L’incredibile lotteria dei braccialetti elettronici in attesa delle verifiche della Corte dei Conti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 febbraio 2021 Per Vito Crimi a gennaio 2021 risultano richiesti 10.155 braccialetti elettronici, di cui 5.940 disattivati. Ma il 4 aprile 2020 Arcuri ne ha ordinati 1.600. Solo la Corte dei Conti potrà finalmente trovare il bandolo della matassa sui braccialetti elettronici. Da almeno quattro anni, Il Dubbio ha seguito fin dall’inizio le fasi del bando, poi vinto da Fastweb e - non per colpa della compagnia telefonica - con tanto di ritardo nell’avvio della produzione dei braccialetti elettronici perché mancava il nulla osta del ministero dell’Interno per il collaudo che consisteva in almeno due fasi. Il secondo collaudo non appare tuttora nel sito della Polizia di Stato, dove passo dopo passo hanno pubblicato tutte le fasi della procedura. Crimi: richiesti 10.155 braccialetti elettronici, di cui 5.940 poi disattivati e 4.215 tuttora attivi - Stando a quando riferito dal viceministro dell’Interno Vito Crimi nel rispondere all’interpellanza urgente del deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, da fine dicembre 2018 (il bando vinto prevede un contratto triennale) a metà gennaio scorso, risulta che il ministero abbia richiesto a Fastweb 10.155 braccialetti elettronici, di cui 5.940 poi disattivati e 4.215 tuttora attivi. Questo contratto con il Viminale, a fronte del fatto che Fastweb garantisca per tre anni l’attivazione (se richiesta) fino a 1.000/1.200 braccialetti elettronici al mese, riconosce all’azienda (oltre a due quote fisse di 75.000 per il piano di lavoro e 400.000 per le postazioni di polizia) un massimo fino a 7,7 milioni l’anno in proporzione al numero di dispositivi attivati e monitorati. Come detto, a fine 2020, cioè alla fine dei primi 2 dei 3 anni di contratto, si sarebbero dunque potuti avere fino a 24.000 dispositivi, ma i braccialetti di cui i magistrati hanno richiesto l’attivazione sono stati molti meno. La pandemia è esplosa anche nelle carceri nella primavera 2020. Il Commissario Arcuri ha richiesto altri 1.600 braccialetti - Per far fronte ai potenziali effetti del decreto Cura italia, il governo si è reso conto di non avere braccialetti elettronici sufficienti. Eppure, se il ministero avesse voluto, sarebbero perfino avanzati visto che la compagnia può garantire un massimo di 1200 dispostivi al mese. Ed ecco che il governo è dovuto ricorrere all’iter semplificato del Commissario straordinario all’emergenza Covid, Domenico Arcuri. Su richiesta e per conto del Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, il 4 aprile 2020 ha affidato a Fastweb la fornitura (complessivi, non su base mensile) di altri 1.600 braccialetti elettronici per 2 milioni 510.000 euro, di cui 1 milione e 400.000 per i dispositivi, 431.000 per la manutenzione, e 669.000 per servizi di outsourcing. Quindi, il governo è dovuto ricorrere a ulteriori spese, nonostante avesse avuto la possibilità di richiedere i braccialetti necessari fin da fine 2018. Nel settembre 2012 la Corte dei Conti censurò la vicenda - Ribadiamo che Fastweb ha svolto il suo dovere. Ma qualcosa, probabilmente, non ha funzionato. Ora abbiamo capito che la compagnia telefonica che ha vinto il bando fornisce braccialetti a richiesta delle Forze di Polizia, quindi se i braccialetti sono risultati insufficienti è perché non sono stati richiesti dal ministero dell’Interno. Infine c’è un passarsi la palla con il ministero della Giustizia che poi è l’utilizzatore finale. Qualcosa si è impigliato evidentemente tra i 2 ministeri. Non sappiamo quanti milioni sono stati spesi finora. Il bando vinto prevede un totale di 23 milioni di euro. Fastweb ci scrive sottolineando che “la remunerazione della società è correlata alle attività effettivamente svolte”. Ma la vicenda surreale dei braccialetti elettronici non è una novità. Anche negli anni passati qualcosa non era andato per il verso giusto. Rimase lettera morta una dura censura della Corte dei conti, nel settembre 2012. Sui braccialetti elettronici, la Corte accusa il governo non solo per la mancata gara (appalto diretto a Telecom), ma anche per lo spreco di denaro pubblico: “La spesa - scriveva la Corte - è stata elevatissima a fronte dei veramente pochi dispositivi utilizzati”. A quella data dalle casse dello Stato sono usciti 106 milioni di euro, e in base agli accordi fatti con l’allora Telecom i braccialetti elettronici attivi dovrebbero essere stati circa 2.400. Se fosse così, la spesa media per dispositivo sarebbe a dir poco siderale: 44 mila euro. Ma non è così. È molto peggio. I giudici contabili scrivono che “i dispositivi utilizzati sono veramente pochi: solo 14, parrebbe”. Passano altri anni, ma i braccialetti non aumentano. Si deve aspettare l’estate del 2016 perché venga indetta una gara europea. Il resto della storia l’abbiamo appena raccontata. Operatori penitenziari e detenuti tra le categorie a rischio da vaccinare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 febbraio 2021 La Conferenza Stato-Regioni ha ridefinito la campagna vaccinale. Nella nuova road map in base a consegne e tipologie dei vaccini, anche il personale penitenziario e detenuti sono inseriti nel target da vaccinare. Parliamo dell’incontro Stato - Regioni di mercoledì scorso dove hanno condiviso le nuove fasi di somministrazione e le fasce di priorità. Sono 4 le fasi della campagna di vaccinazione. Con la prima e la seconda si punta ad abbassare la letalità, mentre con la Fase 3 dove c’è anche la popolazione penitenziaria e Fase 4 si mira a limitare la diffusione del virus. Le fasi possono viaggiare in parallelo e fin da subito. Grazie al primo milione di dosi di vaccino che AstraZeneca consegnerà tra lunedì 8 e domenica 21 febbraio, si può cominciare a immunizzare la seconda tranche di categorie a rischio che hanno massimo 55 anni: professori e operatori scolastici, forze dell’ordine e militari, agenti penitenziari e detenuti. Con le nuove dosi di Pfizer e Moderna, sempre dalla prossima settimana, si potranno cominciare a vaccinare anche gli over 80 e le persone fragili e ad alta vulnerabilità. Andando nello specifico, le fasi della campagna di vaccinazione sono così composte: Fase 1, operatori sanitari e socio- sanitari, ospiti Rsa e over 80; Fase 2, persone da 60 anni in su, persone con fragilità di ogni età, gruppi sociodemografici a rischio più elevato di malattia grave o morte, personale scolastico ad alta priorità; Fase 3, personale scolastico, lavoratori di servizi essenziali e dei setting a rischio, agenti penitenziari, detenuti e luoghi di comunità, persone con comorbidità moderata di ogni età. Infine c’è la Fase 4 che prevede la popolazione rimanente. Attenzione, da sottolineare che se anche i detenuti (così come gli altri) rientrano nella fase 3, nel contempo, se malati e anziani, sono considerati tra quelli della fase due. Sì, perché per la seconda fase menzionata, sono state individuate aree di patologia che incrementano il rischio di decesso da Covid. Nell’ambito di queste aree sono state individuate: le persone estremamente vulnerabili, di qualsiasi età, la cui patologia incrementa il rischio di decesso. Ricordiamo che il piano anti- Covid si è aggiornato con l’arrivo di AstraZeneca e l’indicazione da parte di Aifa di un suo utilizzo preferenziale per la fascia di età 18- 55 anni. Alla luce della novità sull’utilizzo di Astra-Zeneca, la Fase 1 e la Fase 3 procederanno comunque insieme attraverso due percorsi paralleli. I vaccini Pfizer e Moderna verranno utilizzati per i soggetti fragili e più anziani, mentre il vaccino AstraZeneca per i soggetti tra i 18 ed i 55 anni, già da febbraio. A pensare che, inizialmente, la popolazione penitenziaria non era considerata tra le categorie prioritarie. Il primo a denunciarlo è stato il garante nazionale Mauro Palma e quello regionale Stefano Anastasìa. Si è creato un tam tam, coinvolgendo associazioni come Antigone e Carcere Possibile, una Onlus che opera in sinergia con gli uffici amministrativi soprattutto della Campania. Il deputato di +Europa Riccardo Magi ha anche chiesto e ottenuto l’interessamento del governo. Ma la protagonista principale in questa battaglia è stata la senatrice Liliana Segre, che proprio qualche giorno fa - in occasione della giornata della memoria organizzata nel carcere milanese - ha ribadito la necessità dei vaccini: “Torno spesso a San Vittore perché sono stata in queste celle per 40 giorni quando ero una ragazzina e so cosa significa, anche se sicuramente le carceri erano molto diverse da oggi. Sempre per questo motivo mi sto battendo tanto affinché i detenuti vengano vaccinati subito”. 41bis, gli ultimi arresti ci interrogano sulle falle del carcere duro. Per questo serve un confronto di Stefania Ascari* Il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2021 La presenza è potenza. È questo che rende le mafie così difficili da sradicare. La cronaca recente parla di Antonio Gallea, considerato il mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino avvenuto il 21 settembre 1990, arrestato nell’operazione antimafia “Xydi” assieme ad altre 23 persone, tra cui un ispettore e un assistente capo della Polizia, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, accesso abusivo al sistema informatico e rivelazione di segreti d’ufficio. Coinvolta anche l’avvocata di un boss che aveva assunto un ruolo di vertice in Cosa nostra organizzando i summit nel suo studio, svolgendo il ruolo di messaggera per alcuni detenuti al 41bis. Destinatario del provvedimento di arresto è anche Matteo Messina Denaro, ma il boss trapanese un tempo pupillo di Totò Riina resta latitante, ormai dal 1993. Gallea che ha lasciato il carcere dopo 25 anni da detenuto modello, in semilibertà dal 2015 rilancia la “Stidda” agrigentina e ne diventa uno dei boss assieme a Santo Gioacchino Rinallo. Tutto questo deve fare drammaticamente riflettere sulle falle di questo regime speciale, dal punto di vista delle strutture che ospitano questi detenuti, sia per l’aspetto della rieducazione, sia per quanto riguarda la formazione e la serietà di chi lavora in questi circuiti. Il principio scolpito nell’art. 27 Costituzione che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” vale per tutti i reclusi. Mafiosi al 41bis compresi. È chiaro, ovviamente, che se le mafie si organizzano costantemente ricoinvolgendo boss scarcerati, la rieducazione è completamente fallimentare o, per meglio dire, inesistente. Così come è gravissimo che ci siano interazioni tra i detenuti e l’esterno ed è inaccettabile che l’essere sottoposti al regime del 41bis sia stato addirittura un’occasione in più per raggiungere scambi di informazione e messaggi. Orribile poi che ispettori di polizia siano servitori infedeli dello Stato. È bene allora domandarsi se il regime del 41bis sia di fatto oggi adeguato o piuttosto sia stato svuotato di efficacia. Ma soprattutto se si può veramente parlare oggi di carcere duro. Per dare risposte a queste domande è stato istituito, all’interno della Commissione antimafia, un gruppo di lavoro sul regime carcerario ai sensi dell’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario e sulle modalità di esecuzione della pena intramuraria in alta sicurezza. Lo scopo del gruppo è quello di fare una analisi lucida delle reali condizioni degli Istituti di pena che ospitano detenuti per mafia e segnalare in modo concreto le criticità al Ministero di competenza per trovare le idonee soluzioni. È fondamentale un confronto costruttivo con chi opera a diretto contatto con questa categoria di detenuti, per questo in qualità di coordinatrice del gruppo sono partita a sentire i funzionari del Gruppo Operativo Mobile responsabili e specializzati in questi reparti 41bis. Gli spunti che sono emersi sono tanti ma le audizioni sono ancora all’inizio. Il regime di 41bis è uno strumento fondamentale che deve essere tutelato dalle istituzioni. Nasce da un’intuizione del giudice Giovanni Falcone per separare i detenuti mafiosi da quelli comuni ed evitare che i boss mafiosi continuassero dal carcere a comandare e dettare legge nella mafia. Se questa separazione non venisse garantita in modo idoneo verrebbe meno l’intero sistema di prevenzione finalizzato a impedire la commissione di reati. E questo non possiamo proprio permetterlo. *Avvocata e deputata Legge Bonafede, resta in piedi il patto dem-pentastellati di Errico Novi Il Dubbio, 5 febbraio 2021 Bazoli (Pd): “No a rotture sul lodo Annibali, ma in autunno”. Ci sarebbe una notizia. Ed è in una riflessione proposta al Dubbio da Alfredo Bazoli capogruppo dem in commissione Giustizia alla Camera: “Nell’immediato, sulla prescrizione dovrebbe valere la logica del lodo Orlando, almeno nei rapporti fra Pd e Movimento 5 Stelle: quindi, a breve, nessuna modifica della norma Bonafede. Con riserva di intervenire sul punto se da qui a qualche mese non sarà stata approvata una riforma penale davvero efficace”. Quindi, pur considerate le altre mille variabili ora in gioco per il governo, è da escludere che il Pd dica sì al lodo Annibali da qui a una settimana, quando dovrebbe essere discusso in prima commissione a Montecitorio. Insomma, un dato c’è: nell’immediato, il blocca-prescrizione di Bonafede non provocherà strappi nell’alleanza fra dem e pentastellati. E forse non varcherà neppure la soglia dell’Aula. Sia in commissione Affari costituzionali che in commissione Giustizia, dove l’emendamento anti- Bonafede è in rampa di lancio, la vecchia maggioranza, pur priva ormai di Italia viva, resisterebbe ancora, seppur di un soffio. C’è un altro aspetto, e riguarda il futuro meno ravvicinato. È chiaro che la posizione del Nazareno sulla giustizia penale è sì prudente, e conservativa rispetto all’alleanza con i Cinque Stelle, ma non è sclerotizzata. Nel senso che il quadro potrebbe cambiare: “Vale la logica del lodo Orlando”, spiega ancora Bazoli, “si verifichi l’efficacia di una riforma del processo, e la possibilità di definirla in tempi brevi, diciamo certamente entro il 2021. Se non si riuscissero a prevedere misure e interventi complessivi davvero in grado di velocizzare la giustizia penale, allora andrebbe ripristinata la riforma della prescrizione del 2017, a firma Orlando, e accantonata la norma Bonafede”. Tra un attimo vedremo perché Bazoli trova la prospettiva coerente con la natura stessa dell’istituto. Ma ci si deve arrivare dopo aver riepilogato il seguente crono-programma minimo sulla giustizia. A partire dagli emendamenti che congelano per un anno o addirittura sopprimono del tutto il blocca- prescrizione di Bonafede. Ieri il Giornale ha dato notizia che sono stati dichiarati tutti ammissibili nell’ambito dell’esame sul decreto Milleproroghe, in corso alla commissione Affari costituzionali della Camera. Ce n’è uno firmato appunto da Lucia Annibali, di Italia viva, ma altri analoghi sono intestati a Enrico Costa (Azione), Riccardo Magi (+ Europa) e agli azzurri Francesco Paolo Sisto e Pierantonio Zanettin. Andranno però in votazione almeno di qui a una settimana. Il Milleproroghe va convertito entro inizio marzo, ma è impensabile che il Parlamento ci lavori prima che si insedi un nuovo governo. I numeri della commissione fanno paura ma dovrebbero impedire il colpaccio: 24 Pd-Leu-M5S, 24 il resto del mondo. Quindi non passa. Dovrebbe accadere la stessa cosa a inizio marzo, quando gli stessi emendamenti, c’è da esserne certi, saranno ripresentati nella discussione sul ddl penale. Adesso il termine per proporli è al 15 febbraio, ma la commissione Giustizia presieduta dal pentastellato Mario Perantoni rinvierà la scadenza di almeno dieci giorni. In ogni caso, anche lì i numeri, seppur in bilico, dovrebbero tenere: 23 a 23, niente da fare. Il discorso potrebbe cambiare sul medio termine. Perché alle polemiche che il Pd dovrà incassare da parte di Renzi e del centrodestra, si risponderà appunto con lo schema del lodo Orlando: se ne parla a fine 2021. E qui interviene di nuovo l’analisi di Bazoli, che è anche relatore del ddl penale in commissione: “Il lodo Orlando è un tentativo di mediazione politica. Ma risponde a una logica tecnico- normativa. Innanzitutto, va sempre ricordato che in altri Paesi non esiste una prescrizione del tipo di quella da noi in vigore prima che intervenisse la norma Bonafede. Esercitata l’azione penale, altrove il processo va avanti fino a concludersi, senza ghigliottine. Da noi però l’istituto aveva inevitabilmente assunto la funzione di norma di garanzia noin solo rispetto al diritto all’oblio ma anche per il principio costituzionale della ragionevole durata. Visto che i processi sono troppo lunghi, la prescrizione era un meccanismo comunque necessario per scongiurare casi parossistici, ed estinguere il reato se si va troppo oltre. È chiaro”, dice il capogruppo pd in commissione Giustizia, “che se si riuscisse ad approvare una riforma del processo davvero acceleratoria, la necessità di ripristinare la prescrizione pre-Bonafdee, cioè quella uscita dalla riforma Orlando del 2017, verrebbe meno. Di più: visto che il blocca-prescrizione di Bonafede farà sentire i propri effetti quando si arriverà al termine in cui sarebbero andati prescritti i primi reati tra quelli commessi a partire dal gennaio 2020, di tempo per aggiustare le norme sul processo ce ne sarebbe, in teoria. Ma in pratica bisogna essere concreti. Perciò, se di qui al prossimo autunno il Parlamento non fosse in grado di approvare una riforma davvero efficace, un intervento sulla norma Bonafede andrà fatto. Ecco cosa dice il lodo Orlando”, spiega Bazoli, “ed ecco perché anche con un eventuale governo Draghi, resterebbe identico il percorso. Il Movimento 5 Stelle dovrebbe mettere in conto la necessità di intervenire di qui ad alcuni mesi”. È un discorso che non entusiasmerà né Renzi, né il centrodestra, né soprattutto l’avvocatura. Ma è anche l’orizzonte in cui plausibilmente si muoverebbe un guardasigilli di alto profilo in un governo Draghi: ricerca di misure tecnico-normative efficaci, ma soluzione di riserva sul blocca- prescrizione già pronta qualora quelle misure non si trovassero. La tregua reggerà ancora, sulla giustizia penale. Ma dare per certo che nulla cambierà più, per le regole del processo, e per il diritto all’oblio, sarebbe da ingenui. Prescrizione e reddito di cittadinanza. Ecco le “condizioni” 5S per sedersi al tavolo di Rocco Vazzana Il Dubbio, 5 febbraio 2021 Mantenere la riforma Bonafede diventa questione di vita o di morte, per i grillini, per scongiurare la scissione, superare le resistenze dei senatori e mettere all’angolo Matteo Renzi. Ora che Giuseppe Conte ha sdoganato Mario Draghi dietro a un tavolino di cristallo piazzato fuori da Palazzo Chigi, la strada per la formazione di un nuovo governo con dentro i pentastellati si presenta in discesa. Il Movimento 5 Stelle, sfiancato e balcanizzato da una crisi politica rapidissima, aspettava un segnale dal suo premier per addolcire il “boccone amaro” del sì all’ex presidente della Bce. E ora che quel segnale è arrivato, la missione pacificatrice di Di Maio e Crimi diventa impresa possibile. Ma non certa. Perché nonostante la disponibilità al dialogo annunciata da Conte, tra i grillini, soprattutto al Senato, non si affievoliscono le polemiche per la remissività mostrata dal gruppo dirigente al tavolo delle trattative con Renzi nei giorni più caldi della crisi. Il no alla fiducia al buio a Draghi si trasforma così in un moto d’orgoglio identitario che compatta un gruppone di eletti a Palazzo Madama. Terreno fertile per Alessandro Di Battista, capofila della lotta all’uomo “delle élite”. Al ministro degli Esteri spetta dunque il compito di spezzare la “resistenza”, offrendo ai ribelli la sensazione di un Movimento protagonista, per nulla arrendevole, pronto a imporre una visione persino all’ex capo della Bce. Il sì a Draghi, raccontano dal quartier generale pentastellato, non sarà affatto gratuito, ma condizionato all’accoglimento nel programma di almeno quattro punti connotanti: No alla riforma della prescrizione targata Bonafede, nessun ritocco sostanziale al reddito di cittadinanza, mai Mes e mantenimento del super bonus. Senza questi paletti, è il messaggio, il Movimento non si accomoderà a nessun tavolo. Richieste importanti, quelle grilline, indispensabili a far uscire il partito a testa alta dalle trattative. Necessarie, soprattutto, per reagire alla mossa del cavallo renziana, che proprio sui temi della giustizia (prescrizione) e dei sussidi (reddito di cittadinanza) ha spezzato la corda del Conte due. Mantenere la riforma Bonafede diventa così questione di vita o di morte politica per convincere i vari Nicola Morra e Barbara Lezzi ad abbandonare la barricata degli “irriducibili” e tornare a combattere la crociata anti renziana. Rispondere all’attacco di Italia viva, in casa 5S, è diventato prioritario. Come prioritario è non rimanere fuori dai giochi per non rompere l’alleanza necessaria con Pd e Leu. È questa la scelta di campo di Di Maio e Conte, convinti che l’equidistanza, la “terza via” grillina, sia ormai una strada impercorribile. Lo scontro politico dei prossimi anni si consumerà tra centrodestra a trazione sovranista e centrosinistra rinnovato dal Movimento, con l’esclusione definitiva di Italia viva dal campo progressista. E per ricompattare il partito su questa nuova prospettiva, al tavolo col banchiere europeista i pentastellati chiederanno anche due posti chiave (per ora non meglio specificati) nel futuro esecutivo, di cui uno probabilmente riservato allo stesso Conte. Obiettivo: sterilizzare la spinta scissionista di Dibba. E non è un caso che nel chiedere “maturità” politica al proprio partito, Di Maio abbia “rottamato” Rousseau. “In questa fragile cornice, il Movimento 5 stelle ha, a mio avviso, il dovere di partecipare, ascoltare e di assumere poi una posizione sulla base di quello che i parlamentari decideranno”, ha scandito il ministro degli Esteri, pesando attentamente le parole. Un eventuale accordo di governo, dunque, non verrà certificato da un voto online, terreno privilegiato del radicalismo dibattistiano, ma dall’assemblea di Palazzo. Saranno i parlamentari ad assumersi la responsabilità della scelta. L’epoca dell’uno vale uno e della Rete come unico motore decisionale appartiene a un’era politica lontana, nonostante l’ostruzionismo dei duri e puri, tra cui figurano anche esponenti di peso, come l’ex ministra Lezzi, che solo poche ore prima sentenziava sicura: “Il M5S non voterà la fiducia a Draghi”. L’ex capo politico si mostra fiducioso, lo scetticismo verrà meno grazie alla politica. “Comprendo gli animi e gli umori di queste ultime ore”, dice Di Maio a proposito dello scontro in corso. “È legittimo. Stiamo attraversando una crisi politica complessa e non abbiamo colpe”, argomenta pacato. “Ma è proprio in queste precise circostanze che una forza politica si mostra matura agli occhi del Paese”. I grillini sono pronti a trattare, le condizioni sono sul tavolo, toccherà al premier incaricato decidere se accoglierle o meno. Sempre che il Movimento non si sbricioli in un cumulo di macerie. Palamara inaugura l’anno giudiziario dai Radicali di Rocco Schiavone L’Opinione, 5 febbraio 2021 “Non parliamo di certi giornalisti che noi al Csm e all’Anm - quando ne facevo parte - definivamo come magistrati onorari aggregati, impegnati sempre a portare avanti nelle loro campagne di stampa le verità rivelate dei loro referenti tra le correnti in magistratura”. La vera inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 è quella che arriva dalle parole di Luca Palamara. Non è stata certo quella scialba e un po’ imbarazzante che si è svolta in Cassazione, con il solito modello “a distanza e in sicurezza”. In compenso le cose importanti - come quella su citata - si sono sentite in occasione della presentazione tenutasi nella sede del Partito Radicale a Roma del libro “Il Sistema”. Scritto a quattro mani dal direttore de “Il Giornale” Alessandro Sallusti proprio con il “neo capro espiatorio delle magagne in toga”, l’ormai reietto Luca Palamara. Quest’ultimo, che quel tipo di stampa e di giornalismo che va a braccetto con quel tipo di magistratura vorrebbero fare passare da pazzo e delinquente come fece la mafia con Joe Valachi - piuttosto che dar lui almeno la dignità di un Tommaso Buscetta della categoria, o, non sia mai, quella di uno che ha scelto di sacrificarsi per tutti confessando i misfatti della casta - mena fendenti a destra e a manca. Non solo nelle rivelazioni ex post di una venticinquina d’anni di storia d’Italia, dalle sentenze contro Silvio Berlusconi a oggi in particolare, ma anche nella chiamata in causa di istituzioni terze alla magistratura stessa. Vedi la attuale Presidenza della Repubblica. Asseritamente e inspiegabilmente ansiosa di piazzare un suo vecchio amico come procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Manovra che Palamara oggi svela nel libro precisando di avere detto “no” alle sollecitazioni in materia che gli arrivarono quando era potente. Il libro è ovviamente una miniera anche per le rivelazioni su Henry John Woodcock e le sempre asserite indegne manovre per incastrare l’ex premier Matteo Renzi puntando su inchieste che riguardavano i genitori. Ma soprattutto appare in ogni caso una sia pur tardiva scelta di verità del tutto in contrapposizione con l’aplomb della cerimonia dei vari anni giudiziari in un paese in cui la giustizia non funziona. Quando non fa orrore. È del 29 gennaio scorso un pezzo di Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera che fa la cronaca delle lunghe code di persone colpite da ingiusta detenzione preventiva - e poi assolte nel successivo lungo quando non interminabile processo - che chiedono i risarcimenti negli uffici giudiziari delle rispettive città. E sembra che le percentuali di questi errori per cui vengono chieste le dovute riparazioni vada da un caso su tre di media nazionale a una punta di due su tre che riguarda la Corte di Appello di Varese. Diciamo che Palamara nella sua conferenza stampa di oggi con Sallusti ha fatto la sua contro-inaugurazione dell’anno giudiziario 2021. Quella fuori dai denti che ogni cittadino può comprendere. E allora oggi cosa è la magistratura italiana? Quella delle inaugurazioni di repertorio a distanza o quella che racconta Palamara? Speriamo non sia una domanda retorica. L’ondivago falso pentito Scarantino non ha confermato le accuse ai magistrati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 febbraio 2021 Quindi va creduto? Archiviata la posizione dei magistrati per il depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio basato sulle dichiarazioni di Scarantino. Come già annunciato è stata archiviata dal gip di Messina la posizione dei magistrati per il depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio, nella quale morirono Borsellino e la sua scorta. Il procedimento archiviato ha preso le mosse dalla trasmissione da parte della Procura della Repubblica di Caltanissetta alla Procura della Repubblica di Messina - a seguito del deposito della sentenza di primo grado del “Borsellino quater” - degli atti relativi al procedimento n. 916/18 modello 45 “al fine valutare le condotte dei magistrati all’epoca in servizio presso il distretto di Corte d’Appello di Caltanissetta in ordine alle indebite pressioni rivolte, in particolare, nei confronti di Scarantino Vincenzo, nell’ambito dei procedimenti conseguenti la strage di via D’Amelio”. Il 4 giugno del 2015 per Scarantino i giudici erano consapevoli che le sue dichiarazioni fossero false - Nel corso dell’udienza del 4 giugno del 2015 nell’ambito del procedimento summenzionato, il falso pentito Scarantino aveva fatto esplicito riferimento alla consapevolezza da parte dei magistrati che avevano gestito la sua collaborazione - nello specifico Giovanni Tinebra (poi deceduto), Carmelo Petralia e Anna Maria Palma Guarnier - che le dichiarazioni da lui rese nella fase delle indagini preliminari sulla strage di via D’Amelio fossero false.Ma nulla, nessuna responsabilità penale. L’indagine da parte della Procura di Messina guidata da Maurizio De Lucia è partita, per poi però appunto chiedere l’archiviazione. A Caltanissetta è in corso un processo a 3 poliziotti con le stesse accuse - Mentre, per gli stessi fatti e per la stessa accusa (concorso in calunnia aggravata dall’avere favorito Cosa nostra) a Caltanissetta è in corso un processo contro tre dei poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, membri del gruppo Falcone-Borsellino che indagò sulle stragi mafiose del ‘92 di via D’Amelio e di Capaci. I tre, secondo l’accusa, avrebbero in qualche maniera manovrato le dichiarazioni rese da Scarantino, costringendolo a fare nomi e cognomi di persone innocenti in merito all’attentato in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Un’inchiesta, ribadiamo, quella nei confronti degli investigatori e dei pm (ora archiviata), nata sulla scorta delle motivazioni della sentenza Borsellino quater in cui si parla in maniera chiara del depistaggio delle indagini certificando che Scarantino è stato “indotto a mentire”. Eppure, secondo il giudice dell’udienza preliminare, “la corposa attività d’indagine posta in essere dall’Ufficio di Procura presso questo Tribunale non ha consentito - a parere di questo Giudice - di individuare alcuna condotta penalmente rilevante a carico dei magistrati oggi indagati che fosse volta ad indurre consapevolmente Scarantino Vincenzo a rendere false dichiarazioni e a incolpare”. Le dichiarazioni discordanti del falso pentito - Per arrivare a questa conclusione, il gip prende le mosse delle dichiarazioni discordanti di Scarantino. Prima dice di essere stato indotto dai soli poliziotti senza la presenza dei magistrati, ma poi dice l’esatto contrario. “Chiesti chiarimenti- scrive il giudice - in merito alle diverse dichiarazioni rese nel tempo sulle condotte dei magistrati che si erano occupati della sua collaborazione, alle sue varie ritrattazioni, alle dichiarazioni reticenti e ai vari “non ricordo”, lo Scarantino ha giustificato la sua condotta in maniera confusa, addossandosi la colpa in quanto soggetto emotivamente instabile e additando la Polizia come la causa della “rovina della sua vita”. In sostanza Vincenzo Scarantino viene creduto solamente quando accusa esclusivamente la polizia. O meglio, quando davanti ai magistrati di Messina ritratta nuovamente la sua versione. Si legge sempre nell’ordinanza di archiviazione che “d’altronde, senza la successiva collaborazione di Spatuzza Gaspare (iniziata nel giugno 2008), della falsità delle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo non vi sarebbe stata alcuna certezza”. La totale mancanza di attendibilità di Scarantino era nota dal 1995 - Eppure, molti anni prima qualche altra certezza c’era stata. Parliamo del 3 gennaio del 1995, quando c’è stato il confronto tra Scarantino e i collaboratori di giustizia Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo. Ed è proprio in quel confronto che emerse la totale mancanza di attendibilità di Scarantino. Ma è accaduto che il verbale del confronto è rimasto nel cassetto per diverso tempo. Alla data dei confronti, ovvero il 13 gennaio 1995, nessuno dei processi riguardante la strage di via D’Amelio era stato ancora definito. La sentenza del primo processo concluso, il Borsellino 1, viene pronunciata solo nel gennaio del 1996, a distanza di oltre un anno dall’avvenuta assunzione dei confronti. Il deposito di quei verbali demolitori della figura di Scarantino, quanto al profilo criminale quanto al contenuto delle dichiarazioni, avrebbe potuto quindi incidere sensibilmente sulle conclusioni di quel processo. Che invece, com’è noto, si concluse accettando l’intero impianto accusatorio basato sulla parola di Scarantino e condannandolo all’ergastolo. Scarantino congedato dal servizio militare perché ritenuto “neurolabile” - Il verbale uscì fuori grazie alla tenacia dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, che all’epoca difese alcuni imputati poi condannati ingiustamente per la strage. La commissione Antimafia della Sicilia, nella sua relazione, ha evidenziato che il mancato deposito di detti verbali nella segreteria del pubblico ministero ha “sicuramente determinato una grave deviazione processuale, perché ha impedito alla Corte di Assise di Caltanissetta una piena cognizione ed una corretta valutazione dell’inesistente affidabilità di Scarantino”. Un iter processuale, quindi, che già nel 1995 avrebbe avuto un esito diverso, se solo si fosse portato a conoscenza di quel verbale, il perno principale che avrebbe fatto decadere tutte le accuse senza arrivare fino al Borsellino Quater. Come se non bastasse, nel 2019, durante il processo depistaggio contro i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, esce fuori un documento che attesta che Vincenzo Scarantino fu congedato dal servizio militare perché ritenuto dai medici “neurolabile”. È stato prodotto dall’avvocato Rosalba Di Gregorio, legale di Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina e Gaetano Murana, ex imputati falsamente accusati e poi scagionati e scarcerati. Secondo quanto risulta nel documento del 1986 a Scarantino venne diagnosticata una “reattività nevrosiforme persistente in neurolabile”. Motivo in più per chiedersi del come mai non si siano fatti tutti quegli accertamenti quando a suo tempo presero per oro colato le false dichiarazioni di Scarantino. Una Fiammetta Borsellino, delusissima dell’archiviazione, si è lasciata andare a un amaro “cane non mangia cane”. Come no: i due pm sono innocenti e Scarantino è soltanto un mitomane di Tiziana Maiolo Il Riformista, 5 febbraio 2021 Il gup di Messina ha archiviato le indagini sui magistrati Palma e Petralia. Ma allora chi è che ha istruito il falso pentito accreditato da Di Matteo? Forse si vuole gettare la croce addosso ai poliziotti, di cui uno morto? I pubblici ministeri sono innocenti, i poliziotti, ancora sotto processo per il reato di calunnia, si vedrà. Forse Vincenzo Scarantino, protagonista suo malgrado del più grande depistaggio di Stato sulla strage di via D’Ameno e l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, si sarà torturato da solo fino a inventarsi le proprie responsabilità nel delitto. Solo questa può essere la verità emersa dalla decisione assunta dal gup di Messina, che ha accolto la richiesta di archiviazione nei confronti dei due ex pubblici ministeri di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, indagati per calunnia aggravata per aver costruito insieme al vicequestore Arnaldo La Barbera il falso pentito della strage. I due magistrati possono ora dormire sonni tranquilli, una nel suo nuovo ruolo di avvocato generale a Palermo, l’altro come procuratore aggiunto a Catania. Sono tanti gli assurdi di questa storia. Prima di tutto perché dall’inchiesta è stato escluso l’altro pm delle indagini, Nino Di Matteo. Perché era giovane, appena arrivato, si dice. Argomento cui risponde Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato ucciso, dicendo che ci sarebbe da indignarsi, se davvero la sorte di suo padre fosse stata affidata a un ragazzino alle prime armi. Cosa che lei non crede, infatti lo chiama a rispondere delle proprie responsabilità nelle indagini dirette a senso unico. Ricordando il fatto che Di Matteo, chiamato a deporre al processo “Borsellino quater”, ha di fatto ammesso la propria partecipazione attiva a ogni fase dell’inchiesta. “Nei primi interrogatori abbiamo creduto che le dichiarazioni di Scarantino fossero genuine - aveva detto. Solo dopo abbiamo intuito che fossero inquinate”. Intuìto? E quando, visto che undici persone innocenti sono state in carcere per quindici anni, fino alla deposizione del “pentito” (vero) Gaspare Spatuzza nel 2008? E visto che nel frattempo il piccolo spacciatore veniva ripetutamente “preparato” da poliziotti e magistrati prima di ogni interrogatorio, fatto che non viene smentito. Ma che andrebbe chiamato con il nome giusto. Perché evidentemente qualcuno suggeriva quel che Scarantino doveva dire. L’altro assurdo è il fatto che ancora oggi si dia credito al falso pentito, che ha fatto l’ennesima giravolta a Messina rispetto a quanto testimoniato in aula a Caltanissetta, e che ora scarica ogni responsabilità sui poliziotti, mentre prima aveva fatto nomi e cognomi dei magistrati. Facile colpire La Barbera, prima di tutto, che è morto nel 2002. E poi i tre ex agenti che potrebbero, alla fine, diventare dei veri capri espiatori di un’operazione nata a cresciuta nel mondo delle toghe, oltre che delle divise ad alto livello. Cioè quelli abituati a gonfiare il petto davanti alle telecamere dopo ogni retata, dopo ogni arresto eccellente per la soluzione dei casi più spinosi. Ma che sono poi pronti a scaricare su altri le proprie responsabilità. Magari condizionando, ancora oggi, il falso pentito, aiutandolo (ma senza suggerire, per carità) prima di ogni deposizione. La complessa qualificazione giuridica del millantatore che si fa dare il denaro “col pretesto” di Matilde Bellingeri Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2021 La diversità del bene protetto della fattispecie penale descritta dall’articolo 640 c.p. e quella indicata dall’articolo 346-bis c.p. consente il concorso formale fra le due norme. Così si è espressa la Sesta Sezione Penale della Suprema Corte (sentenza n. 1869/21, depositata il 18 gennaio) circa la sussistenza di continuità normativa tra il reato di millantato credito e quello di traffico di illecite influenze. Il delitto di traffico di influenze illecite previsto dall’art. 346 bis c.p. è stato introdotto con la L. n. 190/2012. Precedentemente, l’unica fattispecie astrattamente idonea a reprimere le condotte corruttive volte ad alimentare i mercati illegali e la libera concorrenza era il millantato credito (346 c.p.) il quale prevedeva: 1) al comma 1, l’ipotesi in cui la promessa o dazione di denaro o altra utilità fosse funzionale alla remunerazione del mediatore per l’attività svolta nei confronti del pubblico ufficiale “come prezzo della propria mediazione”; 2) al comma 2, l’ipotesi consistente nel farsi dare o promettere denaro o altre utilità “col pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale o impiegato o di doverlo remunerare”. La differenza risiedeva nella prospettazione che il “venditore di fumo” ne avrebbe fatto al “potenziale” corruttore, come prezzo o come costo della propria mediazione. Le condotte previste dall’art. 346, comma 2 c.p. si ponevano in rapporto di specialità con il delitto di truffa, la condotta censurata avrebbe potuto realizzarsi solo attraverso quegli artifici e raggiri propri del reato di truffa. La L. n. 190/2012 ha introdotto la fattispecie di traffico di influenze illecite (346 bis c.p.) prevedendo la punizione di chi, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, si faceva dare o promettere a sé o ad altri, indebitamente, denaro ad altra utilità, come prezzo della propria mediazione (a vantaggio del mediatore) o, in alternativa, quale remunerazione, destinata al pubblico ufficiale. Tale fattispecie, molto simile a quella del millantato credito, introduceva una sanzione per il compratore dell’influenza indebita. Gli elementi differenziali tra l’art. 346 bis e il millantato credito (art. 346) erano essenzialmente due: 1) l’inserimento dell’aggettivo “esistenti”, come elemento qualificante le relazioni sussistenti tra il mediatore e il pubblico ufficiale; 2) l’espressa previsione della punibilità del privato che indebitamente da? o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale. Sul piano intertemporale, la riforma Severino aveva ad ogni effetto introdotto una nuova incriminazione, con conseguente applicabilità del principio irretroattività sfavorevole di cui all’art. 2, I, c.p. per il traffico di influenze commesso in epoca antecedente al 2012. Successivamente, la legge n. 3/2019 ha abrogato il millantato credito (346 c.p.) e contestualmente riformulato il traffico di influenze (346 bis c.p.), ricomprendendovi oltre allo sfruttamento di relazioni esistenti con un pubblico ufficiale, anche la condotta di chi vanta relazioni puramente asserite. L’intento del legislatore era quello di realizzare una piena continuità normativa tra le fattispecie in esame. Tale obiettivo si è pacificamente realizzato con riferimento alla condotta in precedenza prevista dall’art. 346 comma 1 c.p.; a diversa conclusione si deve invece giungere con riferimento alle condotte in precedenza punite al comma 2 dell’art. 346 c.p. il quale prevedeva la punibilità di colui il quale riceve la dazione “col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale, o di doverlo remunerare”. I contrasti. Secondo quanto affermato da Cass. pen. n. 5221/2020 “la mancata riproposizione del termine “pretesto” contenuto nella precedente ipotesi di reato o altro di natura equipollente, che come sopra osservato, fondava il carattere autonomo della fattispecie di reato di cui all’art. 346, comma secondo, cod. pen. - inserendo la stessa in una storicamente riconosciuta particolare ipotesi di truffa - fa ritenere che non vi sia identità tra la norma abrogata e quella oggi prevista dall’art. 346 bis c.p. per come modificata dalla L. 9 gennaio 2019, n 3”. Come si e? accennato in precedenza, l’art. 346 comma 2 c.p. era in rapporto di specialità unilaterale con la fattispecie di cui all’art. 640 c.p. In relazione alle condotte commesse “col pretesto”, dunque, si sarebbe realizzata un’ipotesi di abrogazione con contestuale riespansione dell’art. 640 c.p. Inoltre, per effetto della modifica del 2019, il comma 2 art. 346 bis c.p. ha esteso alle condotte originariamente previste dall’art. 346 comma I c.p. la punibilità per il privato “potenziale” corruttore, rappresentando un fenomeno di nuova incriminazione, con conseguente applicazione del principio di irretroattività sfavorevole. Conseguentemente, dopo il 2019, non sarà punibile il soggetto che effettua la dazione al “venditore di fumo”. Questo orientamento non ha trovato conferma nella recente pronuncia della Cass. pen. n. 1869/2021, la quale non condivide la precedente prospettiva ermeneutica per diverse ragioni. In primo luogo, non avrebbe analizzato il fatto che entrambe le ipotesi di cui all’art. 346 c.p. prevedevano un delitto del privato contro la P.A., il cui retto e imparziale funzionamento costituisce l’unico oggetto della tutela, leso, nell’ipotesi di cui al comma 2, dal fatto che il pubblico ufficiale verrebbe prospettato quale persona corrotta o corruttibile. Inoltre, la precedente pronuncia avrebbe disatteso quell’orientamento secondo il quale, l’ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 346 c.p. si differenzierebbe dal delitto di truffa per due ragioni. Da un lato, per la diversità della condotta (non essendo necessaria né la millanteria né una generica mediazione); da altro, per l’oggetto della tutela penale (rispettivamente il prestigio della pubblica amministrazione e il patrimonio). Con la conseguenza che l’unica parte offesa ex art. 346 c.p. sarebbe la pubblica amministrazione e non, anche, colui il quale abbia versato somme al millantatore. Ciò considerato, secondo la pronuncia in commento, il reato di millantato credito potrebbe concorre, formalmente, con quello di truffa, stante la diversità dell’oggetto della tutela penale. Le due norme si porrebbero, contrariamente rispetto a quanto precedentemente affermato, in totale continuità normativa non verificandosi ipotesi di abrogatio criminis integrale. Sebbene, in astratto, la neonata macro-fattispecie di cui all’art. 346-bis c.p. sembri avere una dimensione applicativa amplissima, è ben evidente come i problemi di coordinamento tra l’art. 640 c.p. e l’art. 346 c.p., oggetto di serrato dibattito tra i penalisti, siano destinati a riproporsi in relazione all’art. 346-bis c.p. Napoli. Un anno da Garante dei detenuti, i numeri di Pietro Ioia di Ciro Cuozzo Il Riformista, 5 febbraio 2021 “In carcere anziani anche più malati di Verdini ma sono poveri”. A Poggioreale su 2mila detenuti solo uno può andare a lavorare fuori. Sei visite ispettive, oltre 500 detenuti incontrati e un migliaio di telefonate ricevute dai familiari degli stessi per denunciare violenze, criticità sanitarie, casi di Covid, condizioni igieniche precarie, problemi economici e le lungaggini burocratiche. Sono solo alcuni dati del report di 64 pagine presentato dal garante dei detenuti del Comune di Napoli Pietro Ioia al termine del suo primo anno di mandato. “Sono il garante del popolo” ha spiegato Ioia, 62 anni, nel corso della conferenza stampa al Gridas (Gruppo Risveglio Dal Sonno) di Scampia. Un anno intenso, segnato dall’emergenza coronavirus che ha accentuato ulteriormente le criticità presenti nelle carceri italiane e, in questo caso, napoletane. Un anno segnato anche dalla quasi totale assenza dell’amministrazione comunale partenopea. Dopo la nomina di Ioia infatti il sindaco de Magistris “è sparito, doveva venire con noi in visita ai detenuti ma non si è fatto più sentire”. Ioia, che non percepisce uno stipendio per l’attività che svolge (perché non previsto dal comune partenopeo), non ha un ufficio (“il mio ufficio è il bar”) ma, nonostante i pochi mezzi a disposizione, è riuscito a diventare in pochi mesi un vero e proprio punto di riferimento per i familiari dei detenuti ristretti nel carcere di Poggioreale, in quello di Secondigliano e nell’istituto minorile di Nisida. Nel suo lavoro quotidiano è stato affiancato da due donne, Sara Romito e Sara Meraviglia, che in questo lungo e intenso anno hanno avviato contatti con associazioni presenti sul territorio per garantire i servizi minimi ai detenuti e ai loro familiari. “Nelle prossime settimane attiveremo uno sportello legare gratuito presso il centro Gelsomina Verde di Scampia in modo tale da aiutare i parenti che non hanno la possibilità di sostenere la spesa economica di un avvocato” ha spiegato Romito. Ioia nel corso dell’ultimo anno ha incontrato anche quattro detenuti che hanno provato a togliersi la vita. “Con il Covid, le attività ricreative dimezzate, i tempi burocratici relativi alle decisioni su pene alternative, procedimenti penali, visite specialistiche, la vita all’interno è diventata un incubo” spiega il garante comunale. “Ci sono tanti detenuti con patologie pregresse, ci sono anziani anche più malati di Verdini ma sono poveri. È sempre una tragedia, ogni volta che li incontro mi dicono sempre le stesse cose. Ce ne sono tantissimi che potrebbero uscire prima, perché hanno pochi mesi da scontare, e invece non accade nulla” aggiunge Ioia. “Purtroppo lo Stato è assente soprattutto nelle carceri della Campania. È stato un anno difficile, ci sono stati morti per Covid, ci sono state violenze accuratamente preparate e disposte dopo le rivolte, così come è capitato a me 30 anni fa” spiega Ioia. Un altro dato eclatante è relativo all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, quello che permette ai detenuti che ne fanno richiesta e ne hanno i requisiti di svolgere un’attività lavorativa all’esterno delle mura carcerarie. “Il caso di Poggioreale è emblematico - spiega Sara Meravaglia dei Radicali Italiani - perché a fronte di una popolazione detentiva di quasi 2mila unità c’è un solo detenuto a cui è stato consentito di svolgere attività esterna”. “Il problema - aggiunge - è legato alle scarse risorse destinate ai penitenziari e alle istituzioni che non svolgono il ruolo di mediatori tra la comunità cittadina e il carcere stesso”. Presente alla conferenza stampa anche Antonio Piccirillo, 25 anni, figlio del boss Rosario Piccirillo (attualmente detenuto), che entrerà nello staff di Pietro Ioia per lavorare alla costruzione di un’alternativa per chi si trova in carcere. Antonio Piccirillo (di cui parleremo in modo approfondito in un articolo che verrà pubblicato a breve) è salito agli onori delle cronache nel maggio del 2019 quando partecipò a una fiaccolata in piazza Nazionale dopo l’agguato subito dalla piccola Noemi, la bimba di 3 anni ferita per errore mentre si trovava fuori a un bar in compagnia della nonna e della madre. Napoli. La scelta di Antonio: “Io, figlio del boss, convincerò i detenuti a cambiare strada” di Massimo Romano napolitoday.it, 5 febbraio 2021 Antonio Piccirillo ha 25 anni: “Per vent’anni ho sofferto per mio padre in carcere”. Il garante dei detenuti lo vuole al suo fianco: “Voglio parlare al cuore dei papà, spiegare loro quanta sofferenza causano alle loro famiglie”. Antonio Piccirillo ha 25 anni e 20 li ha trascorsi andando a trovare il padre detenuto in varie carceri. La sua vita è improvvisamente cambiata quando nella primavera del 2019, dopo il ferimento della piccola Noemi, dichiarò pubblicamente di essere figlio di un boss, Rosario Piccirillo, e di volersi dissociare da tutto quanto il padre avesse fatto. Nonostante la giovane età, Antonio ha le idee chiare e le spalle larghe e lo ha dimostrato ancora una volta quando, in occasione della presentazione del report sulle carceri prodotto dal garante dei detenuti Pietro Ioia, ha annunciato il suo desiderio: “Voglio affiancare Pietro nel lavoro che svolge nei penitenziari. Voglio parlare ai padri che sono in cella. Voglio spiegare loro la sofferenza che causano alle loro famiglie, ai loro figli. Voglio convincerli a cambiare strada”. È consapevole che le parole non basteranno, che perché qualcosa si muova va cambiata l’idea stessa del carcere e va buttato giù un muro fatto di pregiudizi. “C’è una grande battaglia da fare. So cosa vuol dire camminare con un’etichetta addosso. Io e mio fratello siamo stati sempre i figli del boss. Io voglio parlare di programmi di recupero, di valorizzazione dei detenuti. Spero che le istituzioni mi consentano di intraprendere questo percorso insieme a Pietro Ioia”. Palermo. Sollecitazioni per l’istituzione di un Garante dei diritti per i detenuti ilsicilia.it, 5 febbraio 2021 Riceviamo e pubblichiamo una nota del Comitato Esistono i Diritti, inviata a seguito dell’ok sulla trattazione dell’atto in Consiglio Comunale a Palermo da parte del Presidente di Sala delle Lapidi Totò Orlando, circa la istituzione del Garante dei detenuti nel Comune di Palermo. “Apprendiamo che la giunta comunale ha dato seguito alle sollecitazioni della dirigenza e degli iscritti al Comitato per l’istituzione della figura del garante dei diritti per i cittadini detenuti - scrive il Comitato - che teniamo a ribadire, con un più ravvicinato rapporto fra istituti detentivi e amministrazione, come comitato esistono i diritti, riteniamo indispensabile alla salvaguardia dei diritti fondamentali della persona all’interno delle case circondariali nella città metropolitana di Palermo. Ci chiediamo quindi adesso cosa manchi perché la Città si doti definitivamente e quanto prima di questa figura quanto mai indispensabile. La realtà carceraria, prima che la cronaca ogni giorno, ci fornisce elementi di urgenza per la tenuta del sistema detentivo oltre che delle garanzie costituzionali. Volendo fare seguito a quanto fin qui fatto ci appelliamo a chi ne ha il potere, al consiglio comunale tutto, perché adesso si faccia presto e bene sul tema garante dei diritti dei detenuti. Ancona. Il reinserimento passa per l’agricoltura: le carceri diventano orti sociali di Gino Bove anconatoday.it, 5 febbraio 2021 L’obiettivo è aumentare il numero delle strutture penitenziarie marchigiane coinvolte nei progetti agricoli con l’inserimento della Casa detentiva di Pesaro e l’ampliamento delle attività zootecniche a Barcaglione di Ancona. Rinnovato il protocollo d’intesa per la riabilitazione e l’inserimento lavorativo dei detenuti in agricoltura. L’obiettivo è aumentare il numero delle strutture penitenziarie marchigiane coinvolte nei progetti agricoli formativi e riabilitativi, con l’inserimento della Casa detentiva di Pesaro e l’ampliamento delle attività zootecniche a Barcaglione di Ancona. Contestualmente si avvieranno le attività già previste a Monteacuto di Ancona e proseguiranno quelle svolte nel carcere di Ascoli Piceno. Lo strumento per regolamentare queste iniziative è rappresentato dal rinnovo del protocollo tra Regione Marche e il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per l’Emilia Romagna e le Marche. A Palazzo Raffaello (sede della Giunta regionale), il vicepresidente Mirco Carloni, assessore all’Agricoltura e il provveditore Gloria Manzelli hanno sottoscritto l’intesa che sosterrà i progetti di orticoltura sociale e didattica, promossi insieme all’Assam, nelle carceri marchigiane, nel periodo 2021-2023. “Orto sociale in carcere” rappresenta un’articolazione del più vasto progetto regionale di agricoltura sociale e didattica denominato “Ortoincontro”. Il settore che coinvolge gli istituti penitenziari valorizza la vocazione agroalimentare del territorio. I detenuti coinvolti, individuati dal Provveditorato sulla base di una sottoscrizione volontaria di un patto di “alto profilo trattamentale”, mira alla riabilitazione del detenuto, coinvolgendolo nei processi produttivi stagionali e al suo inserimento lavorativo, al termine della pena, nel settore agricolo, grazie alle competenze acquisite. Il protocollo individua le attività che verranno svolte nelle Case circondariali. A Montacuto di Ancona, quelle legate alla vitivinicoltura (con l’impianto di un vigneto) e all’orticoltura. Ad Ascoli Piceno si continuerà con l’orticoltura già avviata. A Pesaro si punterà sul vivaismo, a supporto delle attività orticole svolte nelle altre strutture detentive marchigiane. A Barcaglione di Ancona verranno invece implementate e diversificate le attività agricole avviate da tempo, essendo stata la prima struttura coinvolta nel progetto. L’orto, grazie a un invaso meteorico, è coltivato da sei anni, con la collaborazione di tutors pensionati della Coldiretti di Ancona, coinvolgendo quasi la metà dei detenuti. Successivamente sono state sviluppate altre attività agricole, su un terreno demaniale di due ettari che ha consentito la nascita dell’Azienda Barcaglione. Annovera un uliveto da 300 olivi (di varietà autoctone marchigiane), le cui olive vengono raccolte e lavorate direttamente in un mini frantoio interno per la produzione di diversi oli monovarietali. Dispone anche di una serra di circa 450 mq per la produzione di talee di olivo (rametto destinato a radicarsi), da due anni riconvertita alla coltivazione di frutti rossi (more, lamponi, mirtilli), gestita da una società agricola che assume un paio di detenuti per la lavorazione stagionale. Ha poi un apiario di 20 famiglie di razza Ligustica (ape italiana) per la produzione di miele. A fine 2020 Barcaglione ha avviato un allevamento di ovini da latte per la produzione di formaggio. Con il nuovo protocollo verrà implementata l’attività zootecnica attraverso la realizzazione di un piccolo pollaio per l’allevamento di galline ovaiole della pregiatissima razza autoctona “Ancona”, pressoché scomparsa dal territorio. A questo progetto collaboreranno, oltre l’Assam, l’Istituto zooprofilattico Umbria Marche e la Federazione regionale Coldiretti”. Castelfranco Emilia (Mo). Anche i detenuti della Casa-lavoro produrranno tortellini modenatoday.it, 5 febbraio 2021 Le sfogline si recheranno nella struttura carceraria per insegnare i loro “segreti” ai detenuti: la produzione sarà venduta nello spaccio esterno al Forte Urbano. Ieri è stato sottoscritto l’accordo tra il Comune, la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia e nuova Associazione “Maestre Sfogline di Castelfranco Emilia” collegata alla storica Associazione La San Nicola grazie al quale, nella casa di lavoro, sarà allestito uno spazio per la produzione e la vendita del Tortellino tradizionale di Castelfranco Emilia. Durante tutto l’anno sarà quindi finalmente possibile acquistare il Tortellino Tradizionale di Castelfranco Emilia che sarà venduto al pubblico direttamente dallo spaccio esterno alla storica struttura del Forte Urbano che ospita la Casa Lavoro. Tutto questo grazie ad un progetto del Comune di Castelfranco Emilia finanziato dalla Regione Emilia Romagna sul tema della promozione della Sicurezza. Presenti alla firma di questo protocollo d’intesa il Sindaco di Castelfranco Giovanni Gargano, la Direttrice dell’Istituto Dr.ssa Maria Martone, Sergina Caponcelli, Presidente dell’Associazione Maestre Sfogline ed il Presidente dell’Associazione La San Nicola Giovanni Degli Angeli. E saranno proprio le sfogline a varcare le mura del Forte Urbano per insegnare agli internati la preziosissima arte della preparazione del Tortellino Tradizionale di Castelfranco Emilia, dall’impasto alla creazione dell’ombelico più invidiato e copiato al mondo. “Non posso che esprimere la mia profonda soddisfazione - ha dichiarato il Sindaco di Castelfranco Emilia Giovanni Gargano - perché finalmente vedo concretizzarsi questo nuovo progetto a cui tenevo veramente tantissimo. Il Tortellino Tradizionale di Castelfranco Emilia è l’unico prodotto che non è tutelato da Consorzio ma è tutelato dalla nostra Comunità e si porta con sé tutti nostri valori di Comunità, compresa la solidarietà. Questo concetto è espresso nel brand della nostra Città: Castelfranco, l’Emilia Ripiena”. “L’obiettivo è quello di dare concretamente un sostegno in più a tante persone che stanno completando il loro percorso di reinserimento nella società dopo aver pagato per errori commessi in passato ed aver dimostrato, nei fatti, di essere pronte ad affrontare una nuova vita. Il più delle volte, forse banale dirlo ma è bene ricordarlo, per chi ha trascorsi detentivi non è semplice uscire e intraprendere un nuovo cammino. Ed è proprio questa la mission di questa struttura. E nostro dovere aiutarli in questo percorso che sia auspicabilmente il più virtuoso possibile. La definizione di “Carcere aperto”, che amo, ha come base proprio il senso e il significato di relazione interna ed esterna della struttura carceraria con il Territorio circostante dove questa struttura non è vista o sentita come un’inclusione ma che pian piano diventa parte (di fatto lo è!) della Comunità, con precise finalità educative e valoriali. Attraverso l’insegnamento di un lavoro, o di un’arte: sì, perché così va considerata la preparazione del Tortellino Tradizionale di Castelfranco Emilia. E per tutto questo, desidero esprimere la mia profonda gratitudine alla Dott.ssa Maria Martone per aver sposato l’idea ed essersi attivata fattivamente sin da subito, insieme ai vertici del Ministero della Giustizia, dando piena e convinta disponibilità alla fattibilità del progetto. Un grazie che condivido, con un forte abbraccio, anche con Sergina Caponcelli e Giovanni Degli Angeli e le rispettive Associazioni che hanno risposto con entusiasmo a questo nuovo appello. Ancora una volta - ha concluso il Primo Cittadino è importante ricordare quanto sia importante, per fare bene, farlo insieme alla propria Comunità”. Genova. La scialuppa di salvataggio per i figli dei carcerati Vita, 5 febbraio 2021 Per restituire quello che ha concretamente significato il progetto “La Barchetta Rossa e la Zebra”, l’iniziativa partita 3 anni fa, nel carcere maschile Marassi e nella casa Circondariale femminile Pontedecimo di Genova, partiamo dalle parole di una mamma: “Ho imparato a conoscere il mio compagno in galera. Grazie al supporto degli educatori abbiamo capito come affrontare i nostri problemi. Barchetta Rossa non mi ha abbandonato, non ha abbandonato lui che sta scontando la sua pena e ha supportato nostra figlia, una bambina di 3 anni”. Dopo la ristrutturazione degli spazi a misura di bambino, dove i figli possono attendere il momento del colloquio in un ambiente adatto alla loro esigenze, sono stati avviati momenti di formazione per i genitori detenuti, per gli assistenti sociali, e per la polizia penitenziaria per spiegare qual è la strada più idonea per entrare in relazione con i minori che vivono un momento delicato del loro percorso di crescita accentuato dall’assenza di uno o di entrambi i genitori. “La Barchetta Rossa e la Zebra” è il risultato di una sperimentazione straordinaria, corale e unica in Italia nata dalla relazione tra le associazioni territoriali genovesi del Terzo settore - il Cerchio delle Relazioni, capofila dell’iniziativa, la cooperativa sociale Il Biscione, Veneranda Compagnia di Misericordia, il Centro Medico psicologico pedagogico LiberaMente, Arci Genova e Ceis Genova con la Fondazione Francesca Rava Nph Italia Onlus, a cui è stata affidata l’opera di riqualificazione delle aree dedicate all’incontro dei bambini con i genitori detenuti nelle due case circondariali e il ruolo di project manager del progetto. Con il privato sociale hanno lavorato le istituzioni pubbliche, l’amministrazione penitenziaria locale e dell’esecuzione penale esterna e il comune di Genova. L’iniziativa è stata finanziata dal Bando Prima Infanzia (0-6 anni) dell’impresa sociale Con i Bambini. “Siamo in presenza di uno dei migliori progetti che abbiamo sostenuto”, ha spiegato Carlo Borgomeo, presidente dell’impresa sociale Con i Bambini, durante il webinar “Strade percorse e possibili sviluppi per un nuovo Metodo di intervento della genitorialità in carcere e della centralità del bambino”, organizzato lo scorso dicembre per restituire in un momento pubblico, con oltre 200 partecipanti, tra cui Luca Villa, presidente del Tribunale per i minorenni di Genova, Marco Bucci, sindaco della città, Maria Milano, direttore del carcere di Marassi e Domenico Arena, direttore dell’Uepe, i risultati raggiunti in tre anni di sperimentazione. “È un progetto innovativo”, ha spiegato Borgomeo, “e sono le iniziative di questo tipo che possono contaminare le politiche”. I bambini spesso vengono tenuti all’oscuro delle cose. “Gli si dice che il papà è lì perché sta lavorando”, spiega Elisabetta Corbucci, coordinatrice del Cerchio delle Relazioni, “e il progetto ha ridato ai genitori il potere di saper rispondere alle domande dei loro figli”. “L’obiettivo imprescindibile”, continua Maria Vittoria Rava, presidente di Fondazione Rava, “è quello di mutuare l’esperienza maturata a Genova anche in altre carceri italiane. I genitori devono poter essere genitori sia fuori sia dietro le sbarre. La figura dell’operatore “barchetta rossa” deve svilupparsi a livello nazionale e per farlo servono fondi e tutta la collaborazione possibile tra privato sociale, assistenti sociali, politica ed istituti penitenziari che devono avere un’apertura diversa”. “Il beneficio di un progetto come la Barchetta Rossa si riversa non solo su genitori e bambini ma su tutti gli stakeholder che lavorano in carcere e di conseguenza su tutta la comunità”, conclude la presidente di Fondazione Rava. Saluzzo (Cn). Matricole dietro le sbarre, Torino fa scuola di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 5 febbraio 2021 In un momento in cui la Pandemia preoccupa l’Amministrazione carceraria - i contagiati dietro le sbarre non diminuiscono e si attende che la campagna vaccinale dia priorità anche ai reclusi - non si fermano, sebbene con difficoltà, le attività formative nei penitenziari. Va in questa direzione l’accordo firmato martedì 26 gennaio scorso tra Università di Torino, penitenziario di Saluzzo e Ufficio locale Esecuzione penale esterna di Cuneo per l’avvio del progetto di Polo universitario distaccato da quello del carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino, il primo in Italia nato nel 1998, con il sostegno della Compagnia di San Paolo. Hanno firmato il documento, Stefano Geuna, rettore dell’Università di Torino e Giuseppina Piscioneri, direttrice della Casa di Reclusione “Rodolfo Morando” di Saluzzo che da due anni accoglie reclusi maschi in regime di Alta sicurezza, attualmente 375. Come ha evidenziato Franco Prina, docente di Sociologia della Devianza nell’Ateneo torinese, delegato del Rettore per il Polo Universitario per studenti detenuti a Torino e presidente della Conferenza nazionale delegati Poli Universitari penitenziari, “la convenzione intende favorire il diritto e l’accesso agli studi universitari dei detenuti ospitati nel carcere di Saluzzo, garantendo le migliori opportunità di svolgimento dei percorsi di studio anche potenziando la didattica a distanza con l’Ateneo e il Polo subalpino, assicurando condizioni di detenzione che li favoriscano e integrando i percorsi in un programma individualizzato di trattamento finalizzato alla funzione rieducativa della pena come prevede l’articolo 27 della nostra Costituzione”. Al momento i ristretti iscritti al Polo di Saluzzo sono 14 (Giurisprudenza, Comunicazione Itc e Scienze politiche). All’inizio del 2020 erano 31 gli Atenei che, sull’esempio di Torino, sono presenti in vario modo in 82 carceri italiane per un totale di 920 detenuti immatricolati di cui 38 donne. “Nonostante un anno molto faticoso, si è conclusa la lunga e articolata fase di inserimento dei nuovi studenti detenuti per l’Anno Accademico 2020-2021 che ha consentito di inserire nel Progetto ben 20 matricole”, ha proseguito Prina durante la presentazione a cui hanno preso parte anche Bruno Mellano, garante dei detenuti del Piemonte e Domenico Arena, direttore dell’Ufficio Esecuzione penale esterna Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta, “la situazione si presenta complessa: per la crescita di studenti in carico al ‘progetto Polo’, arrivati al numero, mai raggiunto in precedenza, di 60 studenti (di cui 11 stranieri), per la loro articolazione di afferenza a 11 corsi di laurea e per le varie collocazioni: 21 studenti nella ‘sezione Polo’ di Torino e 39 in altre sezioni, altre carceri o altre condizioni”. Tra i nodi da sciogliere, la possibilità di accedere allo studio alle donne recluse - al momento a Torino solo 4 in sintonia con il dato nazionale sia perché la popolazione carceraria femminile è molto inferiore a quella maschile sia perché le sezioni universitarie per ora sono riservate solo agli uomini. L’auspicio - ha sottolineato il Garante dei detenuti regionale Bruno Mellano - è che l’apertura del Polo di Saluzzo incentivi l’iscrizione di altri reclusi agli studi universitari e “spinga l’amministrazione carceraria al potenziamento degli spazi dedicati allo studio in carcere oltre che delle reti digitali pur in un contesto chiuso dove la garanzia della sicurezza è fondamentale”. Roma. La Fratellanza è una realtà a Rebibbia, nella chiesa del Padre Nostro di Andrea De Angelis vaticannews.va, 5 febbraio 2021 Il luogo di culto all’interno del carcere romano è una realtà di integrazione e fraternità, anche grazie alla sua denominazione, ideata da don Sandro Spriano, per anni cappellano dell’istituto penitenziario. “Quel nome indica che lì c’è un Padre per tutti i detenuti, di qualunque fede. Nessuno escluso”, afferma il sacerdote nella nostra intervista. Esistono luoghi sconosciuti ai più, eppure tanto preziosi. Strutture, edifici, talvolta piccoli, ma ricchi di luce. In grado di portare speranza, di generare incontri, di respirare quell’atmosfera di casa. A Rebibbia, proprio al centro del carcere, si trova la chiesa del Padre Nostro, il luogo di integrazione principale in un carcere che è diviso in quattro istituti penitenziari, a loro volta suddivisi in vari reparti per motivi di sicurezza o per tipologia di reato. Un nome, quello della chiesa, scelto non a caso. Per tutti i fratelli - Ogni giorno i detenuti musulmani, ortodossi, protestanti si ritrovano, insieme ai cattolici, in questo punto del penitenziario. Ciascuno si sente libero di pregare secondo la propria religione. La chiesa del Padre Nostro si chiama così proprio per una scelta di dialogo interreligioso, visto che all’interno del carcere non sono presenti altri luoghi di culto. Intitolarla ad un Santo o alla Vergine Maria avrebbe reso meno semplice il progetto di don Spriano: far sì che ciascuno si senta accolto, libero di pregare. Di sperare in un futuro migliore. Spirito di fratellanza - “Quando nel 1991 sono arrivato a Rebibbia, c’era la possibilità di celebrare nei reparti, in tutti i luoghi dove vivevano i detenuti. Però non c’era un luogo abitudinale in cui andare per una Messa più comunitaria, anche più dignitosa dal punto di vista dell’allocazione. Questa chiesa degli anni 70 non era mai stata usata, perché non era consentito ai detenuti uscire dai reparti per raggiungerla”. Inizia così il racconto a Vatican News di don Sandro Spriano, per 31 anni, e fino alla scorsa estate, cappellano di Rebibbia. “Abbiamo cominciato a fare gli incontri dei detenuti con i loro familiari nella piazza della chiesa, che si trova al centro di questo spazio e del carcere. Siamo riusciti a poterla usare - ricorda - iniziando a celebrare la domenica la Messa, reparto per reparto. L’idea era di far uscire i detenuti per andare in chiesa, proprio come fa ogni cristiano la domenica, quando esce di casa per andare nella sua parrocchia”. La scelta del nome - “Questa chiesa - prosegue don Spriano - non aveva un nome, così dopo aver ricostruito l’altare, consacrato dal cardinale vicario Ruini, abbiamo pensato di darle un nome. Erano circa cinque anni che mi trovavo a Rebibbia. Io cercai in tutti i modi di mettere in atto la mia idea, cioè di chiamarla ‘Chiesa del Padre Nostro’ e spiegai che l’intenzione era di far capire che lì c’era un Padre per tutti quei cittadini che vivevano in carcere, nessuno escluso. Per tutti quelli che pensavano a Dio, avevano una fede, fossero cristiani, musulmani o ebrei. Questo non importava”. Tantissimi i “grazie” - “Nel corso degli anni - racconta don Spriano - tantissimi hanno espresso il loro apprezzamento per questo luogo di culto. Si sentivano un po’ a casa, venire tutti in un luogo per pregare è importante. Quando celebravo, anche con 300 detenuti, nessuno fiatava e questa cosa mi emozionava, ero commosso. A volte faticavo a parlare, davanti a quegli uomini che ascoltavano la Parola e tante persone hanno fatto un vero cammino di fede”. “Quando nel 2015 venne Papa Francesco, lui ascoltò tutte le persone e mi meravigliai di come tutti gli chiedessero una preghiera, una benedizione. Per me - conclude - fu una cosa molto bella, in fondo, pensai, le persone non sono così materialiste come a volte si crede”. Sono numerose le occasioni in cui Francesco, nel corso del suo pontificato, si è recato in visita nelle carceri così come le volte in cui ha parlato dei detenuti. Ponti di speranza - Nell’udienza del 14 settembre 2019 ai cappellani delle carceri italiane, alla polizia e al personale dell’amministrazione penitenziaria, il Papa ha chiesto di diventare “costruttori di futuro”, di non spegnere la speranza dei detenuti, di essere “ponti” tra il carcere e la società civile. Quindi il suo forte invito a non scoraggiarsi, ma a far fronte alle difficoltà ed alle insufficienze: “Tra queste penso, in particolare, al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari, è un problema grande che accresce in tutti un senso di debolezza se non di sfinimento. Quando le forze diminuiscono - ha affermato in quell’occasione Francesco - la sfiducia aumenta. È essenziale garantire condizioni di vita decorose, altrimenti le carceri diventano polveriere di rabbia, anziché luoghi di recupero”. Di recente, poi, il Papa ha voluto ricordare le tante mamme in fila fuori dalle carceri per vedere il loro figlio detenuto. L’amore di Dio - Dio è come “un buon padre e una buona madre” che “non smettono mai di amare il loro figlio, per quanto possa sbagliare”. È l’immagine che Papa Francesco ha usato nella catechesi dell’udienza generale di mercoledì 2 dicembre 2020, per far capire il senso profondo della benedizione, connessa strettamente alla speranza e all’amore di Dio per ciascuno, anche per gli “irrecuperabili”. Per tutti. Dio, infatti, ha rimarcato il Papa, “non ha aspettato che ci convertissimo per cominciare ad amarci, ma lo ha fatto molto prima, quando eravamo ancora nel peccato”. Francesco ha ricordato quando, tante volte, ha visto la gente che faceva la fila per entrare in carcere: tante mamme in coda per vedere il proprio figlio detenuto. “Non smettono di amare il figlio e non si vergognano se magari sul bus qualcuno le possa indicare come madri di un carcerato. Forse provano anche vergogna, ma vanno avanti. Per loro è più importante il figlio della vergogna, così noi per Dio siamo più importanti noi che tutti i peccati che noi possiamo fare. Perché Lui è padre, è madre, è amore puro, Lui ci ha benedetto per sempre. E non smetterà mai di benedirci”. Trento. I detenuti di pregano per noi con “Scintille” vitatrentina.it, 5 febbraio 2021 È maturata nel tempo all’interno dell’equipe pastorale che opera nel carcere di Trento e viene lanciata in questi giorni una proposta già apprezzata dai detenuti e dagli operatori in via sperimentale. È denominata “Scintille di preghiera” e si basa su un rovesciamento di prospettiva rispetto alla consueta “attenzione verso il carcere”. “La novità di questa proposta - spiega un semplice depliant di presentazione - sta nel fatto che è dall’esterno del carcere che le richieste di preghiera vengono affidate a chi vive e lavora all’interno dell’istituto penitenziario”. Alcuni detenuti e anche alcuni operatori, singolarmente, si sono presi l’impegno di dedicare un tempo personale di preghiera (anche attraverso l’utilizzo di un piccolo rosario di legno, acquistabile per loro presso la Libreria Ancora) in favore della situazione affidata. È il cappellano del carcere che durante la Messa comunica le intenzioni di preghiera (possono essere per una persona, un gruppo, una situazione…) che settimanalmente possono così salire verso il cielo. “Già da qualche mese ho trovato all’interno del carcere molte disponibilità a tener fede a quest’impegno - spiega don Mauro Angeli, il cappellano che insieme ai volontari ha messo a punto la proposta ora sostenuta da tutta la Diocesi - che consente anche a chi si trova in una situazione di ristrettezza di fare un’azione a servizio di altri, invocando per loro l’aiuto del Signore”. Per sostenere l’iniziativa nella fase di coordinamento c’è stata anche la disponibilità della Piccola Fraternità di Gesù di Pian del Levro, sopra Trambileno, che attraverso due volontarie raccoglie le richieste di intenzioni personali (anche via mail) e le fa arrivare in carcere per essere consegnate a detenuti e operatori carcerari. “È interessante anche questa vivace relazione spirituale fra l’eremo, dove si vive la vita monastica, e la casa circondariale da dove pure possono salire al cielo le intenzioni di preghiera”, sottolinea don Mauro che evidenza come quest’iniziativa possa anche modificare la percezione del carcere: non solo luogo di ombre, ma anche ambiente in cui si genera vita - tra detenuti, operatori, volontari, personale sanitario e direzione - dalla quale possono anche scaturire scintille di luce, attraverso la disponibilità di chi compie puntualmente il proprio lavoro o di chi accetta la detenzione nella convivenza anche fra differenti lingue e culture. Ecco, quindi, l’indirizzo mail a cui rivolgere le richieste di preghiera che saranno “girate” poi a chi vive a Spini di Gardolo: scintille@diocesitn.it oppure, anche per informazioni, tel. 0461.865015. La disumanità non è mai la soluzione di Elena Loewenthal La Stampa, 5 febbraio 2021 Prima hanno proibito loro l’elemosina. Poi stavano per portare via i loro cani: se ne stavano accucciati con santa pazienza, tutto il giorno, con quegli occhi sgranati e spersi. Infine, ieri hanno fatto sloggiare pure loro: i barboni disseminati per il centro di Torino, allungati contro le serrande chiuse, fra una vetrina e l’altra. Là dove di giorno ma soprattutto di notte fa un po’ meno freddo perché i portici o un davanzale offrono un modesto riparo. I vigili hanno cacciato i clochard dalle loro postazioni, ordinando di portare via le masserizie e buttarle nei cassonetti della spazzatura adibiti all’uopo. Anche le coperte, hanno dovuto abbandonare. Le coperte: vaghe reminiscenze di calore e casa, qualcosa che deve suonare assai prezioso, dentro vite come quelle. È vero che si sceglie di vivere per strada non sempre per povertà estrema, perché si è reietti in tutto e per tutto, perché non si ha né si è niente. È vero che talora è una scelta consapevole, per quanto bislacca. È vero che queste vite saltano prepotentemente all’occhio mentre ci sono altre forme di emarginazione e difficoltà magari più pesanti ma meno vistose, e che proprio nel centro, fra vetrine di lusso e struscio gonfio di sacchetti dello shopping (seppure in questo periodo così magro e difficile per tutti), i barboni sotto i portici marmorei e lucidi esprimono con la loro presenza un contrasto quasi intollerabile. In altre parole, è vero che ogni barbone è una storia a sé e forse dovremmo imparare ad ascoltarle, una per una, per scoprire che sono tutte diverse e non se ne può proprio fare un unico fascio. Ma la scena di ieri li riguarda tutti, ciascuno con la propria storia, ed è una scena che disturba, che lascia negli occhi e giù, in fondo alla pancia, un senso prepotente di amarezza. Possibile che non ci fosse un’altra soluzione, per ripristinare il “decoro” del centro? Possibile che si dovesse farli alzare, piegare i cartoni, raccogliere le stoviglie usa e getta usate chissà quante volte, i sacchetti di plastica pieni di chissà cosa, e buttare tutta quella materia di vita, insieme alle coperte? Se la presenza dei senza tetto in centro costituisce (costituiva?) sicuramente un problema da affrontare, c’era proprio bisogno di farlo così, spazzando via tutto come se non ci fosse mai stato niente? Difficile pensare che questa “pulizia” sia la soluzione. Non lo è perché non è una soluzione bensì una rimozione, in senso tanto materiale quanto etico (anzi, niente affatto etico). E rimuovere un problema è proprio il contrario del risolverlo. Senza contare la plateale disumanità del gesto in sé: nessuna vita merita un trattamento del genere, neanche se è la vita che si è scelto di condurre. E tanto più se fuori fa freddo e tocca pure abbandonare così nella spazzatura anche la coperta. C’è davvero tanto di inquietante e disturbante in questa “operazione muscolare” fatta per ripulire il centro dai barboni e dalle loro cose. Dovrà pur esistere un modo migliore per farlo, nel rispetto di principi cui non si dovrebbe mai rinunciare, men che meno far fare la fine di una coperta buttata in un cassonetto. Minori e social, l’unica arma oggi è il dialogo di Martina Pennisi Corriere della Sera, 5 febbraio 2021 Dal confronto fra TikTok e il Garante italiano per la privacy siamo usciti con la consapevolezza disarmante che una soluzione immediata non c’è. Tanto tuonò, ma caddero poche (pochissime) gocce. Quasi niente. Dal confronto fra TikTok, applicazione di intrattenimento video del colosso cinese ByteDance, e il Garante italiano per la privacy siamo usciti con la consapevolezza disarmante che una soluzione immediata, ma anche a breve termine, al problema della presenza dei minori sui social network non c’è, o quantomeno non verrà applicata. Il Garante ha sollevato la questione in dicembre, e a fine gennaio ha ordinato a TikTok di smettere di trattare di dati degli utenti di cui non ha certezza dell’età anagrafica. Risposta dell’app, usata in Italia da più di nove milioni di persone: la data di nascita verrà chiesta di nuovo, dal 9 febbraio. Ma chiunque potrà mentire, compresi quegli under 13 che non dovrebbero potersi iscrivere, ma lo fanno lo stesso. Le piattaforme ne sono consapevoli - gli Stati Uniti le hanno già multate per questo: 5,7 milioni di dollari TikTok e 170 milioni YouTube - e come spesso accade nei tira e molla con istituzioni, opinione pubblica o altre aziende cercano e adottano soluzioni in modo progressivo (pensate al copyright e alla rapidità con cui, adesso, vengono rimossi i video che violano i diritti). Per ora, su TikTok, Facebook e Instagram gli utenti possono segnalare chi sembra avere meno di 13 anni, mentre YouTube fa delle verifiche ad hoc per determinati contenuti. In Italia c’è chi, come il tecnologo Stefano Quintarelli, ha proposto di sfruttare l’identità digitale Spid per accertare l’età degli utenti. Al Garante TikTok ha promesso che valuterà la possibilità di usare l’intelligenza artificiale (e i dati in suo possesso, quindi): se questa è una strada, va esplorata in tempi rapidi, nel rispetto della privacy. Dall’altra parte dello schermo ci siamo noi, i nostri figli, fratelli minori, nipoti, studenti: consapevolezza, alfabetizzazione, formazione e dialogo al momento sono le vere, uniche, armi che abbiamo Stati Uniti. Covid: carcere San Quintino viola norme sicurezza, maxi multa ansa.it, 5 febbraio 2021 Finora ha registrato 2.151 casi di contagio e 28 decessi. Il carcere californiano di San Quintino, che finora ha registrato 2.151 casi di coronavirus e 28 decessi provocati dalla malattia, è stato multato per oltre 400mila dollari (circa 335mila euro) per violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Lo riporta la Cnn. Il dipartimento statale delle Relazioni industriali ha imputato al penitenziario una quindicina di violazioni, per una multa complessiva di 421mila dollari (oltre 351mila euro), una delle più alte finora imposte dalla California per violazioni legate al Covid-19. Il carcere, che ospita circa 3.260 persone, era stato duramente colpito dal coronavirus l’anno scorso, quando 2.200 tra detenuti e agenti erano risultati positivi nei mesi di luglio e agosto e 25 persone erano decedute. Ma l’emergenza nel penitenziario non è finita: secondo i dati ufficiali nelle ultime due settimane oltre il 40% dei detenuti è risultati positivi al tampone. Russia. “Pestati e incappucciati”: le denunce dalle prigioni sovraffollate di Mosca di Rosalba Castelletti La Repubblica, 5 febbraio 2021 Serghej Smirnov, il direttore di Mediazona, (al centro appoggiato sulla barra di un letto a castello) in una cella del centro Sakharovo. Fonte: Telegram “Protest Msu”. Oltre 10mila fermi in due settimane di proteste per Aleksej Navalnyj. Nella capitale oltre 6mila, circa 1.200 nella sola giornata di martedì. Anche il giornalista Smirnov stipato in una cella per otto con una trentina di uomini. “Guardate che schifo”, esclama Maria Silantieva mentre con la videocamera del cellulare inquadra una latrina alla turca nell’angolo di una cella con quattro letti a castello di nudo metallo dove però sono stipate una ventina di detenute. “Non ci sono materassi, non c’è niente, siamo in queste condizioni da un giorno e mezzo”, continua nel video pubblicato su Instagram, accompagnato dall’appello: “Chiedo la massima copertura. Non dovrebbe andare così”. È soltanto una delle tante testimonianze che stanno inondando i social russi da quando nelle ultime due settimane oltre 10mila persone sono state fermate in tutto il Paese in seguito alle proteste per chiedere il rilascio di Aleksej Navalnyj. A Mosca gli arresti sono stati oltre 6mila, circa 1.200 nella sola giornata di martedì 2 febbraio dopo la condanna a tre anni e mezzo per l’oppositore, spiega a Repubblica Konstantin Fomin, portavoce di Ovd-info, la ong che tiene il conto degli arresti. I centri di detenzione straripano. E così i dimostranti fermati durante le manifestazioni spesso vengono abbandonati per ore nei corridoi dei dipartimenti di polizia o a bordo degli avtozak, i cellulari delle forze dell’ordine, a temperature sotto lo zero, senza ricevere cibo né acqua o senza poter andare in bagno. Il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha ammesso il sovraffollamento, ma ha dato la colpa ai dimostranti. “Questa situazione non è stata provocata dalle forze dell’ordine, è stata provocata dalla partecipazione a manifestazioni non autorizzate”. Il tema sarà al centro dei colloqui di oggi a Mosca tra l’Altro Rappresentante Ue Joseph Borrell e il ministro degli Esteri russo Serghej Lavrov: “Le nostre relazioni si sono deteriorate negli ultimi dieci anni. Oggi ci percepiamo come rivali piuttosto che come partner”, ha detto in un’intervista a Interfax il diplomatico spagnolo, che spera d’incontrare Navalnyj. Il filmato di Silantieva arriva da Sakharovo, un centro per migranti a 66 chilometri da Mosca trasformato in un carcere speciale per politicheskij, detenuti politici. Anche il giornalista Serghej Smirnov, il direttore di MediaZona, si trova qui e sta vivendo in prima persona gli abusi del sistema giudiziario e carcerario che è solito denunciare sul sito indipendente fondato dalle Pussy Riot. Fermato sabato scorso davanti al figlio di cinque anni, martedì è stato condannato a 25 giorni di carcere per aver ritwittato una battuta su se stesso. Prima di essere stato trasferito in una cella “normale”, è finito con un’altra trentina di uomini in una stanzetta per otto. In uno scatto diffuso dal suo compagno di cella, Dmitrij Ivanov, autore del popolare canale Telegram Protest Msu, si vedono due o tre uomini sdraiati per brandina, senza materassi, mentre altri otto cercano di dormire seduti su una panca con la testa appoggiata su un tavolo al centro del locale. “Non è doloroso o spaventoso, ma è lungo e noioso”, commenta Ivanov. “L’atmosfera è quella di un deprimente sanatorio di periferia, solo che ci sono le sbarre alle finestre”. Ma c’è anche chi ha denunciato violenze da parte delle forze di polizia. “Il 31 gennaio sono capitato con altra gente nell’accerchiamento creato dagli Omon. Mi hanno visto, mi sono spaventato e mi sono messo a correre, ma sono scivolato. E in due hanno cominciato a manganellarmi e a darmi calci. Io non ho opposto resistenza, ma hanno continuato a picchiarmi fino a che la parte sinistra del mio corpo non si muoveva più”, narra a Repubblica Nikita Jancikov, studente universitario di 22 anni. “Mi hanno trascinato su un cellulare che ha fatto diversi giri per Mosca come se aspettassero di sapere dove potevano portarci. Alla stazione di polizia mi hanno obbligato a firmare un verbale puramente inventato senza la presenza del mio avvocato. Ora attendo il processo”. Anche Mikhail Berdnikov, 19 anni, commesso, è stato fermato domenica scorsa. “Gli Omon mi hanno dato un calcio alla schiena, sono caduto a terra e allora mi hanno colpito alla testa”, ci racconta. “Poi mi hanno spinto su un cellulare, storcendomi le braccia e dandomi un altro colpo alla testa”. Anche nei dipartimenti di polizia ci sono stati episodi di intimidazioni e uso spropositato della forza. L’attivista 21enne Aljona Kitaeva ha denunciato di essere stata incappucciata con una busta di plastica, spinta giù da una sedia e minacciata con una pistola taser solo perché si rifiutava di rivelare la password del suo cellulare. In cella è finita anche gente arrestata per caso che non si era mai interessata alla politica e ora invece ha compreso le ragioni della protesta. “Avevo la sensazione che il nostro Paese non fosse il più giusto. Ma ora l’ho visto, sperimentato e compreso in prima persona”, ha confessato Ignat fermato il 23 gennaio e detenuto a Sakharovo per una settimana. Intanto davanti all’ex centro migranti si allungano le code dei familiari dei detenuti. Portano buste ricolme di cibo, biancheria, prodotti per l’igiene. Come Jurij, padre di uno studente arrestato il 31 gennaio. “Come si fa a non appoggiare il suo desiderio di libertà?”, ha detto a Bbc Russia. “Certo mi dispiace che gli sia capitato questo, ma spero che la Russia sarà presto libera”. Egitto. Liberato giornalista di Al Jazeera dopo 4 anni di carcere ansa.it, 5 febbraio 2021 Era sospettato di aver “diffuso informazioni false”. L’Egitto ha rimesso in libertà dopo 4 anni il giornalista di Al-Jazeera, Mahmoud Hussein, trattenuto fin dal dicembre 2016 perché sospettato di aver “diffuso informazioni false”. Un’accusa simile a quella che è stata rivolta a Patrick Zaki, studente e attivista egiziano, in Italia per seguire un master all’Università di Bologna, arrestato nel febbraio del 2020. Il giornalista egiziano è stato rilasciato giovedì sera, ha detto una fonte interna alla sicurezza all’agenzia Afp. L’emittente televisiva qatariana aveva ripetutamente chiesto la sua liberazione sostenendo che fosse stato arrestato e detenuto senza accuse formali, senza processo e senza aver ricevuto una condanna. Yemen. Le avvocate in lotta: “Basta caccia alle streghe” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 5 febbraio 2021 Detenzioni illegali, sparizioni, confessioni di immoralità estorte: il nuovo medioevo delle milizie Houti si abbatte sulle yemenite. Solo pochi giorni fa il governo italiano ha deciso di revocare le autorizzazioni all’export di armamenti (bombe e missili) ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Un effetto della campagna per impedire che le armi italiane contribuiscano al massacro di civili provocato dal conflitto in Yemen. Arabia Saudita e EAU infatti guidano la coalizione militare che combatte i ribelli sciiti, Houti, sostenuti dall’Iran. Quelle italiane naturalmente non sono le uniche armi impiegate, sono molti i paesi che esportano macchine di morte in una guerra scoppiata nel marzo del 2015 e tuttora in corso con violenti combattimenti. Eppure quella odierna è una situazione figlia in qualche modo degli sconvolgimenti del 2011 quando lo Yemen, uno dei paesi più poveri dell’area della penisola arabica, venne investito dall’ondata delle cosiddette primavere arabe. Come in altri paesi il risultato politico sarebbe stato diverso dalle speranze iniziali. Uno ad uno caddero regimi e autocrati al potere da decenni ma il vuoto seguente è stato spesso un baratro riempito da uomini altrettanto autoritari. Dieci anni fa le strade di Sanà, Taiz o Aden furono percorse da migliaia di persone soprattutto provenienti dai quartieri popolari, ma le proteste partirono anche da ambienti universitari e della società civile. Al centro delle manifestazioni le richieste di un abbassamento dei prezzi del cibo fino alle dimissioni del presidente Saleh al potere da 33 anni. Quest’ultimo venne ferito da una bomba lanciata contro il palazzo presidenziale, riparato in Arabia Saudita tornò dopo due mesi designando come suo successore Abdrabbuh Mansour Hadi che divenne presidente nel 2012. Al di là del cambio istituzionale quella dello Yemen, almeno in quella prima fase, fu una vera rivoluzione sociale e culturale. Molte volte infatti in prima fila dei cortei c’erano le donne che per la prima volta presero in mano il loro destino e quello del paese. In particolar modo alcune di esse erano e sono avvocate e nello stesso tempo attiviste per i diritti umani. Le loro storie raccontano non solo il passato ma anche il futuro dello Yemen. È il caso di Ishraq al- Maqtari, la legale che fu tra le prime donne a scendere in piazza. Recentemente è stata intervistata dalla BBC è ha ricordato la scelta di impegnare se stessa nella lotta di quel periodo, non solo per se stessa ma anche per i suoi figli che non di rado portò con lei alle manifestazioni. Una decisione difficile e pericolosa. Basti pensare all’episodio nel quale la Guardia Repubblicana fede a Saleh aprì il fuoco contro le donne che pregavano in un presidio di protesta a Taiz diventando un obiettivo della repressione. La rivoluzione dunque fu l’occasione per le donne di partecipare al dibattito pubblico, un cambiamento che però è stato fin dall’inizio combattuto dalla società patriarcale ben lungi dall’essere superata. La situazione poi è peggiorata ancora di più quando il 21 settembre 2014, gli Houhti hanno inflitto pesanti perdite alle forze fedeli ad Hadi e sono penetrate fin dentro i quartieri centrali di Sana’a. Così la capitale dello Yemen di fatto appare adesso controllata dai seguaci degli Houthi. Lo spazio per avvocate come Ishraq al-Maqtari, nel frattempo divenuta membro della Commissione nazionale per indagare sulle presunte violazioni dei diritti umani, si è ulteriormente ridotto. Uno degli esempi più lampanti è stata la sua denuncia contro la campagna di arresti nei confronti del “lavoro sessuale”. Decine di donne sono finite in carcere con l’accusa di prostituzione sebbene una tradizione conservatrice non veda di buon occhio la detenzione femminile. Per al-Maqtari però dietro la persecuzione della prostituzione si nascondono arresti politici, un modo per colpire una società che si schiera contro quella che vede come un’occupazione. I dati, sebbene non aggiornati, parlano di almeno 182 donne incarcerate (oltre a quelle detenute a Sanaa, secondo Maqtari ce ne erano settanta imprigionate nell’Amran dello Yemen settentrionale e 12 nella città di Hodeidah sul Mar Rosso), principalmente per esercitare una pressione sulle famiglie. L’avvocata al-Maqtari ha riferito anche che diverse ragazze sono state sequestrate mentre uscivano da scuola o prestavano soccorsi alle persone colpite dai bombardamenti. La campagna di detenzione si è intensificata a partire dal dicembre 2018, prendendo di mira le donne tra i 16 e i 74 anni. Ishraq al Maqtari ha così raccolto le testimonianze di altri avvocati i quali, molti in forma anonima, hanno rivelato che sotto le minacce degli Houthi, le donne sono state costrette ad ammettere, sotto minaccia di tortura, di aver esrecitato “lavoro sessuale” anche se ciò non corrispondeva alla verità. Inoltre alle accusate spesso non è stato consentito di avvalersi di un legale difensore. Incarcerazioni illegali e sparizioni forzate dunque, una situazione che viene costantemente denunciata anche dall’avvocata Radhya al- Mutawakel che insieme al marito, ha fondato nel 2014 l’organizzazione “Mwatana” per documentare le violazioni dei diritti umani in Yemen. Per la sua attività è stata costretta lasciare il suo paese per rifugiarsi negli Stati Uniti, dopo essere finita in carcere in due occasioni, ma è stata anche la prima civile yemenita ad intervenire al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. A luglio dello scorso anno un rapporto di “Mwatana” titolato ‘In the Darkness: Abusive Detention, Disappearance and Torture in Yemen’s Unofficial Prisons’, basato su 2.566 interviste, ha fatto luce su almeno 1.600 casi di detenzioni arbitrarie e sulle torture compiute nelle prigioni segrete appartenenti a ambedue le parti in conflitto. Nel rapporto di 87 pagine si parla infatti di almeno undici centri di detenzione non ufficiali dove gli abusi sui detenuti sono una pratica quotidiana fin dal 2016. L’organizzazione per i diritti umani ha rivelato come le famiglie non abbiano saputo più nulla circa la sorte dei loro parenti detenuti. In particolare gli Houthi gestirebbero carceri illegali nel quartier generale dei servizi segreti e a Taiz in edifici residenziali, mentre le forze armate degli Emirati Arabi Uniti avrebbero costruito campi di prigionia nella provincia di Aden e il governo in quella di Ma’rib. Naturalmente il lavoro più grande e difficile di Radhya al- Mutawakel è quello di riuscire a contribuire alla pace per lo Yemen. Un’impresa ardua ma che nonostante le difficoltà potrebbe essere a portata di mano. Secondo l’avvocata infatti le parti in conflitto sono ambedue deboli e screditate anche se il sostegno alla Comunità internazionale non è univoco. In questo senso la fine dell’export di armamenti rappresenta un punto fondamentale.