Se il virus dilaga dietro le sbarre di Paola Severino La Stampa, 10 gennaio 2021 L’emergenza senza fine nelle carceri. I resoconti sull’anno che è appena trascorso ci hanno ricordato il dolore per una intera generazione di anziani che ci ha lasciato, la sofferenza di figli che non hanno potuto dare l’ultimo saluto a genitori portati via da una malattia impietosa, l’eroismo di infermieri e medici che non hanno esitato ad esporsi al rischio di contagio per salvare vite umane, il senso di responsabilità degli italiani nella prima fase della pandemia, quando il lockdown ha sospeso le nostre vite tenendoci prigionieri nelle nostre abitazioni. Molto meno è stato detto e scritto sugli effetti che la pandemia ha prodotto tra gli oltre 53.000 detenuti nei 189 istituti penitenziari italiani. Il silenzio è stato rotto dagli scritti di Fiandaca e di Bentivogli e dall’articolo di Liliana Segre e Mauro Palma in cui, tra l’altro, traendo spunto dal tema del vaccino, si sottolinea che “il carcere è luogo strutturalmente chiuso, dove peraltro, dati i numeri attuali, la misura del distanziamento è impossibile”. Abbiamo tutti provato, in questo anno terribile, il senso opprimente dell’essere obbligati a non uscire di casa, a condividere spazi limitati, in una convivenza a volte forzata e in alcuni casi matrice di atroci violenze familiari a carico delle donne. Eppure questa prova terribile cui tutti siamo stati sottoposti non ci ha affatto avvicinato al tema del carcere e delle sofferenze che esso comporta. Anzi, ha forse stimolato ancor più la diffusa considerazione che “loro” sono reclusi perché si sono macchiati di gravi reati, mentre “noi” siamo stati privati della libertà nonostante fossimo privi di colpe. Ciò ha dilatato ancor più il concetto che il carcere sia “altro da sé”, rappresenti cioè un mondo che non ci appartiene, da relegare quindi lontano e di cui non vale la pena di parlare. Quando poi, dopo le prime settimane che hanno visto dilagare il contagio, è scoppiata la rivolta in alcune carceri, si è subito pensato (forse non a torto) che si sia trattato di una reazione a catena innescata dalla criminalità organizzata. Non si è invece pensato al silenzioso eroismo degli agenti di polizia penitenziaria (anche essi travolti dall’oblio per tutto ciò che attiene al carcere) che, oltre ad aver affrontato quotidianamente il rischio del contagio, hanno avuto la capacità di sedare la ribellione senza che vi siano state vittime o evasioni. Né si è parlato del ruolo che gli stessi detenuti hanno svolto, contrapponendosi ai pochi violenti, aiutando a riportare l’ordine e dimostrando quanto la funzione rieducativa del carcere si affianchi, come la nostra Costituzione sottolinea, a quella punitiva. Né, infine, ci si è soffermati sul senso di isolamento già connaturato al carcere, ma accentuato dalla impossibilità, per evitare il contagio, di incontrare i propri familiari. Solo chi ha avuto esperienze di visite al carcere sa quanto siano significativi per i detenuti gli incontri con i propri cari e quanto sul numero dei suicidi influisca il loro diradarsi o venir meno. Sono stata testimone diretta di almeno due episodi significativi di questa correlazione nel breve periodo in cui sono stata ministro della Giustizia. Il primo ha riguardato una detenuta che si tolse la vita nel carcere di Cagliari. Accorsa per verificare se vi fossero state inadempienze della struttura, mi trovai tra le lacrime di detenute e agenti disperate per non aver potuto impedire ciò che probabilmente era inevitabile. La donna, infatti, era stata completamente abbandonata dalla famiglia la quale, come ultimo atto di spregio, non volle neppure la restituzione del cadavere. Il secondo ha riguardato un detenuto del carcere di Torino. Notai la sua cella perché, diversamente da quella di altri detenuti - che si affacciavano per vedermi e parlarmi - appariva disabitata. Mi avvicinai alle sbarre e dal buio emerse il volto disperato di un uomo che aveva dei segni lividi intorno al collo. Chiesi cosa fosse accaduto e lui mi raccontò trattenendo le lacrime di aver tentato di suicidarsi con un lenzuolo intorno al collo, dopo aver saputo che la sua istanza di trasferimento in un carcere più vicino ai familiari era stata respinta. Considero tutt’ora quegli episodi significativi di quanto ciascuno di noi potrebbe impegnarsi se conoscesse storie simili e di quanto, pur presi comprensibilmente dai timori della pandemia e dei suoi disastrosi effetti, potremmo fare per non escludere i detenuti da un cammino di rieducazione e reinserimento sociale, reso ancora più difficile dal totale isolamento anche rispetto agli affetti più cari. Si tratterebbe di un bel modo per rendere noi cittadini partecipi nella attuazione di principi fondamentali della nostra Costituzione. *Vice Presidente Luiss Condannati alla malattia di Maria Lura Iazzetti L’Espresso, 10 gennaio 2021 Mancano medici, infermieri, farmaci. La salute dei detenuti è precaria. E il Covid peggiora la situazione. Viaggio nei penitenziari italiani a rischio. Lavorare in carcere è come iniziare una partita a Monopoli: ti siedi al tavolo conoscendo le regole (quelle scritte) e impari lentamente anche quelle non scritte. I giocatori sono tanti: alcuni giocano per loro esplicita decisione (gli operatori civili, la polizia) altri vi sono costretti (i detenuti). Ognuno gioca per vincere. Per i detenuti significa paradossalmente uscire dal gioco (leggi: uscire dal carcere; leggi: libertà)”. Era il 2 febbraio del 2007 quando Michelangelo Poccobelli, dirigente sanitario della Casa circondariale di Milano Opera, pubblicava quest’intervento sul sito della Società italiana di medicina penitenziaria. In quegli anni l’organizzazione dell’assistenza sanitaria ai detenuti era affidata all’amministrazione penitenziaria. I controlli erano pochi. L’accesso alle visite e ai farmaci spesso non veniva garantito. Chi era in carcere, fra i detenuti comuni o in alta sicurezza (esclusi quelli al 41bis), viveva in condizioni pietose. I dottori lamentavano un sistema inefficace. Quando nel 2008 è arrivata la riforma della medicina penitenziaria, le regole del gioco sono cambiate: la salute dei detenuti è stata affidata al Servizio sanitario nazionale. In molti parlavano di una rivoluzione. Ma dopo dieci anni le criticità rimangono: i controlli sono pochi, l’accesso alle visite e ai farmaci spesso non viene garantito, chi è in carcere vive in condizioni pietose, i dottori lamentano un sistema inefficace. Elisabetta Dalmonte lavora da cinque anni nel carcere di Forlì. È vicedirigente e medico di guardia. “Mi occupo di organizzare i turni e coordinare le visite”, racconta. Ammette che lavorare in un istituto penitenziario non è facile. Bisogna avere un’attitudine particolare. “Mi sono appassionata per caso a questo lavoro. Mi ero iscritta al concorso mentre seguivo un master in geriatria e, quando sono stata selezionata, ho deciso di accettare”. Non esistono corsi di specializzazione o formazione che preparino i neolaureati a diventare medici penitenziari. Si impara sul campo. Elisabetta ama il suo lavoro, ma sa benissimo che le difficoltà non sono poche. Oggi, con la diffusione del nuovo coronavirus e con delle strutture sempre più fatiscenti, le carceri sono bombe a orologeria. “Quando è stato stilato il disegno di legge nel 2008 ero seduto a quel tavolo. Rivendico il principio che era alla base dell’intervento”, spiega Stefano Anastasia, portavoce dei garanti regionali. L’obiettivo della riforma era garantire il diritto alla salute anche nelle carceri, non luoghi in cui il singolo tende ad annullarsi. Gli istituti penitenziari non dovevano più essere contenitori di sofferenze fisiche e psichiche, “fabbriche di malattia”, come le chiama il sociologo Giuseppe Mosconi. Da quel momento in avanti l’assistenza sanitaria sarebbe stata una prerogativa del Servizio sanitario nazionale e non delle singole amministrazioni penitenziarie. Il percorso, però, è ancora lungo. “La situazione è diversificata da regione a regione e da istituto a istituto. Ognuno è gestito da un’azienda sanitaria locale differente”, precisa Sandro Libianchi, medico a Rebibbia e responsabile dell’associazione “Conosci” (Coordinamento nazionale degli operatori per la salute nelle carceri Italiane). I problemi sono di diversa natura. Mancano dottori e infermieri, in primo luogo. Nel 2019 erano 1.000 i medici penitenziari presenti in Italia. Troppo pochi per poter garantire un’assistenza sanitaria adeguata tanto agli oltre 65mila detenuti dell’epoca quanto agli attuali 55mila. A Casal del Marmo (Roma) il medico di base è disponibile sei ore al giorno, gli infermieri 12. I detenuti sono 88. “Tutte queste figure dovrebbero essere presenti 24 ore al giorno”, evidenzia Franco Corleone, ex garante toscano. Quando stava per scadere il suo mandato, ha deciso di intraprendere un digiuno dimostrativo per denunciare le promesse non mantenute da parte delle amministrazioni penitenziarie. “Mancano assunzioni, questa è la realtà”, precisa. Non solo. “Molte volte mancano gli strumenti per poter effettuare gli esami”, aggiunge la dottoressa Elisabetta Dalmonte. Da poco nell’istituto di Forlì hanno potuto comprare un ecografo. Prima dovevano arrangiarsi. “Così lavorare non è facile”. Il rischio è quello di dover richiedere spostamenti verso strutture, ospedali o cliniche, dove possono essere garantiti gli esami. I tempi di attesa sono lunghi. Il Nucleo traduzioni, che si occupa del trasferimento dei detenuti, non è sufficientemente attrezzato: anche in questo caso manca personale. Ci sono regioni in cui l’attesa è più breve. Altre in cui i tempi si dilatano. In Campania, nel carcere di Poggioreale prima di effettuare una tac possono trascorrere anche sei mesi. Quattro per una gastroscopia all’istituto di Arienzo. Garantire in tutte le Asl delle vie preferenziali per prenotare gli esami specialistici potrebbe essere una soluzione efficace. “È importante tenere a mente che, a dispetto del tipo di assistenza sanitaria, il pubblico deve garantire le cure basilari. In questi contesti non è possibile accedere al privato. O ci si cura tramite le Asl o non ci si cura”, chiarisce il portavoce dei garanti, Stefano Anastasia. Proprio per questo motivo, oltre che per le condizioni logistiche, il sistema sanitario carcerario continua a essere messo a dura prova dall’epidemia di Covid-19. Secondo gli ultimi dati disponibili, risultano contagiati quasi 1.000 detenuti e circa 700 agenti. Dalla seconda metà di dicembre i numeri stanno gradatamente diminuendo. Manca una strategia comune. Isolare i positivi in aree dedicate è stata l’unica soluzione adottata per evitare la diffusione del virus. Ma gli spazi non sono sufficienti; nonostante gli arresti domiciliari concessi a marzo e con il decreto ristori, le strutture sono sovraffollate. Dal primo lockdown i detenuti non hanno mai smesso di avere paura. Si stima che il 70 percento sia affetto da una malattia cronica. La possibilità di accedere facilmente ai medicinali è, quindi, indispensabile. Nel 2015 c’è stato un accordo tra le regioni in cui veniva stabilito che i farmaci di fascia C fossero forniti gratuitamente in tutti gli istituti penitenziari. “L’obiettivo era integrare la legge del 2008 e uniformare il sistema”, ricorda Sandro Libianchi, responsabile dell’associazione “Conosci”. Le disposizioni prese sono state attuate soltanto in parte. Gli esposti sulla mancata fornitura di medicinali arrivano da tutti i territori. “Controllare non è così facile”, evidenzia Libianchi. Sembra che qualsiasi tipo di denuncia rimanga inascoltata. Anche quelle 119 che i detenuti hanno presentato formalmente l’anno scorso. Secondo Stefano Anastasia per poter preservare davvero il diritto alla salute servono risorse “umane e economiche”. Dal 2008 i finanziamenti destinati alla gestione dell’assistenza sanitaria nelle carceri si aggirano intorno ai 160 milioni. Guardando le condizioni in cui versano le strutture, a parte alcuni casi virtuosi, è lecito chiedersi dove finiscano i soldi investiti. Più di 3 istituti su 10 non garantiscono l’accesso all’acqua calda e i riscaldamenti nel 7 per cento dei casi non funzionano. I dati sono forniti dall’ultimo report redatto dall’associazione Antigone, che nel 2018 ha visitato 85 case circondariali e di reclusione (su 189). In 46 strutture l’accesso alle docce è garantito soltanto in spazi esterni alle celle. “I locali - scrivono gli osservatori - sono spesso ammuffiti e insalubri”. Rimane radicata nella cultura dominante, “l’idea che la detenzione debba consistere nell’afflizione di una sofferenza (fisica e psicologica)”. Nell’ultimo anno la situazione non è cambiata, anzi. I volontari dell’associazione Antigone stanno concludendo le visite negli istituti penitenziari prima di redigere il consueto rapporto annuale, che verrà pubblicato nel 2021. “Non c’è stato nessun miglioramento. Il deterioramento è andato avanti”, racconta Hassan Bassi di Antigone. Prima di Natale ha ispezionato il carcere di Frosinone. “Molte docce non funzionano, la struttura sembra abbandonata. Sono rimasto sconvolto”, aggiunge. Una cella era completamente allagata e lì dentro, seduto sul suo materasso, c’era un uomo con i piedi immersi nell’acqua. “Faceva freddo, il riscaldamento non funzionava. Aveva uno sguardo spaventato”, ricorda Hassan. Quell’uomo era lì, in isolamento, ma non sapeva il perché. “Era un ragazzo di colore, penso di origini nordafricane. Non parlava l’italiano e non era riuscito a capire il motivo per cui era stato arrestato”. Capita spesso: negli istituti penitenziari mancano i mediatori culturali. Sono figure considerate accessorie. “Come è possibile tutto questo?”, si chiede Hassan. Nel carcere di Frosinone si sta in cella praticamente tutto il giorno. “Il campo da calcio deve essere ristrutturato da due anni, la serra è inagibile da tempo e, visto che nel 2017 c’è stata un’evasione, sono state sospese tutte le attività esterne. Poi adesso con il Covid, sono stati interrotti anche i corsi professionali e i laboratori”. Sono queste condizioni di vita, oltre alla pena in sé, ad avere un effetto psicologico devastante. “Il disagio psichico è uno dei problemi maggiori”, sottolinea Franco Corleone. I casi di autolesionismo sono molto frequenti. Nel 2016 ne sono stati registrati quasi 9mila. Con il Covid è possibile ipotizzare che siano in aumento. “A Frosinone nel corso dell’ultimo anno ci sono stati otto tentati suicidi e 178 casi di autolesionismo”, specifica Hassan Bassi. In tutta Italia, però, nelle strutture scarseggiano psicologi e psichiatri. Si ricorre spesso alla somministrazione di psicofarmaci, medicalizzando disturbi che potrebbero essere risolti in modo diverso. Secondo la dottoressa Elisabetta Dalmonte i medici nelle carceri devono imparare a essere anche un po’ psicologi. Bisogna fare due, tre, quattro lavori in uno. Lo spiega bene Franco Corleone: “Fare parti uguali tra diseguali non è l’obiettivo. Una persona in carcere deve avere di più, perché non ha la libertà: il suo corpo è nelle mani dello Stato”. O meglio: dovrebbe avere di più. Carceri: Bernardini, sì priorità vaccini, ma servono riforme Il Riformista, 10 gennaio 2021 La Radicale da qualche giorno ha ripreso lo sciopero della fame per denunciare le condizioni dei detenuti. “Da tempo mi sono pronunciata a favore. Ma non vorrei fosse un alibi per non fare quelle riforme volte a rendere costituzionale l’esecuzione penale”. Così Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, tocca il tema della priorità delle vaccinazioni anti-Covid in un luogo chiuso come il carcere: da qualche giorno ha ripreso lo sciopero della fame per denunciare le condizioni dei detenuti, anche in questi tempi di pandemia, che aveva sospeso dopo l’incontro con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte poco prima di Natale. “Nelle carceri italiane - afferma Bernardini in un’intervista all’Agi - i diritti fondamentali sono costantemente violati, tanto più oggi con la pandemia da coronavirus in corso. Il presidente Conte nell’incontro del 22 dicembre mi era sembrato attento e avevo molto apprezzato la sua prima visita in un carcere, quello di Regina Coeli a Roma. Successivamente la sua apertura al dialogo ha subito una pericolosa battuta d’arresto quando, nella conferenza stampa di fine anno, ha affermato che nelle carceri con il Covid era tutto sotto controllo e che per diminuire il sovraffollamento, come chiediamo insieme ad una vasta comunità di accademici del diritto penale, occorreva parlare con le forze politiche di maggioranza”. Vaccino, comunità Giovanni XXIII: sia prioritario per disabili e detenuti di Amedeo Lomonaco chiesa-cattolica.it, 10 gennaio 2021 I disabili devono essere vaccinati subito. A questo accorato appello lanciato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII per la somministrazione prioritaria del farmaco anti Covid sono seguite le confortanti dichiarazioni dal commissario straordinario per l’emergenza: “da febbraio - ha affermato ieri Domenico Arcuri - si comincerà a vaccinare gli over 80, i disabili e i loro accompagnatori”. Il presidente della Comunità fondata da don Oreste Benzi, Giovanni Paolo Ramonda, ha accolto positivamente queste parole. E ha lanciato a Vatican News un appello per un altro specifico gruppo di persone. R. - Siamo molto contenti perché ormai è un anno che le persone disabili e le loro famiglie vivono questa pandemia molte volte isolati. Hanno dovuto anche abbandonare per lunghi periodi la scuola, centri riabilitativi o attività sportive. Riteniamo che devono rientrare tra le categorie che abbiano un pass privilegiato. Tra l’altro, molti di loro hanno anche patologie correlate. Quindi ci sentiamo di essere voce di queste famiglie, dei loro ragazzi e di tante comunità come le nostre case famiglia. La situazione più grave riguarda, in particolare, le persone con disabilità intellettiva che non possono prendersi cura della propria salute... R. - Non possono perché non tengono la mascherina e non hanno la coscienza di tenere la distanza. E quindi c’è un rischio per loro di essere infettati o di essere a loro volta trasmettitori dell’eventuale virus. Riteniamo che si deve rispondere al grido dei più deboli, dei più fragili come sono tra l’altro anche tutti gli anziani. E rispondere anche al grido delle famiglie che sono costrette a tenere i figli disabili a casa separati dal mondo… R. - Sì, perché questi ragazzi hanno bisogno come tutti i nostri giovani di potere mantenere delle relazioni. Ma in questo anno, praticamente, sono stati privati di questo diritto fondamentale. Il vaccino, finalmente, potrebbe dare una risposta nel giro di pochi mesi e dare anche a loro la possibilità di poter tornare, gradualmente, ad una vita relazionale adeguata. Loro hanno come un blocco e l’handicap, a volte, limita le relazioni. Ma pensiamo anche ad un’altra categoria. Mi riferisco alle persone detenute nelle carceri. Anche loro ci stanno chiedendo di diventare voce presso il governo perché, magari dopo i disabili, possano avere un’attenzione particolare. Quindi lanciate un appello al governo per un vaccino prioritario anche per le persone detenute… R. - Certamente, dopo ai disabili anche loro lo chiedono. Chiedono attenzione perché, effettivamente, i luoghi chiusi sono pericolosi dal punto di vista della trasmissione del virus. L’intoccabile Bonafede e la giustizia fuori dal “Plan” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 10 gennaio 2021 Trattative sul Recovery. L’Europa chiede di accelerare i tempi dei processi. Sul capitolo due miliardi al buio: programmi da precisare vista la distanza politica. Renziani all’attacco, torna il nodo della prescrizione. Dopo Conte, c’è soprattutto un ministro che Renzi butterebbe giù volentieri ed è Bonafede. Tanto volentieri, che se dovesse riuscirci allora anche quel rimpasto che il leader di Italia viva continua a considerare un esito troppo limitato per la crisi che ha scatenato, riuscirebbe a presentarlo come una sua chiara vittoria. Ma Bonafede è inattaccabile, ogni volta che nei colloqui politici i rappresentanti di Iv sollevano il suo caso il discorso si interrompe. Lo sanno tutti che il presidente del Consiglio non può sacrificarlo. Non è stato Conte a introdurre Bonafede al governo, è più vero il contrario. Per estrema prudenza, il ministro, che pure è il capo delegazione dei 5 Stelle al governo, sta attraversando la crisi con quel sorvegliato silenzio (le dichiarazioni obbligate le firma con Crimi) che è da sempre il rifugio di chi si sente messo in discussione. Quasi otto mesi dopo, la situazione è ancora quella dello scorso maggio, quando Renzi minacciava di votare con la destra (e quindi di far passare) la sfiducia a Bonafede, salvo fermarsi all’ultimo momento. Motivando poi lo stop con parole che a rileggerle oggi ben chiariscono la spregiudicatezza del fiorentino. “Conte ha detto chiaramente che avrebbe tratto le conseguenze politiche - disse allora Renzi parlando della eventuale sfiducia a Bonafede - e quando parla il presidente del Consiglio si rispetta e si ascolta”. Rispetto e ascolto sono archiviati, ma otto mesi sono passati invano per quella commissione ministeriale “di approfondimento e monitoraggio” sulla riforma della prescrizione che fu allora la chiave per evitare la sfiducia. Bonafede l’aveva promessa, Renzi voleva che fosse guidata dal presidente delle camere penali Caiazza, ma non è mai stata istituita. Al contrario, nella prima bozza del Recovery plan la riforma della prescrizione - ovverosia la cancellazione dell’istituto dopo la condanna in primo grado - che per i renziani e in teoria anche per i democratici è una ferita nel diritto penale, è stata presentata come un successo del governo. Del governo precedente, in realtà, perché lo stop alla prescrizione risale ai giallo verdi. Quello che nell’ordinamento penale italiano è un istituto a garanzia del cittadino imputato, per il Recovery prima maniera era niente altro che “la gratuita estinzione del reato”. Una pietra sule ambizioni dei renziani (e, più silenziose, anche del Pd) di tornare sul tema con gli emendamenti al disegno di legge delega di riforma del processo penale, da presentare per fine gennaio, visto che la mediazione trovata con il cosiddetto “lodo Conte-bis” non soddisfa. Il primo risultato ottenuto da Iv è stata la cancellazione del capitolo giustizia dalla nuova bozza del Recovery: nella sintesi ci sono solo poche parole che sanno di resa: una riforma “ambiziosa” della giustizia è certo necessaria, ma adesso è “da precisare meglio nel merito e nei tempi di attuazione”. Qualcosa di più ci sarà nel testo definitivo del Recovery, la divisione dei fondi prevede per la giustizia due miliardi che adesso sono al buio. Intanto ieri la nuova giunta Santalucia dell’Associazione magistrati ha deciso di costituire una commissione sul Recovery “per la ripresa dell’efficienza del sistema giustizia”. “Magistrati e giustizia, dalla crisi si esce solo con le riforme”, parla Marasca di Viviana Lanza Il Riformista, 10 gennaio 2021 Lo strappo all’interno dell’Anm napoletana con le dimissioni di alcuni magistrati, la necessità di riforme, di una progettualità politica e della cultura garantista, e poi gli scandali sulle nomine e le polemiche per i magistrati in politica. Nella Giustizia e nel mondo dei diritti serve un cambio di passo. “Me lo auguro”, afferma Gennaro Marasca, magistrato in pensione, già componente del Consiglio superiore della magistratura e presidente di sezione della Corte di Cassazione. “Sono stato esponente di Magistratura Democratica e il garantismo è la nostra cultura. Mi auguro - aggiunge - che nella magistratura, come negli altri corpi sociali intermedi, ci sia un dibattito culturale vivace ma corretto, e che in politica si possa arrivare a un dibattito sereno, centrato su progetti, programmi e realizzazioni compiute, mentre oggi non si fa altro che attaccare l’avversario per denigrarne la persona”. Quanta distanza c’è tra la magistratura e la società, tra il mondo della Giustizia e quello dei cittadini che attendono anche tempi biblici per un processo? “I mali della magistratura sono i mali della nostra società. Noi magistrati non veniamo da Marte o da chissà dove, ci nutriamo della cultura di questa società e ne abbiamo tutti i pregi e i difetti. Prima degli anni 70 la magistratura non usufruiva molto della sua indipendenza e autonomia, erano in genere persone che provenivano da una classe sociale simile alla classe sociale che politicamente governava il Paese. Dal ‘70 in poi si ruppero questo equilibrio e il corporativismo che esisteva nella magistratura, e dall’interno noi di Magistratura Democratica denunciammo le lentezze e gli errori commessi dalla categoria. In quel periodo si liberarono delle forze importanti, frutto di un accrescimento dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, ma poi si verificarono delle degenerazioni. Correnti, nate e vissute sulla base di principi ideali importanti, si sono trasformate nel tempo in gruppi di pressione finendo col difendere i propri iscritti in una degenerazione di tipo clientelare che è sfociata, emergendo in tutta la sua drammaticità, nella vicenda Palamara, che non è certo l’unico ad aver usato queste pratiche. Credo che questo sia dipeso dall’affievolirsi degli ideali che avevano ispirato la nascita delle correnti e dei gruppi associativi, il che ha determinato il prevalere di logiche di amicizia e di clientela, che in magistratura non dovrebbero esserci nella maniera più assoluta”. Le correnti, dunque, non andrebbero demonizzate? “Per me l’esperienza nell’associazione è stata di fondamentale importanza, negli anni ‘90 ma anche in tutti gli anni 70 e 80. Si contrapponevano modi diversi di guardare alla giurisdizione e legittimamente c’erano visioni diverse. C’era una competizione e questo credo che abbia contribuito a una crescita della magistratura molto importante”. Come uscire dalla crisi attuale? “Talvolta, come dicevano i latini, è necessario che gli scandali si verifichino. Ritengo che la magistratura abbia al suo interno le capacità e le forze per reagire e porre termine a queste pratiche. Sono però necessarie anche delle riforme perché questo processo venga aiutato e possa produrre effetti. Riforme sia sul piano ordinamentale sia sul piano dei tempi processuali. Non si può sperare soltanto in un recupero delle idealità del passato, occorre anche intervenire in qualche modo”. Questo, inoltre, è il periodo delle polemiche per i magistrati in politica, mi riferisco al caso di Catello Maresca. Lei è stato assessore nella prima giunta Bassolino, cosa ne pensa? “Da tecnico prestai la mia capacità per affrontare determinati problemi in giunta. All’epoca non svolgevo funzioni giudiziarie e non mi sono mai presentato alle elezioni né sono mai stato iscritto a un partito politico. Penso che bisogna stare molto attenti, specialmente quando si chiede il voto popolare e ci si presenta alle elezioni. Io, francamente, sono un po’ perplesso di fronte al fatto di candidarsi nella zona dove si sono esercitate funzioni giudiziarie: non mi piace molto, c’è il rischio, anche se si è persone perbene e bravi magistrati, di ingenerare il dubbio di aver favorito alcuni e sfavorito altri. E questo è un dubbio che non si deve mai far sorgere nel cittadino. Quindi starei molto attento a questo e starei anche molto attento al rientro in magistratura dopo un’esperienza politica”. La vita appesa a un avviso di garanzia di Roberto Saviano L’Espresso, 10 gennaio 2021 Sotto scorta per le minacce dei boss, Lorenzo Diana è stato accusato di aver agevolato i clan. Per archiviare l’indagine ci sono voluti cinque anni. Lorenzo Diana “è uno di quei politici che hanno deciso di mostrare la complessità del potere casalese e non di denunciare genericamente dei criminali. È nato a San Cipriano d’Aversa, ha vissuto osservando da vicino l’emergere del potere di Bardellino e di Sandokan, le faide, i massacri, gli affari. Può, più di ogni altro, raccontare quel potere, e i clan temono la sua conoscenza e la sua memoria. Temono che da un momento all’altro possa risvegliarsi l’attenzione dei media nazionali sul potere casalese, temono che in Commissione Antimafia il senatore possa denunciare ciò che ormai la stampa ignora, relegando tutto a crimine di provincia. Lorenzo Diana è uno di quei rari uomini che sanno che combattere il potere della camorra comporta una pazienza certosina, quella di ricominciare ogni volta da capo, dall’inizio, tirare a uno a uno i fili della matassa economica e raggiungerne il capo criminale. Lentamente ma con costanza, con rabbia, anche quando ogni attenzione si dilegua, anche quando tutto sembra davvero inutile e perso in una metamorfosi che lascia alternare poteri criminali a poteri criminali, senza sconfiggerli mai”. Non è elegante autocitarsi, ma queste sono le parole che in “Gomorra”, nel 2006, dedicai all’impegno politico e civile di Lorenzo Diana, che per 21 anni ha vissuto sotto scorta per le minacce ricevute dal clan dei casalesi. Tre volte parlamentare e segretario della commissione Antimafia, per cinque anni e mezzo Lorenzo Diana è stato ostaggio di una vicenda giudiziaria - e umana - che mi ha lasciato dell’amaro in bocca che non so descrivere. Nel luglio 2015 fu raggiunto da un avviso di garanzia, era indagato per concorso esterno in associazione mafiosa per aver agevolato - questa era l’accusa - il clan dei casalesi, lui che era sotto scorta per le minacce ricevute proprio dal clan Zagaria! E poi ancora, indagato per abuso d’ufficio in un altro filone di indagine, viene interdetto dai pubblici uffici e costretto al divieto di dimora in Campania. A maggio 2019 arriva la prima archiviazione su richiesta della stessa Procura, e pochi giorni fa è arrivata la seconda a mettere un doloroso punto. Doloroso perché, per cinque anni e mezzo, la vita di Lorenzo Diana è stata appesa a un avviso di garanzia che in Italia, per (quasi) tutti, è già una sentenza di condanna. Ho letto in questi giorni le parole dolorosissime che ha pronunciato, parole che tutti dovremmo leggere per capire quali sono i risvolti umani e politici di una giustizia che, prima di tutto nei tempi, non è giusta. Cinque anni e mezzo per un’archiviazione. Quanto sarebbe durato un eventuale processo? Circa dieci, dodici anni. La giustizia in Italia è malata, molto, molto malata. In Italia, la distanza temporale tra l’inizio di un procedimento penale e la sua definizione finiscono per rendere un avviso di garanzia, a dispetto del nome, già di per sé una condanna. E per una persona onesta, che si è opposta a una criminalità potentissima, la condanna peggiore è essere accusato di vicinanza a quei mondi e di conseguenza trattato come un corpo estraneo. La macchina giudiziaria - a volte mi capita di immaginarla come un marchingegno mostruoso - può travolgere tutto ciò che incontra se non gestita con capacità e professionalità, e arriva persino a sacrificare vite sull’altare di un bene superiore che magari neppure esiste o, peggio, sull’altare di ambizioni personali smisurate. La vicenda di Lorenzo Diana porta con sé riflessioni che partono da ciò che è accaduto a lui per giungere, ancora una volta, alla assoluta necessità di una riforma organica del sistema giudiziario, poiché il processo penale italiano è completamente fallito. Se questo non accadrà, e se non si metteranno realmente al centro dell’accertamento le garanzie di chi subisce un procedimento penale, continueremo a vivere il dramma che stiamo vivendo da troppi anni. Una realtà kafkiana nella quale basta essere indagati per essere colpevoli e interdetti dai pubblici uffici fino a data da destinarsi. Ho letto che Lorenzo Diana vorrà chiamarmi per dirmi che non ho fatto male a citarlo in “Gomorra” sarò felice di sentirlo e approfitterò per rispondergli che lo so: lo so che non ho fatto male. Le battaglie di Lorenzo Diana le ho sentite mie e, se non fosse stato per il suo impegno, forse non avrei avuto tanta passione nel raccontare la nostra terra. Spero che con l’archiviazione arrivi qualcosa di più, non solo tante chiacchiere e poche scuse. Diana, come scrissi in “Gomorra”, ha conoscenza e ha memoria, e queste sono risorse fondamentali per una terra ferita a morte. Quando la mafia scoprì la nuova droga e conquistò l’Italia di Attilio Bolzoni Il Domani, 10 gennaio 2021 Qual era l’origine dell’epidemia di tossicodipendenza raccontata dalla docu-serie Netflix sulla comunità di San Patrignano? La risposta è in Sicilia. Tutti volevano salire sulla grande giostra della droga. Era la pazzia dei soldi. In quegli anni a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta Palermo non era ricca, era sfrenatamente ricca. Gli esperti della Drug Enforcement Administration avevano valutato che la Cosa Nostra copriva un terzo del mercato nordamericano. La materia prima la importavano prima dalla Turchia e poi dal “triangolo d’oro”, zona montuosa al confine fra la Tailandia, il Laos e il Myanmar. Il trasporto lo garantivano trafficanti orientali, egiziani, turchi e nel passaggio finale naturalmente i “siciliani”. Dietro l’ultima porta c’erano gli alambicchi, le pentole, i palloni di vetro, i termometri e le provette, gli imbuti, i bidoni, i fornelli, i setacci e tre maschere antigas. Quando noi giornalisti riuscimmo ad entrare nella stanza scavalcando una finestra sul retro, i carabinieri si erano già portati via quarantacinque chili di eroina purissima e sessantaquattro chili di morfina base. Il laboratorio per lavorare la “pasta”, così la chiamavano i mafiosi, era in una casa bianca a due piani sulla via Messina Marine, lunghissima strada che corre parallela alla via Messina Montagne e che ha in mezzo Corso dei Mille, viale dei Picciotti, Ponte dell’Ammiraglio, luoghi che sembrano portare incontro alla storia ma che in quella Palermo mi avevano guidato sino alla prima raffineria di eroina scoperta in Sicilia. L’anno era il 1982, il mese febbraio. Poi ne trovarono molte altre. In una stalla di Baida, in un deposito di carburanti dietro al bar Baby Luna, in un garage di Villagrazia, in un appartamento alla Guadagna, in una masseria nelle campagne di Alcamo. Tutti volevano salire sulla grande giostra della droga. Era la pazzia dei soldi. In quegli anni a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta Palermo non era ricca, era sfrenatamente ricca. Gli esperti della Drug Enforcement Administration avevano valutato che la Cosa Nostra copriva un terzo del mercato nordamericano, qualcosa come quattro tonnellate l’anno piazzate a Buffalo, a New York, a Montreal, a Filadelfia. Per l’Fbi erano anche di più, sei tonnellate l’anno. La materia prima la importavano prima dalla Turchia e poi dal “triangolo d’oro”, zona montuosa al confine fra la Tailandia, il Laos e il Myanmar. Il trasporto lo garantivano trafficanti orientali, egiziani, turchi e nel passaggio finale naturalmente i “siciliani”. La manodopera specializzata, i chimici, veniva da fuori. Erano quelli della French Connection, che già dal 1960 contrabbandavano eroina, facendola transitare dall’Argentina o dal Paraguay, verso gli Stati Uniti. A Palermo di quei chimici che trattavano la polverina magica ne sbarcarono due, Andrée Bousquet e Pierre Doré, corsi al servizio del “clan dei Marsigliesi”. Li arrestarono nell’agosto del 1980 al “Riva Smeralda”, un albergo di Villagrazia di Carini. Il proprietario dell’hotel, Carmelo Iannì, un galantuomo che aveva dato una mano ai poliziotti “assumendo” un commissario come cameriere, fu ucciso meno di una settimana dopo. È così che in quella casa bianca di via Messina Marine, con i due corsi rinchiusi all’Ucciardone, si presentò un giorno Nino Vernengo della “famiglia” di Piazza Scaffa e disse ai suoi amici: “E che ci vuole? Bastano alcune bacinelle di acciaio, un po’ di fuoco, c’è una grande puzza e serve anche tanta aria”. Da quel momento Nino Vernengo diventò per tutti “ù dutturi”, il dottore. Ma fece tanti guai. Aveva visto all’opera Bousquet e Doré che aggiungevano tropeina e benzatropina per compensare i chili che la “pasta” perdeva durante l’ebolizione, e ne aggiunse troppa dell’una e dell’altra. Poi mandò il suo veleno in America. A New York i ragazzi morirono come mosche, un centinaio in una decina di giorni. Dall’altra parte dell’Atlantico s’infuriarono, il “dottore” fu costretto a restituire i soldi della spedizione assassina. Al posto dell’ingordo Vernengo arrivò Francesco Marino Mannoia che, in poco meno di due anni, ha raffinato da solo seicento chili di morfina base. Per ogni chilo guadagnava 5 milioni di lire. 1995 Francesco Marino Mannoia, conosciuto anche con il soprannome Mozzarella, un mafioso e collaboratore di giustizia italiano. Ha fatto parte di Cosa nostra e, successivamente, ha collaborato con la giustizia come pentito. Stava chiuso lì dentro giorno e notte, ansimava, gli mancava l’aria. Aveva la faccia bianca come un lenzuolo. I mafiosi misero anche a lui “l’inciuria”, il soprannome: “Mozzarella”, per il pallore del viso. Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, i suoi capi, vendevano l’eroina che raffinava Mannoia ai Gambino d’America a 50 mila dollari al chilo e i Gambino d’America la rivendevano ai loro grossisti sul territorio a 130 mila dollari al chilo. Era il delirio. Droga, sempre più droga. Non si parlava d’altro a Palermo. E, a Palermo, intanto un po’ di quell’eroina non partiva più per le destinazioni lontane. Restava in Sicilia, veniva dirottata a Roma, a Milano, a Torino, a Genova. Non si sa cosa esattamente sia accaduto né esattamente quando, ma l’eroina di Palermo ha cominciato a uccidere i ragazzi italiani. O li ha divorati lentamente. Alcuni non ce l’hanno fatta nemmeno dopo, altri si sono rifugiati in comunità come San Patrignano, quella di don Picchi, il Gruppo Abele. Un’ipotesi su ciò che può essere avvenuto l’ha ricercata Piero Melati nel suo ultimo libro - La notte della Civetta, un ostinato tentativo di cambiare il finale a favore della mafia nel capolavoro di Sciascia - che racconta come a Palermo all’improvviso sia sparito il “fumo” e sono cominciate le “ammazzatine” dei piccoli spacciatori, l’eroina che prima si smerciava solo a Villa Sperlinga, nota come “villa siringa”, aveva invaso ormai tutti i quartieri. Forse perché le agenzie antidroga americane avevano iniziato a sequestrare i carichi provenienti dall’isola e c’era bisogno di trovare altri mercati, forse perché già comandava Totò Riina che voleva realizzare il massimo profitto anche in patria. Ma, come scrive Melati, non abbiamo saputo saldare “Palermo fabbrica di eroina del pianeta” con “i mai morti”, quelle migliaia di adolescenti cancellati dalla memoria, le altre vittime della mafia di Palermo. Per loro non c’è neanche una lapide. Nella sua seconda vita il pentito Gaspare Mutolo ha ricordato la prima nell’aula bunker dell’Ucciardone in un’udienza del maxi processo: “Cominciai con un traffico di modica quantità”. Il presidente della Corte di Assise Alfonso Giordano gli chiese: “Mutolo, cosa intende lei per modica quantità?”. E Mutolo: “Quattro chili e mezzo”. La fortuna criminale di “Gasparino” proveniva dall’amicizia con Koh Bak Kin, un cinese di Singapore che dal Sud Est asiatico inviava a Partanna Mondello (la borgata palermitana dove Mutolo era nato e aveva il suo quartier generale) tutta la droga che voleva. Ogni rappresentante di famiglia o di mandamento investiva la sua quota, poi ci pensavano quelli di Passo di Rigano e dell’Uditore, i Gambino e gli Inzerillo, gli Spatola e i Di Maggio. Il loro vero capitale erano i cugini “americani” che dal 1964 si erano sistemati nel New Jersey, a Cherry Hill. Una ragnatela di parentele che portavano tutte a Charles Gambino, il capo dei capi delle “cinque grandi famiglie” di New York. Aristocrazia mafiosa. Come i “castellammaresi” che erano emigrati nel 1925. Come Tommaso Buscetta, “il boss dei due mondi”. Come il vecchio Tano Badalamenti che era di Cinisi, e a Cinisi c’era lo scalo Punta Raisi che don Tano controllava, e da Punta Raisi decollava due volte la settimana un Boeing diretto a New York. Un aereo che la voce popolare aveva ribattezzato “Il Padrino”. Nessuno doveva restare fuori dal “bisinisso”, al contrario bisognava far entrare tutti perché conveniva a tutti. E pur sapendo che non aveva - come dicono loro - le “qualità” di uomo d’onore (troppo esuberante, troppo chiacchierone) affiliarono a Cosa Nostra pure Masino Spadaro, il contrabbandiere del quartiere arabo della Kalsa che per il patrimonio che aveva accumulato si presentava a tutti come “il Gianni Agnelli di Palermo”. Serviva anche lui. Una volta “dentro” potevano appropriarsi senza spargimento di sangue e di denaro delle sue navi, delle sue rotte, dei suoi contatti con i “napoletani” come i Bardellino e i Nuvoletta. Più mafia, più droga, più soldi. Ma se in Italia il giudice Giovanni Falcone stava istruendo quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che era il maxi processo, negli Stati Uniti era già caccia grossa alla “Pizza Connection”. Il viceprocuratore federale Louis Freeh - che poi Clinton nominerà capo del Federal Bureau of Investigation - e il procuratore Rudolph Giuliani - che poi sarà sindaco di New York - grazie alle informazioni dei magistrati del pool antimafia di Palermo e alle “cantate” di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno che nel frattempo avevano salto il fosso, individuarono le pizzerie dei “paisà” come il terminale dei traffici che partivano dalla Sicilia. Una grande retata negli States e un processo ai riciclatori a Lugano. Nella rete restarono imbrigliati quelli che erano conosciuti come i “Rothschild della mafia”, Alfonso Caruana e Pasquale Cuntrera. Nel 1957 avevano lasciato Siculiana, un piccolo paese della provincia agrigentina. Lo “zio” Alfonso nel 1968 fu registrato in entrata dall’ufficio Emigrazione di Montreal come elettricista, nel 1978 fu fermato all’aeroporto di Zurigo con una valigia stracolma di franchi svizzeri, nel 1988 il suo patrimonio era stimato in 100 milioni di dollari. Tutta droga. Processo strage di Bologna. Il plauso ai giudici di Pd e 5S, destra all’attacco di Mauro Giordano Corriere di Bologna, 10 gennaio 2021 Merola: riflettere su pezzi di Stato contro i cittadini. Mollicone: urge commissione d’inchiesta. “Nelle 2000 pagine con le quali i giudici hanno motivato la condanna all’ex appartenente dei Nar, Gilberto Cavallini, per la strage alla stazione del 2 agosto c’è scritta parte della storia dell’Italia repubblicana”, osserva il sindaco Virginio Merola che facendo riferimento al contenuto del dispositivo della Corte d’Assise sottolinea che “andrà letto e ponderato”. Ma intanto le reazioni alla sentenza tornano ad alimentare lo scontro politico, con parlamentari e parte del mondo di centrodestra che non risparmiano critiche al processo a Cavallini e al suo esito attuale definendolo “un castello di carte” e tornando a chiedere una commissione d’inchiesta sui fatti del 2 agosto 1980 e la desecretazione di alcuni atti. L’aspetto sul quale Merola chiede di riflettere però è il fatto di “aver visto in azione in quegli anni non solo terroristi neri e piduisti ma pezzi dello Stato che agivano contro le istituzioni e i cittadini”, aggiungendo che “il Comune è stato parte civile in questo procedimento e lo sarà in quello sui mandanti”. Tanto merito ricorda il sindaco va dato all’Associazione familiari delle vittime, che con il vicepresidente Paolo Lambertini commenta in modo soddisfatto. “La sentenza è sostanziosa, si è fatta attendere ma ne è valsa la pena” dice Lambertini. A loro arriva la vicinanza del deputato del Pd, Andrea De Maria: “Queste motivazioni sono molto importanti e non vanno sottovalutate a livello politico e istituzionale, serve piena luce anche su quelle responsabilità. Ha ragione il presidente dell’associazione, Paolo Bolognesi, quanto chiede di fermare chi continua a proporre piste alternative per mettere in discussione le responsabilità dei terroristi neofascisti”. Per il deputato di Italia Viva, Luigi Marattin, “fa riflettere che l’Italia sia l’unico Paese avanzato in cui il fatto che le stragi abbiano avuto conniventi nelle istituzioni non è una cosa che si legge nei blog dei complottisti ma nelle sentenze dei tribunali”. Soddisfazione è arrivata anche i deputati del movimento cinque stelle della commissione Giustizia alla Camera. La pensa diversamente Federico Mollicone, deputato di Fratelli d’Italia e fondatore dell’intergruppo parlamentare “La verità oltre il segreto”, della quale fa parte anche in senatore di FdI, Adolfo Urso, vicepresidente del Copasir, che preferisce non commentare ma ricorda che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, “ha deciso di non desecretare quegli atti che contribuirebbero a raggiungere la verità storica”. Mollicone (così come lo scrittore e giornalista Massimiliano Mazzanti) punta il dito sul fatto che non sia stata fatta chiarezza sull’86esima vittima. “È necessario e urgente costituire una nuova commissione d’inchiesta - commenta Mollicone. La pista palestinese non è campata in aria. Non vorremmo che a colpi di sentenze i magistrati bolognesi stessero affermando dei depistaggi. Non possiamo che chiedere l’invio di tutti i documenti delle commissioni d’inchiesta oggi vincolati dal segreto di Stato o dal segreto funzionale, alla procura di Bologna o quella di Roma così da affrontare nuovamente il processo nel suo complesso”. L’ex parlamentare del Pdl, Enzo Raisi, si dice “stupito per diverse cose e sconvolto dagli 11 denunciati tra i testimoni della difesa, una cosa che non mi era mai capitata di vedere”. Napoli. Casi Covid nel carcere di Secondigliano, 38 detenuti positivi al tampone internapoli.it, 10 gennaio 2021 Altri detenuti nel carcere di Secondigliano sono stati colpiti dal Covid. La notizia è stata diffusa Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti e Pietro Ioia garante napoletano dei detenuti. “Oggi siamo stati al carcere di Secondigliano. La conta di oggi: presenti 1157 detenuti di cui 124 al Mediterraneo, infermeria e protetti 60, reparto Sai 77. Presenti 574 agenti e 72 operatori sanitari. Nelle ultime quarantotto ore sono stati fatti 180 tamponi. In questo momento nel carcere ci sono 38 detenuti contagiati dal Covid (reparto Ionio e qualcuno del Tirreno) e quattro sono ricoverati presso gli ospedali Cardarelli e Cotugno. 20 detenuti che erano in contatto stretto con loro sono in isolamento precauzione. Sia quelli contagiati che in isolamento possono fare telefonate e videochiamate. Ci sono, altresì, sempre a Secondigliano, 26 agenti di polizia penitenziaria contagiati e un medico”. La nota dei 2 Garanti termina con un appello: “Quotidianamente parliamo dei mali del carcere e delle cure possibili. Conosciamo il lavoro di generosi operatori penitenziari e sanitari. È bene che Governo, Parlamento, Regione e Magistratura si mostrino sensibili a garantire il diritto alla salute di chi da mesi è condannato all’isolamento assoluto e alla privazione non solo di rapporti familiari ma anche delle attività trattamentali e dei colloqui con i volontari. Chi è detenuto deve pagare il suo debito non a prezzo della vita. E siamo sempre convinti che proprio in un momento di crisi come questo si dovrebbe manifestare la capacità realista e costituzionale di disegnare un quadro di riforme possibili e profonde. Per il carcere questa agenda è scritta da anni. Occorre, da parte di tutti gli attori, coraggio ed interventi ragionevoli, per evitare che la detenzione equivalga ad una pena di morte”. Firenze. La denuncia del detenuto: “Ridevano mentre mi picchiavano” di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 10 gennaio 2021 Sollicciano, nelle carte dell’inchiesta le testimonianze dei detenuti pestati dagli agenti. “Volevo godere dell’ora d’aria fino in fondo. Ma l’agente rispose che non gliene fregava nulla: era lui a decidere e dovevo adeguarmi. Poi mi portarono nell’ufficio dell’ispettrice Elena Viligiardi e a un suo cenno iniziarono a pestarmi mentre lei rideva”. È il racconto del detenuto italiano picchiato a Sollicciano il 12 maggio 2018. La testimonianza è nelle carte della procura che ha avviato le indagini concluse con dieci indagati e nove misure cautelari. “Volevo godere dell’ora d’aria fino in fondo. Che male c’era se rimanevo fuori, anziché rientrare in cella prima del dovuto? Ma l’agente rispose che non gliene fregava nulla: era lui a decidere e dovevo adeguarmi”. Inizia così il racconto del detenuto italiano, che, il 12 maggio 2018, per quella protesta fu punito, ritiene la Procura, con pugni, calci e spintoni. Un pestaggio talmente violento, secondo l’accusa, da provocargli la perforazione di un timpano. La denuncia è agli atti dell’inchiesta sulle torture che sarebbero avvenute a Sollicciano, tra il 2018 e il 2020. Due episodi di pestaggi, dieci indagati, nove misure cautelari: ai domiciliari sono finiti l’ispettrice Elena Viligiardi, responsabile della sezione penale del carcere, ritenuta l’istigatrice delle violenze che avvenivano sotto i suoi occhi, nel suo ufficio, l’assistente capo Luciano Sarno e l’agente Patrizio Ponzo. Quel giorno, i detenuti erano ancora fuori. “Avremmo potuto restare fino alle 15 tra il campo sportivo e l’area passeggio, come da regolamento. Un assistente ordinò di ritornare in cella, altrimenti ci sarebbero stati problemi”. Ma il detenuto s’impuntò: “Gli dissi che non mi sarei mosso di lì se non mi avesse fatto parlare con il suo superiore. Prima rifiutò poi fece una telefonata e fui convocato nell’ufficio del capoposto, dove era presente l’ispettrice Viligiardi. Salutai e le spiegai la mia richiesta”. La situazione precipitò, secondo quanto ricostruito dagli investigatori. “L’assistente “con la barba” iniziò ad inveire contro di me e io protestai. Poi notai Viligiardi che fece un segno con la testa alle persone che erano dietro di me. Fui subito bloccato. Il capoposto grosso, pelato e alto mi prese con un braccio dietro il collo, impedendomi di muovermi e stringendo forte al punto di non riuscire a respirare né a parlare. Altri uomini, forse 3 o 4, mi presero i polsi e mi tennero per le gambe. Seduta alla scrivania, c’era lei, Viligiardi che guardava e rideva. Mi presero a pugni e a schiaffi, qualcuno salì con il ginocchio sulla schiena mentre ero a terra a pancia in giù. Il capoposto alla fine mi tirò in piedi afferrandomi dalla cintura”. Un’aggressione consumata, pare, in una manciata di minuti. Poi il detenuto fu trasportato in cella di isolamento e infine in infermeria. “Mi ero lavato il sangue dal viso e al medico raccontai l’aggressione subita dalla polizia penitenziaria, ma lui ascoltò e, senza visitarmi, mi diede un antidolorifico”. Durante la notte si sentì male e il giorno successivo fu trasportato in ospedale. “Perforazione del timpano sinistro”, fu la diagnosi dei medici. Il detenuto denunciò l’aggressione: “Vennero un uomo e una donna della penitenziaria e parlai sinteticamente di ciò che era avvenuto”. Ad aprile scorso, un detenuto marocchino denuncia un’aggressione da parte degli agenti della penitenziaria. Chiedeva di telefonare ai suoi parenti in Francia, e per la sua insistenza, secondo l’accusa, fu “punito” con calci e pugni. Gli investigatori e il pm Christine von Borries ripescano quella vecchia denuncia e trovano tante similitudini tra i due episodi. L’uno chiedeva di esser messo in contatto con i parenti d’Oltralpe. L’altro voleva godere dell’ora d’aria. Protestarono perché venissero accolte quelle legittime richieste. Furono rimessi in riga, con pugni e calci, per l’accusa, in barba a qualsiasi legge. “I poliziotti - spiega il gip Federico Zampaoli, che ha disposto le misure cautelari - furono istigati dall’ispettrice a commettere atti di violenza nei confronti di due detenuti inermi, senza alcun motivo e solo per ribadire un’autorità assoluta che non poteva in alcun modo essere messa in discussione”. Molti i commenti del mondo politico. “È molto inquietante la notizia dell’inchiesta sulle torture - dice la senatrice del Pd Caterina Biti - Questi fatti impongono alla politica di mettere tra le priorità il tema delle carceri”. “Ringrazio gli uffici giudiziari e gli investigatori per il lavoro svolto - afferma Sara Funaro assessore al Welfare - ha fatto emergere una realtà grave e preoccupante a Sollicciano. ma questi fatti non devono delegittimare tutto il personale di Polizia penitenziaria”. Incalza Antonio Mazzeo, presidente del Consiglio regionale Toscana: “Nei prossimi giorni andrò a Sollicciano”. Firenze. Il Provveditore: “Inchiesta interna, gli anticorpi ci sono. I problemi sono altri” di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 10 gennaio 2021 “Sollicciano non è il carcere delle torture, la maggior parte della polizia penitenziaria non è Torquemada, l’implacabile inquisitore spagnolo. Ma, sia chiaro, ogni poliziotto deve rispondere delle proprie condotte”. È un uomo di esperienza Carmelo Cantone che, da reggente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Toscana e Umbria e contemporaneamente provveditore del Dap di Lazio, Molise e Abruzzo, sovrintende 44 istituti di pena. È amareggiato per l’inchiesta che ha scosso il carcere fiorentino, ma è anche ottimista perché “esistono gli anticorpi all’interno della stessa amministrazione penitenziaria”. Un magistrato tenace, il pm Christine von Borries, l’ex direttore del carcere Fabio Prestipino e un gruppo di investigatori del Dap hanno sollevato il velo sui pestaggi che sarebbero avvenuti a Sollicciano tra il 2018 e il 2020. “Non posso parlare dell’inchiesta - dice Cantone - ma la sua evoluzione dimostra che all’interno dell’amministrazione penitenziaria abbiamo le risorse per intervenire, denunciare e correggere certe rotte”. Siciliano di Catania, un passato a Firenze a capo, da titolare, del Dap toscano, conosce bene la realtà di Sollicciano. Il carcere fiorentino ospita circa 700 detenuti, tra condannati e in attesa di giudizio per reati comuni; non ci sono reclusi per 41bis o per criminalità organizzata. Circa trecento, tra agenti e ispettori della polizia penitenziaria chiamati a gestire una popolazione carceraria che quasi il doppio di quella consentita. “Senza dubbio esiste un problema di sovraffollamento, ma non è eccezionale - premette Cantone - la capienza ottimale è di 600 persone secondo quanto fissato dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo”. Le problematiche sono anche altre. “Più del 50% dei detenuti è extracomunitario, con forti confidenze con la droga e problemi di disagio psichico. Indagati o condannati per spaccio o furti, ma soprattutto senza legami con la città - spiega il provveditore - Si tratta di detenuti mordi e fuggi, casi da sliding doors: gente che non ha una caratura di pericolosità sociale elevatissima, ma in un penitenziario rappresenta un significativo rischio. Non è detto, quindi, che il carcere sia il contenitore ideale”. Per questo il personale della Polizia penitenziaria, sotto organico, andrebbe potenziato. È sufficiente? “Bisogna puntare sulla formazione continua di agenti e ispettori, improntata all’equilibrio e alla lucidità nella gestione delle situazioni più complesse. Tutti i giorni, ogni poliziotto è impegnato a stroncare situazioni di tensione tra detenuti ricorrendo alla forza solo secondo le regole. Inoltre l’agente deve occuparsi anche di chi ha tentato di togliersi la vita, ha problemi di salute o vuole mettersi in contatto con la famiglia”. E poi annuncia: “A Sollicciano in primavera potrebbe arrivare il nuovo direttore: sono al via le procedure per l’assegnazione degli incarichi. Negli ultimi anni si sono avvicendati 4 dirigenti: colpa della legge che prevede incarichi triennali. Per il carcere fiorentino occorrerebbe mantenere la barra dritta per cinque anni”. Firenze. Il Cappellano: “Pochi agenti e troppi detenuti che non vogliono cambiare strada” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 10 gennaio 2021 Don Russo: qui la regola, quando va bene, è vivi e lascia vivere. Si parlano venti lingue diverse, in pochi sanno l’inglese. Chi è qui sa che resterà solo per pochi mesi per poi tornare alla vita randagia che conduceva prima. “L’altra mattina passeggiavo nel reparto giudiziario, mi sono avvicinato a una cella, c’era un televisore che trasmetteva musica araba, ho fatto un cenno di saluto al detenuto maghrebino che era sdraiato sul letto, ma lui mi ha guardato seriamente e poi ha voltato lo sguardo dall’altra parte. Era un chiaro segno di rifiuto di dialogo”. Don Vincenzo Russo è il cappellano di Sollicciano da 16 anni. Un lavoro difficile, tanti i reclusi che neppure lo degnano di uno sguardo. Don Russo, cos’è diventato il carcere di Sollicciano? “Un luogo di estremo degrado sociale e mentale, dove i reclusi attendono la fine della pena per tornare a condurre la vita randagia che conducevano prima. E questo è il frutto dei cambiamenti che avvengono nel mondo”. Ci spieghi... “In Italia e nel mondo sono aumentate le povertà e le disuguaglianze, questo costringe un sempre maggior numero di persone a intraprendere percorsi di marginalità, che spesso sfociano nella delinquenza e nella micro criminalità. E così il carcere si popola di reclusi che restano in cella soltanto per qualche mese e non hanno alcun interesse a cominciare un percorso trattamentale rieducativo, viste anche le condizioni drammatiche del penitenziario”. Chi sono i detenuti di Sollicciano? “Quasi due terzi sono stranieri - nigeriani, maghrebini, albanesi, georgiani, serbi - spesso in carcere per consumo e spaccio, furti e rapine. Ci sono oltre venti nazionalità diverse e questo non aiuta l’integrazione”. Non è sempre stato così? “No, vent’anni fa era diverso. I detenuti erano più stabili, c’era meno micro criminalità e maggiore presenza di detenuti di lungo corso, che magari avevano commesso reati più pesanti. Sembra un paradosso, ma sono proprio questi i reclusi con cui si può cominciare un percorso perché sanno che dovranno stare molti anni in carcere”. Ma in Italia sono tutte così le carceri? “Sollicciano è uno degli istituti italiani in cui c’è la percentuale di stranieri più alta”. E gli agenti? “Troppo pochi, almeno 50 in meno, per gestire una popolazione sovraffollata come quella di Sollicciano”. Conoscono le lingue per parlare coi reclusi stranieri? “Qualcuno sa l’inglese, ma non le lingue dei reclusi, e questo è un problema”. Quindi non c’è dialogo tra agenti e detenuti? “Soltanto gli agenti più anziani, talvolta, assumono un ruolo che va oltre il mero lavoro di sorveglianza. Ma nella maggior parte dei casi, si vive e si lascia vivere, nel senso che i reclusi ignorano gli agenti perché fanno parte del sistema, e di conseguenza gli agenti hanno difficoltà a parlare con loro”. Firenze. Se c’è tortura in carcere muore anche la civiltà di David Allegranti La Nazione, 10 gennaio 2021 Dobbiamo combattere quella logica insinuante e comoda per cui alla fine in carcere la violenza ci vuole e i detenuti alla fine, diciamocelo, se la sono cercata. A Sollicciano, nove agenti di polizia penitenziaria sono accusati di aver torturato due detenuti. Il primo, straniero, è finito all’ospedale con due costole fratturate, il secondo, italiano, con un timpano perforato. Non è purtroppo la prima volta che accade. A novembre, cinque agenti di polizia penitenziaria del carcere di San Gimignano sono stati rinviati a giudizio per i reati di tortura, lesioni aggravate, falsi ideologici, minacce aggravate e abuso di potere. Altri 10 sono attualmente in fase di udienza preliminare. È la prima volta che dei pubblici ufficiali vanno a processo per reati simili. Adesso vediamo come proseguiranno le indagini sulla vicenda di Sollicciano, che ci consegna un inquietante ma purtroppo non sorprendente spaccato della vita in carcere. L’emergenza sanitaria ha reso più fragile il già precario controllo sugli apparati detentivi. “Il caso di Sollicciano - mi dice Sofia Ciuffoletti, direttrice dell’Altro diritto e garante delle persone private della libertà a San Gimignano - si aggiunge a una lista di procedimenti per tortura che, a partire da San Gimignano, dove i detenuti hanno avuto il coraggio di denunciare il primo caso di tortura di stato in Italia, stanno coinvolgendo istituti penitenziari in tutta Italia, da Torino, a Milano. Da Pavia a Santa Maria Capua Vetere. Da Monza a Palermo e Melfi. Abbiamo finalmente nominato l’innominabile”. Si tratta, aggiunge Ciuffoletti, “dell’ingresso dello stato di diritto in carcere. Non per le condanne (aspettiamo le sentenze definitive che potranno essere anche di assoluzione), ma per il diritto a un’indagine seria e completa (in questo senso è davvero rilevante che le indagini siano svolte dal Nic, il nucleo investigativo della polizia penitenziaria, valga questo ogniqualvolta si parla di strumentalità delle indagini), per il diritto dei detenuti a essere ascoltati e presi sul serio e infine per combattere quella logica insinuante e comoda per cui, alla fin fine in carcere “la violenza ci vuole” e i detenuti, alla fine, diciamocelo, “se la sono cercata”. Insomma, essere garantisti, dunque anche nei confronti degli agenti di Polizia penitenziaria, non significa non capire i fatti. Le immagini delle telecamere di sorveglianza e le intercettazioni ambientali (“Gli hanno dato delle mazzate talmente forti che gli hanno rotto due costole”, ha detto un agente a proposito delle violenze contro il detenuto straniero) sono già molto eloquenti. Una società che voglia dirsi civile non può non monitorare costantemente quello che accade nelle nostre carceri, sovraffollate e a rischio sanitario elevato. Si pensa che le carceri siano un luogo in cui tenere appartate e nascoste e celate allo sguardo le nostre vergogne. Il che lascia una incredibile discrezionalità a chi poi il carcere lo deve dirigere e sorvegliare. Anche un gaglioffo ha diritto a non essere pestato in carcere e a non infettarsi con il coronavirus (o altro). L’Aquila. Costarelle a rischio chiusura? Nel caso 188 detenuti andrebbero trasferiti di Cristina D’Armi laquilablog.it, 10 gennaio 2021 Costarelle a rischio chiusura? Le Costarelle, il carcere di massima sicurezza dell’Aquila a Preturo, potrebbe chiudere. La motivazione risalirebbe alla costruzione delle sue fondamenta nel 1982, quando il terreno dove è situato l’istituto penitenziario, fu occupato abusivamente per la realizzazione dello stesso fabbricato. I lavori vennero ultimati nel 1986, ma solo nel 1993 l’istituto entrò in funzione. Nel 2014 la Corte d’Appello di Roma sezione speciale usi civici, accertò la natura dei terreni e condannò l’Agenzia del Demanio Abruzzo e Molise al rilascio dei fondi, rimandando l’esecuzione alla Regione Abruzzo che intraprese tutti i passaggi necessari per reintegrare i terreni. L’Amministrazione separata, poi, fece reintegra e voltura. L’Agenzia del demanio, condannata al rilascio dei fondi, non fece nulla. Dopo la dichiarazione da parte del Tar del difetto di giurisdizione del Tribunale amministrativo a decidere sulla vicenda, dichiarando competente in materia il Commissario per gli usi civici della Regione Abruzzo, la settimana scorsa il Consiglio di Stato ha ributtato la palla al Tar che, già da tempo, ha riconosciuto che i terreni su cui è stato costruito il carcere appartengono alla frazione di Preturo. E mentre Consiglio di Stato e Tar giocano a palla avvelenata preoccupa il futuro dei 188 detenuti del carcere di Massima sicurezza dell’Aquila. Nell’ipotesi di chiusura, dove verrebbero trasferiti? Non di certo in una delle case circondariali della regione che già superano di una unità il numero massimo di capienza (1658). Dei 188 detenuti conteggiati a L’Aquila al 31 dicembre 2020, di cui 18 stranieri, 188 sono uomini e 13 donne. Inoltre come ricordato da Mauro Nardella, segretario generale territoriale Uil Pa polizia penitenziaria e componente della segreteria confederale Cst Uil Adriatica Gran Sasso, il carcere del capoluogo abruzzese è la struttura con il più alto numero di detenuti d’Italia ristretti al cosiddetto regime speciale del 41bis. Su un centinaio di detenuti sottoposti al 41bis, sette sono donne. Tra queste c’è anche Nadia Desdemona Lioce, la leader delle ex nuove Brigate Rosse, condannata a tre ergastoli per gli omicidi, commessi con finalità di terrorismo. Sono solo 70 i posti vuoti nel carcere delle Costarelle e 75 quelli liberi nell’istituto penitenziario di Vasto. Le altre carceri abruzzesi sono tutte piene, anzi abbondano. Infatti, Teramo conta 303 detenuti (cap. max 255); Pesca 297 (cap. max 278); Lanciano 244 (capienza massima 229); Chieti 88 (capienza massima 82); Sulmona 359 (capienza massima 329) e Avezzano 58 (capienza massima 53). Per Tonino Nardantonio, presidente dell’Aduc di Preturo, c’è ancora tempo forse prima dell’irreparabile ma il territorio, le istituzioni e la politica dovrebbero prendere il toro per le corna e arrivare alla soluzione. Costarelle a rischio chiusura? Si arriverà all’abbattimento del carcere? Questo non è dato a noi saperlo. Per ora si ipotizza solo un accordo tra amministrazione separata di Preturo e Agenzia del demanio col riconoscimento dell’indennizzo economico. Monza. Quando ad allenare la squadra del carcere venne lo storico stopper di Maradona di Dario Crippa Il Giorno, 10 gennaio 2021 Moreno Ferrario ricorda l’esperienza vissuta in via Sanquirico, l’incredibile rapporto coi detenuti e gli insegnamenti del Pibe de Oro. Quando capiva che, per mille ragioni, la partita per loro diventava dannatamente importante, e le gambe rischiavano di tremare, snocciolava uno dei suoi aneddoti. Raccontava di quando aveva dovuto marcare Hugo Sanchez davanti a 90mila spettatori allo stadio San Paolo, o il grandissimo Van Basten alla Scala del Calcio, o ancora Platini, Falcao, Rummenigge. Senza boria, però, perché lui di boria non ne ha mai avuto neppure un briciolo, ma per infondere coraggio e dimostrare che alla fine è tutto un gioco, “a maggior ragione oggi, che in campo ci siamo solo noi, gli avversari… e le guardie”. Campionato di calcio C.S.I., stagione 2005-2006. Lo “stadio” è il cortile della casa circondariale di via Sanquirico a Monza. In campo, nella squadra “di casa”, ladri, rapinatori, banditi. In panchina, per un anno incredibile che rimane scolpito negli annali non scritti del carcere, un campione vero, che forse pochi o nessuno avrebbero potuto riconoscere: Moreno Ferrario, ex giocatore di serie A, stopper titolare del Napoli che vinse il primo scudetto della sua storia nella stagione ‘86-’87. Al fianco di una leggenda: Diego Armando Maradona. La storia dell’incredibile stagione al carcere di Monza la conoscono in pochi. A Ferrario, che ha quasi sempre allenato ragazzi o bambini (oggi è direttore dell’Academy Legnano Calcio), viene fatta la proposta più incredibile mai ricevuta: allenare per un anno l’Alba, la squadra di calcio a 7 del carcere di Monza. “All’inizio non me la sentivo - ricorda Ferrario - ma poi... fu l’esperienza più incredibile e bella della mia vita”. A Ferrario brillano gli occhi. Con i detenuti costruisce un rapporto eccezionale, “non chiedevo mai che storia avessero alle spalle, tutto era improntato semplicemente al rispetto. E non ne ho mai ricevuto così tanto”. L’Alba vince una partita dopo l’altra - tutte in casa ovviamente, ricorda con un sorriso Ferrario - e alla fine conquista lo scudetto. Ma non è quella la cosa importante. “Io non chiedevo, ma spesso erano gli stessi detenuti a raccontarmi cosa avevano fatto. Un giorno arrivò un bestione di colore, due mani grosse come macigni: pensava di dover andare in porta, ma non voleva usare le mani, gli dissi allora che poteva giocare anche fuori. Poi venni a sapere che con quelle mani enormi un giorno aveva gettato la moglie fuori dalla finestra. Eppure, con me fu sempre inappuntabile”. E non è l’unico: “Sapevano che per poter giocare dovevano rigare dritti, e ci tenevano, quelle due ore al campo per loro erano il momento più importante della settimana. E lo divennero anche per me: non vedevo l’ora che arrivasse il fine settimana per incontrarli e giocare”. Le guardie si stupivano, “dissero che così non li avevano mai visti. Un giorno sul campo mi arrabbiai di brutto con un giocatore, gli urlai contro per uno sbaglio di gioco… soltanto dopo, mi resi conto di cosa avevo fatto”. Il detenuto era un violento, la sua storia criminale da brividi. “A fine partita mi venne vicino e, davanti a tutti, mi disse: “Non ho mai permesso a nessuno di alzare la voce con me…”. Silenzio. “Ma Lei può”. La fiducia è totale. “Alla fine, mi permettevo qualche battuta. Una volta dissi: mi raccomando, quando uscite di qui non venite a rubare a casa mia!”. La squadra ammutolisce. Poi uno dopo l’altro si fanno avanti: “Mai. Nessuno si permetterà mai di farle qualcosa di male!”. Moreno Ferrario, classe 1959, aveva cominciato sin da giovane a farsi rispettare, coi suoi modi seri e pacati. “E dire che io volevo fare l’avvocato… mio padre era muratore, vedevo la fatica che faceva e sognavo un giorno di non dovermi spaccare la schiena come lui, ma di andare al lavoro in giacca e cravatta”. E invece arrivò il calcio. Giovanili del Varese, il dirigente Ricky Sogliano lo fa esordire in prima squadra a 16 anni in B. Poi un giorno lo chiamano per comunicargli che lo hanno appena ceduto al Napoli. “Ci rimasi 11 anni, gli anni più importanti della mia carriera. All’inizio ero un po’ intimorito, arrivai a Napoli da solo e mi ritrovai davanti a 4-5mila tifosi agli allenamenti. Non ero abituato, mai visti tanti al Varese”. Ferrario impara a non farsi condizionare. “Bruscolotti, il capitano, venne subito ad accogliermi e mi spiegò: se correrai e suderai senza fare lo scemo, qui non avrai problemi”. E Ferrario fa proprio così, i tifosi lo “adottano” subito. Un giorno a Napoli sbarca l’uomo del destino, Maradona. “Per me, il più grande. E non solo come giocatore, ma come persona. La gente che giudica per quello che ha fatto fuori dal campo non lo ha mai conosciuto. Diego era fatto così, ha sempre vissuto la vita che voleva vivere. Ma era di una generosità straordinaria, con me ha sempre dimostrato il massimo rispetto, io sapevo di non essere particolarmente dotato tecnicamente, ma al suo fianco ci sentivamo tutti migliori”. “Certo, i nostri caratteri erano agli opposti, io alle 10 di sera andavo a dormire, lui non dormiva mai. Agli allenamenti a volte dovevamo scongiurarlo di presentarsi per non far imbufalire Ottavio Bianchi, l’allenatore… ma quando vedeva qualcosa di tondo, cambiava e correva a giocare e a farci divertire”. Grande personalità. “Il primo anno andavamo male, eravamo in ritiro prima di una gara con l’Udinese. Ferlaino, il presidente, ci venne a minacciare: se non avessimo vinto, avrebbe cacciato l’allenatore, Rino Marchesi. Maradona si alzò, prese la parola e gli disse: “va bene, ma prima caccerai me, e poi lui”, indicando col dito un compagno. “E poi lui”, indicandone un altro. E alla fine tutti, “perché in campo ci andiamo noi e se perdiamo la colpa è solo nostra”. Ferlaino ammutolì. Alla fine vincemmo quella partita 4 a 3”. L’anno dei Mondiali in Messico Maradona fa l’impresa e conduce l’Argentina alla vittoria. “Eravamo preoccupati: pensavamo, se Diego vince quando torna non avrà più voglia, si era preparato come un matto tutto l’anno per quel Mondiale, temevamo che sarebbe stato appagato… E invece quando tornò, vincemmo lo scudetto. Segnai un gol decisivo pure io, a casa della Juve”. Queste e altre storie diventano il bagaglio delle mattine al carcere di Sanquirico, i detenuti se le bevono. E imparano a vincere. “Quattro o cinque erano davvero bravi” si schermisce però Ferrario. Maradona non fu sempre un esempio di cui parlare ai suoi “ragazzi”, in campo è ricordato anche per un gol di mano, all’Inghilterra. “Non si fa, ci mancherebbe, ma anche quella è stato una dimostrazione di genio, Diego anche solo a pensare era di un’altra pasta. E forse quello ai Mondiali non fu l’unico gol che segnò così, anche se nessuno lo sa”. Come? “Anni dopo quando ci vedemmo una sera con i vecchi compagni, Diego tirò di mostrò le immagini di una gara con la Sampdoria in cui aveva segnato di testa… e ci dimostrò che - anche se nessuno se ne era accorto, neppure noi compagni - aveva usato il pugno anche quella volta… anche se io francamente ancora non riesco a crederci, neppure quando riguardo quelle immagini”. Il mondo reso invisibile dal Covid di Bernard-Henri Lévy* La Repubblica, 10 gennaio 2021 Cosa c’è di nuovo in questo inizio d’anno? Niente. No, a parte il Covid, il dibattito tra pro e no vax, il ritardo della Francia nell’avviare la campagna di vaccinazione, la mediocrità di Olivier Véran (ministro francese della Solidarietà e della Salute), la mutazione del virus, la paranoia generale, secondo i principali mezzi d’informazione non è successo niente di notevole nelle ultime settimane. Bisogna leggere molto attentamente i nostri giornali, o la stampa internazionale, o i siti web specializzati, per sapere, ad esempio: che l’Organizzazione internazionale del lavoro segnala lo scatenarsi della povertà e della disoccupazione nella maggior parte dei paesi africani e latinoamericani; che Mark Lowcock, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, prevede, nello Yemen, nel Sud Sudan e altrove, un’esplosione senza precedenti del più antico flagello dell’umanità, la carestia (e questo non a causa del Covid, ma per le strategie di contenimento messe in atto, ovunque, in risposta al Covid); che l’islamismo, che, come i funghi nelle grotte, cresce nel buio mediatico e nell’umidità dei mondi chiusi nell’isolamento, è di nuovo passato all’offensiva in Mali, dove due soldati francesi sono appena stati uccisi; in Niger, dove dei soldati di Dio hanno fatto irruzione nei villaggi di Tchoma Bangou e Zaroumadareye per sventrare, decapitare e finire a colpi di machete un centinaio di abitanti disarmati, secondo uno scenario che conosco, ahimè, fin troppo bene; che in Nigeria, dove i massacri di cristiani continuano intorno a Jos e Godogodo, con la tacita complicità di un esercito che protegge le milizie Fulani, cioè Boko Haram, vale a dire il Daesh africano; che questo accade anche in Afghanistan, dove ancora una volta un giornalista (il settimo dal mio reportage per Match di qualche settimana fa) è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco, a Ghor, nel centro del Paese infestato da gruppi talebani che non aspettano nemmeno più il ritiro degli ultimi soldati americani o il fallimento dei negoziati di Doha per tornare all’attacco; che altrettanto avviene nel Kurdistan iracheno, nelle grotte e nei tunnel a nord dei monti Qara-Chokh e così anche, grazie al sostegno del Fratello musulmano Erdogan, ai confini del Rojava, detto anche Kurdistan siriano; che Erdogan non se la passa tanto male come credono i commentatori, dato che il Qatar ha speso 15 miliardi di dollari in operazioni di cambio per sostenere la valuta nazionale turca rispetto al dollaro; che ha rischiato di offendere l’Iran, amico del Qatar, recitando, a Baku, il giorno dopo la sconfitta dell’Armenia nel Nagorno-Karabakh, una poesia il cui messaggio pro-azero avrebbe potuto essere giudicato offensivo da Teheran, ma che si è subito scusato per questo e che l’alleanza tra neo-persiani e neo-ottomani ne è uscita paradossalmente più forte; che quando gli Stati Uniti si sono impegnati a sanzionarlo per aver acquistato missili S400 dalla Russia nonostante la sua appartenenza alla Nato, l’Iran lo ha sostenuto e ha lanciato l’hashtag #Neighborsfirst sull’account Twitter del suo ministro degli Esteri, Javad Zarif; che l’Iran, ancora una volta, ha approfittato delle feste di fine d’anno per mettere in atto nella prigione centrale di Zahedan, tra l’indifferenza generale, l’esecuzione di tre uomini condannati per “moharebeh”, letteralmente, per “comportamento ostile a Dio”; che Putin, maestro del gioco, non è mai apparso così arrogante e ha spinto la provocazione al punto di ammettere, implicitamente, che c’è proprio l’Fsb all’origine dell’avvelenamento, per mezzo di un agente nervino del tipo Novichok, del dissidente Alexei Navalny; che la Russia, che in linea di principio si oppone alla Turchia in Libia e in Siria, gli ha fatto sapere che sono ipotizzabili dei nuovi incontri di Yalta regionali, purché si svolgano a spese degli Stati Uniti e dell’Europa; che a tutto questo piccolo mondo, che sta diventando grande, non è dispiaciuto affatto vedere che la Repubblica Islamica dava in appalto alla Cina, nel cuore del Golfo Persico, il giacimento di gas South Pars, che è il più grande e ricco del mondo; che la Cina, all’offensiva su tutti i fronti, ha ottenuto dall’Europa un partenariato commerciale su tutti i fronti e che la signora Ursula von der Leyen ha salutato questo “accesso senza precedenti al mercato cinese” senza dire una parola né sulla sorte dei lavoratori forzati uiguri, né su quella degli attivisti pro-democrazia che languono nelle prigioni di Hong Kong; che anche il Regno Unito, già garante morale della semi-autonomia del Territorio, non ha trovato nulla da ridire sull’incessante persecuzione di cui è vittima Jimmy Lai, il magnate pro-democrazia liberato il 23 dicembre, ma di nuovo sotto attacco con l’accusa di “collusione con potenze straniere” per aver osato denunciare la politica repressiva e criminale di Pechino (e che in attesa, a sua volta, dei soldi cinesi, il brexiter Boris Johnson ha concluso un altro accordo con la Turchia che, senza alcun rispetto per Churchill e mettendo nuovamente da parte la questione dei diritti umani, dovrebbe ampiamente compensare, dice, il calo degli scambi commerciali con il continente). Insomma, il mondo non è mai stato peggiore dalla fine della Guerra Fredda. Coloro che ho definito, in contrapposizione “all’impero” occidentale, “i cinque re” non sono mai stati più attivi, né più coordinati, come in questi tempi di pandemia. Questo è lo stato del mondo che la luce nera del Covid rende oggi quasi invisibile. *Traduzione di Luis E. Moriones Il populismo letterario comincia con l’inseguimento della cronaca di Walter Siti Il Domani, 10 gennaio 2021 In questo periodo gli scrittori si infilano spesso nelle proprie opere, come dei blogger qualunque, e cercano di legittimare l’invenzione letteraria ancorandola all’attualità. Ma così sviliscono il proprio ruolo e quello della scrittura. Nell’ultimo romanzo di Emmanuel Carrère, Yoga, c’è un passo che riguarda il generale Massu, il torturatore d’Algeria; nell’intervista rilasciata a un settimanale il generale avrebbe detto, riferendosi alla tortura con gli elettrodi, “non bisogna esagerare, non fa poi così male, l’ho provata su me stesso”. La “stupida oscenità” di questa frase Carrère la trasferisce a ciò che talvolta pensano gli scrittori di autofiction: “Sì, parlo male degli altri, però parlo malissimo anche di me stesso”: la differenza sta, riflette Carrère, nel fatto che se io ho in mano lo strumento decido io fin dove posso sopportare, mentre l’angoscia degli altri deriva dal non poter sapere dove io mi fermerò. Narrare è far male La giusta riflessione gli si è poi rivolta contro, ora che la ex moglie Hélène Devinck lo ha accusato di esser venuto meno ai patti (addirittura sottoscritti davanti a un notaio) di non aggredirla nei suoi scritti e di non parlare delle loro cose intime - accusandolo anche, al passaggio, di essere un bugiardo patentato e di aver trasformato una sola settimana trascorsa con lei a Leros in due mesi di insegnamento ai migranti là raccolti. Insomma, di travisare la realtà nel suo romanzo: bella scoperta, verrebbe da dire. È vero che da un po’ di tempo vige la moda di “fare i nomi” nei romanzi, inserendovi lacerti di realtà controllabili sui giornali o all’anagrafe: non solo nell’autofiction propriamente detta, ma anche nei non-fiction novel ispirati a delitti famosi o a vite in qualche misura notevoli, e infine in quelle forme di meta-narrazione per cui un autore non racconta una storia ma piuttosto il come e il perché lui abbia deciso di raccontare quella storia. Come se ci fosse bisogno di un sigillo di autenticazione, quelle che vi racconto non sono balle. Da dove nasce questo bisogno? In primo luogo, direi, dalla necessità di non essere sommersi nel diluvio usuratissimo di invenzioni inoffensive della letteratura d’intrattenimento; poi conta, in una realtà aumentata che pare sempre più finta, il piacere di sfidarla sul suo terreno, “allora ti insegno io come devi essere”; e di sicuro influisce il maggior appeal commerciale delle “storie vere”; né trascurerei lo smarrimento di fronte a una mutazione culturale che si percepisce come radicale, col conseguente rifugio in ciò che si crede di conoscere con più certezza, l’io (così fece Dante a suo tempo, e così Cartesio). Darei meno peso all’esigenza di “essere coinvolti”: Dostoevskij non era forse coinvolto nelle crisi epilettiche del principe Miškin, pur scrivendo in terza persona e riparandosi dietro un nome fittizio? Non si può narrare davvero senza far male a qualcuno, che lo si faccia in prima o in terza persona, con nomi veri o finti. Ne sa qualcosa Thomas Mann a cui i bravi cittadini di Lubecca tolsero il saluto dopo l’uscita dei Buddenbrook; e a loro rispose che la forma è crudele, che per ottenerla bisogna trovare in sé un “amore secondo” più forte dei rispetti umani, che soltanto così la letteratura tiene fede al proprio compito di conoscenza mediante radiografia del reale, perché invece “alla realtà piace che le si parli con frasi sciatte”. Per disturbare e far soffrire non si deve nemmeno arrivare alla diffamazione indiscreta: c’è un’accorata lettera di una signora inglese a Flaubert, un’amica di famiglia, in cui lei si dichiara dispiaciutissima che un ragazzo buono e promettente come Gustave abbia sprecato il proprio talento in una storia squallida e miserabile come quella di Emma Bovary, e pensa a quanto dolore debba aver provato la povera madre dello scrittore leggendola. Certo, coi nomi veri la cosa è più diretta, più passibile di querela in tribunale; all’origine del romanzo moderno, nel Settecento inglese, c’è proprio la volontà da parte degli editori di sottrarsi alle denunce delle famiglie nobili e potenti: meglio raccontare vicende di gente comune e non identificabile (quale prostituta, se pure si fosse riconosciuta in Moll Flanders, avrebbe potuto citare Defoe in giudizio? Dante poteva permettersi molto di più, perché la sua patria l’aveva già condannato a morte: se decideva di cacciare Branca Doria all’inferno mentre questi era ancora vivo, bastava assicurarsi che il suo protettore del momento fosse nemico dei Doria. Lui lavorava per l’eterno, e lo sapeva. Le muse Torniamo ai giorni nostri: c’è chi ha interpretato l’intervista della ex moglie di Carrère come la ribellione delle donne che si rifiutano di essere ancora le “muse” degli scrittori maschi; il che naturalmente è giusto, e ha precursori: già più di quaranta anni fa la zia di Vargas Llosa rispose a La zia Julia e lo scribacchino con una propria versione dei fatti, e più di ottocento anni fa Eloisa aveva dato una bella lezione sull’amore ad Abelardo. Molto più tragicamente, trent’anni fa Serge Doubrovsky nel Libro spezzato aveva messo in scena un gioco al massacro tra marito e moglie proprio facendoli discutere insieme di un libro che raccontava la loro intimità, concluso nella realtà con la morte della moglie, la più fragile della coppia. Ma non è che le donne, quando sono loro a scrivere, si trattengano da attacchi pesanti: Emma Cline non scrive il cognome Weinstein nel suo Harvey, ma il nome di battesimo basta e avanza. Più che farne una questione di genere, mi pare che il rischio sia un altro: sia cioè la confusione che nasce tra l’autore come persona empirica e l’autore come personaggio dentro la propria opera. Come se l’indistinguibilità dei due piani mettesse in comune le responsabilità, e il personaggio dovesse scontare sul piano estetico il giudizio morale sulla persona (se Carrère è misogino e bugiardo, allora non mi piace nemmeno il suo romanzo). Io credo che le due cose debbano restare nettamente separate: in quanto cittadino, l’autore deve essere pronto ad accettare tutti i rancori privati o eventualmente le condanne penali previste dalle leggi dello stato; in quanto scrittore, il suo unico dovere è lasciar fare e dire al proprio io letterario tutto quello che l’ispirazione gli detta. E pretendere che la sua opera venga giudicata in quanto “forma” (comprendendovi anche la “forma del contenuto”, cioè la scelta e la disposizione dei temi). Cronaca della letteratura? Nella teoria letteraria (quando ancora esisteva una teoria letteraria, anzi ce n’era perfino troppa) la distinzione tra autore e personaggio era chiara, come era chiaro il discrimine tra il “giudizio di valore” (cioè la bellezza di un testo, legata a criteri come la coerenza dei livelli, la novità rispetto agli stereotipi, la tenuta stilistica) e il “gusto” dipendente dalla varietà delle circostanze pubbliche e personali. La Storia è una somma di ingiustizie e di errori, ma per eliminare ingiustizie ed errori non è una buona idea eliminare la Storia. I classici, più o meno tutti, hanno avuto lettori o periodi storici a cui non sono piaciuti. Ma sono rimasti classici, e per cambiare il canone ci vuole tempo e pazienza (Le illusioni perdute è un romanzo migliore della Capanna dello zio Tom, e non basta il movimento Black lives matter per sovvertire il giudizio); non basta sostituire al bello/brutto un mi piace/ non mi piace, bisogna convincere con buoni motivi - non possiamo ridurre la storia della letteratura a una cronaca della letteratura. Le rivoluzioni nel campo letterario possono accadere: bellezze che parevano consolidate non sono più considerate tali, mentre altre vengono scoperte dopo essere state negate per secoli; ma non ha senso che il processo venga accelerato perché in questo periodo gli scrittori si infilano più spesso nelle proprie opere, come dei blogger qualunque. La letteratura è un’attività élitaria come l’architettura e la chirurgia, non tutti possono progettare un ponte o applicare uno stent coronarico; solo perché le parole sono di tutti, non è una buona ragione per praticare lo spontaneismo, anzi il populismo letterario. Gli storici, diceva Aristotele, raccontano quel che è accaduto, i poeti [leggi: gli scrittori creativi] quel che potrebbe accadere; il diaframma tra i due mestieri si è fatto sempre più sottile: un romanziere di razza come Javier Cercas protesta continuamente di non potersi permettere l’invenzione, ma ogni scusa è buona per trasgredire. Nel Sovrano delle ombre racconta la storia di un suo prozio, morto giovanissimo combattendo per la Falange franchista, e si chiede a lungo quanto questo racconto possa far soffrire la famiglia, tutta di simpatie falangiste all’epoca e per la quale quel giovane è sempre stato un eroe. La madre lo accompagna nell’ultimo sopralluogo e reca sul viso sia la pena che la soddisfazione - il risultato è ambiguo. Mentre per il giornalismo la libertà di “fare i nomi” si connota necessariamente come coraggio, per la letteratura la frequentazione della cronaca si arricchisce (o si sporca) di sfumature ambivalenti; la sua libertà è anche libertà di travisare e mentire, per fedeltà a impegni di più lungo periodo o semplicemente per vigliaccheria. Così i padroni della Rete diventano arbitri e giudici di Salvatore Sica Il Dubbio, 10 gennaio 2021 Le polemiche dopo il blocco dei social di Trump. Chiariamo subito un aspetto: le scene dell’irruzione a Capitol Hill dei giorni scorsi mettono profonda inquietudine, tanto più se si considera il contesto della democrazia americana fin qui considerata leading! Episodio di una gravità senza precedenti, che impone una reazione immediata, civile, culturale e secondo i rimedi di cui dispone l’ordinamento di quel Paese. Ma in misura analoga - sebbene travolta dall’ovvia prevalenza mediatica dei fatti di cronaca segnalati - in questo momento - e non è la prima volta - si è consumata un’altra vicenda che impone una riflessione altrettanto decisiva per le sorti della democrazia a livello globale. Zuckenberg, il padrone della comunicazione social del nostro tempo, ha disposto unilateralmente il “blocco” dei siti riconducibili a Trump sino alla cancellazione di alcuni post “censurati”. Anche in questo caso occorre chiarezza, per evitare equivoci e strumentalizzazioni, tipiche della nostra difficile epoca: il contenuto dei post incriminati è inaccettabile da qualsiasi punto di vista li si consideri. D’altro canto non c’è una sola della affermazioni del guru di Facebook e Twitter che non sia da sottoscrivere, quando sostiene: “Gli eventi scioccanti delle ultime 24 ore dimostrano chiaramente che il presidente Donald Trump intende utilizzare il suo restante tempo in carica per minare la transizione pacifica e legale del potere al suo successore eletto, Joe Biden”; ed ancora: “La priorità per l’intero Paese deve essere garantire che i restanti 13 giorni e quelli successivi all’inaugurazione passino pacificamente e in conformità con le norme democratiche”. Ma il tema è un altro: chi è Zuckenberg per assumere la veste di “censore” del pensiero altrui, in quest’ipotesi di un presidente degli Usa, che io non avrei votato, ma comunque ancora in carica sino al 20 gennaio 2021? La risposta richiede un ragionamento più ampio. Da circa un ventennio è in atto un fenomeno senza precedenti, che la terribile stagione della pandemia ha accentuato ed agevolato: il passaggio definitivo alla società della comunicazione globale, in una situazione di rovesciamento delle realtà, nel senso che oggi è prioritariamente vero ciò che risulta dalla diffusione social rispetto alla stessa effettività dei fatti storici. Il processo ormai ha connotati, direi, di definitività: tutto è on line, le relazioni interpersonali, gli scambi commerciali, la medicina, la giustizia, la didattica scolastica, la pubblica amministrazione. In quest’orgia comunicazionale, certamente ricca di aspetti positivi - basti pensare a che cosa sarebbe stato il periodo di lockdown in assenza di strumenti di comunicazione avanzata - tuttavia passa in secondo piano un profilo rilevantissimo e decisivo: l’intero processo è nelle mani di pochi soggetti “privati” detentori dello “strumento” tecnologico, custodi gelosi del segreto algoritmico che alimenta il processo, “proprietari” di una mole smisurata di dati personali, che finiscono per “mercificare” gli stessi titolari a cui si riferiscono. Senza che nessuno aprisse gli occhi e mentre tutti erano pazzi della sbornia da social, si è determinato un’inversione di rapporti di forza tra la sfera del pubblico - cioè del potere costituito, di cui è emanazione il diritto, il sistema delle regole - e quella del privato. Oggi sono i governi ad aver necessità degli Over the Top della comunicazione e non il contrario. Anzi, questa deriva è così avanzata che proprio Zuckenberg non ha fatto mistero in più di un intervento di sognare una società “a misura della comunicazione”, come quando ha avanzato di modificare le disposizioni dei vari ordinamenti che fissano un’età minima per accedere ai Social: egli propone sei anni, perché è bene che i bambini imparino subito - e magari anche prima di leggere a scrivere - a frequentare le autostrade della Rete, di cui egli ha il controllo. La gravità della situazione è ormai evidente allorché la stessa politica si “inginocchia” dinanzi a tale potere privato costituito: le stesse scelte di governo - e sfido a sostenere il contrario - spesso sono dominate dalla ricerca di qualche like in più o dall’accaparramento del maggior numero di followers; anzi, lo stesso ceto politico si “modella” sulla stagione della comunicazione, altrimenti non si spiegherebbe come alcuni mediocri, del tutto privi di contenuto, che sarebbero stati cacciati a pedate in una vecchia sezione di partito, oggi diventano personalità o consiglieri dei principi! Il disegno dei “padroni del vapore” della Rete pare avviarsi alla fase finale: la pretesa, dopo aver creato dipendenza dal mezzo su cui esercitano il controllo, di gestirne i contenuti, assurgendo ad arbitri, censori, giudici. Insomma, le immagini dei seguaci di Trump che profanano il tempio della democrazia americana mettono tristezza e creano allarme; la presa di posizione del guru dei Social è, ribadisco, non meno inquietante. Il Diritto deve con urgenza recuperare il proprio spazio. Deve farlo con le masse ignoranti ed eversive che sfondano vetri e porte del Campidoglio, deve farlo con le multinazionali della comunicazione, che è tempo che paghino le tasse in base al profitto che realizzano, che consentano con trasparenza di tracciare la sorte dei dati che raccolgono a nostra insaputa, che intervengano, su ordine di un potere pubblico, a bloccare prontamente non i soli account di Trump, ma anche quelli dei milioni di haters che ogni giorno inquinano il mondo con notizie false e ed affermazioni e video indecenti. Ma è urgente che almeno qualcuno si riprenda dall’ubriacatura in cui siamo immersi! *Direttore di IN. DI. CO. (Informazione- Diritto- Comunicazione), Ordinario di diritto privato Scuola, ecco i danni della didattica a distanza: gli studi riservati del ministero dell’Istruzione di Carlo Tecce L’Espresso, 10 gennaio 2021 Dalla precarietà allo stress, il dicastero è al lavoro da mesi sugli effetti psicologici sugli studenti della Dad. L’Espresso ha consultato i documenti riservati. La didattica a distanza fa male. Si ha paura a dirlo, per non sovrapporre i drammi. Al ministero dell’Istruzione, però, lo sanno da mesi che quel rito digitale conosciuto con la sgradevole sigla di “dad”, nel lungo periodo, fa male agli studenti, riduce l’apprendimento scolastico, amplifica il disagio sociale, genera disturbi psicologi. Al ministero dell’Istruzione lo sanno perché da mesi, da agosto soprattutto, sono sopraffatti da tabelle, ricerche, documenti riservati che provengono anche dalla collaborazione col Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi. L’ultimo aggiornamento è di gennaio, riguarda un dettagliato sondaggio fra gli studenti. Così il ministero di Lucia Azzolina insiste fra le mura sorde del governo: a distanza, ma se necessario, se la pandemia infierisce ancora, non per pigrizia intellettuale, non per impreparazione amministrativa. Non sarebbe perdonabile. Il ministero dell’Istruzione, solo, si muove con ostinazione per i diritti degli studenti in un momento di doveri e il governo giallorosso, mai tanto compatto su un punto, reagisce infastidito. Come se non sopportasse questa ragionevole ostinazione. Allora si litiga e ci si confonde. Qualcuno ha pensato alle conseguenze. “Il virus fa chiudere la scuola. La prevenzione non si contesta. Però la scuola chiusa apre nei ragazzi grosse ferite. Quelle invisibili, le più insidiose. Non facciamo finta che non esistano”, racconta il dottor David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi. Lazzari cura le ferite invisibili, scandisce concetti pietrosi con quel tono lieve dei professionisti che illustrano un evento medico ai neofiti, storditi al primo assaggio di dolore. Sin da agosto gli psicologi italiani supportano il ministero dell’Istruzione e con la solita fatica, per l’irreversibile lentezza della burocrazia, aiutano presidi e docenti a scovare e sanare le ferite invisibili degli studenti che siedono in aula con la mascherina chirurgica oppure alla scrivania della cameretta per la “dad”: “Il nostro compito è intervenire in tempo sugli studenti per scongiurare le cicatrici e tutelare l’apprendimento. I dati che abbiamo raccolto - anche per il ministero di viale Trastevere - ci svelano che fra i ragazzi costretti a casa c’è un senso diffuso di stress, nervosismo, irritabilità e depressione”, afferma Lazzari. Gli adolescenti, i più colpiti, hanno messo in pausa completa l’esistenza e ogni annuncio del tal ministro o tal governatore di rientro in classe, più o meno attendibile, una volta anticipato, una volta posticipato, non fa che accrescere un sentimento di estrema precarietà. La scuola come luogo di trasmissione del contagio, o forse no, non troppo. Tutto è vago. Tutto è vario. Le conseguenze non lo sono. Il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, assieme a una società di indagini demoscopiche, a dicembre ha svolto per il ministero un’analisi trasversale alla popolazione scolastica con una serie di quesiti preparati dal proprio centro studi. Lazzari e colleghi hanno coinvolto gli alunni dalla materna alle superiori e anche i genitori: “Le nostre paure sono confermate: la pandemia ha scatenato disagi che velocemente si trasformano in disturbi. La didattica a distanza acuisce i pericoli, non ne abusiamo con leggerezza”. Chissà se il governo di Conte pensa alle conseguenze, mentre colora le regioni, sparge tappeti igienizzanti per le suole e scomodi banchi a rotelle. Chissà se le regioni ci pensano, soprattutto quando invocano poteri e con fiera autorità serrano le scuole, come esclusiva e valida soluzione ai mali del virus. Il ministero di Lucia Azzolina un po’ ci ha pensato e dallo scorso agosto ha intensificato i contatti con gli psicologi. Il 9 ottobre il ministero ha firmato un protocollo d’intesa con il Consiglio nazionale e lì ha esposto, in forma chiara, ignorata ai più, i suoi indicibili timori: “Si intende realizzare una serie di attività rivolte al personale scolastico, a studenti e a famiglie, finalizzate a fornire supporto psicologico per rispondere a traumi e disagi derivanti dalla pandemia. Si ritiene necessario predisporre un servizio di assistenza psicologico. Si intende avviare azioni volte - si legge ancora nel documento ufficiale - alla formazione dei docenti, dei genitori e degli studenti, in maniera da affrontare, sotto diversi punti di vista, le tematiche riguardanti i corretti stili di vita e la prevenzione di comportamenti a rischio per la salute nonché avviare percorsi di educazione all’affettività”. Queste premesse, firmate da Azzolina e controfirmate da Lazzari, si sono tramutate in un fondo di 40 milioni di euro per gli oltre 8 milioni di studenti distribuiti in 8.290 istituti. Più un timido approccio che un progetto ponderoso. Di certo più di niente. Il 26 ottobre il ministero ha inviato una circolare ai dirigenti scolastici per le indicazioni sui bandi da attivare entro il 31 dicembre. Alla vigilia di Natale ne ha spedita un’altra per convincere i più scettici: “Circa l’ottanta per cento degli istituti scolastici ha aderito. Alcuni hanno già iniziato a novembre, altri avranno presto lo psicologo a scuola per operazioni individuali o collettive”, commenta Lazzari, che sul tema si è confrontato con Agostino Miozzo, il capo dell’ormai noto Comitato tecnico scientifico (Cts), il gruppo di consulenti sulla pandemia del governo. “Imparare da remoto è una sfida. I ragazzi generalmente imparano quando sono coinvolti attivamente e in ambienti in cui si sentono al sicuro e socialmente connessi. Imparare a distanza richiede un livello di attenzione sostenuta e un grande controllo emotivo. La richiesta è per tutti: studenti, insegnanti e genitori”, ha spiegato alla rivista della Harvard Chan School la ricercatrice e psicologa americana Archana Basu, istruttrice della divisione di psichiatria infantile e dell’adolescenza al Massachusetts General Hospital, assai stimata dagli psicologi italiani. Questo era il preambolo. Questa è la conclusione di Basu: “La nostra sicurezza fisica e sociale è messa a dura prova. L’abbiamo chiamata scuola da casa, ma è una scuola di “crisi” a casa. Le preoccupazioni per la sicurezza sollecitano il sistema limbico, che può interferire con l’apprendimento”. Lazzari insorge: “Per favore smettiamola di parlare di didattica a distanza. Nessuno ha preparato le famiglie, gli studenti, gli insegnanti a un’esperienza così pesante. Non basta un abbonamento gratuito a internet per espletare il compito. Qui si tratta di lezioni seguite davanti a uno schermo senza alcun coinvolgimento. L’aula di una scuola è lo spazio di eccellenza per la crescita psicologica e non abbiamo surrogati. Noi siamo indotti a credere che la scuola sia un contenitore di informazioni e nozioni. Se fosse così, sarebbe obsoleta. Invece la scuola ha una funzione fondamentale per strutturare le competenze psicologiche che ci offrono flessibilità, credibilità, maturità, capacità di fronteggiare le varie situazioni che la vita ci pone. E lo Stato non ha altre leve per allenare al meglio la sua società di domani”. L’associazione degli psicologi americani ha diffuso un prontuario per tentare di semplificare una missione improba degli insegnanti: decifrare i segnali di malessere che arrivano dagli studenti attraverso un collegamento a una piattaforma digitale e non alla tradizionale lavagna e poi rivolgersi agli specialisti. “La pandemia ha causato molta preoccupazione. Questi fattori di stress - scrivono - possono provocare problemi di salute mentale a chiunque e la comparsa di sintomi acuti per chi ne soffre già”. Lazzari fa un’osservazione: “Non mi spendo in una lotta di categoria, sarebbe immorale, ma vorrei precisare che la rete psicologica pubblica italiana è insufficiente: abbiamo 8,4 dottori su 100.000 abitanti contro i 49 dei francesi”. La commissione paritetica composta da funzionari ministeriali e psicologi dell’Ordine ha ricevuto molte segnalazioni di criticità dagli insegnanti e dagli esperti che operano nelle scuole; tant’è che il 24 novembre, dopo un incontro di Azzolina con Lazzari al dicastero di Viale di Trastevere, si è deciso di accelerare i buoni propositi del protocollo d’intesa. Il Comitato tecnico scientifico è consapevole dei rischi generati da un massivo (eccessivo) utilizzo della cosiddetta didattica a distanza per gli adolescenti. Il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi ha sempre riferito al Cts di Miozzo che la scuola è una priorità delle ripartenze, anche se non si tramuta in immediati benefici sul prodotto interno lordo, semmai sul futuro capitale umano dell’Italia. Il Cts annuisce, il governo pure, ma soltanto per la capienza degli autobus si è discusso senza esiti per mesi. Ci sono condizioni generali e oggettive che impediscono l’ingresso a scuola in alcuni periodi di particolare virulenza della pandemia, ma da subito, dal 3 marzo 2020, la scuola è stata spinta ad arrendersi al virus. E non si è più riavuta. I ragazzi dai 13 ai 19 anni, che da marzo non sono riusciti più a mettere piede a scuola, tranne chi ha fugacemente partecipato all’esame di Stato, rapido come i tamponi antigenici, in un sondaggio di settembre promosso dagli psicologi, per la maggior parte si sono dichiarati ottimisti sul ritorno alla normalità dopo la fine della pandemia. Poi le speranze, e anche le sensazioni positive, come dimostra l’ultima rilevazione, si sono rarefatte. Chiosa Lazzari: “I ragazzi adolescenti sono palazzi in costruzione, sono i più facili da riparare, ma anche quelli che patiscono i danni maggiori da un fenomeno avverso. La pandemia gli ha sottratto un pezzo di mondo come al resto della popolazione, ma la loro specifica fragilità ci obbliga a una reazione migliore, più efficiente. Un modo per non avere rimpianti è valutare ciò che accade quando li lasciamo al computer per una lezione di matematica e l’altro modo è dirsi la verità”. Pensare alle conseguenze. Croazia. Poliziotti a caccia di migranti (tra neve e mine): “Ce lo chiede l’Europa” di Nello Scavo Avvenire, 10 gennaio 2021 “Nessuno di questi vuole fermarsi in Croazia, ma noi dobbiamo fermarli”. Sulla rotta balcanica, tra i disperati in fuga dalle guerre (provocate anche dall’Occidente e dai suoi alleati). La cronaca di un’altra emergenza umanitaria annunciata comincia dalla bufera di neve che per il terzo anno di fila ha quasi sepolto i campi profughi sul confine tra Bosnia e Croazia, trasformati in una trincea d’altri tempi. Pochi tra i migranti bloccati a Bihac e Velika Kladusa si azzardano a sfidare il manto bianco che poco più in là nasconde trappole mortali. La maggior parte dei tremila accampati, tra cui i 1.200 in cerca di una sistemazione dopo l’incendio nel campo di Lipa, prima di ritentare i 300 chilometri di cammino verso l’Italia attenderanno che le temperature tornino sopra lo zero. Qualcuno però sfida la sorte, nella speranza che anche le guardie croate abbiano freddo. “Ne prilazite”, avverte il cartello. “Non avvicinarsi”, perché questo è uno dei campi minati più pericolosi al mondo. Nella foresta di Bonja c’è il più recente tra i varchi aperti dai trafficanti. Lontano dai percorsi più noti al tam tam della rotta balcanica, in media chiedono 200 euro per ciascun migrante da guidare lungo i sentieri fin nel territorio croato. Di solito i passeur se la danno a gambe appena dopo il confine. I boschi, infatti, sono pattugliati giorno e notte. Arrivare a Bonja è un’impresa. Un viaggio tra edifici bombardati, eredità della guerra nella ex Jugoslavia, e chilometri di fango e torrenti senza anima viva. Non ci sono mappe stradali aggiornate, i telefoni diventano muti, e a ogni passo c’è da sperare di non essere incappati in un sinistro souvenir di guerra. Sono le cosiddette “aree sospette di mine”. Quasi il 99% delle trappole esplosive è ancora nascosto tra i boschi. Il centro croato per lo sminamento, che da anni lavora incessantemente per mettere in sicurezza i quadranti più a rischio, stima almeno 18 mila esplosivi antiuomo ancora nascosti, oltre a un incalcolabile quantità di bombe inesplose. Dal termine del conflitto oltre 500 persone sono morte dopo aver sentito un micidiale clic sotto agli scarponi, più di 1.500 sono i mutilati. Perciò anche i poliziotti inviati a tenere d’occhio le possibili vie d’ingresso dei migranti non sono contenti di dover restare per giorni quassù. “Le mine si spostano - racconta un giovane agente dai modi cordiali. Non esiste una mappatura affidabile perché la pioggia, il fango, le frane, cambiano continuamente lo stato del terreno”. Mentre ci implora di tenerci alla larga dal sentiero e tornare indietro il prima possibile, il suo sguardo cade dietro al furgone bianco del commissariato. Accovacciati su dei sassi ci sono due donne, due uomini e un bambino. Sono stati catturati pochi minuti prima da una squadra in tenuta antisommossa, poi tornata nella foresta per dare la caccia ad altri irregolari. “Vi prego - dice - qui non potete fare fotografie. Non dovete fare domande e non potete parlare con i migranti. Sono entrati illegalmente. Adesso arriva il mio capo e vi spiegherà tutto”. Poi viene interrotto dalla radio. Sembra che il tenente non creda sia possibile che ci siano dei giornalisti proprio lì. Mentre il poliziotto spiega che non è uno scherzo e che devono venire in forze, riusciamo a parlare con i migranti. Sono curdo-iraniani. Si erano messi in cammino da poco e sono stati intercettati subito. Chiederanno asilo, se gliene sarà data la possibilità. Il bambino non avrà più di 11 anni. È preoccupato, ma non spaventato. Una delle due donne tiene la testa bassa mentre arrivano i furgoni senza finestrini. All’interno solo due panche d’acciaio ancorate e diverse catene con manette agganciate ai sedili. È li che la famiglia di profughi verrà caricata. Gli agenti, però, non vogliono dirci dove li portano. La dozzina di poliziotti indossa tute blu. Le mani coperte da guanti mozzati con le nocche rinforzate. “È per proteggerci dal freddo”, assicurano. Secondo le denunce di diverse organizzazioni umanitarie e dalle inchieste del Commissario croato per i diritti umani, uomini con analoghe divise sono stati ripresi mentre aggredivano i migranti nel corso dei respingimenti verso la Bosnia. Il governo di Zagabria ha garantito di avere avviato decine di indagini interne, ma esclude che le proprie forze di polizia possano essere state coinvolte in violazioni contro i diritti umani. Il lavoro che Ipsia-Acli insieme alla Caritas sta svolgendo lungo la rotta balcanica “è proprio quello di non rincorrere l’emergenza, che - spiega la coordinatrice Silvia Maraone - puntualmente si ripresenta a ogni inverno. Semmai scegliamo di creare spazi di relazione con le persone che altrimenti vengono trattate semplicemente come numeri da mettere in coda per ricevere il cibo, le scarpe, le coperte”. Oltre agli stranieri presenti nei campi, moltissimi altri che vagano alla ricerca di una sistemazione di fortuna. “Da mesi sapevamo che il campo di Lipa era inadeguato. Per ragioni politiche il governo bosniaco non ha ottemperato all’impegno di portare almeno l’elettricità nel campo”. Poi è arrivato un incendio alla vigilia di Natale e centinaia di persone sono rimaste senza neanche una tenda di plastica sotto cui ripararsi. Attraversare il confine non è poi così difficile. La foresta è una terra di nessuno. La frontiera non è segnalata. Solo il gps può indicare con precisione lo sconfinamento. E quando raggiungiamo il territorio bosniaco, lungo la stradina di fango abitualmente percorsa dai trafficanti di uomini e dai contrabbandieri, una camionetta sopraggiunge dalla direzione opposta e corre a fermarci. “Andate via, ci sono anche trafficanti armati, sono pronti a sparare”, prova a spiegare mostrando la divisa completamente ricoperta di fango solo sul davanti, come se avesse strisciato per terra. Dal 2017 il Centro per gli studi sulla pace di Zagabria ha depositato sei denunce penali. Due nelle settimane scorse, a causa della detenzione di 13 stranieri, tra cui due bambini, poi consegnati “a dieci uomini armati vestiti di uniformi nere, con il passamontagna sulla testa”. Secondo l’accusa, “gli uomini in divisa nera hanno picchiato, umiliato e respinto le vittime dal territorio della Repubblica di Croazia fino alla Bosnia-Erzegovina”. Fonti del ministero dell’Interno hanno reagito sostenendo che potrebbe trattarsi di “civili armati” che sfuggono al controllo della polizia. Intanto l’ufficio del difensore civico presso la Commissione Ue ha avviato il 20 novembre una indagine per accertare se vi siano state omissioni o comportamenti illegali da parte delle polizie sui confini di Italia, Slovenia e Croazia, finalizzati al respingimento verso la Bosnia. “Nessuno dei migranti è intenzionato a fermarsi in Croazia”, ammette un poliziotto al posto di controllo di Veliki Obilaj. “Però dobbiamo fermarli lo stesso per proteggere i nostri confini. Sono gli ordini - dice. E poi ce lo chiede l’Europa”. Noi, l’America e l’ondata dei populisti di Massimo Giannini La Stampa, 10 gennaio 2021 C’era una volta l’America. Ce lo ripetiamo con angoscia, dopo il quasi golpe di Capitol Hill. L’attacco al cuore della più grande e più antica liberal-democrazia del pianeta è già Storia. Quelle immagini ci costringono a ripensare “una certa idea dell’America”. Quella di cui parla Obama nella sua autobiografia, e che noi europei e occidentali amiamo da sempre. L’America del “noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali”. L’America raccontata da Tocqueville, Whitman e Thoreau. L’America dei pionieri che si sono spinti verso ovest sperando in una vita migliore o degli immigrati sbarcati a Ellis Island inseguendo un sogno di libertà. L’America di Thomas Edison e dei fratelli Whright, di Chuck Berry e Bob Dylan, di Lincoln a Gettysburg e di Luther King al National Mall. L’America della Costituzione e del Bill of Rights, dei soldati esausti sulle spiagge della Normandia e del Piano Marshall. Quelle immagini ci obbligano soprattutto a riflettere sui destini della democrazia. Possiamo finalmente usare la parola “fascista”? Se lo chiede Paul Krugman, che sul New York Times non ha dubbi. “Donald Trump è a tutti gli effetti un fascista, un leader autoritario pronto a usare la violenza per raggiungere i suoi obiettivi razzial-nazionalisti. Lo sono anche i suoi supporter, e chi avesse ancora dubbi su questo se li dovrebbe togliere dopo l’attacco al Congresso di mercoledì scorso”. Io non so se Trump sia davvero “un fascista”. Certo l’assedio dei “Trump fighters” al Campidoglio segna un punto di rottura democratica. Mostra all’America, e non solo all’America, quali siano gli esiti del “populismo dall’alto”. Il Conducator che vince promettendo il riscatto del ceto medio proletarizzato e una volta raggiunto il potere lo blinda con quella che Bill Emmott chiama la Grande Menzogna: la manipolazione della realtà e la manomissione delle regole (che secondo l’ex direttore dell’Economist furono l’essenza non solo del fascio littorio di Mussolini, ma addirittura del Mein Kampf di Hitler). Il Capo che stravolge le istituzioni se non si piegano, delegittima le opposizioni se non capitolano, rifiuta le elezioni se non convengono. È la forma moderna del colpo di Stato, ormai infinitamente più sofisticata dei rozzi putch militari degli anni Settanta. Uno scivolamento progressivo dalla democrazia all’autocrazia, che si produce quando un’opinione pubblica prostrata dalla crisi e narcotizzata dalla propaganda non riconosce più l’esistenza e l’esigenza del confine. E chiunque osi denunciare gli abusi dell’autocrate viene immediatamente liquidato come nemico del Popolo e del Paese. Non a caso Trump, nello schema binario e iper-ideologico “o con me o contro di me”, chiama i suoi combattenti “patrioti”: tutti gli altri, della Patria, sono solo sabotatori. L’indebolimento del tessuto democratico di una nazione nasce anche da qui: la contrapposizione insanabile e la polarizzazione irriducibile tra gli schieramenti trasformano la contesa normale su politica, economia, società, in un conflitto esistenziale su sangue, razza, cultura. Le lezioni da trarre, da quello che i giornali d’Oltre Atlantico definiscono “American Carnage”, sono diverse. Per Krugman, la lezione è che è inutile dialogare con questi nuovi “fascisti”: se gli concedi qualcosa non li pacifichi, li incoraggi solo ad andare avanti. È vero che l’eccessiva cautela nel dare un nome alle cose spinge troppo spesso i democratici sulla difensiva, mentre certe derive illiberali andrebbero denunciate e combattute con tutt’altra forza intellettuale e politica. Ma per me la lezione è un’altra. Fascista o no, quel “popolo”, emarginato, arrabbiato e radicalizzato, esiste anche da noi. E con quel popolo l’Occidente deve fare i conti. Possiamo pure ironizzare sull’azione sovversiva di Washington, per metà letteraria (“il complotto contro l’America” di Philip Roth) e per metà cinematografica (“il dittatore dello Stato libero di Bananas” di Woody Allen). Ma anche se non si veste con le corna e la pelle di bufalo come Jake Angeli, quel “forgotten man” abita anche nelle nostre periferie. Si perde nelle stesse moltitudini solitarie, si nutre dello stesso risentimento e dello stesso cibo velenoso offerto dalla tavola calda per antropofagi del Web, coltiva la stessa sfiducia nei confronti della democrazia, che non lo vede, non lo aiuta, e dunque non gli serve. È vero, Joe Biden ha stravinto le elezioni americane, e questa è una magnifica notizia per l’intera umanità. Ma non una sola delle ragioni che hanno fatto vincere Trump quattro anni fa è venuta meno. La “protezione” promessa ai diseredati della middle class impoverita e agli esclusi dell’economia globale l’ultradestra repubblicana del tycoon fallito non l’ha garantita. Ma dopo di lui la sinistra democratica dovrà provare a farlo, se vuole svuotare quell’invaso che ribolle di rabbia sociale, e che l’agente patogeno adesso ha persino ingrossato e fomentato. Fabrizio Barca ha mille ragioni, quando declina in chiave europea e italiana i fatti d’America. Come si fa a negare che quella sommossa degli “invisibili” nasce anche dall’esplosione delle disuguaglianze, che generano emarginazione economica e sociale e poi precipitano in esclusione e ribellione politica? Come si fa a non vedere che queste sacche di disagio profondo stanno crescendo ovunque, gonfiate da un virus che riduce gli spazi residui di libertà, amplifica le riserve indiane dei non garantiti, moltiplica le vite non più sovrane? E come si fa a non capire che la scorciatoia più semplice e più atroce, per queste moltitudini escluse e deluse da ogni politica, alla fine non può che essere un Cesare qualsiasi, anche se inganna il popolo in nome del popolo? Questa è l’altra lezione americana di cui dobbiamo fare tesoro. Dal 2019 ad oggi le forze liberali e progressiste hanno vinto due battaglie cruciali: le elezioni europee e le presidenziali americane. In tutti e due i casi la prima ondata delle destre sovraniste (da Salvini a Orban nella Ue, da Trump a Bannon negli Usa) non ha sfondato o è rifluita. Gli argini delle democrazie, per quanto erosi e porosi, hanno retto l’urto. Ma anche qui la guerra è tutt’altro che finita. E ora che l’economia subisce i morsi devastanti della pandemia, se le risposte dei governi non sono all’altezza rischiamo in politica lo stesso dramma che stiamo vivendo con il Covid: l’arrivo di una seconda ondata populista. Non possiamo permettercelo, considerando che a marzo si vota in Olanda, a settembre in Germania e nel 2022 in Francia e in Ungheria. Se tutto questo è vero, anche le avventure marziane del Conte Bis e del Conte Ter andrebbero lette con gli occhiali del bene comune e dell’interesse nazionale. Era giusto il 9 dicembre, quando Renzi ha aperto il fuoco amico contro il premier sul Recovery Plan, con una diretta sul suo profilo Twitter. Da allora, ed è passato un mese esatto, a parte i soliti Dpcm un po’ confusi l’esecutivo è fermo e avvitato dentro una “verifica” di cui si è ormai perduto il senso. In un momento così delicato, tutto si dovrebbe fare, meno che sfasciare il poco che abbiamo costruito finora e magari lasciare il Paese alle cure di Salvini e Meloni. Gli Sciamani d’Italia, convinti nonostante tutto che “Trump è sempre meglio di Biden”. Stati Uniti. Il perdono presidenziale tace su tre condanne a morte di Giuseppe Cassini Il Manifesto, 10 gennaio 2021 Facendo ruotare un mappamondo si scovano pochi luoghi in cui gli Stati Uniti non siano intervenuti con armi o denaro o colpi di Stato al fine di installare despoti di fiducia (hès a son of a bitch, but hès our son of a bitch). Era l’Amerika col kappa. Ora che gli Stati Uniti sono stati a un passo da subire essi stessi un colpo di mano da parte di un son of a bitch di casa, per un’ironia della storia è stata la Sinistra europea a preoccuparsi per prima della tenuta della democrazia targata Usa. Ma che democrazia è quella che si regge su sistemi di voto surreali; che soggiace al ricatto di contributi elettorali milionari; che concede a un Presidente la potestà di perdonare cani e porci ad libitum? Esaminiamo un attimo questa potestà. Trump ha usato il potere di grazia 94 volte, in genere a beneficio di conoscenti e compari condannati (o condannabili) per truffa o corruzione, e ha commutato le pene a 24 altri suoi sodali. Ha anche perdonato quattro mercenari, non corrotti ma assassini: erano in carcere per aver trucidato nel 2007 a Baghdad 17 iracheni inermi e averne ferito altri 20, donne e bambini inclusi; li aveva assoldati una ditta paramilitare, la Blackwater, appartenente al fratello della ricchissima ministra dell’Educazione, Betsy De Vos, sodale di Trump. Il New York Times si è accomiatato dal 2020 con un pezzo intitolato “No ties to Trump? Don’t bet on a pardon” (Nessun legame con Trump? Allora non sperate in un perdono). La Costituzione nordamericana (art. II, sez. 2) investe il Presidente della potestà illimitata di graziare o commutare pene ai condannati per reati federali, estensibile perfino a reati pregressi non ancora emersi: una sorta di “indulgenza plenaria”. Anche i papi e i sovrani del ‘700 avevano un potere di grazia illimitato ed è curioso che i Padri fondatori - tutti fieri anti-papisti e repubblicani - non si fossero accorti della incongruenza. Ho lavorato per anni a Filadelfia accanto al venerando edificio che ospita i Federalist Papers (85 saggi in cui è distillata la sagacia dei Padri costituenti), ma non sono riuscito a convincermi della ratio di un tale privilegio. Hamilton lo giustificava così nel saggio n° 74: “Senza guarentigie per chi venisse punito a pene eccessive, la giustizia sarebbe troppo crudele”. Hamilton aveva previsto tutto eccetto un Trump alla Casa Bianca. Il Death Penalty Information Center - uno di quegli istituti che rendono grande l’America - pubblica ricerche sulla pena capitale. Alla solita domanda (“La pena di morte è un deterrente contro la violenza?”) nove su dieci criminologi rispondono: “No, non ha alcun effetto di deterrenza rispetto al carcere a vita. Anzi, acuisce l’atmosfera di violenza che pervade una società già flagellata dall’uso indiscriminato di armi”. Anche il Vaticano si è espresso apertis verbis. Nel Catechismo si legge: “Alla luce del Vangelo, la pena capitale è considerata un attacco alla inviolabilità e alla dignità della persona”. Ma i 200 vescovi che guidano gli 80 milioni di cattolici nordamericani (tra cui il neo-presidente Biden e 6 sui 9 membri della Corte Suprema) pensano forse che l’eccezionalismo Usa li solleva dal dovere di catechesi su un tema di vita o di morte come questo? Un amico dell’America abolizionista, già ministro repubblicano e cattolico praticante, ammette di non aver mai sentito a messa tuonare contro la ferocia della pena capitale: “I parroci - mi dice amareggiato - temono di perdere fedeli, visto che gran parte dei cattolici è favorevole alla pena di morte”. L’opinione pubblica, sballottata nella bufera post-elettorale, non ha avuto modo finora di afferrare la logica che si cela dietro la scelta del Presidente di perdonare tanti colpevoli di gravi crimini federali, ma non di commutare la pena a 13 condannati a morte per reati altrettanto federali. Perché l’ha fatto? Perché vuole istillare il principio che - a differenza degli altri reati - i crimini dei “colletti bianchi” sono perdonabili, in modo da precostituire un alone di clemenza a suo favore se mai verrà incriminato, una volta perduta l’immunità. E non è tutto. La decisione del Presidente di riservare le ultime tre esecuzioni, tra cui quella di una donna, subito prima di lasciare la Casa Bianca ha forse una sua “ragione”, antica come in una tragedia greca. Ecco le navi degli Achei in partenza per Troia bloccate da una bonaccia, per volere della dea Artemide; solo immolando in Aulide la vergine Ifigenia, figlia di Agamennone, il vento tornerà a gonfiare le vele. Quindi il re è costretto a deporre sua figlia sull’ara sacrificale; ma all’ultimo momento la dea s’impietosisce e fa comparire sull’ara una cerva, che verrà immolata al posto di Ifigenia. Anche Trump pretende un sacrificio umano - meglio se una donna - quale gesto ben augurante prima di partire dalla Casa Bianca verso un oscuro destino. Saprà alla fine impietosirsi e salvare almeno lei, o prevarranno gli animal spirits che lo hanno funestato per quattro anni? L’iniezione letale per Lisa Montgomery, Corey Johnson e Dustin Higgs è fissata rispettivamente il 12, il 14 e il 15 gennaio, in pratica alla vigilia della salvezza. Se sarà la legge del taglione a prevalere, il loro caso passerà alla storia come è accaduto per il caso giudiziario di Jean Calas, protestante di Tolosa torturato e giustiziato nel 1762. Fu grazie a Voltaire - non certo al clero francese - che quel caso divenne una cause célèbre e fece avanzare di un passo il cammino verso l’Illuminismo.