Carceri con pochi dipendenti di Alessia Lorenzini Italia Oggi, 8 febbraio 2021 Il calo di organico compromette l’efficacia del sistema. Il giudizio della Corte dei conti sull’attuazione della riforma della polizia penitenziaria. La riduzione della copertura organica del corpo di polizia penitenziaria può compromettere l’efficacia della gestione della sicurezza del sistema di prevenzione pena. È quanto emerso dal rapporto della Corte dei conti sull’attuazione della legislazione di riforma dell’organizzazione della polizia penitenziaria nell’ambito del Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) contenuto nella delibera n. 3/2021/g del 25 gennaio 2021. L’indagine della Corte dei conti si è focalizzata sulla verifica dei profili di efficienza, efficacia ed economicità nel Dap a seguito dell’implementazione della normativa di riorganizzazione del corpo della polizia penitenziaria, nell’ambito dell’attuazione della legge Madia. La Corte ha evidenziato la necessità della conclusione del processo di attuazione della riforma per quanto riguarda il completamento degli organici, ridotti da 45.121 a 41.402 unità complessive, sottolineando la criticità relativa alla carenza di organico e al progressivo innalzamento dell’età media dei dipendenti. La riduzione della copertura organica non ha però comportato i risparmi di spesa attesi di 845 mila euro a decorrere dal 2017, in quanto, alla riduzione del numero degli agenti di polizia penitenziaria si è affiancato un aumento degli agenti di grado superiore, con conseguente incremento di spese per stipendi ed accessori. La Corte ha inoltre rilevato che, in attuazione del Dlgs n. 172/2019, di completamento dei principi di delega sulla riorganizzazione dei corpi di polizia, sono state rideterminate le dotazioni organiche dei ruoli tecnici e di polizia nell’ambito della cooperazione internazionale tra gli stati europei al- fine di contrastare il terrorismo, la criminalità transfrontaliera e l’immigrazione illegale. Inoltre ha evidenziato come siano state attivate tutte le quattro linee di analisi a supporto del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del Dna. Sotto il profilo formativo, la Corte ha preso atto dell’organizzazione di numerosi corsi su tutto il territorio nazionale, per i quali si è riscontrato un ingente investimento economico e un’elevata partecipazione del personale. Se dilaga l’abuso di potere di Luciano Violante La Repubblica, 8 febbraio 2021 Dal caso Palamara ai pestaggi in cella. Un filo nero unisce i fatti di Piacenza, i pestaggi nelle carceri di Torino, le vicende nelle quali è coinvolto il dottor Palamara. Si tratta dell’abuso di potere. Funzionari ai quali la Repubblica ha consegnato poteri rilevanti sulla vita, l’integrità fisica, la reputazione, il patrimonio dei cittadini, al fine di garantire il rispetto delle regole, le hanno violate ripetutamente per trarne vantaggi personali o economici o di prestigio o di altro genere. Il potere ha un volto diabolico perché se esercitato senza etica può portare allo schiacciamento dell’uomo da parte di un altro uomo. L’etica del potere è costituita dal suo esercizio in modo conforme alle ragioni per le quali quel potere è stato concesso. Nei casi indicati il potere è stato esercitato in modo difforme dalle finalità per le quali è stato concesso. Di qui l’abuso. Poco conta dire che si tratta di mele marce. Se non fossero eccezioni non saremmo in democrazia. Il problema centrale è diverso. La nostra società sta assumendo caratteri che consentono e tollerano comportamenti abusivi. Una cultura egocentrica ha posto l’esercizio del potere e la sua ostentazione al centro delle aspirazioni delle persone. Ha conseguentemente indotto ad ignorare la funzione del limite nella organizzazione delle società democratiche e ha animato una cultura del consumo per l’affermazione individuale. Basta seguire alcune raffinate pubblicità per cogliere l’invito frequente a superare i limiti per essere veramente sé stessi. In sostanza quella pubblicità ci dice che non puoi essere te stesso se resti nelle regole della comunità; per essere te stesso devi superare quelle regole e io ti offro il prodotto per farlo. Una seconda caratteristica è la cultura del successo. Conta quello che si ottiene, indipendentemente da come lo si ottiene. Se si ottengono risultati soddisfacenti si possono chiudere gli occhi sui metodi usati per ottenerli. Il successo è di per sé motivo di soddisfazione e lo si dimostra con il possesso. Le vacanze in alberghi di lusso che sarebbero state offerte al dottor Palamara e ai suoi cari da ricchi questuanti o l’esibizione di champagne di marca da parte dei carabinieri di Piacenza stanno a segnalare il raggiungimento di uno status sociale superiore. Nei tre casi citati gli abusi non sono avvenuti in segreto; ma non sono stati fermati. A Piacenza perché consentivano di alimentare le statistiche, a Torino perché mantenevano nelle carceri un ordine seppure dettato dal terrore, a Roma perché permettevano ai magistrati consenzienti di accedere a benefici di carriera che altrimenti sarebbero stati preclusi. Il principio che sembra prevalere è: se posso farlo, lo faccio. Sembra un principio liberale. È in realtà la tomba del liberalismo e può diventare l’agonia dei regimi democratici. Perché il liberalismo senza regole accresce le iniquità. Si è visto con l’esperienza del Covid. I leader che più caratterizzano sé stessi per la predicazione liberale, Trump, Bolsonaro, Johnson, non sembra abbiano adottato efficaci politiche di contenimento del virus perché ispirati ad una radicale diffidenza per le regole. Si sono rivelate più efficaci le risposte italiana e tedesca perché frutto di un buon equilibrio tra la cultura dei diritti, propria del liberalismo e il senso del dovere, proprio invece della cultura repubblicana. Una severa e rapida punizione nei casi citati, qualora le responsabilità fossero accertate, sarà necessaria. Ma è altrettanto necessario un impegno da parte delle classi dirigenti per introdurre nella nostra società il senso del limite e il senso del dovere. Prescrizione: i nuovi “alleati” preparano la festa ai Cinquestelle di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 8 febbraio 2021 Il governo Draghi non è ancora nato e rischia già di spaccarsi proprio sul tema che ha provocato la caduta del Conte 2: la giustizia. E in particolare la prescrizione, tema che da sempre scatena gli appetiti di Silvio Berlusconi, Matteo Renzi e Matteo Salvini che faranno parte della prossima maggioranza. L’assalto alla riforma Bonafede, approvata dal governo Lega-M5S e che dal 1° gennaio 2020 ha bloccato la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, si trova nel fascicolo di emendamenti al decreto Milleproroghe in discussione in commissione Affari Costituzionali della Camera e che dovrà essere convertito entro il 1° marzo. Gli emendamenti per cancellare la “Spazzacorrotti” e tornare alla vecchia legge Orlando - che bloccava (inutilmente) la prescrizione per un anno e mezzo dopo il primo grado e l’appello, ma solo in caso di condanna - sono stati presentati da quasi tutti i partiti della prossima maggioranza: Enrico Costa (avvocato eletto con Forza Italia e passato ad Azione) e il radicale Riccardo Magi chiedono che la norma Bonafede sia cancellata per far rivivere la legge Orlando. Anche tre deputati di Italia Viva - Lucia Annibali, Marco Di Maio e Mauro Del Barba - chiedono l’immediata sospensione della norma almeno fino al 31 dicembre 2021 in attesa di una riforma del processo penale, mentre i forzisti Francesco Paolo Sisto e Pierantonio Zanettin e nove deputati della Lega hanno firmato due emendamenti per spazzare via la legge Bonafede fino al 2023 e tornare alla normativa precedente. Anche se il Pd non ha presentato emendamenti, i dem hanno fatto capire che vorrebbero il superamento della norma sulla prescrizione visto che, a pochi giorni dalla presentazione della relazione sulla Giustizia di Bonafede alle Camere (mai avvenuta perché nel frattempo Conte si era dimesso), lo stesso Orlando aveva iniziato a riscrivere il testo indicando nella prescrizione uno dei punti da modificare: i dem difficilmente non voteranno un emendamento per tornare a una legge voluta dal Guardasigilli del governo Renzi e oggi vicesegretario del partito. “Vedremo, non c’è ancora il governo”, glissa un deputato dem. Resta contrario solo il M5S che hafatto dello stop alla prescrizione una delle proprie bandiere. Già prima della caduta del governo Conte, in commissione Affari Costituzionali di Montecitorio i giallorosa non erano più autosufficienti (24 a 24) ma, con la nuova maggioranza con tutti dentro, gli emendamenti contro la legge Bonafede potrebbero avere la strada spianata. E così, una volta nato, il governo Draghi si troverà subito una gatta da pelare: il suo primo atto sarà quello di dare il parere sugli emendamenti del Milleproroghe e la maggioranza rischia di spaccarsi. Conterà molto chi sarà il ministro della Giustizia che però, come hanno chiesto IV-FI-Lega, dovrà mostrare discontinuità rispetto a Bonafede. Il voto dovrebbe essere all’inizio della prossima settimana. Ma a creare un altro grattacapo nella nuova maggioranza potrebbe essere anche una proposta di legge presentata sabato dal M5S a prima firma Francesco Berti e sostenuta da una trentina di deputati grillini che, se approvata, vieterebbe a chi ha incarichi politici di fare conferenze all’estero pagato da stati stranieri. Una norma che andrebbe a colpire Renzi che durante la crisi di governo è volato a Riad per intervistare Mohammed Bin Salman pagato da una fondazione saudita. Il Ddl vieta “a premier, ministri, sottosegretari, deputati e senatori” di ricevere “contributi e prestazioni” da governi o enti pubblici di Stati esteri “superiori a 5.000 euro annui”. Chi lo fa decade dalle proprie funzioni dopo un voto della Camera di appartenenza. Una bomba che rischia di esplodere nella prossima maggioranza. Per la sentenza ci vogliono due anni, ma la gogna scatta subito di Viviana Lanza Il Riformista, 8 febbraio 2021 I tempi dei processi sono diventati più lunghi. Colpa del Covid si dirà. Sta di fatto che la giustizia diventa sempre più lenta, e quindi sempre meno giusta. Nel settore penale i tempi dei procedimenti sono assai variabili, dipendono dalle fasi in cui si trova il processo, dal numero di imputati, dalla complessità delle fonti di prova da analizzare. Tuttavia, secondo l’ultimo report sulla giustizia napoletana presentato in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, la metà dei processi definiti nel 2020 in primo grado, dinanzi al tribunale collegiale, ha avuto una durata superiore ai 2 anni, per cui su 558 processi definiti 242 hanno avuto un tempo superiore ai due anni, mentre solo 129 si sono risolti in 6 mesi e appena 73 entro l’anno, mentre per i dibattimenti dinanzi al giudice monocratico il bilancio del 2020 ha fatto registrare, su 10.310 processi definiti, 4.229 con durata superiore ai due anni e solo 1.696 chiusi entro i sei mesi. Meno biblici i tempi della definizione delle udienze preliminari e dei riti abbreviati, il che appare anche scontato visto che si tratta di una tappa del processo che, lo dice anche il nome, prevede un’accelerazione sui tempi del processo evitando di ascoltare testimoni in aula e basando la valutazione sui soli atti del fascicolo. Ebbene, nel 2020 quasi tutte le udienze davanti a gip/gup sono state definite in tempi rapidi, per cui dei 19.995 procedimenti ben 17.346 sono stati definiti entro sei mesi. Quanto alle indagini, i tempi variano a seconda della complessità dei casi e della tipologia dei reati contestati: nell’ultimo anno si sono contati 6.725 fascicoli che si trascinano da oltre due anni e 18.934 definiti in sei mesi su un totale di 35.896 casi finiti sotto la lente della Procura di Napoli. Il vero collo di bottiglia della giustizia napoletana resta, tuttavia, la Corte di Appello dove, nonostante gli sforzi organizzativi per compensare le croniche carenze di organico tra il personale della magistratura e quello amministrativo, i tempi di definizione non sempre sono stati inferiori ai due anni e la prescrizione è intervenuta nel quasi 40% dei casi, quindi quasi nella metà dei processi approdati in secondo grado. Che giustizia è questa? Viene da chiederselo: chi è vittima aspetta una giustizia che arriva molto in tardo o addirittura non arriverà mai e chi è innocente deve aspettare troppi anni prima di vedere riabilitate la propria immagine, la propria onestà, la propria professionalità. Basta leggere le cronache di questi ultimi giorni per capire di cosa parliamo: l’ex parlamentare antimafia Lorenzo Diana è stato scagionato, con inchiesta archiviata, dopo 1991 giorni di attesa; l’avvocato penalista Raffaele Chiummariello è stato scagionato, con caso archiviato, dopo più di dieci anni di indagini; il regista e professore dell’Accademia di Belle Arti Stefano Incerti è stato scagionato per il caso di abusi sessuali ai danni di studentessa che un anno fa aveva fatto nascere l’inchiesta della Procura di Napoli e sollevato un gran polverone mediatico con tanto di gogna social (gogna che per il prof ora continua visto che si sta indagando sull’accusa di un’altra studentessa che dopo il clamore del primo filone investigativo ha raccontato di essere stata palpeggiata all’uscita di un’aula nel 2015). E proprio la gogna social e mediatica è l’altro risvolto di indagini e processi subito spettacolarizzati ma definiti poi in tempi tutt’altro che ragionevoli. Infine c’è la prescrizione, quella su cui il presidente della Corte d’Appello Giuseppe De Carolis di Prossedi si è soffermato analizzando i dati del bilancio giudiziario del 2020: “È una sconfitta per la giustizia e determina la sostanziale impunità per tutti i reati cosiddetti minori, tra cui anche alcuni particolarmente allarmanti come le truffe agli anziani o le lesioni personali. Ma d’altra parte in assenza della prescrizione la pendenza inevitabilmente salirebbe e aumenterebbe la durata dei processi, con la conseguenza che l’imputato eventualmente innocente rimarrebbe sotto processo per un tempo lunghissimo e anche un’eventuale condanna che giungesse a molti anni di distanza dai fatti rischierebbe di essere inutile”. Intelligenza artificiale e robot snelliranno la giustizia di Barbara Millucci L’Economia - Corriere della Sera, 8 febbraio 2021 L’Ue si sta muovendo per implementare, attraverso l’intelligenza artificiale e la robotica, la digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni e degli uffici giudiziari. L’obiettivo è rendere la giustizia più efficiente, utilizzando sistemi predittivi che potrebbero affiancare il giudice nella fase decisoria o gli avvocati nell’istituzione di una pratica. Per Stefano Trifirò dello studio legale Trifirò & Partners ci si sta muovendo nella giusta direzione. “Gli strumenti di legal analytics - dice - dove confluiscono discipline come data science, intelligenza artificiale, machine learning e natural language processing, consentono di individuare le tendenze e fare previsioni relative proprio alle decisioni giudiziarie. La giustizia predittiva, basata sull’uso dell’intelligenza artificiale e della robotica, non sminuirà il lavoro dell’avvocato e del magistrato. Tutt’altro”. Il machine learning può essere un grande supporto nell’attività dei tribunali. Sul mercato esistono numerosi software che leggono e analizzano documenti legali e l’intelligenza artificiale è di grande aiuto nell’automatizzare ed eseguire molti di questi compiti. “Il Recovery Plan Italia, inoltre, si prefigge proprio questo - dice Trifirò: la digitalizzazione dei procedimenti giudiziari e l’accelerazione dei tempi della giustizia, nonché l’istituzione dell’Ufficio per il processo nel quale i giudici professionali potrebbero avvalersi di personale tecnico di supporto con software e strutture digitali”. Il progetto prevede anche l’istituzione di sette centri sulle tecnologie emergenti, con personale qualificato, e di un centro nazionale per l’intelligenza artificiale. La ricerca con tecniche di legal analytics è ancora ad uno stato embrionale e si svolge in pochissimi centri di ricerca. “Lo Iuss di Pavia, ad esempio, svolge un’intensa attività di ricerca proprio in ambito giuridico usando intelligenza artificiale e nozioni di linguistica - dice Trifirò. All’interno è nato il primo Centro di ricerca su Intelligenza artificiale, tecnologia e diritto per sviluppare la ricerca con tecnologie linguistiche e informatiche”. Un primo passo per la rivoluzione forense. Raffaele Della Valle: “Il prossimo Guardasigilli deve essere un manager” di Filippo Facci Libero, 8 febbraio 2021 L’ex onorevole di Fi: “Il Parlamento è molto scaduto. I tecnici? Bisogna vedere se li fanno lavorare. Cancellare la riforma della prescrizione, sfoltire il Codice e... più competenza”. L’avvocato Raffaele Della Valle, 81 anni, è uno dei più grandi penalisti d’Italia. Tra i fondatori di Forza Italia, dopo una breve esperienza politica è tornato all’avvocatura nel 1996. Avvocato Della Valle, lo farebbe il ministro della Giustizia nel governo Draghi? “No” Come no? “No. Credo che non sarei all’altezza” Non sarebbe… all’altezza? Ma ha presente il ministro uscente? La prima volta che intervistai Raffaelle Della Valle fu esattamente trent’anni fa, e la cosa che è cambiata meno, in questo tempo, è la giustizia italiana. Per chi venisse da Marte: Della Valle è uno dei più celebri penalisti italiani e negli anni Ottanta divenne noto per il caso di Terry Broome e naturalmente per il caso di Enzo Tortora, in cui chiunque intravede una preistoria dell’era attuale: nel senso che la giustizia fa schifo uguale, oggi, nonostante sia cambiato un Codice Penale e tante altre cose, all’apparenza. Politico a tempo perso nel Partito Liberale, fu tra in fondatori di Forza Italia e divenne capogruppo alla Camera e segretario della medesima, questo prima di lasciare repentinamente ogni incarico istituzionale e tornarsene al suo studio nel centro storico di Monza. Oggi ha 81 anni, ha ancora tutti i capelli e frequenta il Tribunale - dice - da 77 anni. Com’è possibile? Faceva l’avvocato a quattro anni? “Sono figlio di una casalinga pavese e di un magistrato partenopeo. Quando mio padre divenne pretore a Monza, la nostra abitazione era dentro il Palazzo di Giustizia. La professione la svolgo da 58 anni”. E non ha sufficiente esperienza per fare il ministro? “No, ma è bello che me lo chiediate”. Cioè: domani le telefona Draghi e lei che cosa risponde? “Mi accerterei che non fosse Scherzi a parte o Striscia la notizia. Non fosse così, risponderei che fare il Guardasigilli è un’attività manageriale che implica soprattutto capacità di fare organizzazione, coordinamento, dettare una linea, rapportarsi a una squadra di collaboratori capaci che non si possono improvvisare. Il ministero è una struttura che ti fagocita, io sono più individualista”. Ma non glielo chiesero già nel 1994 e dintorni? “Se n’era parlato, in ogni caso non andò in porto”. Poi Lei nel 1996 tornò all’avvocatura. Si dice che non volle più fare il deputato perché guadagnava troppo poco. “Non è proprio così. È vero che il mio studio era una grossa macchina che si era fermata: non coprivo più neanche le spese anche perché andavo a Roma la domenica sera e tornavo il venerdì, mi chiamavano il monaco del Parlamento. In studio non avevo ancora, come dal 2001, l’apporto dei miei due figli. Ma ero anche deluso da una politica che mi sembrava una fatica di Sisifo, bastava mezzo emendamento per mandare all’aria mesi di lavoro. Ti ritrovavi di continuo a confronto con gente incompetente. Ciò non toglie che ancor oggi ringrazio Silvio Berlusconi per avermi dato questa possibilità. Però oggi dico, soprattutto ai giovani: in Parlamento non stateci più di cinque anni, quello è un altro mondo, una dimensione a parte”. Oggi molti parlamentari non hanno neanche un mestiere a cui tornare. Per i manager più capaci e affermati, viceversa, il Parlamento sarebbe una diminutio. “In Parlamento dovrebbe andare solo gente già affermata. Invece, così, finirà che ci andranno solo poveracci col reddito di cittadinanza o ricchi sfaccendati. Occorrerebbe rialzare il livello, la volontà di partecipazione, non limitarsi ad alzare il pollice a comando o fare il pigiabottoni. Servirebbe cuore e cervello. Oggi un amministratore di una grande azienda guadagna anche 30 o 40mila euro al mese: pensi se dovesse diventare l’amministratore di un’azienda che si chiama Italia. Per questo favorirei una scuola specifica per favorire un mestiere specifico: non è che conoscere il codice di procedura penale sia sufficiente per fare il ministro della Giustizia”. E Bonafede? “Bonafede… capisco, per l’amor del cielo. Bisognerebbe tornare coi piedi per terra e comprendere i propri limiti. Oggi sono convinto che se si chiedesse a cento italiani se andrebbero a fare il presidente degli Stati Uniti, in buona parte risponderebbero subito di sì. È pieno di ragazzotti che vogliono guidare un Jumbo. Il Parlamento è molto scaduto, e anche i cosiddetti tecnici bisogna vedere se li faranno lavorare”. Che cosa consiglierebbe di fare, in primis, a un nuovo ministro della Giustizia? “È tanto se avrà il tempo di cancellare la disgraziata riforma della prescrizione, quella che ti lascia sub judice sine die, sotto il giogo della giustizia per una vita”. E che allunga ancor di più i tempi. Lei che cosa farebbe per abbreviarli? “C’è da sfoltire il Codice e depenalizzare. Io partecipai alla Commissione Nordio, a questo finalizzata, e facemmo un lavoro bellissimo, fatto da 25 specialisti. Introducemmo anche i reati ambientali. Poi seguì la Commissione Pisapia. Gente competente, non come oggi che passi in tv e diventi ministro”. Ma gli avvocati hanno interesse a depenalizzare? “In generale no. A Monza all’inizio eravamo in 99 e c’erano ancora grandi aziende, un sacco di gran lavoro. Oggi a Monza ci sono tremila avvocati che devono inseguire reati bagatellari o difendere extracomunitari. Anche la nostra categoria va riformata, bisogna favorire una selezione più rigida e avere il numero di legali che hanno Francia e Inghilterra. La soglia di preparazione va elevata”. Altre cose da fare? “Potenziare gli uffici. Manca il personale, gli ausiliari, le strutture. Ci sono le aule da rifare: ora, da certe, se ne potrebbero ricavare dieci. Poi bisognerebbe limitare le possibilità di impugnazione, mettere dei limiti ai ricorsi dilatori in Appello e in Cassazione. Io poi di Cassazioni ne farei tre: una al Nord, una al Centro e una al Sud, come prevedeva anche il Codice Zanardelli (in vigore nel Regno d’Italia dal 1890 al 1930, ndr). Oggi molti dei migliori magistrati non sono disposti a piantare tutto per trasferirsi nella Capitale: così al Palazzaccio senti solo accenti romani o napoletani”. È vero che i magistrati lavorano poco? “Lavorano male, hanno carichi enormi per i citati motivi. Poi ci sono collegi giudicanti troppo nutriti, ci vorrebbero più giudizi monocratici. In primo grado sono in tre, già in Appello potrebbero essere meno. I giudici a latere potrebbero fare altro”. La madre di tutte le riforme da fare? “La separazione delle carriere tra pm e giudice, come dico da più trent’anni e come diceva anche Paolo Barile (celebre costituzionalista, ndr). Non sto neanche più a spiegare perché sarebbe necessaria: come in ogni luogo di lavoro, anche negli uffici giudiziari fra colleghi nascono amicizie, complicità e talvolta si intrecciano storie personali. È chiaro che parleranno anche di fascicoli, inquisiti e imputati. Ma non basterebbe neppure la separazione delle carriere, probabilmente. La verità è che siamo tornati al Medioevo”. Per il tradimento sostanziale del nuovo Codice? Io, trent’anni orsono, feci in tempo a intervistare Giandomenico Pisapia, padre di Guliano e relatore del Nuovo Codice; mi disse testualmente: “È il processo che è pubblico, non le indagini”. “Oggi accade esattamente il contrario. I processi, dove la prova dovrebbe formarsi, non li segue più nessuno. Un tempo le aule erano gremite, oggi la gente si è già preconfezionata una propria sentenza, i processi li hanno già fatti sulla stampa, in quei terribili programmi in tv. Ma c’è altro. Il Medioevo è nelle misure di prevenzione, in procedimenti impostati dal principio in base a indizi e sospetti, con misure cautelari, sequestri, confische. Le procure distrettuali antimafia, in particolare, hanno un potere che rispetto alle procure ordinarie è megagalattico: dai trojan ai droni, sono in condizione di mettere in soggezione anche i giudici ordinari. Ci sono un pugno di procure che praticamente conoscono i fatti privati delle prime dieci/dodici città d’Italia, lo strapotere e l’invasività dell’accusa è devastante. Intanto i parlamentari continuano ad alzare le soglie di reato e a cancellare le misure di affidamento: e ben vengano le condanne ben istruite, ma in questo modo, per non rischiare, finisce che un patteggiamento (sostanziale adesione alle tesi dell’accusa, ndr) deve accettarlo anche chi è o si ritiene innocente. È chiaro che più alzi l’asticella delle pene, più l’avvocato diventa inutile”. E noi giornalisti, in tutto questo? “Andreste riformati anche voi, non so come. In maggioranza siete succubi dei pm, contanti saluti alla difesa. Oggi pontificate in tv come fanno, pure, alcuni magistrati: ai miei tempi non avrebbero osato. Un tempo non esistevano neppure le conferenze stampa dell’accusa, dove peraltro gli avvocati non vengono invitati”. Lei ha continuato a fare l’avvocato e vuole continuare a farlo. Perché, in due parole? “Perché voglio continuare a essere un uomo libero”. Il Cfn resta senza vertici e i consiglieri ineleggibili decidono per l’appello di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2021 Sta assumendo i contorni di una storia senza fine quella che vede il Consiglio nazionale forense continuare a lavorare a ranghi ridotti, dopo che 9 consiglieri, tra cui il presidente Andrea Mascherin, sono stati dichiarati ineleggibili dal Tribunale di Roma. Anche in questo caso si tratta di elezioni, che però dovrebbero essere indette per sostituire gli esclusi e sulle quali non c’è certezza. E ancora di meno ora che la palla è ritornata nel campo dei giudici. Otto dei nove consiglieri hanno, infatti, presentato appello, con richiesta di sospensiva dell’ordinanza del tribunale capitolino che a settembre scorso li ha estromessi perché avevano alle spalle già due mandati consecutivi come componenti del Cnf. Il terzo non è consentito se prima non si sta fermi almeno un giro. Per arrivare a chiarire la questione sono state necessarie diverse sentenze, fino a quelle di Cassazione e Corte costituzionale, che hanno permesso di arrivare al verdetto di settembre. Nel dichiarare l’ineleggibilità dei nove, il giudice aveva, tuttavia, dichiarato che esiste una lacuna normativa che non permette di dare indicazioni dettagliate su come comportarsi. Vanno certamente rifatte le elezioni, ma solo il ministro della Giustizia può dire in che tempi e con quali modalità. Da via Arenula, però, finora non ci sono state indicazioni e, vista la crisi di Governo, non arriveranno a breve. Tanto più che si è rimessa in moto la macchina del contenzioso, con l’appello, che vede partecipe anche il Cnf, della decisione del Tribunale di Roma. Per ora l’unica certezza è che se ne riparlerà il 3 giugno: è la data per la discussione di merito stabilita giovedì scorso dal giudice d’appello nel corso dell’udienza durante la quale sono emerse irregolarità nella notifica degli atti alle parti in giudizio, difetto da sanare entro il 25 febbraio. Analoghi vizi erano stati rilevati nell’udienza del 7 gennaio per la sospensiva, la quale potrà essere rimessa in pista una volta sanate le irregolarità di notificazione. “Al di là della legittimità di ciascuno a perseguire la via giudiziaria - commenta Michelina Grillo, tra i convenuti dell’appello - c’è da riflettere sull’opportunità politica della prosecuzione del contenzioso e sull’impatto negativo che provoca sulla categoria il fatto di avere un Cnf depotenziato mentre si stanno per prendere decisioni importanti per l’avvocatura”. Caso Palamara, punirne uno per salvarne tanti di Bartolomeo Romano Il Riformista, 8 febbraio 2021 La metafora ciclistica dell’uomo solo al comando: questa sembra essere stata la semplice linea difensiva del sistema. Un uomo, solo, a guidare la potente Anm; un uomo, solo, nei corridoi, nelle stanze e nel Plenum del Csm. A volte, in effetti, la linea difensiva più semplice è anche la migliore. A volte. Non mi iscrivo nelle liste di innocentisti o di colpevolisti: noto, però, che Palamara è stato segretario e presidente dell’Associazione nazionale magistrati (2007-2012), e poi membro del Consiglio Superiore della Magistratura (2014-2019). Difficile pensare che, da solo, percorresse corridoi e prendesse decisioni. Ho l’impressione che vi sia stata una certa voglia di “pena esemplare” (al di là e oltre le eventuali responsabilità individuali). Ma non per punire uno al fine di educare tanti; piuttosto, per punire uno e salvare tanti. Palamara è stato fulmineamente espulso dalla Anm e, con un procedimento disciplinare non consueto, è stato radiato dalla magistratura, credo di poter dire senza troppi approfondimenti e senza ascoltare i molti testimoni che avrebbe voluto citare. E nel collegio giudicante ha tenuto a rimanere Davigo, nonostante stesse per andare in pensione, probabilmente nel quadro del puro che emenda il più puro (o quello che una volta si riteneva tale: qualcuno ricorderà lo scontro Cossiga-Palamara…). Può accadere, però, che l’esemplare risposta del sistema si inceppi, anche a dispetto di un certo efficientismo punitivo. È quello che mi sembra sia accaduto in quello che è stato generalmente etichettato come “il caso Palamara” e che invece tende a nascondere, dietro il semplicistico capro espiatorio, un problema di sistema, come il libro-intervista di Sallusti a Palamara crudelmente rivela. Certo, occorrerà verificare se le verità di Palamara sono tutte verità effettive; ma l’impressione è che non si potrà più fare finta di niente. Mi viene alla mente la rivoluzione francese: certo, nata con nobili ideali, ci ha lasciato tracce indelebili, come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e la separazione dei poteri. Ma che - in chiave di superamento dell’ancien régime e della affermazione del nuovo - ha visto una corsa del puro superato dal più puro, con molte teste cadute sulla gigliottina, Comitati di salute pubblica, Terrore, legge dei sospetti. Sino a giungere, nel 1794, all’arresto di Robespierre e dei suoi collaboratori, il giorno successivo ghigliottinati senza processo. Di qui il Termidoro, la ricerca di nemici esterni e le guerre napoleoniche: ma la storia è nota. Tuttavia, a ripercorrere quella storia, mi vengono ancor oggi i brividi perché non mi sembra così lontana. Dopo la radiazione di Palamara, il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura ha preso atto della intervenuta pensione da magistrato di Davigo e ha concluso, secondo me a ragione, che egli non potesse continuare a rimanere al Csm quale Consigliere “togato”. Anche il puro più puro è stato dichiarato decaduto dal Csm… Invece, in un Paese serio, da quanto accaduto sarebbero derivate conseguenze serie. Sarebbe dovuta intervenire una riforma della legge elettorale del Csm che impedisse alle correnti di regnare (io ho sempre pensato a un sistema misto, con un ampio sorteggio e poi una votazione tra i sorteggiati). Certo, neppure questa sarebbe una riforma radicale, poiché toccherebbe il solo sistema elettorale; ma qualcosa è meglio di niente. Per essere chiari, a mio modo di vedere, una seria riforma dovrebbe attuare l’art. 111 della Costituzione, con l’ovvia e naturale separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici (ma evitando che i p.m. possano dipendere dall’esecutivo). Di qui, ovviamente, la presenza di due diversi Consigli Superiori della Magistratura: uno per i pubblici ministeri e uno per i giudici. Analogamente, occorrerebbe affrontare anche le diverse, ma connesse, questioni delle cosiddette porte girevoli (magistrati che entrano in politica e poi tornano a fare i magistrati) e del numero troppo elevato di “fuori ruolo” (magistrati autorizzati dal Csm, su richiesta della politica o di vari organi, e di loro stessi, a occuparsi di altro, rispetto alle questioni di giustizia). Se non saremo capaci di comprendere cosa è accaduto, e perché è accaduto, ci limiteremo - al massimo - a colpire la punta dell’iceberg. E la nave della giustizia tenderà sempre a galleggiare, riuscendoci solo a volte. E tutto sembrerà mutare, ma non cambierà nulla. Forse non è un caso, come ricordai ai miei Colleghi durante una seduta del Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, che a Roma, a pochi metri dal Palazzo dei Marescialli, sia morto Giuseppe Tomasi di Lampedusa, mio illustre concittadino. Il lungo (lunghissimo) corso della giustizia di Eduardo Cicelyn Corriere del Mezzogiorno, 8 febbraio 2021 Quando i carabinieri ti vengono a trovare non è che proprio sei contento. Questa volta però sentivo di meritare una bella notifica. C’era una bella giornata di sole. Propendevo all’ottimismo. E poi - pensavo tra me e me - se devono recapitare una brutta notizia in genere si presentano a casa, di prima mattina, e non sono molto gentili. A me, per esempio, era successo nei primi giorni del 2018 di prendere un amaro caffè alle 6 del mattino con alcuni militari venuti a cercare quadri falsi nella mia abitazione. All’epoca feci anche un po’ lo spiritoso, sfidandoli sull’attribuzione di certe opere astruse aggrappate alle mie pareti, strane immagini timorose e divertite di esser scambiate quasi sempre per sgorbi insignificanti che anche un bambino può fare. Chiunque abbia in casa un’opera contemporanea ha dimestichezza con gli sguardi di sufficienza e i commenti ironici di parenti, fornitori e visitatori occasionali. Allora i carabinieri non trovarono o non seppero riconoscere i falsi, però mi condussero in caserma per scaricare tutte le chat dal telefonino e interrogarmi su un presunto giro di falsari sul quale la procura indagava da tempo. Dal documento che mi mostrarono seppi di essere anche io (forse) del giro. Insomma ero tra gli indagati. Mi veniva da ridere, lo ammetto. Ho sempre lavorato con artisti viventi, i quali avrebbero dovuto falsificarsi da soli perché io potessi collaborare all’infame mercimonio. Tuttavia, scartabellando tra i ricordi minimi, mi tornò in mente un piccolo disegno di Piero D’Orazio che avevo venduto a un collezionista l’anno prima, dunque molti anni dopo la morte dell’autore. L’avevo avuto da un amico spensierato che ho perso con dolore l’anno scorso. All’apparenza era ben fatto, ben firmato, ben documentato e anche archiviato. Dissi ai carabinieri che l’avrei ripreso e consegnato loro perché potessero verificarne l’autenticità. Lo feci subito. Cioè oltre tre anni fa. Questo non impedì che sui giornali locali, rigorosamente in prima pagina, (solo) il nome mio venisse pubblicato come autore insieme ad altri sconosciuti di una probabile truffa ai danni di alcuni collezionisti a me peraltro ignoti. Nessuna meraviglia, è chiaro. Come ha scritto qualcuno o forse io stesso, non ricordo, dalle nostre parti i giudici fanno indagini sociologiche e i giornali emettono sentenze. Tant’è che non si è saputo più niente di quell’inchiesta, ma tutti ricordano che io e altri (forse) producevamo e facevamo circolare false opere d’arte. L’ha scritto il giornale, l’hanno detto in televisione: una qualche verità pure ci sarà. Dunque, quando l’altro ieri dalla stazione dei carabinieri nella quale fui a lungo interrogato hanno fatto sapere che c’era una notifica da ritirare, io ingenuamente ho pensato che qualcosa di buono avrei saputo delle indagini. Avendo la coscienza a posto, insomma ero quasi convinto che m’avrebbero riaffidato il quadro di D’Orazio insieme con qualche documento che mi restituisse il poco onore ancora rimasto. Niente di tutto questo. Manco a dirlo, state pensando voi. E infatti non faticherete a mettervi nei panni miei, quando ho letto che si trattava della notifica di un vecchio provvedimento. Ieri sono andato in caserma solo perché il gip voleva comunicarmi che il 17 dicembre del 2018 le indagini a mio carico erano state prorogate. Ho impiegato due anni per saperlo. Così, per ingannare il tempo passato, presente e chissà quanto altro a venire, ho cominciato a figurarmi la scena alla moviola dei due pm Alessandra Converso e Maria Teresa Orlando intrappolate in “complesse attività di indagini assolutamente indispensabili” che implorano il gip Rosa de Ruggiero di concedere tempo ulteriore in attesa di relazioni tecniche su decine di quadri di autori diversi. Hanno commissionato un bignamino della storia dell’arte, la cui scrittura sarà stata affidata a prezzo di saldi a qualche studioso bisognoso, mentre i carabinieri da due anni piantonano l’uscio delle stanze dei magistrati indecisi sul da farsi. Un amico misogino ha commentato tra i denti che in fondo è solo una questione di donne, che in genere sono molto studiose ma anche troppo indaffarate in tante cose diverse, tra famiglia e lavoro. Mi dispiace l’immagine. Sono della scuola che la giustizia non ha sesso né partito e che debba fare il suo corso, ma questo lungo, lunghissimo corso - devo ammetterlo - mi molesta. A me ormai sembra piuttosto una giustizia fuori corso, insomma un’ingiustizia. Dunque, agli inquirenti - e uso il maschile absit iniuria verbis - vorrei indirizzare una piccola preghiera. Di grazia, potrei sapere in qualche modo se tre anni fa ho davvero commerciato un’opera falsa? Se tale però non è, per cortesia, ne gradirei la restituzione. Sapete com’è, quelli come me non vivono di pubblico stipendio. Una compravendita, per quanto minima, è lo scopo del mio lavoro. Onesto, fino a prova contraria. Napoli. I bambini invisibili sulla strada della camorra di Gennaro Pagano* Il Mattino, 8 febbraio 2021 Ho molto apprezzato quanto ha scritto sulle pagine di questo giornale Paolo Siani circa l’esigenza di un piano nazionale per l’Infanzia, la cui necessità è da lui costantemente e lodevolmente richiamata in sede parlamentare e in ogni altro ambito idoneo. Tempo fa ci siamo confrontati telefonicamente anche sull’idea e sulla necessità anche di un “Patto educativo per la Città metropolitana” a cui, insieme ad altri, sto lavorando. In questo tempo difficile, i segni e le parole di don Mimmo Battaglia, nuovo Arcivescovo metropolita di Napoli, nel giorno del suo ingresso, fanno ben sperare che la tragica situatone della povertà educativa partenopea sia messa al centro di un dibattito autentico tra istituzioni, chiesa, società civile e terzo settore. Tuttavia ogni sforzo e iniziativa rispetto al piano di cui parla il caro Paolo Siani potrebbe risultare vano perché, laddove venisse approvato un piano per l’infanzia capace di stanziare fondi straordinari, non è detto che nel nostro territorio a beneficiarne siano veramente i bambini e i ragazzi che più ne necessitano. Napoli e la Campania hanno un problema immenso circa la gestione seria delle politiche socio-educative e tra gli altri vi sono tre punti davvero drammatici nelle conseguenze che producono: 1. Il legame a volte ambiguo e opportunistico che c’è tra le amministrazioni locali, il mondo degli enti benefici e le imprese sociali operanti nel settore educativo: sembra che alcuni, sempre gli stessi, siano privilegiati, fino ad assurgere a veri e propri potentati locali che non di rado agiscono in modo prepotente, quasi dando vita ad una camorra dell’anticamorra. 2. Le attenzioni delle amministrazioni e non solo, spesso sono attratte unicamente da progetti e realtà “brand” la cui narrazione mediatica o istituzionale non sempre è passata al vaglio onesto e oggettivo della valutazione e riflessione socio-educativa, l’unica capace di offrire criteri validi per verificare ciò che è davvero efficace in termini di reale prevenzione e sviluppo. Abbiamo zone della città metropolitana sotto gli occhi dei riflettori e altre - spesso più bisognose - totalmente ignorate. 3. La camorra, la povertà educativa, la deprivazione culturale si sconfigge facendo rete, creando un “sistema” di comunità: i narcisismi di immagine o di profitto sono un ostacolo alla creazione di una rete sociale solida che pure è l’unica via per rendere la nostra area metropolitana un “villaggio educante” in cui tutte le realtà del terzo settore, dell’associazione amo e del volontariato, insieme alla scuola, possano camminare insieme e sostenersi l’un l’altra orientate unicamente al bene dei piccoli. Lavorare insieme, evitando che la “carovana” dei fondi che sogniamo sia assaltata esclusivamente dai più grandi e soliti noti, consentirebbe anche alle realtà più piccole - spesso anche le più fantasiose ed efficaci, unici presidi in territori dimenticati da tutti - di restare in piedi e a quelle grandi di trasferire i loro modelli così attenzionati, condividendoli. Ed ora che abbiamo cancellato il primo murales, iniziamo a pensare a dove edificare un monumento per il bambino invisibile: al bambino che non abbiamo visto, a quello di cui non ci siamo curati, a quello a cui abbiamo voltato la faccia con indifferenza, a quello che per inseguire logiche di potere - economico o elettorale o di sola immagine - non abbiamo prestato attenzione A quel bambino che nel migliore dei casi, un po’ cresciuto, mi ritrovo a Nisida in una cella che diviene per lui ancora di salvezza e, nel peggiore, sulle pagine dei giornali perché morto ammazzato. Dalla camorra. Da chi voleva fermare un’aggressione. Dalla nostra ipocrita indifferenza. *Sacerdote, cappellano del Carcere minorile di Nisida e direttore della fondazione ecclesiale Regina Pacis Modena. “Il sindaco chieda la verità sui detenuti morti in carcere” La Gazzetta di Modena, 8 febbraio 2021 In piazza Grande il comitato che vuole avere giustizia sui decessi dell’anno scorso “Le istituzioni sono silenti. Vorremmo un consiglio comunale straordinario”. “Di botte ne hanno prese tante, non saranno quelle che verranno a fargli paura”. In piazza Grande risuona una voce attribuita al fratello di un detenuto modenese trasferito ad Ascoli. La testimonianza è riportata dal comitato “Verità e giustizia per la strage di Sant’Anna”. Il gruppo sta costruendo un mosaico sulle nove morti dell’8 marzo scorso carcere. “Quanto è stato detto all’inaugurazione dell’anno giudiziario ci è sembrato imbarazzante - critica Alice Miglioli, tra i portavoce del comitato - Si sono affrettati a mettere a tacere le testimonianze di quanto sta uscendo”. Testimonianze come quella rivendicata ieri dal comitato. “La Procura ha accertato che i nove detenuti sono deceduti per l’assunzione di sostanze stupefacenti - ha sottolineato Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, all’inaugurazione dell’anno giudiziario - sottratte dalla farmacia e non per violenze esercitate nei loro confronti”. Immediato il supporto del sindacato Uilpa: “Queste parole restituiscono dignità e orgoglio al Corpo di Polizia Penitenziaria”. “I detenuti venivano trattati come bestie - la replica che arriva dalla piazza - Prima lasciati a loro stessi e poi brutalmente picchiati e uccisi di botte”. “Il comitato chiede al sindaco di Modena la convocazione di un consiglio comunale straordinario per il giorno 8 marzo, nell’anniversario della strage - la proposta lanciata ieri - affinché le istituzioni, finora tristemente silenti, si uniscano alla richiesta di verità”. Una richiesta estesa alla città: “Alla società civile modenese, agli intellettuali, al mondo accademico, alle organizzazioni sindacali e associative”. Tra domenica 7 e lunedì 8 marzo saranno organizzate iniziative davanti al carcere e in altri luoghi cittadini. Il comitato sta ricostruendo la rete solidale di contatti di detenuti trasferiti dal Sant’Anna. Non sono in cantiere indagini sui presunti legami tra la criminalità organizzata e le rivolte su scala nazionale. “Quelle rivolte erano dettate dalla paura del contagio che in carcere è assolutamente reale”, testimonia Miglioli. Milano. “Il lockdown dei processi non penalizzi ancora la giustizia” Il Giorno, 8 febbraio 2021 Gli avvocati inviano una lettera-appello alla Corte d’Appello di Milano in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Il lockdown dei processi non diventi il lockdown della Giustizia e del Diritto”: È il chiaro e forte auspicio che viene lanciato dagli avvocati della Camera penale di Monza che, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, hanno inviato una lettera alla Corte di Appello di Milano per segnalare le criticità della giustizia, anche monzese, a causa dell’emergenza sanitaria Coronavirus. “Le norme emergenziali mirano a limitare la presenza fisica dei dipendenti negli uffici delle amministrazioni pubbliche, fatte comunque salve le attività indifferibili e l’erogazione dei servizi essenziali prioritariamente mediante il ricorso a modalità di lavoro agile; troppo spesso, se ne dolgono in molti e non solo avvocati - scrive il direttivo della Camera penale di Monza, presieduta dall’avvocata Noemi Mariani - ciò si traduce in una violazione dei principi di buon andamento della pubblica amministrazione, con conseguenti forti disagi per l’avvocatura e disservizi tangibili per il cittadino. È sotto gli occhi di tutti come nel settore della giustizia questa modalità “agile” non funzioni perché il personale non è autorizzato ad accedere appieno ai sistemi informatici da dispositivi diversi da quelli ubicati in sede e quindi, da casa, può fare pochissimo o nulla. Ciò viene detto con la consapevolezza che prendere decisioni sia difficile, ma nel bilanciare contrapposti interessi le istituzioni possono e devono fare di più, prima che sia tardi”. Le toghe della Camera penale monzese auspicano anche che “la digitalizzazione di alcune attività difensive non sia un’occasione persa, ma una risorsa da gestire con prudenza” attraverso “seri interventi sul (mal)funzionamento del Portale del Processo Penale Telematico”. Poiché continuano “ogni Procura manifesta un distinto approccio che sta già creando una Babele giudiziaria” e sono contrari “ad un processo da remoto usato come il grimaldello per raggiungere il malcelato obiettivo di una smaterializzazione (o smantellamento di fatto) dell’udienza dibattimentale, meccanismo fittizio che nulla ha a che fare con l’efficienza, anzi tradisce le più basilari garanzie costituzionali”. Alghero. Dentro le aule di un carcere, per ricominciare La Nuova Sardegna, 8 febbraio 2021 Nella Sardegna come terra di mezzo, luogo di riflessione e d’espiazione, si sono dati appuntamento Piergiorgio Pulixi, l’autore del “Libro delle anime” che ha vinto il premio Scerbanenco 2019, e gli studenti della casa circondariale di Alghero. Mentore dell’incontro il Salone del libro di Torino con l’iniziativa “Adotta uno scrittore”. Il progetto, come spiega lo scrittore cagliaritano che vive e lavora a Milano, iniziato con incontri in presenza si è trasferito on line per effetto della pandemia, ma è risultata essere uno dei più riusciti, perché più coinvolgente e interattivo. “Adotta uno scrittore - dice il direttore del Salone del libro Nicola Lagioia - è una delle iniziative di promozione della lettura del Salone Internazionale del Libro di Torino in cui negli anni abbiamo investito con più tenacia, certi del fatto che la scuola sia il contesto in cui si formino non solo le nuove generazioni ma anche i futuri cittadini. Ne è testimonianza il fatto che negli ultimi anni c’è stata un’apertura a livello nazionale del progetto, quest’anno ancora più strutturata grazie alla collaborazione con il Centro studi per la scuola pubblica”. “Portare -aggiunge Lagioia - le scrittrici e gli scrittori a contatto con gli studenti, portarli nelle scuole - nonché in luoghi di recupero sociale come le carceri - significa assolvere a un importante dovere civico, significa provare a trovare delle risposte sensate alle urgenze del nostro tempo assieme ai ragazzi che sono il futuro del Paese”. Il romanzo di Piergiorgio Pulixi che è entrato nel programma dell’iniziativa del Salone è il primo in cui l’autore noir ambienta il caso in Sardegna, una terra solare e cupa, densa di presagi e di tradizioni che si perdono nella notte del tempo; di paesaggi struggenti ed aspri che i lettori attraversano in un itinerario archeologico e antropologico, puntellato di delitti e ossessioni. “Adotta uno scrittore” nel carcere di Alghero: ci racconta com’è andata? “Il progetto legato al Salone del libro va avanti da diciassette anni, ha coinvolto più di centomila studenti e almeno dodici case di reclusione. Io ho partecipato con l’Ipsar di Alghero, insieme alla professoressa Angela Vaudo, e con la dottoressa Luisa Villanti, capo area educativa della casa di reclusione, che avevano impostato il lavoro. La natura del progetto infatti è far dialogare classi delle scuole superiori ‘normali’ e classi ‘particolari’ come quelle all’interno del carcere. A fare da trait d’union tra le classi, Il libro delle anime è stato l’occasione per elaborare percorsi tematici legati alle tradizioni culinarie e all’antropologia della Sardegna. Nello specifico, la quinta dell’Ipsar di Alghero porta avanti un progetto dal titolo “I sapori della natura”, per cui i ragazzi si sono impegnati a rintracciare i piatti presenti nel libro: le ricette di Barbagia, i culurgiones ogliastrini e nei nostri incontri raccontavano le origini delle ricette. Nella classe carceraria mi hanno detto che il libro per loro è stata un’evasione perché li ha portati ad immergersi nei territori della Sardegna, ripercorrerlo in un itinerario da Sud a Nord passando attraverso il regno delle Barbagie per scoprire sapori e profumi. Anche perché molti di loro non sono sardi”. In che modo la narrazione, la letteratura e il noir in particolare diventano strumenti di riflessione su di sé e sulla realtà? “I ragazzi del carcere hanno una potenzialità inespressa che gli deriva dal non poter visitare fisicamente i luoghi. Anche se molti vanno lavorare, perché sono in semilibertà, non possono entrare in contatto con la natura, non possono fare una passeggiata in una foresta, visitare luoghi di culto nuragici. Per loro è stato un ubriacarsi della natura e delle sensazioni che ho descritto. Mi era già capitato di fare un laboratorio nello stesso carcere ed era emersa in quell’occasione, come ora, la voglia di scrivere. Molti sentivano l’urgenza di esorcizzare le proprie storie proprio perché hanno capito i loro errori e hanno deciso di guardare avanti. Credo sia questo il motivo che ha fatto scegliere loro il percorso educativo nel carcere per diplomarsi o anche per laurearsi. Parte del mio intervento si è concentrato in questo nodo: spiegare loro in cosa consiste la scrittura e come possono sfruttare la scrittura in forma di auto-terapia, per esorcizzare il proprio passato”. Uno dei problemi del carcere, oltre la noia, è la dimensione individuale cui ti relega; i progetti che arrivano dall’esterno attivano la dimensione collettiva, fondamentale in un processo di rieducazione sociale? “Alghero è un carcere modello e ha una bellissima biblioteca. La dimensione collettiva è difficile da gestire, io ci provo ma soprattutto ci riescono meglio di noi le insegnanti. Più difficile per noi, che in poche ore dobbiamo creare questo tessuto. Bisogna infatti tener conto delle specificità culturali dei ragazzi: molti sono di origine straniera per cui non è possibile portarli tutti sulla stessa lunghezza d’onda e non hanno delle coordinate culturali in cui ritrovarsi immediatamente; quindi è un lavoro di fino e le insegnanti in questo sono strepitose. La cultura, lo studio riescono a ricamare un tessuto tra di loro, li portano a trascorrere insieme un tempo che altrimenti passerebbero da soli o con i propri conterranei”. Cosa ti hanno lasciato gli studenti di Alghero; cosa pensi di aver lasciato loro? “Come ho detto, nello stesso carcere ero già entrato per un altro laboratorio: consegni i documenti, gli effetti personali, giro di chiave, sbarre; entri in una dimensione di cattività. Negli incontri ho cercato di spiegare loro quanto la lettura serva a corroborare l’anima, sia una compagna di vita, ma soprattutto alleni il muscolo della tua immaginazione e questo l’hanno apprezzato. Molti non leggono per partito preso ma una volta che scoprono la lettura si pentono e scoprono qualcosa che rende la vita più leggera. Io da parte mia ho imparato a non avere pregiudizi. La cosa più straniante è che non hai la percezione del male che i carcerati possono aver fatto, vedi solo ragazzi che ti vengono incontro per capire cosa stai cercando di comunicare loro. La vita porta a fare sbagli ed è difficile giudicare l’uomo, si può solo giudicare la scelta”. Cosa c’entra il noir con la dimensione mitologica? È una moda oppure davvero serve a illuminare la società? A monte del romanzo c’era la volontà di far convergere generi diversi oltre il thriller e il noir: volevo raccontare la Sardegna archeologica e antropologica. “Il libro è un inno a chi ha raccontato la Sardegna prima di me: Fois, Atzeni, Satta; la Deledda non è mai citata ma di lei è palesemente intriso il libro. Sergio Atzeni in “Passavamo sulla terra leggeri” è stato il primo a creare una sorta di epos legato al territorio: un segreto che la tradizione successiva non ha seguito. Durante una presentazione a Milano in cui parlavo di Sardegna ho scoperto che il pubblico confondeva i nuraghi con i trulli pugliesi. Per me scrivere questo romanzo atipico era un modo per far scoprire la Sardegna attraverso un genere letterario popolare, come lo spaghetti western. Molti mi hanno scritto che verranno in Sardegna usando il libro come itinerario”. La scrittura restituisce una localizzazione toponomastica dell’isola ad ogni capitolo. E’ un viaggio cinematografico. Lo vedremo in streaming su Netflix come la trilogia del Baztan di Dolores Redondo? “Ci sono stati contatti da parte di produzioni televisive, ma non è facile. Quanto alla Spagna è stata tra le prime a comprare i diritti di traduzione perché tra noi e loro ci sono molte affinità”. Milano. Al Teatro Puntozero del carcere Beccaria si alza il sipario sul cyberbullismo di Annalisa Casali thegoodintown.it, 8 febbraio 2021 La compagnia teatrale del carcere minorile di Milano mette in scena “New Wild Web”, uno spettacolo che punta a esorcizzare il cyberbullismo. La testimonianza di Kevin, un attore della compagnia: “Io, bullizzato, da grande voglio fare l’educatore”. La musica e il teatro come strumenti di cambiamento e reinserimento sociale. Ma anche come spunto di riflessione sul rapporto tra i ragazzi e il web. Un rapporto che si è fatto sempre “tossico”, specie negli ultimi mesi. Il lockdown prima, l’istituzione delle zone rosse poi, hanno contribuito ad ampliare le dimensioni del fenomeno cyberbullismo. I giovani rimasti a casa, collegati per ore a smartphone, tablet e PC, annoiati e isolati, si sono scoperti molto più fragili. E la cronaca riporta periodicamente le notizie di sfide mortali sui social che vedono coinvolti bambini e ragazzi sempre più giovani. I risultati dell’Osservatorio indifesa 2020 di Terre Des Hommes e ScuolaZoo, presentati qualche giorno fa, evidenziano che in Italia il 61% dei ragazzi tra i 13 e 23 anni ammette di essere stato vittima di bullismo o cyberbullismo e il 68% dichiara di aver assistito a episodi di questo tipo. Ben il 14,76% dei ragazzi e l’8,02% delle ragazze, invece, si è reso responsabile di aver compiuto atti di bullismo o cyberbullismo. Un fenomeno, quindi, che andrebbe monitorato con più attenzione. New Wild Web, ovvero come ti smonto il bullo - Il cyberbullismo è il tema principale del nuovo spettacolo messo in scena nel teatro del carcere minorile Beccaria di Milano dalla Compagnia Puntozero. Il lavoro, dal titolo “New Wild Web”, è l’ultimo di una lunga serie di iniziative - oltre una ventina gli spettacoli allestiti nei 25 anni di attività della compagnia - che puntano a coinvolgere i ragazzi ospiti del carcere durante e dopo il loro percorso riabilitativo. “Puntozero è una compagnia a tutti gli effetti, che si impegna a formare non solo attori ma anche macchinisti, tecnici del suono e delle luci, offrendo nuovi sbocchi professionali ai ragazzi che provengono da situazioni familiari e sociali svantaggiate”, ci spiega Giuseppe Scutellà, presidente e direttore artistico di Associazione Puntozero. Lo spettacolo vuole far riflettere soprattutto i ragazzi, che oggi vivono sui social buona parte del loro quotidiano, e fa parte delle iniziative di sensibilizzazione contro l’odio online finanziate dalla raccolta fondi in crowdfunding #UnaBuonaCausa, promossa dalla piattaforma per la tutela legale delle vittime COP - Chi Odia Paga. “New Wild Web” verrà presentato in livestream nella mattinata del 22 febbraio agli alunni di diverse scuole. Si tratta di una rappresentazione “molto innovativa, ibrida e interattiva - prosegue Scutellà -, in cui si alternano una stand up comedy, musica e scene. Il copione c’è ma di fatto lo spettacolo si costruisce insieme al pubblico, che potrà interagire con gli attori in scena attraverso interventi e domande dirette”. La rappresentazione prende spunto da un lavoro di Jaron Lanier, informatico della Silicon Valley convinto che i social network stiano minando la nostra capacità di provare empatia e ha per protagonisti due bulli un po’ sopra le righe: Ismo&Bull. “L’obiettivo dello spettacolo - sottolinea Scutellà - è smontare il ruolo del bullo e far capire che è possibile creare una società migliore”. Un messaggio positivo con una valenza universale, che trova conferma nella testimonianza di uno degli attori della compagnia, un ragazzo che chiamerò Kevin. L’esperienza di Kevin: da bullizzato a (futuro) educatore Kevin è nato in Italia da genitori croati e per varie vicissitudini personali si è trovato a vivere l’esperienza del carcere minorile. Ci sentiamo al telefono e la cosa che mi impressiona da subito è la sua maturità. “Io sono stato vittima dei bulli e quello che mi sento di dire è che non bisogna stare zitti e girarsi dall’altra parte”. L’esperienza con Puntozero, prosegue Kevin, “mi ha insegnato che è possibile cambiare vita se c’è chi ha fiducia in te. Se c’è chi non ti critica ma, anzi, ti aiuta a realizzare i tuoi sogni e ti dà un motivo per andare avanti a testa alta, senza vergogna. Se c’è chi vede la persona al di là dello sbaglio che può aver commesso. Ed è questo l’insegnamento che mi porto dentro: bisogna vedere e capire la persona che c’è al di là dello schermo, solo così è possibile sconfiggere il cyberbullismo”. Un insegnamento che Kevin vuole contribuire a diffondere mettendo a frutto la propria esperienza personale. “Adesso il mio obiettivo è diplomarmi in scienze dell’educazione, perché mi piacerebbe aiutare altri ragazzi che, come me, si sono trovati in un momento di difficoltà. Io so bene cosa provano e come si sentono e penso che la mia esperienza potrebbe aiutarli ad aprirsi. E, magari, fargli capire che si possono trovare nuovi percorsi di vita”, anche ripensando il rapporto con la tecnologia e i social. “Poi, quando ci incontriamo faccia a faccia, invece, spesso non sappiamo come comportarci. Lo spettacolo mi ha permesso di tirare fuori emozioni e sentimenti molto intensi. Io stesso sono stato bullizzato e lo spettacolo mi ha aiutato a superare l’odio, ecco perché sono certo che questo progetto servirà anche ai ragazzi più piccoli, per capire che la vita non è quella che mettiamo in scena sui social. Internet non è il male, ma va ripensato e dovrebbe essere usato con più delicatezza”, è l’insegnamento che mi lascia Kevin. Chiudo la telefonata e penso che forse basta davvero poco per sconfiggere il cyberbullismo. “Barre”, Kento racconta la sua esperienza nelle carceri con un libro e uno street album piuomenopop.it, 8 febbraio 2021 Raccontare l’esperienza di “insegnante di rap” nelle carceri minorili tramite le parole di un libro e la musica di uno street album: questo l’obiettivo del rapper e scrittore Francesco “Kento” Carlo che giovedì 28 gennaio pubblica “Barre”. Il libro “Barre - Rap, sogni e segreti in un carcere minorile”, edito da minimum fax, è disponibile in tutte le librerie, mentre lo street album intitolato “Barre Mixtape” è su tutte le piattaforme digitali e, nelle prossime settimane, uscirà su vinile per Aldebaran Records. Nelle 177 pagine del volume, Kento racconta la sua esperienza maturata in oltre dieci anni di laboratori in vari istituti penitenziari italiani, a contatto con centinaia di ragazzi detenuti, insieme ai quali ha scritto strofe, ritornelli e punchline. Nei suoi laboratori, Kento stimola a incanalare nella creatività la rabbia, la frustrazione e la tentazione di fare del male agli altri e, più spesso, a sé stessi. Barre racconta queste esperienze - con gli strumenti della narrativa, perché la legge impone di non rivelare nulla che possa collegare le vicende narrate ai protagonisti reali - e insieme riflette sul classismo insito nel sistema della giustizia minorile italiana, in cui a finire dentro spesso non sono i più colpevoli ma semplicemente gli ultimi per condizione economica, culturale e sociale. Barre, come quelle di metallo alle finestre della cella. Barre, come vengono comunemente definiti i versi di una strofa rap. Barre, come i segni di penna sui nomi dei ragazzi che non frequentano più i laboratori. Perché sono usciti, finalmente liberi. Perché sono diventati grandi e devono trasferirsi nel carcere degli adulti. Perché non sono mai rientrati dai permessi premio, e chissà che fine hanno fatto. Il disco è stato registrato e masterizzato allo storico Quadraro Basement e vede le produzioni di Shiny D, Goedi, DJ Fuzzten, Gian Flores, Dj Dust, Giovane Werther e un feat. di Lord Madness. Tredici tracce dove la poesia incontra il boombap e le classiche rap ballad si alternano a incursioni nelle sonorità più moderne, senza mai perdere l’attenzione al messaggio che è da sempre il tratto distintivo dell’MC reggino. Un lavoro legato a doppio filo al libro perché nato dalla stessa ispirazione, e scritto in buona parte nel periodo in cui - per colpa del lockdown - i laboratori in carcere hanno subito un’interruzione forzata, così come i concerti. In attesa di poterlo sentire dal vivo, è prevista quindi un’edizione in vinile di sole 100 copie numerate a mano e autografate, su supporto in formato 180 grammi nero con effetto marmorizzato giallo, che richiama la copertina del libro. Il vinile di Barre Mixtape è disponibile in pre-ordine sul sito di Aldebaran Records in bundle con il libro stesso e, per chi vorrà, anche con una t-shirt realizzata in esclusiva dalla cooperativa Jailfree, che si occupa del reinserimento lavorativo dei detenuti. Ascoltiamo i nostri ragazzi soli e dimenticati di Walter Veltroni Corriere della Sera, 8 febbraio 2021 La certezza che saranno gli ultimi a essere vaccinati e la proibizione di ogni relazione sociale o collettiva li immerge in una condizione di buio. Nel mondo che li vuole soli e isolati il fatto che da loro salga una domanda di socialità è una buona notizia. Figurarsi, spesso non votano neanche. Sono i giovani di questo paese. Los Olvidados, i dimenticati. Ogni tanto un fatto di cronaca ci ricorda che ci sono anche loro, in questo mondo in mascherina. Per randellarli ben bene basta una foto dei Navigli affollati una sera. Per ascoltarli non basta la notizia che nel 2020 l’unità di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza ha avuto 300 ricoveri, quasi uno al giorno, per attività autolesionistiche di varia natura fino a propositi suicidi. L’anno prima erano stati 12, uno al mese. Vogliamo attribuire anche questo al nefasto anno bisesto o vogliamo cominciare a capire che tutta la società dovrebbe piegarsi, come un albero disneyano, verso i più piccoli e i più giovani e ascoltare la loro voce, per quanto flebile sia? La prosecuzione della pandemia fino a un momento che nessuno indica, la certezza che loro saranno gli ultimi a essere vaccinati, il ripetersi della proibizione di ogni relazione sociale collettiva - scuola, concerti, cinema, discoteche, cene con gli amici - la impossibilità di programmare, forse persino di sognare, un viaggio o una vacanza immerge i ragazzi in una condizione di buio e di solitudine. Questa crisi, della quale stiamo per celebrare un anno, delimita il loro principale spazio vitale in un ambito, la casa, che è quello da cui ogni adolescente spera di poter uscire e finisce con lo strutturare il grosso dei rapporti di relazione, persino verbale, in una dimensione, la famiglia, dalla quale a quella età si vuole e si deve conquistare una sana autonomia. In casa, in famiglia, con la scuola spesso a distanza, dovendo rincasare tutte le sere, da mesi, al massimo alle dieci, senza la possibilità di condividere uno spazio pubblico comune di musica, di tifo sportivo, di sereno trascorrere in compagnia del “caro tempo giovanil”. Ha detto la psicologa Anna Oliverio Ferraris: “Molti adolescenti, privati della scuola e della vita sociale, vivono come se fossero anziani o malati. E il fatto che questo isolamento si stia prolungando è rischioso: il rischio dell’abitudine è che poi diventa irreversibile... Gli adolescenti in casa tornano sotto il controllo totale dei genitori. Genitori che diventano iper-controllanti, proprio in quell’età in cui dovrebbe esserci lo svincolo dalla famiglia, la distanza, l’autonomia. Invece fanno un passo indietro, tornano a essere bambini sotto l’ombrello protettivo e onnipresente di madre e padre, vediamo un processo di infantilizzazione, che certo non è positivo”. Una ragazza, Virginia Perna, ha scritto un bel testo nella pagina delle lettere del Corriere: “Alla noncuranza verso i giovani si aggiunge il continuo disprezzo degli adulti nei confronti delle nuove generazioni. Teppisti, irrispettosi, nullafacenti, drogati e per ultimo untori. Pensate che strano, dei giovani reclusi per mesi nelle loro stanze illuminati dalla sola luce di uno schermo si permettono di uscire quando possono... Noi non vediamo prospettive per il futuro, l’oscurità ci pervade e stiamo male. Un male che voi adulti non avete mai provato...”. In un liceo di Roma una ragazza è stata fermata nei giorni scorsi da una collaboratrice scolastica mentre si stava accingendo a varcare una finestra del secondo piano e storie così sono accadute in molti luoghi di questo paese. Ci si rende conto cosa significhi tutto questo, ad esempio, per i ragazzi che sono andati dalle medie al ginnasio, che passano dall’essere bambini alla condizione di adolescenza e sono, in questi anni cruciali, privati della normalità della loro evoluzione? Qualcuno sta sondando la condizione dei ragazzi delle grandi periferie urbane che al malessere della loro condizione aggiungono l’incertezza che avvertono per la condizione del lavoro del padre e/o della madre? Un professore di quel liceo mi dice che i ragazzi si stanno spegnendo, stanno perdendo attenzione, si stanno lasciando andare, si chiudono nelle loro stanze separandosi dal mondo. La sensazione che tutto sia precario rende per loro il futuro una minaccia e non la più affascinante delle opportunità. Restano il silenzio delle stanze chiuse, il conforto spesso esclusivo della rete che tra mille contraddizioni rompe comunque questa solitudine. Abbiamo visto anche le risse gratuite tra i ragazzi a Villa Borghese, figlie di un malessere che sarebbe sbagliato etichettare sbrigativamente. Los Olvidados. Mi ha colpito che in questo paese con i capelli bianchi nessuno si sia fermato, anche solo un attimo, per chiedersi se fosse proprio da escludere l’idea di cominciare a vaccinare, oltre al personale sanitario e agli ultraottantenni, proprio i più giovani. Per restituire loro una normalità la cui perdita, a quindici o venti anni, è una ferita difficilmente rimarginabile. A Mario Draghi tutti, in questi momenti, chiedono ogni cosa perché, dopo anni di zuzzerellona sbornia populista e demagogica, ci si è resi conto che la competenza, l’esperienza, la gentilezza che significa accoglienza e ascolto, non sono reati perseguibili, ma valori essenziali per una comunità. Io a Draghi chiederei solo di ascoltare una rappresentanza di ragazzi. Di quelli che oggi occupano le scuole per poter studiare, che chiedono, con gli insegnanti, di poter sapere di più e meglio, non il sei politico. Ai ragazzi, che magari hanno creduto allo spirito indotto del tempo egoista che raccomandava di tenersi ben lontani dall’impegno civile e di curarsi solo di loro stessi, vorrei dire che tra le tante cose meravigliose della loro difficile stagione della vita c’è anche la difesa dei propri diritti, il vivere insieme esperienze di comunità politica, culturale o sociale. E che quindi più loro si organizzeranno, saranno davvero rete, più le loro esigenze saranno considerate centrali e la loro voce non sarà un grido muto. Nel mondo che li vuole, in ogni caso, soli e isolati, il fatto che da loro salga, in mille forme, una domanda di socialità è una buona notizia. Basta solo ascoltarli. In famiglia, a scuola, nelle istituzioni. E costruire per loro un futuro in cui non esistano solo debito pubblico da portare sulle spalle e precarietà sociale. Nel 2020 in Italia ci sono stati 300.000 nati in meno di quanti siano defunti, e ci sono oggi la metà delle culle rispetto al 1975. In questo paese egoista, che invecchia e fa debiti per chi nasce, dovremmo avere almeno avere un’attenzione. Dovremmo ascoltare la voce e occuparci davvero, sinceramente, dei pochi clienti del nostro futuro. Migranti. La sanatoria fantasma di Alessandra Ziniti La Repubblica, 8 febbraio 2021 A sei mesi dalla scadenza risposta in 2 casi su 100. Al ritmo di 16 al giorno, solo a Milano, ci vorranno trent’anni per portare a compimento le procedure per l’emersione dal nero dei 26.000 lavoratori stranieri che speravano nella sanatoria dell’estate scorsa per uscire finalmente dalla clandestinità. A Caserta, le 6.622 domande ricevute giacciono ancora tutte nei cassetti della prefettura. A Firenze, esempio virtuoso, sono già stati fatti firmare 100 contratti su 4.483, il 2,5 per cento. È un’altra storia di diritti negati dalla burocrazia e dall’inadeguatezza del sistema Italia quella che vi raccontiamo. A quasi sei mesi dalla chiusura dei termini per le richieste di emersione del lavoro nero nei settori del lavoro domestico, dell’assistenza alla persona, dell’agricoltura, dell’allevamento e della pesca, la sanatoria è rimasta lettera morta: delle 207.000 domande presentate, quelle esaminate sono appena il 2 per cento. Il Covid, ma soprattutto la mancanza di personale dedicato, hanno fatto sì che la maggior parte delle prefetture italiane non abbiano neanche iniziato le convocazioni dei lavoratori stranieri, e chi lo fa procede a un ritmo di 3-4 appuntamenti al giorno. Lasciando gli oltre 200.000 lavoratori interessati nel limbo da cui speravano di poter uscire. “Come promotori della campagna Ero Straniero - dice Giulia Capitani, policy advisor di Oxfam - abbiamo raccolto tantissime segnalazioni. Occorre salvare la procedura di emersione dal sostanziale fallimento cui sembra avviata se non ci sarà un intervento netto del governo, con conseguenze pesantissime sulla vita di decine di migliaia di lavoratori”. Dal Viminale ammettono l’impasse: solo a gennaio è stato possibile assumere personale interinale Stati Uniti. I gruppi civici di Facebook covo di violenze e faziosità di Carlo Lavalle La Stampa, 8 febbraio 2021 Il social network è stato costretto a ridimensionare il ruolo dei gruppi perché ritenuti responsabili di disinformazione, odio e contenuti violenti e mezzo di organizzazione dell’assalto al parlamento Usa. Facebook nel 2019 ha ridisegnato la piattaforma mettendo al centro i gruppi ma ora fa marcia indietro reprimendone l’attività ed escludendoli dai suggerimenti nel news feed. Un gruppo di ricercatori aveva evidenziato sin dal mese di agosto 2020 il crescendo di retorica violenta, disinformazione e faziosità prodotta al loro interno mettendone al corrente l’azienda. In un documento riservato, lo rivela il Wall Street Journal, è emerso come oltre il 70 per cento dei principali gruppi civici attivi negli Stati Uniti esprimesse una forte carica di odio e violenza e contenuti tossici, rappresentando un pericolo di radicalizzazione politica e sociale. Nonostante le indicazioni degli autori della ricerca, Facebook non è intervenuta con determinazione e in modo tempestivo per bloccare questa deriva. Gli eventi del 6 gennaio, con l’assalto dei dimostranti al Campidoglio Usa, hanno fatto precipitare la situazione imponendo una svolta. Il ruolo fondamentale di Facebook come mezzo per pianificare e organizzare le proteste dei manifestanti è stato sottolineato da varie inchieste e segnalazioni giornalistiche. E, a questo punto, non è stato più possibile minimizzare o reagire in maniera blanda e in via provvisoria, ignorando il richiamo a un’azione più incisiva. Il giro di vite deciso dal management del social network ha portato alla rimozione di numerosi gruppi e alla definizione di nuove regole più restrittive. Guy Rosen, Vice President of Integrity di Facebook, ha giustificato la stretta, che ha comportato la disabilitazione di strumenti in grado di favorire la circolazione di contenuti violenti e il rafforzamento della moderazione, operazione non facile, facendo leva sulla difesa della sicurezza degli utenti. Alla fine, la società di Menlo Park, che ha ricevuto molteplici avvertimenti sulla funzione nefasta dei gruppi - descritti come un fattore di distruzione dell’America e accusati di covare odio dal senatore Edward Markey - dopo un tira e molla, ha scelto la via drastica di modifica della rinuncia alla promozione sulla piattaforma, modificando gli algoritmi. E trasformando una moratoria in una decisione permanente, annunciata dallo stesso Mark Zuckerberg. Egitto. Patrick Zaki: un anno in carcere. L’Italia si mobilita di Alessia Arcolaci Vanity Fair, 8 febbraio 2021 L’8 febbraio 2020, il ricercatore egiziano Patrick Zaki veniva fermato al Cairo per “propaganda sovversiva e terrorismo”. Oggi l’Italia si mobilita per lui. Patrick Zaki è in carcere da 365 giorni. È trascorso un anno da quando l’8 febbraio scorso è stato fermato, appena atterrato al Cairo, in Egitto, per un interrogatorio. Da quel momento, rinvio dopo rinvio è rimasto in carcere. Era arrivato da Bologna, dove studiava e lavorava come ricercatori all’università, per trascorrere alcuni giorni con la sua famiglia. Al momento del fermo non sono state rese note le accuse. Solo dopo l’interrogatorio si è saputo che era accusato di propaganda sovversiva e terrorismo tramite alcuni post Facebook, secondo l’accusa. Nonostante la “non colpevolezza” del ricercatore sia stata dimostrata in tribunale, Patrick Zaki resta in carcere. L’ultimo rinnovo vi di 45 giorni da parte del tribunale è stato comunicato a inizio febbraio. “Non sappiamo quando finirà questo incubo”. Ha detto a La7 la sorella di Patrick, Marise. La donna, negli stessi giorni insieme alla sua famiglia, ha lanciato un appello affinché venga data la cittadinanza italiana al fratello. “Abbiamo scoperto che mio fratello rischia di rimanere in carcere, un anno, due anni o forse di più. E non si sa se verrà mai scarcerato. Ciò che Patrick ci dice durante le visite è di “continuare quello che avete iniziato per rendere vicina la mia libertà”. Le iniziative volte alla sua scarcerazione sono tantissime e da un anno non si fermano. Oggi è il giorno di “Voci per Patrick”. Una maratona musicale organizzata da Amnesty International, Mei (Meeting delle etichette indipendenti) e Voci per la libertà. Dodici ore di musica, oltre 150 artisti. Tra cui Roy Paci e Marina Rei che si susseguiranno in un grande evento online. Dalle 12 alle 24, per chiedere la sua libertà. È la più grande mobilitazione musicale organizzata per Patrick. “Una Woodstock della musica italiana per Patrick”, ci racconta Michele Lionello, direttore artistico di Voci per la Libertà. “Il nostro obiettivo è continuare a chiedere libertà per Patrick. Sappiamo per certo che quando ha parlato con la famiglia e gli avvocati, ha palesato la contentezza di sapere che ci sono migliaia e migliaia di persone che si stanno mobilitando per lui in Italia. E continueremo a farlo, anche per accendere un faro sulla situazione dei diritti umano in Egitto. Pensando alla vicenda ancora più triste di Giulio Regeni o anche di tanti egiziani che vengono incarcerati e di cui non si sa niente”. La maratona sarà in diretta. Sui canali social di Voci per la Libertà, si alterneranno ai contributi video degli artisti quelli in diretta di persone che sono vicine alla vicenda di Patrick. Ci saranno tre suoi amici, la coordinatrice del progetto Gemma a cui Patrick stava lavorando, rappresentanti di Amnesty e delle istituzioni. Myanmar, i militari “spengono” internet. La protesta è in piazza di Simone Pieranni Il Manifesto, 8 febbraio 2021 Lavoratori, studenti, gente comune sono scesi per le strade per protestare contro il colpo di stato e per Aung San Suu Kyi. Il rumore notturno di pentole che nei giorni successivi al golpe dei militari in Myanmar, denunciava una rabbia presente per quanto composta, è tracimato per le strade della capitale Yangon. Studenti, lavoratori, gente comune, vestita di rosso (il colore della Lega nazionale per la democrazia) e con la mano raccolta a evidenziare le tre dita - nuovo simbolo delle proteste asiatiche, comuni anche alla Thailandia e traslate dalla popolare serie cinematografica Hunger Games - hanno dato vita a una straordinaria protesta contro i militari, a favore della Lega nazionale per la democrazia e per la liberazione della sua leader, Aung San Suu Kyi, agli arresti (rischia due anni di carcere) per possesso illegale di ricetrasmittenti. In precedenza i medici avevano già manifestato contro il nuovo regime, sostenendo di non poter lavorare per una giunta militare. Nella giornata di ieri in tanti hanno deciso di dare un contributo alle proteste anche senza scendere per strada: un camion - riporta il Guardian - ha rilasciato palloncini rossi nel cielo, mentre i conducenti degli autobus lanciavano volantini “contro il comandante in capo dell’esercito, Min Aung Hlaing”. Venerdì, centinaia di studenti si erano radunati alla Dagon University, alla periferia della capitale. I militari hanno “distrutto i nostri sogni, spero che la nostra generazione sarà l’ultima a sperimentare il governo militare”. Le manifestazioni a Yangon segnalano un’attivazione reale della popolazione birmana, dopo che i principali strumenti on line di organizzazione delle mobilitazioni sono stati spenti dalla giunta militare. A questo proposito Amnesty International ha definito la chiusura “atroce e spericolata” e ha avvertito che potrebbe mettere la popolazione del Myanmar a rischio di violazioni dei diritti umani. Anche in questo caso, si assiste a una nuova consuetudine di certe forme di potere, tese a silenziare immediatamente la rete internet, con l’illusione di fermare proteste che in realtà partono da sentimenti reali, di una popolazione che grazie alla pur lenta e incompleta (non senza alcuni orrori, come quello del Rohingya) democratizzazione, aveva assaporato una vita normale e caratterizzata da una nuova fiducia che molti paesi esteri avevano dimostrato sotto forma di investimenti e una lenta ripresa economica. Come riportato dalla Bbc, “La polizia con scudi antisommossa ha utilizzato filo spinato per bloccare le strade e sono stati dispiegati cannoni ad acqua, ma la manifestazione è rimasta pacifica, senza alcun tentativo da parte dei manifestanti di oltrepassare le linee di polizia”. “Siamo qui per combattere per la nostra prossima generazione, per liberarli da una dittatura militare”, ha detto a France-Presse una donna alla manifestazione. Parlando da Yangon, l’ambasciatore britannico in Myanmar, Dan Chugg, ha detto alla Bbc che un numero crescente di persone stava scendendo in piazza durante un movimento di disobbedienza civile a livello nazionale. “Il dolore e la tristezza degli ultimi giorni si stanno gradualmente trasformando in rabbia”. Nella giornata di ieri si segnala anche l’arresto di Sean Turnell, un professore australiano nonché consigliere economico della deposta leader Aung San Suu Kyi. Turnell - direttore del Myanmar Development Institute - aveva definito la notizia del colpo di stato come un evento “straziante e un disastro per l’economia” la notizia del colpo di stato. “Sono stato arrestato, forse accusato di qualcosa, può essere qualsiasi cosa, ovviamente”, ha riportato la Bbc.