Il carcere è ancora inteso come pena e vendetta “garantita” dallo Stato di Domenico Alessandro de Rossi* Il Dubbio, 9 febbraio 2021 È un ossimoro in Italia parlare di diritti, di esecuzione penale, dell’istituzione penitenziaria anche come struttura fisica rispettosa del dettato costituzionale. Inutile dire che il fin troppo citato art. 27 per i tre poteri dello Stato e la pancia della opinione pubblica, quella a cui preferibilmente risponde la politica, rappresenti spesso solo un esercizio retorico. Infatti dopo tanti anni che aspettiamo una riforma sistemica del “servizio” giustizia che riguardi la concezione del carcere, del trattamento e delle sue caratteristiche edilizie, il principio tuttora vigente è il carcere come pena. Di fatto come pubblica vendetta “garantita” dallo Stato. Parente stretta di questa “delega” conferita alla giustizia, citando un qualcuno finalmente fuori dalla magistratura, è la tesi che l’innocente è solo un “colpevole che l’ha fatta franca”. Serve quindi ripensare il carcere e a maggior ragione la sua configurazione edilizia, specie di un singolo edificio o di singoli ambienti o del colore delle pareti se manca l’idea del “perché” della detenzione? Con queste pessimistiche premesse, per effetto della ragione che osserva la realtà e talune distopie architettoniche, sarebbe ingenuo parlare di diritti dei ristretti. Ma l’ottimismo della volontà è assistito dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. La Cedu sostiene a non arrendersi al nichilismo che vede, nella “disfunzionalità” dello Stato nei ristretti diritti, l’appalesarsi di un sottile disegno servo di logiche invisibili, ambigue e non sempre facilmente comprovabili. Nelle carceri c’è grave sofferenza e spesso si riscontrano violenze nei confronti di detenuti. Ancora notizie di arresti domiciliari di agenti della polizia penitenziaria che avrebbero duramente picchiato un detenuto. Nel Paese di Beccaria, constatiamo inefficienza, indifferenza, superficialità da parte della politica che nonostante abbia il potere di cambiare, per migliorare lo status quo, nulla compie. Permangono discutibili soluzioni assunte dal Dap che, a seguito della condanna “pilota” del 2013 della Cedu, con fantasia tutta italiana ha adottato la “vigilanza dinamica”. Una finzione tutta burocratica che al mattino apre le porte delle celle per spostare tutti i detenuti in corridoio. Quanto poi avvenga in quella corsia o all’interno delle “camere” non è direttamente osservabile in regime di vigilanza dinamica perché i poliziotti sono posizionati al di là della cancellata. Questa scelta è stata fatta, oltre che per la carenza di personale, principalmente allo scopo di dimostrare alla Cedu che lo spazio a disposizione dei detenuti va calcolato tenendo conto anche delle superfici degli anditi e dei corridoi. Forse anche dalle scale? Sulla carta e in teoria questa soluzione lascia i detenuti liberi di circolare in ambienti più vasti, per occupazioni ricreative volte alla formazione. Ma nella maggioranza delle carceri lo spazio fuori dalla cella è solo un corridoio da percorrere più volte al giorno nelle due direzioni. Il camminare su e giù per ore e per anni in quello spazio è a tutti gli effetti una condizione alienante. Giustamente la Cedu considerava lo spazio minimo vitale non solo in base ai metri quadrati ma entrava nel merito anche delle generali condizioni di vivibilità per i detenuti. Le tendenze straniere più avanzate per il recupero dei detenuti sono oggi più orientate verso una concezione proattiva dell’esperienza carceraria, lunga o breve che sia. Sono concepite non solo come momento correzionale restrittivo e securitario, da subire esclusivamente come strumento di limitazione spazio- temporale, qualificandosi invece come “occasione” di ristrutturazione del comportamento deviato. Una legislazione più aggiornata, dovrebbe prevedere congrue misure deflattive per l’affollamento negli istituti utilizzando criteri di depenalizzazione dei reati minori, immaginando forme alternative di remunerazione sociale. Carceri o penitenziari, istituti correzionali specializzati, case lavoro, centri di recupero comportamentale, aziende agricole soprattutto per i giovani, sono vari i modi per definire quelle strutture di servizio da destinare alla gestione (quasi) totale della vita delle persone condannate, a tutto vantaggio della società libera per evitare recidiva e radicalizzazione. Basato sulla gestione intelligente di progressive gratificazioni capaci di “negoziare” caso per caso la ricompensa in base alla logica premiale, fondando il metodo su metodologie sistemiche con riscontri effettivi concernenti la verifica puntuale della condotta del detenuto. Il criterio dovrebbe sempre essere orientato verso la preparazione al futuro stato di libertà, al reinserimento del detenuto, prevenendo, nell’interesse del corpo sociale, il grave fenomeno della recidiva. Rimandiamo tutto questo alla prossima Italia. *Vicepresidente Centro Europeo Studi Penitenziari Circolare “scarcerazioni” del Dap, il Pg della Cassazione: “coerente con la legge” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 febbraio 2021 Per Giovanni Salvi il provvedimento sulle scarcerazioni “risulta finalizzato a far prontamente conoscere ai giudici le situazioni di vulnerabilità”. Tutto è iniziato con lo “scoop” de L’Espresso, poi ripreso dal programma “Non è l’arena”, condotto da Massimo Giletti, e addirittura, per conto del presidente Nicola Morra, è stata scomodata la commissione Antimafia per far luce sulla vicenda scarcerazioni. Parliamo ovviamente della polemica “scarcerazioni dei boss mafiosi”, che poi boss non erano, tranne i tre al 41bis malati gravemente, scaturita a detta dei professionisti dell’indignazione, dalla “famigerata” nota circolare del 21 marzo del Dap. Addirittura, il magistrato Nino Di Matteo, intervenendo sempre alla trasmissione di Massimo Giletti, disse: “Con quella Circolare del 21 marzo del Dap, che ha consentito a boss mafiosi di uscire dal carcere, il segnale di resa dello Stato è nei fatti. Ed è un segnale devastante, perché evoca, appunto, resa e arrendevolezza da parte dello Stato”. La circolare del Dap è un atto amministrativo - Ovviamente chi non è a digiuno di diritto penitenziario e conosce il sistema carcerario fin da subito ha detto una circolare è un atto amministrativo, non decide la “scarcerazione” dei reclusi. Sullo specifico si parla di una circolare maturata in un periodo di grave emergenza, quella del Covid 19 che si stava diffondendo nelle carceri. Quindi il pensiero è andato a tutti quei soggetti che per età e patologie potessero essere più esposti alla mortalità una volta contratto il virus. La nota ha dato il via alle “scarcerazioni”? No. In realtà già prima della sua diramazione, alcuni giudici avevano iniziato a concedere i domiciliari anche ai detenuti in regime di Alta sicurezza. Di tutti quelli che hanno usufruito della detenzione domiciliare, una parte era relativa al pericolo Covid, ma la gran parte era dovuto dalle patologie gravi che li rendevano incompatibili con la carcerazione. Infatti, come per il caso di Carmelo Terranova, c’è chi è rientrato nonostante le patologie ed è morto. Oppure, ancora prima, durante l’emergenza, c’è chi, come Vincenzo Sucato, era in carcere nonostante fosse gravemente malato e vecchio: le istanze di scarcerazione sono state rigettate ed è morto una volta contratto il Covid. Chi parla di “resa dello Stato” l’aver concesso la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, probabilmente non ha colto il problema. Il Pg della Cassazione: “La nota del Dap è stata utile” - Ma a coglierlo è il Procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, che, durante il suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha parlato della famosa circolare del Dap sulle scarcerazioni. L’ha citata in merito alla grave emergenza pandemica scoppiata l’anno scorso e che è tuttora in corso. Ha evidenziato che l’obiettivo primario è parso quello della verifica, mirata e caso per caso, delle situazioni di salute più a rischio. “Utile al riguardo - spiega il Procuratore generale della Cassazione - è stata la nota del 21 marzo 2020 del Direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il cui contenuto - coerente con le disposizioni di legge e regolamentari in materia e peraltro anticipato dalle indicazioni di alcuni presidenti dei tribunali di sorveglianza - risulta finalizzato a far prontamente conoscere ai giudici le situazioni di vulnerabilità, suscettibili delle loro indipendenti determinazioni”. Con questo possiamo mettere fine ai finti scoop, dove purtroppo l’informazione non ha aiutato ad elevare la società, ma l’ha sprofondata nell’ignoranza. L’effetto è stato l’inasprimento delle leggi e la dittatura del retro-pensiero. Svuotiamo le carceri, coraggio: stavolta si può fare di Tiziana Maiolo Il Riformista, 9 febbraio 2021 Un grande piano di giustizia sociale che parta dalle carceri. Dare ossigeno a tutti coloro che in prigione non dovrebbero neppure starci e rendere definitiva la sollecitazione di Salvi ai magistrati: arrestate meno, riducete al minimo la custodia cautelare. Non serve il pallottoliere: in poche settimane si potrebbero dimezzare i detenuti. Sempre con l’orizzonte di un progetto di amnistia e indulto da tenere in agenda. Ma intanto una seria politica riformatrice, che sia socialista nell’attenzione a chi ha meno e liberale nel rivendicare i diritti di tutti. È questo il nuovo percorso di giustizia, la svolta che ci aspettiamo da un premier come Mario Draghi e da un ministro guardasigilli come Marta Cartabia. Due potrebbero essere gli obiettivi: dare ossigeno a tutti coloro che in galera non dovrebbero neanche esserci, gli anziani, i malati (anche psichici), i disabili, i tossicodipendenti. Un grande piano sociale che coinvolga anche le amministrazioni locali per dare domicilio ai tanti detenuti poveri che una casa proprio non l’hanno, e finiscono per restare in carcere perché è l’unica abitazione loro consentita. E poi, rendere definitiva, e non più legata solo all’epidemia da Covid, la sollecitazione del procuratore generale presso la cassazione Giovanni Salvi: cari magistrati, arrestate di meno, riducete al minimo la custodia cautelare. E non abbiate fretta nell’applicare la misura detentiva ai condannati in via definitiva. Sottinteso: spesso le persone sono cambiate, vista la lunghezza infinita dei processi penali nel nostro Paese, dal momento in cui avevano commesso il reato. E non è detto che la privazione della libertà possa essere l’unica soluzione né la migliore. Non occorre un pallottoliere per fare di conto, rapidamente. Se almeno un quarto della popolazione carceraria è costituito da cittadini in attesa di giudizio che poi saranno assolti, e se un altro quarto è fatto di persone fragili, anziani e malati, spesso i più poveri, ecco che nel giro di qualche settimana il numero dei detenuti potrebbe essere dimezzato. Basterebbe la volontà, e potrebbe capitare, come è successo in Svezia negli anni scorsi, che si debba abbattere o riconvertire qualche prigione, perché le carceri sarebbero diventate troppe, perché non ci sarebbe un numero sufficiente di detenuti per riempirle. Oppure potrebbe succedere di non doverne comunque costruire, se si adottasse il sistema della Norvegia, dove l’80% delle pene non consiste nella privazione della libertà. Certo, occorre anche un bel salto culturale. Dal “buttare via la chiave” ad abbattere le mura. Quelle del pregiudizio quelle di chi pensa che lo Stato debba poter disporre del corpo e della mente di chiunque, quelle per cui è sufficiente usare il carcere come pattumiera, ed ecco che ogni problema sociale svanisce. Ma anche abbattere le mura materiali, quelle fatte di mattoni o di calcestruzzo. È vero che anche di recente, nei mesi scorsi, con le istituzioni perennemente con i nervi tesi perché era scoppiata una bomba di qualcosa di mai visto e imprevedibile, un virus assassino cui tutti eravamo impreparati, la “gara delle forche” era parsa avere la meglio. E rispetto alle grida furibonde di magistrati e giornalisti che, noncuranti del pericolo pandemia per agenti e detenuti nei luoghi ristretti del carcere, chiedevano appunto di buttare le chiavi, persino Alfonso Bonafede, il ministro più forcaiolo della storia, appariva un serio riformatore con il suo decreto “Cura Italia”. Intellettuali che sarebbero inorriditi se qualcuno avesse loro chiesto un parere sulla schiavitù (che pure qualche secolo fa era stata accettata anche da persone che si consideravano virtuose), non avevano vergogna di strillare contro l’immagine di qualche vecchio mandato ai domiciliari. Era cominciata la caccia ai boss, che aveva significato solo l’ordine di non aprire le porte, di non mandare i criminali a riempire quelle strade che il virus aveva svuotato. Mafiosi o non mafiosi fossero, quegli anziani detenuti malati non sono certo scappati, una volta usciti dal carcere. E tutti questi “virtuosi” strillatori, magistrati “antimafia” e giornalisti associati, dovrebbero sapere che il principio costituzionale che tutela la salute, è prevalente su tutti gli altri principi della Carta. Così la prima fase del virus aveva coinciso anche con qualche mutamento nella vita carceraria. Prima ancora del decreto Cura Italia, era stato il lockdown a far diminuire il numero dei reati e di conseguenza a ridurre un po’ l’affollamento, cosa che si era consolidata anche con una serie di provvedimenti di giudici e tribunali di sorveglianza, i primi a mostrare un forte senso di umanità e di preoccupazione per il virus che nel frattempo si stava espandendo all’interno degli istituti di pena. Questa prima fase si è conclusa nel modo peggiore, con le dimissioni del direttore del Dap Francesco Basentini, accusato quasi di intelligenza con le cosche mafiose per aver inviato una circolare ai direttori delle carceri in cui si pregava di prestare attenzione alla popolazione detenuta più fragile e più esposta al rischio di contagio. Era quindi accaduto un fatto molto grave, soprattutto sul piano culturale: la Direzione delle carceri era stata affidata a procuratori “antimafia”, e ad altri pm “antimafia” avrebbero dovuto rivolgersi, da quel momento in avanti, i giudici di sorveglianza, e così anche i tribunali prima di prendere alcun provvedimento. Le carceri intere diventavano così una sorta di lazzaretti per mafiosi, luoghi di detenzione speciale in palese violazione dell’articolo 27 della Costituzione e del principio rieducativo della pena. Catturati pericolosi malati in barella, le carceri in autunno sono tornate a riempirsi, in concomitanza con la seconda ondata del contagio. Nel mese di novembre, dall’ufficio del Garante dei detenuti venivano diffusi i primi dati della diffusione del virus nelle carceri: 537 positivi tra i detenuti e 728 tra gli operatori. Ma intanto, con l’esclusione delle notizie sullo sciopero della fame di Rita Bernardini, di prigione non si parla più. Nessuno intervista più neppure quegli ex magistrati come Luciano Violante e Gherardo Colombo che dopo una intera vita da inquisitori erano arrivati, uno da un punto di vista di cultura marxista l’altro da cattolico, alla stessa conclusione: il carcere non serve, anzi è nocivo a una società democratica. È stato a questo punto che si è mosso il procuratore Salvi, ed è stato un fiorire di provvedimenti di custodia cautelare ai domiciliaci. Ma ancora pochi. L’alto magistrato si è improvvisamente ricordato, e con lui un certo numero di pubblici ministeri e di giudici per le indagini preliminari, del fatto che la reclusione in carcere dovrebbe essere l’ultima spiaggia, l’extrema ratio quando ogni altra misura non sia possibile. E questo in particolare nei confronti delle persone più fragili, quelle che in carcere non dovrebbero neppure mettere piede. L’esortazione del procuratore generale della cassazione è legata all’emergenza Covid. Ma può essere un punto di partenza per ridare dignità alla persona, per vedere un malato prima di tutto come un malato, senza identificarlo con il reato che ha commesso o di cui è accusato. Saper ritrovare la dimensione umana. E ricordarsi che non solo la pena di morte o la condanna all’ergastolo, ma la stessa pena da scontare in carcere sono le risposte violente dello Stato agli illeciti e alla devianza. Per questo ci aspettiamo che il prossimo governo Draghi e la prossima ministra Cartabia facciano davvero esercizio di giustizia. Giustizia sociale e società dei diritti. Svuotare le carceri, prima di tutto, ridurne la popolazione del 50%. Coraggio, non è difficile, abbattiamo le mura del pregiudizio e quelle di mattoni. Dopo staremo meglio, tutti. La svolta dei lavori di pubblica utilità per 1.800 detenuti di Iolanda Barera Corriere della Sera, 9 febbraio 2021 Il lavoro è anche riscatto personale. Lo sa bene Giuseppe (il nome è di fantasia). Ha avuto una vita difficile fin dall’inizio: è stato trovato neonato in una scatola da scarpe. Vincenzo Lo Cascio, il responsabile dell’ufficio centrale lavoro detenuti, l’ha conosciuto a Rebibbia, quando aveva scontato 15 anni e gliene mancavano ancora cinque. “Nelle nostre carceri - racconta - abbiamo centinaia di persone che più di una vera e propria storia criminale, hanno una storia di sfortuna: abbandonati nella spazzatura alla nascita, recuperati e portati in ospedale, accolti nella casa famiglia, poi il marciapiede. Dal marciapiede alla piccola criminalità organizzata, quindi inevitabilmente carcere minorile, poi centri di accoglienza per persone che non hanno famiglia e, di nuovo, al marciapiede e al carcere”. Lo Cascio organizza le attività di pubblica utilità per i detenuti. Giuseppe, un giovane uomo con molti reati a suo carico ma dal comportamento eccellente in carcere, è uno di loro. Dopo mesi di colloqui e prove è stato impegnato nella pulizia delle aree verdi di Villa Pamphili. Il risultato è stato meglio delle aspettative: “Addirittura siamo riusciti ad assegnargli un gruppo da coordinare” spiega Lo Cascio. Il gesto di una vecchietta che si è affacciata al balcone per offrire ai lavoratori del caffè è stata per lui una motivazione in più. Ora che è uscito dal carcere, fa il giardiniere, assunto regolarmente e, nel tempo libero, va spesso a trovare i detenuti impegnati nelle pulizie dei parchi. Ma c’è anche Giovanni. E uno “zingaro”, sul quale nessuno avrebbe scommesso, visto le recidive, ed è entrato nelle attività di pubblica utilità grazie alla sua insistenza. “Avevamo messo in conto che se ne andasse, per cui abbiamo messo in atto meccanismi di controllo di un certo livello. In realtà ha lavorato tantissimo. E quello che ci ha colpito è che tutti i giorni arrivavano sua moglie e i suoi bambini e rimanevano lì a guardarlo fino a quando saliva sul furgone della polizia penitenziaria per tornare in carcere. È stato un successo: perché è uscito dal carcere a gennaio 2020 e non è c’è più tornato”. O Marco, nato in un quartiere difficile di Roma, padre in galera, mamma assente. A suo carico una rapina andata male commessa da molto giovane, a casa una bella famiglia con i figli che l’aspettavano credendo fosse all’estero. “Siamo riusciti ad ottenere per lui dei permessi, così ha potuto andarli a trovare, e un posto di lavoro importante in una grossa azienda di giardinaggio”. Ha potuto ricominciare una nuova vita. Di belle storie ce ne sono tante. Il progetto ha riguardato in questi anni circa 1.800 persone in Italia. E la maggior parte, una volta uscite dal carcere, hanno trovato lavoro retribuito. “Perché hanno acquisito una professionalità - spiega Lo Cascio - Ma anche la consapevolezza che nella vita si può trovare un po’ di riscatto”. Quanto vale un giorno di ingiusta detenzione e chi ha diritto a richiedere il risarcimento di Rossella Grasso Il Riformista, 9 febbraio 2021 Solo nel 2018 sono state 895 le ordinanze di pagamenti per un totale di 33.373.830 euro. La giustizia italiana si è rivelata più volte fallibile: ogni anno sono numerosissimi i casi di errori giudiziari che causano anche la detenzione ingiusta, a volte anche per anni. Altre volte la custodia cautelare dura mesi, anche anni, giorni di vita strappati ingiustamente a qualcuno che poi il Tribunale stesso dichiara innocente. La legge italiana prevede però un risarcimento per ingiusta detenzione. È la stessa Costituzione italiana ad affermare che la legge deve determinare le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari. Certo nessuno potrà mai restituire anni di vita persi e il marchio che una detenzione può stampare a vita su una persona però il procedimento esiste e costa ogni anno allo stato milioni di euro. Basti pensare che solo nel 2018 sono state 895 le ordinanze di pagamenti delle riparazioni per ingiusta detenzione, per un totale di 33.373.830 euro risarciti. Il ministero delle Economie e delle Finanze ogni anno dovrebbe rendere noti quanti soldi pubblici sono stati destinati a questo tipo di risarcimento ma trovare tali dati è molto difficile. Come si calcola la cifra del risarcimento? La legge pone un limite massimo all’entità del risarcimento per ingiusta detenzione: l’importo della riparazione non può mai eccedere la cifra di 516.456,90 euro. Fare un calcolo aritmetico di una simile cifra è impossibile perché per ogni caso sono tantissime le varianti che ne possono determinare l’importo. “Ad esempio il numero dei detenuti presenti in cella durante il periodo di detenzione, le condizioni della detenzione stessa, il reato imputato, la lontananza dalla famiglia a cui la persona è stata costretta e tanti altri ancora”, spiega Samuele Ciambriello Garante dei detenuti della Regione Campania. Secondo un criterio aritmetico di ideazione giurisprudenziale, la somma indennizzabile per ogni giorno di ingiusta detenzione è di 235,82 euro. A tale importo si giunge dividendo l’importo massimo stabilito dalla legge (516.456,90 euro) per la durata massima della custodia cautelare in carcere, che è di sei anni. In pratica, il risarcimento spettante per ogni giorno di ingiusta detenzione si ottiene dividendo l’importo massimo indennizzabile per il termine di sei anni espresso in giorni. Si avrà, pertanto: 516.456,90 diviso 2190 (giorni in sei anni) = 235,82. Di conseguenza, se una persona è stata ingiustamente vittima di una misura cautelare per un anno, il risarcimento per ingiusta detenzione sarà pari a 86.074,30 euro (risultato di 235,82 moltiplicato per 365 giorni). “Qualsiasi cifra però non basterà a compensare tutti i danni che una detenzione può apportare - continua Ciambriello - basti pensare alla diffusione di notizie a mezzo stampa o social. Non ci sarà nessun risarcimento per quello, una volta che sei stato messo alla gogna ci rimani”. Il garante spiega che molte delle persone che hanno diritto al risarcimento spesso non lo chiedono nemmeno: “Una volta usciti dalla cerchia della giustizia non hanno voglia di rientrarci, di richiamare un avvocato e avere a che fare con giudici”. Dunque i soldi che lo stato dovrebbe spendere per errori giudiziari sarebbero molti di più di quelli dichiarati. Chi ha diritto a richiedere il risarcimento per ingiusta detenzione? Ne hanno diritto le persone che pur non essendo state condannate abbiano subito una restrizione della propria libertà a causa di un procedimento del giudice e sia stato posto agli arresti domiciliari o alla custodia cautelare carceraria e alla fine del processo è risultato innocente. Di seguito i casi riportati sul sito del Ministero delle economie e Finanze. Chi è stato sottoposto a custodia cautelare e, successivamente, è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, se non ha concorso a darvi causa per dolo o colpa grave; chi é stato sottoposto a custodia cautelare e, successivamente, è stato prosciolto per qualsiasi causa quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento di custodia cautelare è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280 del codice di procedura penale; chi è stato condannato e nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare quando, con decisione irrevocabile, risulti accertato che il provvedimento di custodia cautelare è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 del codice di procedura penale; chi è stato sottoposto a custodia cautelare e, successivamente, a suo favore sia stato pronunciato un provvedimento di archiviazione o una sentenza di non luogo a procedere; chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, per la detenzione subita a causa di arresto in flagranza o di fermo di indiziato di delitto, entro gli stessi limiti stabiliti per custodia cautelare; chi è stato prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto ad arresto in flagranza o a fermo di indiziato di delitto quando, con decisione irrevocabile, siano risultate insussistenti le condizioni per la convalida. Come e dove presentare la domanda? La domanda (qui il modulo scaricabile: https://www.dag.mef.gov.it/servizi-e-modulistica/modulistica/indennizzi/documenti/Modello.pdf) presso la Cancelleria della Corte d’Appello del distretto giudiziario in cui è stata pronunciata la sentenza o il provvedimento di archiviazione che ha definito il procedimento; nel caso di sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, la domanda deve essere proposta presso la cancelleria della Corte d’Appello che ha emesso il provvedimento impugnato. A consegnarla dovrà essere personalmente dall’interessato oppure a mezzo di procuratore speciale o avvocato. Va consegnata entro due anni dal giorno in cui la sentenza di proscioglimento o di condanna è divenuta irrevocabile, la sentenza di non luogo a procedere è divenuta inoppugnabile o il provvedimento di archiviazione è stato notificato alla persona nei cui confronti è stato pronunciato. Pd e M5S cercano di evitare lo scontro sulla prescrizione di Liliana Milella La Repubblica, 9 febbraio 2021 Nel decreto Milleproroghe si dovrebbero votare già la prossima settimana gli emendamenti di Azione, Italia viva e Forza Italia che vogliono congelare la riforma di Bonafede, ma la diplomazia di M5S e Pd è già al lavoro per chiedere agli autori di ritirarli. Che rispondono picche. Senza molti preamboli, autorevoli esponenti del Pd e di M5S stanno cercando di evitare il primo scontro nel nuovo governo Draghi sulla prescrizione. Sono in movimento e stanno facendo pressioni da giorni. Perché - come Repubblica.it ha già anticipato mercoledì 3 febbraio - Enrico Costa di Azione con Riccardo Magi di Più Europa, Lucia Annibali di Italia viva, Francesco Paolo Sisto e Pierantonio Zanettin di Forza Italia, hanno presentato numerosi emendamenti nel decreto Milleproroghe per congelare e rinviare la legge sulla prescrizione dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma fino alla settimana scorsa, sia Azione che Forza Italia erano fuori dalla maggioranza. Adesso invece sono dentro. Fianco a fianco con M5S, il partito che da sempre ha fatto quadrato sulla norma di Bonafede, che viene considerata invece dall’ex forzista Costa, dal Radicale Magi e da tutti i berlusconiani una sorta di totem da distruggere a tutti i costi. Allo stesso modo la pensa Annibali di Italia viva. Dunque la grana è lì, proprio dietro l’angolo. Perché giusto mercoledì scorso, nelle due commissioni Affari costituzionali e Bilancio che si occupano del Milleproroghe, e in cui la vecchia maggioranza era in vistoso affanno per via dei numeri, è passata l’ammissibilità degli emendamenti che chiedono di mettere in freezer la legge di Bonafede. Entrata in vigore il primo gennaio 2020, la norma blocca la prescrizione dopo il processo di primo grado per i condannati. Ha cancellato la legge precedente dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, che invece si limitava a sospendere la prescrizione per 36 mesi equamente distribuiti tra Appello e Cassazione, sempre nei casi di condanna. Il decreto Milleproroghe scade il primo marzo. È ancora alla Camera e deve andare al Senato, dove forse sarà inevitabile porre la prima fiducia del nuovo governo. Per i decreti, com’è noto, non ci sono stop per l’esame neppure durante le crisi vista l’urgenza. Che, in questo caso, è più che evidente. Quindi la prossima settimana si dovrà andare al voto nelle due commissioni per garantire poi non solo il passaggio in aula, ma quello successivo al Senato. Per questo la diplomazia dei Dem e di M5S si è messa in movimento, nel tentativo di convincere gli autori degli emendamenti a fare il passo indietro. C’è poco tempo per convincere Costa e Magi, visto che le loro proposte di modifica “aprono” addirittura il faldone degli emendamenti, e saranno quindi il primo argomento in discussione e il primo scoglio da affrontare subito con il voto. Nel governo giallorosso Lucia Annibali, con il suo “lodo”, è stata irremovibile. Ha presentato più volte emendamenti per far slittare la legge di Bonafede di almeno dodici mesi. Poi è sopraggiunto un accordo sul lodo Conte-bis, con una diversa scansione della prescrizione. Italia viva lo ha bocciato e non ha partecipato al consiglio dei ministri dove fu votato dal resto della maggioranza. Ma tutto si è fermato per via del Covid. Lo stesso è accaduto per gli emendamenti di Costa. Ma adesso sono tutti nella stessa maggioranza. Per questo il Pd, con autorevoli esponenti, ha chiesto agli autori degli emendamenti di soprassedere per il momento ed evitare la prima spaccatura. Altrettanto ha fatto M5S. La risposta, per ora, è stata un niet. Anche se le motivazioni di chi chiede di fermarsi hanno una loro coerenza. Perché un nuovo ministro della Giustizia dovrà pur avere il tempo di affrontare il dossier prescrizione. Ma a quest’osservazione gli autori delle modifiche ribattono che gli emendamenti seguono proprio questa logica, congelare la legge esistente, toglierla di mezzo, e lasciare che si elabori nel frattempo una proposta alternativa. Sia essa il ritorno alla legge Orlando - prescrizione solo sospesa per 36 mesi dopo il primo grado - oppure un’altra qualsiasi soluzione. Prescrizione. Il Pd chiede di ritirare gli emendamenti che congelano la norma Bonafede di Errico Novi Il Dubbio, 9 febbraio 2021 Costa: “Io vado avanti, il giustizialismo 5S non può imporsi pure ora”. È come una sveglia persistente. Di quelle che cerchi di mettere in pausa, tanto prima o poi suona. Così è la prescrizione in questa legislatura: un trillo che ogni tanto si cerca di silenziare, inutilmente. La meccanica un po’ nevrotizzante rischia di perpetuarsi anche con l’esecutivo Draghi. Nel senso che ora, nelle consultazioni, di prescrizione e di giustizia penale si parla poco. Se non fosse per alcuni deputati che stuzzicano sul punto il premier incaricato, non se ne parlerebbe affatto. Naturalmente Mario Draghi non intende rimuovere il problema. Piuttosto, sa che una questione così divisiva difficilmente può entrare nell’agenda di un esecutivo da lui guidato. Giusto. Al limite se ne dovrà occupare il Parlamento. Ma il Parlamento come farà a disinnescare una questione che è stata la principale mina per il governo appena franato? E qui interviene la novità. Chi come il Pd si trova nella posizione più difficile e delicata, sulla giustizia penale, ha cercato nelle ultime ore di assumere il ruolo di artificiere. Nel senso che ha cercato di disinnescare la bomba. Il residuato inesploso ma sempre lì pronto a deflagrare. Nelle ultime ore alcuni big del Nazareno hanno chiesto a deputati dell’ex opposizione, di centro e di centrodestra, una riflessione sul lodo Annibali e similari. Nel senso che hanno fatto notare il potenziale destabilizzante degli emendamenti sulla prescrizione già depositati alla Camera, in commissione Affari costituzionali, all’interno del decreto Milleproroghe. Emendamenti che convergono tutti nel congelare di un anno l’efficacia della norma Bonafede. Il Pd ha fatto notare a più di uno, tra i firmatari di quei siluri, che non sarebbe igienico far esplodere subito, magari pochi giorni dopo il giuramento del governo Draghi, un ordigno così dannoso per la stabilità dell’inedita alleanza. “Sta partendo un nuovo governo, ci sarà un nuovo guardasigilli”, spiega al Dubbio Walter Verini, figura chiave nel Pd anche per la riforma del processo, “sarebbe auspicabile che temi divisivi, agitati spesso strumentalmente da più parti, vengano accantonati in modo da concentrarsi su riforme che uniscano, e che aiutino la giustizia a diventare più civile ed europea”. L’attuale tesoriere ed ex responsabile Giustizia dem chiarisce così la vicenda. Il Nazareno cerca di coinvolgere dunque i futuri alleati in una distensione, che preveda il temporaneo ritiro dei “lodi” anti Bonafede. Tra i firmatari degli emendamenti che congelano il blocca-prescrizione c’è Enrico Costa, deputato di Azione dopo essere stato una spina nel fianco dei giallorossi, sul processo penale, anche quando era responsabile Giustizia di Forza Italia: “Sì, dal Pd sono arrivati anche a me inviti a tornare indietro sulla norma anti Bonafede”, conferma Costa. “Al pari di altri deputati, ho proposto la modifica come emendamento al decreto Milleproroghe, che ora è fermo in commissione Affari costituzionali a Montecitorio, in attesa che si formi un nuovo governo. Dico molto chiaramente che non ritirerò alcunché. Non ha senso: vorrebbe dire che la linea giustizialista del Movimento 5 Stelle è destinata a imporsi anche una volta che Alfonso Bonafede ha lasciato via Arenula”. Costa insomma resta sulla propria posizione. D’altronde sarebbe difficile sminare un terreno di scontro destinato a riempirsi continuamente di ordigni. Con l’ex viceministro alla Giustizia, hanno firmato emendamenti analoghi la deputata di Italia viva Lucia Annibali, che ha lasciato impresso il proprio nome sul “lodo”, ma anche il gruppo della Lega, la parlamentare di Cambiamo Manuela Gagliardi, i forzisti Francesco Paolo Sisto e Pierantonio Zanettin. Difficile ottenere un disarmo così generalizzato. “Ci sarà un’altra maggioranza, bene: vuol dire che ci si dovrà venire incontro”, osserva Costa, “ma non che dobbiamo per forza tenerci norme come quella di Bonafede sulla prescrizione. Un conto è trovare un accordo alto, ma non è che con un quadro completamente nuovo i garantisti debbano per forza cedere ai forcaioli. A meno che il Pd non ritenga giusto e condivisibile il blocca-prescrizione. Spero proprio non sia così”. Naturalmente la trattativa sulla giustizia sarà intensa. Il Pd ha ottenuto un assenso preliminare (seppur molto generico) dal Movimento 5 Stelle per il rilancio della riforma penitenziaria targata Orlando. Fin dall’inizio, la dialettica fra dem e pentastellati in materia penale ha vissuto di equilibri complicati. Ma ora che l’incognita non è più riducibile al solo Renzi, quell’equazione rischia di farsi ancora più difficile da risolvere. Sul processo penale la maggioranza è già spaccata di Giuseppe Vatinno La Notizia, 9 febbraio 2021 La stessa grana costata cara a Conte si ripropone col nuovo Governo. Il governo Draghi rischia di partire in salita imbattendosi in una grossa grana, in pratica quella che fece cadere il governo Conte e cioè la riforma della Giustizia del ministro Alfonso Bonafede, approvata dal governo gialloverde, ma che ora deve essere convertita in legge con l’insidia di emendamenti alla Spazza-corrotti contenuti nel decreto Mille proroghe in scadenza il primo marzo prossimo. In tal caso si tornerebbe alla precedente normativa fatta da Andrea Orlando - che bloccava la prescrizione al secondo grado per un anno e mezzo e solo in caso di condanna - e al voto è difficile che il Partito democratico si opponga, anche perché lo stesso Orlando aveva cominciato a riscrivere una sua versione poco prima della crisi. Gli emendamenti sono stati proposti da Enrico Costa (ex Forza Italia ora Azione), Riccardo Magi (Radicali) e poi tre deputati di Italia Viva Lucia Annibali, Marco Di Maio e Mauro Del Barba e poi anche Francesco Paolo Sisto e Pierantonio Zanettin (Forza Italia) più altri nove deputati leghisti. In Commissione Affari Costituzionali già prima della caduta di Conte c’era parità (24 a 24) ora il successo degli emendamenti sarebbe certo. Dunque una situazione veramente complicata per l’iter su un tema bandiera per i Cinque Stelle e cioè proprio la riforma della Giustizia che vedeva nel blocco della prescrizione già al primo grado un punto chiave. Naturalmente è molto importante chi sarà il nuovo ministro della Giustizia, ma c’è da tenere presente che il trio IV-FI-Lega ha già messo le mani avanti nei colloqui con Draghi chiedendo chiaramente che ci sia una netta discontinuità con Bonafede e questo complica le cose. Perché se ci sarà la maggioranza in commissione i Cinque Stelle potrebbero essere tentati di cominciare un gioco di rivalsa su altri punti a loro cari e questo produrrebbe una grande instabilità nell’esecutivo. Poiché questo governo giallo-rosso-verde (o “africano”, visto che sono i colori dell’Unione africana) è quanto mai composito gli imprevisti sono all’ordine del giorno per motivi ideologici oltre che pratici. Ad esempio un altro punto di non concordanza e la gestione dei migranti, ma si tratta di un punto squisitamente politico visto che è già legge dello Stato, mentre la riforma della Giustizia appunto ancora no. Vedremo come Draghi affronterà questo primo importante scoglio che la sua nave potrebbe incocciare appena uscita dal porto, ma presupponiamo che l’ex presidente della Bce non solo conosca il pericolo, ma l’abbia già preventivato. Gaetano Pecorella: “Giustizialismo radicato tra i cittadini, ora è inutile una linea iper-garantista” di Errico Novi Il Dubbio, 9 febbraio 2021 “Da persona di grande intelligenza Mario Draghi cerca di non mettere sul tavolo argomenti troppo divisivi. La prescrizione è il più divisivo di tutti. Eppure credo che alcune riforme razionali siano possibili anche in materia penale. Serve un modo diverso di presentarle ai cittadini”. Gaetano Pecorella non ha difficoltà ad ammettere di essere stato segnato, nella propria vicenda politica, dalla vicinanza a Silvio Berlusconi. “Mi si è attribuito, senza motivo, un uso strumentale di alcune proposte di legge”. Ma una figura come la sua, che rappresenta perfettamente il nobile contributo offerto dall’avvocatura penale italiana alla democrazia, ha oggi la lucidità di non chiamare i garantisti alla battaglia. Piuttosto invita a comprendere che, visto l’orientamento dell’opinione pubblica, si deve trovare un compromesso fra garanzie e visioni giustizialiste prevalenti. Pecorella è una figura chiave nella storia dell’Unione Camere penali italiane. Ne è stato presidente dal 1994 al 1998 e ancora oggi, ai congressi nazionali, il banco di presidenza gli spetta di diritto, insieme con Gustavo Pansini. Non c’è neppure bisogno di una norma statutaria che lo spieghi: è semplicemente chiaro a tutti che deve essere così. Insomma, Draghi fa bene a tenere la giustizia penale un po’ ai margini delle consultazioni... L’intelligenza gli suggerisce di evitare motivi di rottura. D’altra parte ci sono altri temi così urgenti che l’opinione pubblica non comprenderebbe un’eccessiva enfasi sulla prescrizione o altre questioni del genere. Le risposte immediatamente necessarie riguardano il superamento, che sia il più celere possibile, delle restrizioni e la ripresa dell’economia. La giustizia resterà sempre un tema così caldo da restarne scottati? A dimostrare quanto sia difficile parlarne basta la chiusura opposta da Renzi al cosiddetto lodo Orlando: mi pare emblematico dell’impossibilità di aprire discussioni. Draghi se ne terrà lontano. Ma le scorie delle probabili tensioni in Parlamento potranno ostacolare anche lui? Molto dipenderà dal nome del guardasigilli. Mi pare che, per fortuna, si guardi a figure orientate assai più verso la tutela delle garanzie che al giustizialismo, come Marta Cartabia e la stessa Paola Severino. Credo che ministri della Giustizia della loro levatura sapranno distinguere i temi praticabili da quelli che non lo sono. Quali sono i praticabili? Le modalità processuali da remoto, per esempio: c’era il rischio che sopravvivessero all’emergenza, che la norma eccezionale sia normalizzata come se nulla fosse. Penso alla discussione orale in appello prevista solo su richiesta del difensore. Con Bonafede c’era qualche serio pericolo che uno schema simile si cristallizzasse. Con Cartabia o Severino non ci sarebbe. Sulla prescrizione servirà una particolare abilità nel proporre soluzioni tecniche adeguate. Ad esempio? Intanto mi pare che la norma Bonafede sia considerata incivile da tutti, anche dal Pd. Incivile e disfunzionale, perché, col regime pregresso, in primo grado si cercava, almeno, di far presto. Ora si approfitterà del termine lasciato a disposizione di quella fase del processo. Un giudizio per bancarotta si prescrive in circa vent’anni: un testimone finirà per essere sentito anche dopo dieci anni, tanto che cambia? Peccato che così l’oralità e la parità delle parti nella formazione della prova vadano a farsi benedire. Una cosa incivile, appunto. Il che non vuol dire che la situazione precedente fosse perfetta. A volte, per il giudizio in Cassazione, restavano dieci giorni. La soluzione più sensata è la prescrizione per fasi, un limite massimo per ciascuna fase del procedimento. I Cinque Stelle diranno che la vecchia prescrizione uscita dalla porta rientra per la finestra. A torto, perché non ci sarebbe più il rischio di reati che si estinguono solo perché scoperti troppo tardi... L’alternativa è accelerare davvero i processi. Ma non con soluzioni utopistiche. Basta guardare al sistema americano. Lì, per il patteggiamento, non esistono le preclusioni previste da noi. Niente premi, sconti, ma applicazione di una pena compresa nei limiti minimi e massimi già fissati. Presidente, seppure nella nuova fase politica ci fosse una maggioranza garantista, sconterebbe l’eccessivo giustizialismo diffuso ormai tra i cittadini? Il nodo esiste. Avere un nemico aiuta, Vale per i partiti, vale anche per l’opinione pubblica, che identifica il nemico con l’autore di reati anche a bassa offensività. Non si può essere giustizialisti, ma temo ci si debba anche rendere conto che nel condurre le battaglie garantiste la realtà vada tenuta presente. Serve un altro linguaggio, un pragmatismo che arrivi a chiunque. Basterebbe spiegare che rispetto a un ergastolo inflitto dopo un processo di quindici o vent’anni, è assai meglio una condanna a trent’anni che però arriva più rapidamente. Serve anche a evitare l’innocente stritolato da un giudizio che ha solo la sua morte come limite invalicabile. Da noi è tutto distorto: il patteggiamento non funziona perché è precluso per i reati più gravi, mentre per quelli puniti con condanne meno pesanti i tempi troppo lunghi rendono preferibile attendere che il reato si prescriva. Ma c’è tempo sufficiente per una riforma del processo efficace? Una persona della levatura di Marta Cartabia, che sarebbe un eccellente guardasigilli, si renderebbe conto di come, anche senza riforme epocali, ci sia la possibilità di realizzare pochi ma efficaci interventi. Il patteggiamento senza limiti né sconti, riportare in tribunale i magistrati disseminati nei ministeri, fare in modo che negli uffici giudiziari non vi sia il deserto, una volta superate le ore 14. In Italia sui garantisti pesa il pregiudizio Berlusconi? Parte dell’opinione pubblica è diventata anti garantista in quanto anti berlusconiana. Io so bene che alcune leggi furono pensate e introdotte perché rientravano nella logica di una lotta politica fra il centrodestra e i magistrati di sinistra. Dopodiché qualcuno ha additato come legge ad personam persino quella da me proposta per impedire l’appello del pm sulle assoluzioni in primo grado. All’epoca Berlusconi, in primo grado, non veniva assolto mai... Appunto. Ma il caso è emblematico. La percezione diffusa del garantismo ne ha risentito. D’altronde alcune leggi erano necessarie sul piano politico: qualcuno vicino a Berlusconi ha voluto ammantarle di garantismo ma, ripeto, erano strumenti di lotta politica. Non c’erano alternative a un governo di centrodestra, se non il caos, puntualmente arrivato. Oggi dobbiamo sgombrare l’orizzonte del Paese da quel conflitto e restituire alle garanzie il loro valore universale. È possibile? A volte credo che la stessa espressione “garantismo” sia impropria. È semplicemente il diritto naturale, evocato dalla prima dichiarazione universale, da Voltaire, Beccaria. Diritti universali e necessari per vivere meglio. La Carta di uno Stato americano, precedente alla Costituzione, diceva che ha diritto di governare chi è capace di rendere gli altri felici. Ecco, la giustizia deve rispondere a un principio semplice: evitare di rendere gli altri infelici. Intercettazioni, il ministero invia in Parlamento lo schema di decreto per rimodulare le tariffe Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2021 Previsto un risparmio intorno ai 10 milioni di euro relativo ad alcune prestazioni. È stato trasmesso alle commissioni parlamentari competenti lo schema di decreto interministeriale, da emanare insieme al Ministero dell’Economia e delle Finanze, relativo all’individuazione delle prestazioni funzionali alle operazioni di intercettazione e alla determinazione delle relative tariffe. Lo annuncia il ministero della Giustizia con una nota. Si tratta di quei servizi (intercettazioni fra presenti, video-riprese, monitoraggi di natura informatica) che non sono realizzati dagli operatori di telecomunicazione, in quanto il luogo fisico della captazione risulta al di fuori del loro dominio. Il gruppo di lavoro, istituito dal ministero della Giustizia per verificare le condizioni di un risparmio nel rispetto degli standard di servizio da assicurare agli uffici giudiziari, ha condotto una complessa attività di ricognizione, analisi ed elaborazione dei dati per adeguare i costi dei servizi, agganciandoli a quelli attualmente sostenuti dagli operatori del settore. Per la maggior parte dei servizi non è stato stabilito un importo fisso, ma un range tra un minimo e un massimo, in osservanza a quanto previsto dalla legge, secondo cui la tariffa per ogni tipo di prestazione non debba essere superiore al costo medio rilevato presso i cinque centri distrettuali con il maggiore indice di spesa per intercettazioni. Nel 2019 la spesa di giustizia per le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni è stata pari a 191.012.271 euro. Attraverso l’applicazione del nuovo listino, il risparmio è stimato in circa dieci milioni. Detenuti: il diritto alla salute prevale sulla detenzione di Gennaro Russo altalex.com, 9 febbraio 2021 Per la Cassazione non c’è obbligo di notifica alla persona offesa in caso di sostituzione della misura detentiva per motivi sanitari (sentenza n. 165/2020). Non sussiste obbligo di notifica alla persona offesa, in caso di sostituzione della misura detentiva per motivi legati alla salute del detenuto. La sentenza 13 ottobre 2020 - 5 gennaio 2021, n. 165 (testo in calce) della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, trae origine dal ricorso presentato avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Palermo, che dichiara inammissibile l’appello proposto avverso il provvedimento con il quale il G.I.P. del Tribunale di Palermo rigetta la richiesta di sostituzione della custodia in carcere, applicata per partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso e reati connessi, alcuni eseguiti con violenza alla persona. In particolare, il G.I.P. non ravvisa alcuna ragione d’incompatibilità con il regime carcerario del ricorrente, ultrasessantenne e soggetto a rischio di contrazione del virus Covid-19. Conferma la declaratoria d’inammissibilità anche il Riesame, che ha rilevato l’assenza di notifica alla persona offesa all’atto di presentazione dell’istanza di sostituzione del regime cautelare. Il ricorrente, per il tramite del suo difensore, ricorre in Cassazione ritenendo che, secondo quanto disposto dall’art. 275 co. 4 c.p.p., non fosse necessaria la predetta notifica per far valere una situazione d’incompatibilità con il regime intramurario, dovuta all’età e alle condizioni di salute del detenuto. Il diritto alla salute e il rapporto con la funzione rieducativa della pena La Suprema Corte si sofferma sull’applicabilità dell’art. 32 Costituzione, disciplinante il diritto alla salute. Il riconoscimento di tale diritto quale valore costituzionale supremo è il risultato di un’evoluzione giurisprudenziale, che ritiene applicabile l’art.32 Cost. a qualsiasi cittadino, anche se sottoposto a misure restrittive della libertà personale. Tuttavia la Cassazione, in varie sentenze tra cui la n. 2819/1992, ha più volte ribadito la necessità di bilanciare tale principio con quelli dell’uguaglianza (art.3 Costituzione) e del senso di umanità (art. 27 Costituzione), principi che devono caratterizzare l’esecuzione della pena, precisando che tale compito spetta al giudice, il quale è tenuto a motivare la sua decisione. L’art. 32 Cost. è divenuto, nel tempo, uno dei baluardi del trattamento rieducativo, in combinato disposto con gli artt. 27 co.3 e 13 co.4 della Costituzione, diventando un diritto centrale all’interno della normativa sia penale che penitenziaria. Circa il diritto alla salute, si è pronunciata anche la Corte Costituzionale, che ha affermato il “valore primario, sia per la sua inerenza alla persona umana sia per la sua valenza di diritto sociale, caratterizzante la forma di Stato sociale, designata dalla Costituzione” (Corte Cost., sentenza n. 37 del 1991). Tale valore è ribadito, nella sentenza n.99 del 2019, in cui emerge l’apertura verso il riconoscimento della prevalenza del diritto alla salute nel bilanciamento con il principio di ordine e sicurezza pubblica. Tale apertura è individuata anche nella giurisprudenza sovranazionale, dove il diritto alla salute viene ricondotto quale corollario del diritto alla vita (art. 2 Cedu), del divieto di pene e trattamenti inumani o degradanti (art. 3 Cedu) e del diritto della vita privata e familiare (art. 8 Cedu). Tale filone, che ha trovato inizio con la sentenza Mouisei (Corte Edu, 14 novembre 2002, Mousiel c. Francia), ha avuto consacrazione nella sentenza Xiros (Corte Edu, 9 settembre 2010 n. 1033. Xiros c. Grecia), con cui la Corte ha chiarito che il diritto alla salute si specifica in “tre obligations particulières: verificare che il detenuto sia in condizioni di salute tali da poter scontare la pena, somministrargli le cure mediche necessarie e adattare le condizioni generali di detenzione al suo particolare stato di salute”. La Corte di Cassazione, a seguito di tale evoluzione giurisprudenziale, afferma che “è quindi necessario un bilanciamento dei diritti in gioco, poiché se così non fosse l’esecuzione della pena verrebbe illegittimamente ad incidere sul dritto alla salute costituzionalmente riconosciuto a tutti e si risolverebbe in un trattamento contrario al senso di umanità, cui la Costituzione deve ispirarsi”. La pronuncia della Cassazione: il ricorso viene accolto - La Corte di Cassazione accoglie il ricorso presentato, ritenendo che “l’obbligo di notifica di cui all’art. 229 c.p.p. sorge qualora vi sia il rischio di recidiva personale, poiché è tale rischio che genera il diritto della vittima a partecipare al procedimento incidentale sulla libertà e a rappresentare le proprie ragioni attraverso il deposito di memorie. Tale rischio di recidiva e pericolosità sociale, deve ritenersi quantomeno fortemente scemato in presenza di condizioni di salute fragili riscontrate nel detenuto”. Quindi la ratio della norma d’impedire che vi possa essere una “vittimizzazione secondaria” della persona offesa, che tramite la notifica esercita il diritto al contradittorio cartolare postumo su revoca e sostituzione delle misure adottate, trova quindi limite nel nucleo irriducibile del diritto alla salute, protetto dalla Costituzione, anche alla luce del principio costituzionale dell’umanizzazione e della funzione rieducativa della pena, nonché della previsione della normativa sovranazionale che proibisce la sottoposizione del detenuto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti, specie ove si afferma che la finalità del trattamento sanzionatorio deve essere quella di salvaguardare la salute e la dignità della persona. Per tali motivi, la Corte ritiene che la questione sollevata circa l’applicabilità della previsione di cui all’art. 299 comma 2bis c.p.p., debba essere accolta. La Suprema Corte stabilisce che nel caso in cui venga prospettata l’incompatibilità con il regime carcerario delle condizioni di età e di salute del detenuto in stato di custodia intramuraria, nel caso di revoca o di sostituzione della misura cautelare, venga meno dell’obbligo di notifica alla persona offesa. Il carcere va sostituito con misura cautelare meno afflittiva per condanne inferiori a tre anni di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2021 L’applicazione della misura cautelare impone la prognosi del giudice sulla condanna, la cui entità spiega i suoi effetti anche dopo l’irrogazione. La custodia cautelare carceraria va sostituita da misura meno afflittiva non solo in fase applicativa, quando il giudice prognostica come infratriennale la futura condanna, ma anche quando durante l’esecuzione intervenga condanna - anche non definitiva - inferiore a tre anni. La Cassazione, con la sentenza n. 4948/2021, ha posto rimedio alle diverse interpretazioni dovute alla lacuna normativa che espressamente esclude - per le esigenze cautelari - l’applicazione della misura maggiormente afflittiva del carcere solo nella fase applicativa, cioè quando la prognosi del giudice sulla futura condanna si assesti entro i tre anni. La vicenda prende le mosse da due errori dei giudici di merito in questo caso. Il primo l’assenza di tale giudizio prognostico che non può assolutamente mai mancare al fine di applicare o escludere la misura cautelare. Il secondo la non presa in considerazione dell’intervenuta condanna, non superiore a tre anni, per quanto non definitiva. Spiega, infatti, la Cassazione che se è vero che il comma 2 bis dell’articolo 275 del Codice penale prescrive esplicitamente tale obbligo prognostico da parte del giudice solo al momento di decidere, ciò non azzera la previsione dell’articolo 299 dello stesso Codice, che impone al giudice di valutare adeguatezza e proporzionalità delle misure restrittive della libertà personale, anche nelle fasi successive all’irrogazione. Quindi anche nella seconda fase, cioè dopo l’applicazione, che la Cassazione definisce “dinamica”, si impone appunto di provvedere a sostituire con misura meno afflittiva del carcere il rispetto delle esigenze cautelari, nel caso in cui sia intervenuta condanna inferiore a tre anni anche se non ancora definitiva. Carinola (Ce). Focolaio in carcere: muore un agente, colleghi ricoverati di Ciro Cuozzo Il Riformista, 9 febbraio 2021 “Vaccino per detenuti e poliziotti”. È Antonio Maiello, agente penitenziario di 52 anni, la prima vittima del Covid dopo il focolaio registrato nei giorni scorsi nel carcere casertano di Carinola dove attualmente sono detenute circa 300 persone. “Tonino”, così come veniva chiamato da familiari e amici, era ricoverato al Covid center di Maddaloni (Caserta) e dopo tre giorni di terapia intensiva non ce l’ha fatta. Sposato con due figli, viveva nel comune di Cellole. Maiello era risultato positivo al virus insieme ad altri 16 colleghi, alcuni dei quali ricoverati - secondo quanto denunciato dall’Unione sindacati di polizia penitenziaria (Uspp) - in ospedale. Casi di positività che hanno spinto la direzione del carcere guidato da Carlo Brunelli a sottoporre a tampone i detenuti presenti. Screening dal quale è emersa la positività, al momento, di un solo detenuto che si trova in isolamento. “Da tempo chiediamo il vaccino anticovid per tutti i detenuti” spiega al Riformista Emanuela Belcuore, garante della provincia di Caserta. Poi l’appello ai magistrati di sorveglianza “affinché si velocizzi l’iter che prevede la possibilità, per chi ne ha i requisiti, di scontare il resto della pena a casa e non in carcere”. Al momento nel carcere di Carinola sono sospesi “per motivi precauzionali” gli ingressi per i volontari oltre che le attività scolastiche e i corsi professionali e trattamentali. Sulla vicenda interviene l’Uspp, Unione sindacati di Polizia Penitenziaria, con una nota di Giuseppe Moretti (presidente nazionale) e Ciro Auricchio (segretario regionale campano), che esprimono “vicinanza alla famiglia del povero collega e le più sentite condoglianze. Non è la prima volta - proseguono - che un collega ci lascia per aver contratto il Covid-19. Ci risulta che altri colleghi in servizio al carcere di Carinola siano ricoverati per la stessa causa. Chiediamo, pertanto, un’accelerazione del piano operativo vaccinale che prevede, nella fase 3, la somministrazione del vaccino anche per la Polizia Penitenziaria. In seguito alle rassicurazioni ricevute dalla Segreteria Nazionale a Roma dal Commissario straordinario per l’emergenza Domenico Arcuri sulla priorità della somministrazione dei vaccini al personale che lavora nelle carceri, chiediamo di sollecitare le Regioni ed in particolare la Regione Campania, affinché si avvii con urgenza la somministrazione dei vaccini innanzitutto al personale di polizia Penitenziaria, che è in servizio h24 negli istituti penitenziari, al fine di scongiurare il rischio drammatico di ulteriori morti”. Il comune di Cellole è in lutto per la prematura scomparsa dell’agente penitenziario Tonino Maiello. Il parroco don Lorenzo Albano, zio della vittima, lo ricorda così: “In questa mezza umanità, che è salito al Cielo per il Covid, c’è anche mio nipote Tonino, che oggi ha risposto serenamente, il suo “Si d’Amore” a Gesù e alla Mamma Celeste…”. “Il carcere, come si sta vedendo, è tutt’altro che un luogo immune al virus, come invece dichiarato dalla politica e da improvvidi operatori della giustizia - ha detto Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti - Quattro detenuti morti per Covid in Campania, un secondo agente di polizia penitenziaria, un medico penitenziario, un migliaio di contagiati tra agenti e detenuti dall’inizio della Pandemia. È forse necessario attendere una quantità più elevata di morti e contagiati per affrontare la questione in termini di prevenzione, cura e vaccini? Anche le conseguenze sanitarie, fisiche, psicologiche di tale contagio vanno affrontate, così come una indennità di rischio per gli operatori penitenziari e sanitari. Esprimo vicinanza e cordoglio alla famiglia dell’agente di Carinola morto per Covid”. Catanzaro. Detenuto 50enne muore in carcere: aperta un’indagine di Francesco Oliva Corriere Salentino, 9 febbraio 2021 I familiari: “Non sappiamo nulla sulle cause, vogliamo la verità”. Una telefonata per comunicare ad un nipote la morte dello zio senza spiegare le cause del decesso. Da allora nessun’informazione. E ora i familiari di Fernando Frisulli vogliono giustizia e verità sul decesso del proprio familiare nel carcere di Catanzaro il 2 febbraio 2021. Il recluso è di Lecce. Il 10 febbraio avrebbe compiuto 50 anni. Nel penitenziario della città calabrese l’uomo era stato trasferito da circa 3 anni. Un provvedimento su cui sono state fornite sempre scarne motivazioni. Come poche sono le indicazioni sulla morte del detenuto. Quel che si sa è che il pubblico ministero della Procura di Catanzaro, Domenico Assumma, ha aperto un fascicolo d’indagine ipotizzando l’accusa di omicidio colposo per il momento a carico di ignoti. E, nella giornata di martedì 9 febbraio 2020, sarà conferito incarico al medico legale di Isabella Aquila per eseguire l’autopsia. I familiari di Frisulli si sono rivolti allo Sportello dei Diritti da sempre impegnato nella tutela dei detenuti. Dubbi e interrogativi, infatti, accompagnano la morte dell’uomo. Si tratta di un suicidio? O cos’altro. Dal penitenziario i parenti dell’uomo non hanno ricevuto altra informazione se non l’avviso di accertamento tecnico non ripetibile relativo all’autopsia dopo la telefonata con cui hanno comunicato il decesso dell’uomo. “Vogliamo sapere cosa è successo in carcere” fanno sapere. Frisulli non era sposato ma aveva mantenuto i rapporti con le sorelle con le quali c’è stato uno scambio di lettere fino alle scorse settimane. Poi il silenzio interrotto dalla telefonata dalla direzione penitenziaria al nipote del detenuto. Frisulli era entrato in carcere circa quattro anni fa perché ritenuto autore di una serie di furtarelli ed il fine pena era fissato fra un anno. Vigevano (Pv). Coronavirus, focolaio in carcere: in un mese 103 detenuti positivi adnkronos.it, 9 febbraio 2021 Nell’istituto carcerario di Vigevano nell’ultimo mese sono risultati positivi al Covid19 ben 103 detenuti. “È uno dei cluster più importanti registrati durante l’intero periodo di Covid nelle carceri italiane”. A denunciare l’entità del focolaio è il segretario generale del sindacato polizia penitenziaria S.PP, Aldo Di Giacomo. Anche se nell’ultimo mese i casi di detenuti e di poliziotti positivi è diminuito, “i detenuti positivi sono 531 di cui 484 asintomatici, 21 sintomatici gestiti nel carcere e 26 ricoverati, mentre tra il personale penitenziario ci sono 599 positivi di cui 577 con degenza a domicilio, 9 degenti in caserma e 13 ricoverati in ospedale”, spiega in una nota. “Bisogna evitare a tutti i costi che situazioni come quelle di Vigevano possa ripetersi in altri istituti di pena. I detenuti attualmente positivi di Vigevano sono stati sposati in altri istituti o altre sezioni appositamente scelte per la cura del Covid. È senza dubbio importante iniziare quanto prima il piano di vaccinazioni per i poliziotti penitenziari e i detenuti dando priorità ai 350 detenuti ultra ottantenni e con patologie severe”, afferma. “L’attenzione dimostrata sino ad oggi dal Presidente del Dap, Tartaglia, alle nostre sollecitazioni ha dimostrato di funzionare. Ora bisogna continuare con la stessa attenzione per evitare di vanificare i buoni risultati avuti negli ultimi due mesi”, conclude. Venezia. Scompare subito dopo la scarcerazione: positivo al Covid, nessuno sa dove sia di Carlo Mion La Nuova Venezia, 9 febbraio 2021 È uscito dal carcere di Santa Maria Maggiore come previsto intorno alle 10. Prese le sue cose ha riassaporato la libertà. Con sé il detenuto veneziano di 43 anni ha portato pure il contagio da Covid. Infatti era uno della cinquantina di detenuti rimasti contagiati in questi mesi nel carcere maschile. Nonostante il contagio e la sua richiesta a varie autorità di trovargli un luogo dove trascorrere la quarantena, nessuno ha fatto qualche cosa, tranne il suo legale, l’avvocato Marco Zanchi, che ha cercato di sensibilizzare autorità carcerarie e sanitarie. L’uomo contagiato, ma asintomatico, cercava un posto fino alla negativizzazione in quanto non può tornare a casa dai genitori. Attualmente ha la residenza dai genitori, entrambi ultra ottantenni. L’abitazione è piccola e quindi difficilmente si può organizzare un isolamento efficace. E il rischio quindi di contagiare i due anziani è molto elevato. Aveva pure chiesto di trovargli un posto, a pochi soldi, in attesa di diventare negativo. Avrebbe pagato lui con i pochi soldi che aveva. Niente. Nessuna risposta a questa sua disponibilità. Da ieri mattina, lui è uomo libero, si sono perse le tracce del contagiato. Libero anche di contagiare. Una decina di giorni fa altro episodio singolare per un detenuto contagiato del Santa Maria Maggiore. Carcerato che da Venezia doveva essere portato a Brescia perché messo ai domiciliari e questo nonostante fosse acclarata la sua positività al Covid, da diversi giorni. Senza indicazioni contrarie, però, il trasporto era da fare. E quindi, con tutte le precauzioni e i rischi del caso, si è messa in moto la macchina organizzatrice per il trasporto, diventato operativo. A metà strada, poco dopo Verona, il contrordine. Arrivato fuori tempo massimo. “Riportatelo a Venezia, sarà trasferito ai domiciliari non appena negativo al tampone”. L’intreccio burocratico è tra il Tribunale di Rieti e il carcere di Venezia, e a farne le spese sono stati tre operatori di polizia penitenziaria che poi sono stati messi in isolamento fiduciario per essere entrati in contatto con un positivo. Protagonista un detenuto 50enne, di origini straniere. Qualche giorno prima del trasporto, il tribunale di Rieti (competente per i reati commessi dall’uomo) aveva disposto la misura alternativa degli arresti domiciliari per consentirgli di scontare il resto della pena nella sua abitazione di residenza, a Brescia. L’uomo però era risultato positivo al tampone molecolare, esito di uno degli ultimi screening realizzati all’interno della struttura dopo i numerosi casi di contagio registrati nelle ultime settimane. La sua situazione era stata fatta presente dalla direzione del carcere al tribunale di Rieti. Fatto sta che, senza ulteriori indicazioni, il trasferimento a Brescia era stato confermato. Non senza le preoccupazioni degli operatori penitenziari. Uno dei tre ha percorso più di due ore a contatto con il detenuto nell’ambulanza. Napoli. “Dona un libro” nelle carceri, l’iniziativa del collettivo Gli Ultimi Saranno di Yari Russo comunicareilsociale.com, 9 febbraio 2021 Portare la cultura in ogni carcere, affinché possa divenire occasione di rinascita per chi ha avuto una storia complicata. È questa la mission che si propone Gli Ultimi Saranno, collettivo nato nel 2018 dall’intuizione di Raffaele Bruno, attore e regista napoletano. Formato da musicisti, attori ed artisti in genere, il collettivo ha sempre avuto l’ambizione di portare l’arte nei luoghi dove spesso non riesce ad arrivare: dai centri di igiene mentale fino a quelli di recupero per tossicodipendenti. Fra i tanti luoghi vissuti è però il carcere quello in cui, secondo Raffaele Bruno, “la necessità di creare armonia è più urgente, perché le emozioni e i contrasti della natura umana esplodono in modo evidente”. Su questi presupposti comincia il loro impegno nei luoghi di detenzione, con laboratori artistici che possano abbattere ogni barriera fra gli ospiti, gli artisti ed i dipendenti di quelle strutture. “Crediamo nel rito dell’improvvisazione artistica, perché il loro contributo nei nostri spettacoli permette di creare un flusso artistico grazie al quale ci sentiamo parte di una stessa comunità” afferma Bruno. Nel corso degli anni il collettivo si è allargato, entrando in contatto con numerose realtà, associazioni ed artisti che hanno deciso di mobilitarsi per questa causa, dando vita a numerose iniziative. L’ultima, che si sta sviluppando in questi giorni, si chiama Dona un libro. Il fine ultimo dell’iniziativa, ben riassunto nello slogan Parole luminose dietro le sbarre, è quello di creare un filo fra chi è dentro e chi è fuori le sbarre. “Di solito fra amici ci si regala cibo o vino, noi abbiamo deciso di donare un libro. Un libro che non sia neutro, ma che contenga una dedica da parte di chi dona” dichiara Bruno “in questo modo i donatori si prendono la responsabilità di scegliere un libro che sia luminoso per la persona che sta al buio. Il momento in cui ci mettiamo davanti alla pagina bianca per scegliere le parole giuste fa davvero riflettere e scendere in profondità.” Come si può constatare sul sito del progetto, numerose sono le librerie che hanno aderito all’iniziativa in tutta Italia, esponendo un cartonato che invita i clienti ad acquistare un “libro sospeso” e donarlo a sostegno di questa iniziativa. Oltre alle librerie vi sono anche una decina di negozi, chiese ed associazioni che si sono rese disponibili come punti di raccolta per le donazioni. I libri saranno poi conservati dal collettivo Gli Ultimi Saranno e distribuiti nelle carceri durante le loro attività, principalmente in Campania ma anche in Lazio, Piemonte ed altre realtà nelle quali progettano di operare se la situazione epidemiologica lo permetterà. Il progetto è stato presentato pubblicamente lunedì 1 febbraio, in una diretta Facebook della Libreria Rinascita, con la partecipazione di Federica Palo, Maurizio Capone, Blindur, LUK ed altri artisti che hanno apportato il loro contributo nel corso dell’evento. In quell’occasione il Presidente della Camera Roberto Fico ha voluto inviare un videomessaggio perché, come ricorda Raffaele Bruno “già l’anno scorso si era fatto promotore di questa iniziativa, installando un punto di raccolta a Montecitorio che riscosse grande successo da parte di deputati e dipendenti”. Un segno di vicinanza delle istituzioni che il collettivo spera possa avere seguito nella prossima legge di bilancio, per la quale è stato presentato un ordine del giorno dal fondatore Raffaele Bruno, attualmente parlamentare presso la Camera dei deputati. La proposta prevede investimenti per la realizzazione di attività teatrali ed artistiche in tutte le carceri italiane. La tossicodipendenza e SanPa non finiscono con gli anni 80 di Vanessa Roghi Il Domani, 9 febbraio 2021 Nel film “Lontano da casa”, prodotto da Rai cinema, si raccontano le storie di chi frequenta oggi la comunità. Dopo il documentario di Netflix e dopo Muccioli, c’è una realtà che ignoriamo ma che continua a esistere. Spenti i riflettori su Vincenzo Muccioli e la sua storia controversa, si riaccendono, senza clamori, sulla comunità di San Patrignano, attraverso un documentario di Maria Tilli, prodotto da Simone Isola e da Rai Cinema, dal titolo: Lontano da casa, la storia di un gruppo di ragazzi ospiti oggi della comunità riminese. L’occasione è data dalla fine del percorso di recupero di uno di loro, Stefano, 27 anni, che molto serenamente, all’inizio del film dice: “Se mi chiedessero: vuoi restare qua, io direi no, sono entrato talmente giovane, a 21 anni, che la vita non l’ho nemmeno assaggiata”. Sei anni di vita separata per disintossicarsi. Sei anni. Le persone - Subito è chiaro l’intento della regista, la comunità è un pretesto, sono le storie dei ragazzi e delle ragazze a interessarla. San Patrignano è il luogo che le ha dato la possibilità di raccoglierle, e infatti la comunità fa da sfondo, con i suoi spazi di lavoro, la mensa, che abbiamo imparato a conoscere con Sanpa, i suoi stradelli che diventano improvvisati set per raccogliere percorsi di vita che hanno trovato a San Patrignano una inattesa rimodulazione. Le storie si assomigliano e sono tutte diverse e raccontano una cosa soltanto: la normalità della tossicodipendenza, oggi. Una delle conseguenze più dannose che la serie Sanpa ha avuto, infatti, sul dibattito pubblico è stata sicuramente quella di relegare la tossicodipendenza a una dimensione storica superata, legata agli anni Ottanta. “Lontano da casa”, invece, ci mostra con grande semplicità che la tossicodipendenza è qualcosa che sta nel nostro quotidiano, che è fatta di un mix perfetto di medicinali, fumo, alcool, e poi a un certo punto di sostanze come la cocaina e l’eroina, ma il limite è esilissimo, e il passaggio da psicofarmaci a eroina è spesso più semplice di quello che si possa pensare. Le storie - Daniele, 21 anni, in comunità da un anno e mezzo, ha iniziato a fumare cocaina piccolissimo. “Io mi drogavo per sentirmi più grande e poi perché la droga è buona, ti fa stare bene, tutti i problemi non ci stanno, la testa è vuota, io ho iniziato a drogarmi perché non riuscivo ad affrontarli i problemi. Anche litigare con un amico per me era una cosa ingestibile, non riuscivo ad affrontarlo se non mi facevo sopra una canna, una bevuta, una pippata, per me una litigata era una montagna da scalare, invece se mi facevo tutto era più facile, in discesa, quasi un tuffo in piscina. La mia prima botta è stata in seconda media, avevo tredici anni, ero stato bocciato in prima, ero preso in giro da ragazzino, ero stufo di essere quel ragazzo, volevo essere qualcuno, così ho iniziato a fumare la cocaina, poi a rubare i primi soldi a casa. In seconda superiore ho lasciato la scuola, anche se dalle medie ci andavo e non ci andavo. Se non fumavo non stavo bene. Allora mia madre mi ha portato dallo psicologo che le ha detto che mi opprimevano troppo, di lasciarmi respirare. Io mi sono attaccato tantissimo a questa cosa qua, e da quel momento ho fatto come mi pareva”. Stefano e Daniele allo stesso modo sono passati dalla cocaina all’eroina perché a un certo punto la cocaina rende la vita insostenibile soprattutto per la mancanza di riposo, non si prende sonno, non si riesce a dormire più. C’è chi si abbotta di sonniferi, tranquillanti e chi fuma l’eroina. Molto semplice. Anche perché molto semplice ed economico è acquistarla, ovunque. Sotto casa, con un sms, basta avere il numero giusto, come farsi recapitare una pizza. L’ingresso in comunità lo racconta Nicol, 23 anni: “È stato terribile, mia madre mi ha detto o smetti o stai per strada, ma io per strada non volevo starci e sono venuta qua”. E Filippo, 23 anni: “Io ero in attesa del processo e l’avvocato mi ha detto ti conviene che vai a San Patrignano perché in alternativa c’è il carcere”. Martina, anche lei in comunità da circa un anno, legge la lettera che le ha scritto la madre, ed è una lettera che ognuno di noi potrebbe scrivere, non c’è nessuna eccezionalità, una lettera piena di affetto per la figlia, da parte di una mamma normale a una figlia normale, che si è trovata a non saper gestire la dipendenza da una sostanza o da più sostanze, che per fortuna non è morta, che per fortuna questa lettera se la porta in tasca e può rispondere se vuole. Caterina ha 23 anni, e ragiona molto, come tutti del resto in questo film, sul rapporto con la sostanza: “L’eroina per quanto è stata brutta, per quanto è una roba schifosa che ti porta via tutto però m’ha fatto anche vedere che io senza non sapevo sta’ al mondo, m’ha fatto vedere degli aspetti di me, del fatto che l’unica cosa che cercavo era sta bene con me stessa che quella sostanza era in grado di darmi anche se non era una cosa mia naturale, mi ha fatto capire quanto sono debole quanto sono fragile, quanto ho bisogno di aggrapparmi alle cose”. Nella sua biografia nessuna predestinazione, come vorrebbero certi giornalisti che raccontano i fatti di droga solo come eventi che ai loro lettori non potrebbero mai accadere, bene, le cose non vanno così, per niente: dice Caterina: “Ero una bambina solare, felice, strana”, e possiamo vederla nei filmini delle vacanze della sua infanzia, davvero felice e solare, strana non capiamo cosa significa, ma questo è, come dice lei stessa, quello che si sentiva lei quando si guardava allo specchio. Grassa, brutta, inadeguata. Caterina è bella, simpatica, intelligente, è chiaro, basta sentirla parlare cinque minuti per capire che quello che non va, che non è andato, non è stata certo lei ma qualcosa che le stava intorno: definire cosa però non è semplice, non basta la sua testimonianza, sicuramente, a farcelo capire. Cosa c’è fuori Mentre è molto utile per capire alcuni meccanismi del consumo: Caterina racconta di come, per esempio, nei momenti di dipendenza più acuta, quelli nei quali ha avuto più bisogno di soldi, fosse molto facile procurarseli attraverso mercati virtuali, dove, per esempio, la fotografia di un paio di piedi venduti a un feticista incontrato online portava un guadagno immediato di cento euro. Neppure la necessità di rubare, tutto legale, tutto secondo le regole, tutto entro gli schemi del mercato. Anche Stefano racconta di come abbia rubato i cerotti alla morfina a una vicina malata di tumore per poi mangiarseli. E Daniele di come la mancanza di ogni controllo nel cantiere in cui ha lavorato gli abbia permesso di lavorare fatto, guidando un camion senza patente e smaltendo la terra nel fiume, oltre ogni legge. A volte guardando il film, ascoltando le voci di questi ragazzi e ragazze sembra di assistere alla messa in scena di una striscia dei Peanuts dove tutti sono finiti a farsi: penso ai Peanuts perché del tutto assenti se non come riferimento affettivo ma anche mostruoso, sono le voci degli adulti. La fine, che non voglio raccontare, è un pugno nello stomaco ma anche una domanda aperta che ci interroga su cosa c’è fuori dalla comunità, intorno a noi, cosa c’è quando, dopo anni passati lontano da casa, la casa la ritroviamo. Chi c’è ad aprirci la porta, chi ad abbracciarci, a dirci: “bentornato, bentornata”. Cara Costituzione, ecco che cosa vorrei chiederti di Gianrico Carofiglio e Silvana Sciarra La Repubblica, 9 febbraio 2021 In ogni articolo sento la gentilezza, di Gianrico Carofiglio - Qualche tempo fa mi è capitato di scrivere un libro il cui titolo è “Della gentilezza e del coraggio”, che è un titolo inusuale e come tale è stato considerato da molti lettori incuriositi perché i due concetti sembrano avere poco a che fare l’uno con l’altro. In particolare, non si capisce che cosa c’entri la gentilezza in un libro che parla di politica, di discorso pubblico, perché è di questo che tratta. Faccio una precisazione che c’è nel libro, ma che ho cercato di sviluppare in più occasioni, parlando di questi argomenti. La gentilezza di cui si parla in questo saggio non sono le buone maniere, la cortesia e il garbo: tutte doti che ci piacciono, ma che appunto non riguardano questa riflessione. La gentilezza di cui si parla in questo caso è una fondamentale attitudine umana molto spesso - troppo spesso - oggi trascurata, una fondamentale attitudine umana che consiste nell’entrare in rapporto con gli altri e gestire il conflitto che è una componente inevitabile delle nostre vite collettive, evitando il più possibile procedure distruttive che neghino l’umanità dell’altro. In questo senso, quindi, la gentilezza, per quanto mi riguarda, è una virtù, una dote che prende le mosse dall’inevitabilità del conflitto nelle nostre esistenze individuali e collettive: va incontro al conflitto perché va incontro a chi ha una posizione diversa dalla nostra. È la ricerca non già di un evento distruttivo, ma di un tentativo di composizione. Questa pratica, questa categoria concettuale, richiama alla mente altre categorie in vari ambiti del sapere, anche categorie che sono incluse nella nostra Carta Costituzionale. La gentilezza di cui si parla in questo caso è una dote indispensabile. È una categoria che attraversa la nostra Costituzione, a cominciare dal principio fondamentale che enuncia l’articolo 3: l’idea di una società in cui gli incontri - scontri siano ispirati dal principio di solidarietà, che significa, innanzitutto, principio di percezione dell’altro. Ovvero principio di consapevolezza che anche nella diversità di vedute e nella diversità di posizione di interesse sia fondamentale per una società sana un ascolto reciproco. Ascolto delle difficoltà a volte insopportabili - come sta accadendo in quest’epoca - di chi si trova in condizioni meno buone delle nostre. La gentilezza è un antidoto alla propaganda populista perché cerca la verità delle cose. Il successo dei populismi non è tutto e soltanto fatto di manipolazioni, di notizie inventate, di comunicazione truffaldina: esso prende le mosse anche da una situazione reale, la situazione reale che caratterizza sempre di più le nostre società complessivamente sempre più ricche. È l’aumento insopportabile delle diseguaglianze. Anche durante la crisi della pandemia, noi abbiamo assistito a un meccanismo che ormai è una costante della nostra evoluzione o involuzione sociale: i ricchi diventano più ricchi. La classe media, invece, si va sempre più assottigliando fin quasi a sparire e i poveri diventano più poveri e precari. Questa condizione generale - l’aumento della diseguaglianza - è inevitabilmente un fattore produttivo di rabbia: è la premessa per il successo dei populismi che sono capaci di dare dei nomi truffaldini alla rabbia stessa. Sono capaci di indicare dei capri espiatori che è proprio quello che cerca chi è terribilmente e giustamente arrabbiato. La riflessione politica cui si ispira il principio di gentilezza come virtù politica ha il dovere di promuovere l’esatto contrario: la capacità di sottrarsi alle semplificazioni, di sottrarsi al rischio dei populismi più o meno striscianti e di accettare però come una responsabilità inevitabile quella di combattere il sistema delle diseguaglianze. In questo senso, una delle mie frasi preferite è una citazione di Adorno, il filosofo tedesco. Egli diceva: la forma più alta di moralità è non sentirsi mai a casa, nemmeno a casa propria. È una rivendicazione del disagio rispetto all’ingiustizia come condizione esistenziale della quale credo oggi abbiamo tutti quanti molto bisogno. Penso che questi temi siano fondamentali per ogni riflessione sul futuro della convivenza civile. Mi piacerebbe molto sentire qualche opinione su questo dalla Corte costituzionale. Perché la Carta è nata per ascoltare, di Silvana Sciarra - La cura che Gianrico Carofiglio presta al linguaggio è pari alla originalità delle sue scelte linguistiche. Ecco dunque che la parola gentilezza proprio perché collocata nel quadro storico contemporaneo assume significati del tutto peculiari e si presta a un confronto con il linguaggio della Corte costituzionale. Così come vanno insieme le parole coraggio e ascolto perché, come dice Carofiglio, non sempre si ascolta perché non si ha il coraggio di farlo. Questa affermazione può adattarsi anche a chi decide collegialmente. Innanzitutto costui deve praticare l’ascolto degli altri giudici nel collegio. Poi deve ascoltare le voci delle parti fra le righe delle tante carte da leggere. E poi finalmente, quando se ne presentano le condizioni, deve ascoltare le voci della società civile. Le parole intese come atti linguistici e dunque vere e proprie azioni comunicative, incidono sul discorso pubblico. E per essere percepite nella loro funzione normativa devono essere parole autorevoli. Mi tornano in mente vecchie letture di Habermas. Le ragioni che legittimano nella comunicazione le Corti costituzionali quando decidono sui diritti sono stabilite prima, mentre il legislatore deve di volta in volta affermare i diritti e le loro garanzie attraverso le politiche legislative. Il diritto moderno sempre secondo Habermas, pone al centro i diritti umani e lo stato di diritto. Concetti questi che non perdono di attualità e di incisività. La Corte costituzionale nella sua collegialità si attiene a una pratica comunicativa condivisa da tutti i giudici e che si impone per coerenza, autorevolezza e indipendenza del giudizio. Dunque ascolto non è affatto accondiscendenza ma esercizio paziente e riflessivo. L’esempio più recente riguarda la sentenza sul fine vita rivolta a quanti soffrono a causa di patologie irreversibili. È un esempio importante quello dell’ascolto che la Corte era pronta a dare alla voce del Parlamento invitato a decidere entro un termine fissato dalla Corte stessa. L’ascolto non si è verificato perché dal Parlamento è venuto soltanto silenzio. Ecco allora il coraggio di una decisione di incostituzionalità parziale dell’articolo 580 del codice penale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola il doloroso passaggio verso la morte. Questioni morali ed etiche restano sullo sfondo. Ma la forza discorsiva delle norme va ricercata anche nella autodeterminazione e nell’autorealizzazione. La Corte, nella stessa sentenza, dice che chi soffre è anche pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevole. Un altro aspetto dell’ascolto prestato dalla Corte costituzionale è quello nei confronti della Corte di giustizia dell’Unione europea visto che sempre più si va rafforzando un metodo comunicativo che valorizza il pluralismo costituzionale. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo, per questioni interpretative e di validità, pone la Corte costituzionale italiana fra le più attente all’ascolto ma anche fra le più attive nell’esemplificare i valori fondanti dell’impianto costituzionale: ascolto reciproco, deferenza, collaborazione sono parole comuni di un linguaggio comune che è quello condiviso dagli Stati membri dell’Unione. Spesso Carofiglio nel suo lavoro fa riferimento al rispetto dei diritti fondamentali come risposta democratica a forme di populismo antidemocratico. Ma cosa dice la Corte costituzionale sulla tutela delle minoranze linguistiche? Lo ritiene un principio che supera la concezione dello Stato nazionale chiuso dell’Ottocento. Un rovesciamento rispetto all’atteggiamento nazionalistico manifestato dal fascismo, che incontra il principio pluralistico riconosciuto dall’articolo 2 e il principio di eguaglianza riconosciuto dall’articolo 3 della Costituzione. Quanto al tipo di tutele da riservare a scelte intime della persona, non omologate al modello culturale prevalente, la Corte dice che non ci deve essere divorzio automatico per la coppia in cui uno dei due componenti della coppia stessa abbia rettificato il proprio sesso esercitando il diritto all’identità di genere. L’articolo 2 della Costituzione garantisce i diritti inviolabili dell’uomo all’interno delle formazioni sociali fra le quali è da annoverare anche l’unione omosessuale ovvero la coppia non più eterosessuale ma in ragione del pregresso vissuto nel contesto del matrimonio. La Corte ha anche precisato che è degno di molta cura e attenzione il percorso di quanti pur avendo ottenuto la rettificazione di sesso all’anagrafe non si sono sottoposti al trattamento chirurgico perché quest’ultima operazione non è un prerequisito ma un mezzo funzionale al conseguimento di un pieno benessere psico fisico. Gianrico Carofiglio sarà d’accordo con me quando dico che c’è gentilezza nei messaggi della Corte là dove riconoscono il diritto all’autodeterminazione per scelte che attengono alla persona. E questa è sicuramente un’altra modalità per contrastare la violenza del linguaggio e dei gesti. “Rapine” generazionali di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 9 febbraio 2021 Le misure che vanno oggi a vantaggio delle classi d’età meno giovani sono poste a carico delle successive generazioni. Si tratta di qualcosa che è inaccettabile anche da un punto di vista morale, come ha affermato l’estate scorsa l’attuale presidente del Consiglio incaricato Draghi. Benché da tempo non si parli più di “lotta di classe”, come facevano Marx e i movimenti e partiti che a lui si richiamavano, il conflitto sociale ha dominato e continua a dominare la vita delle democrazie contemporanee. Tranne forse che in Italia, dove al centro sta ormai, benché in forme poco evidenti, soprattutto un altro conflitto, quello tra le generazioni: da una parte i babyboomers (per convenzione quanti sono nati tra il 1946 e il 1964 e dunque hanno potuto pienamente approfittare del benessere economico dei primi decenni post ‘45) e dall’altra i loro figli e, spesso, i loro nipoti. Se il conflitto sociale, nelle sue forme fisiologiche, ruota in larga misura attorno alla distribuzione delle risorse economiche, questo conflitto tra generazioni presenta nell’Italia degli ultimi decenni un andamento particolare, a senso unico: consiste, attraverso il gigantesco debito che abbiamo accumulato, in un enorme trasferimento di risorse dai più giovani (e perfino da quanti ancora non sono nati) ai più anziani. Se il conflitto sociale è un conflitto esplicito perché avviene qui e ora tra gruppi che - appoggiandosi a sindacati, associazioni, partiti - cercano ciascuno di ottenere una fetta più grande della ricchezza prodotta, il conflitto tra generazioni - nella particolare forma che ha assunto da noi - resta sotterraneo e nascosto, poiché le risorse di cui le generazioni più anziane si appropriano in un certo senso non esistono, sono fatte “soltanto” di debiti che le generazioni future dovranno pagare. Insomma, proprio quelle classi di età che hanno contribuito a plasmare negli anni Sessanta il mito della gioventù, creando per sé l’immagine dei forever young, hanno finito col derubare (metaforicamente ma non troppo) la gioventù in carne e ossa, quella rappresentata dalle generazioni successive alla loro. A tenere celato questo conflitto, a renderlo all’apparenza meno drammatico, stanno due fatti. In primo luogo, come appena detto, le conseguenze di questa gigantesca espropriazione di risorse si manifesteranno soprattutto in futuro, quando i giovani di oggi (sempre meno, per giunta, visto il crollo delle nascite nel nostro Paese) dovranno sopportare il costo di un debito contratto non da loro e al contempo finanziare assistenza e pensioni per un numero di anziani sempre maggiore. In secondo luogo, quel conflitto generazionale è al momento mascherato dal fatto che spesso - come è esperienza di tante famiglie italiane - sono ancora gli stipendi e le pensioni dei babyboomer sa sostenere figli e nipoti. Tutto questo ha conseguenze anche sulla qualità della nostra democrazia, che tende a diventare - in gran parte anzi è già diventata - una democrazia irresponsabile; nel senso che le misure che vanno oggi a vantaggio delle classi d’età meno giovani sono poste a carico delle successive, e meno fortunate, generazioni. Si tratta di qualcosa che è inaccettabile anche da un punto di vista morale, come ha affermato l’estate scorsa proprio l’attuale presidente del Consiglio incaricato Draghi al meeting di Rimini, osservando che privare i giovani del futuro è “una delle forme più gravi di diseguaglianza”. Eppure una questione del genere è finora rimasta fuori o ai margini dell’agenda politica; non a caso, viene da dire, vista la composizione di un corpo elettorale che l’andamento demografico rende sempre più anziano. Così, nei partiti la questione dei giovani si risolve al massimo in qualche riferimento scontato e retorico alla necessità di combattere la disoccupazione giovanile, incrementare il numero dei laureati ecc. Del resto non sembra un caso - semmai potremmo parlare, in termini freudiani, di una rimozione - che, come è stato più volte osservato, il Next Generation Eu non sia quasi mai chiamato in Italia con questo nome. Ma stupisce soprattutto la difficoltà anche di chi è anagraficamente più giovane a mettere a fuoco il conflitto generazionale di cui si sta dicendo. Si pensi alle cosiddette “sardine”: benché si trattasse di un movimento composto per lo più da giovani, non hanno dedicato al problema un centesimo delle parole dedicate alla battaglia “antifascista” contro Matteo Salvini. E che la “rapina generazionale” in atto da decenni possa cessare, o almeno attenuarsi, sembra davvero difficile se questa disattenzione degli stessi giovani non verrà meno. Contro il cyberbullismo patentino per l’uso sicuro dei social: il 55% degli adolescenti dice sì di Grazia Longo La Stampa, 9 febbraio 2021 La sofferenza di chi, come Camilla, viene derisa, umiliata e bullizzata perché porta un busto ortopedico. Il dolore di Emma che viene esposta al mondo perché ha avuto l’ingenuità di inviare alcuni video hot al fidanzato. La frustrazione di Mirco che, seppur pentito, deve affrontare un processo perché ha violato l’intimità di Camilla diffondendo i suoi video amatoriali hard. Sono solo alcune delle storie vere raccontate nel libro “#cuoriconnessi. Cyberbullismo, bullismo e storie di vite online. Tu da che parte stai?” una nuova raccolta di scampoli di vita che seppur diversi per dinamiche, culture e territori, sono uniti da un comune denominatore: il rapporto dei giovani con la tecnologia e la rete. E oggi, a partire dalle 10, se ne parlerà nell’iniziativa promossa dalla Polizia di Stato e Unieuro. Si tratta di una diretta streaming sul sito poliziadistato.it, cuoriconnessi.it ed anche sul canale ufficiale YouTube della Polizia di Stato, per #cuoriconnessi, un grande evento digitale in occasione del Safer Internet Day, giornata mondiale per la sicurezza in rete. Parteciperanno alla diretta più di 3 mila scuole di tutta Italia e oltre 200 mila studenti: l’incontro è dedicato ai ragazzi del terzo anno delle scuole secondarie di primo grado e agli studenti della 1° e 2° classe delle scuole secondarie di secondo grado. La partecipazione sarà consentita attraverso una piattaforma dedicata. All’evento, moderato dal giornalista Luca Pagliari, interverranno il Capo della Polizia-direttore generale della Pubblica Sicurezza Franco Gabrielli, il Capo Dipartimento per le Risorse umane, finanziarie e strumentali del Miur Giovanna Boda, l’Amministratore Delegato di Unieuro Giancarlo Nicosanti e il Direttore del Servizio Polizia Postale e delle comunicazioni Nunzia Ciardi. #cuoriconnessi è un’iniziativa di sensibilizzazione sui temi del bullismo e del cyberbullismo, nata nel 2016 e realizzata da Unieuro in collaborazione con la Polizia. Le attività di #cuoriconnessi sono rivolte alle scuole italiane secondarie di primo e secondo grado e da sempre coinvolgono gli studenti con l’aiuto di insegnanti e genitori. Il progetto è veicolato attraverso incontri con i ragazzi presso i teatri di tutta Italia, un canale YouTube dedicato, un sito web informativo, un libro in versione cartacea e digitale con racconti di storie vere vissute dai ragazzi e dalle loro famiglie. Il progetto ha raggiunto oltre 30 mila ragazzi nei teatri e nel 2020 il primo libro è stato distribuito gratuitamente in 200 mila copie cartacee e oltre 70 mila copie digitali. I reati online contro i minori nell’ultimo anno sono aumentati in modo esponenziale. Complice il lockdown dovuto all’emergenza Covid e l’isolamento forzato dei ragazzi, lontani anche dalla scuola. Ecco quindi nel 2020 una crescita del 77%, rispetto al 2019, di casi trattati di vittimizzazione dei minori per reati quali la pedopornografia, l’adescamento, il cyberbullismo, la sextortion, le truffe online, furto di identità digitale, (2379 casi trattati nel 2019 contro i 4208 trattati nel 2020). E in particolare si registra un incremento del 132% dei casi di pedopornografia online (intesa come la produzione, la diffusione, la detenzione e la commercializzazione di immagini di violenza sessuale su minori, condivise su spazi web, anche anonimizzati), e la crescita del 90% in relazione alle persone indagate (i casi trattati nel 2019 sono 1396, mentre quelli trattati nel 2020 sono 3243; le persone indagate nel 2019 sono 663 mentre nel 2020 sono 1261). Si alza anche il numero delle giovani vittime di adescamento online nella fascia di età sotto i 10 anni: nel 2018 i casi denunciato erano stati 14 casi denunciati, 26 casi nel 2019 e ben 41 nel 2020. Non a caso, anche un fenomeno come quello della sextortion “l’estorsione sessuale conseguente ad uno scambio di immagini sessualmente esplicite”, che sino a pochi anni fa riguardava principalmente adulti o comunque minori che frequentassero le scuole superiori (quindi oltre i quattordici anni), ha fatto registrare un deciso abbassamento in relazione alla fascia di età delle vittime: 14 casi nella fascia d’età 0-13 anni (a fronte dei 2 del 2019); ulteriore elemento di riflessione deve essere il fatto che di questi 14 casi 4 riguardano minori nella fascia d’età 0-9 anni, categoria il cui numero di vittime fino allo scorso anno era pari a zero. Sui rischi che si corrono nel web incominciano a maturare consapevolezza anche i ragazzini. Da un sondaggio emerge infatti che il 55% degli adolescenti è favorevole a un patentino per l’uso sicuro dei social e della Rete. La ricerca è stata condotta per la Polizia di Stato da Generazioni Connesse - il Safer Internet Center Italiano, coordinato dal ministero dell’Istruzione - curata da Skuola.net, Università degli Studi di Firenze e Sapienza Università di Roma. Fra i 2.475 adolescenti delle scuole secondarie che hanno risposto al questionario circa 1 su 4 ritiene, inoltre, che la patente per il web dovrebbe essere persino obbligatoria, al pari di quella per guidare l’automobile o il motorino. Un’esigenza ancora più sentita nella fascia 11-13 anni, dove quasi 1 su 3 a schierarsi in favore di questa soluzione. Sottolineando come una porzione non trascurabile di nativi digitali è consapevole della necessità di formarsi adeguatamente prima di entrare in Rete in sicurezza. Inoltre per il 40,5% la quota d’ingresso ai social media dovrebbe essere fissata a 14 anni, il 14,5% aspetterebbe anche fino ai 16 anni. La direttrice del Dipartimento di Polizia postale del Piemonte e della Valle D’Aosta, Fabiola Silvestri, ribadisce “l’importanza del ruolo dei genitori che devono puntare molto al dialogo con i propri figli. I minori, peraltro, vanno monitorai: i genitori devono diventare i primi follower dei ragazzi per sondare le insidie della Rete. Il lockdown purtroppo ha peggiorato molto la situazione e non si deve assolutamente abbassare la guardia. Oltre che agli uffici della polizia territoriali, ci si può rivolgere online a www.commissariatodips.ti”. Se la nostra libertà la decidono i social: la democrazia non è un Grande Fratello di Michele Marsonet Il Dubbio, 9 febbraio 2021 Che i social network stiano diventando troppo potenti, e a volte si trasformino in veri e propri arbitri della verità, è in fondo cosa già nota. Se ne parla da tanto tempo, senza che nessuno sia riuscito a frenare la loro invadenza. L’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di Donald Trump, e il conseguente oscuramento di tutti gli account del tycoon, ora ripropongono il tema in tutta la sua drammaticità. Senza scordare, ovviamente, che lo stesso Trump non dovrebbe lamentarsi troppo. È stato proprio lui, infatti, a inaugurare la discutibile abitudine di affidare ai social - e in primo luogo a Twitter - i messaggi della sua comunicazione politica. All’inizio l’irruzione dei social fu vista come una benedizione. Si sperava infatti che il loro avvento avrebbe contribuito a diminuire le distanze tra le (cosiddette) élites e il (cosiddetto) popolo, consentendo a ognuno di dire la sua su qualsiasi argomento. Il problema, tuttavia, è molto delicato. Nel secolo scorso Karl Popper, parlando dell’eccessiva violenza presente nei programmi televisivi, invocò una sorta di “censura” volta, per l’appunto, a impedire che la violenza dilagasse. Ci furono subito reazioni sconcertate. Popper è uno dei maggiori rappresentanti del liberalismo contemporaneo, e sentirlo invocare la censura fu una sorta di pugno nello stomaco per molti. La sua risposta non fu affatto soddisfacente. A suo avviso anche la tolleranza ha dei limiti, e questi devono essere fatti valere quando gli intolleranti rischiano di prendere il sopravvento. Formalmente il ragionamento fila ma, dal punto di vista pratico, occorre pur stabilire chi è incaricato di fissare i confini della tolleranza e, soprattutto, chi deve identificare gli intolleranti. Popper se la cavò sostenendo che occorre dotare giornalisti e operatori della comunicazione di una sorta di “patentino” che consentisse loro di svolgere al meglio i loro compiti. Proposta quanto mai astratta e per nulla efficace. Occorrerebbe, infatti, identificare dei “superesperti” etici in grado di tracciare i confini della tolleranza e di identificare senza problemi gli intolleranti. Il problema si ripropone oggi con la pressoché completa cancellazione di Trump dai social. Persino Roberto Saviano, non certo un simpatizzante del tycoon, ha espresso dubbi pesanti. Egli non vede per quale motivo debbano essere proprio i colossi del web a cancellare gli account di qualcuno, chiunque egli sia. La realtà, a ben guardare, è che sono i “padroni” dei social a prendere tali decisioni, per esempio Mark Zuckerberg per quanto riguarda Facebook, e questo fatto si configura come un attentato alla libertà di espressione e alla stessa democrazia. Simili preoccupazioni vengono espresse anche da due delle nazioni europee che fanno parte del “Gruppo di Visegrad”, Ungheria e Polonia. Kaczynski, Orban e i loro sostenitori temono, in altre parole, di essere i “prossimi della lista”, ben sapendo quanto le loro tesi siano impopolari all’estero, e particolarmente nella UE. Gli ungheresi propongono, per esempio, di varare una legge che consenta di regolamentare con forza le operazioni “interne” delle grandi aziende tecnologiche, cercando di recuperare - almeno in parte - la sovranità nazionale che i colossi del web sembrano mettere in pericolo. Proposte simili ormai circolano anche nella stessa Unione Europea, e in Paesi che nulla hanno a che fare con il Gruppo di Visegrad. A Bruxelles qualcuno sostiene un approccio coordinato alla materia. Ma, vista la nota lentezza decisionale dell’Unione, Francia e Germania stanno già pensando a regole nazionali in grado di contrastare il succitato strapotere dei grandi social network. Il problema è che, se consentiamo a pochi multimiliardari, tycoon al pari di Trump, di decidere cosa è lecito pubblicare e cosa no, chi ha il diritto di parlare e chi no, quale futuro ci attende? Un futuro controllato dal “Grande Fratello”, ovviamente, e in molti casi abbiamo già la sensazione che sia proprio così. Ed è pure importante rilevare che non occorre difendere Donald Trump per capire che, oggi, la libertà di espressione corre pericoli sempre maggiori. Anche perché Facebook. Twitter e Google sono aziende private, mentre in questi casi dovrebbe essere un’autorità pubblica a svolgere un effettivo ruolo di controllo. Covid e sovraffollamento, in 246 graziati nello Zambia di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 9 febbraio 2021 Il 27 gennaio scorso, il Presidente dello Zambia Edgar Lungu ha commutato in ergastolo le condanne di 246 detenuti nel braccio della morte: 225 uomini e 21 donne. La conversione delle pene è stata una festa di grazia e giustizia, una festa della giustizia quando è temperata dalla grazia. La cerimonia è avvenuta nella prigione di massima sicurezza di Mukobeko, nella città di Kabwe, ed è stata trasmessa in diretta su Facebook. La commutazione di massa ha aiutato a decongestionare il braccio della morte, la sezione della prigione destinata a 50 persone ma arrivata a contenerne oltre 400. La clemenza - hanno detto le autorità - ha anche lo scopo di proteggere i detenuti dal contagio di Covid-19. Dal 1964, quando lo Zambia è diventato indipendente, sono state impiccate 53 persone. L’ultima esecuzione è avvenuta nel gennaio 1997, quando l’ex Presidente Frederick Chiluba mandò alla forca otto detenuti nello stesso giorno. Da allora lo Zambia non ha giustiziato nessuno, grazie a una moratoria presidenziale inaugurata da Levy Mwanawasa e confermata dai suoi successori Rupiah Banda, Michael Sata ed Edgar Lungu, che si sono sempre rifiutati di firmare i decreti di esecuzione, commutando centinaia di condanne a morte. “Le persone non possono essere mandate al macello come fossero polli. Non firmerò alcun ordine di esecuzione. Non voglio essere il capo dei boia”, aveva detto il Presidente Mwanawasa, un avvocato cristiano battista di forti sentimenti abolizionisti. Per questo suo modo di pensare, di sentire e di agire, gli abbiamo conferito nel 2004 il Premio “L’abolizionista dell’Anno”. Glielo abbiamo consegnato a Lusaka, nel corso di una missione del Senato italiano e di Nessuno tocchi Caino in Zambia, dove siamo ritornati più volte negli anni successivi per sostenere la linea del Governo a favore della moratoria delle esecuzioni in vista dell’abolizione della pena di morte. Abbiamo visitato anche la prigione di Mukobeko, il carcere di massima sicurezza, un luogo di massima concentrazione di carne umana e di disperazione. Anche allora, nel braccio della morte, erano ammassate centinaia di condannati, anche sei per una cella destinata in origine a ospitare una sola persona. I detenuti facevano i turni per dormire su due materassi per terra che uniti componevano una specie di letto matrimoniale. Il bagno per la notte era un bugliolo da svuotare alle sette di mattina, alla riapertura delle celle. Il rancio passava una volta al giorno ed era a base di fagioli, riso, polenta o pesce fritto. In queste condizioni, tubercolosi, scabbia e Aids sono malattie che non perdonano. Nel gennaio del 2015, Edgar Lungu ha prestato giuramento come nuovo Presidente dello Zambia. Anche lui ha fatto visita al braccio della morte di Mukobeko quando ospitava centinaia di persone. “È un affronto alla dignità umana, a parte i problemi sanitari e igienici che il sovraffollamento ha creato”. Edgar Longu è andato oltre l’opera di misericordia corporale “visitare i carcerati”. Li ha anche liberati, muovendosi nel solco di una generazione di presidenti misericordiosi che, nonostante la pena di morte sia prevista dalle leggi del Paese, si sono sempre rifiutati di praticarla. Il 25 maggio 2015, una giornata altamente simbolica, il Presidente ha graziato e liberato 177 prigionieri. Ha anche commutato in ergastolo le pene di 54 detenuti condannati a morte, mentre 41 condannati a vita hanno avuto la loro pena ridotta a 25 anni. È stata la prima volta nella storia dello Zambia in cui alcuni detenuti di Mukobeko sono stati graziati in occasione del Giorno della Liberazione Africana. Il 16 luglio dello stesso anno, è andato oltre. Ha svuotato del tutto il braccio della morte, riducendo in ergastolo le condanne a morte di 332 detenuti. Nel maggio del 2018, il Presidente Lungu ha continuato l’opera di sgombero delle prigioni. Alla vigilia dell’Africa Freedom Day, ha graziato 413 detenuti e commutato le condanne di altre 51 persone che erano nel braccio della morte. Con la commutazione delle pene di questi giorni Edgar Longu ha dato un ulteriore contributo per risolvere il problema cronico del sovraffollamento che affligge il braccio della morte di Mukobeko e tutte le prigioni del Paese, la maggior parte delle quali costruite prima dell’indipendenza dai coloni inglesi che avevano portato nel Paese anche usi e costumi dell’impero britannico. Non solo la guida a sinistra sulle strade, ma anche le punizioni corporali e la forca per le impiccagioni. Da quando è diventato presidente, fatti i conti, Edgar Lungu ha graziato oltre 730 condannati a morte. Ha perdonato i detenuti per decongestionare le strutture di correzione del Paese. Ha graziato i detenuti perché hanno dimostrato di essere cambiati durante il loro periodo di detenzione e di essere pronti a tornare nella società. Ha invitato la società ad abbracciare i detenuti e a non discriminarli in modo tale da poterli integrare pienamente contribuendo così allo sviluppo del Paese. È la parabola felice di Caino che da radice del male diventa costruttore di città. Una lezione per il nostro Paese che continua, invece, ad affollare le prigioni, a rifiutare e differenziare i detenuti, a marchiarli a fuoco sulla pelle con la scritta indelebile: tu non cambierai mai.