fra tutti i presenti”. “Considerato, poi, che molti fra coloro che vivono il carcere sono liberi di uscire e di fare rientro alla loro vita ed ai loro affetti - direttori, direttrici, impiegati, medici, educatrici, avvocate e cappellani - l’aumento di contagi fra i detenuti finirà - spiegano Barbagallo, Guerriero e Leone - per ripercuotersi su di loro e inevitabilmente, per loro tramite, sulla comunità esterna”. “Siamo di fronte ad un imperativo fondamentale della nostra Costituzione che in linea con la Carta dei diritti Umani, attribuisce il diritto alla tutela della salute di tutti, anche quando si trovano momentaneamente privi della libertà personale per motivi di Giustizia. Sono già state ridotte al minimo le visite, sospese le attività di supporto e le attività lavorative dentro e fuori dal carcere, di fatto sono state ridotte tutte le dinamiche che - concludono - potevano favorire il rischio del contagio, proviamo adesso a dare quello che serve per proteggere tutti definitivamente dal contagio”. Piemonte. Il Garante dei detenuti: “Covid, nelle carceri situazione sotto controllo” atnews.it, 12 gennaio 2021 “La situazione attuale nelle carceri piemontesi è sotto controllo, con 12 detenuti, 32 agenti e 2 operatori positivi, ma in contesti chiusi con problemi di sovraffollamento è difficile rispettare le regole del distanziamento e il rischio di focolai è sempre presente”, ha spiegato il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Bruno Mellano, al gruppo di lavoro della IV Commissione sulla gestione dell’emergenza Covid presieduto da Daniele Valle, che si è riunito questa mattina per proseguire l’indagine conoscitiva che si concluderà nel mese di giugno. “Per questo - ha continuato Mellano - è stata importante la decisione di una presa in carico più diretta e condivisa del contesto penitenziario da parte dell’Unità di crisi, individuando nel referente dell’area giuridico amministrativa, Antonio Rinaudo, il soggetto di riferimento”. Dall’inizio della pandemia all’8 gennaio 2021 sono stati 277 i positivi al Covid 19, per lo più asintomatici, detenuti negli istituti penitenziari del Piemonte: i numeri più alti si sono registrati a Torino, Alessandria e Saluzzo, mentre alcuni istituti sono stati esenti dal contagio. Durante la prima ondata, con 4500 detenuti (dato di febbraio 2020, oggi sono 4200) per una capienza effettiva di 3700 posti sull’intero territorio regionale, le difficoltà a garantire le misure di distanziamento sociale e la carenza di dispositivi di protezione individuale, hanno determinato un alto rischio di contagio per la popolazione carceraria, in molti casi affetta da pluripatologie. Positivi in quella fase anche 200 agenti della polizia penitenziaria. Nella sua relazione Mellano ha sottolineato come la pandemia abbia fatto emergere con maggior evidenza l’esigenza di costruire un servizio organizzato di sanità penitenziaria, che necessita di investimenti di lungo periodo, con interventi di edilizia radicali e maggior raccordo tra le amministrazioni penitenziarie che gestiscono le strutture e le Asl, in capo alle quali è la gestione della sanità penitenziaria. Ci sono stati casi in cui la gestione dell’emergenza è avvenuta in sinergia, altri in cui le due amministrazioni hanno operato in autonomia l’una dall’altra, con risultati meno efficaci. Per contenere la diffusione del virus nella prima fase è stato rallentato l’ingresso di nuovi detenuti, incentivando dove possibile il ricorso agli arresti domiciliari e l’affidamento ai servizi. Anche nella gestione dei positivi, si è fatto ricorso nelle situazioni che lo consentivano a strutture non detentive o al differimento della pena ai fini della cura. Sui tamponi non c’è stato un orientamento uniforme da parte delle aziende sanitarie: l’Asl Cuneo1 ha effettuato oltre il 40 per cento di tutti i tamponi della regione (990), mentre Biella e Asti ne hanno fatti in numero esiguo. Inoltre, è stata sospesa l’attività di espulsione e rimpatri forzati del Centro di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) di corso Brunelleschi, ripresa negli ultimi mesi soltanto con la Tunisia, mentre per quanto riguarda le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), quella di Bra non ha avuto contagi, quella di San Maurizio è stata invece interamente positivizzata, con l’unico caso nazionale di decesso per Covid. Una serie di domande sono state poste dai commissari Francesca Frediani (Movimento 4 ottobre), Domenico Rossi (Pd), Marco Grimaldi (Luv), Alessandro Stecco (Lega) e dal presidente Valle. Lanciano (Aq). Covid in carcere, muore a 59 anni ispettore di Polizia penitenziaria Il Mattino, 12 gennaio 2021 “Una persona sempre disponibile, attaccato al suo lavoro, stimato, siamo costernati”. È sotto choc Giuseppe Merola, coordinatore Fp Cigl Abruzzo Molise, comparto sicurezza, nel parlare dell’ispettore di polizia penitenziara Michele De Cillis, 59 anni, morto oggi a causa del Covid-19. Pugliese di Trani, dove vive la moglie e i figli, De Cillis lavorava nella casa circondariale di Lanciano. “Quest’anno sarebbe andato in pensione”, dice Merola che ricorda “i focolai Covid nelle carceri di Sulmona e Lanciano dove si sono infettati 30 detenuti”. La notizia del decesso è arrivata in tarda serata dai segretari regionali delle organizzazioni sindacali di comparto (Sappe, Osapp, Uil Pa, Uspp, Fns Cisl e Fi Cgil) che esprimono vicinanza e cordoglio. “Una strage silenziosa ed amara - dicono i sindacalisti - che continua a piegare il nostro Paese e preoccupa tanto gli istituti penitenziari, vista l’escalation di contagi accertati all’interno delle carceri”. Il 4 gennaio i sindacati hanno indetto lo stato di agitazione, chiedendo “attività preventive per prevenire ulteriori contagi e considerato gli affanni organizzativi e logistici legati all’emergenza”. Vicenza. Emergenza Covid: scoppia focolaio tra i detenuti, 37 positivi e carcere chiuso di Matteo Bernardini Giornale di Vicenza, 12 gennaio 2021 Il carcere “Del Papa” di San Pio X, a Vicenza, è stato chiuso. La decisione è stata presa dopo avere trovato 37 detenuti positivi al Covid. “Si tratta di una questione di sicurezza”, ha confermato il direttore del penitenziario, Fabrizio Cacciabue. In pochi giorni i contagi all’interno della Casa circondariale sono saliti da 28 a 37. Forte preoccupazione è stata espressa dal sindacato degli agenti penitenziari. Da ieri mattina quindi gli arrestati non possono più essere trasferiti nel carcere di San Pio X, ma in uno degli altri rimasti aperti all’interno della regione, ovvero Verona, Padova o Rovigo. Dalle ultime rilevazioni del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (dati aggiornati alle 20 dell’8 gennaio scorso), a livello nazionale i detenuti positivi sono 537. La stragrande maggioranza degli attualmente positivi è costituita da asintomatici: sono 499, a fronte di 12 sintomatici curati nelle carceri. Altri 26 detenuti sono ricoverati in ospedale. A questi numeri si aggiungono i contagi tra la polizia penitenziaria (635 agenti positivi) e il personale amministrativo e dirigenziale (60 casi); in tutto i dipendenti ricoverati sono 13. Ivrea (To). La situazione del carcere rimane critica di Lorenzo Zaccagnini rossetorri.it, 12 gennaio 2021 Il quinto dossier sulle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi evidenzia tutte le carenze della struttura eporediese. Mozione di Comotto e interpellanza di Colosso alla giunta comunale. Con l’inizio dell’anno nuovo si torna a parlare di un vecchio problema: le pessime condizioni in cui versa il carcere di Ivrea. Nel prossimo consiglio comunale verrà discussa una mozione a firma del consigliere Francesco Comotto, nella quale si chiede al sindaco di denunciare attivamente le condizioni di disagio presenti all’interno della struttura e di aprire un canale di comunicazione tra l’Amministrazione comunale e quella penitenziaria, comprendente visite periodiche e incontri con operatori, volontari e responsabili della gestione. A questa si aggiunge un’interpellanza della consigliera Gabriella Colosso, che richiede un’audizione con la garante dei detenuti Paola Perinetto per relazionare sul lavoro svolto negli ultimi due anni ed evidenziare le criticità specifiche della struttura, rimasta per dieci giorni senza impianto di riscaldamento in pieno inverno. Non è la prima volta che il carcere eporediese balza agli onori della cronaca per faccende poco edificanti, a cominciare dai “presunti” pestaggi avvenuti tra il 2015 e il 2016: quattro inchieste aperte, di cui tre avocate dal Procuratore Generale Francesco Saluzzo perché “le indagini espletate dalla Procura della Repubblica di Ivrea appaiono sotto vari profili carenti”. In pratica venivano compiute dagli stessi indagati e per i reati il procuratore capo di Ivrea Giuseppe Ferrando aveva chiesto l’archiviazione. Rimane a Ivrea solo l’ultima inchiesta, quella riguardante i fatti del 25 e 26 ottobre 2016, quando una lettera del detenuto Matteo Palo venne pubblicata sul sito infoaut.org. Nella lettera si parlava di pestaggi e abusi e della presenza dell’”Acquario”, una cella liscia punitiva: una stanza priva di ogni cosa, compreso dove sedersi, con le finestre oscurate e priva di riscaldamento. Del detenuto uscito peggio da questi pestaggi si dirà che “è caduto dalle scale”, la più classica delle scuse nei casi di violenza domestica, ma i referti medici confermeranno quanto scritto nella lettera, e persino la cella “Acquario” verrà individuata nelle indagini successive. Il caso fece notevole scalpore, richiamando proteste e indignazione da parte di diverse realtà, pur senza la consapevolezza di quanto vicino fossimo andati ad un altro caso Cucchi. Ma i problemi del carcere di Ivrea non si limitano agli abusi di potere - Nella presentazione del quinto dossier sulle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi, la garante dei detenuti Perinetto evidenzia numerose carenze, soprattutto per quanto riguarda la struttura vecchia e mai ristrutturata; ogni anno si rompe il riscaldamento e quando piove di traverso entra l’acqua. Questo ambiente malsano facilita il presentarsi nei detenuti di sintomi influenzali e il conseguente isolamento anche per intere settimane a causa delle nuove normative dell’ASL per gestire la situazione Covid, la cui incidenza nel carcere di Ivrea pare restare fortunatamente sotto il 2%. L’impianto di videosorveglianza, richiesto dagli stessi detenuti per evitare il reiterarsi di casi di abuso, è completo solo a metà, primo e terzo piano, mentre è tuttora assente al secondo e al quarto. Non ci sono docce nelle celle nonostante la legge che le prevede sia del 2000 (in Piemonte solo a Fossano sono presenti). Il campo da calcio, uno dei pochi passatempi, diventa inutilizzabile in autunno e inverno. Anche il comparto rieducativo è carente, comprendente solo i corsi di alfabetizzazione e per conseguire la licenza Media, a cui possono peraltro accedere solo pochissimi detenuti. Il Centro Per l’Impiego di Ivrea ha organizzato un gruppo di nove insegnanti, ma mancano gli spazi per riuscire a organizzare lezioni con più sette studenti. Gli spazi, già carenti in tempi normali, sono oggi ancora più insufficienti in tempi di pandemia: la capienza è stimata a 194 persone, mentre all’interno vi sono 259 detenuti, una situazione che sarebbe già tragica senza la minaccia costante di un contagio. Tuttavia, mentre il sovraffollamento non viene ritenuto problematico, i colloqui con i parenti sono possibili solo attraverso il plexiglass separatorio: si cerca di supplire alla mancanza di contatti con tre telefonate alla settimana e quattro ore di videochiamata al mese. Quanto è ampio il problema? Nonostante la tragicità del quadro generale, sarebbe sbagliato credere che il problema riguardi solo il carcere eporediese nello specifico: la situazione è grave in tutta la Regione, ci sono 5 direttori su 13 carceri. A Ivrea da tre mesi ogni settimana arriva un direttore diverso, quello di turno non ha ritenuto di venire ad Ivrea neanche quando, nel novembre scorso, si è verificato un caso di suicidio. Anche il comandante delle guardie non è fisso e viene 2 volte alla settimana, per ora è quello di Verbania. La mancanza della dirigenza rende impossibile qualunque decisione, motivo per il quale l’edificio non viene adeguatamente ristrutturato e i problemi si accumulano. Il sottosegretario al ministero della giustizia Andrea Giorgis parla di 150 milioni destinati alle carceri italiane, ma senza direttori nessuno potrà usarli e sembra che i test per accedere ai nuovi concorsi siano stati annullati. A livello centrale pare insomma mancare la volontà di migliorare qualcosa. Volendo ampliare ulteriormente lo sguardo, la situazione risulta anche più tragica: a marzo dell’anno passato, nelle carceri italiane hanno avuto luogo oltre 30 rivolte, definite le più grandi dal dopoguerra. Il risultato di queste rivolte è di 14 morti attribuite all’overdose di farmaci sottratti duranti gli assalti alle farmacie, 4 delle quali durante il trasferimento in altre città (trasferimento che non può avvenire senza l’approvazione di un medico). Decine di denunce di ritorsioni violente dopo le rivolte. Cinquantasette agenti accusati di pestaggi e torture solo al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Centinaia di processi per le sommosse, accuse di devastazione e saccheggio. Rivolte nate per paura del contagio, in un posto dove l’unica fonte di informazione sul mondo esterno è la televisione (quando c’è), e in cui la possibilità di ricevere visite è stata troncata senza maggiori spiegazioni. Tutto questo insieme all’impossibilità di rispettare quelle misure di sicurezza tanto sbandierate in quei giorni di marzo da ogni programma TV: come si rispetta il distanziamento se si è in sette in una cella pensata per tre persone? Il tentativo di decongestionare l’affollamento grazie a misure detentive alternative, progetto attuato in Francia, in Danimarca e in parte in Spagna, non verrà attuato in Italia a causa della narrazione tossica dei media secondo cui si stavano facendo uscire 376 boss mafiosi dal carcere usando il Covid come pretesto, narrazione che ha immediatamente infiammato l’anima giustizial-populista del paese. Nella realtà dei fatti però, la maggior parte di essi erano detenuti per reati di piccolo/medio calibro o si trovava ancora sotto processo, mentre solo tre di loro si trovavano realmente in regime di 41bis. La scarcerazione di questi ultimi, avvenuta per motivi diversi dalle misure di prevenzione del contagio, verrà usata in malafede da chi sa che la parola “mafia” chiude qualsiasi discorso sui diritti (si pensi allo stesso 41bis, criticato pesantemente dalla stessa UE ma su cui non è possibile nemmeno muovere critiche senza passare per simpatizzante delle cosche). Nel gioco pubblico della politica, il carcere non è un tema che porti voti, anzi è considerato una specie di suicidio elettorale: così anche le rivolte di marzo sono finite in fretta nel dimenticatoio, e come sempre in questi casi l’unica voce a cui si dà ascolto proviene dall’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria) che si lamenta della mancanza di personale e delle condizioni di lavoro pessime. Ciò è anche vero, ma mai quanto lo è per la parte rieducativa del carcere: medici, psicologi, volontari sono perennemente sotto organico, sottoposti a stress e a turni massacranti. Un problema enorme per una piccola giunta - I problemi del carcere di Ivrea sono molti e complessi, con radici troppo profonde per pretendere una miracolosa risoluzione dalla piccola giunta eporediese. Sarà tuttavia interessante vedere quale sarà la risposta della maggioranza al prossimo consiglio comunale: il tema del carcere non è certo uno dei temi centrali della Lega, attuale forza motrice della giunta eporediese, che anzi si distingue per il suo reazionarismo da operetta, acritico della divisa e feticista del manganello. Ma sarebbe un bel modo di cominciare l’anno nuovo vedere la giunta che governa la città affrontare un problema (o almeno riconoscerne l’esistenza) senza rifugiarsi in soluzioni facilone e repressive. O dobbiamo aspettarci che anche quest’anno il problema del carcere finisca dimenticato, magari seppellito da frasi di circostanza, luoghi comuni e da una presa di posizione del sindaco “solo a livello personale”? Confidando nel fatto che il 2021 porti nuove prospettive anche a chi amministra la città, attendiamo il consiglio comunale, consapevoli che anche un completo cambio di direzione gestionale non sarà mai efficace quanto il nascere di una nuova sensibilizzazione cittadina, base necessaria perché il carcere diventi qualcosa di diverso da quello che è oggi. Alba (Cn). A 5 anni dall’epidemia di legionella il carcere aspetta ancora il risanamento di Cristina Borgogno La Stampa, 12 gennaio 2021 A 5 anni dall’epidemia di legionella il carcere di Alba aspetta ancora il risanamento. I lavori da 4,5 milioni dovevano iniziare nel 2020, ma è stato pubblicato solo il bando. Malgrado un’unica parte aperta l’istituto è il più sovraffollato in regione. Cinque anni dopo lo sgombero per legionella, procede a passo di lumaca l’iter per restituire ad Alba il carcere “Giuseppe Montalto”. Se la scorsa estate, in uno slancio di ottimismo, il Governo aveva promesso la pubblicazione del bando e l’aggiudicazione dei lavori a settembre con apertura del cantiere entro il 2020, oggi forse il cronoprogramma andrebbe di nuovo e per l’ennesima volta aggiornato. Bandita effettivamente la gara (le offerte scadevano il 20 settembre), al momento risultano nove le imprese ammesse da tutta Italia (di cui nessuna piemontese), tutte candidate ad aggiudicarsi l’intervento di ristrutturazione per un importo complessivo di 4 milioni e 586 mila euro. Nel frattempo, l’istituto di località Toppino conferma il suo triste primato di carcere più affollato della regione, con 48 detenuti in spazi (quelli della sezione ex collaboratori di giustizia) che ne dovrebbero ospitare al massimo 33, e dunque un tasso di affollamento del 145,5% registrato il 30 dicembre. “È di assoluta priorità che i lavori partano entro metà 2021, ma non si hanno notizie” dice il garante comunale dei detenuti, Alessandro Prandi, che ha riportato dati e dettagli della situazione albese nel dossier sulle criticità del sistema penitenziario piemontese promosso dal garante regionale Bruno Mellano e il coordinamento garanti del Piemonte. “Analizzando il progetto esecutivo allegato al bando e mettendo in fila le varie scadenze - spiega Prandi - è presumibile che a far data dal conferimento dell’incarico ci vorranno, nella più ottimistica delle ipotesi, non meno di due anni per avere il carcere nella sua piena operatività”. Senza contare che la perizia fatta poco dopo la chiusura non tiene conto di cinque anni di quasi totale abbandono della struttura, umidità, sbalzi termici e mancati interventi di manutenzione, con impianti particolarmente degradati e fatiscenti. Queste le condizioni che l’amministrazione comunale aveva riscontrato durante il sopralluogo fatto prima del lockdown di marzo. Al problema del sovraffollamento si è aggiunta la pandemia. Prandi ha inoltrato alcune proposte per l’ottimizzazione di altri spazi interni all’istituto. “Le prescrizioni del Prap per il contenimento del virus hanno indotto la direzione del carcere albese a sospendere i permessi che consentono ai beneficiari di prestare un lavoro o usufruire di “tempo libero” all’esterno con rientro al termine della giornata. Un diritto violato da parte dell’amministrazione penitenziaria, che riguarda due persone, rendendo vano ogni tentativo di attivare percorsi di pena alternativi”. Monza. Agenti di Polizia penitenziaria “prigionieri” del Covid di Marco Galvani Il Giorno, 12 gennaio 2021 Nel carcere di Monza sono tantissimi i detenuti positivi e il restante è in quarantena. Emergenza Covid in carcere, gli agenti chiedono rinforzi e più sicurezza. “I contagi tra gli agenti continuano e per chi rimane in servizio i turni stanno diventando massacranti. Il livello di stress psicologico è altissimo e non sappiamo quanto il sistema potrà reggere”. A denunciare la situazione all’interno della Casa circondariale di Monza è Domenico Benemia, segretario della Uil-Pa penitenziaria: “Il clima è ogni giorno peggiore e per questo è necessario rivedere l’utilizzo degli uomini a disposizione”. Il sindacalista punta il dito innanzitutto contro il “personale assegnato alle cariche fisse”, impiegato ad esempio negli uffici, che “non partecipa a sostenere i turni nei reparti detentivi” e addirittura “continua a usufruire nella maggior parte dei casi della settimana compattata”, cioè lavorano dal lunedì al venerdì e nel fine settimana sono a casa. Mentre gli agenti assegnati alle sezioni che ospitano i detenuti devono garantire una copertura 24 ore su 24, 7 giorni su 7, ma allo stesso tempo si ritrovano a fare i conti con un alto numero di assenze per malattia, soprattutto a causa del Covid. C’è chi è stato contagiato, chi è a casa in quarantena, sta di fatto che “chi rimane si trova costretto a fare molte ore di straordinario e anche a saltare i giorni di riposo”, denuncia Benemia. Per questo il sindacalista ha scritto al direttore del carcere di via Sanquirico, Maria Pitaniello, e al provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Pietro Buffa, rivolgendo loro un appello per intervenire a sostegno dei circa 350 agenti di Monza. Mediamente sarebbero una cinquantina gli agenti assenti, in un istituto che conta 600 detenuti. Oggi metà delle sezioni detentive “vedono la presenza della grandissima parte dei detenuti positivi al Covid, e la restante parte, non positiva, è in quarantena”. In questo scenario, mette in evidenza il sindacalista, “il personale, bardato di tutto punto, essendo ridotto nel numero è costretto a uscire dalle sezioni anche per le più elementari necessità senza alcuna tutela o sanificazione, rischiando così di contaminare anche gli ambienti comuni che precedono le sezioni”. Il risultato è una “evidente sofferenza del personale che sta raggiungendo il limite di saturazione”. Per questo “occorre rivedere le reali priorità all’interno del carcere e serrare i ranghi per fronteggiare e superare questa emergenza limitando al minimo i rischi. Per tutti”. Torino. Tre agenti di Polizia penitenziaria a processo per il suicidio di un detenuto torinoggi.it, 12 gennaio 2021 L’accusa nei loro confronti è di omicidio colposo. Non avrebbero infatti vigilato nonostante fosse stata disposta la sorveglianza 24 ore su 24. La Procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio per tre agenti della polizia penitenziaria accusati di omicidio colposo per il suicidio nel carcere “Lorusso e Cutugno” di un detenuto, Roberto Del Gaudio, 65 anni, avvenuto il 10 novembre 2019. Secondo i pm Francesco Pelosi e Giulia Marchetti, come riporta l’Ansa, gli agenti non avrebbero controllato il detenuto per cui era stata disposta la sorveglianza 24 ore su 24 per evitare proprio che si togliesse la vita, dopo che aveva assassinato la moglie. Invece gli agenti non videro quei venti minuti in cui l’uomo tentava, riuscendoci infine, d’impiccarsi con i pantaloni del pigiama ad una finestra. Gli agenti sono anche accusati di falso in atto pubblico: avevano sostenuto che si era rotto il monitor cadendo da una staffa che aveva ceduto. Per l’accusa il danneggiamento avvenne invece in un secondo momento per giustificare la mancata sorveglianza. Crotone. “Detenuti al lavoro per la comunità”, la proposta di 3 consiglieri comunali lacnews24.it, 12 gennaio 2021 Il Garante dei detenuti ha già presentato il progetto al sindaco: “La spesa sarebbe irrisoria ma avrebbe grande impatto sociale”. Consentire ai detenuti che ne abbiano titolo di poter svolgere lavori di pubblica utilità alle dipendenze del Comune di Crotone. È la richiesta avanzata dai consiglieri comunali Fabrizio Meo, Andrea De Vona, Antonella Passalacqua all’amministrazione comunale guidata dal sindaco Vincenzo Voce. La proposta - I quattro esponenti politici si augurano “che il nuovo anno possa vedere un rinnovato impegno di solidarietà della città anche rivolto a chi sta espiando il proprio debito con la società nel carcere cittadino” e spiegano di rivolgere “quest’appello comune, al di là di ogni differenze ideologica e di schieramento, facendo seguito ad una concreta iniziativa messa in campo su sollecitazione del garante dei detenuti l’avv. Federico Ferraro e ad interlocuzioni intercorse tanto con il sindaco che con gli assessori preposti del Comune di Crotone”. Costi irrisori ma grande impatto sociale - I consiglieri comunali ricordano che l’avvio di iniziative del genere “è avvenuto anche di recente in altre realtà carcerarie che hanno realizzato progetti che consentono l’utilizzo di detenuti per lavori di pubblica utilità e specificatamente per la cura del verde pubblico”. “L’impiego di alcuni dei detenuti del nostro carcere - scrivono i consiglieri - avrebbe peraltro un costo irrisorio, essendo, la spesa, limitata alle necessarie assicurazioni sociali, ma rivestirebbe un’importanza ed un impatto sociale non secondario, addirittura vitale per chi oggi è recluso nella locale struttura carceraria ed ha come prospettiva quella di scontare la pena nell’inattività e nell’isolamento aggravato dall’emergenza Covid”. Progetti già presentati al sindaco - Passalacqua, Cavallo, De Vona e Meo spiegano che “la progettualità è stata presentata al sindaco già all’indomani del suo insediamento dal Garante dei detenuti e quindi abbiamo avuto modo di perorarla anche nel corso dell’audizione dell’assessore con la delega al verde pubblico nella seduta della preposta V commissione consiliare, presieduta dal Consigliere Salvatore Riga. Siamo perciò convinti che questo importante obiettivo potrà realizzarsi da qui a breve, stante la sua certa fattibilità che sarà ulteriormente oggetto di monitoraggio nella V commissione consiliare e con esso potremo concretamente contribuire a che la finalità di recupero che è propria della pena possa realizzarsi con maggiore umanità ed efficacia. A questo che è un passo importante, verso una realtà che è parte della nostra Collettività, ne seguiranno altri, altre iniziative e progetti già in corso e che speriamo di poter realizzare come consiglieri in sinergia con l’associazionismo cittadino al quale ci rivolgiamo e che ha già dimostrato sensibilità e concretezza”. Genova. Il Celivo organizza il corso “Il volontariato nell’ambito della giustizia penale” lavocedigenova.it, 12 gennaio 2021 Un percorso online in 10 incontri aperto a tutt’Italia, dedicato alla formazione dei volontari attivi o aspiranti e alla cittadinanza. Dieci temi affrontati attraverso l’esperienza diretta delle Associazioni di Volontariato e degli enti del terzo settore attivi sul territorio ligure. Le attuali misure di sicurezza anti Covid-19 hanno impattato in modo negativo sulle azioni di volontariato condotte entro le case circondariali, a causa degli ingressi ridotti al minimo, con la conseguente riduzione talvolta drastica delle attività. Tuttavia, le Odv e gli Ets impegnati in questo settore sono rimasti efficienti e hanno deciso di approfittare di questo momento per investire sui volontari attuali e futuri dedicando loro un momento formativo trasversale, strutturato e approfondito che possa costituire un bagaglio di competenze grazie all’esperienza di chi opera da anni in questo ambito. In attesa quindi di riprendere le attività nelle consuete forme e frequenze, la Rete Tematica Carcere - un gruppo di associazioni operative nelle case di detenzione genovesi - coordinata dal Centro di Servizio al Volontariato di Genova ha organizzato un corso finalizzato ad acquisire gli elementi basilari della normativa carceraria, l’iter dell’esecuzione penale, l’organizzazione penitenziaria, gli aspetti fondamentali di tutela al detenuto nel suo cammino di rieducazione e riparazione. Nel 2018 la Rete aveva già organizzato a Genova una giornata formativa dedicata a volontari e aspiranti per sviluppare e approfondire il senso di consapevolezza della propria funzione, delle responsabilità e dei limiti nell’interazione con i soggetti coinvolti nei procedimenti penali. Questa volta il percorso formativo abbraccia più temi e li approfondisce, trattandoli sia da un punto di vista tecnico e teorico, sia da un punto di vista esperienziale grazie alle testimonianze di persone direttamente coinvolte nelle relazioni di aiuto nei penitenziari liguri. Ecco per esempio un estratto dell’intervento di Ornella Favero, presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, relatrice nel primo modulo “Il senso della pena”: “Un giovane detenuto, dopo anni di carcere vissuti in istituti diversi con continui trasferimenti dovuti al fatto che non accettava la carcerazione passata ad “ammazzare il tempo”, arrivato a Padova, in un carcere dove per lo meno c’erano alcune attività “sensate”, aveva suddiviso la sua vita detentiva in due parti: la pena rabbiosa e la pena riflessiva. Io credo che sia una definizione perfetta: c’è un modo di scontare la pena che rovescia la situazione e fa sentire chi ha commesso un reato vittima di un sistema che, tra l’altro, non rispetta la Costituzione, e poi c’è un modo che ti fa riflettere, ti fa incontrare con chi ha subito un reato, ti fa confrontare con la società, ti fa rispondere alle domande severe di giovani studenti, coinvolti in importanti progetti di educazione alla legalità proprio con le carceri. È così che si comincia a cambiare, e che la pena comincia ad avere un po’ di senso”. Dal generale al particolare, il programma tocca una grande quantità di argomenti e di “categorie” di persone: uomini e donne, giovani, stranieri, affetti da malattie e/o da dipendenze, senza dimenticare la famiglia, i sentimenti e le affezioni. I dieci incontri sono previsti on line ogni martedì dalle 17:30 alle 19:00 a partire dal 26 gennaio. 26 gennaio - IL SENSO DELLA PENA Inquadramento teorico, finalità educativa. 2 febbraio - ESECUZIONE PENALE INTERNA Il mondo del carcere: cosa è, come ci si entra, la connessione tra “dentro e fuori”. La voce dell’amministrazione penitenziaria. 9 febbraio - ESECUZIONE PENALE ESTERNA Le alternative alla detenzione e le misure di comunità spiegate con l’Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna (Udepe). 16 febbraio - GIUSTIZIA RIPARATIVA Inquadramento teorico, esempi e testimonianze. 23 febbraio - LA COMUNITÁ E LA PENA. ESPERIENZE DI VOLONTARIATO E PROGETTI IN CARCERE / FUORI DAL CARCERE Panoramica su alcune realtà attive nelle case circondariali di Marassi e Pontedecimo con testimonianze dirette di operatori e volontari. 2 marzo - LA PENA AL FEMMINILE Interventi e testimonianze dirette delle associazioni e delle persone in carcere. 9 marzo - LA PENA DEI GIOVANI Specificità dell’intervento con i giovani attraverso l’esperienza dell’Ufficio Servizio Sociale Minorenni (Ussm) e Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna (Udepe). 16 marzo - LA PENA E LA CURA Specificità dell’intervento con persone alcol-tossicodipendenti o affetti da patologia psichiatrica. 23 marzo - LA PENA DELLO STRANIERO Aspetti (inter)culturali dell’esecuzione penale. 30 marzo - AFFETTI E LA GENITORIALITÁ Esperienze progettuali a sostegno della genitorialità e testimonianze da parte di famiglie e/o ex detenuti. Gli appuntamenti avverranno su piattaforma Zoom Pro, saranno registrati e disponibili anche per una visione successiva attraverso l’area riservata del sito del Celivo. La presentazione su “Celivo Live” in diretta su Facebook. Mercoledì 13 gennaio alle ore 16 entro la rubrica “Celivo Live” in diretta su Facebook si parlerà del corso con due volontari della Rete Tematica Carcere e l’operatore del Celivo che coordina la Rete Diego Longinotti. Il seminario è ad accesso gratuito con iscrizione on-line obbligatoria; la prima iscrizione è valida per tutti gli appuntamenti. Sono invitati a partecipare i volontari attivi, gli aspiranti e la cittadinanza interessata. Al termine del corso, agli aspiranti volontari che lo desiderano, verrà proposto un colloquio di orientamento individuale con gli operatori del Celivo, per valutare la possibilità di inserimento presso un’associazione, quando i tempi della pandemia lo consentiranno. “Il volontariato in carcere svolge un’importante funzione di sostegno ai detenuti, affiancandoli sia nelle attività inframurarie, sia nei processi di collegamento col mondo esterno - afferma Diego Longinotti, coordinatore della Rete Tematica Carcere - Un ruolo complesso e delicato che necessita di adeguata preparazione e consapevolezza da parte delle persone che mettono a disposizione il proprio tempo. In questa fase di ulteriore complessità dettata dall’emergenza sanitaria, con gli ingressi in carcere ridotti al minimo dalle restrizioni anti-contagio, le associazioni hanno deciso di unire le forze e di investire in una formazione trasversale, con l’obiettivo di offrire un adeguato bagaglio di competenze a tutti i volontari attivi e agli aspiranti tali, a prescindere dal servizio che eserciteranno fra le mura. Una sorta di “mossa in anticipo” in vista della ripresa delle attività ordinarie, che ci auguriamo avvenga il più presto possibile”. Bologna. Voto unanime in aula, Patrick Zaki diventa cittadino onorario di Luca Muleo Corriere di Bologna, 12 gennaio 2021 “È un nostro concittadino, deve essere liberato e tornare ai suoi studi a Bologna”. Nelle parole del sindaco Virginio Merola c’è il valore simbolico e anche sostanziale della delibera votata all’unanimità dal Consiglio comunale, con cui Patrick Zaki è diventato cittadino onorario. Quasi un anno dopo il suo arresto la comunità che l’aveva accolto come studente, e non ha mai smesso di chiederne la liberazione, lo fa con ancora maggior forza dopo la decisione unanime del Consiglio. “È un nostro concittadino, deve essere liberato e tornare ai suoi studi a Bologna”. Nelle parole del sindaco Virginio Merola c’è il valore simbolico e anche sostanziale della delibera votata ieri all’unanimità dal Consiglio comunale, con cui Patrick Zaki è diventato cittadino onorario. Quasi un anno dopo il suo arresto la comunità che l’aveva accolto come studente, e non ha mai smesso di chiederne la liberazione, lo fa con ancora maggior forza dopo la decisione del Consiglio, figlia di “un sentimento che in tanti sentiamo da tempo. Il rispetto dei diritti umani non può essere soggetto a confini nazionali” ha detto Merola prima della votazione in aula, parlando di “detenzione ingiusta” ed esprimendo preoccupazione per lo stato psico-fisico dello studente egiziano, ancora in carcere al Il Cairo. Il sindaco ha ringraziato l’assemblea di palazzo d’Accursio “per tenere alta la tradizione di questa città” e ha annunciato l’invio della delibera a parlamentari e Governo. Dalla commissione diritti umani del Senato è arrivata la proposta di Michela Montevecchi, senatrice bolognese del M5S, di istituire un osservatorio permanente per “monitorare costantemente le condizioni processuali e di salute di Patrick e adottare iniziative come le audizioni a livello internazionale”. Il legame di Zaki con Bologna e la sua Università è stato ribadito dal rettore Francesco Ubertini, secondo cui “la scelta ha un valore simbolico straordinariamente rilevante, perché è la città dell’Ateneo che Patrick stava frequentando prima di essere arrestato”. Ubertini rivendica per il 29enne “la possibilità di tornare a una vita libera, riappropriarsi del diritto inalienabile allo studio”. Ma la cittadinanza “assumerebbe ancora più valenza politica se altre amministrazioni emulassero tale iniziativa” è la via auspicata dalle Sardine, che invitano tutti a “un’azione di mobilitazione”. “Esempio da seguire” per altre amministrazioni è convinzione anche dell’assessore comunale al lavoro Marco Lombardo. “Cittadino onorario perché non intendiamo arrenderci e non lo lasceremo solo” assicura l’assessore alla cultura Matteo Lepore. Dalla Regione è la presidente dell’assemblea legislativa, Emma Petitti, a parlare di “forte segnale di solidarietà verso chi, come lui, si batte per i diritti umani”. “Un grande abbraccio e l’energia più sincera del nostro Consiglio comunale”, lo ha inviato il vicepresidente Marco Piazza, dopo aver proclamato l’approvazione con il voto compatto di tutte le forze politiche con cui da ieri Zaki è diventato bolognese a tutti gli effetti. Ora tutti lo aspettano, finalmente libero, per la cerimonia ufficiale. Ferrara. Il laboratorio di Teatro Nucleo: “Album di famiglia” di Massimo Marino Corriere di Bologna, 12 gennaio 2021 Amleto in carcere diventa web serie. Uno spettacolo con i detenuti di una Casa circondariale diventa una web serie. Succede ad Affari di famiglia di Teatro Nucleo, che da giovedì 14 ogni settimana si vedrà online alle 18 sulla pagina Facebook della compagnia e su quella del Coordinamento teatro carcere Emilia-Romagna. Teatro Nucleo lavora da 16 anni nel carcere “C. Satta” di Ferrara, portando spesso gli spettacoli creati sul palcoscenico del teatro Comunale. Anche quest’anno, in aprile, avrebbe dovuto debuttare un nuovo lavoro ispirato all’Amleto, nell’ambito del progetto “Padri e figli” del Coordinamento regionale. La pandemia ha chiuso i teatri e anche il carcere è diventato impraticabile. “Ci hanno chiesto per la prima volta di tornare a lavorare con i detenuti d’estate: non era mai successo, perché il personale di sorveglianza in quel periodo va in ferie. Noi abbiamo accettato, consapevoli dell’importanza di un laboratorio frequentato da 35 persone di diversa nazionalità, il 10% della popolazione carceraria”, ci racconta Horacio Czertok, fondatore della compagnia da una costola della storica Comuna Baires, gruppo argentino rifugiatosi in Italia negli anni 70 dopo il golpe dei generali. La strada, il carcere e altri luoghi di esclusione sono stati i palcoscenici di questo gruppo, che organizza a Pontelagoscuro la stagione “Le magnifiche utopie”. Continua: “Potevamo lavorare ogni volta solo con piccoli gruppi di detenuti, per circa un’ora e mezza. Poi anche in autunno i teatri sono stati chiusi. Allora abbiamo pensato di portare fuori il lavoro in video…”. La parola passa a Marco Luciano, regista e drammaturgo: “Avevamo iniziato a riprendere in video le prove per documentazione. Ci siamo accorti che l’idea di filmare suscitava interesse e poteva diventare un modo per fare uscire il lavoro. Già pensavamo di creare una specie di album fotografico dei personaggi dell’Amleto, anche seguendo le riscritture di Laforgue e di Heiner Müller”. Hanno adattato l’idea al video, creando dieci episodi. “Ognuno di essi, della durata di quattro minuti, è uno squarcio su un personaggio, a partire dal conflitto padre-figlio, dal gravoso compito della vendetta che lo spettro assegna ad Amleto. Iniziamo a metterli online giovedì con un monologo dal “Macbeth”. Nel secondo episodio gli attori litigano per accaparrarsi la parte del protagonista, nel terzo re Claudio narra la storia e così via”. L’idea è piaciuta: “Abbiamo assegnato compiti da svolgere durante la settimana per ottimizzare il tempo: i detenuti sono arrivati con idee per allestire i set e soluzioni drammaturgiche; da ogni incontro siamo usciti con una clip pronta. La colonna sonora, scelta dal moldavo di origine rom Nicolae Roset, echeggia la lontananza, la nostalgia della famiglia. Nel video i detenuti hanno visto uno strumento per mettersi in contatto con l’esterno, con i parenti, con la società, con un film che diventa una riflessione esistenziale sul perdono, un sentimento che permette la trasformazione: perdonando si impara a perdonarsi”. Catanzaro. Le stelle dell’Ail piantate al carcere di Catanzaro lameziaoggi.it, 12 gennaio 2021 La solidarietà può crescere anche nelle aiuole del carcere di Catanzaro. È questo lo spirito dell’iniziativa “Adotta un’aiuola”, ormai una tradizione presso l’istituto penitenziario Ugo Caridi, portata avanti anche al termine di un anno davvero difficile, il 2020, in collaborazione con l’associazione Universo Minori. Le stelle di Natale dell’Ail, associazione italiana contro leucemie, linfomi e mieloma vengono piantate nelle aiuole del carcere di Catanzaro ancora una volta. “Per anni, mentre venivano vendute a scopo solidale nelle piazze di tutta Italia, le stelle di Natale Ail hanno portato anche in carcere un messaggio di solidarietà” spiega la direttrice dell’istituto di Siano Angela Paravati, precisando: “Durante l’emergenza epidemiologica l’idea di “prossimità sociale” non si è fermata. Così come l’Ail sta distribuendo in tutta Italia le piantine solidali, anche a distanza, viste le restrizioni alla circolazione, allo stesso modo l’impossibilità per i volontari di accedere alla Casa Circondariale, a tutela della salute dei ristretti, non ha fermato i percorsi iniziati insieme. Tra le varie realtà di volontariato che collaborano da molti anni, l’associazione Universo Minori ha sempre sensibilizzato i detenuti all’attenzione verso il prossimo. Questa iniziativa si propone ancora una volta di far comprendere, nell’ambito del trattamento rieducativo, l’importanza di essere vicini a chi sta male”. Un’iniziativa nazionale che ha poi un’origine tutta calabrese: era il 1989 quando a Reggio Calabria furono vendute le prime 500 Stelle di Natale per acquistare dei macchinari necessari all’ematologia locale. L’idea fu apprezzata e pochi anni dopo scesero in piazza anche le altre sezioni Ail. Trent’anni dopo l’attenzione per i pazienti ematologici continua. La presidente dell’associazione Universo Minori Rita Tulelli si è soffermata sull’evoluzione della manifestazione: “La raccolta fondi tramite la distribuzione delle stelle di Natale dell’Ail avviene ora non solo distribuendo le piantine nelle private abitazioni, ma anche nelle aiuole degli spazi adiacenti agli edifici pubblici attraverso l’iniziativa “Adotta un’aiuola”.” E far arrivare questo messaggio al carcere di Catanzaro vuol dire raggiungere quello che può sembrare “un quartiere chiuso” alla comunità esterna, ma che è in realtà, vista la finalità rieducativa della pena, è un laboratorio di cambiamento nel modo di agire, di sentire, di pensare. Di essere. Così l’Italia deciderà chi curare prima: polemiche sul nuovo piano pandemico di Grazia Longo La Stampa, 12 gennaio 2021 La bozza del ministero della Salute: se le risorse sono scarse, privilegiare i pazienti che traggono più beneficio. Meglio tardi che mai. È finalmente pronta la bozza del nuovo piano pandemico 2021-2023 che, sulla scorta dell’emergenza coronavirus sostituirà il piano influenzale datato 2006, poi aggiornato, ma di fatto rimasto identico rispetto alla sua formulazione originaria. E già non mancano le polemiche, soprattutto per la possibilità di privilegiare chi curare. Tra le novità della bozza del nuovo piano strategico, che verrà poi sottoposta alle Regioni, ci sono la necessità di produrre velocemente mascherine e dispositivi di protezione individuale a livello nazionale sia per medici e infermieri sia per i cittadini, la possibilità di realizzare in tempi brevi nuovi posti letto in terapia intensiva, l’esigenza di scorte nazionali di farmaci antivirali e di una formazione continua degli operatori sanitari. Il testo della bozza, elaborato dal ministero della Salute, prevede inoltre esercitazioni, definizione della catena di comando e azioni di monitoraggio dell’attuazione. Preziose saranno un’anagrafe vaccinale nazionale, la predisposizione di piattaforme informatiche per il monitoraggio sei servizi sanitaria, una comunicazione costante tra le varie autorità. Viene poi ribadito che è possibile scegliere chi curare per prima nel caso in cui mancano le risorse. “Quando la scarsità rende le risorse insufficienti rispetto alle necessità - si legge nel testo -, i principi di etica possono consentire di allocare risorse scarse in modo da fornire trattamenti necessari preferenzialmente a quei pazienti che hanno maggiori possibilità di trarne beneficio”. Si precisa tuttavia che “non è consentito agire violando gli standard dell’etica e della deontologia ma può essere necessario per esempio privilegiare il principio di beneficialità rispetto all’autonomia, cui si attribuisce particolare importanza nella medicina clinica in condizioni ordinarie. Condizione necessaria affinché il diverso bilanciamento tra i valori nelle varie circostanze sia eticamente accettabile è mantenere la centralità della persona”. Nel documento, si sottolinea anche che “la preparazione a una pandemia influenzale è un processo continuo di pianificazione, esercitazioni, revisioni e traduzioni in azioni nazionali e regionali, dei piani di risposta. Un piano pandemico è quindi un documento dinamico che viene implementato anche attraverso documenti, circolari, rapporti tecnici”. Il dilagare del Covid “conferma l’imprevedibilità di tali fenomeni e che bisogna essere il più preparati possibile ad attuare tutte le misure per contenerli sul piano locale, nazionale e globale”. Per questo è necessario disporre di “sistemi di preparazione che si basino su alcuni elementi comuni rispetto ai quali garantire la presenza diffusamente nel Paese ed altri più flessibili da modellare in funzione della specificità del patogeno che possa emergere”. Il piano pandemico dovrà pure definire le procedure per i trasferimenti e trasporti di emergenza, oltre al monitoraggio centralizzato dei posti letto e la distribuzione centralizzata dei pazienti. Riferendosi quindi ai piani regionali, nella bozza si osserva che questi “devono essere attuati dopo 120 giorni dall’approvazione del Piano nazionale e ogni anno va redatto lo stato di attuazione”. Tra le 140 pagine della bozza, stilata dal Dipartimento Prevenzione del ministero, è più volte rimarcata la necessità di una “formazione continua finalizzata al controllo delle infezioni respiratorie e non solo, in ambito ospedaliero e comunitario” con un’attiva collaborazione tra livello nazionale e servizi sanitari regionali. Una generazione interrotta: chi pensa ai nostri ragazzi? di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 12 gennaio 2021 Nella pandemia i giovani sono esposti a disagi psicologici insidiosi a causa della riduzione di scambio sociale, relazioni consumate dal vivo, apprendimento in gruppo. Grande è la confusione nella testa di ogni italiano con la testa. Di che colore sono oggi? Che cosa posso fare e che cosa non dovrei fare? E le prossime misure le deciderà un Conte ter, un Conte bis rimpastato, o il responsabile a tempo di un piano B quale che sia? Il contraccolpo per le malriposte speranze di un’uscita imminente dal tunnel di virus è, se possibile, aggravato dalla maldestra gestione di una crisi politica ormai conclamata. Al di là delle ragioni, alcune nobili e altre meno, che hanno portato la situazione al punto di rottura quale pare che sia, il messaggio di instabilità arriva a un Paese disorientato, e a un’Europa allibita, nel momento meno adatto. Non siamo ancora pronti con un piano condiviso e credibile per avere accesso all’ossigeno vitale rappresentato dal Recovery fund. Dopo la dilazione imposta dalla pandemia, una diga artificiale non più sostenibile, sono in arrivo sia 50 milioni di cartelle fiscali sia la fine del blocco dei licenziamenti (31 marzo), con l’inevitabile corredo di una valanga di fallimenti e di un numero non gestibile di disoccupati. Ma soprattutto, origine e apice dello sconquasso prossimo venturo, la coda della seconda ondata del coronavirus starebbe, secondo gli esperti, saldandosi con l’inizio di un probabile terzo assalto, che scombinerà la tavolozza a mosaico dei colori, imponendo il rosso come dominante. Da noi, ma non solo da noi. Ci avviamo inesorabilmente verso i 100 milioni di casi nel mondo, con 2 milioni di morti assolutamente imprevedibili appena un anno fa, quando le mascherine le mettevano i bambini a Carnevale o i chirurghi in sala operatoria, quando le persone si davano la mano e addirittura si abbracciavano anche solo come gesto di cordialità, e darsi di gomito aveva tutt’altro significato. Appena un anno fa, anche meno. Ci sono date che scandiscono il cambio di fuso della Storia. Il 9 gennaio 2007, Steve Jobs presenta il primo iPhone, sconvolgendo da lì e per sempre il nostro modo di comunicare. Il 7 gennaio 2019, la Cina identifica ufficialmente il nuovo virus sbarcato a Wuhan, primo nome “2019-nCoV”, scardinando da lì e per chissà quanto ancora il nostro modo di vivere. Vale per la Gran Bretagna, con un londinese su 30 che potrebbe essere già infetto da una variante molto aggressiva del virus, come per la Germania, incapace nonostante la Merkel di contenere l’invasione; vale per il Brasile, che ha superato le 200 mila vittime e ne aggiunge 2 mila al giorno, come per gli Stati Uniti, e sarà la prima emergenza per il nuovo presidente Biden, chiamato a porre rimedio alla sciagurata scelta negazionista del suo predecessore. Poi c’è l’Italia, con il record mondiale di morti rispetto alla popolazione, e una situazione, stando all’Istituto superiore di Sanità, “in preoccupante peggioramento”. La verità è che ci siamo illusi, abbiamo sperato, abbiamo fatto finta di credere che dal primo gennaio avremmo svoltato per diritto di calendario, che le scuole sarebbero state riaperte dopo la Befana, che la ricostruzione di uno dei Paesi più offesi dal virus avrebbe potuto finalmente cominciare. Ma gli anni non finiscono quando lo dice il calendario, e neppure le pandemie. Specie se si collabora col nemico: sette su dieci dei nuovi positivi in Italia, etichettati come contagi da “Covid-panettone”, sono il frutto malato di un calo collettivo di attenzione e di responsabilità. Il ministro della Salute Roberto Speranza avverte che per alcuni mesi sarà ancora dura e che purtroppo c’è ancora tanta gente che non usa le mascherine o se le toglie. L’elenco dei sabotatori, quelli che comunque se ne infischiano, è lungo e angosciante, come se gruppi di cellule del Paese fossero impazziti, vuoi per cattivi esempi e pessimi maestri, vuoi per disabitudine al rispetto delle regole, e minassero con i loro comportamenti il già precario stato della nostra salute pubblica. E le conseguenze, al di là del tragico bilancio sanitario, sono i solchi sempre più profondi che stanno erodendo le nostre residue certezze, con due fasce d’età più esposte a disagi psicologici insidiosi: gli anziani e i ragazzi. Per i primi, un più intollerabile di abbandono, nella vita di ogni giorno come nell’agonia solitaria in caso di Covid. Per i secondi, un pesantissimo meno di scambio sociale, relazioni consumate dal vivo, apprendimento in gruppo, sviluppo di capacità critica: una generazione interrotta sul più bello, mentre per legge di natura stava crescendo, sbocciando, sperimentando sulla pelle le fatiche ma anche le meraviglie del diventare grandi. Una generazione interrotta da noi più che altrove, visto che siamo stati tra i primi a sospendere le lezioni, il 3 marzo 2020, e saremo tra gli ultimi a ricominciarle in presenza. E forse non è un caso che si moltiplichino le risse da strada tra improvvisate bande rivali, quasi che la disabitudine alla convivenza fisica, a scuola come negli sport, stia accelerando l’effetto opposto: la contrapposizione rabbiosa, lo scontro al posto dell’incontro. Un magistrato milanese non ha escluso “la sofferenza acuita dal lockdown” per il caso dei due minorenni che si sono tagliati le estremità laterali delle labbra, alla Jocker, per provare, hanno detto, “ad alzare la soglia del dolore”. Dopo una partenza poco rassicurante, a inizio 2020 eravamo intorno al ventesimo posto per vaccini somministrati, adesso siamo primi in Europa, forse anche grazie agli allarmi lanciati su un ritardo che rischiava di costarci carissimo. Ma l’antidoto, quale che sia la marca, con i ritmi e le dosi pur incoraggianti dell’ultimo periodo, non ci libererà tutti e presto dal male. Le stime parlano di una copertura del 5% della popolazione a primavera, per arrivare a un 20% in estate, e già questo lascia intendere che ci aspetta una guerra di trincea, cioè ancora lunga ed estenuante, per la quale bisogna in qualche modo attrezzarsi. E magari ridisegnare la scala delle priorità, quale che sia il governo chiamato ad applicarle. Mettere i giovani all’ultimo banco non sembra la scelta più lungimirante, anche perché toccherà a loro farsi carico del futuro post virus di questo Paese. In che condizioni arriveranno all’ora fatale dell’enorme responsabilità civile che li aspetta? Proprio in una lettera a questo giornale, Agostino Miozzo, 67 anni, medico e coordinatore del Comitato scientifico nazionale sulla pandemia, si concede una licenza rispetto al suo compito istituzionale. Denuncia senza giri di parole gli esperti di settore che parlano di studenti liceali come di untori, e quindi potenziali killer della popolazione più anziana, e non risparmia i governatori del territorio che invocano la chiusura delle scuole per evitare una strage. “La strage in Italia”, scrive Miozzo, “è avvenuta a causa di decenni di distrazione sugli investimenti in sanità pubblica e sulla assoluta assenza di risorse per quella scolastica”. E conclude amaro: “La salute mentale dei nostri ragazzi non sembra avere valore e peso per molti politici e di questo sono profondamente, tristemente dispiaciuto”. Per ripartire, bisogna prima guarire. Cominciare occupandosi dei figli incolpevoli della generazione interrotta, vittime collaterali della pandemia, darebbe almeno un orizzonte e un senso alle fatiche che ancora ci aspettano. Droghe. Nella comunità di recupero dei minori: “Tossici già a 12 anni, mai visto prima” di Antonio Crispino Corriere della Sera, 12 gennaio 2021 Viaggio all’interno della “Casa del giovane” a Pavia. Il responsabile della struttura terapeutica Simone Feder: “Figli della Milano bene, ormai non c’è più differenza tra sostanze leggere e pesanti”. Le testimonianze choc: “Mi illudevo di farmi tanti amici”. Seduto davanti alla scrivania di Simone Feder c’è un ragazzo di 17 anni: ha il volto spento, le mani nelle tasche del piumino con il cappuccio, la schiena ricurva. Simone lo ha convinto da poco a entrare nella sua comunità di recupero per tossicodipendenti “La Casa del giovane” a Pavia. Quasi tutti minorenni. Lo ha letteralmente strappato dal bosco di Rogoredo (clicca qui per leggere lo speciale su Rogoredo con foto, video e notizie) dove faceva lo spacciatore. Oggi è sotto protezione perché quello che ha iniziato a raccontare è più di uno spaccato sul mondo della droga a Milano e provincia. Entrato nel boschetto per acquistare una dose per uso personale ne è uscito praticamente “capo piazza”. O meglio, non è mai più uscito. Parla del suo orario di lavoro ininterrotto dalle 8,30 del mattino fino alle 21,00. Solo di eroina ne vendeva 70 grammi al giorno: acquistata dal fornitore albanese a 6 euro e rivenduta a 20 euro. La comprava a etti. La “scura”, la “nera”, la “brutta” sono i nomignoli della droga che si pensava dimenticata negli anni ‘80 e che invece sta registrando un prepotente ritorno. “Figli di papà” - “I ragazzi di oggi non hanno vissuto la devastazione che l’eroina ha fatto in quegli anni, non hanno memoria storica per cui si buttano in queste droghe non conoscendone quasi niente”, spiega Simone mentre riascolta gli audio delle testimonianze in cui quel ragazzino gli parla dei soldi che riusciva a portare a casa: anche settemila euro al giorno più due grammi di eroina e mezzo grammo di cocaina in omaggio, una sorta di bonus produzione. E poi la lista dei clienti insospettabili, il traffico ininterrotto di auto di lusso in fila per prendere una dose. “C’era una signora che veniva al boschetto con il bambino neonato seduto sul sedile posteriore, comprava mezzo grammo di coca, si fermava dieci metri più avanti per fumarla nella stagnola e poi andava via. Quasi ogni giorno almeno due volte al giorno”. Riassume la trasformazione di ragazzini diventati pusher come lui ma prima ancora rapinatori, scippatori, aggressori, qualcuno omicida come i due ragazzini di 14 e 15 anni che a Monza hanno massacrato con 20 coltellate un uomo per una dose. “In dieci chilometri ci sono dieci squadre di spacciatori, ognuno con il suo giro di clienti nella Milano bene” racconta. Del resto, molti di loro fanno parte proprio di quel mondo. Simone li chiama “figli di papà” e li troviamo ampiamente rappresentati nella comunità di recupero. Comprese le donne, poco più che bambine come Alice che nei loro 15 anni di vita hanno già messo in fila crack, erba, cocaina, eroina, prostituzione. Gli psichiatri per le crisi - Feder non vuol sentir parlare di droghe leggere e droghe pesanti. “Anche la cannabis ha raggiunto livelli di principio attivo così alti che questa distinzione non ha più senso. Tutti quelli che ho in comunità hanno cominciato rollando canne e sono finiti con l’eroina comprata per pochi euro. Si devastano in pochissimo tempo alla ricerca della ‘botta’ che dura sempre meno e lascia segni permanenti sempre più profondi”. È un vomito di episodi che rovesciati così, tutti insieme, non dicono molto se non la distanza siderale tra due mondi. Ma che poi si intrecciano con le vite del resto della società e diventano la spiegazione di quella giornata che fu sconvolta dal fatto di microcriminalità: la rapina sotto casa, lo scippo dell’orologio, la borsetta strappata via da un ragazzino sul motorino, il furto dell’auto, il coltello alla gola... I protagonisti ora sono davanti a una telecamera con lo sguardo fisso, le rughe della fronte che disegnano timidezza, gli occhi hanno perso la furia sanguinaria. Restano i tic, l’ansia, il parlare accelerato di alcuni entrati ancora da troppo poco tempo in comunità. Per gestire la “scimmia”, come vengono chiamate in gergo le crisi d’astinenza, Feder ha due psichiatri che li monitorano costantemente. La spavalderia non c’è e forse senza droga non c’era nemmeno prima. Quei visi che si spingevano sotto il muso a dirti di consegnare i soldi ora sono distanti, preoccupati di dimostrare che non erano se stessi, che se ne vergognano. “Lo rendeva un mostro” - Non è così per tutti che di quella vita hanno ancora in mente lo sballo delle feste a base di sesso, droga e alcol nel chiuso di appartamenti senza genitori. Figli di medici, avvocati, imprenditori, impiegati, quadri aziendali. Genitori che sapevano che i figli a 12 anni si sfinivano di coca e non sono riusciti a tirare il freno. Hanno deragliato insieme. Hanno lasciato le professioni, le auto costose, i vestiti firmati e sono venuti in questo viottolo a Pavia a piangere fuori la porta di Simone, pregandolo di prendersi cura del proprio figlio. Ci sarebbe posto solo per sei ragazzi ma ne ospita dodici: “Il centro è pieno ma come fai a dire di no a un papà che viene in lacrime a portarti il figlio?”. Quei figli li rivedono una volta alla settimana. Con le mani sporche di fatica; dalla carpenteria alla falegnameria si lavora sodo. E c’è il piacere di farlo. Come racconta un quindicenne con i capelli tagliati ancora alla moda, il gubbino nero con il cappuccio. Qualche mese fa lo alzava sulla testa, volto coperto, per andare a rapinare la gente in strada con un cacciavite. Doveva soddisfare il bisogno di 3-4 grammi di coca al giorno. Una quantità tale da renderlo un mostro. Così doveva apparire alle vittime quando in strada le picchiava senza un motivo, solo per divertimento. Ora racconta di quanto sia bello avere “qualcuno che ti spiega come si lavora”, gli piace, non avverte l’obbligo anche se è in comunità perché un giudice lo messo alla prova. “Cut off” - L’unico contatto con il mondo di prima è la visita settimanale dei genitori. È così che la famiglia ricompare gradualmente nelle loro vite. Guardano negli occhi la sorellina di 11 anni a cui rubavano i risparmi per comprare la droga e piangono. Come è stato possibile? Si sentono in debito. Ogni tanto qualcuno scappa, attratto dall’andazzo di prima. Poi torna, più sconfitto di prima e con danni cerebrali ancora più importanti di prima. Il più piccolo a varcare questi cancelli è stato un ragazzino di 13 anni con un tasso di cocaina nel sangue che nemmeno un tossicomane di vecchia data riesce a toccare. Il cut-off (l’esame che determina il livello di droga nel sangue) segnava più di tremila. Per essere positivi occorre superare la soglia di trecento. “Il primo contatto di un ragazzino con la droga ha cambiato aspetto, tempistiche e motivazione” spiega Feder. Prima accadeva durante gli anni del liceo, ora nei bagni delle scuole medie. Il pusher non aspetta all’uscita di scuola ma è già dentro. Alcuni frequentano le lezioni solo per poterla spacciare. Mario, 16 anni, il nome vero non si può scrivere, ha iniziato perché bullizzato. Sedeva nei banchi della seconda media con qualche chilo di troppo, motivo sufficiente per mortificarlo. Lui che già aveva subito lo schiaffo di un padre che lo ha abbandonato e di una madre assente. Rave party 15 anni - “Mi son detto: se è così che funziona allora anche io voglio diventare come loro e la cocaina mi ha dato la forza”. Da vittima si è trasformato in carnefice, era l’incubo dei compagni di scuola. Non riesce a smettere di parlare, non fa pause. Così ha annegato la timidezza che riemerge per fargli confessare la paura più grande: “Non voglio restare solo”. E non ti sentivi solo quando ti drogavi? “Ora posso dire di sì ma prima mi dava l’illusione di avere tanti amici. I ragazzi stavano con me e guardavano ammirati perché in un giorno riuscivo a procurarmi cento euro di cocaina”. Altri suoi compagni di classe hanno lunghi mesi di assenze scolastiche e tante presenze nel bosco di Rogoredo. E non solo in quello. “Nelle campagne del Pavese ce ne sono almeno dieci di boschetti come quello milanese”. Gabriele, nome di fantasia, ha iniziato a fare i rave party in giro per l’Italia a 15 anni. Dopo un anno i genitori lo hanno cacciato di casa. A 16 anni viveva in strada o a casa di amici. Così ha iniziato ad acquistare “erba” a credito che faceva circolare durante le ore di ricreazione a scuola. Strafatto di tutto quello che si poteva provare oggi ha ricordi labili. Sente il bisogno di scusarsi: “Ti dico la verità, non mi ricordo molto di quegli anni”. In totale ne sono sei. Anni buttati, cancellati. La droga ha devastato la memoria e fatto terra bruciata attorno. Da qualche mese inizia lentamente ad assorbire nozioni di carpenteria nel laboratorio della comunità. Ha una buona manualità. Dalle sue mani spunta un fiore giallo di metallo. È bellissimo, è l’unica cosa colorata in mezzo a tanta ferraglia. Stati Uniti. Inauguration Day, l’allarme dell’Fbi: pianificate proteste armate in 50 stati di Federico Rampini La Repubblica, 12 gennaio 2021 L’Fbi lancia un allarme: tutti i Parlamenti dei 50 Stati Usa sono bersagli di altrettanti “attacchi armati” da parte di milizie dell’estrema destra, in un’offensiva che può colpire dal 16 al 20 gennaio. Un bis dell’assalto al Congresso di Washington, esteso su scala nazionale. Lo riferisce la Cnn che ha diffuso per prima un comunicato ufficiale della polizia federale. L’Fbi considera elevato anche il rischio di un attentato contro Joe Biden, teso a eliminare il presidente-eletto prima ancora che possa assumere i poteri con l’Inauguration Day del 20 gennaio. Lui però assicura: “Non ho paura di giurare all’esterno, siamo stati informati”. Il presidente uscente Donald Trump ha approvato lo stato di emergenza per il giorno in cui passerà il testimone al nuovo leader. Misure di protezione speciale vengono aggiunte a quelle che già il Secret Service stava rafforzando dopo l’attacco del 6 gennaio attorno alla persona del futuro presidente, della sua vice Kamala Harris, della presidente della Camera Nancy Pelosi. Infine le milizie minacciano una “insurrezione armata nazionale” qualora il vicepresidente Mike Pence invochi il 25esimo emendamento per sostituirsi a Trump negli ultimi giorni del mandato. L’Fbi ha cominciato ad avere un quadro aggiornato dei piani delle milizie di estrema destra a partire dall’8 gennaio, due giorni dopo l’assalto al Congresso di Washington. L’offensiva pianificata è ancora più a vasto raggio di quanto si credeva. Le trame delle milizie includono tutte le Capitol Hill d’America, cioè le sedi dei Parlamenti dei singoli Stati, spesso anche sedi di altri palazzi governativi; non si limitano a quegli Stati che hanno certificato la vittoria di Biden. La difesa di così tanti obiettivi richiederà una mobilitazione eccezionale, senza precedenti. Già oggi è stato deciso di schierare un dispositivo di 15.000 uomini della Guardia Nazionale a difesa della capitale. Intanto nella stessa Washington si allarga lo scandalo delle collusioni fra polizia e manifestanti. Ora non si tratta più dei numerosi casi di poliziotti in libera uscita, venuti da altri Stati per manifestare a favore di Trump. Gli ultimi casi riguardano agenti in servizio presso la Capitol Police, indagati per atteggiamenti di aperta solidarietà e collusione con i manifestanti. Lavori forzati, Londra ferma le merci cinesi Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2021 Londra prende le distanze da Pechino, introducendo limiti sia all’importazione di merci cinesi prodotte con lavoro forzato sia all’export di prodotti e tecnologia made in Britain che potrebbero essere utilizzati come strumenti di repressione. Il Governo britannico si schiera in particolare contro i “campi di rieducazione” nella provincia di Xinjiang e il lavoro forzato dei musulmani di etnia uigura, documentato da numerose fonti. Il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab annuncerà domani in Parlamento nuove misure per bloccare l’importazione di prodotti cinesi se provenienti da zone a rischio. Le nuove regole impongono alle imprese importatrici di controllare la loro filiera di produzione per assicurarsi che sia “etica”, altrimenti saranno soggette a pesanti multe. La provincia dello Xinjiang produce oltre il 20% di tutto il cotone mondiale. Raab intende rafforzare il Modern Slavery Act, la legge contro la schiavitù approvata nel 2015, introducendo misure più stringenti. Diverse ditte britanniche, soprattutto nel settore abbigliamento, hanno già preso misure per non utilizzare cotone o capi prodotti nei campi di lavoro forzato dello Xinjiang, evitando così di essere boicottate dai consumatori. Il Governo cinese ha sempre negato di utilizzare lavoro forzato, di perseguitare gli uiguri odi avere avviato campagne di sterilizzazione forzata nello Xinjiang. L’ambasciatore uscente a Londra, Liu Xiaoming, ha consigliato al Regno Unito di rispettare “le norme base che regolano i rapporti internazionali, compresa la non interferenza negli affari interni di un altro Paese”. Londra deve scegliere se trattare Pechino “come partner o come rivale”, secondo l’ambasciatore. L’impegno di Raab, che era un avvocato specializzato in diritti umani prima di entrare in politica, non è comunque sufficiente per alcuni deputati, che chiedono sanzioni individuali contro esponenti del regime cinese responsabili della gestione dei campi di lavoro e dei programmi di sterilizzazione forzata delle donne uigure. Nel luglio scorso Londra aveva annunciato le prime sanzioni mirate contro persone ritenute responsabili di abusi dei diritti umani in Russia, Arabia Saudita, Myanmar e Corea del Nord, e non ha escluso di imporle contro funzionari cinesi in futuro. Raab ha detto che la lista sarà “costantemente rivista e aggiornata”. Iain Duncan Smith, ex leader del partito conservatore, ora deputato, ha accolto con favore la mossa di Raab ma ha detto che non basta “a gestire il problema crescente che dobbiamo affrontare con la Cina”. Un gruppo di deputati conservatori ha formato il China Research Group e fa pressioni sul Governo perché adotti una linea più dura contro Pechino. Chiede anche che la Gran Bretagna non possa stringere accordi commerciali con Paesi colpevoli di genocidio, secondo quanto stabilito da un tribunale britannico. Il Governo è contrario, perché sostiene che spetti solo ai tribunali internazionali, e non a quelli britannici, stabilire se un regime straniero sia colpevole di genocidio o meno. I rapporti tra Londra e Pechino sono diventati sempre più tesi negli ultimi mesi, sia per la polemica sui presunti ritardi cinesi nel segnalare l’epidemia di coronavirus, sia per la decisione britannica di tagliare fuori il colosso cinese Huawei dalla nuova rete 5G, sia infine per la repressione del movimento pro-democrazia nell’ex colonia britannica di Hong Kong. Decine di attivisti sono stati arrestati e incarcerati di recente a Hong Kong in seguito all’approvazione della draconiana legge sulla sicurezza, a lungo osteggiata da Londra. In un comunicato due giorni fa il ministero degli Esteri ha ribadito che la legge “è una chiara violazione della dichiarazione congiunta sino-britannica e della formula un Paese, due sistemi ed è chiaro che viene utilizzata per soffocare il dissenso politico”. Il Governo britannico ha irritato il regime cinese offrendo a partire dal 31 gennaio visti, permessi di lavoro e un percorso preferenziale verso la cittadinanza britannica per oltre 4 milioni di residenti di Hong Kong con un passaporto britannico speciale riservato ai territori d’oltremare. La misura potrebbe portare a un boom dell’immigrazione.