Covid, vaccinazioni nelle carceri non previste in prima fase. Non è stato calcolato il rischio di Franco Corleone Messaggero Veneto, 11 gennaio 2021 Il Piano strategico nazionale di vaccinazione presenta una incomprensibile contraddizione laddove prevede nella prima fase la somministrazione del vaccino al personale sanitario, ospedaliero e territoriale e agli ospiti e operatori delle Rsa, che hanno pagato un prezzo doloroso di morti nella prima fase della pandemia. La scelta giusta è stata assunta non solo perché gli anziani rappresentano una categoria fragile, ma anche perché fanno parte di una struttura chiusa e quindi non si comprende perché il carcere che è l’istituzione totale per eccellenza sia stato messo in coda. La programmazione nazionale non tiene assolutamente conto delle condizioni di rischio e di vulnerabilità alla diffusione del virus in particolare negli istituti penitenziari che per le condizioni igieniche sanitarie e per il sovraffollamento impediscono il rispetto delle misure di prevenzione raccomandate alla popolazione. La presenza in cella fino a otto detenuti con un solo servizio igienico e l’uso promiscuo delle docce rappresenta con evidenza accecante un rischio continuo. Mi rivolgo ai massimi rappresentanti della Istituzione Regione Friuli Venezia Giulia e responsabili di scelte fondamentali riguardanti la salute individuale e quella pubblica. I cinque istituti penitenziari nella nostra regione ospitano 600 persone rispetto alla capienza regolamentare: a Udine 161 detenuti invece di 90, a Tolmezzo 191 invece di 149 e a Trieste 153 invece di 138. Ci sono stati focolai preoccupanti a Tolmezzo nei mesi scorsi e ora in presenza di una contagiosità maggiore del virus occorre una scelta sagace e preventiva. Ovviamente la proposta che avanzo dovrebbe riguardare tutto il personale, la Polizia penitenziaria e quello amministrativo, oltre a tutti soggetti che entrano in carcere dai volontari agli avvocati. Il Comitato nazionale di bioetica, nel documento “Covid-19: Salute pubblica, Libertà individuale, Solidarietà sociale”, approvato il 28 maggio 2020, ha individuato tra gli “altri gruppi particolarmente vulnerabili”, subito dopo “le anziane e gli anziani istituzionalizzati”, “le persone richiuse nelle carceri”, dedicando loro uno specifico punto. Anche sulla base di queste considerazioni, la senatrice a vita Liliana Segre e il presidente dell’autorità garante delle persone private della libertà Mauro Palma hanno auspicato che il Governo dia “la necessaria priorità a un piano vaccinale che riguardi tutte indistintamente le persone che vivono e lavorano nelle carceri” (la Repubblica, 2 gennaio 2021). La Società della ragione, una associazione che si occupa di giustizia e carcere, ha lanciato una petizione (www.change.org/vaccino nelle carceri) rivolta al ministro della Salute e al commissario straordinario per l’emergenza Covid che ha immediatamente raccolto più di mille adesioni per cancellare quella che appare una grave discriminazione. Una vostra decisione in questa direzione esalterebbe la specialità, in nome dei valori della Costituzione e costringerebbe il Governo a un ripensamento in base ai valori di umanità. Il Friuli Venezia Giulia si sta dimostrando tra le regioni più impegnate nel piano vaccinazioni, ma il divario tra le dosi assegnate e quelle utilizzate, potrebbe consentire l’individuazione legittima di un target di popolazione ulteriore da vaccinare con priorità, proprio come i detenuti e quanti lavorano negli istituti di pena. Sono sicuro che prenderete in considerazione questo appello, di puro buonsenso, tenendo conto dei numeri limitati e della facilità organizzativa della somministrazione. Non si tratta di effettuare un trattamento di favore o di affermare un privilegio. Si tratta solo di considerare la specificità di un luogo e di rispettare il diritto alla salute di persone che sono nella totale disponibilità dello Stato. D’altronde è di palese evidenza che è bene che le persone escano dal carcere senza infezioni e patologie, gravi o trasmissibili. Una felice coincidenza, dunque, tra interessi individuali e valori collettivi. “Giudici onorari da tutelare”, stavolta l’Anm si schiera davvero di Errico Novi Il Dubbio, 11 gennaio 2021 Il “sindacato” delle toghe ordinarie approva all’unanimità una mozione a favore dei colleghi “non professionali”. Che precisa: Bonafede preservi le “situazioni soggettive maturate”. Cioè stipendi e pensioni non di tutti, ma di chi da anni è impiegato “in maniera massiccia a colpi di proroga”. È comunque un passo avanti. Non era scontato. In altri tempi la magistratura ordinaria, e in particolare l’organizzazione che la rappresenta, cioè la Anm, aveva tenuto a rivendicare la propria “diversità ontologica” rispetto ai giudici onorari. Chi ha superato un concorso deve avere inevitabilmente guarentigie, retribuzioni e tutele diverse, era il succo del discorso. Ma la nuova Associazione magistrati presieduta da Giuseppe Santalucia cambia registro. E chiede, con una mozione approvata oggi all’unanimità, di “assicurare ai magistrati onorari in servizio le tutela delle situazioni soggettive maturate”. La formula scelta è specifica e non casuale: a meritare interventi normativi immediati non è la magistratura onoraria complessivamente intesa, ma quei giudici e viceprocuratori onorari che mettono ormai da anni la loro intera energia professionale al servizio della giustizia. Presto un incontro tra Anm e “onorari” per concordare linea - Non ci si sbilancia, insomma, al punto da concordare su una stabilità retributiva e previdenziale anche per i nuovi “onorari”. Ma il segnale arrivato stamattina dal comitato direttivo centrale Anm è comunque notevole e politicamente pesante. Anche considerata l’unanimità con cui il “parlamentino” delle toghe si è espresso sulla mozione. A breve, si legge nel documento condiviso infatti da tutti e cinque i gruppi del direttivo (anche da Articolo 101, l’unico che non fa parte della giunta), l’esecutivo dell’Associazione dovrà “programmare un incontro con le rappresentanze dei magistrati onorari per una definizione dei temi concreti su cui misurare l’effettività delle tutele loro spettanti”. L’obiettivo è “rendere proficua l’interlocuzione della Anm, con il ministro della Giustizia e le forze politiche”. Parole che in linguaggio politico potrebbero tradursi così: cari giudici di pace, se siamo d’accordo sul fatto che uno status da dipendenti pubblici non può valere per chiunque di voi, ma solo per le posizioni consolidatesi negli anni, se siamo d’accordo su questo, allora noi come Anm ci impegneremo a premere su Bonafede perché emani un decreto-sanatoria. Nel crudo linguaggio della politica si tratta di questo, ma è già qualcosa. Santalucia e Casciaro: sì a tutele anche previdenziali - D’altra parte a chiarire la linea è proprio il presidente Anm Santalucia, nel proprio intervento alla riunione del “parlamentino”: “I magistrati onorari in servizio che per anni, in situazioni di proroga, sono stati impiegati in maniera massiccia ora si trovano a dover avere un riconoscimento del lavoro svolto: questi diritti vanno riconosciuti. Vedremo come il governo intenderà definire questo tema”, ha aggiunto Santalucia, ma “bisogna dare le tutele che i magistrati onorari in servizio richiedono”. Non si può in ogni caso tacciare il “sindacato” delle toghe di insensibilità verso il disagio dei loro colleghi non professionali, disagio per il quale da settimane sono in corso manifestazioni e lo sciopero della fame avviato da due giudici palermitane. La vicinanza di fondo si coglie negli altri passaggi della mozione, in cui si legge che il direttivo, “in ordine alle iniziative in corso, attivate dagli organismi rappresentativi dei magistrati onorari, tenuto conto della riforma approvata, del testo di modifica in discussione al Parlamento, delle pronunce giurisdizionali di organi nazionali e sovranazionali, riconosciuta l’importanza della magistratura onoraria e la necessità di assicurare”, appunto “ai magistrati onorari in servizio le tutela delle situazioni soggettive maturate”, chiede l’incontro con le loro rappresentanze. Oltre che in Santalucia (che è di Area), sintonia con i colleghi onorari traspare anche dalle parole del segretario, Salvatore Casciaro, che è di Magistratura indipendente e parla di “solidarietà e vicinanza alle problematiche della magistratura onoraria”, di “pieno appoggio alla rivendicazione di tutele e garanzie dei diritti anche previdenziali”. Ma poi la puntualizzazione torna quando Casciaro ricorda che “l’ottica nella quale la giunta Anm si è mossa è quella della piena salvaguardia di quelle tutele e di un possibile cambio di passo per l’avvenire: la riforma Orlando mirava proprio a evitare per il futuro possibili forme di precariato”. Via dall’Anm i probi viri che hanno espulso Palamara di Liana Milella La Repubblica, 11 gennaio 2021 Sul filo dello scontro, il sindacato dei giudici sceglie i nuovi magistrati che dovranno esaminare le chat di Perugia. Entra Gabriella Luccioli, la prima donna in magistratura e autrice delle sentenze Englaro. Bocciato Felice Lima proposto da Articolo Centouno. Magistratura indipendente porta l’ex Pg di Milano Roberto Alfonso protagonista di scontri con la procura. ROMA - Le chat di Palamara sono ancora e sempre lì, per essere giudicate dai colleghi dell’Anm. Anche se, tuttora, il sindacato dei giudici non è riuscito a ottenere da Perugia una copia ufficiale. Ma ancora una volta l’Anm ha rischiato di dividersi pure sulla scelta dei nuovi probi viri. Perché subito è arrivato il reciso niet di Magistratura indipendente, che fa parte della maggioranza, alla riconferma del precedente team sostenuto invece dalla sinistra di Area. Erano i cinque colleghi (Bruno Di Marco, Fausto Cardella, Antonino Porracciolo, Giuseppe “Gimmi” Amato, Claudio Viazzi) che avevano proposto, e poi ottenuto, di espellere dall’Anm, di cui era stato anche presidente, Luca Palamara. Ma Antonio Sangermano - ex pm del processo Ruby, ex Unicost transitato in Magistratura indipendente, ma nella lista Movimento per la Costituzione - si è opposto nettamente. Alle viste c’era una nuova frattura, a meno di un mese dalla sofferta elezione del nuovo presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia di Area. Proprio Area - dopo una riflessione davanti a un panino - ha fatto un passo indietro e ha rinunciato alla riconferma dei precedenti probi viri. Ma non è mancato, come vedremo, anche lo scontro sul nome di Felice Lima, proposto dal gruppo Articolo Centouno, l’unico all’opposizione con i suoi 4 eletti. Dunque la pausa per pranzo ha evitato la frattura nel governo dell’Anm. E alla fine, dopo oltre tre ore di discussione, eccoci ai nomi, di cui almeno uno, quello dell’ex procuratore generale di Milano Roberto Alfonso, proposto da Mi, potrebbe far discutere, visto che è stato protagonista di numerose frizioni con la procura diretta da Francesco Greco, per via delle sue avocazioni, tra le quali si possono ricordare quelle che riguardano un’inchiesta sul sindaco Sala e sul delitto Caccia. Ma Alfonso è stato protagonista anche di un altolà con il Guardasigilli Alfonso Bonafede quando, all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’anno scorso, proprio a ridosso del Covid, ha bocciato pubblicamente la sua riforma della prescrizione definendola “incostituzionale”. Dunque cinque nuovi probi viri riapriranno il dossier sulle chat di Palamara. Dossier aperto anche alla procura generale della Cassazione, nonché al Csm per via dei processi disciplinari. Tema di fatto tuttora caldissimo. Praticamente eletti tutti all’unanimità, tranne qualche astensione. Viene scelta Gabriella Luccioli, indicata da Area, con 34 su 36 voti (si astengono Maria Angioni e Ida Moretti di Articoli Centouno). Toga in pensione, è entrata in magistratura con il primo concorso che nel 1965 aveva aperto alla presenza delle donne. È stata presidente di sezione della Cassazione e autrice di importanti pronunce sul caso di Eliana Englaro. Ha anche fondato l’Associazione donne magistrato. Un altro en plein per Francesco Greco, indicato da Unicost, oggi procuratore a Napoli Nord ma in pensione da febbraio, e per molti anni procuratore aggiunto a Napoli. Tutti per lui, tranne l’astenuta Angioni. Va nello stesso modo per Giuseppe Corasaniti, indicato da Autonomia e indipendenza, giurista esperto di diritto informatico (35 sì, Angioni astenuta). Stesso risultato anche per Roberto Alfonso. Tensione invece sul nome di Felice Lima, indicato da Andrea Reale e Giuliano Castiglia di Articolo Centouno. Lima, oggi sostituto procuratore generale a Messina, ex pm a Catania e poi giudice civile, è una delle voci più critiche della magistratura italiana. Per lui arriva il niet di Silvia Albano di Area che ricorda, ma senza dettagli, un’inchiesta disciplinare per via del caso Li Pera, pentito gestito dal Ros nel 1993, che aveva fatto accuse alla procura di Palermo, con conseguente scontro tra Lima e i vertici della sua procura. Albano sostiene che un’inchiesta disciplinare può creare un problema per eleggere un probo viro. Segue uno scontro furibondo con Reale che invece difende Lima. Ma nella votazione lo stesso Lima prende solo 5 voti, con 14 astensioni e 17 contrari. A questo punto Articolo Centouno rilancia su Gioacchino Romeo, ex giudice a Trieste e in Cassazione, che viene eletto con 31 voti. Covid e giustizia. Tribunali al collasso: perché non vaccinare giudici e avvocati? di Linda Maisto ilsussidiario.net, 11 gennaio 2021 A causa della pandemia Tribunali e avvocatura sono al collasso. Perché allora non vaccinare giudici e avvocati assieme agli operatori degli altri servizi essenziali? Come ho cercato di spiegare in un mio precedente articolo, l’avvocatura è ormai al collasso a causa del Covid-19. Ogni giorno assistiamo alla morte silenziosa e dolorosa di centinaia di studi legali e, con essa, dei diritti dei cittadini. Ebbene sì, quando l’avvocatura muore, con essa muore la legalità e la domanda di tutela del cittadino da parte dello Stato. Ormai non si può più stare a guardare. Chi svolge questa professione sta avendo tante difficoltà economiche e sarà sempre peggio, se non si ritorna nelle nostre amate aule di Tribunale al più presto e senza limitazioni di accesso. Essere avvocato significa credere in alcuni ideali e valori fondamentali. Significa battersi per la difesa dei deboli e non può esistere una difesa legata ad accessi limitati e a cause con rinvii lunghissimi. Il Covid è il nemico di tutti, ma non può e non deve essere nemico anche della legalità. Bisogna al più presto quanto meno ripristinare lo status quo ante. Non che nella fase pre-Covid le cose andassero a gonfie vele, ma almeno si andava avanti, ancorché lentamente. Se non si esce al più presto da questa emergenza nell’emergenza, si rischia davvero di distruggere l’intera avvocatura. Le cause che oggi non andranno a sentenza, non produrranno onorari per l’avvocato per un tempo che, a questo punto, rischia di durare più di un anno, un’eternità, mentre i costi della gestione degli studi legali sono spesso fissi e continueranno a incidere sulle casse ormai esangui ed esauste degli studi legali. Per quanti mesi ancora gli avvocati potranno fare a meno di percepire onorari e sostenere, attingendo spesso alle proprie finanze personali, ai costi di gestione dei loro studi? Bisogna trovare proposte adeguate di risoluzione per uscire al più presto da questa fase di stallo dell’avvocatura e della legalità. Queste ultime sembrano essere state dimenticate dal governo. Eppure, come ormai dovrebbe essere noto a tutti, le prestazioni legali sono prestazioni indispensabili e sono perciò equiparate ai servizi pubblici essenziali, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale e come sottolineato anche in una nota della Regione Campania di qualche mese fa. La nota è stata emessa dalla Regione in occasione della definizione della zona rossa di Arzano. Con quella nota, la Regione ha riconosciuto il diritto degli avvocati residenti nel comune dell’hinterland napoletano di recarsi nei tribunali del circondario per svolgere le loro funzioni. Allora, se tutto ciò è vero, perché non vaccinare al più presto giudici, avvocati e operatori del diritto in genere, così da consentire loro di riprendere le attività almeno con gli stessi tempi degli altri uffici pubblici che erogano servizi essenziali? Attualmente, non è chiaro dalla lettura del piano vaccinale se, laddove ci si riferisce ai servizi essenziali, siano inclusi anche i servizi legali. Se fosse esclusa la giustizia, sarebbe grave e, oltre a danneggiare il settore, rischierebbe di diminuire l’efficacia della campagna vaccinale nel frenare la diffusione del virus. Infatti i Tribunali sono luoghi frequentati ogni giorno da migliaia di persone e in cui è pertanto facilmente possibile che avvenga il contagio. Allo stato, il vaccino sembra l’unica soluzione percorribile e definitiva per consentire finalmente la ripresa di un’attività che non può essere messa in un angolo, in attesa di tempi migliori. È ora che le istituzioni si uniscano per dare un segnale forte ai cittadini perché - non mi stancherò mai di dirlo - noi avvocati rappresentiamo i cittadini e i loro diritti. E uno Stato che non si prende cura dei diritti dei cittadini e della tutela della legalità è uno Stato che ha già perso in partenza. Soprattutto in certe aree del paese e del Mezzogiorno ciò potrebbe dare una mano alla diffusione dell’illegalità e della criminalità di ogni genere, anche di quella mafiosa e camorristica. Mafia. La classifica (sballata) delle province criminali: “I clan sono invisibili alla scienza” di Nado Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2021 Prof, ma allora abbiamo sbagliato tutto?”. “Ma di che sta parlando? Non capisco”. “I dati Eurispes sulla criminalità nelle province italiane. Non ha visto?”. No, in effetti non ho visto. Al telefono è Marco, mio laureato comasco. Anni addietro fece la tesi di laurea sulle organizzazioni mafiose a Como. E poi la tesi magistrale sulla criminalità organizzata in Lituania. Se ne occupa ancora professionalmente, e mica poco. Insomma, non è un pivellino. Così mi arriva l’elenco di tutte le province italiane, classificate cromaticamente in base alla loro permeabilità alle mafie. Presentato da Eurispes insieme alla Direzione nazionale antimafia. Una suddivisione scientifica, sulla base di un indice di permeabilità alla criminalità organizzata (Ipso), costruito mettendo a sintesi “19 indicatori compositi”. Ogni tanto qualcuno ha di queste pensate. Misurare “scientificamente” la presenza mafiosa usando questi o quegli indicatori oggettivi. In genere è un’ambizione che muove chi ha poca esperienza di studi in argomento. Sennò saprebbe, giusto per fare qualche esempio, che l’assenza di omicidi mafiosi può derivare non dall’assenza di mafia ma dalla forza dell’ordine mafioso. Che il numero di beni confiscati può dipendere dall’intensità e dal vigore dell’azione giudiziaria come dall’indolenza (o dalle collusioni, venne dimostrato una volta al nord) degli investigatori. Che il numero dei comuni sciolti per mafia può dipendere dall’azione dei prefetti e dal loro rapporto con la politica locale. Eccetera, eccetera. E che ci sono indicatori dieci volte più significativi di quelli immaginati da chi si mette a confezionare i parametri. Ad esempio come Università degli Studi di Milano demmo un valore alto alla presenza mafiosa nella provincia di Reggio Emilia prima ancora del processo Aemilia sulla base di due fatti: i candidati sindaci di Reggio partivano incredibilmente per fare campagna elettorale a Cutro (la patria dei Grande Aracri), il che significava andare a chiedere il voto non agli emigrati cutresi ma a chi comandava a Cutro; un documentario realizzato dagli studenti di un liceo di Reggio a Brescello, rivelava in modo sconvolgente il rispetto di cui godeva Francesco Grande Aracri sia nella folta colonia dei suoi compaesani sia nelle istituzioni amministrative. Che cosa c’entrano questi dati qualitativi con i parametri “scientifici”? Nulla, ma avevamo ragione noi. Ebbene, ora risulterebbe che tra le province meno esposte alle mafie ci sarebbero Como e Monza-Brianza. Che scoppiano di mafia, come ripetono i magistrati della Dda di Milano, i carabinieri, la Dia, la commissione regionale antimafia, la stampa lombarda e - se posso - i risultati delle nostre stesse ricerche. In queste province “meno permeabili” di tutte abbiamo autentici record di presenze mafiose: rispettivamente 8 “locali” di ‘ndrangheta a Como e 6 a Monza. E in quest’ultimo caso due comuni storici come Desio e Seregno che sono stati costretti ad auto-sciogliersi per evitare di essere sciolti per mafia dal prefetto. Non solo. Il processo contro la ‘ndrangheta di Cantù ha chiesto misure straordinarie di protezione dopo la prima udienza, perché parenti e fan degli imputati stavano inscenando in aula una sommossa trumpiana con insulti e minacce contro il pubblico ministero Sara Ombra. Ma di che parliamo? Vien da dire. Con quale livello di conoscenza scientifica combattiamo la mafia? Perché, mentre si fa sintesi di 19 parametri, qualcuno non si affatica a leggere gli atti ufficiali, giusto per capire se non si stia prendendo un granchio colossale? È vero che anni fa un istituto di ricerca dimostrò, sempre scientificamente, che la Lombardia era, per presenza di ‘ndrangheta, la nona regione d’Italia e non la seconda. Ma pensavamo fosse finita lì. “Prof, abbiamo sbagliato tutto?”. Forse su altro. Su questo no. Andiamo avanti, Marco. Il vero scandalo della sentenza su Viareggio è la durata della prima fase del processo di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 11 gennaio 2021 La Cassazione non ha assolto gli imputati: molte delle pene sono state confermate e per altri due ci sarà un nuovo esame delle responsabilità. Magistrati, giornalisti e politici invece di commentare cose che non conoscono farebbero meglio a studiare e a occuparsi delle vere cause dei giudizi che non condividono. “Viareggio senza colpevoli”. Con questo titolo il quotidiano torinese La Stampa, definisce per il lettore frettoloso l’esito del giudizio di Cassazione nel processo contro l’ex amministratore delegato di FSI e RFI Mauro Moretti e contro altri manager e addetti del gruppo e di due società tedesche, tutti imputati per il disastro ferroviario di Viareggio avvenuto dodici anni fa. Dello stesso tenore i commenti e i titoli degli altri giornali, di qualche politico, come al solito disinformato sui processi che non riguardino il suo partito (ma a volte anche di quelli) e finanche, sorprendentemente, di qualche autorevole addetto ai lavori come l’ex procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli che di fronte alla Cassazione rievoca addirittura il ricordo dei vecchi procuratori generali dediti al rispettoso insabbiamento di ogni inchiesta che potesse insidiare la grande industria. Sul versante opposto Piero Sansonetti, incallito garantista, coglie la palla al balzo per scagliarsi contro la barbara abitudine secondo cui “una sentenza di assoluzione, ormai da molti anni, è vissuta dalla nostra società come una vergogna”. Stranamente silente il ministro Alfonso Bonafede che in casi del genere non manca mai di stigmatizzare i giudici e di inviare un’ispezione. I grillini della Commissione giustizia invece hanno sottolineato che il blocco della prescrizione voluto dal Guardasigilli impedirà per il futuro un tale scempio, mentre il senatore di Forza Italia Francesco Giro si dice contento per Moretti “che verrà sicuramente assolto”. Orbene, nessuno tra gli autorevoli commentatori qui citati ci ha azzeccato e ciò che è successo ieri in Cassazione costituisce uno dei più allarmanti esempi dei guasti che una dilagante ignoranza unita in qualche caso a malafede può arrecare al diritto a una corretta informazione per la pubblica opinione. Il dispositivo della sentenza racconta una diversa realtà: se per Moretti ed Elia (all’epoca dei fatti amministratore delegato di RFI, la società addetta alla rete ferroviaria) l’annullamento delle condanne porterà a un nuovo, parziale, esame delle responsabilità, per altri 11 imputati (Kriebel Uwe, Brödel Helmut, Schröter Andreas, Linowsky Peter, Kogelheide Rainer, Mayer Roman, Mansbart Johannes, Pizzadini Paolo, Gobbi Frattini Daniele, Soprano Vincenzo e Castaldo Mario) la Cassazione ha dichiarato “irrevocabile l’affermazione di responsabilità”, dunque definitivamente accertata la colpevolezza e non più a rischio di prescrizione per il reato di disastro ferroviario colposo. Si tratterà di ritoccare verso il basso le pene comminate in secondo grado (tra gli otto e i quattro anni) e sarà una diversa sezione della Corte di Appello di Firenze che se ne occuperà. Il nuovo processo, come spiega uno dei difensori delle parti civili, Enrico Marzaduri, è reso necessario dal fatto che la Cassazione non riconoscendo l’aggravante della violazione di norme anti-infortunistiche ha dichiarato la prescrizione del reato più grave, l’omicidio colposo, e ciò ha comportato il rigetto delle richieste di risarcimento per la mancata tutela dei lavoratori (nessuno dei quali tra le vittime) di alcune associazioni sindacali che si erano costituite. Più complessa la situazione dei due principali imputati, Moretti ed Elia, verso cui si sono levate le proteste più forti. Come ha spiegato un comunicato della Suprema Corte, presieduta da uno dei magistrati più esperti della materia, Giacomo Fumu, forse allarmata dalla piega dei commenti, l’annullamento delle sentenze di condanna riguarda “alcuni profili di colpa”. Insolitamente la Cassazione ha tenuto a precisare che la prescrizione riguarda tutti i ricorrenti condannati per omicidio colposo plurimo “con l’eccezione dell’imputato che aveva rinunciato alla prescrizione”, vale a dire Mauro Moretti, che aveva formulato tale dichiarazione davanti ai giudici di appello. La questione sarà uno dei punti caldi del nuovo giudizio giacché i difensori dell’ex amministratore delegato hanno escluso che la rinuncia riguardasse il reato più grave. Se l’interpretazione della Corte fosse esatta il destino di Moretti ed Elia resterebbe pericolosamente in bilico. Ancora la Corte ha tenuto a sottolineare l’estrema rapidità con cui si è svolto il giudizio di ultimo grado, “in poco più di otto mesi e le udienze, pur in tempo di pandemia, sono state celebrate con la partecipazione diretta dei difensori e in assoluta sicurezza per tutte le parti”. In effetti una non frequente dimostrazione di efficienza della giustizia. Proprio questa insolita precisazione tocca il vero punto dolente della vicenda processuale, che non riguarda certo il verdetto di venerdì ma ciò che è successo prima e che si omette di sottolineare un po’ per ignoranza e molto per faziosità e malafede. Ciò che dovrebbe indignare le parti civili e i vari commentatori non è la decisione della Cassazione che ha confermato il quadro di responsabilità dei rappresentati dell’azienda ferroviaria come dei responsabili della fabbricazione e della manutenzione del vagone incendiato, quanto l’inaccettabile durata della prima fase. Otto anni per avere una sentenza di condanna del Tribunale. Appare chiaro che a questo incredibile dato non avrebbe posto rimedio neanche la nuova e vantata legge sulla prescrizione che oggi si blocca solo dopo il primo grado. Il problema è che gran parte dei termini di prescrizione si sono consumati nel tempo necessario alle indagini, allo svolgimento delle perizie ed al dibattimento. Come è stato possibile? Perché tanto tempo? Come mai, vista la mole del processo e le dimensioni del Tribunale di Lucca, non si è provveduto da parte dei vari ministri di giustizia a potenziare il numero dei magistrati in sede onde consentire a quelli impegnati nel processo di dedicarcisi a tempo pieno? Di questo bisognerebbe chiedere conto allo Stato e scandalizzarsi, invece la percezione strisciante ed estremamente preoccupante, di cui è eloquente esempio il commento prima citato di Caselli, è che si pretenda invece del controllo di legalità dei giudici di merito e legittimità sull’operato degli inquirenti, la mera ratifica delle ipotesi accusatorie delle procure. In questa ottica l’esito non conforme alle aspettative giustizialiste, l’assoluzione come pure il semplice approfondimento di un nuovo processo sono solo “perdite di tempo” di fronte a ciò che il PM di turno ha accertato e diffuso presso i media come l’unica verità possibile. Lo si è scritto qui altre volte: manca in Italia un giornalismo giudiziario colto ed esperto della materia, che sia in grado di leggere e analizzare una sentenza. L’ignoranza genera populismo e insofferenza: abbiamo visto a Washington cosa può innescare una miscela del genere. Sì al permesso premio per l’ergastolano ostativo di Veronica Manca quotidianogiuridico.it, 11 gennaio 2021 Applicata la sentenza n. 253/2019 della Consulta. Con ordinanza depositata il 10 dicembre 2020, il Tribunale di Sorveglianza di Perugia ha emesso un’ordinanza importante in materia di accesso al permesso premio per l’ergastolano ostativo, autore di delitti di mafia. Il caso trae origine dalla questione che è giunta alla Corte costituzionale, e, da quest’ultima decisa, con la sentenza n. 253 del 2019. Sulla base della decisione della Consulta, il Tribunale di Sorveglianza ha potuto entrare nel merito dell’istanza (prima dichiarata inammissibile), e, con ciò, valutare il percorso intramurario del detenuto, interessato ad accedere al primo permesso premio, dopo una lunghissima carcerazione. Una delle prime decisioni in materia, che sicuramente farà “storia” in fatto di argomentazioni ed iter istruttorio. Con ordinanza del 10 dicembre 2020, il Tribunale di Sorveglianza di Perugia ha emesso un’ordinanza importante in materia di accesso al permesso premio per l’ergastolano ostativo, autore di delitti di mafia. Il caso trae origine dalla questione che è giunta alla Corte costituzionale, e, da quest’ultima decisa, con la sentenza n. 253 del 2019. Sulla base della decisione della Consulta, il Tribunale di Sorveglianza è potuto entrare nel merito dell’istanza (prima dichiarata inammissibile), e, con ciò, valutare il percorso intramurario del detenuto, interessato ad accedere al primo permesso premio, dopo una lunghissima carcerazione. Una delle prime decisioni in materia, che sicuramente farà “storia” in fatto di argomentazioni ed iter istruttorio. Il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, chiamato a decidere sul reclamo del detenuto avverso l’inammissibilità pronunciata dal Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 4-bis, co. 1 della legge dell’ordinamento penitenziario, nella misura in cui - in forza di tale disposizione e dell’art. 58-ter ord. penit. - risultava precluso l’accesso ai benefici penitenziari per gli autori di reati inerenti alla criminalità organizzata, fatta eccezione per la sola utile collaborazione con la giustizia. Per tali ragioni, il procedimento de quo è stato sospeso in attesa della pronuncia della Corte costituzionale (in termini analoghi, per altro caso, la Prima Sezione della Corte di Cassazione). La Corte costituzionale, come è noto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis co. 1 dell’ordinamento penitenziario per i delitti in esame oltre a quelli compresi nel co. 1, per identità di ratio, ammettendo l’esame anche nel merito di istanze di permesso premio, anche in assenza dell’intervenuta collaborazione con la giustizia (o, in assenza di un previo esperimento della c.d. collaborazione impossibile e/o inesigibile, o, in presenza di una dichiarazione negativa). In ragione del novum, il Tribunale di Sorveglianza di Perugia ha potuto esaminare nel merito la posizione sottoposta alla sua di attenzione. Nella articolatissima motivazione, il Collegio dà conto, in primo luogo, di un positivo percorso intramurario del detenuto, costellato da numerose soddisfazioni personali in ambito scolastico (con l’iscrizione anche ad un corso di sociologia, e partecipazioni e a numerosi corsi di poesia e scrittura). Oltre al positivo percorso del detenuto, vengono riportate tutte le argomentazioni in merito all’assenza di pericolosità sociale: oltre al provvedimento di declassificazione da Alta sicurezza in circuito di media e comune sicurezza AS3, il Collegio fa presente che la mancanza di attualità di pericolosità sociale è insita nelle stesse motivazioni di revoca del 41-bis ord. penit., in cui il Tribunale di Sorveglianza di Perugia aveva attentamente esaminato il profilo della permanenza dei collegamenti con l’esterno e con la consorteria criminale di appartenenza. Negative anche le informative acquisite per il tramite della Guardia di Finanza. Nessun tipo di segnalazione rispetto al nucleo familiare, estraneo a collegamenti con la criminalità organizzata. Mentre le informative della Dna e Dda di Reggio Calabria si riferiscono ad elementi passati, e, per questo, secondo il Collegio, superabili. Alla luce, quindi, di una valutazione completa, arricchita anche dalle relazioni di sintesi dell’area educativa, il Tribunale di Sorveglianza ha ritenuto concedibile anche nel merito il permesso premio, ovviamente, mantenendo delle condizioni di bilanciamento per la pericolosità sociale del detenuto: si autorizza, infatti, come del resto, nei pochi precedenti emessi in materia, la permanenza fuori dal carcere per un giorno solamente con la presenza dei familiari, previo accompagnamento da e per la struttura penitenziaria. L’ordinanza in esame, ricca nelle motivazioni, anche rispetto ad ogni singolo profilo sia nel merito della posizione sia con riguardo alla pericolosità sociale del detenuto, potrebbe fungere da esempio applicativo per tutti i casi analoghi pendenti dinanzi agli Uffici di Sorveglianza, in istruttoria e in attesa di decisione. In poche parole, con tale ordinanza il Tribunale di Sorveglianza di Perugia contribuisce attivamente e coraggiosamente a forgiare il nuovo diritto penitenziario “vivente”. Chi posta sui social commenti offensivi rischia la diffamazione aggravata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2021 Attenzione a lasciarsi coinvolgere in battibecchi sui social perché lanciare in rete post offensivi può costare una condanna per diffamazione aggravata dall’uso del mezzo di pubblicità. Il reato è quello previsto dall’articolo 595, comma 3, del Codice penale che punisce (con la reclusione da sei mesi a tre anni o conia multa minima di 516 euro) chi offenda l’altrui reputazione comunicando con un mezzo di pubblicità. Per i giudici, infatti, anche un messaggio postato a un gruppo limitato di amici ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone. Così, uno sfogo rischia di sconfinare in crimine se - per tenore letterale o contenuto - sfori i limiti del rispetto delle persone coinvolte. A stabilire i confini tra commenti solo inopportuni e le fattispecie di reato è la giurisprudenza. Le pronunce Scatta la diffamazione aggravata, ad esempio, per chi con un post visibile a tutti i suoi contatti offenda l’ex accusandolo di non contribuire al mantenimento dei figli (Tribunale di Torino, 299/2020). Stessa sorte per la moglie separata che in bacheca, considerata luogo aperto al pubblico poiché fruibile dagli iscritti al social, insulti il marito qualificandolo come “un miserabile” bisognoso di cure psichiatriche (Corte d’appello di Cagliari, 257/2020) o per chi, nella spasmodica ricerca di “giustizia nel placet di un esercito virtuale di utenti”, denigri una professoressa sul piano familiare, privato e lavorativo (Tribunale di Ascoli Piceno, 90/2020). Condannato anche chi - riferendosi alla vicenda di un operaio di uno stabilimento siderurgico tragicamente morto sul lavoro - pubblichi sul suo profilo pesanti offese a un sindacalista definendolo “viscido e senza spina dorsale” (Tribunale di Taranto, 123/2020). Diffamatorio, inoltre, il commento che marchi un giornalista come uno “pseudo giornalaio (...) pagato per blaterare” per infangarne la reputazione e offuscarne il patrimonio intellettuale, politico, religioso, sociale e ideologico (Tribunale di Campobasso, 43/2020). Il reato si configura se le espressioni adoperate sono tali da gettare una luce oggettivamente negativa sulla vittima. Sfuggirà a responsabilità penale, pertanto, chi - interagendo sulla piattaforma di Youtube - auguri a un dottore che aveva rilasciato un’intervista critica sull’omosessualità che le figlie siano lesbiche e sposino dei gay, eventualità che nella realtà non riveste un connotato spregevole (Cassazione, 17944/2020). Del resto, il bene protetto è l’onore “sociale”, ossia la reputazione di qualcuno in un certo gruppo e in un particolare contesto storico. Prova e risarcimento Per inchiodare il colpevole di un post offensivo e dimostrarne la paternità, puntualizza la Corte di Cassazione con sentenza 9105/2020, è superfluo ricorrere alla macchinosa procedura della rogatoria internazionale nella sede americana di Facebook se l’imputato non solo ha firmato e diffuso lo scritto su siti di libero accesso ma - diffidato dalla persona offesa - ha provveduto a rimuoverlo. La persona diffamata può quindi costituirsi parte civile nel processo penale o rivolgersi direttamente al giudice civile per ottenere il risarcimento del danno morale da calcolare in via equitativa (Tribunale di Vicenza, 1673/2020). Falso profilo Una fattispecie diversa si configura se si “ruba” l’immagine di una persona per creare una falsa identità digitale associata a un nickname di fantasia e da lì si fanno partire delle offese. È infatti configurabile il reato di sostituzione di persona, insieme con la diffamazione aggravata a mezzo stampa qualora con l’acquisizione degli screenshot si appuri che le offese siano state divulgate con post visibili agli “amici” del profilo e non con l’invio di messaggi in privato (Cassazione, 22049/2020). Per scovare l’autore dei contenuti infamanti occorre individuare con gli indirizzi IP (Internet Protocol Address) il numero del datagramma che identifica univocamente un dispositivo (host). Lombardia. “Covid in carcere, come rispondiamo all’emergenza” di Luisa Bove chiesadimilano.it, 11 gennaio 2021 Pietro Buffa, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia, fa il punto sulla pandemia vissuta dietro le sbarre. Ammette: “La chiusura è stata pressoché totale, siamo tornati indietro di quasi 50 anni”. Ma sottolinea gli sforzi fatti su più fronti, dalla scuola alle funzioni religiose. E aggiunge: “L’introduzione delle videochiamate è stata una sorpresa”. Non era ancora esplosa la pandemia, la sera del 22 febbraio 2020, quando Pietro Buffa, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia convocò d’urgenza direttori e comandanti. “Di fronte a situazioni del genere - dice oggi - bisogna immaginare lo scenario più buio”. Non perse tempo e insieme ai suoi collaboratori predispose linee guida approvate addirittura dall’Oms: “Abbiamo realizzato prima a San Vittore e poi a Bollate reparti specializzati, non per la cura perché le persone malate sono state ricoverate in ospedale, ma per i positivi, cercando soluzioni per collocarli in modo da ridurre la possibilità di contagio”. E ora com’è la situazione? Su 18 istituti di pena della Lombardia, 10 sono rimasti “puliti”, non ci sono stati casi. Oggi Milano e Bollate hanno rispettivamente 29 e 47 persone che però arrivano anche da altre carceri. Abbiamo invece focolai a Busto Arsizio e a Opera, ma si stanno estinguendo. Attualmente, negli istituti presenti sul territorio della Diocesi, ci sono 113 positivi (a fronte di 18.188 tamponi eseguiti) e 8 ricoverati. Però nella seconda fase Covid, all’inizio di dicembre, abbiamo sfiorato i 400 positivi, mentre nella prima erano stati al massimo 41. Gli agenti positivi sono più di 500, di cui 100 a San Vittore, 95 a Opera e 101 a Monza. E poi? Negli ultimi mesi abbiamo modificato l’intervento. Oltre a mantenere i due hub, laddove le infezioni coinvolgevano una o più sezioni, abbiamo valutato se trasferire i detenuti oppure no. Per esempio da Busto e Monza non abbiamo spostato nessuno e abbiamo gestito le sezioni “cristallizzate”. Per fortuna abbiamo collaborato con due medici infettivologi: Roberto Ranieri, referente in Regione dell’unità operativa di Medicina penitenziaria, e Ruggero Giuliani, incaricato a San Vittore, che ha lavorato con Medici senza frontiere ai tempi dell’Ebola. Questo ci ha consentito di prendere contatti con l’associazione e ricevere un grande aiuto sull’efficienza e sulla formazione. Abbiamo anche inventato video tutorial che inviamo negli istituti per mostrare i comportamenti corretti (e sbagliati) per tutelarsi, rivolti anche ai detenuti perché tradotti in lingua. Qual è il clima che si respira oggi negli istituti? È un clima complicato dalla pandemia: la paura poi accomuna tutti, dentro e fuori dalle carceri. È evidente che ci sono state restrizioni importantissime, fin dai primi giorni di marzo, e si è intervenuti su una serie di diritti. La chiusura ha lasciato fuori anche operatori penitenziari e il carcere si è trovato ancora più “oziante” di prima: le opportunità di scambio, relazione, impegno sono diminuite, tornando al carcere del 1974, precedente alla riforma dell’Ordinamento penitenziario che chiedeva di aprire alla società. Soprattutto si è interrotto il rapporto diretto con i familiari… È vero. Tuttavia l’introduzione delle videochiamate è stata una sorpresa, perché ci sono state persone che hanno potuto rivedere casa loro dopo anni, hanno parlato con parenti anziani come i nonni che non potevano fare 400 chilometri per incontrare i nipoti. Questo è stato fatto a normativa invariata: perché abbiamo dovuto aspettare una pandemia per adottare questo metodo? Oggi quindi si vive peggio rispetto a quando il carcere era più aperto e dinamico; uno dei gravi problemi della pena carceraria è proprio l’ozio. I detenuti e la polizia penitenziaria, come anche gli anziani delle Rsa, vivono a stretto contatto tra loro. Quando potranno essere vaccinati? Nei giorni scorsi ho telefonato in Prefettura per capire se c’erano novità, ma quando arriveranno per noi i vaccini non sono ancora in grado di dirlo. Intanto iniziamo a prepararci. È chiaro però che il carcere, per la sua conformazione e la vicinanza delle persone, andrà preso in considerazione con urgenza, non solo perché la relazione umana è molto ravvicinata, ma per la presenza di persone fragili, sia anziane, sia malate. Nonostante l’emergenza sanitaria quali sono le attività consentite oggi ai detenuti? La chiusura è stata pressoché totale, anche se abbiamo fatto molti sforzi: a fine maggio abbiamo tentato una riapertura e in parte c’è stata. A seguito del protocollo tra Stato e Vaticano sono riprese le funzioni religiose con una serie di prescrizioni; la scuola ha cercato di andare avanti, ma non supportata da una rete informatica efficace e si è fatta molta fatica. A luglio avevamo istituti che avevano riaperto le attività al 50% e altri al 5%. Non era certo un risultato brillante, ma bisogna comprendere le paure e le cautele. Poi durante l’estate c’è stato il vuoto e a settembre abbiamo dovuto fare i conti con la seconda ondata e siamo fermi lì. So che a San Vittore, e non solo, c’erano educatori che facevano il giro cella per cella a parlare con i detenuti. Non ci ha fatto piacere chiudere le attività, è meglio tenere le persone aperte che chiuse perché la rabbia cova di più nel vuoto. In questi giorni affronteremo la questione della terza ondata, perché non si può escludere che ci sia. Milano. Maisto: “Abbiamo fatto da cerniera tra i reclusi e i familiari fuori” di Luisa Bove chiesadimilano.it, 11 gennaio 2021 Il Garante dei diritti, che si occupa di San Vittore, Opera, Bollate e del Beccaria: “Abbiamo verificato che non venissero violati i diritti fondamentali”. Ripercorre le varie fasi della pandemia e ciò che è avvenuto negli istituti di pena milanesi Francesco Maisto, garante dei diritti delle persone private della libertà a Milano, che si occupa di San Vittore, Opera, Bollate e del carcere minorile Beccaria. Parla dei primi disordini scoppiati l’8 e 9 marzo scorso a San Vittore e Opera: nel primo istituto la calma è tornata senza grandi problemi e soltanto con danni alle cose, mentre nel secondo “c’è stato un approccio violento per riportare l’ordine”. Quello che lo ha “addolorato molto”, anche nei mesi successivi, “è stata la punizione collettiva, anche a persone che non avevano partecipato alla rivolta - ammette. Sono dovuto intervenire più volte, perché negare la possibilità di fare la spesa, concedere solo ad alcune celle la possibilità di avere le sigarette, ridurre ogni tipo di colloquio è stato punitivo oltre ogni misura. E poi diversi detenuti non hanno potuto beneficiare di misure alternative al carcere, seppure fossero previste nei due provvedimenti del governo”. Quali sono state le richieste più frequenti che le sono arrivate? Nella prima fase c’è stata una grande paura da parte dei detenuti per la loro sorte e per le condizioni delle loro famiglie e dei figli. Non ricevevano informazioni. Ho ricevuto mail di genitori di detenuti giovani, soprattutto di tossicodipendenti o con problemi di salute mentale, che non sapevano più nulla dei loro figli. Quando li abbiamo rintracciati, soprattutto grazie all’impegno degli operatori di San Vittore, sono stati estremamente grati. Abbiamo svolto un ruolo di cerniera tra l’interno e l’esterno, poi c’è stata un’attività di collaborazione e stimolo con l’Amministrazione penitenziaria per assicurare i collegamenti: in alcuni istituti sono stati distribuiti addirittura gli iphone per le videochiamate, in altri è stato attivato l’uso di skype. E ora? La paura sottotraccia continua. Non ne siamo ancora fuori. Nonostante l’Amministrazione penitenziaria della Lombardia sia stata la prima in Italia ad adottare alcune misure (hub a San Vittore e a Bollate, reparti di isolamento per le quarantene e triage), c’è stata poi la seconda fase. Il Covid è arrivato addirittura nel reparto 41 bis di Opera, che dovrebbe essere quello di massima sicurezza contro l’evasione, ma anche in termini di protezione sanitaria. Per noi è stato importante verificare che non venissero violati i diritti fondamentali. Nei mesi scorsi in alcuni casi siamo riusciti a sbloccare la situazione dei detenuti in permesso premio di Opera, Bollate e San Vittore, e dei semiliberi. Non solo. In Lombardia il sovraffollamento degli istituti penitenziari è superiore a quello di altre regioni e ora con la pandemia bisogna trovare spazio e assicurare il più possibile il distanziamento fisico. Cos’altro ha rilevato in questi mesi? Altra situazione grave imposta dal Covid è stato l’allontanamento degli operatori introducendo lo smart working. Eppure occorre un incontro ravvicinato per osservare un detenuto, valutare il suo percorso e una revisione di vita per poi inviare la relazione alla Magistratura di sorveglianza; questo per molti non è ancora possibile. Il confinamento nelle celle per certi aspetti è giustificato e tornare alla sorveglianza dinamica cui si era abituati in molti istituti non è oggettivamente possibile. Però bisogna operare perché si creino le condizioni logistiche affinché i detenuti possano muoversi di più all’interno. Anche il volontariato penitenziario ha sofferto… Per un breve periodo c’è stata l’esclusione, come per tutti. Le restrizioni non sono state uguali nei vari istituti. A San Vittore per esempio è stato assicurato il servizio del guardaroba da parte della Sesta Opera, anche se i volontari erano ridotti di numero e non potevano incontrare direttamente i nuovi giunti per sapere che cosa avevano bisogno. L’obiettivo è che le associazioni di volontariato facciano la loro parte e svolgano le attività secondo le proprie finalità, però pensare di fare tutto come prima è impossibile. Si dovranno riorganizzare gli spazi e inventare forme nuove, anche per evitare che i detenuti rimangano in ozio, buttati sulle brande all’interno delle celle. Napoli. “Lo abbiamo scarcerato”, ma lui è morto al Cardarelli di Rossella Grasso Il Riformista, 11 gennaio 2021 I familiari di Giuseppe disperati chiedono giustizia. “È morto da solo come un cane in un ospedale. Avrà pensato che la sua famiglia lo aveva abbandonato ma non è così: noi non sapevamo nemmeno che stava male ed era stato ricoverato”. Il racconto di Ramona Di Lorenzo, nipote di Giuseppe Di Lorenzo, 51 anni di Nola, è agghiacciante. Suo zio era detenuto nel carcere di Poggioreale da qualche mese ed è morto il 4 gennaio. Era sieropositivo e soffriva con il fegato ma quando il 28 dicembre aveva fatto la consueta videochiamata, la famiglia lo aveva trovato abbastanza bene. Sono gli stessi familiari a raccontare che il 4 gennaio alla famiglia è arrivata una telefonata: “Giuseppe è stato scarcerato”. Così due degli undici fratelli sono andati al cancello del carcere per riportarlo a casa. Ma lì non c’era nessuno. Poco dopo la telefonata del loro avvocato, Michele Russo, che gli comunicava che Giuseppe era invece al Cardarelli, morto. “Cosa gli fosse successo non si sapeva, non sapevamo nemmeno che stava male”, dice Ramona. A raccontare la vicenda è la famiglia, molto numerosa e unita, di Giuseppe che ha deciso di denunciare alla Procura di Napoli quella improvvisa, strana e non annunciata morte del loro congiunto. La famiglia chiede che vengano accertate le cause della morte, che venga fatta l’autopsia sulla salma e che vengano sequestrate le cartelle cliniche di Giuseppe sia dal carcere di Poggioreale sia dall’Ospedale Cardarelli di Napoli. Nel verbale di notifica della scarcerazione emesso dal Magistrato di sorveglianza si legge che questa è avvenuta alle 17 del 4 gennaio presso l’Ospedale Cardarelli. “All’atto della consegna del provvedimento al Di Lorenzo non essendo in grado di firmare l’atto concessivo, la copia viene consegnata al sanitario di turno”, c’è scritto. Ed è proprio questa congiuntura di orari con la comunicazione dell’avvocato del decesso ad aver allarmato la famiglia. “Solo dopo la sua morte abbiamo saputo che, dopo il colloquio con i familiari, zio Peppe è stato portato all’ospedale - racconta Ramona - Possibile che fino al 4 gennaio nessuno ci abbia detto nulla? Ora non ci sanno dire ancora com’è morto. A Capodanno abbiamo festeggiato con spumante e panettone e mio zio era in ospedale da solo, senza il conforto dei suoi cari che non sapevano nulla di cosa gli stesse succedendo”. “È giusto che uno che ha sbagliato debba pagare una pena, ma non con la propria vita - ha detto il fratello Vincenzo Di Lorenzo - Noi vogliamo sapere cosa è successo a mio fratello, che sia fatta giustizia. Non abbiamo bisogno di nulla, solo di giustizia: lo dobbiamo a lui e agli altri detenuti che ancora devono soffrire”. La faccenda è oscura e solo le indagini potranno chiarire quanto accaduto. Nemmeno i garanti dei detenuti sono stati informati dell’accaduto. Un fatto è certo: la famiglia non era a conoscenza delle drammatiche ore che stava vivendo Giuseppe. “Dal carcere ci vuole più trasparenza - ha detto Pietro Ioia, garante dei detenuti del Comune di Napoli - La famiglia doveva essere informata subito. Ormai non si può nascondere più nulla, soprattutto ai familiari e ai garanti. È necessario fare dei tavoli per confrontarci sul problema delle carceri. È inutile nascondersi, i problemi ci sono. E intanto il Governo continua a essere assente per tutte le carceri italiane”. Firenze. Torture in carcere, la Regione seguirà gli sviluppi giudiziari Il Tirreno, 11 gennaio 2021 La Procura di Firenze ha svolto un’inchiesta che ipotizza torture all’interno del carcere di Sollicciano ai danni di almeno due detenuti. L’indagine coinvolge un’ispettrice di polizia penitenziaria e otto agenti. La graduata e due agenti sono stati messi agli arresti domiciliari. Tutti sono stati sospesi dal servizio e sei sono stati interdetti per un anno dai pubblici uffici e sottoposti all’obbligo di dimora. Sulla vicenda è intervenuta l’assessora regionale alle politiche sociali Serena Spinelli: “Se l’ipotesi investigativa venisse confermata si tratterebbe di fatti assolutamente inaccettabili che condanniamo con la massima fermezza. La Regione Toscana seguirà con attenzione i prossimi sviluppi giudiziari e, per quanto di nostra competenza, ci impegneremo affinché le carceri toscane garantiscano una detenzione dignitosa e la riabilitazione dei detenuti, nel rispetto della Costituzione e delle norme vigenti che prevedono il recupero della persona e non la mera detenzione punitiva. Le carceri non devono essere mai luoghi di violenza e sopraffazione”. L’assessora ha ricordato anche come le condizioni carcerarie siano difficili: “Abbiamo istituti fatiscenti, il sovraffollamento è divenuto ormai la norma e le misure alternative rischiano troppo spesso di restare sulla carta. Desidero inoltre evitare ogni possibile generalizzazione, sappiamo che la maggioranza delle guardie penitenziarie svolge correttamente il proprio lavoro, in condizioni purtroppo dure e con stipendi non adeguati”. L’Aquila. Nardantonio (Aduc): “Sul carcere pronti a trovare l’intesa” Il Centro, 11 gennaio 2021 “Nessuno di noi vuole fare demolire il carcere delle Costarelle, siamo pronti a trovare un’intesa sull’indennizzo, ma finora dall’Agenzia del Demanio non abbiamo avuto aperture significative”. Antonio Nardantonio, presidente dell’Aduc (Amministrazione del dominio dei beni di uso civico) di Preturo replica così a Mauro Nardella, sindacalista della Uil polizia penitenziaria che, dopo una recente sentenza del Consiglio di Stato, ha messo in guardia dal rischio chiusura del carcere di Preturo. “Nardella fa bene a essere preoccupato”, dice Nardantonio, “anche noi abitanti di Preturo lo siamo dal lontano 2014, data nella quale la Corte di Appello ha definitivamente riconosciuto i nostri diritti. Da allora, per evitare il cosiddetto ripristino dei luoghi con tutto ciò che comporterebbe, abbiamo cercato in tutte le sedi istituzionali e non, di avviare un confronto con il Demanio per tentare la via di accordi extragiudiziali per la soluzione al problema, ma inutilmente. Si sono susseguiti, infatti, più dirigenti all’Agenzia e tutti a parole hanno promesso ma nei fatti tergiversato, evidentemente convinti, non si sa perché, di aver ragione loro. La giustizia però, seppur lenta, alla fine ha sentenziato e tutto è ritornato alla casella di partenza di questo gioco dell’oca sulla pelle dei naturali di Preturo, del carcere e del territorio. C’è ancora tempo, forse, prima dell’irreparabile ma il territorio, le istituzioni e la politica dovrebbero prendere il toro per le corna e arrivare alla soluzione”. Insomma, l’Aduc è pronta a un accordo. In ballo c’è una cifra che si dovrebbe aggirare sui due milioni di euro (fra somma base ed eventuali interessi). La vicenda è tornata di attualità perché a fine dicembre il Consiglio di Stato ha stabilito che deve essere il Tar dell’Aquila a far eseguire la sentenza della Corte appello. Esecuzione che significa o abbattimento del carcere o, appunto, un accordo “extragiudiziale” fra le parti per un indennizzo. Il Commissariato regionale per il riordino degli usi civici, nel 2014 (sentenza confermata due anni dopo dalla Corte di Appello di Roma) ha riconosciuto la natura demaniale di uso civico di una parte dei terreni - circa 40mila metri quadri - su cui sorge il carcere delle Costarelle. Con quella sentenza, il magistrato aveva stabilito che i terreni dovessero tornare agli Usi civici (quindi ai cittadini di Preturo) perché, a suo tempo, non vennero sottoposti al normale iter per il mutamento di destinazione d’uso. “Credo”, conclude Nardantonio, “che a qualsiasi cittadino sarebbe stato imposto il rispetto di una sentenza di un tribunale. Non capisco perché in questo caso la si possa ignorare senza che nessuno sia chiamato a risponderne. Noi siamo pronti all’intesa, ci auguriamo a questo punto di trovare buon senso e maggiore apertura da parte dei nostri interlocutori”. Roma. In aumento i clochard morti di freddo. “Aiuti contro l’emergenza” di Giulio Isola Avvenire, 11 gennaio 2021 Aprire gli alberghi vuoti per Covid per dare ricovero notturno ai senza dimora, che nella Capitale sono almeno 3mila. La Comunità di Sant’Egidio lancia anche una raccolta nazionale di coperte per chi nelle nostre città dorme in strada. Già 7 morti di freddo a Roma dall’inizio di novembre. Sant’Egidio lancia l’allarme: quest’inverno nelle strade della città sono morte troppe persone senza dimora, “un numero inaccettabile per la Capitale d’Italia”. L’ultimo si chiamava Mario e aveva 58 anni: è deceduto il giorno dell’Epifania vicino alla stazione Termini, proprio davanti a un albergo chiuso per Covid. Ecco appunto la proposta della Comunità trasteverina: aprire edifici pubblici e alberghi inattivi per il virus. “Di fronte al freddo - che in questa stagione non può considerarsi un’eccezione - occorre agire in fretta scavalcando l’ordinaria, colpevole, burocrazia che dispensa gli aiuti con il contagocce. Anche perché l’inverno, quest’anno, arriva nel cuore di una pandemia non risolta che ha aggravato la condizione di chi vive per strada accentuandone l’isolamento”. Sant’Egidio punta il dito sull’amministrazione comunale: “Agli 800 posti letto offerti tutto l’anno, il Comune di Roma è riuscito finora ad aggiungerne solo alcune decine in più per l’inverno, mentre la Caritas e le altre associazioni accolgono complessivamente 1.700 persone, cioè il doppio”. La stessa Comunità partecipa allo sforzo aprendo per l’ospitalità notturna, “oltre all’accoglienza ordinaria, la chiesa di San Callisto a Trastevere e avviando alcuni progetti (tra cui “Housing First” e “Riparto da casa”) per fornire risposte alloggiative alle persone fragili e ai senza dimora”. Dunque - si chiede - “perché le istituzioni non possano fare altrettanto”? Nella Capitale sono circa 3mila i senza dimora che passano la notte all’aperto. Sant’Egidio chiede “un piano coordinato dalla prefettura per la disponibilità immediata di edifici e stabili di pronto utilizzo, del Comune o dello Stato, nonché di alberghi e altre strutture chiuse per il Covid-19, anche con la messa disposizione di contributi per i proprietari, e più in generale una sinergia con la società civile che in questi mesi ha mostrato generosità negli aiuti”. Alle risorse dei privati fa appello la Comunità stessa, lanciando una raccolta nazionale straordinaria di coperte, sacchi a pelo e indumenti pesanti a favore di chi vive per strada; sul sito www.santegidio.org o al numero 06/4292929 è possibile informarsi sui centri di raccolta anche in numerose città. Dall’inizio dell’anno infatti si contano già diversi morti per il freddo in varie località. A Genova ieri è deceduto per ipotermia un clochard tra i 50 e i 60 anni: dormiva in un riparo di fortuna vicino all’ospedale Galliera, in pieno centro, e i soccorsi non sono riusciti a salvarlo. Un senzatetto egiziano di 53 anni è stato trovato morto in un sottopassaggio presso la stazione Garibaldi il 2 gennaio a Milano. Tra l’altro quest’anno l’emergenza Covid (che obbliga a eseguire tamponi a ogni ospite) allunga i tempi d’accettazione e scoraggia gli ingressi nei ricoveri caritativi notturni. Il prof e la studentessa. “Ragazzi, resistete”. “No, ribellatevi con noi” di Ilaria Venturi La Repubblica, 11 gennaio 2021 Il dialogo tra una liceale di Milano e un insegnante di Caltagirone. Professore, riaprire è possibile invece non lo fanno: lei dovrebbe essere dalla nostra parte”. “Lo sono, ho sposato la scuola per scelta, voglio che riapra. Ma ora, in queste condizioni, dico che non è possibile”. Beatrice Casartelli ha 16 anni, frequenta il liceo scientifico Volta a Milano, è scesa in piazza Duomo venerdì a manifestare, è tra gli studenti in lotta, quelli che “non ne possono più” di stare relegati nelle loro stanze a fare lezione. Salvo Amato, 50 anni, docente di informatica, insegna all’istituto tecnico e alberghiero Cucuzza-Euclide a Caltagirone, in provincia di Catania. Anima via social il gruppo “Professione insegnante”, nel sondaggio interno hanno risposto in settemila, il 90% preferisce attendere per rientrare. Cosa? Scuole sicure. Repubblica li ha messi a confronto via Meet, un dialogo a distanza, mille chilometri e una generazione in mezzo. La studentessa: “Anche l’Oms dice che la chiusura delle scuole dovrebbe essere l’ultima spiaggia, perché gli effetti sono devastanti. E noi li stiamo pagando, più di tutti chi vive in case piccole, con più fratelli, connessioni precarie, mancanza di dispositivi. Perdiamo nello studio, qualcuno si perde del tutto, ci mancano i compagni, lo sguardo dei professori, l’ansia condivisa prima di una verifica”. Il professore: “Credi che a me non manchi? Ma ammettiamolo, anche in presenza con tutte le misure da rispettare non è pienamente scuola: io sono uno che gira tra i banchi, invece mi ritrovo a stare in cattedra senza nemmeno poter passare una penna, correggere da vicino, usare i laboratori dovendo continuamente richiamare i miei ragazzi a non girarsi, a tenere la mascherina”. La studentessa: “Io non rinuncio alla presenza solo perché è più difficile e poi succede anche in Dad, se spengo la telecamera lei non mi vede più e mi deve richiamare”. Il professore: “Il problema è che voi vi vedete poi fuori, mentre i ragazzi non dovrebbero incontrarsi. In questi ultimi mesi io ho visto solo cinque persone: più si sta a casa, meno ci si contagia”. La studentessa: “Io ho visto solo due amici. E poi, perché è stato permesso lo shopping a Natale? Eh no professore, non scaricate su di noi la responsabilità dei contagi, troppo facile dire che siamo irresponsabili: non lo siamo, non è che non capiamo la gravità di una pandemia. Però, ripeto, se aprono i negozi o altro, se sono state permesse le visite a Natale, perché le scuole rimangono chiuse?”. Il professore: “Perché viaggiamo a ventimila contagi e 4-600 morti al giorno. Io non vi sto dicendo che siete irresponsabili, i ragazzi hanno diritto a spazi di socialità che non sono uno schermo, ho un figlio di 18 anni, vi capisco. Ma faccio i conti con la realtà: la scelta è tra perdere nella didattica o rischiare vite umane. Dovete capire che non si può mettere nessuno a rischio e i timori dei docenti sono giustificati. Ho 180 studenti, cambio classe ogni ora, ne vedo almeno 80 al giorno dentro aule piccole dove si sta per ore. La maggior parte è over 52, tanti hanno patologie pregresse e non sono garantiti”. La studentessa: “Posto così il discorso è fuorviante. La domanda è: a scuola si può andare sì o no? Ci sono studi che dimostrano che sono luoghi sicuri. Come mai i contagi sono aumentati a Natale, noi siamo in Dad dal 26 ottobre...”. Il professore: “Il professor Galli, che è infettivologo da voi a Milano, dice che le scuole non vanno riaperte. Nel mio Comune si sono infettati gli studenti che prendevano lo stesso pullman, sul piano trasporti non è stato fatto nulla, non sono stati previsti tamponi al rientro a gennaio”. La studentessa: (Beatrice consulta rapida il computer, ricorda i pareri dell’Oms, del Cts): “Se un docente non può stare in presenza viene tutelato”. Il professore: “Solo che dipende dai presidi. Non c’è una normativa che tutela gli insegnanti fragili, entri in classe con la mascherina Ffp2 altrimenti ti dicono di metterti in malattia, ma non sei malato. Tanti docenti si sentono abbandonati”. La studentessa: “Anche i ragazzi. Prof, consideri la nostra sofferenza, sto perdendo una parte importante delle esperienze che potrei fare in adolescenza, nessuno mi restituirà i miei 16 anni. Noi non contiamo niente perché la scuola non fa profitti. L’economia deve andare avanti. Ma noi siamo il futuro, non possono lasciarci indietro. Ora non voto, ma avrò presto 18 anni, sarò tra i lavoratori di domani. Per me la scuola è essenziale, come lo è per la società”. Il professore: (allargando le braccia, certo che la scuola è essenziale): “E i disagi nello stare dietro a uno schermo sono anche nostri, soffriamo quanto voi, mentre di giorno facciamo lezione, di notte cerchiamo di capire come renderle coinvolgenti. Alcuni di noi trasferiscono la lezione in presenza al pc, non va bene così, lo so. Ma tu non ti arrabbiare. La Dad ci ha colti tutti impreparati e stravolti: è alienante. Ma di fronte a una pandemia non ci resta che fare la nostra parte, tutto questo vi farà crescere più in fretta, cercate intanto di coltivare interessi che altrimenti avreste ignorato, sarà il segno di qualcosa di positivo”. La studentessa: “Per noi è un trauma, prof”. Il professore: “Stringete i denti per un ultimo sforzo, noi non ci sentiamo tutelati, chiediamo almeno di essere vaccinati tra le categorie prioritarie”. La studentessa: “Ma non è possibile aspettare ancora, ribellatevi con noi: bisogna fare qualcosa”. Droghe. Quei ragazzi dimenticati da tutti. Così le Comunità sostituiscono lo Stato di Viviana Daloiso Avvenire, 11 gennaio 2021 Vista oggi, l’Italia degli anni Settanta alle prese con eroina e vittime per il “buco”, sembra un altro pianeta. Eppure occorre partire da lì per capire la strada che (non) è stata fatta. A guardarla oggi, in tempi di overdose da purple drank (il tristemente famoso mix di sciroppo alla codeina e soda le cui istruzioni per l’uso si trovano facilmente online) e spaccio delivery (in un anno il Covid ha trasferito il mercato della droga dalle piazze alle porte di casa), l’Italia degli anni Settanta sembra un altro pianeta. Erano i giorni del buco, dei tossici che si facevano per la strada, delle famiglie perbene senza strumenti per capire cosa stesse accadendo ai propri figli. Nemmeno il tempo di realizzarla, l’emergenza dell’eroina, che subito a farla da padroni furono fastidio e vergogna: il popolo della roba, così scomodo e difficile da gestire, andava messo sotto lo zerbino. O in comunità. Le prime, non a caso, nacquero allora: zerbini divennero presto casali rimaneggiati sulle colline delle città, ville abbandonate nelle periferie. E i pionieri, ben prima di quel Vincenzo Muccioli che storia e tribunali hanno già giudicato e che oggi è il protagonista del discusso docufilm in onda su Netflix, furono tanti sacerdoti e suore “di strada”: Picchi, Ciotti, Benzi, Mazzi, Gallo, Gelmini, madre Elvira Petrozzi. Anche loro con storie spesso contrastate e discusse, consegnate a libri e giornali. Da quelle prime figure carismatiche, cattoliche e laiche, da quel modello rudimentale d’accoglienza costruito sull’amore per i derelitti e sul contributo dei volontari (la maggior parte ex tossici) sono passati sessant’anni. Le comunità di recupero oggi sono un mondo profondamente cambiato - costruito su figure professionali eterogenee e metodi educativi condivisi a livello internazionale - come profondamente cambiato è quello delle dipendenze: l’eroina, pur con la sua ripresa negli ultimi anni, è un ricordo lontano, soppiantata da cocaina e nuove sostanze (ne nascono talmente tante che le autorità sanitarie non sanno più nemmeno identificarle), l’alcol è una piaga in drammatica espansione (il lockdown ha segnato un aumento del 200% dei consumi a rischio), azzardo e Internet mietono vittime a ritmo crescente, così come gli psicofarmaci. Succede a milioni di italiani ogni anno: 8 mediamente utilizzano sostanze, oltre 10 consumano alcolici in maniera smodata, altrettanti gli antidepressivi. Numeri da brivido, secondo gli esperti destinati ad aggravarsi per effetto della pandemia. E se appena in 136mila nel 2019 - sono gli ultimi dati disponibili, contenuti nella Relazione del Dipartimento delle politiche antidroga pubblicati a novembre - hanno avviato un percorso all’interno dei Servizi pubblici dedicati (i famosi SerD), per altro mediamente sette anni dopo l’inizio della dipendenza (un dato altrettanto drammatico), quasi 30mila sono invece stati accolti dalle comunità: 908 quelle esistenti da Nord a Sud, di cui 821 (il 90%) private. Come e perché si arriva in queste strutture? Cosa succede al loro interno? Quando e come se ne esce? Non ci sono misteri o opacità. I percorsi socio-riabilitativi viaggiano su due binari: per la maggior parte vengono gestiti proprio dai SerD, che indirizzano le persone più bisognose di aiuto alle comunità (accreditate in base a criteri stringenti) nell’ottica di un rapporto pubblico-privato che in passato ha fatto fatica a decollare, ma che oggi risulta piuttosto “rodato”. In questi casi è lo Stato a pagare la diaria degli utenti, purtroppo ancora disomogenea a livello nazionale e legata ai budget sanitari delle singole Regioni (si va dai 40 ai 100 euro al giorno a ospite). Poi ci sono gli ingressi indipendenti, gestiti in maniera autonoma dalle comunità (e finanziati, anche, in maniera autonoma). Nelle strutture partono progetti personalizzati di durata variabile (dai 6 ai 18 mesi, in alcuni casi più lunghi), dove a una prima fase di accoglienza e di disintossicazione si affianca un percorso di ricostruzione - personale prima e di reinserimento sociale poi - gestito da figure professionali preparate: operatori sanitari, psichiatri e psicologi, educatori. Gli utenti sono separati in base alle età e alle dipendenze, oltre che alle condizioni fisiche: all’interno delle comunità - anche in questo caso siamo su un altro pianeta rispetto agli anni Ottanta - esistono strutture dedicate ai malati di Aids, ai giocatori d’azzardo, ai cocainomani, alle doppie diagnosi (cioè a chi ha problemi psichiatrici), ai minori. E le famiglie vengono considerate alla stregua dell’utenza: con genitori, coniugi e figli partono percorsi paralleli di formazione e consulenza psicologica, anche questi gestiti da professionisti. Buone, le percentuali di successo, anche se non quantificabili a livello generale: ognuno fa i conti per sé, ogni ricetta mostra pregi e limiti, ma l’offerta di una “cura” che vada al di là del metadone, nel semi-deserto di offerte messe in campo dalle istituzioni (anche e soprattutto sul fronte della prevenzione), è già tantissimo. Tutto codificato in un testo di legge e seguito passo passo dallo Stato? Nient’affatto, e qui veniamo alle note dolenti. Se servizi territoriali e comunità sono cambiate tentando - spesso a rischio della propria sopravvivenza - di stare al passo coi tempi, le norme sono rimaste (queste sì) le stesse dal 1990. Ad allora risale il Testo unico sulle dipendenze, la famosa legge Vassalli-Jervolino, ritoccata fra le polemiche nel corso degli anni relativamente al concetto di “modica quantità” e alle sanzioni. Nessuna modifica, invece, sul fronte di cosa si intenda per dipendenza, su come vada gestita e curata, sul ruolo e le prerogative da assegnare a ciascuno degli attori impegnati sul campo e su come farli dialogare tra loro. Nell’ottobre del 2019 tutte le comunità (oggi tornate a dividersi nel dibattito sulla figura di Muccioli) si fecero promotrici di un appello forte, a Montecitorio, affinché il governo ricominciasse a guardare al mondo delle dipendenze con interesse, riformando regole e norme: un grido risuonato nel vuoto, come quello lanciato nei primi mesi del Covid, quando nessuno si occupò di pensare a protocolli specifici per i tossicodipendenti dentro e fuori dalle comunità (la delega alle Politiche antidroga, d’altronde, giace inerte nelle mani del premier Conte dai tempi del ministro leghista Fontana). Dimenticate per quello che sono oggi, infangate per quello che - in alcuni casi - hanno sbagliato sessant’anni fa mentre tutti gli altri stavano a guardare, le comunità restano drammaticamente sole. Coi loro 30mila ragazzi da salvare ogni anno. La docuserie di Netflix che divide il Paese - Accuse, critiche, ripensamenti, ma anche plausi: le cinque puntate della docuserie “SanPa” uscito su Netflix il 30 dicembre scorso (scritto da Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli per la regia di Cosima Spender) sono tornati a dividere politica, società civile e opinione pubblica sulla figura contrastata di Vincenzo Muccioli, fondatore della comunità di San Patrignano, finito sotto processo negli anni Ottanta (e alla fine assolto) per i metodi utilizzati coi tossicodipendenti. I primi a lamentare la miopia dell’operazione sono stati proprio i vertici della comunità di Coriano, nel Riminese: “Si tratta di un racconto sbilanciato, che si ferma al 1995 e che ignora la nostra storia”. La comunità, per altro, avrebbe messo a disposizione una lunga lista di persone da sentire per costruire il documentario, del tutto ignorate da chi l’ha girato. Anche Letizia Moratti, da sempre sostenitrice insieme al marito Gian Marco della comunità, non è stata coinvolta nel montaggio: “Mi ha colpito vedere nel docu-film soltanto ombre. Non aver raccontato nessuna delle storie di fragilità che poi sono diventate forza e vita piena è stata un’occasione persa”. Mentre il figlio di Muccioli, Andrea, ha sostenuto che “non si tratta di un documentario, ma di una fiction. Cerca l’effetto choc e falsifica la storia, ci riesce benissimo”. Croazia. Sulla via balcanica dei migranti morta anche la pietà per i disabili di Nello Scavo Avvenire, 11 gennaio 2021 Secondo le autorità di Sarajevo nel corso del 2020 sono entrate in Bosnia poco più di 16mila persone, altre 11mila sono state bloccate lungo i confini a sud. Farid si è svegliato senza una gamba. Eppure era sicuro di averla ancora dopo l’incidente stradale capitato al camion sotto al quale si era nascosto per sfuggire alle guardie di confine. Soprattutto Farid non riusciva a capire come fosse possibile che un mutilato potesse addormentarsi in un pronto soccorso in Slovenia per poi risvegliarsi a Sarajevo, in Bosnia. I respingimenti dai Paesi Ue alla Bosnia non conoscono sosta, e nemmeno pietà. Anche della famiglia di curdo-iraniani catturati e portati via sotto i nostri occhi non c’è notizia. Erano riusciti a superare i crinali innevati e i campi minati in Croazia. Nell’Hotel Porin, l’unico centro di permanenza ufficiale del Paese, nella periferia di Zagabria, nessuno li ha visti ancora arrivare. Di là della foresta, nei campi di confine bosniaci, la condizione non migliora. Un primo gruppo di circa duecento migranti rimasti senza riparo dopo l’incendio al campo di Lipa, presso Bihac, è stato provvisoriamente sistemato sotto a grandi tendoni riscaldati allestiti dalle forze armate bosniache. Gli stranieri sono rimasti per giorni esposti alla neve e al gelo, senza un riparo neanche per la notte. Secondo le autorità di Sarajevo nel corso del 2020 sono entrate in Bosnia poco più di 16mila persone, altre 11 mila sono state bloccate lungo i confini a sud. Nei miseri centri d’accoglienza bosniaci sono registrati 6.300 migranti. Secondo le stime del Ministero dell’Interno altri 1.500 soggiornano in sistemazioni private o vagano all’aperto, nei boschi o in edifici abbandonati. Tra questi c’era proprio Farid, il ragazzo afghano rimasto senza la gamba destra. La sua testimonianza è stata raccolta proco prima di Natale da “Infokolpa”, una delle organizzazioni del network “Border violence monitoring”. Farid aveva cercato di attraversare il confine con la Slovenia alcuni mesi prima. Si era acquattato sotto a un tir, agganciandosi al telaio, ben nascosto tra gli pneumatici. Una volta in Slovenia il mezzo ha avuto un incidente, così Farid si è gravemente ferito. Per la sua gamba non c’era più niente da fare. Dopo tre interventi, mente era tenuto in coma farmacologico, i medici hanno amputato l’arto fin sopra al ginocchio. Da subito Farid aveva espresso la volontà di ottenere protezione internazionale. Invece è stato caricato su un’ambulanza e scaricato come accade a chi viene acciuffato lunga la traversata dalla Croazia all’Italia. Non sono bastati 17 giorni in uno degli spedali di Lubiana per guadagnare almeno la speranza di una riabilitazione motoria in Europa. Dalla capitale slovena è stato “riammesso” in Croazia, da cui non ricorda neanche di essere transitato con il camion, e da qui in Bosnia Erzegovina, dove era stato consegnato a un campo profughi ufficiale. Lì, però, non c’erano cure adeguate a un caso grave come il suo. Ora si trova in un appartamento preso in affitto da un amico con cui attende la guarigione e qualcuno che si decida a fornirgli una protesi. A Zagabria, intanto, le autorità continuano a ripetere che ogni segnalazione di abusi commessi dalle forze dell’ordine viene presa sul serio ed esaminata. E così si viene a sapere che a Karlovac, città a sud della capitale, nota per la confluenza di quattro fiumi e per la produzione di birre e pistole, a ottobre il tribunale ha respinto le accuse della polizia contro un presunto trafficante iraniano e quattro migranti orientali. Gli agenti avevano spiegato le circostanze dell’arresto, a cui gli stranieri si erano opposti, sostenendo che la violenza era venuta dagli iregolari e non dalla polizia. Il tribunale non ha creduto a questa versione e ha rimesso in libertà i migranti, che avevano manifestato l’intenzione di chiedere asilo. La polizia li aveva accompagnati fuori dal tribunale facendoli salire a bordo di un furgone. Alcuni giorni dopo, i cinque sono riapparsi in Bosnia. Respinti. Il commissariato, intanto, aveva presentato ricorso contro l’assoluzione dei migranti. Ma anche la corte d’appello ha confermato il verdetto di non colpevolezza. Gli episodi ricostruiti da Avvenire nell’ultimo mese saranno oggetto di diverse interrogazioni parlamentari in Italia e a Bruxelles. Pina Picierno (Pd) ha presentato un’istanza urgente “alla Commissione Ue e a Ursula von der Leyen perché si faccia chiarezza”. Nei giorni scorsi altri esponenti dell’europarlamento, tra cui Pietro Bartolo, vicepresidente della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, ha chiesto risposte rapide ed esaustive davanti alle accuse di respingimenti a catena e a ritroso dall’Italia alla Slovenia, da qui alla Croazia e infine in Bosnia. Le copiose nevicate delle ultime ore fanno però del territorio bosniaco, fuori dalla giurisdizione Ue, il proscenio di una nuova tragedia umanitaria. Se pare tramontata l’ipotesi di adeguare l’accampamento incendiato a Lipa, nemmeno un trasferimento a Bihac pare al momento un’opzione praticabile sempre per l’opposizione del sindaco della cittadina e delle autorità del Cantone di Una Sana, che a fine settembre avevano chiuso il campo di Bira, allestito in una ex fabbrica e si erano opposti ad ogni tentativo di riapertura. Uno scontro tutto interno alla politica bosniaca che secondo l’Organizzazione Onu per le migrazioni (Oim) lascia almeno 3 mila persone allo sbando e in pieno inverno. Se Zagabria, nonostante le accuse di respingimenti, non ha intenzione di costruire barriere. La Slovenia, al contrario, procede nell’istallazione di un “muro” che dovrebbe coprire una quarantina di chilometri lungo le zone maggiormente porose. Opere realizzate grazie a finanziamenti dell’Unione europea. Stati Uniti. È sulle “bolle” dei social che bisogna intervenire per aiutare la democrazia di Mario Garofalo Corriere della Sera, 11 gennaio 2021 La decisione tardiva di chiudere gli account di Trump su Facebook e Twitter. E il nodo delle “camere dell’eco”, dove si evidenziano i post più vicini alle opinioni di chi legge. Mark Zuckerberg e Jack Dorsey hanno raccolto il plauso dei liberal chiudendo gli account di Trump su Facebook, Instagram e Twitter, dopo che il presidente li ha utilizzati per istigare la folla ad assaltare il Congresso. E hanno suscitato la dura reazione dei repubblicani che hanno visto nella mossa una forma di censura. In ogni caso si può dire che l’intervento sia stato tardivo. The Donald è una creatura dei social network, il suo successo nel 2016 sarebbe stato impensabile senza l’esistenza di Twitter e dei suoi milioni di follower. Come ha ben spiegato il politologo Yasha Mounk, il linguaggio scorretto dell’allora candidato repubblicano sarebbe stato ignorato dai media tradizionali se questi ultimi non fossero stati costretti a occuparsene per stare dentro il flusso delle notizie che comunque scorreva attraverso i post. La comunicazione, in quei mesi, si è trasformata: da verticale (uno-a-molti) a orizzontale (molti-a-molti). Soprattutto, Trump è stato abile (nella campagna elettorale come negli anni di presidenza) nell’utilizzare una distorsione, un effetto collaterale dei social. Come ha spiegato uno dei creatori di Facebook, Roger McNamee, l’obiettivo principale delle piattaforme è trattenere gli utenti il più a lungo possibile. Come ci riescono? Impadronendosi dei loro dati e analizzandoli, usandoli per vedere che cosa susciterà in loro reazioni più intense e fornendone ancora. È così che favoriscono modalità espressive e contenuti estremi, provocatori, semplicistici: quelli utilizzati da Trump e, più in generale, dai populisti. L’ideologo della campagna del 2016, Steve Bannon, dichiarò non a caso che le elezioni erano state vinte proprio grazie a slogan violenti come “drain the swamp” (“prosciughiamo la palude della burocrazia”) o “lock her up” (“rinchiudiamo Hillary Clinton”). Per lo stesso scopo (intrattenere gli utenti inconsapevoli) sui social nascono le “echo chamber”, le “camere dell’eco”, dove vengono selezionati e messi in evidenza i post più vicini alle proprie opinioni. Cass Sunstein, che più di altri le ha studiate, ha sottolineato il paradosso di una tecnologia che ci mette in contatto con persone che stanno dall’altra parte del pianeta e contemporaneamente ci rinchiude dentro dei silos in cui tutti la pensano come noi. Con l’effetto finale della “polarizzazione”, della radicalizzazione delle idee politiche. Il linguaggio estremo e politicamente scorretto è tipico del trumpismo: non ci vuole molto per vedere che il fenomeno dei social e il populismo sono strettamente intrecciati. Tanto più che la “disintermediazione”, l’idea che il leader possa raggiungere direttamente il “popolo” bypassando i media tradizionali è un caposaldo della comunicazione sovranista. Se è vero che le scelte di Zuckerberg e Dorsey rischiano di essere tardive, però, non vuol dire che non siano in qualche modo incoraggianti. In un documento interno a Twitter, 350 impiegati hanno usato parole dure: “Nonostante i nostri sforzi di seguire esclusivamente il dibattito pubblico — hanno scritto — ci siamo trasformati nel megafono di Trump aiutandolo a infiammare la folla”. Che si tratti di censura o di difesa della democrazia, la chiusura degli account vuol dire che la riflessione sul ruolo e sul funzionamento dei social network è avviata e non può risparmiare il problema delle “echo chamber”. Siamo sicuri che siano l’unico sistema possibile per attrarre gli utenti? Gli algoritmi andrebbero corretti almeno per ridimensionarne l’impatto. Magari con l’aiuto di un intervento pubblico, che detti regole uguali per tutti, visto che ci sono in ballo la democrazia e la libertà di espressione e che Trump, dopo aver scelto un altro social (il conservatore Parler) progetta di crearne uno tutto suo. Stati Uniti. Censura senza coerenza: perché silenziare Trump e dare voce ai dittatori? di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 11 gennaio 2021 A stabilire se le parole di incitamento all’eversione di un presidente siano un reato deve essere la giustizia americana, non Twitter o ciascuno di noi. Dicono che Twitter e gli altri social sono agenzie private e che dunque se silenziano (tardivamente, molto tardivamente) Donald Trump non si può parlare di censura. Dicono anche che il direttore di questo giornale ha tutto il diritto di cestinare il mio articolo, se lo ritenesse legittimamente impubblicabile, e che in questo caso sarebbe del tutto improprio parlare di censura. Vero, verissimo. Solo che una piattaforma che governa la rete in modo quasi monopolistico non è un giornale e inoltre un giornale è uno dei tanti, mentre le piattaforme sono poche. Le analogie dovrebbero essere altre. Se una casa editrice non vuole pubblicare un libro, non è censura, ma se tutte le librerie d’Italia decidono di non venderlo dopo che è stato pubblicato da un’altra casa editrice, altroché se non è censura. Se un giornale non vuole pubblicare un articolo non è censura, ma se tutte le edicole decidessero di non vendere quel giornale, è inevitabilmente censura. Se in autostrada vado a 200 all’ora non considero un abuso una sanzione molto severa, ma se l’azienda autostradale (privata ancorché concessionaria) mi impedisce sine die di percorrere la sua rete, allora il sopruso appare evidente. Trump scrive e cinguetta cose nefande? A mio giudizio sì, ma a mio giudizio e il mio giudizio, come quello di chiunque altro, non può essere Legge insindacabile e autorizzazione all’imbavagliamento. E poi ci sarà pure una minima distanza tra il gridare (sia pur potenzialmente eversivo) ai brogli elettorali e l’assalto putschista al cuore della democrazia americana, che invece va trattato, non con la censura, ma con i mezzi molto più convincenti della Guardia Nazionale. Ma, si dice citando con disinvoltura l’unica frase infelice di un grande filosofo liberale come Karl Raimund Popper (il cui La società aperta e i suoi nemici ha dovuto aspettare 27 anni prima di essere tradotto in Italia: a volte l’autocensura conformista è peggio della censura), che non si può essere tolleranti con gli intolleranti. Si dimentica però, per dire, che tra gli intolleranti nemici della società aperta e dei totalitarismi Popper annoverava non solo i nazisti e i fascisti, ma anche i comunisti: segno di come i confini dell’intolleranza all’intolleranza siano estremamente mutevoli e storicamente precari. La ruota gira, e chi oggi sostiene il massimo rigore censorio nei confronti di parole considerate spregevoli dovrebbe ricordare che in un’altra epoca si invocò la mannaia della censura sui cosiddetti “cattivi maestri” che, predicando l’abbattimento rivoluzionario delle istituzioni “borghesi”, venivano accusati di alimentare con i loro scritti la deriva terroristica. Attenzione: i cattivi su cui puntare le armi della censura cambiano colore e aspetto, anche se non cambia la smania censoria. La censura, peraltro, dovrebbe conservare almeno un minimo di coerenza. Se si mette la sordina al presidente americano ancora in carica per il suo incitamento all’eversione (ma a stabilire se è un reato deve essere la giustizia americana, non Twitter o ciascuno di noi) non si capisce perché si permetta all’ayatollah iraniano Khamenei, nel cui Paese continuano le impiccagioni di dissidenti e le persecuzioni contro le donne, di scrivere che “Israele è un cancro maligno in Medio Oriente che va rimosso e sradicato”, e non ci vuole molta fantasia per immaginare come dovrebbe realizzarsi questo “sradicamento”. Oppure perché dittatori, caudillos o leader a forte vocazione autoritaria come i leader cinesi e russi, il presidente Erdogan e Maduro in Venezuela debbano usufruire dello spazio pubblico dei social, con post che sono molto più violenti di quelli del pur violentissimo Trump. Non c’è niente di peggio di un censore che si dice difensore intransigente di principi irrinunciabili e che pure sembra transigere con grande disinvoltura. Inevitabilmente scatta il sospetto che si tratti di principi onorati con eccessiva elasticità, da applicare rigidamente con chi è nel cono d’ombra e molto blandamente con chi invece gode di un grande e non incrinato potere. E soprattutto che si tratti di silenziamenti condizionati da ragioni contingenti di opportunità. Ovviamente, nella brutale semplificazione che sta inquinando sempre più diffusamente il dibattito pubblico, il rischio è di passare per trumpiani se si eccepisce sulla decisione (legale ma errata) di Twitter di oscurare il profilo di Trump. Ma Tzvetan Todorov ci aveva già ammonito che è facile esser tolleranti con chi la pensa come noi. Il difficile è esercitare le virtù della tolleranza e della libertà con le forme più sgradevoli e persino ripugnanti delle altrui opinioni. Il difficile è ingaggiare una dura battaglia politica e culturale con quelle posizioni senza dover far ricorso all’aiutino della censura e della messa al bando. La superiorità della democrazia liberale non dovrebbe essere misurata su questo, anche? Stati Uniti. L’esecuzione di Lisa Montgomery è l’ultima barbarie di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 11 gennaio 2021 Per domani è programmata negli Stati Uniti l’uccisione di Lisa Montgomery. Essa a sua volta ha ucciso. Sedici anni orsono. E per questo è stata condannata. Per lunghi anni è rimasta in attesa nel braccio della morte. Nei giorni successivi altri due condannati saranno uccisi. Negli Usa i singoli Stati hanno comportamenti diversi, ma per i reati federali da tempo le esecuzioni della pena di morte sono rimaste sospese. Fino a quando, in vista della campagna elettorale del 2020, il presidente-candidato Trump ha disposto che le esecuzioni ricominciassero. Quella di Lisa Montgomery è fissata a pochi giorni dall’inizio della presidenza Biden, che pare contrario alla pena di morte e quindi intenzionato a nuovamente disporne la sospensione. Salvo quindi eventuali sviluppi straordinari della situazione creatasi a Washington, sarà Trump e non Biden, presidente non ancora insediato, a decidere sulla istanza di commutazione della pena che è stata presentata dagli avvocati della condannata. Ma l’esito è probabilmente segnato, dal momento che la posizione di Trump sulle esecuzioni è un tassello, altamente visibile ed emblematico, della sua politica e del programma elettorale che gli hanno portato più di settantaquattro milioni di voti. È ragione di gloria per l’Italia l’esser stata all’origine della lunga lotta di emancipazione dalla cultura di morte di cui la pena capitale è espressione. Si tratta di una questione di umanità e razionalità che accompagna le società sulla via della civiltà. All’inizio fu Cesare Beccaria con il suo libro Dei delitti e delle pene del 1764, con l’immensa influenza ch’esso ebbe nell’Europa del tempo. Prima al mondo, la Toscana abolì quella pena nel 1786. Il Granduca Pietro Leopoldo riteneva che la pena di morte fosse conveniente solo ai popoli barbari. Le pene dovevano esser definite esclusivamente in vista del loro scopo: la “correzione del reo figlio anche esso della società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi”, assicurando però che i colpevoli dei più gravi reati “non restino in libertà di commetterne altri”. Le pene dovevano essere efficaci col minor male possibile al reo: “Tale efficacia e moderazione insieme si ottiene più che con la pena di morte, con la pena dei lavori pubblici, i quali servono di un esempio continuato, e non di un momentaneo terrore, che spesso degenera in compassione”. C’era negli argomenti il riflesso immediato di quelli sviluppati da Beccaria. Essi sono ancor oggi validi e nuovamente esposti nella recentissima Risoluzione, con cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite per rispettare la dignità umana e mancando prove convincenti del valore dissuasivo della pena di morte, ha invitato tutti gli Stati ad adottare una moratoria dell’applicazione della pena di morte, in vista della sua abolizione (123 Stati hanno votato a favore e 38 contro). Nel mondo ancora 76 Paesi praticano la pena di morte. Tra essi diversi Stati degli Stati Uniti, l’Iran, la Cina, l’India, il Giappone, l’Egitto. La maggioranza degli altri l’ha abolita e il loro numero tende a crescere. Noi in Europa l’abbiamo tolta dal catalogo delle sanzioni penali: ciò è avvenuto progressivamente a livello nazionale e infine da parte di tutti i 47 Stati europei che hanno sottoscritto la Convenzione europea dei diritti umani. Il numero e i caratteri degli Stati che ancora la mantengono sconsiglia di adottare il troppo semplice giudizio del Granduca Leopoldo, che l’uso o il rifiuto della pena di morte divida i popoli in barbari e civilizzati. Molti altri elementi concorrono a definire i caratteri delle società, ciascuna diversa dalle altre anche nel riconoscimento di diritti umani che pur si dicono universali. Tra di esse, quella degli Stati Uniti attira la maggior attenzione e la preoccupazione degli europei, per gli stretti legami storici, culturali e politici, ma anche per la distanza che esiste da quella società, così violenta, così diseguale, così refrattaria alla cultura europea contemporanea dello Stato sociale. La pena di morte è solo un aspetto della distanza, ma è una grave causa di profonda divisione. Tornando alla storia italiana, che naturalmente ci interessa, ma che è anche fondamentale nella vicenda dell’abolizione della pena di morte nel mondo, vi è da ricordare che quando dopo l’Unità del Regno d’Italia si pose la necessità di uniformarne la legislazione, superando le particolarità dei diversi Stati preunitari, la Toscana rifiutò di adeguarsi adottando quella pena, prevista da tutti gli altri Stati. Fin quando nel 1889, con il codice penale che porta il nome del ministro Zanardelli, la pena di morte fu esclusa per tutto il Regno. Fu poi il fascismo a reintrodurla ed è stata la Costituzione repubblicana a definitivamente bandirla dall’ordinamento giuridico italiano. Nella storia, ancora una volta a partire da Beccaria e della legislazione toscana, il rifiuto della pena di morte è andata di pari passo con quello della tortura, sia come mezzo giudiziario di estrazione delle prove dalla bocca dell’accusato o del testimone, sia come corollario della esecuzione del condannato, accompagnata da terribili tormenti. Anche nella vicenda di Lisa Montgomery, destinata a concludersi con la sua uccisione, nuovamente compare il nesso con i trattamenti inumani. Essa da sedici anni è detenuta nel braccio della morte: da sedici anni in attesa. Si può pensare che quella persona sia la stessa che sedici anni orsono uccise? Che senso ha ora ucciderla, se non per soddisfare una richiesta di vendetta di cui lo Stato si fa esecutore? Negli Stati Uniti i parenti delle vittime sono spesso ammessi ad assistere alla uccisione dell’assassino. Ma la sola attesa della esecuzione, che si trascina anche per le innumerevoli possibilità di ricorso, trasforma quella detenzione in un trattamento inumano. Prima che il divieto di pena di morte si imponesse per tutti gli Stati europei e divenisse quindi di per sé un impedimento all’estradizione verso gli Stati che la praticano, così ha ritenuto la Corte europea dei diritti umani: inumana la lunga e imprevedibile attesa nel braccio della morte, inumanità poi la pena di morte. Guantánamo nel 20° anno: ancora violazioni dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 gennaio 2021 In occasione dell’ingresso nel ventesimo anno di operatività e mentre un nuovo presidente sta per insediarsi alla Casa Bianca, Amnesty International ha diffuso un nuovo rapporto sulle violazioni dei diritti umani ancora in corso nel centro di detenzione di Guantánamo Bay. Il rapporto non riguarda solo le 40 persone ancora detenute - tutte da oltre 10 anni, alcune sin dall’apertura - ma anche i crimini di diritto internazionale commessi a Guantánamo negli ultimi 19 anni - detenzione arbitraria e senza processo, torture e alimentazione forzata - e la continua mancanza di accertamento delle responsabilità. Allo stesso tempo, il rapporto riguarda il futuro, dato che nel 2021 saranno trascorsi 20 anni dagli attacchi dell’11 settembre e dall’inizio della ricerca di una giustizia autentica, quella che Guantánamo, con la sua manciata di condanne emesse dalle commissioni militari, non ha minimamente assicurato. Il rapporto descrive tutta una serie di violazioni dei diritti umani commesse ai danni dei detenuti di Guantánamo, dove ancora oggi vittime di tortura sono trattenute a tempo indeterminato, senza cure mediche adeguate e in assenza di un processo equo. I trasferimenti si sono fermati e anche i detenuti per i quali è stato deciso il rilascio anni fa restano lì. Il centro di detenzione di Guantánamo venne aperto l’11 gennaio 2002 nel contesto della “guerra globale al terrore”, la risposta statunitense agli attacchi dell’11 settembre, con l’obiettivo di ottenere informazioni d’intelligence a spese delle tutele sui diritti umani. Vi sono transitate in tutto 780 persone, per essere via via rilasciate senza processo: ben più di 500 durante la presidenza Bush, 197 sotto quella di Obama, solo una nei quattro anni di Trump. Il rapporto di Amnesty International chiede un genuino e urgente impegno in favore della verità, dell’accertamento delle responsabilità e dei rimedi giudiziari insieme al riconoscimento che la detenzione a tempo indeterminate a Guantánamo non può proseguire oltre. “Le persone ancora detenute a Guantánamo sono inesorabilmente intrappolate a causa di multiple condotte illegali dei governi Usa: trasferimenti segreti, interrogatori in regime d’isolamento, alimentazione forzata durante gli scioperi della fame, torture, sparizioni forzate e il totale diniego del diritto a un giusto processo”, ha commentato Eviatar. Nel 2009, in occasione della Conferenza sulla sicurezza di Monaco, l’allora vicepresidente e ora presidente eletto Joe Biden dichiarò: “Rispetteremo i diritti delle persone che vogliamo portare a processo e chiuderemo il centro di detenzione di Guantánamo Bay (…) I trattati e gli organismi internazionali che edifichiamo devono essere credibili ed efficaci”. Dodici anni dopo, mentre si appresta a diventare presidente degli Usa, Biden ha l’occasione per dare seguito alle sue parole. Non deve perderla. Cile. L’impunità della polizia e la ribellione dei mapuche di Elena Basso Il Manifesto, 11 gennaio 2021 L’agente che assassinò Camilo Castrillanca, il giovane divenuto simbolo di lotta permanente nelle piazze, se l’è cavata con una condanna lieve. Durissima invece la repressione delle proteste Chi cammina fra le strade soleggiate di Santiago del Cile viene osservato dagli occhi di un ragazzo. Sono sempre gli stessi, rincorrono le persone per tutta la capitale. Quegli occhi sono ovunque, sono appesi su tutti i muri della città. È lo sguardo di Camilo Catrillanca: leader mapuche di 24 anni, il 14 novembre del 2018 la polizia cilena lo ha ucciso con un colpo alle spalle e oggi è il simbolo delle proteste che sconvolgono il Cile da oltre un anno. Camilo si trovava su un trattore con un altro ragazzo minorenne quando sono stati attaccati da un commando di poliziotti. Il suo assassinio è stato uno dei casi più discussi in Cile negli ultimi anni e ha generato enormi ondate di indignazione. In questi mesi si è svolto il processo per il suo assassinio e giovedì 7 gennaio, alle 11 del mattino, è stata letta la sentenza: il principale sospettato, l’ex sergente Carlos Alarcón, è stato condannato per omicidio semplice e altri sei funzionari della polizia sono stati dichiarati colpevoli di ostruzione alla giustizia. Il padre, Marcelo Catrillanca, che si trovava di fronte al tribunale ha dichiarato: “Questa sentenza è una presa in giro per il popolo mapuche e per la vita di Camilo. La vita di un essere umano non può valere così poco. Voglio dire a mio figlio che ho fatto tutto il possibile per ottenere giustizia. Almeno abbiamo portato quei poliziotti in tribunale ed è stato dichiarato che sono degli assassini”. In poche ore in tutta la regione dell’Auracanía - regione del Cile centro-meridionale storicamente abitata dai mapuche, popolo originario del Cile e dell’Argentina - si sono sviluppate proteste per la sentenza. Non si è fatta attendere la risposta delle forze dell’ordine che hanno iniziato a reprimere ferocemente i manifestanti. La madre e la moglie di Camilo Catrillanca sono state ammanettate e arrestate brutalmente insieme alla figlia di sette anni. Immediatamente sono iniziate a circolare le immagini della bambina in lacrime portata via da quattro agenti in divisa: alle spalle un altro manifestante mapuche sbattuto a terra con un poliziotto che lo ammanetta. Come ha dichiarato la deputata mapuche Emilia Nuyado: “La repressione in atto in Auracanía dimostra che lo Stato cerca sempre di tormentare e punire i mapuche. Noi pretendiamo giustizia per l’omicidio di Camilo: vogliamo una pena esemplare. I poliziotti hanno sparato senza ragione a due giovani disarmati, di cui uno minorenne. È sbagliato che la giustizia lo qualifichi come omicidio semplice, dato che le prove sono state occultate e le forze dell’ordine hanno tentato di creare una montatura accusando Camilo di aver rubato un auto. Noi abbiamo il legittimo dubbio che questo assassinio sia stato pianificato”. È diventato virale il video di un giovane mapuche ferito durante gli scontri in Auracanía seguiti alla lettura della sentenza. Nelle immagini si vede il ragazzo che perde moltissimo sangue: la polizia gli ha sparato un proiettile di gomma alla bocca trapassandola. Quello fra i mapuche e lo Stato cileno è un conflitto che va avanti ormai da moltissimi anni ma dal 18 ottobre 2019, quando sono iniziate le proteste contro il governo di Sebastian Piñera per le enormi disuguaglianze fra la popolazione, si è inasprito. Ma quali sono le ragioni del conflitto? Nonostante siano oltre 2milioni gli abitanti cileni appartenenti alle popolazioni indigene (i mapuche sono la più numerosa) che subiscono politiche discriminatorie portate avanti dal governo, le loro proteste sono sistematicamente represse e molti loro leader sono stati assassinati o imprigionati. Venerdì 8 gennaio le proteste per la sentenza contro i colpevoli dell’assassinio di Catrillanca si sono spostate a Santiago del Cile. Migliaia di persone hanno manifestato e nel tardo pomeriggio hanno fatto irruzione a Plaza Dignidad, che da mesi era occupata dalle forze dell’ordine. La bandiera mapuche è di nuovo al centro della piazza simbolo delle proteste. Il 16 dicembre scorso il Parlamento ha approvato una legge che riserva a rappresentanti delle comunità indigene 17 posti su 155 totali nell’assemblea che avrà il compito di redigere la nuova Costituzione cilena, dopo che il 25 ottobre con un referendum si è votato per abrogare la vecchia Costituzione scritta ai tempi del regime militare di Pinochet. Salvador Millaleo è un avvocato mapuche, docente di Diritto all’Università del Cile ed è uno degli esperti che ha scritto il progetto di legge sui posti riservati alle comunità indigene. È inoltre membro della Comision chilena de derechos humano e candidato all’assemblea costituente per il Partito comunista. Come dice al manifesto: “È stato molto difficile e abbiamo rischiato molte volte di non trovare una soluzione. I popoli indigeni avrebbero voluto ottenere di più, ma quando abbiamo iniziato a discutere della legge i posti riservati erano zero. Il governo cileno con i popoli indigeni non ha mai avuto un rapporto orizzontale ma paternalista e repressivo: lo Stato non solo non riconosce i diritti degli indigeni ma reprime e criminalizza le proteste. In questa situazione avere 17 posti è qualcosa senza dubbio rilevante”. Durante le manifestazioni contro il governo è sempre esposta la bandiera mapuche, come spiega Millaleo, “da quando sono iniziate le proteste, nell’ottobre 2019, si è creata molta empatia nei confronti dei popoli indigeni che hanno sofferto in modo esemplare la repressione governativa, la discriminazione e le disuguaglianze. I popoli indigeni rappresentano la resistenza, la lotta permanente e la dignità: di fronte agli abusi hanno continuato a lottare per i loro diritti. Una nuova Costituzione può essere molto importante, nell’ottica di lavorare a una politica pubblica e a nuove leggi che finalmente riconoscano i diritti dei popoli indigeni”.