Il Pd: caro Draghi, in agenda metti la riforma del carcere di Errico Novi Il Dubbio, 6 febbraio 2021 Al premier incaricato, Zingaretti chiede di riprendere il progetto firmato da Orlando ma poi accantonato da Bonafede: è la terza via per non restare schiacciati sul giustizialismo del M5S. Mario Draghi dovrà fare un miracolo di sintesi. Ma uno sforzo notevole toccherà pure al Pd. Costretto a isolare, anche nel futuro governo, le esuberanze renziane, ma anche obbligato a distinguersi dagli alleati, quindi dal Movimento 5 Stelle. Sfida improba. Anche e soprattutto sulla giustizia. Ma dal colloquio di ieri pomeriggio con il premier incaricato, i dem escono con una carta a sorpresa, o sottovalutata: la riforma del carcere. Cioè il progetto che l’attuale vicesegretario pd Andrea Orlando lasciò in rampa di lancio alla fine della scorsa legislatura, senza ordinare mai il definitivo via libera. E che poi il suo successore al ministero della Giustizia, Alfonso Bonafede, mise sotto chiave, almeno nella parte decisiva: l’addio alle preclusioni nella concessione dei benefici penitenziari. La consultazione di ieri riapre la partita. Lo chiarisce anche Nicola Zingaretti in un post su facebook: fra le priorità indicate all’ex governatore di Bce e Banca d’Italia ci sono anche “l’amministrazione della giustizia con maggiore velocità” e l’attenzione al “rispetto della vita nelle carceri”. Al Dubbio, una fonte del Nazareno spiega: “Alla riforma del carcere teniamo molto. Anche perché, certo, porta la firma di Orlando. È un principio di dignità, che va insieme con la lotta alle mafie, e che deve essere distintivo di una Stato forte”. È anche una sfida al Movimento 5 Stelle: questo Il Pd non lo lascia neppure lontanamente trapelare. Eppure il senso è anche questo. Sulla giustizia, il Nazareno trova una propria autonomia dall’alleato. E lo fa su una questione che Bonafede ha volutamente tenuto da parte durante il proprio mandato. La scelta è necessaria. Anche tenuto conto che sulla prescrizione, invece, l’atteggiamento dei democratici continuerà a essere “conservativo” rispetto all’intesa coi pentastellati: nessuno strappo immediato, dunque nessun via libera al lodo Annibali e agli altri emendamenti, già depositati alla Camera, che puntano a congelare o addirittura ad abrogare il blocca- prescrizione di Bonafede. Scelta che probabilmente impedirà, nell’immediato un voto in aula sui siluri confezionati da Italia viva e centrodestra, ma che costerà, al Pd, l’accusa di restare schiacciato sulla linea giustizialista dei grillini. Anche in quest’ottica, il partito di Zingaretti decide di riprendere invece un dossier come la riforma del carcere, sul quale la posizione dei Cinque Stelle diverge. Dal Nazareno ricordano d’altronde che l’altra priorità, nella giustizia, riguarda inevitabilmente la riforma del processo, anche del processo penale: “I due ddl all’esame del Parlamento, sul penale alla Camera e sul civile al Senato, sono decisivi. In un governo Draghi l’agenda non ha una gerarchia, ma un titolo secco: Recovery plan. E senza processi più veloci, i fondi del Recovery non arriveranno neppure”. Ma qual è il nome giusto per gestire il dossier giustizia? La fonte dem su questo è categorica: “Adesso non c’è un nome. Noi a Draghi non ne abbiamo fatti. Va prima chiarito il quadro delle forze in campo, la composizione dell’inedita alleanza di governo. Quello è il punto di caduta. I nomi vengono dopo”. E un tecnico, una figura di alto profilo ma estranea ai partiti, può aiutare a fare sintesi sulla giustizia? “Cambia poco se a via Arenula c’è un tecnico. Prima di tutto ci si deve chiarire le idee sugli obiettivi, riguardo a tutto e anche sulla giustizia. Vediamo chi si siederà al tavolo della maggioranza. Poi capiremo, in base alla sintesi possibile, qual è il miglior ministro della Giustizia. Ma è meglio dirlo di nuovo: se arriva il tecnico più neutrale del mondo e non c’è una sintesi chiara sul progetto politico, siamo sempre al punto di partenza”. Quindi: il guardasigilli, per il Pd, non deve essere per forza una figura esterna alla politica. Vuol dire che, in fondo, il nome giusto è proprio quello di Andrea Orlando? Secondo quanto filtra da più parti, il vicesegretario dem non avrebbe affatto l’ambizione di tornare lì da dove se n’era andato tre anni fa, cioè a via Arenula. Anche se, viene chiarito, “un conto è non essere interessati a fare il ministro della Giustizia, altro è dire che in proposito il vicesegretario del Pd ha una preclusione così netta da poter eventualmente respingere una richiesta altrui”. Cioè di Mario Draghi. Ultima considerazione: la “terza via sulla giustizia”, trovata ieri da Zingaretti e dalla delegazione dem nelle consultazioni col premier incaricato, può essere letta in due modi diversi, rispetto al nome tuttora più gettonato per via Arenula, vale a dire Marta Cartabia. Da una parte il Nazareno chiarisce di non considerare la scelta di un “tecnico estraneo ai partiti” risolutiva. Dall’altra però la richiesta avanzata a Draghi sul carcere è tutt’altro che incompatibile con una nomina a guardasigilli della presidente emerita della Consulta. Cartabia ha appena firmato un libro con Adolfo Ceretti, “Un’altra storia inizia qui”, ritorno all’esperienza delle visite in carcere di Carlo Maria Martini. Un testo in cui il principio base è quello che la Corte costituzionale ha affermato con la sentenza sui permessi per i detenuti “ostativi” a fine 2019: il diritto alla speranza, al futuro, deve essere assicurato a qualsiasi recluso. Una posizione del genere farebbe di Cartabia anche una straordinaria interprete della svolta sollecitata dal Pd sulla riforma penitenziaria. Ecco perché la partita sulla giustizia, anche sul futuro ministro, resta apertissima. Anche se ieri i democratici hanno disegnato un po’ meglio le linee del campo di gioco. I bracciali elettronici di Bonafede fanno flop come i banchi a rotelle di Claudia Osmetti Libero, 6 febbraio 2021 Sbandierati dal ministro per svuotare i penitenziari e contenere il virus, sono finiti nel dimenticatoio. In due anni ne sono stati chiesti 10mila e solo 4mila sono attivi. E per fortuna che il ministro (uscente) Bonafede s’era prodigato a ripetere in ogni salsa, nel marzo scorso, che i braccialetti elettronici avrebbero risolto il problema del sovraffollamento carcerario con la pandemia che, allora, avanzava. Oggi il coronavirus è ancora qui, ma sui dispositivi per il controllo a distanza dei detenuti sono rimaste solo le polemiche. L’ultima, riassunta dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti in un’interpellanza urgente presentata poco prima che le Camere entrassero in stand-by per la crisi di governo: quanti ne sono effettivamente arrivati? Pochi, e mica per colpa della società che si è appaltata il bando (Fastweb), ma perché il numero di quelli richiesti è stato irrisorio. Premesso che a spulciare carte, contratti di ingaggio e clausole da avvocati consumati c’è da diventare pazzi, il punto è che, da fine dicembre 2018 a metà gennaio 2020, via Arenula (ossia il dicastero della Giustizia) ne ha richiesti appena 10.155, di cui ben oltre la metà, cioè 5.940, sono al momento disattivati e 4.215 risultano ancora attivi. Lo dice il reggente dei 5 Stelle Vito Crimi (rispondendo a Giachetti), giusto per puntualizzare la fonte. Epperò, dai documenti, vien fuori anche un’altra storia: ovvero che Fastweb, in base agli accordi siglati, sarebbe in grado di garantire una fornitura di mille braccialetti al mese, addirittura maggiorata del 20% (1.200 braccialetti) qualora ce ne fosse bisogno. Ora, non è necessario avere una laurea in matematica per fare di conto: un migliaio di braccialetti al mese per ventiquattro mesi fanno 24mila braccialetti, più di quelli che sarebbero serviti. Invece che fine hanno fatto i 14mila mancanti? Bella domanda, perché sì, se ci fossero stati i contagi dietro le sbarre si sarebbero sicuramente contenuti con maggiore facilità, ma no, non è andata propriamente in questo modo. È andata pure peggio: con il governo Conte-bis che, anziché chiedere a Fastweb quella commessa che già gli spettava per contratto, nella primavera dello scorso anno ha deciso di affidarsi all’iter semplificato di Domenico Arcuri, il super-commissario dell’era Covid. E che succede? Fastweb si è trovata davanti un’altra e distinta richiesta, per conto del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) per 1.600 dispositivi in aggiunta. Chiariamo, la ditta non ne può niente: è ai piani alti del ministero che avrebbero bisogno di un abaco. Invece, per la seconda fornitura, si è speso la bellezza di oltre due milioni di euro (2.510.000, a onor di cronaca), comprensiva di tutte le spese: i device in sé, che non costano poco, la manutenzione e l’outsorcing. Da Fastweb dicono (giustamente) che loro fan quello che gli chiedono, sono le forze di polizia in base alle disposizioni dei magistrati che devono avanzare le domande. È anche logico. Ma allora di chi è la responsabilità? È il gioco delle tre carte, da una parte il Viminale (da cui dipendono gli agenti), dall’altra la Giustizia. Nel mezzo, Pantalone (cioè noi, i contribuenti) che da anni paghiamo cifre esorbitanti per i braccialetti elettronici che non ci sono. O meglio, in potenza ci sono ma non li usiamo. Solo il contratto per il triennio 2018-21 può valere qualcosa come 7,7 milioni di euro (dipende dal numero dei braccianti effettivamente attivati e monitorati), ma complessivamente, negli anni passati, abbiamo messo sul piatto almeno 173 milioni di euro a fronte di solo 2mila cavigliere utilizzate prima dell’emergenza sanitaria: abbiamo speso più di 86mila euro a braccialetto, se li compravamo da Tiffany risparmiavamo qualcosa. C’è chi invoca (sempre Giachetti nel corso della relazione in Parlamento sulla questione) l’intervento della Corte dei Conti, e forse non ha tutti i torti. Tant’è, l’accoppiata Crimi-Bonafede si è anche apprestata a chiarire (lo riporta il Corriere) che “non risultano richieste pendenti da parte delle autorità giudiziarie, tutte sono state gestite o programmate”. Come a dire, di braccialetti siamo pieni, se non si usano è perché nelle carceri c’è posto per tutti: poi vai a spiegarlo ai 114 detenuti su 188 che a Caltanissetta si sono recentemente visti riconoscere un risarcimento a causa del sovraffollamento delle loro celle. Ma quella è un’altra questione. Pena sospesa a Becir, ma solo perché possa morire in pace di Veronica Manca Il Riformista, 6 febbraio 2021 Straniero, lontano dalla famiglia, malato. La battaglia per la detenzione domiciliare e poi per la sospensione. E un finale troppo amaro per essere lieto. Questa è la storia di Becir e della sua famiglia, una storia a lieto fine, anche se per ora amaro. Becir è di nazionalità croata, residente in Istria, e viene arrestato mentre si recava a una visita medica a Trieste, con titolo di reato pesante, condannato a una pena fissa come un macigno. Solo, senza capire la lingua italiana, con numerosi gravi problemi di salute, viene tradotto in carcere a Padova, per essere poi trasferito in un carcere ancora più a Nord. Rassegnato al proprio destino, un giorno lo incontro a colloquio e inizia, per me da avvocato, una lunga corsa ad ostacoli per un riavvicinamento alla famiglia, e per la scarcerazione. Da avvocato, peraltro, mi capita spesso di conoscere il dramma; quel dramma bilaterale, che squarcia la normalità della vita sia per l’autore e la sua famiglia, sia per la vittima e i suoi affetti. Irreversibilmente, anche per tutti coloro - operatori compresi - che vi entrano a contatto. Operare nella sofferenza, non è facile. Anche per noi operatori del diritto, per noi avvocati. Una professione, quest’ultima, profondamente intrisa di umanità: trovare la soluzione spesso è impossibile, trovare quella più giusta anche umanamente è difficile. L’emergenza sanitaria ha aumentato le difficoltà, rendendo quasi impossibile svolgere il nostro compito, la nostra funzione sociale. Questo caso, come tanti altri sofferti, mi riporta alle origini della scelta di essere un avvocato, la “sentinella della legalità”, nell’oscurità, nella drammaticità della vita. All’alba del lockdown, il 20 febbraio, finalmente posso tirare un brevissimo sospiro di sollievo nel sapere che il Tribunale di Sorveglianza ha accolto l’istanza di detenzione domiciliare per grave infermità fisica. Eppure, nel momento di massima soddisfazione anche professionale, la vita ricorda che nulla è scontato: in detenzione domiciliare, la salute infatti è venuta a mancare, tanto che Becir si trova ad un passo dalla morte, in un nuovo dramma che si voleva evitare. Rammento a me stessa, come a noi tutti operatori, come per uno straniero l’accesso alla misura alternativa, oltre a essere più difficile, si rivela una salita disumana: l’accesso alle cure mediche, ai servizi sociali del territorio, al medico di base, alla residenza, tutto viene negato per burocrazia infinita. La solitudine in cui piomba la famiglia spesso trova risposta proprio nell’avvocato, che, nonostante abbia già svolto il proprio compito, diventa il collante con la comunità. Quella soluzione giuridica che, all’inizio, pareva corretta, ora non lo è più. Umanamente non è più sostenibile. Perché la vita, anche se spezzata deve essere prima di tutto dignitosa, sia per il condannato sia i propri affetti. Sia per noi operatori, che di fatto siamo parte integrante della comunità. In questo momento, si l’avvocato quale “sentinella dei diritti” deve fare la differenza e avanzare le richieste più coraggiose, ma che non lasciano spazio a soluzioni diverse: tutto ruota intorno alla dignità. Perché la dignità accompagna l’essere umano nella vita e stella morte, non acquistandosi per meriti o demeriti. E deve essere il presupposto che accompagna la fase terminale della vita, il passo verso la morte di ogni cittadino, sia esso recluso o libero. Sulla base di questo ragionamento (avallato anche dalla Cassazione e da una parte della giurisprudenza di merito in tempi di Covid), il Magistrato di Sorveglianza ha accolto la sospensione dell’esecuzione della pena per l’infermità fisica del condannato, grave al punto da portare alla morte. Una sospensione della pena, senza più alcuna prescrizione, perché ciò che conta, ora, non è la pericolosità sociale, del tutto assente, né la pretesa punitiva dello Stato, ma che la famiglia possa accompagnare il proprio caro alla morte con dignità. In altri termini, ciò che dovrebbe essere garantito ad ogni cittadino. Don Grimaldi: “Io, tradito dal mio detenuto, ma il carcere sa rieducare” Antonio Maria Mira Avvenire, 6 febbraio 2021 Omicidio Livatino. “È una grande delusione, gli avevo dato tutta la mia fiducia. Ma questo non cambia la nostra missione. Io non mi arrendo. Bisogna sempre offrire percorsi di riabilitazione e reinserimento ai detenuti. Una storia del genere non può mettere in cattiva luce tutti quelli che veramente vogliono fare un percorso di cambiamento”. Per don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, “è stato un fulmine a ciel sereno” l’arresto di Antonio Gallea, uno dei mandanti dell’omicidio di Rosario Livatino, accusato di essere tornato a guidare la “stidda” agrigentina malgrado l’ergastolo. Il sacerdote, per 23 anni cappellano nel carcere di Secondigliano, lo conosce da 11 anni. “Abbiamo iniziato un percorso in carcere, poi diedi la mia disponibilità all’accoglienza nel Centro Regina Pacis della Caritas a Giugliano. Cominciò ad avere permessi di uno o due giorni. Poi 5 anni fa ha ottenuto la semilibertà. Stava nel nostro centro e, le assicuro, era un volontario modello”. Nel decreto di fermo della Dda di Palermo si legge, citando proprio “l’attività di volontariato” con la Caritas, che “la lunga carcerazione per l’omicidio del giudice Rosario Livatino non ha avuto alcun effetto di resipiscenza nel Gallea che, anzi, ha sfruttato la normativa premiale, prevista anche per i detenuti ergastolani, al fine di reinserirsi nel contesto criminale di appartenenza e tentare di riaffermarsi, sotto il profilo mafioso/stiddaro, con i metodi che caratterizzano le associazioni mafiose”. Molte le gravissime prove raccolte. Eppure, ricorda don Raffaele, “gli avevo affidato l’orto dietro al centro che ha accolto molti detenuti in permesso, frutto dell’attività pastorale a Secondigliano. Si occupava di distribuire i pasti alla mensa dei poveri, anche durante il lockdown. Mi fidavo di lui. Apriva e chiudeva il centro”. Non solo attività pratiche: “Lo seguivo spiritualmente, veniva a Messa e agli incontri di preghiera. Si confrontava con me e io come padre spirituale ho fatto di tutto per lui. Sono sacerdote, devo dare la forza per riprendere il cammino. Per questo ora sono così deluso. Ma sto pregando per lui”. Ora la maggiore preoccupazione di don Raffaele è che la vicenda possa essere strumentalizzata. “Purtroppo tra chi chiede un aiuto ci può essere qualcuno che continua a sbagliare. Ma non può essere una scusa per dire “non crediamo più a nessuno”. Conosco bene la realtà dei detenuti, molti si sono pienamente inseriti del tessuto sociale, poi purtroppo qualcuno non cammina bene. Ma non bisogna mai chiudere la speranza”. Come aveva fatto con Gallea, pur conoscendo la sua storia criminale e in particolare le responsabilità per l’uccisione del magistrato: “Ne abbiamo parlato tante volte. Ma faceva parte del suo passato, ammetteva l’errore. Diceva sempre “Don Raffaè, peccato che avevo solo vent’anni”. Mi spiegò che lo avevano ucciso perché era integerrimo, non si faceva corrompere, anche grazie alla sua fede. E per questo è stato molto contento per la beatificazione, anche perché aveva testimoniato al processo canonico”. Intanto però stava riorganizzando il clan e i suoi affari. “In questi anni con noi non è emerso nulla. Niente che mi facesse intuire qualcosa. Ho conosciuto anche la famiglia. L’avevo visto cambiato. Evidentemente è stato bravissimo a fingere”. In questo periodo Gallea non rientrava in carcere per la pandemia e aveva trovato un appartamentino. “Ci siamo sentiti pochi giorni fa perché alcuni detenuti avevano ricevuto il decreto per il rientro in carcere il 28 febbraio. Lui lo aveva per il 31 gennaio. Io gli ho consigliato comunque di rientrare, per non commettere errori che gli potevano costare caro. E lo ha fatto”. L’ultimo incontro domenica: “È venuto a Messa, ha collaborato coi volontari, due giorni dopo ci siamo sentiti telefonicamente”. Poche ore prima dell’arresto. “Se ha commesso reati ce lo dirà il percorso della giustizia e Dio lo perdoni. Come sacerdote nessun problema a reincontrarlo. Non chiudere le porte anche a chi ha sbagliato, ci dicono il Signore e papa Francesco, sempre disponibili a perdonare”. Gallea, il mandante dell’omicidio di Livatino? - L’operazione “Xydi” della Dda di Palermo ha portato in carcere 23 persone, che stavano concludendo un’alleanza criminale tra Cosa Nostra e Stidda agrigentina, tra cui Antonio Gallea, il boss mandante dell’assassinio del giovane magistrato Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990. Gallea era stato ammesso alla semilibertà dal Tribunale di sorveglianza di Napoli il 21 gennaio 2015 perché aveva mostrato volontà di collaborare con la giustizia. La giustizia ora entri nell’agenda di Governo di Marco Tarquinio Avvenire, 6 febbraio 2021 Ha ragione don Raffaele. La vicenda del boss Antonio Gallea non può e non deve mettere in discussione la possibilità di recupero e reinserimento dei detenuti, anche di quelli responsabili dei più gravi delitti. È applicare Vangelo e Costituzione, è un principio di umanità e dignità, è interesse della comunità ridare un’occasione a chi ha sbagliato, togliendo così forze alla mafia. “Facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati” diceva Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ma l’operazione Xydi contro la potentissima e attualissima mafia agrigentina, ha fatto emergere delle gravissime falle nel sistema carcerario, anche per detenuti pericolosi e importanti, anche per i mafiosi al 41bis. Non è una questione di norme ma di uomini che le applicano. Di controlli non fatti o fatti male. Le complicità scoperte, e altre ancora da individuare, di alcuni uomini delle forze dell’ordine sono gravissime. Come la figura dell’avvocatessa dei mafiosi, più complice che difensore. Falle ancor più preoccupanti in questa fase di emergenza sociale del Paese, con le mafie già all’opera, anche dal carcere, per approfittarne. Uno Stato vero, uno Stato davvero forte è quello che sa essere umano e intransigente. “La giustizia - scriveva Rosario Livatino - è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, verso il prossimo e verso Dio”. E lo faceva concretamente, con umanità e fede, pronto al perdono, ma applicando rigorosamente le norme, condannando duramente i mafiosi. Per questo lo uccisero. Una riflessione che va fatta, ancor più oggi. Il prossimo governo dovrà avere nella propria agenda le riforme della giustizia e del sistema carcerario. Ce lo chiede da tempo l’Europa. Un’urgenza confermata dai fatti. Non realizzarle sarebbe un ulteriore regalo alle mafie. Ora un garantista alla Giustizia di Fabrizio Cicchitto Il Tempo, 6 febbraio 2021 Non serve un ministro come quelli che hanno prodotto la legge spazza-corrotti e la fine della prescrizione. Caro direttore, a conclusione di questa crisi va ringraziato Renzi per averci liberato di un presidente del Consiglio, l’avvocato Conte, che, per ripetere una famosa espressione usata da Berlinguer nei confronti dell’Urss, aveva da tempo esaurito la sua spinta propulsiva. A esser molto generosi questa spinta propulsiva si era esaurita già a giugno, dopo una fase relativamente buona concentrata nel periodo del lockdown da marzo a maggio, anche se essa era stata preceduta da due mesi orribili (gennaio-febbraio) con errori gravissimi (“riapriamo Milano”, “riapriamo Bergamo”, ma su quella follia si era ritrovati in molti, da Sala a Gori, da Zingaretti a Salvini). Con 90.000 morti nessuno può venire a parlare di modello Italia, ma la responsabilità della catena di errori va equamente ripartita fra il presidente del Consiglio Conte, il ministero della Salute, alcune Regioni fra le quali in prima fila la Lombardia. Per esser chiari e anche sintetici ci ritroviamo nel libro di Luca Ricolfi “La notte delle ninfee”. Nell’ultima fase il presidente Conte era stato preso da una sorta di vertigine dei pieni poteri, che ha riguardata tutto l’approvvigionamento dei materiali sanitari (realizzato in pratica attraverso Arcuri), la gestione del tutto personale dei Servizi, addirittura l’esproprio non proletario della progettazione e della messa in atto del Recovery Plan con risultati grotteschi. Questa autentica forzatura di Conte non era stata affatto contestata dal Pd, non lo ha fatto Zingaretti, tanto meno l’ha fatto quell’area del Pd ispirata da Bettini che punta a dislocare il partito su posizioni di sinistra radicali anche attraverso una sorta di omologazione con larga parte del Movimento 5 stelle. Rispetto a questo progetto Conte svolgeva (e lo svolgerà ancora più nel futuro) un ruolo decisivo per cui non andava disturbato come presidente del Consiglio. Quindi Renzi ha messo in crisi questo incantesimo del tutto negativo, ha cambiato tutte le carte in tavola e di fronte a tutto questo scombinamento Mattarella per salvare il salvabile ha avanzato la proposta di un governo di salute pubblica presieduto da Mario Draghi, cioè dalla principale figura tecnico-politica di cui gode l’Italia. Dal 2012 in poi Draghi ha acquisito sul campo un merito di grande rilievo: con la sua gestione della B ce ha salvato l’euro, l’Europa e l’Italia. Si tratta della personalità più adatta per gestire la svolta che di fronte alla pandemia ha portato l’Europa a rovesciare la precedente dissennata linea rigorista. Di fronte a questa nuova situazione Berlusconi ha preso la palla al balzo e in piena autonomia ha assunto una posizione favorevole al tentativo di Draghi. Il futuro ci dirà se finalmente gli elettori liberali e di centro troveranno un punto di riferimento finora mancante. Di fronte alla crisi del governo Conte per alcuni giorni i grillini sono stati squassati da una crisi insieme politica e psico-analitica. Forse stanno uscendo da questa crisi perché hanno ritrovato la figura del padre, questa volta nella persona di Conte, che, ben consigliato, adesso si presenta con un nuovo ruolo, quello di leader politico del Movimento 5 stelle e addirittura di punta di lancia di un nuovo schieramento di sinistra composto da M5s, dal Pd e da Leu. Bettini e Zingaretti sono entusiasti di questa prospettiva, non sappiamo se lo sono altrettanto i riformisti del Pd. Giorgia Meloni si sta tirando fuori in nome del no e delle elezioni anticipate. Un no comprensibile per chi fa una scelta nettamente di destra. Meno condivisibile è l’insistenza sulle elezioni anticipate, sia per le ragioni spiegate benissimo da Mattarella, sia perché la Costituzione fissa in 5 anni la durata di una legislatura e questa misura non può essere rimessa continuamente in discussione sulla base dei sondaggi. È evidente che la perimetrazione politica del governo avverrà in seguito a un confronto molto forte sui contenuti. La Lega si trova a fare i conti con una serie di contraddizioni derivanti dall’antieuropeismo, dal filo-putinismo seguito a ruota dal filo-trumpismo e da una serie di scelte programmatiche molto discutibili. Nell’intervista rilasciata due giorni fa alla Gruber Salvini ha riproposto ipotesi non condivisibili, dalla flat tax, a quella quota 100 che ha fatto moltissimi danni anche rispetto alla gestione della pandemia, fino alla riproposizione di scelte aperturiste e liberatorie (“ridiamo libertà agli italiani”) che ignorano che conviviamo ancora con una pandemia che produce circa 500 morti al giorno. Francamente inaccettabile la strizzata d’occhio di Salvini ai no vax: “Mi vaccinerò se me lo dirà il mio medico”. Ma sulla impostazione politico-programmatica del governo la partita è del tutto aperta. Comunque, a Renzi va reso l’onore delle armi di averci dato la possibilità di un governo Draghi. A questo proposito possiamo concludere con una constatazione e un auspicio. La constatazione è quella da Lei avanzata sul giornale di ieri: “Draghi punta sugli investimenti e non sui sussidi”. L’auspicio è che al ministero della Giustizia vada un garantista, non un magistrato o avvocati ultra-giustizialisti, come quelli che hanno prodotto la legge spazza- corrotti, la fine della prescrizione e la legge Severino. Miracolo Draghi, ma deve giurare: “mai più il populismo penale” di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 6 febbraio 2021 Il Conte bis è naufragato sullo scoglio della prescrizione, ora i 5S chiedono che la riforma non sia toccata. Ma è solo l’emblema di un’idea di giustizia su cui il nuovo governo dovrà fare subito chiarezza. Ancora non sappiamo se il Governo del prof. Draghi vedrà la luce, come tutti auspichiamo. Ci sono tutte le premesse perché una crisi politica bollata come irresponsabile pressoché da tutti i protagonisti politici e dalla quasi totalità dei media, finisca invece per affidare la guida del Paese ad un Governo di autorevolezza e forza fino a ieri semplicemente impensabili. In questi tre anni, secondo la abusata citazione cinefila, “abbiamo visto cose che voi umani nemmeno potreste immaginare”. L’incompetenza elevata a virtù, la improvvisazione come garanzia di purezza morale, la mancanza di storia politica come vanto. Siamo ancora increduli che, a Parlamento invariato, possa realizzarsi un simile miracolo: perciò restiamo in trepida ma prudente attesa, come di chi fatica a credere ai propri occhi. In questa miracolosa e quasi inspiegabile palingenesi che parrebbe potersi avverare, occorrerà tuttavia comprendere quale potrà essere il destino della politica giudiziaria nel nostro Paese. Abbiamo già avuto modo di sottolineare come, dati incontrovertibili alla mano, il Governo del populismo giustizialista sia naufragato rovinosamente proprio contro lo scoglio della riforma totemica, emblematica di questa sciagurata, mediocre stagione politica, quella che ha abrogato un istituto di antica civiltà giuridica che è la prescrizione dei reati. Un istituto, lo ripetiamo fino alla nausea, che garantisce un principio di civiltà basico ed elementare: se uno Stato non è in grado di pronunciare entro un tempo ragionevole una sentenza definitiva in ordine alla responsabilità dell’imputato, ha il dovere di rinunziare all’esercizio della sua potestà punitiva. Solo un Paese impazzito può rivendicare con orgoglio di aver licenziato una legge che consente di mantenere letteralmente a tempo indeterminato un imputato, per di più assistito dalla presunzione di non colpevolezza, prigioniero del suo processo. Se il Governo Conte bis ha dovuto dimettersi perché altrimenti la relazione di bilancio annuale della politica giudiziaria del suo Ministro Guardasigilli sarebbe stata bocciata in Parlamento, significa che la maggioranza del Parlamento si oppone a quella politica giudiziaria. E molto semplice. Sicché leggere che i Cinque Stelle già pongono al prof. Draghi, come condizione per il sostegno al suo Governo, la intangibilità di un obbrobrio come tale valutato dalla maggioranza del Parlamento, la dice lunga sulla partita che si sta aprendo sui temi della Giustizia. Perché ovviamente la riforma della prescrizione è solo il volto più visibile di una complessiva idea di giustizia penale, in ordine alla quale occorre che si faccia da subito chiarezza. Conterà certo la persona del nuovo Guardasigilli, ma più e prima ancora le idee di fondo alle quali il Governo intende ispirare la nostra politica giudiziaria. Leggiamo che da tutti si invoca, come un mantra, una riforma del processo penale che riduca i tempi, del mito irragionevoli, del processo in Italia; ed è facile immaginare che sentiremo proclamare questo obiettivo anche dal Prof. Draghi. Siamo talmente d’accordo da aver lavorato per oltre un anno al tavolo voluto dal Ministro Alfonso Bonafede, cioè dal Ministro più lontano dal nostro modo di intendere la giustizia penale, giungendo ad un risultato molto significativo perché condiviso anche con l’Anm di allora. Straordinario potenziamento dei riti alternativi e del filtro della udienza preliminare, forte depenalizzazione ecco la via maestra per ridurre drasticamente i tempi del processo, lasciando intatte le garanzie dell’imputato. Quel patrimonio è andato disperso, e la legge delega non ha più nulla a che fare con gli approdi di quel tavolo, avendo scelto di nuovo di privilegiare riforme che non incideranno sulla riduzione dei tempi, ma che soddisfano inestinguibili pulsioni contro-riformatrici del giusto processo (impugnazioni, principio di oralità ed immediatezza), riemerse con forza. Dunque, non basterà dire processi più rapidi. L’obiettivo è condiviso, ma le soluzioni impongono scelte tutt’altro che neutre. Intanto, i penalisti italiani faranno dono, ai membri del nuovo governo ed a tutti i parlamentari, della nuova indagine sulle vere cause della durata irragionevole dei processi in Italia, condotta con l’Istituto Eurispes, la cui pubblicazione è stata ovviamente ritardata dalla crisi pandemica. Per quanto nelle nostre forze, faremo in modo che, su questo tema cruciale, nessuna mistificazione sia consentita. Chiediamo solo attenzione e rispetto della verità: da un Governo del livello che si va profilando, ci aspettiamo di essere rassicurati che il tempo degli ideologismi giustizialisti sia definitivamente alle nostre spalle. *Presidente dell’Unione camere penali italiane Mirabelli: “Nella Giustizia la priorità sarà l’arretrato, altro che prescrizione” di Errico Novi Il Dubbio, 6 febbraio 2021 Intervista a Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale. Da una parte il conflitto sulla prescrizione. Dall’altra il guardasigilli di un governo Draghi, che dovrebbe essere estraneo ai partiti. “Sembra un’antitesi irriducibile. Ma io credo che si imporrà necessariamente una chiave di lettura tecnico-organizzativa sui problemi della giustizia, in grado di superare i conflitti ideologici. La priorità è liberarsi dell’arretrato e degli ostacoli alla veloce definizione delle cause, civili innanzitutto ma anche penali. Chi siederà a via Arenula avrà un simile argomento per sottrarsi ai contrasti ideologici”. Cesare Mirabelli è presidente emerito della Corte costituzionale. Al pari di Marta Cartabia, che resta il nome evocato con maggiore insistenza per il ministero della Giustizia. L’ex vertice della Consulta, che è stato anche vicepresidente del Csm, non intravede il rischio di una paralisi, per via Arenula, dovuto all’eterno coinflitto sulle garanzie e sulla prescrizione. Presidente Mirabelli, lei dice che la natura tecnica dei problemi oscurerà l’esasperazione politica? Parto dalla prescrizione. Un principio importante. Ma che acquista una sua urgenza in virtù di un tradimento della Costituzione. In che senso? L’articolo 111 della Carta non parla della ragionevole durata del processo semplicemente come un ideale a cui tendere: istituisce un obbligo di risultato, da conseguire attraverso la legge. Lo Stato deve necessariamente assicurare al cittadino un giudizio rapido. Chiunque sia accusato di un reato deve avere il diritto a un accertamento di durata non irragionevole, altrimenti il processo stesso si trasforma in una pena e nel frattempo la vita, l’attività della persona accusata, vengono compromesse. Ciò detto, cosa serve per evitare processi troppo lunghi? Organizzazione e smaltimento dell’arretrato. E quindi un guardasigilli “di alto profilo” dovrebbe rispedire al mittente il clima rissoso e far valere le priorità da lei evocate? Guardi, se nascesse un nuovo governo, credo che una cosa molto utile sarebbe definire, nel giro di trenta giorni al massimo, un libro bianco sui problemi della giustizia. Emergerebbero elementi così preziosi, urgenze così chiare, che si imporrebbero come priorità. Quali sono le chiavi per superare l’inefficienza? Digitalizzazione e uniformità delle interpretazioni. Nel primo caso, non basta informatizzare l’amministrazione della giustizia dal punto di vista interno. Serve anche uno sviluppo condiviso, la cosiddetta co-creazione. Deve essere digitalizzata il più possibile l’attività degli avvocati che sono componente organica del sistema e che anzi vanno coinvolti nelle scelte. Così come serve efficienza digitale in quelle centrali, in quegli enti a cui rimanda una percentuale rilevante del contenzioso. Ad esempio, il 40 per cento degli affari trattati in Cassazione è di natura tributaria: serve innanzitutto uniformità e possibilmente trattazione omogenea del contenzioso seriale. Cambia il fatto ma il principio di diritto è comune a moltissime cause. Il 30 per cento delle controversie di lavoro ha un contenuto previdenziale, cioè chiama in causa l’Inps. Vorrà dire o no che nei rapporti e nello scambio di informazioni con l’istituto c’è un problema? D’altra parte non è semplice creare prevedibilità nelle decisioni... Oltre all’efficacia dell’infrastruttura, serve infatti certezza nell’interpretazione. E qui è da parte della Suprema corte può esserci un contributo maggiore. Non sempre la Cassazione aiuta a creare una giurisprudenza uniforme? Ci sono conflitti fra sezioni, ma anche all’interno della stessa sezione. È chiaro che una simile circostanza incoraggia anziché deflazionare il contenzioso. Il Cnf propone il potenziamento della giustizia alternativa e complementare, per smaltire l’arretrato: è d’accordo? Gli strumenti di definizione alternativa sono utili, e diverse cause civili possono essere mandate in mediazione anziché a sentenza. Penso che vada incoraggiato il ricorso a tali soluzioni, senza però renderlo vincolante. Credo in una combinazione di diversi elementi, quindi anche al già previsto ricorso a giudici aggregati. Ci si deve rendere conto che ad oggi il sistema giustizia, nonostante un organico scoperto per il 15 per cento, ha raggiunto una capacità di definizione dei giudizi che supera seppur di poco i nuovi ingressi. Cosa vuol dire? Che la lentezza è dovuta solo all’arretrato, pari esattamente al doppio delle cause che si riesce a smaltire. Ergo, nel civile il peso del vecchio contenzioso rallenta esattamente di un anno la durata media delle cause. Aggredire l’arretrato basterebbe a fare un balzo enorme in termini di efficienza. Lei dice che tutto questo prevarrà sulle liti per la prescrizione? Prevale in termini oggettivi. Anche perché i reati non andrebbero in prescrizione, se la durata fosse ragionevole. Non si può essere eterni giudicabili, è evidente. Ma ripeto: a me pare che la priorità delle questioni di sistema sia tale da doversi imporre per forza sui conflitti ideologici. Che vanno rispettati, ma non possono ostacolare tutto il resto. Dalla culla del diritto alle manette facili di Raffaele Romano lavocedinewyork.com, 6 febbraio 2021 La magistratura italiana è tanto lenta quanto autoreferenziale. Lo stesso Draghi affermò che una giustizia inefficiente è “fattore potente di attrito” nell’economia. Per non parlare dello scatenarsi delle Procure alla ricerca di missioni etiche che nulla hanno a che fare con l’esercizio della pubblica accusa, procuratori politicizzati che alla luce di indagini mediatiche sono entrati in politica contravvenendo ad ogni forma di conflitto di interessi. L’equiparazione da quelli che sono semplici “avvocati dell’accusa” a giudici ed arbìtri processuali, la quasi inosservanza delle garanzie difensive, in cui non è l’accusa che “deve dimostrare le prove della colpevolezza”, bensì l’imputato che “deve dimostrare la propria innocenza” rappresentano la totale distruzione dei valori occidentali che dall’antica Atene sono arrivati sino a noi. A tutto questo si è aggiunto il capitolo finale di “magistropoli”. Dopo aver scritto della prima precondizione su una pubblica amministrazione efficiente, ora affrontiamo la seconda: quella di una giustizia efficace che, essendo strutturalmente collegata ed intrinsecamente interdipendente ad essa sono da riformare entrambe altrimenti il mondo produttivo e non solo quello non funziona e non può dare risposte in termini di crescita e sviluppo. La situazione della giustizia italiana è catastrofica dal punto di vista gestionale e antiliberale sul piano complessivo. Lo stato dell’arte è più o meno il seguente, dati ufficiali alla mano aggiornati al 30 giugno 2020: c’erano 3.321.149 procedimenti civili pendenti mentre per il penale si hanno 1.619.584 procedimenti pendenti per un totale di 4.904.733 di cause totali da esaminare degli anni passati. Ai circa cinque milioni di giudizi pendenti ne vanno sommati altri circa 150.000 per ricorsi in primo grado e 24.000 in secondo per quanto riguarda i processi non ancora conclusi nei tribunali amministrativi ed un numero alto ma imprecisato in Corte di Cassazione. In conclusione la nostra macchina processuale risulta gravata da un arretrato enorme ed imponente, secondo solo alla Bosnia Erzegovina nell’intero vecchio continente. Dulcis in fundo abbiamo che il peso della materia tributaria e fiscale grava sull’intero arretrato della Cassazione per il 52% dato questo da tener presente quando nel prossimo articolo si passerà ad esaminare il fisco italiano. E non è sicuramente tutto in quanto con lo scoppio del Covid 19 dal’11 maggio 2020 le udienze si possono tenere solo da remoto e fino a settembre non ci sono state quasi più udienze su tutto il territorio nazionale per potersi organizzare alle nuove regole e, di conseguenza, questi numeri sono di molto ancora aumentati ed il sito del Ministero della Giustizia, ad oggi, non li ha ancora aggiornati. I dati della Commissione europea per l’efficacia della giustizia confermano il triste primato dell’Italia che la vede all’ultimo posto dell’Unione. In particolare, secondo queste rilevazioni la durata media di un processo civile sarebbe pari a 527 giorni per il primo grado; 863 giorni per l’appello; 1.265 giorni per la Cassazione per una durata media complessiva dell’intero giudizio pari a 2.655 giorni (più o meno sette anni e tre mesi). Ma si badi bene si parla di “media statistica” per cui senza volere citare la statistica del pollo di Trilussa ed in onore degli Stati Uniti preferiamo citare Henry Charles Bukowski Jr, un grande poeta associabile alla corrente del realismo sporco, che diceva “un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media”. Se questo è il quadro sintetico dello stato dell’arte ancor peggio è la situazione sul piano di una forte carenza della giustizia liberale in Italia laddove i fondamentali dei diritti della difesa sono stati erosi, nel tempo, in nome e per conto di provvedimenti legislativi di emergenza dovuti al terrorismo, alla criminalità organizzata e alla corruzione. Si prenda, ad esempio, il problema della corruzione che c’è indubbiamente, ma sapere che l’Italia è indicata come il paese fra i più corrotti d’Europa si basa sull’Indice di Percezione della Corruzione (CPI) di Transparency International e che dal 1995 è il più importante indicatore globale della corruzione nel settore pubblico la dice lunga, purtroppo si fa riferimento alla “percezione della corruzione” e non certamente a dati e numeri precisi. Il teorema abbastanza razzista che la rivista tedesca “Der Spiegel” (Lo specchio), nel mese di luglio del 1977, con la famosa rivoltella sugli spaghetti e dal pessimo sottotitolo “Urlaubsland” (Il Paese delle vacanze) ha imposto all’opinione pubblica mondiale vive ancora. In questo aiutato da un’infinita quantità di films, serie tv, libri e articoli italiani che hanno alimentato l’esercito dei “professionisti dell’antimafia” di sciasciana memoria che, con molta spregiudicatezza, è ormai diventato un formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa. Nel libro “Le mafie sulle macerie del muro di Berlino” (ed. Diarkos), scritto a quattro mani dalla giornalista Ambra Montanari e l’eurodeputata Sabrina Pignedoli, Bernd Finger ex investigatore capo della BKA, l’ufficio federale della polizia criminale tedesca, narra di come la Treuhandgesellschaft, l’azienda fiduciaria incaricata dal governo della DDR di vendere le proprietà pubbliche della Germania Est, era stata incaricata di privatizzare 22.000 imprese, due terzi delle foreste, 8.000 compagnie, innumerevoli edifici e il 28% dei terreni agricoli. Di questo, ovviamente, Der Spiegel non ha mai parlato forse perché l’accento mafioso è diventato germanico. Dal 1990 in poi è scoppiata in Italia un’epidemia alimentata da giornali dai titoli roboanti e tv con telecamere in piazza guidate da sedicenti giornalisti che l’hanno, fino ad oggi, alimentata per due principali scopi: alzare lo share ed attaccare il governo. Questa fortissima azione demolitoria in 30 anni ha portato l’Italia da “culla del Diritto” con il garantismo a “valle del giustizialismo” estremo. Il Giustizialismo ha generato l’applicazione delle “manette facili”, una magistratura incontrollata e totalmente autoreferenziale, per non parlare dello scatenarsi delle Procure alla ricerca di missioni etiche che nulla hanno a che fare con l’esercizio della pubblica accusa, procuratori politicizzati che alla luce di indagini mediatiche sono entrati in politica contravvenendo ad ogni forma di conflitto di interessi. L’equiparazione da quelli che sono semplici “avvocati dell’accusa” a giudici ed arbìtri processuali, la quasi inosservanza delle garanzie difensive, in cui non è l’accusa che “deve dimostrare le prove della colpevolezza”, bensì l’imputato che “deve dimostrare la propria innocenza” rappresentano la totale distruzione dei valori occidentali che dall’antica Atene sono arrivati sino a noi. A completare il quadro c’è stata ultimamente la definitiva cancellazione della prescrizione dovuta ai tempi biblici delle cause per cui oggi in Italia si può, senza questo strumento di salvaguardia, rimanere sotto processo per 30 anni e, dopo, essere riconosciuti innocenti. A tutto questo si è aggiunto il capitolo finale di “magistropoli” nell’ultimo anno in cui vari Pm si sono intercettati ed arrestati fra loro e di cui il recentissimo libro intervista di Alessandro Sallusti al radiato giudice Luca Palamara: Il Sistema ed. della Rizzoli, può diventare il detonatore dell’esplosione finale del pianeta giustizia. Già nel 2011, lo stesso presidente incaricato Mario Draghi nelle Considerazioni finali alla Banca d’Italia da “Governatore” della stessa avvertiva che andava affrontato alla radice il problema della completa efficienza della giustizia come “un fattore potente di attrito nel funzionamento dell’economia, oltre che di ingiustizia. Nostre stime indicano che la perdita annuale di prodotto attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile potrebbero giungere” a livelli insostenibili dal sistema produttivo. A livello sovranazionale e internazionale, dati della Banca Mondiale, si è acquisita la consapevolezza che il diritto è un elemento costitutivo dell’economia, con esso la giustizia viene considerata come un alto e determinante fattore di competitività e di crescita economica. Numerosi studi hanno messo bene in evidenza la relazione esistente fra diritto e crescita economica. Fra le possibili riforme applicabili la Doing Business nell’Unione Europea 2020: Italia vergato dalla Banca Mondiale indica che per far diventare la giustizia stimolante e non più frenante per l’economia si deve limitare il numero, la durata e i motivi per la concessione dei rinvii; introdurre sezioni o tribunali commerciali specializzati nelle sole materie commerciali; gestire attivamente la fase preprocessuale e valutare la possibilità di adottare mezzi di risoluzione alternativa delle controversie ed infine utilizzare i dati per meglio riequilibrare risorse e carichi di lavoro con la totale digitalizzazione dei tribunali. A tal riguardo va ricordato che l’articolo 6, paragrafo 1 della Cedu (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) recita: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.” E sarà a questo settore vitale che Draghi dovrà guardare con estrema attenzione. Piero Tony: “Cari magistrati, perché nessuno smentisce Palamara?” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 febbraio 2021 “Palamara esagera definendo addirittura “sistema” l’apparato giustizia così com’è, quasi fosse una centrale del crimine anziché una spregiudicata accozzaglia di arrampicatori subculturati di cui è vittima la stessa magistratura”. Parla Piero Tony, presidente del dipartimento Giustizia della Fondazione Einaudi, magistrato per 45 anni. Piero Tony oggi è Presidente del Dipartimento Giustizia della Fondazione Einaudi, ma è stato magistrato per 45 anni: giudice Istruttore a Milano fino al 1974, ha istruito tra l’altro il primo procedimento contro le Br di Curcio, Cagol più altri, con l’allora sostituto procuratore Guido Galli; è stato anche sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Firenze fino al 1998, dove chiese ed ottenne l’assoluzione per Pacciani nel processo sul Mostro di Firenze. Componente del Comitato Promotore dell’Unione Camere Penali per la proposta di legge costituzionale sulla separazione delle carriere, nel 2015 fu autore con Claudio Cerasa di Io non posso tacere (Einaudi), un libro che scosse prima ancora de Il Sistema l’intera magistratura. Cosa ne pensa del libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti? Per quanto riguarda il tema dello strapotere delle correnti, si tratta della scoperta dell’acqua calda. Non c’era bisogno del trojan inoculato nel telefono di Palamara per conoscere quei meccanismi di appartenenza. Li avevo già denunciati molti anni fa quando scrissi Io non posso tacere e fui pesantemente attaccato dall’Anm perché secondo il sindacato avevo scritto cose inesatte. Il tempo mi ha dato ragione, ma la consolazione è magra. Credo che il libro Sallusti-Palamara abbia sicuramente un valore aggiunto perché Palamara, avendo operato per anni nei più profondi meandri dell’organizzazione, può parlare per conoscenza diretta, quasi, absit iniura verbis, come un “pentito”, naturalmente mutatis mutandis quanto a motivazioni. Mi pare anche sicuro che Palamara, operando con questo libro una impietosa dissezione dell’apparato giustizia, ne cancelli forse per sempre, e con effetti imprevedibili, la tradizionale sacralità; che non consiste solo in fictio e paludamenti ma, soprattutto, in valori quali credibilità e autorevolezza. Per concludere, mi pare anche che esageri definendo addirittura “sistema” l’apparato giustizia così com’è, quasi fosse una centrale del crimine anziché una spregiudicata accozzaglia di arrampicatori subculturati e tra loro quantomeno conniventi. Senza sottolineare - proprio in ogni pagina - che del “sistema” di cui parla è vittima estranea la maggior parte della magistratura. Cosa lo ha colpito di più? Palamara racconta dettagli molto convincenti, peraltro al momento non smentiti da nessuno. Quelli che mi hanno colpito maggiormente, per la loro gravità inaudita, riguardano gli asseriti imbrogli per lottizzare e condizionare i processi. I segnali, a dir il vero, c’erano tutti: una persona normale non poteva non chiedersi come mai, ad esempio, per anni una Procura come Milano fosse pressoché concentrata solo su Berlusconi. Ma possiamo anche citare il caso di Giulio Andreotti: sicuramente tanto mafioso da aver baciato un boss? Per non parlare del giudice Corrado Carnevale, “l’ammazzasentenze”, accusato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso come se il collegio di legittimità fosse monocratico. L’inchiesta durò circa dieci anni, venne condannato ed alla fine assolto. Furono costretti a tenerlo a lavorare fino a circa 80 anni per esilarante risarcimento degli anni di carriera perduti. Quanto è accaduto a costoro oggi lo spiega Palamara: quello che lui chiama “il sistema” lo esigeva, il clima fortemente politico lo imponeva, guai a chi la pensava diversamente. Che l’ideologia possa minare l’autonomia e l’indipendenza di un magistrato lo abbiamo visto anche nella chat di Palamara relativa a Matteo Salvini... È terrificante il dialogo tra i due magistrati: per dettato costituzionale dovrebbero essere autonomi ed indipendenti. Tuttavia, paradossalmente, nonostante che per legge non possano essere iscritti a partiti politici, tramite correnti politicizzate riescono ad organizzare una guerra politica contro un Ministro in carica. Fatto questo quadro, come usciamo da questa crisi? Due sono i rimedi, ineludibili: separazione delle carriere dei magistrati e sorteggio per il plenum del Csm, in modo che i candidati siano esenti da giri elettorali e non si instauri il circuito del promettere, del dare, del pretendere. Per far decollare il processo così come riformato nel 1989 occorre attivare la centralità del dibattimento - guerra tra le parti davanti a giudice terzo ed imparziale - ed abbandonare la vigente malaprassi della centralità delle indagini preliminari. Sottolineare e ricordare che nella fase delle indagini preliminari la difesa è pressoché assente e comunque inerme. E in tutti i gradi è svantaggiata perché l’arbitro indossa la stessa maglia dell’avversario, come ricorda l’Ucpi... Non c’è dubbio. Ed è svantaggiata anche a causa della sentenza 255 del 3 giugno del 1992 della Corte Costituzionale che sancì il principio di non dispersione dei mezzi di prova, “il principio del norcino”, come lo chiama qualcuno, perché non si butta via nulla. Con ciò snaturando i principi cardine del processo accusatorio. Lo svantaggio della difesa deriva anche dal rapporto privilegiato che le procure hanno con gli organi di stampa... Come si dice chiaramente nel libro di Sallusti e Palamara non è quasi mai vero che gli atti giudiziari escono perché li passano gli avvocati difensori. Non è possibile, perché nella parte iniziale del procedimento esiste un momento in cui certi atti li hanno solo i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria. Quindi se qualcosa arriva alla stampa può provenire solo da quelle fonti. Conseguenze? Titoloni in prima pagina nell’immediatezza del fatto, rappresentazione dell’ipotesi accusatoria e colpevolista, formazione di una conseguente opinione pubblica, il cosiddetto processo mediatico, insomma. Molte persone sono state massacrate così, da un processo mediatico sostanzialmente inappellabile: se dopo anni vieni assolto, non se lo ricorda più nessuno. Quale potrebbe essere una soluzione? Non citare i pm nei comunicati stampa? Anche se è tutto fuori legge, nessuno interviene. Pensiamo a quante volte le persone vengono riprese ammanettate, anche se non si dovrebbe farlo. O a quante volte le forze dell’ordine vanno ad arrestare qualcuno e arrivano già con qualche troupe televisiva al seguito. Non mettere il nome del pm può avere come unica conseguenza il fatto che lui legga con minor soddisfazione il giornale il giorno dopo, se è presenzialista o narcisista. Come tutte le libertà anche quella di stampa è come cristallo, assoluta. Ciò non vieterebbe però di fare indagini, sulla fonte delle notizie pubblicate, nel momento in cui le carte le ha solo il pm e la polizia giudiziaria. Sarebbe altresì auspicabile che la stampa si autoregolamentasse in maniera più adeguata. La parola chiave dell’inaugurazione dell’anno giudiziario è stata “credibilità”. Lei crede che la magistratura è pronta ad intraprendere la via della redenzione? Mi ero gonfiato di speranza quando circa quattro anni fa in un convegno dell’Anm a Siena nella mozione conclusiva si scriveva una cosa del tipo ‘diamo atto che così non va, dobbiamo pensare che ci dobbiamo acculturare, grazie anche alla scuola di formazione dei magistrati’. Oggi cosa scopriamo: che anche codesta scuola pare sia lottizzata dalle correnti descritte da Palamara. La verità è che, per fortuna e misteriose ragioni, godiamo ancora di troppa credibilità rispetto a quanto emerso dalle chat di Palamara. Ma sa qual è il vero problema? Mi dica... Quando scrissi che del processo era centrale solo la fase delle indagini preliminari e che il pubblico ministero ha uno strapotere eccezionale venni criticato fortemente anche se ora lo ammettono in molti. La centralità in quella fase non è tanto del pm, quanto della polizia giudiziaria. Cosa vuol dire esattamente centralità delle indagini preliminari? Io dico “indagini preliminari di polizia”, visto che la gran parte delle indagini viene svolta dalla polizia giudiziaria, su delega aperta o su sua iniziativa, tanto che alcune volte l’indagato si trova in carcere o a giudizio senza che il pm lo abbia mai visto o ci abbia mai parlato. Significa che le prove - che dovrebbero essere formate in dibattimento, a ragionevole distanza di tempo dal fatto, sotto il controllo dialettico delle parti - vengono in realtà formate dagli investigatori alle spalle dei soggetti interessati. Questo viene accennato anche nel libro di Palamara quando racconta come da una qualsiasi velina o input si possa organizzare di tutto nei confronti di una determinata persona. Però in questo anche il gip ha le sue responsabilità... Lei ha ragione e questo ci riporta alla necessità di separare le carriere. Approfitto per segnalare un frequente e pernicioso malvezzo: il pm chiede una misura cautelare e il gip risponde anche dopo anni, quando per il tempo trascorso è ormai svanita ogni esigenza. Questo succede solo da noi. A proposito di questo, cosa ne pensa delle recenti dichiarazioni di Nicola Gratteri sul Corsera? Credo sia solo un problema di subcultura. Ne ha fatte tante altre nel corso della sua guerra ai fenomeni criminosi. Non è rimasto colpito quando disse che il suo compito era salvare la Calabria? Non particolarmente, è un vezzo di tanti magistrati quello di voler essere salvatori, che sia dalla mafia, dalla ‘ndrangheta o dalla immoralità fa poca differenza. A tal proposito Giovanni Falcone amava ripetere qualcosa tipo “ma cosa c’entriamo noi con i fenomeni, noi giudichiamo le singole persone nei termini di legge”. Lei ha citato Falcone: le faccio la stessa domanda che qualche giorno fa ho posto al professor Tullio Padovani. Il compianto giudice viene spesso strumentalizzato, De Magistris si presenta in televisione con la foto di Falcone e Borsellino alle spalle, ma poi nessuno ricorda che era favorevole alla separazione delle carriere... La foto di Falcone e Borsellino ce l’hanno un po’ tutti nel taschino. Falcone, che ho avuto modo di incontrare nel corso degli anni, considerava la separazione delle carriere un naturale corollario del processo accusatorio. Semplicemente questo. Sono passati più di 30 anni, convegni, proposta di legge popolare, ma il “naturale corollario” è chiuso nel cassetto e si discute dell’acqua calda del dottor Palamara. Istat: meno omicidi durante il lockdown ma crescono i femminicidi di Agnese Ananasso La Repubblica, 6 febbraio 2021 L’ultimo report dell’Istituto di statistica sulla criminalità e gli omicidi in Italia: nel primo semestre 2020 gli assassini di donne sono stati pari al 45% del totale degli omicidi, contro il 35% dei primi sei mesi del 2019, e hanno raggiunto il 50% nei mesi di marzo e aprile 2020. Il 2020 passerà alla storia come l’anno della pandemia e del lockdown ma anche per aver registrato un altro triste dato: il calo degli omicidi ma l’aumento dei femminicidi. Nel primo semestre 2020 “gli assassini di donne sono stati pari al 45% del totale degli omicidi, contro il 35% dei primi sei mesi del 2019, e hanno raggiunto il 50% durante il lockdown nei mesi di marzo e aprile 2020”. È quanto emerge dal report dell’Istat sulla criminalità e gli omicidi in Italia. L’elemento più preoccupate è che le vittime sono state uccise principalmente in ambito affettivo e familiare (90% nel primo semestre 2020) e da parte di partner o ex partner (61%). Nel 2019, dei 315 omicidi commessi in Italia, il 47,5% è avvenuto in ambito familiare o in quello delle relazioni affettive extra-familiari, valore che risulta in costante aumento negli anni (+13,3% rispetto al 2018, +34,9% sul 2017 e +126,5% rispetto al 2002, anno di inizio della serie storica dei dati) “anche a causa dell’incremento dei casi in cui è stato identificato l’autore e al calo di quelli attribuibili ad autori sconosciuti alla vittima”, spiega l’Istituto nazionale di Statistica. Emergono soprattutto due aspetti: “da un lato, sono diminuiti negli anni gli uomini uccisi, più spesso vittime di persone a loro sconosciute e i cui omicidi rimangono molte volte irrisolti, mentre le donne sono uccise di più in ambito familiare; dall’altro lato, sono aumentati gli omicidi da parte di parenti anche a danno di uomini, valore pari a quello delle donne”. Le differenze di genere sono comunque forti: gli omicidi in ambito familiare o affettivo sono il 27,9% del totale degli omicidi di uomini e l’83,8% di quelli che hanno come vittime le donne; quindici anni fa gli stessi valori erano pari rispettivamente a 12,0% e 59,1%. Le donne sono uccise soprattutto dal partner o ex partner (61,3%): in particolare, 55 omicidi (49,5%) sono causati da un uomo con cui la donna era legata da relazione affettiva al momento della sua morte (marito, convivente, fidanzato), 13 (11,7%) da un ex partner. Fra i partner, nel 70,0% dei casi l’assassino è il marito, mentre tra gli ‘ex’ prevalgono gli ex conviventi e gli ex fidanzati. Agli omicidi dei partner si sommano quelli da parte di altri familiari (il 22,5% pari a 25 donne) e di altri conoscenti (4,5% con 5 vittime). Questi valori sono complessivamente stabili negli anni. Sconta 6 anni di galera e poi viene assolto: nessun risarcimento per “Cattive frequentazioni” laquilablog.it, 6 febbraio 2021 “Ho scontato sei anni di galera, poi sono stato assolto e non mi hanno risarcito perché avevo cattive frequentazioni con estremisti di sinistra”. Inizia così il racconto di Giulio Petrilli, ex presidente dell’azienda regionale edilizia e territorio dell’Abruzzo. “Per aver stabilizzato cinque dipendenti e aver ridotto l’indennità del direttore da 110.000 euro annui a 39.000 - spiega - volevano farmi fare per abuso d’ufficio otto mesi di carcere e mi hanno condannato a pagare 160.000 euro. Tutte queste condanne non solo per la mia giusta azione in difesa del diritto al lavoro e all’abbassamento forte degli stipendi dei manager, ma ce l’avevano con me per aver denunciato la corruzione post terremoto, i puntellamenti senza fare gare d’appalto e con guadagni altissimi. “Poi - prosegue il racconto di Giulio Petrilli - da presidente Aret avevo spinto per dare i fondi della cooperazione internazionale ai paesi post guerra come la Serbia per gli orfanotrofi, ospedali, adozioni a distanza ecc. 460.000 euro”. “Ho pensato a questo e a mandare i soldi li e non a prendere tangenti”, conclude Giulio Petrilli. Alla guida dopo aver fumato una “canna”, sanzioni solo in presenza di alterazione psico-fisica di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2021 La Cassazione, sentenza n. 3900/2021, ha accolto il ricorso di un trentenne che non presentava sintomi particolari. Per contestare la guida sotto effetto di sostanze stupefacenti (articolo 187 del Cds) “non è sufficiente solo la positività alla sostanza, come nel caso di guida in stato di ebbrezza, essendo necessario che lo stato di alterazione psico-fisica sia conclamato e derivi dall’uso di droga”. La Corte di cassazione, sentenza n. 3900/2021, ha così accolto il ricorso di un trentenne di Ivrea condannato in primo e secondo grado per essersi messo alla guida dopo aver assunto cannabinoidi. Detto altrimenti, non è sufficiente che “l’agente si sia posto alla guida del veicolo subito dopo aver assunto droghe ma è necessario che egli abbia guidato in stato di alterazione causato da tale assunzione”. “La distinzione fra lo stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacente (articolo 187 Cds) e la guida sotto l’influenza dell’alcool (186 Cds) - prosegue la IV Sezione penale -, risiede tanto nell’indifferenza alla quantità di sostanza assunta, (che invece determina la diversa sanzione nell’ipotesi dell’alcool) quanto nella rilevanza dell’alterazione psicofisica causata dall’assunzione di droga”. La scelta legislativa di ancorare la punibilità a presupposti diversi da quelli previsti per la guida in stato di ebbrezza (“per configurare la quale è sufficiente porsi alla guida dopo aver assunto alcool oltre una determinata soglia”), secondo la Cassazione “trova la sua ratio nell’apprezzamento della ritenuta maggior pericolosità dell’azione rispetto al bene giuridico tutelato della sicurezza stradale, che implica l’assenza di ogni gradazione punitiva a fronte dell’accertata alterazione psicofisica causata dall’assunzione di stupefacenti”. Un ragionamento limpido che però sembra poter giocare anche a favore dell’assuntore qualora “regga” senza alterazioni manifeste l’uso delle droghe. Un elemento che, come detto, invece, non rileva per l’alcool, dove la punibilità scatta comunque al superamento di una determinata quantità a prescindere dalla alterazione riscontrata. “Nondimeno - prosegue la decisione rilevando una almeno potenziale contraddizione - il legislatore, condiziona la punibilità all’effettivo accertamento non della mera assunzione della sostanza, madi uno stato di alterazione da quella derivante, con ciò intendendo la compromissione dei rapporti fra processi psichici ed i fenomeni fisici che riguardano l’individuo in sé ed suoi rapporti con l’esterno”. Alla sintomatologia dell’alterazione, deve, dunque, accompagnarsi l’accertamento della sua origine e cioè dell’assunzione di una sostanza drogante o psicotropa, “non essendo la mera alterazione di per sé punibile, se non derivante dall’uso di sostanza, né essendo tale il semplice uso non accompagnato da alterazione”. Diversamente dall’ipotesi di guida sotto l’effetto di alcool, l’accertamento non può dunque limitarsi né alla sola sintomatologia, né al solo accertamento dell’assunzione, ma deve compendiare i due profili. “Laddove però - prosegue la sentenza - siffatto accertamento, senza dubbio più complesso di quello previsto per la guida in stato di ebbrezza alcolica, dia esito positivo”, e qui si rinviene la considerazione del maggior ‘disvalorè, “l’assenza di soglie implica di per sé l’integrazione del reato”. Un reato che coerentemente il legislatore ha agganciato nel trattamento sanzionatorio “alla più grave sanzione prevista dall’art. 186, comma 2, lett. c)”. In definitiva, la constatazione della sintomatologia determina l’avvio di un procedimento finalizzato a verificare se essa è correlata all’assunzione di sostanze droganti. E le modalità di accertamento, non implicano necessariamente l’accertamento ematico (da ritenersi - ove positivo - risolutivo sulla causa scatenante l’alterazione), ma consentono di far risalire l’origine dell’alterazione psicofisica all’uso di droghe “anche attraverso accertamenti biologici diversi come l’esame delle urine, che seppure di per sé non esaustivi, sono certamente indicativi della pregressa assunzione”. Tornando al caso concreto, la Corte territoriale invece ha omesso “ogni approfondimento sullo stato di alterazione psico-fisica da assunzione di stupefacenti, limitandosi alla constatazione, da parte degli operanti, del sintomo del rossore degli occhi, senza affrontare, nondimeno, il riscontro di quegli elementi di elisione dell’equivocità del quadro risultante dagli accertamenti svolti, né ricordare che l’alterazione psico-fisica implica una modifica comportamentale che renda pericolosa la guida di un veicolo, diminuendo l’attenzione e la velocità di reazione dell’assuntore”. Reati sessuali, legittima l’anticipazione della testimonianza del minore di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2021 Per la Consulta, sentenza 14/2021, la maggior tutela è ragionevole e regolata in modo da non ledere i diritti dell’imputato. È legittima la previsione di legge che dispone l’ascolto anticipato del minore testimone di reati sessuali in quanto soggetto fragile da non esporre allo stress del dibattimento. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 14/2021 dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 392, comma 1-bis, del Cpp, sollevata dal Gip del Tribunale di Macerata, in riferimento agli articoli 3 e 111 della Costituzione. “L’aver in linea di principio presuntivamente equiparato - si legge nella decisione - quanto all’anticipazione dell’assunzione testimoniale, il minorenne vittima del reato al minorenne mero testimone risponde infatti ad una scelta che non trascende la sfera di discrezionalità riservata al legislatore nella conformazione degli istituti processuali anche in materia penale, con la conseguenza che essa non può essere ritenuta manifestamente irragionevole”. L’assunzione anticipata della testimonianza del minorenne, attraverso il ricorso all’incidente probatorio speciale, spiega la Consulta, deve essere in primo luogo ricondotta al rilievo costituzionale da attribuirsi ad “esigenze di salvaguardia della personalità del minore”, che nella norma censurata si traducono in una presunzione di indifferibilità o di non ripetibilità del relativo contributo testimoniale, rivolta in prima battuta a preservare il minore “dagli effetti negativi che la prestazione dell’ufficio di testimone può produrre in rapporto alla [sua] peculiare condizione”, mediante la sua sottrazione, in linea di principio, allo strepitus fori e la previsione di una sua rapida fuoriuscita dal circuito processuale. La seconda e concorrente finalità è invece di natura endoprocessuale ed è connessa alla circostanza che l’anticipazione della testimonianza alla sede incidentale, tanto più laddove si proceda per reati attinenti alla sfera sessuale, è rivolta anche a garantire la genuinità della formazione della prova, atteso che la assunzione di essa in un momento quanto più prossimo alla commissione del fatto costituisce anche una garanzia per l’imputato, perché lo tutela dal rischio di deperimento dell’apporto cognitivo che contrassegna, in particolare, il mantenimento del ricordo del minore. Inoltre, spiega la Corte, “l’eccezione che la disposizione censurata introduce rispetto al principio di immediatezza della prova e alla sua conseguente formazione in dibattimento risulta compensata dalla circostanza che le modalità di assunzione anticipata della prova testimoniale del minore e, più in generale, del soggetto vulnerabile sono disciplinate … in modo tale da garantire il diritto di difesa della persona sottoposta alle indagini”. L’articolo 398, comma 5-bis, secondo periodo, Cpp prevede infatti che “[l]e dichiarazioni testimoniali debbono essere documentate integralmente con mezzi di produzione fonografica o audiovisiva”. Una previsione che “si pone a presidio dei diritti del soggetto indagato, perché scongiura l’eventualità che i contenuti della testimonianza assunta in sede incidentale nelle forme dell’audizione protetta vengano documentati, in vista del loro utilizzo in dibattimento, nelle ordinarie forme solamente scritte”. Del resto, al giudice spetta un ampio margine di flessibilità nel definire modalità di escussione del testimone minorenne tale da assicurare un bilanciamento tra l’esigenza di preservare la libertà e la dignità di quest’ultimo e le garanzie difensive dell’imputato. Si va dalla possibilità di impiegare un contraddittorio pieno, con facoltà per il Pm e per il difensore di porre domande dirette, alle forme contrassegnate da un grado via via crescente di protezione. Così, ove il giudice ritenga che né la condizione personale del minorenne mero testimone chiamato a deporre, né la delicatezza o scabrosità del suo contributo testimoniale giustifichino forme di audizione protetta, tali da comprimere legittime esigenze di contraddittorio, “potrà pur sempre evitare che l’escussione avvenga nelle forme protette, ripristinando così il contraddittorio pieno con l’indagato”. Napoli. “Poggioreale è la maglia nera dei penitenziari napoletani” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 febbraio 2021 I numeri nel dossier del garante di Napoli Pietro Ioia: a Poggioreale circa 2.000 reclusi rispetto ai 1.500 posti disponibili. Affollati, con una sanità carente e senza alcun percorso di riabilitazione sociale. È il quadro desolante delle carceri napoletane che emerge dal report presentato al centro culturale Gridas di Scampia da Pietro Ioia, garante del comune di Napoli delle persone private della libertà: “Abbiamo voluto racchiudere in un documento il lavoro di un intero anno trascorso all’interno dei penitenziari della regione. Un anno difficile, in cui abbiamo dovuto fronteggiare l’assenza di cure e di misure anti-Covid”, ha spiegato Ioia durante la presentazione. Maglia nera a Poggioreale che, a fronte dei 1500 posti disponibili circa, accoglie 2mila detenuti. Ma Ioia, testimone nel processo “Cella zero” sulle percosse ai detenuti, denuncia anche il ricorso alla violenza: “Quello che è successo a Santa Maria Capua Vetere è gravissimo e spero che la giustizia faccia il suo corso rapidamente. Episodi di violenza ci sono ancora oggi, soprattutto dopo le rivolte”. I numeri impietosi di Poggioreale -Anzitutto i numeri che fotografano ancora una volta una realtà fatta di celle e padiglioni contrari al quel principio volto a “salvaguardare la dignità dell’essere umano recluso” come si legge nell’introduzione del report. Poggioreale è l’espressione di questo fallimento: alla fine del 2020, rispetto ai 1.571 posti realmente disponibili ha visto 1.991 persone detenute, di cui 286 straniere. Numeri impressionanti, che fanno il paio con la carenza d’organico per il personale di vario tipo impegnato. Gli agenti di Polizia penitenziaria attualmente in servizio a Poggioreale sono 775 rispetto i 911 previsti in pianta organica); gli educatori sono 13 a fronte dei 22 previsti per l’istituto e 57 sono le persone con un incarico amministrativo contro i 68 previsti. “Entrando nei padiglioni - si legge nel report - è subito evidente la differenza tra le zone ristrutturate e quelle che non lo sono: queste ultime versano in pessime condizioni, presentando spesso scarsa pulizia, umidità alle pareti, un unico ambiente in cui si trovano sia i servizi igienici che la cucina, mancanza di doccia nella maggior parte delle stanze e assenza di spazi della socialità in quasi tutti i padiglioni; inoltre, molte stanze ospitano fino a 12 detenuti (in una delle visite una di esse accoglieva ben 13 persone), con letti a castello a tre livelli, molto vicini al soffitto”. Inoltre: “Non tutte le celle prevedono il riscaldamento e in quelle in cui è presente spesso non funziona. Anche l’acqua calda è presente solo in alcune stanze di detenzione. Le aree destinate al passeggio, presenti in tutti i padiglioni, sono molto piccole rispetto al numero di detenuti presenti”. Infine, altro aspetto negativo riguarda il numero delle persone tossicodipendenti all’interno del carcere di Poggioreale, ben 532, il 26,7% “che punta i riflettori sull’esistenza di un problema nel problema: la cura della tossicodipendenza all’interno del carcere”. Un sovraffollamento più limitato all’istituto Pasquale Mandato di Secondigliano, comunque preoccupante. Rispetto ai 1.037 posti a disposizione, ne risultano occupati 1.249, 81 di questi da stranieri. Tra i detenuti presenti coloro che stanno scontando una condanna definitiva sono 654, le persone in attesa di giudizio sono 593 e 2 sono invece gli internati. A Secondigliano più basso anche il numero detenuti con problemi di tossicodipendenza, pari a 196. Poi c’è Nisida, il carcere che accoglie i detenuti più giovani. I minorenni sono attualmente 38 di cui: due hanno tra i 14 e i 15 anni, dodici tra i 16 e i 17 anni, diciassette tra i 18 e i 20 anni e sette tra i 21 e i 24 anni. Napoli. Pietro Ioia, il Garante al servizio di chi in carcere non ha nulla di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 febbraio 2021 Pietro Ioia sta attivando uno Sportello di orientamento legale gratuito, uno di avviamento al lavoro e di ricerca di occupazione. Esiste una stretta correlazione tra chi entra in carcere e la mancanza di occupazione, ma anche tra la devianza e la bassa scolarizzazione. Un dato che emerge dal dossier elaborato dall’ufficio del garante locale dei detenuti del comune di Napoli, con l’ausilio delle collaboratrici Sara Romito e Sarah Meraviglia. Ed è Pietro Ioia che ha ricevuto il mandato da oramai più di un anno per svolgere il ruolo da garante comunale per le persone private della libertà. Pietro Ioia è un punto di riferimento importante e soprattutto competente sia per il suo attivismo costante e sia perché è la rappresentazione vivente dell’articolo 27 della nostra Costituzione: parliamo di un uomo che nella sua vita passata ha commesso dei grossi sbagli (Pietro Ioia è un ex detenuto), ma non solo è cambiato e si è riscattato nella vita, sta soprattutto contribuendo attivamente per il benessere della nostra civiltà. Il livello di istruzione dei detenuti è mediamente basso - Dal dossier del garante di Napoli emerge il dato che tra criminalità e precedenti esperienze scolastiche fallimentari esiste un nesso stretto e che il livello d’istruzione dei detenuti è mediamente basso: sommando i dati relativi ai detenuti analfabeti, privi di titolo di studio e con licenza elementare si calcola che la percentuale di ristretti che non ha assolto l’obbligo scolastico sfiora il 40%. Confrontando questi dati con quelli della popolazione libera - che per il 45,5 % ha un titolo di licenza elementare e licenza media e per il 35,6 % un diploma di istruzione secondaria - risulta, sottolinea il dossier - “con evidenza drammatica l’entità del legame tra criminalità e bassa scolarizzazione”. Ma, com’è detto, emerge una stretta correlazione anche tra devianza e mancanza di occupazione, dimostrata dal fatto che la percentuale complessiva dei disoccupati e degli inoccupati, prima dell’ingresso in carcere, è di circa il 34 %, a cui si deve aggiungere un 42 % di persone detenute con una condizione lavorativa non rilevabile. Uno sportello di orientamento legale gratuito - Ed è proprio guardando poi alla situazione delle carceri napoletane che si comprende quanto sia predominante la questione della marginalità sociale che porta alla delinquenza. Ed è qui che il garante Pietro Ioia diventa un punto di riferimento determinante, anche attraverso azioni concrete. Lo si evince sempre dal dossier. La prima cosa è la mancanza di conoscenza da parte dei detenuti riguardante i propri diritti e anche la possibilità di avere avvocati. Molti detenuti, infatti, si rivolgono al Garante per chiedere informazioni sui provvedimenti adottati nei loro confronti e sulla normativa di riferimento: in questi casi sono state fornite tutte le informazioni e le delucidazioni necessarie e si sta inoltre attivando uno sportello di orientamento legale gratuito presso l’Officina delle culture “Gelsomina Verde” della Cooperativa Sociale R(E)sistenza di Scampia, grazie a cui un’équipe di avvocati accompagnerà i familiari che ne faranno richiesta nel percorso giuridico della persona reclusa. Molti detenuti e anche molti familiari, infatti, hanno pochissimi contatti con i propri difensori oppure li interpellano solo in casi di profonda necessità, spesso per problemi di natura economica. Non solo. Molti ristretti si sono rivolti a Pietro Ioia anche per chiedere informazioni sulla possibilità di lavorare, sia in carcere che al termine della propria detenzione. Il progetto “Il pacco del detenuto ignoto” - Ed ecco che Pietro Ioia si è attivato anche per questo, predisponendo, insieme all’Associazione di Promozione Sociale La Livella e all’Organizzazione di Volontariato Officine Periferiche, uno sportello gratuito di orientamento al lavoro e di ricerca di occupazione per le persone in esecuzione penale e per i familiari dei detenuti (progetto S.N.O.D.O. - Sportello Nuove Opportunità di Occupazione). C’è anche tanta povertà nel carcere, ristretti che non hanno soldi per acquistare il cibo (insufficiente quello che viene fornito) e beni di prima necessità. Ci sono persone anziane e malate che non hanno la possibilità nemmeno di acquistare i pannoloni. Molti non hanno nemmeno una famiglia che possa sostenerli. Il garante Pietro Ioia e il suo staff, a tal proposito ha ideato il progetto “Il pacco del detenuto ignoto”, ossia l’organizzazione di momenti di raccolta di beni donati dalla popolazione che sono stati poi destinati ai detenuti indigenti; oltre ai generi alimentari sono stati donati e poi consegnati alle Direzioni anche beni di prima necessità, come saponi, bagnoschiuma, shampoo, spazzolini, dentifrici, detersivi. Tutto qui? No, perché ci sono anche detenuti disabili che non hanno la possibilità di avere una sedia a rotelle. Ed è sempre l’ufficio del Garante, coadiuvato da alcuni abitanti del Comune di Napoli, che ha donato alle Case Circondariali di Poggioreale e Secondigliano tre sedie a rotelle, destinate ai detenuti disabili accolti nei centri clinici degli istituti. A chi dice che i garanti locali non servono a nulla e devono essere aboliti, devono prima guardare tutto questo. Conoscere prima, per poi dover deliberare. Napoli. Casi Covid nel carcere di Secondigliano, 20 detenuti positivi al virus di Antonio Sabbatino internapoli.it, 6 febbraio 2021 Casi Covid nel carcere di Secondigliano, 20 detenuti positivi al virus. Non molla neanche nelle carceri campane la morsa del Covid 19. Secondo gli ultimi dati aggiornati forniti dal garante regionale delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello sono attualmente 24 i detenuti positivi al Coronavirus e 58 tra gli agenti e gli operatori penitenziario. A fare la triste parte del leone la Casa circondariale Pasquale Mandato di Secondigliano, con 20 casi di positività. Seguono, con numeri decisamente più esigui, il Giuseppe Salvia di Poggioreale con 3 positivi e Carinola con un solo caso. Si attende anche per la platea carceraria l’inizio della campagna vaccinale, corrispondente alla fase 3 dopo quella degli operatori sanitari, ospiti delle Rsa e ultraottantenni. Milano. Rivolta nel carcere di Opera, 13 dei 22 detenuti imputati chiedono il patteggiamento La Repubblica, 6 febbraio 2021 Il 9 marzo, all’inizio del lockdown, anche nel carcere milanese ci fu una rivolta con danneggiamenti, incendi e minacce al personale. Cinque dei detenuti non hanno partecipato all’udienza perché positivi al Covid. Sono stati chiesti riti alternativi per 13 dei 22 detenuti imputati per le rivolte al carcere di Opera avvenute il 9 marzo scorso, subito dopo l’annuncio del lockdown totale a causa della pandemia Covid. Nell’udienza preliminare che si è tenuta oggi davanti alla gip Daniela Cardamone 8 detenuti hanno chiesto il rito abbreviato e 5 il patteggiamento. La media delle pene concordate è di un anno e un mese. Le accuse erano a vario titolo di resistenza e minacce a pubblico ufficiale, danneggiamento e incendio. Le indagini, condotte dalla polizia penitenziaria attraverso l’analisi dei filmati e coordinate dal pm Enrico Pavone (del pool antiterrorismo guidato dal pm Alberto Nobili), avevano portato inizialmente a 92 denunce e, dopo la chiusura indagini a luglio, alla richiesta di processo per 22. Da quello che si è saputo, all’udienza preliminare di oggi - che si è tenuta nell’aula Bunker di via Uccelli di Nemi - non hanno potuto partecipare 5 detenuti, perché positivi al Covid. Altri 4 non hanno fatto richieste di riti alternativi, e quindi andranno a processo ordinario; per uno di loro, che è straniero, c’è stato un difetto di notifica. Tra le contestazioni a carico di alcuni detenuti anche quelle di aver tentato di “sfondare” un cancello di una sezione del carcere e di aver “minacciato di morte” alcuni agenti della polizia penitenziaria. Inoltre, avrebbero provocato un incendio “dando fuoco ai materassi”, per distruggere tavoli e sedie. In quei giorni di emergenza Covid varie rivolte erano scoppiate in diverse carceri italiane. La fase dell’udienza preliminare dovrebbe concludersi con l’appuntamento previsto per l’11 febbraio, durante il quale la giudice dovrebbe esprimersi in merito alle richieste. Roma. Né in presenza, né a distanza: in carcere la didattica è stata sospesa di Filippo Poltronieri Il Domani, 6 febbraio 2021 Nel dibattito tra didattica a distanza e in presenza, tra le mura delle carceri si è sperimentata una terza via: lo stop totale alle lezioni. Dall’inizio della pandemia, quasi un anno, oltre 500 studenti detenuti nell’istituto penitenziario di Rebibbia non hanno intrapreso alcun percorso di didattica online, nonostante le scuole cui sono iscritti abbiano acquistato le attrezzature necessarie a settembre, con fondi del ministero. Il motivo è l’assenza di una connessione sicura, oltre alle ristrettezze degli spazi, già insufficienti per “ospitare” i detenuti, figuriamoci per riunirli in classi abbastanza spaziose. Se, come recita la Costituzione, la pena “deve tendere alla rieducazione del condannato” allora nel carcere di Rebibbia siamo di fronte a una sospensione di un diritto fondamentale dei detenuti. “Abbiamo speso un sacco di soldi del ministero, acquistando tutto il necessario: smart tv, microfoni, cuffie, ma non ci è consentito introdurre gli strumenti in carcere”, dice Patrizia Marini, dirigente scolastico dell’Istituto tecnico agrario Emilio Sereni, una scuola della periferia est di Roma, che conta diciotto iscritti tra carcere maschile e femminile di Rebibbia. L’impegno disatteso - “Negli istituti penitenziari con cui lavoriamo è stato impossibile attivare la Dad”, dice Mariella De Michele, insegnante del Sereni e responsabile delle classi di detenuti. “L’amministrazione carceraria si era presa l’impegno di risolvere i problemi di rete e di formazione del personale interno. A oggi non vediamo gli studenti da novembre e non abbiamo notizie sui tempi di allestimento delle smart classe”, conclude. Agli inizi della pandemia, in tutta Italia è stato impossibile attivare effettivi percorsi di didattica online con gli studenti degli istituti penitenziari, viste le stringenti normative carcerarie in fatto di reti Internet, la carenza di personale di vigilanza e la scarsa disponibilità di device. “A settembre, nonostante i fondi erogati alle scuole, pochi penitenziari si sono organizzati con la Dad, molti sono ripartiti in presenza senza organizzarsi per una seconda ondata”, dice Alessio Scandurra dell’associazione Antigone, commentando i dati che l’associazione in difesa dei diritti dei detenuti sta raccogliendo per il suo report annuale. “Nella metà dei casi che abbiamo rilevato, adesso si fa didattica in presenza. La Dad l’hanno organizzata in pochissimi, i problemi sono strutturali: nelle carceri non c’è connessione, spesso si fatica a far funzionare le linee telefoniche”, commenta Scandurra. L’interazione con l’esterno avviene spesso con smartphone che hanno una banda limitata e che servono ai colloqui famigliari dei detenuti, in sostituzione di quelli dal vivo. Utilizzarli per la Dad è fuori discussione. Vista la presenza di un focolaio all’interno del carcere, 110 i positivi al 29 gennaio, e senza particolari evoluzioni tecnologiche, a Rebibbia il ritorno in classe sembra essere un miraggio. Le lezioni in presenza sono ferme dal 19 novembre dopo una disposizione della Asl che, in occasione di una prima diffusione del contagio, ne aveva ordinato lo stop. “Una decisione che ai tempi ho contestato perché non rispetta i requisiti di circostanza, sospende la didattica senza un termine”, spiega Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio. “Quando c’era stato un focolaio nel reparto femminile, la direttrice aveva fermato le lezioni con provvedimenti settimanali”. Un solo istituto - I 310 iscritti (su 1.400 detenuti) del complesso principale di Rebibbia, le 105 studentesse del femminile e i 212 del penale si sono arrangiati con una didattica a distanza asincrona, affidata all’organizzazione delle singole scuole, che inviano i materiali, e alla disponibilità degli operatori carcerari, che li stampano e li distribuiscono. Un solo istituto del grande complesso carcerario romano prosegue le lezioni in aula. “Si tratta della III Casa Circondariale di Rebibbia che, con soli 11 iscritti su 70 detenuti, riesce a portare avanti il programma in una sola stanza e con una connessione molto precaria perché sono pochi”, commenta Anastasia. Viste le difficoltà e il sostanziale blocco della didattica negli altri plessi, il dipartimento di prevenzione della Asl ha annunciato che il 1° febbraio effettuerà una ricognizione nell’istituto per valutare una ripartenza della didattica in presenza per tutti. Una prospettiva che preoccupa moltissimo insegnanti e operatori carcerari: “Sarebbe una follia”, commenta De Michele, “gli spazi non ci sono e quando siamo andati noi in carcere, come a settembre e ottobre, tutti i dispositivi di protezione dovevamo portarceli da scuola mentre ai detenuti non venivano forniti. Non c’è aerazione sufficiente, non si capisce perché non siano in grado di trovare una soluzione per la Dad, finché i contagi sono così alti”. Ma i soldi ci sono - Eppure i soldi sono stati investiti - solo nel Lazio 350mila euro, 5mila quelli dell’istituto Sereni - attraverso i fondi europei Pon messi a disposizione dal ministero dell’Istruzione per allestire smart class mai utilizzate a causa delle carenze strutturali delle carceri. Grazie a un emendamento alla legge di stabilità regionale, a firma del consigliere di +Europa Radicali, Alessandro Capriccioli, alla fine del 2020 sono stati stanziati 600mila euro per la digitalizzazione e il potenziamento delle attrezzature telematiche delle prigioni. Un investimento necessario che rischia però di far vedere i suoi primi frutti ad anno scolastico abbondantemente terminato. L’elevato numero di detenuti iscritti a percorsi scolastici, oltre 20.000 nel 2018, il 34,64 per cento della popolazione carceraria secondo gli ultimi dati di Antigone, mostra l’importanza crescente della formazione in un percorso di pena che non dovrebbe essere soltanto punitivo. Il livello di istruzione medio di una persona che finisce dentro è piuttosto basso. Sempre al 2018, il 38,6 per cento dei detenuti aveva la sola licenza media, il 26,5 quella elementare, il 5,5 era senza titolo di studio. Solo il 4,2 per cento aveva un diploma di scuola superiore. L’istruzione resta dunque la via principe per immaginare un futuro al di fuori delle sbarre e uno strumento fondamentale per evitare la recidiva. “Fare dieci mesi di carcere ora o farli tre anni fa non è la stessa cosa”, dice Alessio Scandurra di Antigone. “La galera oggi è più severa e non garantisce i diritti del dettato costituzionale”. E mentre gli studenti, giovani e liberi, chiedono maggiori garanzie per il rientro in aula, una donna, uscita da pochi giorni da Rebibbia, bussa alle porte del Sereni: “Voleva sapere se poteva iscriversi alle serali: è stata la prima cosa che ha fatto dopo aver scontato la pena ed essere uscita dal carcere”, racconta commossa la professoressa De Michele, che fino all’anno scorso era stata la sua insegnante dietro le sbarre. Prato. Il cappellano: “In carcere si vive sempre una situazione di lockdown” primafirenze.it, 6 febbraio 2021 La missione quasi decennale di don Enzo Pacini, cappellano alla Dogaia. “Difficile per i detenuti capire ciò che accade all’esterno”. Il prossimo mese di luglio, don Enzo Pacini, vicedirettore dell’ufficio pastorale dei migranti sarà da 10 anni cappellano presso la Casa circondariale “La Dogaia”, l’istituto penitenziario di Prato. Don Enzo: “In carcere situazione di lockdown” - Un anniversario importante per chi come don Enzo ha sempre svolto e continua a svolgere una vera e propria missione pastorale, non priva di difficoltà, riscoprendo ogni giorno, insieme ai detenuti, il valore più alto dell’umanità. Una missione oggi aggravata dall’emergenza sanitaria nata dalla pandemia. “In realtà - ha precisato don Enzo - confrontando i problemi che ci sono all’esterno, in carcere viviamo sempre una situazione di “lockdown” e per questo le persone che si trovano in cella stanno vivendo in modo particolare la diffusione del virus, spesso non comprendendo come sia la vera situazione vissuta all’esterno. Ciò che invece è resa più pericolosa è certamente la diffusione del virus. Nella prima ondata non vi sono stati problemi mentre nei mesi scorsi il virus ha iniziato a circolare anche all’interno dell’istituto penitenziario rendendo necessaria la realizzazione di un reparto Covid dove trasferire tutti i detenuti positivi”. La pandemia ha poi prodotto altre conseguenze: la Messa è stata sospesa per un certo periodo ed oggi è ripresa, mentre rimangono sospese, quasi da un anno, la catechesi e le altre attività, anche di tipo sportivo, che venivano svolte con il personale volontario. Continua a svolgersi, invece, l’attività scolastica mentre i colloqui con i familiari vanno a rilento. Le visite in carcere durante la pandemia. È ammessa la presenza solo dei familiari che risiedono a Prato. “Al tempo stesso però - ha osservato il cappellano - è stata incrementata da 1 a 3 volte alla settimana la possibilità di intrattenersi al telefono, anche mediante le videochiamate, con i propri familiari. Nel carcere è molto facile adattarsi ai cambiamenti e quindi anche la mutata situazione data dall’emergenza, dopo un’iniziale tensione, è stata accettata dai detenuti senza particolari problemi. In questi quasi dieci anni - ha proseguito - all’interno della casa circondariale non vi sono stati cambiamenti macroscopici anche se è cambiata la composizione della popolazione carceraria: è sensibilmente diminuita la presenza delle persone nordafricane (mentre è aumentata la presenza degli africani, molti provenienti dalla Nigeria) e sono diminuite le lunghe condanne, come quelle dell’ergastolo, essendo molto più frequenti condanne di breve o media durata che rendono più difficile l’espletamento dei percorsi scolastici completi. Talvolta - ha rivelato - non è facile comporre le classi di detenuti”. A non cambiare, invece, secondo quanto riferito da don Enzo è stata l’età dei carcerati che si attesta sempre come media sulla trentina, con una popolazione molto giovane. “L’esperienza dietro le sbarre - ha concluso il cappellano - avvicina le persone alla fede e ad una riscoperta di certi valori tanto che sono molti i detenuti che si rammaricano della sospensione, oramai da mesi, della catechesi che veniva frequentata con assiduità. Oggi all’interno del carcere anche la mia presenza è più contenuta, mi reco solo quando qualche persona chiede un colloquio, per celebrare la messa o svolgere altre attività di assistenza ma in ogni modo cerco sempre di far sentire la mia vicinanza ai detenuti e al personale della polizia penitenziaria essendo necessario non dimenticarsi mai di quanto sia logorante e impegnativo il lavoro degli agenti”. Bari. Nel nome di Stefano Fumarulo un premio letterario nelle carceri di Gennaro Totorizzo La Repubblica, 6 febbraio 2021 Il dirigente antimafia morì a 38 anni nel 2017. C’è tempo fino al 4 maggio per partecipare nelle tre sezioni dedicate alla poesia, alla narrativa e a una lirica ispirata alla vita di Fumarulo: il premio è rivolto ai detenuti di Puglia e Basilicata. Un premio letterario rivolto ai detenuti, dedicato a Stefano Fumarulo, giovane dirigente regionale scomparso nell’aprile del 2017, sempre vicino ai più deboli e costantemente impegnato nella lotta alla criminalità. È stato organizzato dall’associazione barese Giovanni Falcone, per celebrare il venticinquesimo anniversario della fondazione, in collaborazione con il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. “Un anno fa avevamo preso un impegno: dedicare un premio letterario nelle carceri a Stefano Fumarulo - racconta il presidente dell’associazione Falcone Corrado Berardi - Ha infatti dedicato la sua vita alla tutela dei più deboli e alla difesa dei loro diritti, operando nell’ambito del sociale e delle migrazioni e collaborando attivamente come consulente delle commissioni antimafia, sia regionale che parlamentare. Proprio per questi motivi, saranno coinvolti nel progetto i detenuti delle carceri di Puglia e Basilicata, in qualità di partecipanti al concorso”. Il bando della prima edizione è già partito il 2 febbraio. Sono previste tre sezioni: una dedicata alla poesia, una alla narrativa e una “speciale” di poesia, per la quale sarà assegnato un premio alla migliore lirica ispirata alla vita di Stefano Fumarulo. I lavori devono pervenire in un plico con la dicitura “Premio letterario in memoria di Stefano Fumarulo 2021” entro il 4 maggio, all’indirizzo “Associazione culturale G. Falcone, via dei Narcisi 1 a Bari Santo Spirito-Catino” (info 340.582.41.96). Una giuria di esperti, formata da umanisti, esperti nel campo dell’editoria e della scrittura poetica, valuteranno le opere. E, il 26 giugno alle 18, nella sede della scuola Falcone di Catino, ci sarà la premiazione. “Con questo premio dedicato a Stefano Fumarulo, si vuole ricordare il suo impegno sociale e il rigore morale tenuto nell’esercizio dei ruoli istituzionali da lui ricoperti - conclude Berardi - E nella sede dell’associazione, realizzeremo anche un murale che lo raffigura”. Contro la bancarotta sociale niente battaglie di identità di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 6 febbraio 2021 Il presidente Mattarella ha tentato di preservarci con un estremo appello alle energie migliori della nazione, indicandone il nome di Mario Draghi quale sintesi. Libertà o sicurezza. Al fondo del sentiero, davanti all’Italia potrebbe esserci ancora questo bivio classico: una scelta dolorosa che si ripropone nella storia, e dalla quale il presidente Mattarella ha tentato di preservarci con un estremo appello alla razionalità e alle energie migliori della nazione, indicandone il nome di Mario Draghi quale sintesi. Zygmunt Bauman ricordava come la relazione dialettica, di odio-amore, tra questi due valori “così indispensabili a una vita decente e così difficili da riconciliare e godere contemporaneamente”, libertà e sicurezza, appunto, fosse parte inalienabile della condizione umana. Il Ventunesimo secolo, coi suoi coriandoli di tragedia, ha spazzato via il dogma della modernità novecentesca, l’illusione di avere il controllo delle nostre esistenze, riconsegnandoci infine al presente... di una volta: in balìa della paura. E quando il livello di guardia della paura viene superato, fino a farci sentire minata la nostra sicurezza e quella di coloro che amiamo, siamo disposti a cedere quote via via più significative di libertà, secondo un immutabile movimento pendolare che risale almeno all’antica Roma e arriva almeno fino al Patriot Act quale reazione degli americani all’aggressione islamista dell’11 settembre. Questa, e non altra, è la vera posta in gioco. E le delegazioni che si avvicendano in queste ore davanti al premier incaricato dovrebbero tenerlo ben presente. Andrebbe dunque evitata la tentazione, comprensibile certo, di piantare bandierine attorno al perimetro del tentativo di Draghi. O di innalzarvi totem identitari quali, a seconda di chi salga sul proscenio, il reddito di cittadinanza e la patrimoniale o la difesa di quota 100 e la caccia ai migranti, la pregiudiziale antileghista o il Ponte sullo Stretto o, addirittura, la rivendicazione (forse un po’ ingenua) di una sorta di primogenitura sul premier incaricato sottolineando di averne a suo tempo agevolato il percorso verso i vertici di Bankitalia e della Bce. Allo stesso modo, bisognerebbe evitare di usare Draghi come arma per regolare conti interni ai partiti o agli schieramenti, perché in queste ore non si tratta di decidere il futuro di Giorgetti o di Bettini, o di trovare un nuovo lavoro a Di Maio: il futuro e il lavoro in gioco sono quelli di sessanta milioni di persone. I “sì” al tentativo cominciano a fioccare, assieme alla caduta verticale dello spread. Ma se, nelle prime ore, questo nuovo esecutivo pareva il governo di nessuno, adesso non deve diventare il governo del “troppa grazia”, frutto di un assalto italico che rischi di far deragliare la diligenza: il cui percorso è in realtà segnato dai punti fissati da Mattarella e dalla minuziosa descrizione che martedì sera, fallita l’esplorazione di Roberto Fico, il presidente ha fatto di ciò che accadrebbe all’Italia se, sia pure con incontestabile legittimità, abbracciasse l’opzione del voto anticipato. L’incrocio tra mesi di campagna elettorale, che nei fatti inizierebbe sin da subito, e la necessaria redazione del Recovery plan da spedire in Europa entro fine aprile, inquinerebbe certamente con promesse irrealistiche i programmi di rilancio: i fondi europei, ad essi condizionati, potrebbero non arrivare mai a salvarci, a fronte di un debito pubblico che quest’anno toccherà il 160% del Pil. Le riforme indispensabili (giustizia, burocrazia, fisco, concorrenza) non verrebbero neppure incardinate. La campagna vaccinale ancora assai incerta e, in special modo, l’organizzazione sul territorio delle vaccinazioni di massa, da varare quando le dosi saranno sufficienti, con prevedibili scontri ulteriori tra potere centrale e poteri locali, andrebbe a scontare l’assenza di un governo nella pienezza delle funzioni: così come l’emergenza sociale, già oggi gravissima, che si farà drammatica da fine marzo con lo sblocco dei licenziamenti. Più ancora che le parole, dovrebbero indurre a riflessione il volto e il tono del capo dello Stato quando ha rammentato che riavemmo un governo funzionante solo quattro mesi dopo lo scioglimento delle Camere del 2013 e cinque dopo quello del 2018. Stavolta, sciogliendo le Camere subito, si potrebbe arrivare a giugno-luglio, fuori tempo massimo per evitare un triplo tracollo: sanitario, economico e sociale. È giusto pretendere una risposta matura, adesso, da un’orchestra politica che negli ultimi anni ha steccato tutti gli spartiti così da indurre in gran sospetto il Financial Times che, pur col massimo apprezzamento per le “eccezionali capacità politiche” mostrate da Draghi e per la sua “reputazione mondiale brillante”, teme che al premier incaricato venga riservato, al meglio, il destino di Mario Monti, caduto gradualmente “nelle mani dei partiti”. È un monito da non prendere sottogamba. Ciò che può accadere in questo 2021 ai nostri posti di lavoro e alle scuole dei nostri figli, ai nostri risparmi e all’efficienza degli apparati dello Stato, se non verrà governata con serietà la più grave emergenza della storia repubblicana, è qualcosa in grado di indurre ben più che una reazione di paura nella nostra comunità: qualcosa tale da riattivare alla fine, a fronte di una bancarotta sociale non arginata dalla razionalità politica, il moto consueto del pendolo verso una spasmodica richiesta di sicurezza, anche in cambio di una proporzionale riduzione di libertà. Non ci rassicuri la nostra affiliazione alla famiglia europea. L’Unione, tra proclami e misure inefficaci, s’è già acconciata da un pezzo a convivere borbottando con qualche democratura dai limitati diritti civili. Rischiamo l’impatto con un meteorite: dai rappresentanti degli italiani è lecito attendersi qualcosa di più che un pigolio di interessi di bottega. Giallo in Spagna, muore in cella un 40enne torinese arrestato per droga di Giuseppe Legato La Stampa, 6 febbraio 2021 La fine di Francesco Sforza, atteso a processo il 9 febbraio. Di lui si sa che lo chiamavano Dobermann. Che lo avevano arrestato il mattino del 28 gennaio scorso in Spagna, ad Alicante dopo più di un anno di latitanza. Che ha mangiato, per l’ultima volta, alle 13,30 dello stesso giorno e due ore dopo la Guardia Civil lo ha trovato morto, per terra. Steso sul pavimento di una cella di sicurezza nei sotterranei della caserma di Benidorm, Alicante. C’è un’inchiesta delle procure spagnole in collegamento con quelle italiane, ma la notizia della morte di Francesco Sforza 40 anni, torinese, narcos desaparecido legato mani e piedi alla ‘ndrangheta calabrese ha interessato molto i carabinieri di Torino. Che lo avevano “incastrato” nell’indagine “Cerbero”, babele di accuse contro le ‘ndrine di Volpiano e i grandi broker di cocaina Nicola a Patrick Assisi e che per mesi hanno cercato di prenderlo mentre lui, primula rossa, si nascondeva facendo la spola tra Valencia, Lloret de Mar e Girona. Una morte che è un giallo. Perché Sforza si sarebbe dovuto presentare a processo tra tre giorniper essere giudicato dal Tribunale di Torino. L’accusa: riforniva di droga (hashish e marijuana) i cartelli di Volpiano e San Giusto Canavese. Un calibro medio-alto del canale spagnolo a sua volta alimentato dal Nord Africa, non un improvvisato. L’ambientale piazzata dai carabinieri in un alloggio di Torino aveva registrato i colonnelli della famiglia Agresta mentre riempivano le auto di soldi da spedirgli per i pagamenti. Un grossista, ma anche un intermediario secondo il pm Paolo Toso titolare dell’inchiesta. In una sola spedizione gli erano stati recapitati 272 mila euro in contanti per pagare i fornitori dei carichi. Era tra i pochissimi ad aver scelto il rito ordinario, il dibattimento, mentre era saltato all’occhio di osservatori attenti come tutti i suoi referenti - 78 su 82 - avessero scelto il rito abbreviato: cioè un processo solo sulle carte, a porte chiuse, senza testimoni. Lui no, voleva difendersi in aula dalle accuse. Non semplice visti i numerosi riscontri investigativi. Di certo avrebbe presupposto un confronto con la Corte, un contraddittorio più completo. In un trafiletto dei giornali locali iberici si parla di arresto cardiocircolatorio ma vai a capire quando un giovane muore cosi, di colpo, a tre giorni dal processo in cui rischiava fino a 20 anni di carcere e avrebbe dovuto spiegare da quando, quanto e come riforniva gli emissari della potente famiglia mafiosa degli Agresta, se questa storia è tutta qui, in un malore improvviso. Le autorità spagnole hanno disposto l’autopsia, il suo legale Marianna Ivanov vuole risposte: “Nessuno mi ha comunicato dell’avvenuto arresto, solo della morte” avrebbe detto in sintesi ai media spagnoli. Sforza era stato arrestato già mesi fa ma per un errore dei giudici spagnoli era stato scarcerato in attesa di essere imbarcato per l’Italia: “Tra 10 giorni si presenti all’aeroporto” gli avevano intimato. Ma allo scalo di Madrid, Dobermann non si è mai visto. Turchia. Caro Ahmet, che sei in cella da 1.589 giorni di Roberto Saviano Corriere della Sera, 6 febbraio 2021 Roberto Saviano scrive ad Ahmet Altan, scrittore coraggioso che in Turchia sconta l’ergastolo: ha voluto raccontare la verità sul regime del presidente Erdogan, non ha accettato di abituarsi al male: la sua libertà negata ci riguarda. Caro Ahmet, Sono 1.585 giorni (calcolati al 2/2/2021) che sei in carcere in Turchia, dal 23 settembre 2016. La tua colpa? Essere uno scrittore. 1.585 giorni, non anni ma giorni: misurare il tempo della detenzione in anni dà l’impressione che sia un tempo veloce e invece no, il tempo trascorso in carcere andrebbe conteggiato in minuti, in secondi, perfino negli attimi del respiro. Andrebbe calcolato in luce sottratta, in metri quadri che mancano. Ecco, Ahmet, quando ti penso in carcere non tralascio nulla di quello che ti viene sottratto. Qui fuori, fuori e a distanza, è così semplice raccontare il motivo della tua condanna: perché hai scritto romanzi, perché hai espresso le tue opinioni in articoli, perché lo hai fatto su Taraf, il quotidiano che hai fondato nel 2007, in modo tutti potessero leggere e capire. Nessun sotterfugio, nessuna frase sibillina, tutto manifesto: articoli e libri pubblicati. Idee, fatti, teorie, alle quali si poteva rispondere con altre idee, altri fatti, altre teorie. E invece no: ti hanno tolto la libertà. Per fermare le tue parole, ti hanno chiuso in una cella. Non immaginano, loro, che una cella al più ferma i corpi, ma non ha potere sulle parole. Le proteste del mondo accademico - Ti scrivo dalle pagine del Corriere della Sera, perché ormai le lettere nel carcere di Silivri a stento ti arrivano. Le mie parole verrebbero passate al vaglio, fermate e private del diritto che hanno di giungere al loro destinatario. Ho deciso di scriverti adesso perché immagino che il nuovo corso negli Stati Uniti, inaugurato da Joe Biden, potrebbe riportare attenzione su Fethullah Gülen, il nemico di sempre, il nemico che Erdo?an aveva momentaneamente accantonato, il nemico a cui attribuire presunti sodali da arrestare, nuove minacce da sventare con l’arma della repressione interna. Ti scrivo adesso perché il mondo accademico e i giovani universitari sono in fermento; protestano perché la cultura sia laica, libera dai condizionamenti della politica. Ti scrivo adesso perché anche loro vengono arrestati, anche a loro viene negato il diritto di esprimersi liberamente. E ti scrivo adesso perché non mi rassegno che possa essere così facile incarcerare uno scrittore mentre il regime turco continua indisturbato la sua vita. Nel 2018 ti condannano all’ergastolo per - dicono - aver “favorito il golpe” attraverso “messaggi subliminali”. Poi cadono i capi d’imputazione più gravi e la pena viene ridotta a 10 anni e mezzo cui si aggiungono, il 7 gennaio 2020, altri 5 anni e 11 mesi per “offese al presidente” e “propaganda del terrorismo”. Un sistema da incubo, un sistema che si chiama Turchia. E tu riesci a resistere, Ahmet? Noi non abbiamo niente, questo lo so bene: non abbiamo armi, non muoviamo capitali, non siamo potenti. Abbiamo solo le nostre idee e le nostre parole, ma io non mi rassegno, Ahmet. Non mi rassegno e mi pongo una domanda semplice, alla quale tu avrai già trovato una risposta: come può essere che le tue parole abbiano spaventato a tal punto Erdo?an - che è potente, che dispone della forza di oltre 700mila militari - da decidere di destinarti alla galera senza alcuna possibilità di appello? Come può essere che le autorità turche, pur di tenerti in carcere, si siano coperte di ridicolo formulando e avallando le accuse più assurde? Dall’”invio di messaggi subliminali evocativi di colpo di stato” ad “aver tentato di rovesciare il governo della Turchia”, dalla presunta “appartenenza a una organizzazione terroristica” all’ultima formulazione: “aver fornito aiuto a un’organizzazione terroristica senza esserne membro”. La verità è che non esiste alcun capo d’imputazione credibile per quello che ti stanno facendo, non esiste alcun motivo valido per la detenzione preventiva cui sei stato sottoposto, per i processi farsa che hai affrontato e per le condanne che restano a tuo carico. L’accusa di aver mandato messaggi subliminali, perché poche ore prima dal fallito golpe del luglio 2016 eri ospite in tv insieme a tuo fratello Mehmet Altan, è un’idiozia, come possono averla appoggiata un governo e tribunali, istituzioni che dovrebbero tenere alla propria credibilità, magari anche al cospetto di osservatori stranieri? O forse sanno che gli osservatori stranieri osservano poco? Che sono inspiegabilmente distratti? E di cosa ti accusano esattamente? Di avere espresso attraverso i tuoi scritti delle intenzioni? Di aver diffuso messaggi? Ma cosa fa esattamente uno scrittore quando racconta, un giornalista quando mette in fila gli eventi? Il messaggio che il potere chiama “subliminale” è la traccia dell’emozione accanto all’idea, e quando emozione e idea si saldano, allora le parole diventano importanti, direi imprescindibili. Per questo ti hanno voluto fermare. Alla fine, vedi, ci sono arrivato anch’io. Le tue parole sono troppo pericolose perché possa essertene concesso l’uso. E sono pericolose perché complesse, perché rivolte a tutti, anche a chi non la pensa come te. Pericolose perché mostri il potere per quello che è: il nulla, il vuoto, l’arbitrio che però, assurdamente, conserva la possibilità di agire e reprimere, di schiacciare l’individuo. Come tuo padre e come Puškin - Caro Ahmet, immagino starai sorridendo nel vedere il mio rumoroso e impacciato affanno mentre racconto ciò che ti è accaduto. Non sono riuscito mai a far mia la tua lezione, la tua e di tuo padre: sottrarsi al copione, non lasciarci portare dall’onda. Lo so, se qualcosa può sconvolgere la nostra vita, siamo noi a permetterlo comportandoci secondo le attese. Tuo padre ti aveva insegnato la regola quasi cinquant’anni fa. Anche lui giornalista, i militari entrarono in casa vostra e tuo padre offrì del tè a chi perquisiva. Poi, mentre ammanettato lo portavano via, si girò verso te, tuo fratello e tua madre con un grande sorriso. “La realtà - hai scritto - non può sopraffarmi. Io sono più forte della realtà”. In questi casi citi, del nostro amato Puškin, il racconto che preferiamo più d’ogni altro, “La pistolettata”. Quando nel duello Silvio ha l’arma puntata sul cuore del suo avversario ma questi seguita a mangiare ciliegie, più Silvio chiede attenzione e impegno perché sta per sparare e potrebbe ucciderlo, più lo sfidante dà mostra di tenere molto alle ciliegie e poco alla propria vita. Il colpo non verrà mai esploso perché ha disatteso, il duellante, le regole del gioco. Così inviti ad agire, come Borges che al ladro che intima “la borsa o la vita” dice: offri la vita, spariglia, sovverti, non agire secondo attese. Quando ti hanno arrestato, sia la prima volta che la seconda volta, hai fatto a pezzi il clima di terrore e paura che gli uomini mandati da Erdo?an avevano imposto, aprendoti in un sorriso, come hai scritto nel tuo libro “Non rivedrò più il mondo”, pagine che voglio proteggere dandole a più persone possibili, moltiplicando le tue parole grazie alle uniche persone che possono davvero impedire a ogni cella di rinchiudersi: i lettori. Incarni davvero, Ahmet, il principio di Epitteto: quando il nostro corpo è schiavo, è lì che la nostra mentre può restare libera. Tu ci stai riuscendo. Quando a novembre 2019 ti hanno liberato per qualche giorno, probabilmente sperando che scappassi, trovammo il modo di vederci su Skype… non ho mai dimenticato quell’incontro. E se non sei andato via, se non ci hai nemmeno pensato, è perché ti è sempre stata chiara la differenza che esiste tra denunciare e testimoniare: si denuncia con le parole, si testimonia con il corpo. E il regime turco può trasformarsi non denunciando ma testimoniando, ossia portando sul proprio corpo le contraddizioni del potere. È di questi giorni la notizia della protesta a Istanbul degli studenti dell’Università del Bosforo contro la nomina per decreto presidenziale di Melih Bulu a rettore, una nomina solo politica dal momento che Bulu è un politico vicino a Erdo?an. Il 29 gennaio un gruppo di studenti ha allestito una mostra con foto e disegni sul tema della libertà di espressione, dei diritti di genere, della pace. Hanno disegnato un arcobaleno, simbolo del movimento pacifista mondiale e della comunità Lgbt su una foto della Kaaba, l’edificio più sacro dell’Islam. Quegli studenti sono stati arrestati con l’accusa di “insulto ai valori religiosi” reato che, assicurano i loro avvocati, nel codice penale turco nemmeno esiste. Arrestati per aver disegnato un arcobaleno, arrestati per una mostra sulla libertà d’espressione, arrestati perché vogliono, chiedono e pretendono che le università siano indipendenti dal potere politico. E ancora altri studenti arrestati (159, di cui 98 rilasciati poche ore dopo); anche loro, Ahmet, come te, reagiscono con la gioia. La loro protesta è piena di musica e di balli, quanto stride tutto questo con i tetri palazzi del potere, grotteschi, ottusi. E mentre il ministro dell’Interno turco li definisce “deviati” e “pervertiti”, mentre il governo turco minaccia, incarcera, processa, punisce, noi stiamo qui a guardare, noi che, da quando è esplosa la pandemia abbiamo disegnato arcobaleni ovunque, siamo immobili osservatori dell’ennesimo atto autoritario che lede i diritti di ciascuno di noi, privando voi, della libertà. In Turchia sono stati incarcerati 200 giornalisti negli ultimi 5 anni, giornalisti di ogni età e orientamento politico e se tutto questo è potuto accadere è perché noi siamo stati e siamo indifferenti. Da quando ti conosco, con le tue parole e attraverso i tuoi libri, mi hai insegnato che l’individuo fa la differenza. Un gesto di bene non è inutile, un gesto crudele non è ininfluente. Come quella donna che, mentre ti facevano la radiografia, per immotivata cattiveria non acconsentì che ti fossero tolte le manette. Il poliziotto stava per aprirle, ma lei disse che no, non ce n’era bisogno: “Gliele lasci!”. Perché tanta crudeltà? Come è possibile? Un po’ di pace ai polsi perché negarla? Questi gesti nascono dall’abitudine alla crudeltà, addirittura dalla necessità che esista un luogo, una prassi, un recinto possibilmente lontano dai nostri occhi dove si possa lasciar spazio a cattiveria e vendetta, perché è crudeltà e vendetta che merita chi ci finisce, qualunque sia il motivo. Il carcere del pensiero - Senza troppi giri di parole: il carcere rappresenta la nostra quota di vendetta, una quota di crudeltà che siamo addirittura fieri di rivendicare. “Se stanno dentro è perché hanno sbagliato”: con questa frase giustifichiamo tutto ciò che può capitare a chi è detenuto. “Se stai in carcere è perché hai sbagliato, e se hai sbagliato il tuo destino non è affare mio” è un assioma che vale per qualunque detenuto, di qualunque nazionalità, quali che siano le condizioni della detenzione. E qui dovrebbe intervenire il racconto, ma per far cosa? Per spiegare che il carcere non deve soddisfare la sete di vendetta quanto piuttosto assolvere a una funzione che è essenziale: reinserire chi ha commesso un reato nella società. Ma se il carcere assolve alla quota di crudeltà a cui riteniamo di aver diritto, come la mettiamo quando il carcere viene utilizzato per silenziare la dissidenza? Per bloccare gli oppositori politici? Per fermare, come nel tuo caso, Ahmet, il pensiero libero? La soglia del carcere, prima ancora che essere una soglia fisica delimitata da cancelli, lucchetti, guardie armate e telecamere, è una soglia mentale: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. E tra il dentro e il fuori, fa comodo che non vi sia dialogo, che i rapporti siano sempre mediati. Esistono dei codici, e la quota di vendetta che teniamo a preservare ci impedisce di vedere quanto quei codici siano essi stessi parte della segregazione, ci impedisce di vedere quanto tra il dentro e il fuori non esista soluzione di continuità. Poniamocela, una volta per tutte, questa domanda. Non discutiamone con altri, ma ragioniamoci in solitudine cosicché nessuno possa giudicarci: cosa simboleggia il carcere? La nostra vittoria, la vittoria dell’uomo sull’uomo, la vittoria di chi sta fuori su chi sta dentro. La vittoria di chi “merita” di stare fuori su chi “merita” di stare dentro. Come quando da bambini vedevamo altri bambini puniti per qualche malefatta: la sensazione era quella del pericolo scampato, di leggerezza nel vedere i colpevoli presi a occupare la casella dei colpevoli. Eh sì, perché è un posto che sullo scacchiere non può restare vuoto troppo a lungo. E quindi sapere che esiste un carcere, e che tu ne sei fuori, non ti fa semplicemente sentire a posto con la coscienza, ti dà la patente per fregartene. Il primo atto, dunque, che possiamo fare è non essere indifferenti, accorgerci del male perché abituarsi al male al punto da non riconoscerlo, non averne il disgusto e tenerlo lì come possibilità perenne, è la vittoria finale del disumano. In carcere hai visto corpi picchiati, costretti alla solitudine, rattrappiti dalla vergogna, perché tra le più insopportabili torture ci sono quelle che ti costringono a denunciare innocenti, accusare persone che non conosci. Hai raccontato di un ragazzo costretto a denunciare dei curdi, dei curdi a caso, dei curdi qualsiasi, persone che nemmeno conosceva… serviva la sua testimonianza per poter intervenire in un villaggio. Il ragazzo sapeva che se avesse pronunciato il nome di chi non gli aveva fatto nulla, e nulla aveva commesso, sarebbe probabilmente uscito di prigione, ma rifiutò: “non posso fare il nome di nessuno, non posso essere così vile”. Il passaparola e le lettere - Ahmet, hai detto di aver visto il rame che tutti noi siamo, diventare oro. Diventiamo rari e preziosi quando scegliamo, è questo il segreto della pietra filosofale: trasformare una lega comune in oro attraverso la verità e la scelta per la verità. Ahmet, con queste mie parole non voglio semplicemente invitare, ma letteralmente pregare chi ha a cuore la verità di prendere carta e penna, di accendere il computer e scriverti. Di indirizzare, per te, lettere all’Ambasciata turca a Roma, di inondare di lettere l’Ambasciata turca a Roma (via Palestro, 28, 00185 Roma oppure ambasciata.roma@mfa.gov.tr) perché sia chiaro che a noi ciò che ti sta accadendo, ciò che ti stanno facendo, interessa. E spero che parta il passaparola, spero che in tanti si chiedano come sia possibile che tu, uno scrittore, un intellettuale, sia da 1.585 giorni in carcere, privato della libertà da un presidente autoritario che ha paura delle parole e del pensiero libero. E così spero che di bocca in bocca la tua storia arrivi lontano, arrivi a tante persone. Ricordi Anna Achmatova? Non poteva scrivere le sue poesie perché, se il regime le avesse intercettate, avrebbe subìto una persecuzione addirittura peggiore di quella che le riservarono; allora le scriveva e le bruciava, ma prima le imparava a memoria e le diceva agli amici che, a loro volta, le imparavano a memoria e le dicevano ad altri. Il passaparola funzionava fino a quando le parole di Anna Achmatova arrivavano a chi poteva trascriverle su un foglio senza rischiare nulla. Le sue poesie si sono salvate così, passando per la memoria di molti. La tua storia, Ahmet, deve avere lo stesso destino: parleremo di ciò che ti stanno facendo fino a che avremo fiato, fino a che avremo inchiostro, fino a che i nostri computer reggeranno, fino a che le nostre dita riusciranno a battere sui tasti, fino a che la porta di quel dannato carcere si aprirà e finalmente avrai la libertà che merita il tuo coraggio. E quel giorno sarà un giorno pieno di luce, un giorno di tregua, un giorno in cui il tempo smetteremo persino di misurarlo. Un giorno non lontano te lo prometto ci abbracceremo sul serio e presto perché, come scrivi tu: “sono uno scrittore non mi trovo né dove sono, né dove non sono. Potete mettermi in carcere ma non potete tenermi in carcere. Io faccio una magia passo attraverso i muri”. Abbraccio Ahmet amico mio. La Corte penale dell’Aja ha giurisdizione sui Territori palestinesi: l’ira di Israele La Repubblica, 6 febbraio 2021 La decisione apre la strada ad un’inchiesta per crimini di guerra contro lo Stato ebraico e contro il gruppo palestinese Hamas. La Corte Penale Internazionale dell’Aja ha stabilito di avere giurisdizione sulla situazione nei Territori palestinesi occupati, aprendo la strada al procuratore del tribunale per aprire un’indagine su crimini di guerra contro Israele e il gruppo palestinese Hamas. È stato deciso “a maggioranza, che la giurisdizione territoriale della Corte sulla situazione in Palestina, uno Stato parte dello Statuto di Roma della Cpi, si estende ai Territori occupati da Israele dal 1967”, si legge in un comunicato. L’organismo internazionale ha quindi approvato la richiesta della procuratrice Fatou Bensouda di aprire un procedimento contro Israele e Hamas per crimini di guerra in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza. Secondo la Corte “la Palestina si qualifica come lo Stato sul cui territorio” sono avvenuti i fatti in questione. E che inoltre “la giurisdizione territoriale della Corte sulla situazione in Palestina, uno Stato membro dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, si estende ai Territori occupati da Israele dal 1967”. Secca la reazione di Israele, che non riconosce alla Corte alcun potere di intervento: “Oggi si è dimostrato ancora una volta che la Corte è un’istanza politica e non giudiziaria”, ha commentato il premier Benjamin Netanyahu. “La Corte - ha detto - ignora i crimini di guerra veri e al suo posto perseguita lo Stato di Israele dotato di un forte regime democratico”. Dopo aver ricordato che Israele non fa parte della Corte, ha aggiunto che la decisione dell’Aja “va contro il diritto dei Paesi democratici di difendersi dal terrorismo”. “Una vittoria della verità, della giustizia, della libertà e dei valori morali del mondo” ha invece detto l’Autorità nazionale palestinese, attraverso il ministro degli Affari Civili Hussein Al-Sheikh. Gli orfani dell’Isis come relitti di Chiara Graziani L’Osservatore Romano, 6 febbraio 2021 Ventisettemila bambini, la gran parte sotto gli otto anni. Alcuni arrivati in braccio alle madri, altri nati lì, in una città di tende e fango, un campo prigione nel nord est della Siria per le vedove ed i figli del cosiddetto Stato islamico (Is) collassato nel 2016 dopo nove anni di guerra. Per le Nazioni Unite “uno dei problemi più urgenti al mondo”. Anche uno dei più dimenticati, in un mondo dalla memoria già corta. Ventisettemila piccoli fantasmi rimasti a galleggiare come detriti dopo l’implosione della follia terrorista che voleva farsi Stato ed aveva mosso guerra di conquista nel Medio Oriente. Negli anni in cui l’Is chiamò a raccolta da mezzo mondo aspiranti combattenti per far rinascere il Califfato, in tanti furono portati dai genitori - piccolissimi o appena concepiti - in queste terre, per essere allevati in un nuovo ordine. Sono stati indottrinati, hanno visto morire padre e madre, non conoscono altro che guerra, radicalismo, scontri, fazioni, punizioni. Il campo di Al Hol - fornace di polvere l’estate, pozza di melma d’inverno, ora assediato anche dal covid come avverte Medici senza frontiere - è la loro finestra sul futuro. Il recinto blindato, guardato dai soldati e le soldatesse dell’Sfd, è l’unico orizzonte che chiude lo sguardo e l’idea di come sia fatto il mondo. Le Nazioni Unite, venerdì scorso, hanno lanciato un appello per la salvezza di quei 27.000 bambini. Lo spazio li tiene prigionieri ma il tempo è un nemico peggiore, perché plasma anime incapaci di libertà ed amore. Quando il responsabile per l’antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov dice in una riunione informale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che quei piccoli sono “incagliati, abbandonati al loro destino” parla di vite umane prigioniere di un meccanismo ad orologeria. “Devono essere considerati innanzitutto come vittime, ed i minori di 14 anni hanno diritto di non essere detenuti e puniti” è stato l’appello rivolto al Consiglio da Voronkov. Virginia Gamba, rappresentante alle Nazioni Unite per i bambini vittime di conflitti armati, si è fatta avvocata della causa sempre nel Consiglio di sicurezza: “I bambini - ha detto - hanno diritto ad una nazionalità e ad un’identità”. La guerra li ha privati innanzitutto di questo. Un volto, un nome. “Relitti” li ha definiti Gamba in Consiglio. Questi bambini sono, per più di un motivo, un problema di tutta la comunità internazionale. Arrivano da ogni parte del pianeta, anche dall’Europa, dal Regno Unito, dagli Stati Uniti, dall’India. Non c’è Paese dove il richiamo a popolare terre da colonizzare in nome del cosiddetto Stato islamico non abbia attirato aspiranti colonizzatori in cerca di una nuova collocazione sociale. Bambini d’ogni colore, divisi per provenienza nei gironi del campo: siriani ed iracheni - la maggioranza - nel corpo principale della struttura. Nei cosiddetti annessi, affidati alle Fsd curdo-siriane le altre nazionalità. Diecimila persone, donne con bambini piccoli e piccolissimi. Finita la guerra, il campo di Al Hol, come altri fra il nord est della Siria e l’Iraq, si è materializzato nel luogo degli ultimi assalti per richiudersi intorno al gregge allo sbando di donne e bambini. Da allora una sorta di maledizione ha reso Al Hol inespugnabile, luogo da dove non si fugge, è difficile entrare e poco si sa. Medici senza frontiere ne ha fatto, poco più di cinque mesi fa, una descrizione agghiacciante: già costretti in una prigione iperaffollata gli “ospiti” dovrebbero rispettare anche il distanziamento per il covid dopo che 394 casi erano stati accertati. Le strutture per l’assistenza sanitaria - 24 in origine - stanno chiudendo una dopo l’altra. Quest’estate non ne restavano che 15. Poi si è arrivati a 5 per decine di migliaia di persone flagellate non solo dal covid, a fronte di nessuna assistenza possibile, ma anche da una micidiale esplosione di diarrea acuta. L’80% dei piccoli pazienti della struttura di Medici senza frontiere, aperta nella zona degli annessi, ne soffre. Malati, denutriti, prosciugati dalla diarrea, Msf offre loro quello che si chiama “centro di nutrizione terapeutica”. Molti di questi bambini, infatti, non sono in grado di trattenere cibo normale. Mesi fa ne morirono sette in una volta e fece notizia. La mancanza di igiene, i continui tagli all’acqua corrente non fanno che allargare il disastro. La provincia di Hassasek, dove sorge Al Hol, è alla sete da quando l’acquedotto di Al-Halouk è stato danneggiato. Quasi mezzo milione di persone hanno un accesso penosamente insufficiente all’acqua. In un campo di prigionia, dove gli ospedali da campo chiudono e diversi operatori sanitari hanno contratto il covid, l’effetto è devastante. Eppure i Paesi di origine non sanno, o non vogliono, gestire il ritorno alla società civile di minori traumatizzati e costretti a vivere in un microcosmo che riproduce, anche nelle gerarchie fra prigionieri, la follia fondamentalista. Se molte donne subiscono ce ne sono altre che hanno tenacemente ricostruito una catena di comando basata sulla paura e sul fanatismo. Per 27.000 bambini, malnutriti, malati, senza speranza, l’Is non ha mai perso la guerra.