L’anatocismo della sofferenza di Enrico Sbriglia* oralegalenews.it, 4 febbraio 2021 La sciagura della pandemia poteva tradursi in una utile occasione per un cambio di strategia nel mondo delle carceri, dando finalmente voce ad una legittima pretesa di cambiamento che da tempo rimbalza, prigioniera, nei dibattiti e nei circoli di quanti sono sensibili ai temi dell’esecuzione penale tout court. Se un metodo di lavoro, ancorché discenda da un sistema di norme che progressivamente si sono allontanate da quei must che la Costituzione imporrebbe, risultandone certificato il fallimento, addirittura accrescono il problema sociale che si vorrebbe affrontare e risolvere, buon senso e spirito di servizio di quanti sono investiti di pubbliche funzioni esigerebbero un cambio radicale di strategia e non, invece, il suo ostinato ripetersi. Se le carceri italiane sono dirette, al massimo livello decisionale, da magistrati e se le stesse continuano ad essere foro esclusivo del ministero della Giustizia, realizzando una curiosa diseconomia circolare, per cui chi fa le indagini, o le indirizza, è espressione dello stesso ordine di chi giudica e, poi, il manufatto di quest’ultimo è gestito da altra icona della medesima famiglia, il risultato finale rischierà di essere quello, desolante, esposto ai nostri occhi ed alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Cioè di luoghi di pena, nel senso letterale del termine, che non si limitano ad essere il posto fisico in cui sono eseguite le sanzioni detentive, ma l’ulteriore occasione per ribadire l’antica accezione di vendetta pubblica, con l’aggiunta di un interesse che non è calcolato alla francese, che non è a scalare, ma che si aggiunge alla prima in una sorta di anatocismo della sofferenza. Una sofferenza che non riguarderà soltanto il detenuto ma, attraverso quest’ultimo, con un gioco di sponde, si indirizzerà verso una pluralità di soggetti, talvolta prevedibili (mogli, mariti, figli, genitori, compagni di vita, etc.), tal altre indistinti, e che possono comprendere la stessa comunità sociale e le sue molteplici espressioni, e quanti, a qualunque titolo, abbiano una visione propositiva della persona, perché intesa quest’ultima come valore aggiunto, come capitale umano da mettere sempre a frutto, in specie se si intenda impegnarlo nel dovere di restituzione e ripetizione verso la società. Si, con un baratto di risultato, il quale potrà avere ricadute socio-economiche significative, allo scopo di bilanciare in utilità fruibili quanto causato con la commissione del reato. La pandemia avrebbe dovuto, ragionevolmente, indurre il governo a decretare lo stato di emergenza delle carceri italiane, nonché sottrarne finalmente la gestione, onde evitare l’aggravamento della situazione, al ministero della Giustizia, prevedendone la naturale migrazione verso altro dicastero, sensibile alle problematiche sociali ed al welfare. Se poi, in un soprassalto di sensibilità giuridica, non si fosse individuato un apposito ministero, sempre commissariandone il vertice, per quanto impersonato, di regola, da ottime persone, si sarebbe potuto decidere di costituire, acquisendo tutta la disorientata organizzazione amministrativa attuale, un apposito dipartimento presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, con la delega ad hoc ad un sottosegretario all’uopo incaricato, talché se ne agevolasse l’interlocuzione diretta col vertice del Governo e tutti gli altri dicasteri, i quali potevano e dovevano collaborare con esso nella gestione di un sistema per sua natura complesso, articolato, mutevole anche nel tempo, perché impattante, senza filtri, con questioni e tematiche dimenticate e/o spesso figlie dei tempi (flussi immigratori, tossicodipendenza, malattia mentale, terrorismo religioso e laico, bullismo, disagio sociale, oggi aggravato a causa della crisi economica che sta espungendo intere famiglie professionali, di lavoratori dipendenti ed autonomi, nonché di imprenditori, impreparate a tali criticità, che si aggiungono a quelle tradizionali, maggioritarie in tante aree del Paese, etc.), le quali, se affrontate esclusivamente in chiave securitaria, inevitabilmente ingrossano il mondo delle carceri. Inalterato, d’altronde, sarebbe stato il potere giudiziario nell’esercizio del controllo, però dall’esterno, senza che ne rimanesse coinvolto nella gestione, finora tragica, e che ne affievolisce di fatto l’autonomia e l’indipendenza, minando alla radice il valore della c.d. “terzietà”. È davvero difficile convincersi che la magistratura agisca e reagisca verso sé stessa, rimanendo algida ed imparziale, mentre è umano temere come essa possa rimanerne stritolata (i malvagi suggeriscono blindata), in quel contesto trino che vede insieme chi accusi, chi giudichi e di chi esegua. In natura, ove si volesse cercare un corrispondente, dovremmo pensare al folpo o polpo che dir si voglia, il quale è un animale che dispone proprio di tre cuori, con la caratteristica, inoltre, di poter contare sulle proprie otto o sette ranfe, le quali si muovono verso tutte le direzioni, pur facendo riferimento ad un unico organismo. Non a caso l’ho richiamato, l’octopus, essere marino da non sottovalutare, dotato di gran capacità di mobilità e di mimetizzazione, nonché astuto invasore di spazi e sottrattore di prede all’altra fauna marina. Il polpo che ha, tra le sue caratteristiche, oltre che una innata aggressività, anche la capacità, in situazioni di pericolo, di schizzare il suo inchiostro per offuscare la visione di chi voglia minacciarlo, al fine di darsi alla fuga, è oggetto da tempo di un continuo studio da parte degli scienziati. Con i suoi sette o otto tentacoli, capaci ognuno, ed indipendentemente dagli altri, di formare migliaia di movimenti, riducendosi, allungandosi, ingrossandosi, stringendo, allentando, strozzando, accarezzando la presa, costituita dagli esseri marini che abbiano la ventura di imbattersi in esso, nonché capace di intrufolarsi in ogni anfratto, in ogni foro, in ogni contesto dove possa curare i suoi interessi di crescita e di alimentazione, può essere un originale paragone della realtà che cerco di rappresentare. Non esiste, buon per noi, un Consiglio Superiore degli octopus, presieduto da Nettuno, che regolamenti la carriera dei polpi e ne stabilisca le gerarchie e l’allocazione nel vasto mare e nelle sue profondità, né vi sono gabinetti e segreterie ministeriali che abbisognino degli stessi, né si registrano forme di cooptazione. Nettuno non l’ha consentito, ci sarà pure una ragione!? No, prego i lettori di non considerare tali metafore quali derivate da revanche o invidie professionali, semmai anche perché si è iscritti, in gran segreto, nelle formazioni della resistenza anti-magistratura, perché percepita quest’ultima non più come una risorsa democratica del Paese e dispensatrice di giustezza, ma come una delle tante concause della crisi dello stesso. No, perché nella mia lunga vita professionale ho avuto la fortuna di conoscere, per davvero, delle numerose e autorevoli figure di magistrati inquirenti e giudicanti, con alcune delle quali mi uniscono anche rapporti di personale amicizia, ma per questi il vero must era esclusivamente quello di svolgere la funzione di magistrati, soltanto di magistrati, esclusivamente di magistrati. Uomini e donne col tocco, che continuano a vivere la propria professione come una missione laica, pur con tutto il rispetto che si debba a quanti dedichino la propria vita alla parola di un Dio. Però, nel contempo, non ho il ricordo di uno, ripeto di un solo magistrato, che, posto ai vertici dell’amministrazione penitenziaria, abbia dato, nell’ultimo quarto di secolo, un vero slancio, una vera svolta al cambiamento costantemente invocato da tutti (fatta esclusione, ancor prima, dell’indimenticabile Nicolò Amato). Cioè di un capo dipartimento che abbia portato effettivi risultati, visibili sul piano organizzativo e funzionale, con gli evidenti riflessi socio-economici e di buona amministrazione che era d’attendersi in quella che va considerata una delle più grandi aziende sociali pubbliche, invertendo un trend risultato sempre fallimentare, ripetitivo, fagocitario di risorse, incapace di motivare personale verso il meglio, anzi, verso il minimo buono. Insomma, non ricordo nessun Marchionne o Draghi delle carceri! Quella dell’amministrazione penitenziaria è divenuta, invece, una sorta di black hole, soprattutto in materia sanitaria; diceva Platone che la pena è la cura dell’anima, ma qui ci è andato proprio di brutto. Pertanto il Governo, come ha mostrato di impegnarsi nella risoluzione degli antichi e nuovi problemi della sanità calabrese, pervenendo alla designazione di un commissario, con poteri straordinari, così avrebbe dovuto agire pure nei confronti del pianeta delle carceri, individuando un vero manager il quale, insieme ad una squadra di esperti, primi tra tutti i direttori penitenziari ancora in servizio, al fine di non disperderne l’esperienza storicizzata e chiederne conto, arrivando anche a congelarne il pensionamento per evidenti ragioni di pubblico interesse (non dimentichiamo, infatti, che, a motivo dell’equiparazione dei dirigenti penitenziari di diritto pubblico alle forze di polizia, essi possono andare in quiescenza a 65 anni di età, ove abbiano maturato la prevista anzianità previdenziale, rispetto a quella comune di 67 anni), avrebbe dovuto affrontare l’antica emergenza e quella aggiuntiva del Covid-19. Inoltre, si sarebbe dovuto, in virtù dell’acclarata situazione emergenziale, anche stoppare ogni decontestualizzato procedimento di mobilità di sede dei dirigenti-direttori penitenziari, che pure durante la pandemia, continuano a migrare confusamente da una sede all’altra, essendo necessario che rimanessero vincolati saldamente al loro posto, per arginare più efficacemente la gravissima situazione presentatasi. Tra l’altro, spesso dirigono contestualmente, a distanza anche di centinaia di chilometri e in regioni diverse, più istituti penitenziari, sic! È come, per fare un esempio, se nel pieno di una battaglia navale, l’ammiraglio supremo, ovviamente ricoverato sulla terraferma, disponesse l’avvicendamento dei diversi Comandanti impegnati nel conflitto, i quali conoscano perfettamente le proprie vecchie navi, i fondali e le correnti marine che le circondano, che hanno dimestichezza con gli equipaggi e le attitudine di ogni marinaio, con altri parigrado, i quali, però, nulla sanno di quei navigli, posto che quegli scafi (rectius carceri) sono di regola ognuno diverso dagli altri, anche ove siano ubicati all’interno dello stesso tratto di mare (regioni), annoverando, per rendere le cose ancora più complicate, scafi relativamente recenti con altri che si potrebbero definire se non museali, quantomeno storici, e ai quali va aggiunta la singolare circostanza che gli equipaggi sono sempre approssimativi nel numero e mutevoli, mai corrispondenti agli organigrammi di ruoli e competenze previste, il che ha imposto nel tempo degli adattamenti anche organizzativi di non poco conto, con curiosissime dislocazioni ed adattamenti delle professionalità: ma se su quelle navi l’ammiraglio supremo, quello con la feluca più imponente, non è mai stato a bordo, non potrà mai comprenderlo! Praticamente nelle carceri e negli uffici dove v’è stato l’avvicendamento, nel bel mezzo della crisi, si è consumata ogni resilienza, invece di incrementarla quale unica risorsa ancora disponibile, determinando disorientamento negli staff del personale tutto e nei reparti di polizia penitenziaria, nonché ulteriori situazioni di criticità di natura emergenziale, insomma fuoco su fuoco! La mancanza di senso pratico e di tempismo, oltre che di concreta specifica competenza amministrativa, che non si crea con mere nomine politiche, o precipitando da un altro mondo, come quello giudiziario, sono stati i migliori alleati della crisi. Inoltre, con la proclamazione dello stato di emergenza delle carceri, si sarebbe anche dovuto procedere ad una urgentissima assunzione straordinaria di direttori penitenziari, aperta non soltanto al personale interno, ma, profittando della crisi, pure agli ordini e albi professionali, dell’avvocatura, dei criminologi e sociologi, e perfino rivolgersi a quanti altri fossero dirigenti di comunità o di organizzazioni non governative, purché queste ultime già impegnate nelle questioni e tematiche sociali e penitenziarie. Così come si sarebbero dovute rimpinguare, sempre con procedure straordinarie d’ingaggio, tutte le altre categorie professionali necessarie alla funzione penitenziaria, altra cosa rispetto a quella giudiziaria, da inserire in ogni istituto, nonché pescare nelle nuove professioni, soprattutto nel campo delle tecnologie informatiche, della robotica, della dronica, onde favorire, con la necessaria ponderazione, anche il telelavoro e il costante share informativo con le altre istituzioni pubbliche coinvolte e/o coinvolgibili con il sistema penitenziario. Ma in particolare si sarebbe dovuto assicurare, sempre esclusivamente agli istituti penitenziari, un certo numero di psicologi a tempo indeterminato, almeno uno per ogni carcere e più di uno in quelle più grandi, affinché operassero sia per l’osservazione dei detenuti che per contrastare il rischio di disagio che lo stesso personale penitenziario accusa e che tutte le OO.SS. denunciano da tempo, situazione oggi ancora più aggravata, perché sottoposto a continue tensioni e obiettive difficoltà, che si riflettono pericolosamente anche sulla stessa popolazione detenuta. Last but not least, andavano rafforzati tutti i ruoli della polizia penitenziaria, perché le circostanze situazionali entro le quali sono costretti ad operare gli appartenenti al Corpo sono tali da poter determinare rischi reali di abbruttimento e di alienazione, con conseguenze che possono essere devastanti nei rapporti con i colleghi e con la stessa utenza detenuta, oltre che in ambito familiare. Operare, infatti, in condizioni, in punto di diritto anche del lavoro, le quali non sono quelle che sarebbe giusto attendersi, e che stridono da anni con le norme dei CCNL e quelle della sicurezza del lavoratore, destabilizzano anche il più motivato operatore. Non credo che al riguardo sia peregrino richiamare anche il rischio suicidario presente tra il personale di polizia e non soltanto tra esso, risultando talvolta difficile riuscire a reggere la quotidianità lavorativa, spesso resa ancora più complessa per il poco tempo che si è in grado di dedicare alla famiglia, alle amicizie, alla vita personale. Non riuscire a comprendere, o fingere di non comprendere che una amministrazione, la quale incentri istituzionalmente la propria funzione pubblica in attività rivolte alle persone “altre,” debba, come pre-condizione anche istituzionale, avere a cuore ed interessarsi, almeno contestualmente, del proprio capitale umano, ove voglia per davvero essere una organizzazione efficace ed efficiente, è quantomeno disarmante. Andava rilanciato un vero piano straordinario di riqualificazione del parco carceri esistente, per realizzare progressivamente degli istituti penitenziari Anticovid, anticipando rischi futuri, immaginando una diversa e funzionale distribuzione degli spazi, dei locali, dei percorsi, dei presidi per la sicurezza anzitutto sanitaria, posto che il bene della salute e la sua tutela non riguardano, tra l’altro, soltanto i ristretti ma anche tutti coloro che accedono in carcere per le ragioni più diverse, per motivi professionali, per portare aiuto, oppure per sventura familiare, e non limitarsi, eventualmente, a mente delle risorse che potrebbero essere impegnate, con i Recovery Fund o con il MES, a riproporre vecchi piani edilizi. È vero, i rischi per malattie infettive (HIV, Epatite C, altro) in generale, nelle statistiche, sono spesso indicati con delle percentuali variabili secondo la fascia di popolazione e le caratteristiche della stessa, ma chi in carcere si infetti, detenuto o detenente che sia, malauguratamente lo sarebbe al 100%. Un semplice esempio: pensate ad una pediculosi (i pidocchi), patologia infestante e veloce, che si trasmette attraverso il contatto testa a testa, oppure scambiandosi spazzole e pettini, o utilizzando stessi cuscini, sciarpe, cappelli, contagi facili all’interno di un’aula, oppure in un parlatorio affollato, in una palestra, oppure in cappella, ma anche attorno ad un tavolo di laboratorio, etc. Ebbene, secondo voi, entrato in carcere un detenuto nuovo giunto, semmai nottetempo, che nelle more degli adempimenti di rito, venisse collocato in una stanza “comune” con altri ristretti, perché non si disponga di una camera “singola”, con nessuno che si sia accorto dei problemi che gli camminano in testa, anche perché lui non ne ha parlato, neanche nel corso della veloce visita medica, ove fosse presente un medico di notte, senza che nessuno gli abbia prescritto una doccia, perché non obbligatoria e, tra l’altro, anche inutile, ove non si adoperino prodotti specifici, quest’ultimi di regola non immediatamente disponibili, senza dimenticare che ci si potrebbe trovare in un istituto dove le docce, tra l’altro, sono “comuni”, per cui il nuovo giunto dovrebbe essere condotto negli appositi locali in quelle ore, col rischio di causare le conseguenti lamentazione dei detenuti che si svegliassero per il rumore dell’apertura dei blindati e delle docce, è verosimile che si rimanderebbe tutto al giorno successivo? ma nel frattempo, cosa accadrebbe ? quanti altri ospiti ristretti, che dormono impilati su letti a castello, in ambienti “compressi”, utilizzando anche lo stesso locale del cesso, come cucina, correrebbero il rischio di essere contaminati dagli esserini infestanti? Quanti operatori penitenziari veicolerebbero in caserma o nelle loro case le bestiole affamate? eppure parliamo di banali pidocchi e siamo nel 2021. Immaginate, ora, il rischio Covid-19 in quei contesti che si dicono “totalizzanti”, con un virus che si trasmetta attraverso l’invisibile droplet, e tirate le conclusioni. Ma andiamo avanti. Se l’emergenza extra-penitenziaria fosse stata trattata in una visione strategica, avrebbe pure consentito di concentrarsi, con sollecitudine, sul tema delle impellenti riforme da indirizzare al sistema penitenziario, soprattutto nello snellimento delle procedure di sorveglianza e in materia di riduzione di pena, oltre che per la fruizione di misure alternative. Queste ultime in particolare, a prescindere anche da eventuali precedenti penali di uguale natura, andrebbero ordinariamente somministrate come prima cura, riservando il carcere soltanto per quei casi in cui, nel corso della esecuzione delle stesse, vi fossero così gravi violazioni da spiegarne la revoca. Questo per non intasare ulteriormente e pericolosamente gli istituti, perché le carceri non sono in grado di assorbirle, in specie ove i pericoli del Covid-19 si rinnovino con il Covid-20, 21, e via contando. Non sarebbe infatti scandaloso riservare le celle soltanto agli autori di reati di particolare gravità, all’interno di un ventaglio contenuto e non come ora, “dispiegato” a 360 gradi. Per ogni giorno di modesta violazione delle misure alternative che non ne comportasse la sospensione prima e la revoca successiva, forse basterebbe allungarle di una uguale misura, piuttosto che preferire il ritorno in carcere, anche tenendo conto di tutti i costi economici che ciò comporti. E tanto non per bontà, ma per evidente necessità di un sistema che altrimenti non saprà più reggere l’impatto di numeri e di criticità collegate agli stessi. Sembra, inoltre, dimenticarsi che le misure alternative alla detenzione comunque prevedano un sistema di controlli e di verifiche, talché non si giocherebbe “al buio” e la cosa troverebbe ulteriori spiegazioni anche nella asserita volontà politica, ogni volta che si avvicinino le elezioni, di un massiccio inserimento di poliziotti penitenziari all’interno degli uffici dell’esecuzione penale esterna, circostanza in parte già avvenuta, perché altrimenti i malpensanti potrebbero ritenere che quest’ultimi siano soltanto degli “imboscati”. Insomma, concludendo, urgono rimedi veri e non palliativi, perché non ce lo possiamo più permettere, non potendo persistere, invece, nell’attuale metodo di contenimento del rischio Covid-19, bloccando e/o riducendo i contatti con il mondo esterno da parte dei detenuti, impedendo una vita detentiva rispettosa della dignità umana, pure sapendo che ciò comporterà l’aumento della pressione interna, con tutto ciò che è già accaduto nel marzo scorso e che potrebbe ancora replicarsi. Quella operata nel recente passato, a mio sommesso avviso, è stata infatti una sorta di strategia fallimentare, un commodus discessus che ha avuto esiti prefigurabili. Di fatto non si è permessa o si è limitata drasticamente la frequentazione delle carceri da parte di familiari, volontari, operatori di ONG, insegnanti, ministri di culto diversi, etc., spingendo i detenuti esclusivamente verso i propri pensieri, i propri incubi e paure e, soprattutto, favorendo il proselitismo di quelli che potrebbero essere stati i cattivi compagni, quelli che sono dall’altra parte rispetto all’aspirazione ad un reinserimento con la società; insomma, si è prodotta tanta Insicurezza. Infine, occorrerebbe pure pensare ad una valvola di sfogo, indigesta ai puristi della pena medievale, di nome Amnistia; amnistia e non indulto, perché quest’ultimo ricorderebbe un gioco onanistico del sistema giustizia con conseguenze penitenziarie, continuando ad impegnare gli uffici giudiziari e tutto l’apparato su cose passate. Lusso oggi non consentito, a meno che, ostinandosi nel guardare dietro, si voglia precostituire l’alibi per non affrontare il presente ed il futuro che, in tempo di Covid, può portare grandi sorprese anche in termini di inediti malaffari. Non sono, ahimè, anche se mi piacerebbe esserlo, un esperto di foresight futures, però, nella mia vita professionale, ho imparato ad osservare i segnali ed a essere una sorta di apprendista aruspico penitenziario, anzi meglio degli auguri di un tempo, i quali scrutando il cielo provavano a decifrare il volo degli uccelli, ne osservavano le formazioni, ne ricavavano il presagio: oggi gli stormi, sul cielo della giustizia, sono numerosi, sono scuri tra le nuvole, e sono volatili amari… *Penitenziarista - Già Dirigente Generale dell’Amministrazione Penitenziaria - Componente dell’Osservatorio Regionale Antimafia della Regione Friuli Venezia Giulia Carcerati e migranti: almeno non ignorateli. O è troppo? di Iuri Maria Prado Il Riformista, 4 febbraio 2021 “Sanitaria, sociale ed economico finanziaria”. È questa la connotazione multipla della crisi che il presidente della Repubblica affida alla gestione dell’auspicato governo di alto profilo. E non è per menare il torrone, ma tra i motivi di crisi ci sarebbe anche - e non meno urgentemente - la coppia di bazzecole costituita dal deperimento dello Stato di diritto prodotto in mesi e mesi di svacco istituzionale e dal massacro dei diritti individuali nel malgoverno della giustizia. E purtroppo nel riferimento al profilo “sociale” della crisi non è implicita come pure dovrebbe essere la sollecitazione a curarsi di quelli che non possono ambire a nessuna politica cosiddetta sociale perché dalla società sono semplicemente esclusi: i detenuti e i migranti. Sarà impopolare osservarlo, ma se è vero (e negarlo è un po’ difficile) che mai prima, nella storia della Repubblica, si è assistito a un tal degrado delle garanzie di tutela dei diritti e delle libertà individuali, allora è vero che ad esserne più afflitti sono gli ultimi: e gli ultimi sono loro, i prigionieri e quelli che scelgono la pandemia italiana perché scappano da una minaccia anche peggiore. Abbiamo trattato i carcerati alla stregua di macachi su cui sperimentare come si comporta il virus nello stretto di una gabbia, e sull’altro fronte abbiamo visto il potere pubblico interessato alla salute dei migranti giusto per il pericolo che “vadino” a infettare l’Italia cristiana che viene prima. Che l’ammaloramento dell’ordine costituzionale e il sacrificio dei diritti di libertà siano andati di conserva durante l’imperio populista è tutt’altro che casuale, perché quei due fattori involutivi sono in rapporto di nutrizione reciproca. Ma forse non è chiaro che a patirne maggiormente sono i ranghi ultimi del consorzio sociale e anzi, appunto, quelli che ne sono perfino esclusi, la gente senza mezzi, senza parola, senza identità che non sia la fedina penale infangata o il pigmento negro. Sarebbe sperare troppo, e non sarebbe nemmeno giusto, che una nuova iniziativa di governo mettesse sulla cima delle priorità almeno un po’ di interesse ai diritti di chi non ha diritti. Basta sperare che non se ne disinteressi completamente, sperando che almeno questo non sia sperare troppo. Dalla prescrizione al civile: la giustizia di superMario di Errico Novi Il Dubbio, 4 febbraio 2021 Un’alleanza senza 5S rivedrebbe le riforme del processo. Più spazio per le cause affidate agli avvocati: il modello Cnf è diffuso all’estero e può far breccia in un premier “europeo”. Come sarebbe la giustizia di un governo Draghi? Domanda forse impropria. Non si sa qual è il governo, né da quali forze sarà sorretto. Però si può ragionare sui dati disponibili. Pochi. Ad esempio, sul trauma originario della svolta, l’uscita di scena di un guardasigilli intransigente in materia penale come Bonafede. Chi più lo ha avversato, dalla Lega a Italia viva, già invoca una “grande riforma della giustizia”. Da dove può partire? Da una “diversa prescrizione”, di sicuro. Non foss’altro perché il lodo Annibali è già in pista come emendamento al milleproroghe e, se andasse male, pure in commissione Giustizia, sempre alla Camera, sotto forma di modifica al ddl penale. Si tratta di capire se il Pd convergerà sulla svolta dopo averla auspicata. Dal Nazareno, chi segue la partita sulle riforme del processo spiega: “Già prima che naufragasse il tentativo per un Conte ter, Orlando aveva proposto un timing stringente sulla riforma penale, con eventuale congelamento del blocca- prescrizione in caso di ritardi nell’approvazione del ddl. Ma lì si trattava di un estremo compromesso coi 5 stelle. D’altra parte”, ricorda la fonte dem, “già a Bonafede avevamo detto che sarebbe stata necessaria una soluzione più efficace rispetto al lodo Conte bis. Credo che ora si debba ragionare sul serio di un limite certo ai processi troppo lunghi”. Sembra l’eco di tormenti ormai superati. Probabile che, al di là di un “congelamento” della norma voluta dai 5 stelle, si possa discutere a breve anche di prescrizione del processo. Ipotesi avanzata già due anni fa dal Cnf, con Andrea Mascherin, poi rilanciata senza successo dal Pd: in pratica, sarebbe prevista una improseguibilità del giudizio penale qualora, dopo la sentenza di primo grado, si arrivi a una durata irragionevole. Di fatto la svolta sulla prescrizione è il primo livello. A cascata ne seguirebbero altri. Verrebbero meno le misure inserite nel ddl sul processo a compensazione della norma Bonafede. Come le sanzioni ai giudici in caso di deposito tardivo della sentenza. Sarebbe anche il modo per evitare una frattura con l’Anm. Disinnescata la mina prescrizione, verrebbero accantonate anche ipotesi molto sgradite all’avvocatura: ad esempio la norma che impone al difensore di ottenere un nuovo specifico mandato per ricorrere in appello. Ma la vera novità potrebbe riguardare, sempre in campo penale, un ricorso più coraggioso ai riti alternativi. Nella riforma Bonafede si innalza, è vero, a 8 anni la pena massima per la quale è possibile il patteggiamento. Poi però dal catalogo dei reati per i quali si può patteggiare vengono escluse molte fattispecie, tanto da rendere insignificante l’estensione di partenza. Più difficile che si trovi il modo, in un’esperienza di governo del tutto particolare e dall’orizzonte temporale incerto, per mettere mano alle depenalizzazioni. Una vera e interessante apertura potrebbe verificarsi nella riforma del processo civile, ritenuta cruciale per il Recovery ma impantanata al Senato. Sul tavolo ora c’è anche la proposta dell’avvocatura: il Cnf ha chiesto di riscrivere il Piano di ripresa con un maggior ricorso alla giustizia alternativa e complementare, da preferire all’immissione dei magistrati onorari a tempo. È la strada per smaltire davvero l’arretrato, spiega la massima istituzione forense nel modello sottoposto al governo ma, almeno finora, non tenuto in considerazione. Si propone di rafforzare, con incentivi e detrazioni fiscali, le soluzioni alternative delle controversie (come la mediazione), e di affidare le cause pendenti da troppo tempo alle camere arbitrali istituite presso gli Ordini forensi. Uno schema aperto, libero dal pregiudizio secondo cui il contenzioso va tenuto sempre e comunque sotto la sfera di controllo della magistratura, che è molto diffuso nei sistemi anglosassoni e verso il quale un premier “europeo” come Draghi potrebbe mostrare dunque grande interesse. Meno accessibile è una svolta sul carcere. La riforma Orlando del 2017 rischia di restare nel cassetto anche qualora la legislatura arrivasse a scadenza naturale. Diverso il discorso per la riforma del Csm, che contiene anche aspetti implicitamente legati all’efficienza. Anche se allo stato pare complicatissima la strada, indicata dal centrodestra, di un sorteggio temperato per l’elezione dei togati. Il Pd non è d’accordo. Si dovrà capire in che modo una coalizione cosi eterogenea quale sembra intravedersi possa fare sintesi su una materia di fatto costituzionale come l’ordinamento giudiziario. E certo prima ancora si dovrà capire se l’entusiasmo suscitato ora da Draghi si tradurrà davvero in un governo capace di fare le riforme. Cartabia o Canzio, i nomi che farebbero volare alto il programma di via Arenula di Errico Novi Il Dubbio, 4 febbraio 2021 Ci sono occasioni rare. Forse irripetibili. Mario Draghi lo è. Uno spiraglio per il Paese e per gli stessi partiti. Ma un governo “di alto profilo” non può ridursi all’icona del suo vertice. Una sfida del genere richiede scelte “temerarie” anche in altre postazioni. Ad esempio sulla Giustizia. Innanzitutto perché la partita sarà meno agevole di quanto s’immagini. Poniamo pure che la nuova maggioranza veda i Cinque Stelle esclusi, e un’intesa allargata dal Pd alla Lega: davvero un’alleanza del genere saprà sfidare il sentire comune sulla giustizia penale? Sicuro che, sulla prescrizione o sul carcere, non monterebbe la paura lasciare i grillini solitari custodi del giustizialismo? È uno schema che richiede nomi di alto profilo anche a via Arenula, non solo a Palazzo Chigi. Ce ne sono due straordinari: Marta Cartabia e Gianni Canzio. Una ex presidente della Consulta e un primo presidente emerito della Cassazione. Cartabia sarebbe portatrice di una cultura della pena davvero aperta alla speranza, ispirata a quel libro da poco pubblicato con Adolfo Ceretti, “Un’altra storia inizia qui”: le visite in carcere di Carlo Maria Martini come esplorazione sul “fine rieducativo” e sul diritto al futuro per ogni condannato. Canzio è il magistrato che ha proposto, anche in recenti audizioni parlamentari, due semplici rivoluzioni: una prescrizione non del reato ma del processo, per quei casi in cui il giudizio penale abbia una durata intollerabile; e un addio al paradosso delle valutazioni di professionalità eccellenti per il 98 per cento dei magistrati italiani, tuttora elargite dal Csm. Due nomi straordinari e irripetibili, che mai entrerebbero in un governo di coalizione. Ma che forse non potrebbero di sottrarsi all’appello del Colle. Draghi non si lasci sfuggire un’alternativa di tale spessore per il ministero della Giustizia: Cartabia o Canzio. La rinuncia ai giochi di palazzo si vedrà anche dalla forza dell’eventuale nuovo governo di scrollarsi le ruggini e osare soluzioni del genere. Severino alla giustizia? Per favore, no! di Tiziana Maiolo Il Riformista, 4 febbraio 2021 È firmataria della legge moralista che anticipa la grillina spazza-corrotti. Serve discontinuità e, nonostante l’alto profilo, l’ex ministra del governo Monti non lo sarebbe. Invece Cartabia... Il prossimo guardasigilli potrebbe essere una donna. E potrebbe essere una delle due che hanno già tagliato per prime un traguardo di quelli che erano sempre stati riservati agli uomini. Una è stata la prima donna Presidente della Corte Costituzionale. L’altra la prima donna ministro della giustizia. Ma sono conosciute e ricordate, finora, per qualcosa che hanno fatto, di cui hanno lasciato vistosa traccia. Carta Cartabia ha aperto una finestra di speranza ai detenuti, sia con le visite in carcere che con una famosa sentenza del 2019 che ha rotto il dogma per cui tutti i detenuti sono irrecuperabili tranne i “pentiti”. Paola Severino, resa nota da una legge del 2012 che porta il suo nome, ha fatto il percorso inverso, dando legittimità a norme che prevedono la cacciata degli eletti dagli organi elettivi, parlamento o enti locali, sulla base di azioni giudiziarie, a prescindere dalla volontà popolare di chi aveva infilato una scheda nell’urna. Una ha cercato di dare più libertà, l’altra di toglierla. Queste due insigni giuriste si trovano oggi, loro malgrado, in una sorta di gioco a “guardie e ladri”. Perché la giustizia in Italia pare sempre una questione di Guardie e Ladri. Il che non significa che qualcuno è dalla parte della legalità e qualcun altro da quella della violazione delle leggi penali. È un modo diverso di dare priorità ai diritti piuttosto che alla sicurezza, alla laicità dello Stato piuttosto che a una visione moralistica e vendicativa rispetto ai comportamenti umani. In particolare di quelli che si inscrivono in fenomeno trasgressivi come le mafie e il terrorismo o addirittura nel mondo della politica e della pubblica amministrazione. È su questo crinale che si incontrano le vite professionali di Marta Cartabia e Paola Severino, la costituzionalista lombarda allieva di Valerio Onida all’università degli studi di Milano e la penalista e criminologa di origine napoletana che si è laureata a Roma con Giovanni Maria Flick, che sarà come ministro di giustizia. Sono due prime della classe, pur senza avere, nessuna delle due, la spocchietta che a volte rende antipatici quelli che sorpassano gli altri. Sarebbero due ministre adeguate a quel che serve nel prossimo governo Draghi dopo la caduta di Conte sulla giustizia? È vero che per surclassare Alfonso Bonafede basterebbe uno studente del primo anno di giurisprudenza. Ma non basta, perché dal guardasigilli che gli succederà noi ci aspettiamo anche un bravo muratore che sappia buttar giù prima di lasciar spazio alla propria creatività. E, ma forse chiediamo troppo, la prima legge da ridiscutere dovrebbe essere proprio quella che viene chiamata “Legge Severino”, quella che fu approvata con entusiasmo dall’intero Parlamento, in cui entrò tranquillamente come il coltello nel burro, tanto che le Camere diedero al Monti una sorta di delega in bianco. Perché l’avvocato Paola Severino e prima di lei l’avvocato Angelino Alfano, ministro nell’ultimo governo Berlusconi, si siano fatti promotori di una legge così palesemente intrisa di moralismo e disprezzo per gli eletti dal popolo, così di sapore grillino, quasi un antipasto della “spazza-corrotti” prodotta in seguito da Bonafede, è incomprensibile da parte di due studiosi del diritto. Soprattutto per due aspetti di particolare gravità, l’ingiustizia della sospensione e poi decadenza degli amministratori locali solo per una sentenza di condanna di primo grado, mentre per i parlamentari la decadenza è legata alla condanna definitiva. E poi per il profilo di incostituzionalità, visto che l’articolo 25 della Carta fondamentale sancisce che nessuno possa esser condannato sulla base di una norma che non esisteva al momento della commissione del reato. Se ne è discusso a lungo, dopo la condanna di Silvio Berlusconi a quattro anni di carcere, quando diversi costituzionalisti ne avevano invocato l’incongruenza con l’articolo 25. Una decisione politica, in cui fu determinante l’indirizzo del segretario del Pd Matteo Renzi, comportò poi l’espulsione di Berlusconi dal Senato e la vanificazione del voto popolare in cui il leader di Forza Italia era risultato il primo assoluto. Ma ancora più sconcertanti furono diversi casi negli Enti locali, dove diversi consiglieri, incappati in inchieste giudiziarie più o meno fondate, furono sospesi per i diciotto mesi previsti dalla legge, quindi sostituiti dai primi dei non eletti, costretti poi a tornare a casa in attesa di un processo e di una sentenza. Basta un giudizio di condanna in primo grado per determinare l’espulsione anche di qualcuno che sarà poi assolto in appello o in cassazione. Il caso più clamoroso resta comunque quello della Regione Calabria, dove il presidente di centro-destra Beppe Scopelliti, condannato per abuso in atti d’ufficio e falso, fu sospeso e poi dichiarato decaduto, determinando lo scioglimento della giunta, nuove elezioni e la vittoria del centro-sinistra con Mario Oliverio. Il quale a sua volta subì una sorta di nemesi storica, salvo esser poi assolto un anno dopo. Ora, la domanda è: può l’ex ministra del governo Monti, con alle spalle questa legge che porta il suo nome, ereditare il posto di Alfonso Bonafede sulle macerie di un governo precipitato proprio sulla giustizia e proprio a causa di leggi come quella sulla prescrizione e la “spazza-corrotti” che sono le eredi della “Severino”? Se il presidente incaricato Mario Draghi facesse questa scelta, non solo potrebbe trovare qualche ostacolo in particolare in Forza Italia, ma non darebbe quel segnale di discontinuità che sulla giustizia è richiesto un po’ da tutti, a parte il Movimento cinque stelle. Il terreno è del tutto in discesa per Marta Cartabia, non per un problema di prevalenza di curricula, ambedue brillanti, ma perché, laddove la ministra del governo Monti ha “chiuso” alla speranza, l’ex presidente della Corte Costituzionale ha aperto la famosa “finestra”, ispirandosi a fonti autorevoli e per lei - una cattolica di cui si dice sia vicina a Comunione e Liberazione scuole di vita, come l’esempio del cardinal Martini e dello stesso papa Bergoglio. Il tema è il carcere, e non è secondario, perché parlare della pena vuol dire parlare del processo e dei diritti. E anche dell’articolo 27 della Costituzione, quello che non piace ai pubblici ministeri e a tutti coloro che ritengono il problema della sicurezza prioritario rispetto a quello dei diritti e della riabilitazione di chiunque, anche e soprattutto di Caino. I giudici della Corte Costituzionale, quando Cartabia era ancora vice, avevano fatto, per la prima volta nella storia, il giro di sette carceri. Ne era nato un docufilm che fu poi presentato anche alle giornate del cinema di Venezia. Ma soprattutto ne è nata una mentalità, un approfondimento culturale, che ha anche prodotto giurisprudenza. Una bella sintesi di come la professoressa Cartabia abbia condotto la presidenza dell’Alta Corte, è stata l’esposizione fatta nell’ottobre scorso agli studenti della stessa università di Milano-Bicocca dove lei stessa era stata docente. Ricorda il cardinal Martini sulla “dignità”. Che va intesa come “incomprimibile possibilità di recupero, di riscatto, qualunque cosa sia accaduta prima, qualunque fatto sia stato commesso: qui è la dignità della persona”. E lancia l’idea che “la pena debba guardare sempre al futuro, volta a sostenere il cammino di cambiamento di ogni persona”. Ed ecco il concetto della “finestra”, quella di papa Francesco, che vuole sia a disposizione di chiunque, perché deve esserci in ogni carcere, “fisica e simbolica, reale e metaforica”. La Corte Costituzionale presieduta da Marta Cartabia ha compiuto il gesto più trasgressivo, sul piano reale ma anche simbolico. Ha spezzato il principio per cui nessun responsabile di reati di mafia possa avere alcun beneficio e meno che non faccia il “pentito”. Nasce così la sentenza 253 del 2019, con cui la Consulta ha stabilito che anche i condannati per reati ostativi, cioè quelli per cui era precluso il diritto ai benefici penitenziari e cui era applicato l’articolo 4-bis dell’ordinamento carcerario, avessero diritto almeno ai permessi brevi. Una rivoluzione, che non è piaciuta al presidente della Commissione antimafia Nicola Morra. Ma che sarebbe stata approvata da Martini e da papa Francesco, perché è stata il risultato delle visite in carcere. E perché, come scrisse Piero Calamandrei, “Se si vuole condurre una riflessione sulla realtà dei detenuti e delle pene, bisogna aver visto”. Ecco perché Marta Cartabia sarebbe un’ottima ministra di giustizia. Perché ha visto, e perché saprebbe aprire quella finestra. Quella passione malsana del popolo italiano per la pena di morte di Pino Casamassima Il Dubbio, 4 febbraio 2021 Nell’attesa di una riforma della giustizia che metta d’accordo (mah…) le diverse e confliggenti posizioni politiche - mala tempora permettendo… - il 54° rapporto del Censis sciorina dati per certi versi sconfortanti se non avvilenti. C’informa, fra l’altro, che sono quattro su dieci gli italiani favorevoli alla pena capitale. Un dato che inquieta e invita alla riflessione, se si pensa che dieci anni fa erano la metà. Un raddoppio che negli ultimi tempi ha vissuto un formidabile rush complice due fattori. Il primo riguarda una “nera” tenuta sempre più alta nelle cronache quotidiane, sia dalla tv, che dalla rete (la più frequentata dai giovani). Una nera che ha eroso sempre più spazio nell’attenzione quotidiana a quanto accade (basta pensare alle immagini anche molto crude che disinvoltamente vengono postate senza alcun controllo: controllo, non censura), col risultato di far percepire una realtà incoerente con i dati reali che, stando alle ultime relazioni nelle aperture dell’anno giudiziario, in decrescita sul piano dei delitti contro la persona. Questa percezione fasulla ha generato una ostilità crescente nei confronti di chi quei reati avrebbe compiuto (avrebbe, non aveva): in una parola, l’odio. La richiesta d’inasprimento delle pene è consequenziale, pena capitale compresa. Poi c’è il Covid. Che c’entra? Beh, la pandemia ha innegabilmente rinvigorito un individualismo primitivo da mors tua vita mea. Nonostante con La Peste Albert Camus avesse lanciato il messaggio che da soli non ci si salva, questo nostro tempo segnato da una pandemia mondiale (non da una epidemia circoscritta alla città algerina di Orano di quel romanzo da premio Nobel) ha incattivito il rapporto fra sé e l’altro da sé, favorendo l’individualità non la solidarietà (caposaldo appunto del pensiero di Camus). Non pensa solo a sé stesso chi non indossa la mascherina? E chi organizza una festa con decine di persone che non resteranno certo con la mascherina per ore? Il Covid è sceso in campo in una situazione già drammatica di suo - come dimostra quel rapporto del Censis - con il 50,3% dei giovani che vive una condizione socio- economica peggiore di quella dei loro genitori alla loro età. Non è quindi troppo casuale che - tornando all’inquietante dato sulla pena capitale - la fascia più consistente degli italiani favorevoli alla pena capitale sia quella che va dai 18 ai 34 anni con il 57,8% a fronte del 44,7% complessivo, perché non c’è come l’età giovanile per esacerbare le situazioni, cioè per tagliare di netto i neri dai bianchi, a dispetto delle diverse sfumature di grigio. Ecco quindi, che un omicida merita la morte, altro che cancellazione dell’ergastolo! Giovani protagonisti anche sul fronte della tutela della salute: se il 57,8% della popolazione è disposto a rinunciare a spazi significativi dei propri diritti in cambio di una sua tutela più efficace, in quella fascia d’età, il dato sale al 64,7%. Così come l’82,5% di loro (a fronte del 77,1% del totale) chiede pene amministrative severissime per chi gira senza mascherina, oltre al carcere per i contagiati che non rispettano le norme della quarantena. Furori talebani che si coniugano appunto facilmente con una età quale quella giovanile, ma che mal si combinano poi con certe declinazioni contradditorie (vedi le immagini in cui è proprio quella fascia d’età appare la più disinvolta sul piano del rispetto delle regole). Fa tuttavia impressione registrare che la pena di morte trovi proprio fra i più giovani i suoi sostenitori più consistenti. Pensiamo infatti alle battaglie, le manifestazioni, i cortei contro la pena capitale nel mondo messi in scena nel nostro Paese qualche decennio fa proprio dai più giovani. E l’invito di Liliana Segre - “I detenuti vanno inseriti fra le categorie prioritarie per il vaccino, considerando che lo Stato ha dei doveri nei confronti delle persone affidate alla sua custodia per tutta la durata della permanenza in carcere” - pare rovinare in quell’abisso nietzschiano che è finalmente riuscito nell’impresa di attrarre a sé perfino la gioventù. Si tratta infatti di un looping culturale indietro difficile da riscontrare in tutto il pur affollatissimo Novecento. In questo tempo da Covid, l’incattivimento della società è insomma un dato di fatto, e il monito hegeliano sulla vendetta (che “è sempre giusta ma non è mai giustizia”) si sbriciola alla stregua delle pagine di “Sorvegliare e punire” di Foucault, che pare addirittura un testo di là da venire, non di mezzo secolo fa. Quel che più invita alla riflessione dal dato “giovanile” sulla pena capitale, è che resta a margine - a proposito di tempo da Covid - un problema gigantesco, quale quello di una situazione carceraria drammatica. Un tema, quello penitenziario, cui proprio le fasce più giovanili erano state in passato le più sensibili. Ci si sarebbe aspettato che da quel mondo fosse arrivata una domanda coerente con la generosità di quella età, tipo: qual è il piano di vaccinazione per una popolazione carceraria grande più o meno come Matera (per quanto riguarda i reclusi cui va poi sommato il personale carcerario)? Palamara: “Ormai sono il diavolo: il Csm penalizza i pm con cui chattavo” di Davide Varì Il Dubbio, 4 febbraio 2021 Luca Palamara racconta al Dubbio l’ultima “trovata” del Csm: le chat sono un elemento di valutazione per i candidati agli incarichi direttivi. “Il mio libro non è una vendetta, è un racconto per i cittadini e per quei tanti magistrati ai quali ho voluto svelare il funzionamento del sistema che governa la giustizia italiana”. Luca Palamara è affabile, sereno. Appare come una persona in cerca di un nuovo equilibrio dopo che la tempesta ha travolto tutto: affetti, lavoro, stile di vita. Ha tenuto a parlare col nostro giornale dopo un articolo di chi scrive nel quale, tra le altre cose, si chiedeva una cosa semplice: perché solo ora? Perché Palamara ha parlato e svelato il “Sistema” solo dopo che quello stesso sistema lo ha espulso in modo brutale? Dottor Palamara, perché non dovremmo pensare che il suo libro sia una resa dei conti tra magistrati in lotta per conquistare fette di potere? Capisco che qualcuno possa pensare a una vendetta ma invito tutti a riavvolgere il nastro e fermarsi al giorno in cui io ho chiesto di essere ascoltato dall’Anm. Avrei voluto discutere di questo ma in quel momento ho capito che non volevano che io parlassi. Semplicemente non dovevo aprire bocca. Quando poi sono stato ammesso a farlo ho trovato di fronte a me solo un centinaio scarso di persone, la quasi totalità dei quali appartenenti peraltro alla corrente di Area, scarsamente interessate a quello che avevo da dire ritenendomi oramai un diverso da loro. L’istantanea dell’hotel Champagne (il famigerato albergo nel quale Palamara incontrò Luca Lotti e Cosimo Ferri per decidere la poltrona della procura di Roma) era ancora troppo fresca? Probabilmente sì. Fatto sta che mi tolsero la possibilità di parlare, di spiegare, di aprire una discussione che avrebbe potuto essere utile per tutti. A quel punto ha deciso di vuotare il sacco? Decisi di iniziare a parlare dopo che sulle mailing list dei magistrati circolò la lettera di una collega che mi chiedeva spiegazioni. Pensando di infierire quando oramai ero caduto in disgrazia mi ha però dato l’opportunità di fare esattamente quello che volevo fare: spiegare. Se non sbaglio la collega le chiese se in questi anni avesse fatto il magistrato oppure il “politico”… In quel periodo, naturalmente, ero molto concentrato a organizzare la mia difesa ma ad un tratto scoprii che mi avevano cambiato il calendario e lì capii che qualcosa all’interno della sezione disciplinare che doveva giudicarmi non andava. Una sensazione - per così dire - che si è di recente rafforzata quando è stato deciso di ammettere i testi nei procedimenti disciplinari a carico degli altri partecipanti all’hotel Champagne a differenza di quanto è capitato con me. Una scelta arbitraria e fuori da ogni regola. Per tutte queste ragioni e al fine di poter contribuire ad una palingenesi della magistratura ho deciso che era arrivato il momento di parlare, di raccontare tutto quel che sapevo sulla politicizzazione dei magistrati, sul potere delle correnti e su tutte le degenerazioni che colpiscono la giustizia. E così ho svelato il sistema delle nomine e messo a fuoco la battaglia tutta interna della magistratura sul collateralismo. Collateralismo? Sì, certo, è uno dei cavalli di battaglia delle correnti che non si riconoscono nel “massimalismo giudiziario”. Questo vuol dire che ci sono magistrati collaterali? Il tema del collateralismo dei magistrati con la politica fa parte dei libri di storia ed è la base di partenza per comprendere i riflessi di tale ideologia sui processi. Cambiamo argomento: come fa un’associazione come l’Anm, nata per fini sindacali e politici, a non fare politica? Quando l’Anm venne fondata, l’allora ministro della giustizia Orlando stigmatizzò la nascita di un’associazione che aveva chiari connotati politici. Insomma, parliamo di una discussione centenaria. È chiaro che la nomina di un procuratore, per esempio, deve tenere conto di merito e attitudini, come prevede la legge, ma nella scelta, di fatto, entrano in gioco valutazioni “non previste”… Ci faccia un esempio... Mettiamo il caso che io sia il presidente della V commissione del Csm (la Commissione per il conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi, ndr). E mettiamo anche il caso che la scelta si restringa a due, tre magistrati, e non facciamo nomi altrimenti lei mi “accusa” di volermi vendicare. Lei pensa che quei tre non faranno di tutto per contattarmi? E badi bene che le parlo di un sistema e non di singoli casi. Torniamo alla vendetta: lei nega e dice che ha soltanto voluto raccontare i fatti. Ma lei ha una mentalità politica e sapeva bene dell’impatto deflagrante che il suo “racconto” avrebbe avuto nella magistratura… Ripeto, io volevo raccontare il Sistema a quelle centinaia di colleghi che ogni mattina si spaccano la schiena per far girare la macchina inceppata della giustizia italiana. E, d’altra parte, la resa dei conti forse l’ha voluta chi, dal primo giorno, non ha voluto che raccontassi la mia versione dei fatti. Ma forse i nodi veri della giustizia si chiamano separazione delle carriere, obbligatorietà dell’azione penale, prescrizione. Eppure nel suo libro non ne fa riferimento... Quello è un altro discorso. Ovviamente si tratta di temi centrali, decisivi e io stesso mi sono sempre considerato un riformatore. E se vogliamo entrare nel merito, posso dirle che la battaglia delle camere penali sulla separazione delle carriere è involontariamente favorita dalla stessa magistratura perché al nostro interno di fatto la separazione esiste già: ormai, nei fatti, è assodato che un pubblico ministero non diventerà mai giudice. E del resto molti giudici mettono in luce il fatto che il loro lavoro è assai diverso da quello degli inquirenti. A questo punto tanto vale affrontare il problema anche dal punto di vista ordinamentale. C’è una frase del suo libro che gela il sangue. Lei scrive che “se un procuratore ha un paio di aggiunti svegli, un ufficiale di Polizia ammanicato con i Servizi segreti, un paio di testate giornalistiche amiche e un giudice intimo, allora ha più potere del Parlamento”. Conferma di aver conosciuto casi del genere? Certo, è una realtà di fatto. E cosa pensa delle “esternazioni” del procuratore Gratteri? Non le sembra che utilizzi un po’ troppo la sponda dei media? Nel corso di una conferenza stampa disse di voler smontare la Calabria come un lego. Le sembra un linguaggio appropriato a un procuratore della Repubblica? Il tema conferenza stampa è un tema grave ma posso dire con certezza che non riguarda solo Gratteri. Una cosa è il diritto dell’opinione pubblica a essere informata, altra è l’abitudine di presentare gli arrestati come colpevoli senza neanche aver iniziato un processo… Questa deriva mediatica delle procure l’ha contrasta anche quando era presidente dell’Anm? Nei limiti del possibile ho cercato di arginarla. Così come ho contrastato l’idea che le intercettazioni diventino gossip. E a proposito di Chat, vuol sapere l’ultima? Dica pure... Ho appena saputo che le mie chat sono diventate un elemento di valutazione per i candidati agli incarichi direttivi. Si spieghi meglio... La legge prevede che un candidato debba essere valutato sulla base dell’attitudine e del merito. Nelle attuali valutazioni vengono incredibilmente inserite anche le mie chat. In questo modo un magistrato viene penalizzato per il solo fatto di aver interloquito con me. Io credo che così facendo il Csm stia abdicando al suo ruolo basando le sue decisioni sul pregiudizio legato alla mia persona. In ogni caso c’è già un caso specifico di cui parlano tutti i resoconti consiliari in queste ore: la sfida per la procura di Salerno tra Alfano e Soviero è avvenuta proprio sulla base di quelle chat. Ma la legge non vieta certo di parlare con Palamara e in ogni caso c’è un grave problema nella divulgazione delle mie chat. Basta consultare le pratiche di archiviazione della prima commissione: chiunque può accedere sul sito del Csm e leggerne tranquillamente il contenuto senza che le stesse siano in alcun modo secretate o omissate, come invece richiederebbe una corretta applicazione della legge sulla privacy, anche quando riportano per intero messaggi privati tratti dal mio cellulare che nulla hanno a che vedere con i reati che mi vengono imputati. Per questo, dopo essermi consultato con esperti giuristi in materia ho deciso di agire in sede risarcitoria nei confronti del Csm per la indebita pubblicazione del contenuto delle mie chat. È accaduto spesso a molti cittadini… Ma infatti ho lottato contro questo sistema. Dai tempi dei furbetti del quartierino molte cose sono cambiate sia a livello di giurisprudenza europea che di normativa consiliare, ma soprattutto di consapevolezza nelle procure che le intercettazioni che non hanno attinenza con il reato e contengono informazioni lesive della reputazione dell’indagato e dei terzi non devono essere depositate agli atti del processo. Ripeto, io non dico che non debbano essere utilizzate, ma questa divulgazione capillare da parte del Csm è intollerabile. A questo punto davvero mi chiedo, come mai non è mai stata fatta una discussione sulle chat che riguardano i componenti del Consiglio superiore della magistratura? Emilia Romagna. Il Garante: “Bene le carceri, ma i morti di Modena non vanno dimenticati” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 febbraio 2021 Visita regionale del Garante nazionale che si è svolta in due tappe (dal 30 novembre al 4 dicembre 2020 e dal 24 al 29 gennaio 2021). Sette Istituti penitenziari, quattro questure, quattro Comandi dei Carabinieri, quattro residenze sanitarie assistenziali per persone anziane, due Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche (Rems), due servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), un Istituto penale minorile (Ipm), un Centro di prima accoglienza (Cpa) e una comunità per minori. Sono questi i luoghi visitati in Emilia Romagna dal Collegio del Garante nazionale insieme a dodici persone dello staff, suddivisi in tre sotto-delegazioni, nel corso della visita regionale che si è svolta in due tappe (dal 30 novembre al 4 dicembre 2020 e dal 24 al 29 gennaio 2021).Un quadro complessivo che sarà elaborato in uno specifico Rapporto, articolato nelle diverse aree d’intervento del Garante nazionale e inviato ai corrispondenti interlocutori istituzionali, molti dei quali incontrati nel corso delle giornate emiliane-romagnole. Visitati sette istituti penitenziari - Il Garante sottolinea come emerga la forte potenzialità di un territorio ricco di sensibilità sociale, di esperienze avviate nel periodo precedente all’emergenza sanitaria e di solida capacità amministrativa: parametri, questi, a cui non sempre corrisponde la realtà concreta di quelle strutture emblematiche della complessità che il Garante è chiamato a visitare per esercitare il proprio compito di vigilanza preventiva. Sono sette gli Istituti penitenziari visitati (Bologna, Ferrara, Forlì, Modena, Parma, Ravenna e Reggio Emilia) e il Garante ha potuto riscontrare che sono risultati strutturalmente e funzionalmente inadeguati al presente, al di là dell’impegno e della professionalità innegabili di chi vi opera. Mancano le strutture dei bambini minori di 3 anni con madri detenute - Alla delegazione del Garante nazionale ha colpito il fatto che l’attuale mancanza di strutture adeguate alle esigenze dei bambini inferiori ai tre anni con madri detenute, “costringa a ragionare ancora - a dieci anni dalla legge di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori - di sezioni “nido” all’interno del carcere, attualmente in fase di allestimento nel carcere della Dozza di Bologna. Nessuna Casa-famiglia protetta e nessun Istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam) è infatti presente o in via di realizzazione in tutta la regione”. La visita all’Istituto di Modena, anche se breve, ha voluto testimoniare l’attenzione del Garante a quanto avvenuto nel marzo scorso, con il carico di vite perse, affinché un esito così drammatico - come osserva il garante stesso - “non sia troppo frettolosamente archiviato nella coscienza collettiva”. Risulta, invece, molto positivo l’investimento sullo studio e sulla formazione dell’Istituto penale minorile di Bologna: l’iscrizione all’università di due giovani diplomatisi nel 2020, la partecipazione attiva alle scuole ai vari livelli, ai corsi e ai tirocini formativi ne sono un segnale evidente. “Appare - osserva il Garante nazionale-, invece urgente un investimento per gli ambienti del Centro di prima accoglienza, luogo spesso del primo impatto per i minori privati della libertà”. Il Garante affronta anche il tema della salute. Negli Spdc, i reparti del servizio psichiatrico diagnosi e cura, da tempo è in corso nella regione una campagna volta a ridurre l’uso della contenzione, anche di tipo farmacologico. Si tratta di un percorso importante che sta dando i suoi frutti e che rappresenta una via per altre strutture analoghe. “Rimane - sottolinea Il Garante - la criticità relativa a taluni ambienti e alle condizioni strutturali, certamente migliorabili”. Alcune criticità nel prossimo rapporto - Osserva anche che il dialogo tra le istituzioni della sanità e quelle della giustizia non sempre è facile. Il Garante nazionale è disponibile a dare quindi il proprio sostegno per favorire tale confronto al fine di superare alcune evidenti criticità che finiscono col riflettersi sull’accesso ai servizi della salute delle persone ristrette. Il Garante nazionale ha visitato le due residente per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) attualmente operanti nel territorio regionale (la Casa degli Svizzeri a Bologna e il Casale di Mezzani vicino a Parma) apprezzando la qualità della presa in carico delle persone ospitate e gli sforzi tesi a favorire il loro percorso di reinserimento, in dialogo continuo con il territorio. Ma alcune specifiche criticità saranno evidenziate nel Rapporto che sarà redatto sulla visita. Nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa), il Garante osserva che è ancora molto da rielaborare l’esperienza vissuta, soprattutto nella prima fase dell’emergenza sanitaria, talvolta con focolai importanti e un significativo numero di decessi tra gli ospiti. Positiva la riapertura delle strutture agli incontri con i familiari, seppure in maniera protetta, mentre “desta, invece, qualche preoccupazione la mancata adesione al programma di vaccinazione di una parte del personale di talune strutture monitorate”. Riguardo alla vaccinazione, il Garante nazionale dopo la risposta positiva alla richiesta di vaccinare le persone detenute insieme al personale che opera negli Istituti penitenziari, continua a monitorare la situazione affinché sia garantita la tutela della salute di tutti, in qualsiasi condizioni si trovino. Tolmezzo (Ud). Ha il Covid e ha perso 30 chili, ma i Pm lo tengono in galera di Aldo Torchiato Il Riformista, 4 febbraio 2021 Arrestato e incarcerato per accuse di mafia da parte dei pentiti, è detenuto a Tolmezzo da tre anni. Contagiato, depresso, deperito, non ha avuto i domiciliari. “Una storia di ingiustizia”. Antonio Ingroia, ex procuratore aggiunto di Palermo e ora avvocato non ha dubbi: “Benedetto Bacchi non ha nulla a che fare con la mafia”. Ingroia, dismessi i panni dell’accusatore, da qualche anno ha intrapreso la professione forense. Fra i suoi assistiti c’è Benedetto Bacchi, uno dei maggiori imprenditori italiani nel settore dei giochi e delle scommesse. Per i suoi ex colleghi della Procura del capoluogo siciliano, Bacchi avrebbe messo a disposizione delle famiglie maliose la propria rete di agenzie di scommesse, circa settecento in tutta l’Isola. Del milione di euro al mese di profitti, sempre secondo i pm, tra i trecento e gli ottocento mila euro all’anno sarebbero poi stati distribuiti ai clan. Fra le accuse, oltre all’immancabile concorso esterno in associazione mafiosa, una sfilza di reati tra cui il riciclaggio e l’illecita concorrenza aggravata dal metodo mafioso. Bacchi venne arrestato, insieme ad altre trenta persone, nell’ambito dell’operazione “Game over” condotta dalla Squadra mobile e coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Salvo De Luca e dai Pm Roberto Tartaglia, Annamaria Picozzi e Amelia Luise. Dal giorno dell’arresto, avvenuto agli inizi di febbraio del 2018, Bacchi si trova nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo. Il processo è iniziato l’anno scorso davanti alla quarta sezione del Tribunale, presieduta da Riccardo Corleo, a latere Giangaspare Camerini e Andrea Innocenti. Ingroia, dall’altra parte della barricata, sta cercando in questi mesi di dimostrare che Bacchi non mise le proprie aziende a disposizione della mafia “Bacchi ha sempre negato di avere avuto rapporti con la mafia. Le accuse nei suoi confronti si basano solo sulle testimonianze dei pentiti”, esordisce Ingroia. “Purtroppo - aggiunge - non è facile riuscire a dimostrare l’assenza di legami da parte di Bacchi con Cosa Nostra”. L’indagine Game Over, infatti, ha fatto “scuola”. “Ci sono persone che hanno fatto carriera con questa operazione, citato come modello pure dalla Commissione antimafia”, puntualizza Ingroia, toccando con mano gli effetti deleteri delle indagini mediatiche. “Bacchi - prosegue l’ex magistrato - ha scelto di difendersi nel processo, non optando per il rito abbreviato con condanna certa”. A complicare tutto, poi, il Covid. Eh già. Il carcere di Tolmezzo è stato uno dei primi focolai del Covid. Bacchi è stato anche contagiato e ora è in un profondo stato di depressione. Le istanze di scarcerazione sono state sempre tutte respinte. Ingroia, però, non si è perso d’animo e ha presentato nei giorni scorsi ricorso al Tribunale del Riesame. L’ordinanza che ha bocciato la scarcerazione per Bacchi “si caratterizza per uno stupefacente ‘appiattimento’ sul parere del pm, tale da far dubitare che il Tribunale abbia effettivamente sottoposto a vaglio critico le contrapposte ragioni della difesa”. Anche le perizie mediche non sono state prese in considerazione. Bacchi è dimagrito di oltre trenta chili ed è in uno stato di profonda prostrazione dopo tre anni trascorsi in regime di alta sorveglianza, senza poter vedere la propria famiglia a mille e duecento chilometri di distanza. È “stupefacente l’omessa valutazione degli accertamenti clinici attestati dal perito d’ufficio nominato dallo stesso Tribunale”, precisa Ingroia. Il Tribunale, nel respingere la scarcerazione, ha affermato che “...in ogni caso deve essere valutato anche sulla base del rapporto, all’evidenza tutt’altro che equilibrato, esistente tra il notevole peso iniziale e l’altezza del detenuto”. “Secondo il Tribunale, dimagrire in carcere avrebbe quasi fatto bene”, ironizza Ingroia. Per l’ex toga sarebbero venute meno anche le esigenze cautelari: “L’intero impianto accusatorio è formato dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali, nonché dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, tutti escussi come tutti i testi dell’accusa. È evidente, quindi, che l’escussione di tutti i testi del pm, il deposito della perizia sulle intercettazioni, hanno di fatto cristallizzato le prove a carico di Bacchi rendendole assolutamente immodificabili”. La decisione è attesa a breve. Palermo: Covid, contagi in calo nelle carceri ma non al Pagliarelli: 61 i positivi palermotoday.it, 4 febbraio 2021 Reso noto il monitoraggio sull’andamento dell’epidemia fatto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nella casa di reclusione palermitana i casi sono aumentati, in netto contrasto con quanto avvenuto a Rebibbia, San Vittore o Sulmona. Sono 505 i detenuti positivi al Covid attualmente reclusi, 26 quelli ricoverati in ospedale. Il dato, relativo a tutta Italia, è contenuto nel report sulla gestione Coronavirus del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) aggiornato alle 20 di ieri. Il resoconto evidenzia “una riduzione di 49 unità rispetto alla sera del 28 gennaio scorso, ma un aumento di 4 affidati alle cure dei sanitari all’esterno degli istituti penitenziari”. Contagi in calo un po’ ovunque lungo lo Stivale, ma non a Palermo. Al Pagliarelli, dove il numero dei reclusi contagiati era già alto (55 in tutto), oggi ha tocca quota 61. Di questi, quattro sono sintomatici. Netto il calo dei contagi a Rebibbia (Nuovo Complesso) dove in sei giorni si è passati dai 92 casi, che riuscirono a convincere i magistrati del Tribunale di Sorveglianza a concedere i domiciliari all’ex senatore azzurro Denis Verdini, ai 65 dell’ultimo report. Azzerati - a sorpresa - i positivi nella casa di reclusione di Sulmona dove da dieci casi che più volte avevano scatenato l’ira dei sindacati si è passati a una sostanziale immunità, non per gli agenti penitenziari in servizio, cinque dei quali ancora positivi. Migliora la situazione anche nella casa circondariale di Lanciano, dove i detenuti con il Coronavirus sono passati da 26 a 14, ed è evidente il calo negli hub di Bollate e Milano San Vittore dove ad oggi restano rispettivamente 35 e 31 positivi rispetto ai 43 e ai 49 del 28 gennaio scorso. Controcorrente l’andamento del virus nella casa circondariale Pagliarelli-Lorusso, dove il numero dei reclusi contagiati era già alto, 55 in tutto, e che oggi si è alzato raggiungendo quota 61, 4 dei quali sintomatici. Stessa cosa nella casa circondariale di Torino dove a oggi si registrano 31 detenuti positivi, 17 in più rispetto all’ultimo report preso in esame. Così, infine, a Larino, in provincia di Campobasso, dove i 16 positivi al 28 gennaio scorso sono diventati ben 23, tutti asintomatici Roma. Detenuta uccise i figli a Rebibbia, il pm: “Processo alla psichiatra” di Giulio De Santis Corriere della Sera, 4 febbraio 2021 Rebibbia, non ha risposto per 20 giorni alle richieste del direttore che voleva far visitare la reclusa. Alla dottoressa viene contestato il reato di omicidio colposo per la morte dei due piccoli. La procura estrapola almeno tre sollecitazioni inviate alla psichiatra. Non ha mai visitato Alice Sebesta, la mamma affetta da un disturbo schizofrenico che ha ucciso in carcere i figli di 6 e 19 mesi durante la detenzione, nonostante le “ripetute” richieste d’intervento provenienti dalla vice direttrice del carcere. E così ha finito per non valutare le condizioni psichiche della detenuta, assolta dall’accusa di omicidio volontario per vizio totale di mente, dopo che il 18 agosto del 2018 Sebesta ha gettato dalle scale Faith e Divine, ammazzandoli. Per questo la procura ha chiesto il rinvio a giudizio di Loriana Bianchi, psichiatra in servizio nella casa circondariale di Rebibbia femminile. Il pm Eleonora Fini le contesta il reato di omicidio colposo per la morte dei due piccoli. La procura estrapola almeno tre sollecitazioni inviate alla psichiatra fin dal giorno successivo all’ingresso in carcere di Sebesta, 37 anni. A cercarla, secondo la pm, è sempre la vice direttrice del carcere, Gabriella Pedote, su richiesta del comandante del reparto e del personale dell’asilo nido. Ma in tutte le occasioni, la dottoressa avrebbe lasciato le istanze senza alcun seguito. Questa la ricostruzione della procura. Mentre il 28 agosto la 37enne sta trasportando dieci chili di marijuana dalla Germania, viene fermata e poi arrestata. In macchina con lei, ci sono la piccola Faith, sei mesi, e Divine, il bimbo di diciannove mesi. Viene trasferita a Rebibbia, ma senza toglierle i figli. Già il 29 agosto manifesta problemi comportamentali. Il comandante del Reparto, richiamato dalle detenute, segnala “atteggiamenti poco attenti” verso i figli. Nella stessa giornata, il reparto del nido avverte che le compagne di Alice sono “preoccupate per la propria incolumità e quella dei figli”. Il mattino dopo, il 30 agosto, la Sebesta - assistita dall’avvocato Andrea Palmiero - è rimproverata perché vuole dare da mangiare ai figli il riso nascosto nell’armadio e la donna reagisce dimenandosi con il figlio in braccio contro tutte le detenute. Proprio in questa giornata, i comportamenti sono riferiti alla Pedote che contatta la psichiatra, chiedendole un intervento. Tuttavia la dottoressa non avvia il percorso di valutazione della paziente, come invece dovrebbe fare secondo il regolamento. La vice direttrice, di nuovo, contatta la Bianchi il 9 settembre. E anche in questo caso non vi è un seguito. Ancora il 18 settembre, la dirigente rinnova alla dottoressa l’esigenza di una consulenza psichiatrica, per sottoporre la Sebesta al regime della “grande sorveglianza”. Ormai è tardi. Quel giorno, Alice ucciderà i figli. Ancona. Agricoltura sociale a Barcaglione, il Garante premia otto detenuti vivereancona.it, 4 febbraio 2021 Protagonisti otto detenuti che hanno partecipato alle azioni previste nell’ambito del progetto formativo, realizzato dalla stessa Autorità di garanzia con la collaborazione dell’Assam. Nobili: “Attività trattamentali importanti che nonostante le restrizioni previste dall’emergenza epidemiologica sono riuscite a concretizzarsi tra il mese di luglio e quello di dicembre dello scorso anno”. Il Garante Andrea Nobili a Barcaglione per la consegna degli attestati a otto detenuti che hanno partecipato alle azioni previste nell’ambito del progetto formativo “Agricoltura sociale”, realizzato dalla stessa Autorità di garanzia con la collaborazione dell’Assam, sulla base delle esigenze espresse dalla direzione penitenziaria. “Si tratta di attività trattamentali importanti - sottolinea Nobili - che nonostante le restrizioni previste dall’emergenza epidemiologica sono riuscite a concretizzarsi tra il mese di luglio e quello di dicembre dello scorso anno. L’auspicio è che anche nel futuro trovino ospitalità negli istituti penitenziari marchigiani e che vengano adeguatamente incrementate”. Nel progetto attuato a Barcaglione sono stati contemplati tre corsi riguardanti rispettivamente l’abilitazione alla conduzione di trattrici agricole, la sicurezza nei luoghi di lavoro, l’allevamento ovino e la trasformazione del latte. In quest’ultimo caso, sono stati previsti quattro diversi moduli con lezioni teoriche e pratiche sull’igiene e la prevenzione nei medesimi allevamenti e nella trasformazione del latte; sulla gestione dell’alimentazione degli ovini; sul processo di caseificazione; sulla produzione dei formaggi presso una mini struttura attrezzata appositamente nell’istituto penitenziario. Come evidenziato dal Garante, “è emerso un elevato coinvolgimento da parte dei partecipanti con un loro particolare interesse per gli argomenti trattati, a conferma di quanto queste attività possano contribuire ad alimentare il processo di risocializzazione dei detenuti”. L’Aquila. Al 41bis e vietano di salutare altri detenuti, fa ricorso e i giudici gli danno ragione di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 4 febbraio 2021 Il saluto di un detenuto al 41bis va per forza inteso come un messaggio mafioso? Se l’è chiesto la prima sezione della Cassazione, con i giudici che hanno dovuto sfoggiare competenze sociologiche e trasformarsi in esperti di comunicazione verbale e non verbale, e che alla fine hanno deciso di dare ragione al boss di Brancaccio Cesare Lupo, respingendo invece il ricorso del ministero della Giustizia. “Il semplice saluto - scrive infatti il collegio presieduto da Giuseppe Santalucia - non essendovi stata alcuna trasmissione di informazioni da un individuo a un altro, deve essere considerato come neutro perché privo di un vero e proprio intento comunicativo”. Anche se quel saluto lo rivolge il braccio destro dei fratelli stragisti Giuseppe e Filippo Graviano. La querelle nasce dal divieto di saluto imposto dalla direzione dal penitenziario di L’Aquila, dove Lupo si trova al 41bis, tra detenuti al carcere duro e quelli appartenenti ad altri gruppi di socialità. Una misura adottata proprio perché il mafioso aveva salutato un altro recluso. Ed è stato il boss di Brancaccio a impugnare il provvedimento: tutti i giudici gli hanno dato ragione, ma il ministero ha continuato a ribadire la sua tesi - ovvero che il semplice saluto potesse invece essere pericoloso e “celare un messaggio occulto” - in tutti i gradi di giudizio. Nello specifico, il 28 agosto 2019, il reclamo di Lupo era stato accolto dal Magistrato di sorveglianza perché “il saluto rivolto ad un altro detenuto non integra alcuna forma di comunicazione, implicando tale nozione uno scambio di dati, stati d’animo, sensazioni, non ravvisabili nel semplice saluto”. Il ministero aveva fatto ricorso al tribunale di Sorveglianza rimarcando che “il divieto di comunicazione imposto ai detenuti al 41bis ha la finalità di impedire i collegamenti del detenuto che vi è sottoposto con il sodalizio criminoso di appartenenza e che anche il semplice saluto, nelle sue varie forme di estrinsecazione, può celare un messaggio occulto, in quanto l’atteggiamento di riverenza o meno con il quale si esprime potrebbe significare anche una forma di sottomissione verso il soggetto al quale è rivolto, trattandosi di forme particolari che possono assumere un preciso significato nella subcultura carceraria”. Tesi che era stata bocciata, il 28 gennaio dell’anno scorso, con questa motivazione: “Nella semplice dichiarazione di saluto, anche qualora accompagnata dalla menzione di un nome proprio di persona, ma non inquadrata nel contesto di una conversazione, non si può ravvisare una comunicazione in senso proprio, richiedendo il relativo concetto la trasmissione di un’informazione da un soggetto ad un altro, nella specie non ravvisabile”. Il ministero ha però insistito in Cassazione, ma i giudici hanno appunto dato definitivamente ragione al boss. La premessa della Suprema Corte è che “non ogni tipo di interazione può essere ritenuta di natura comunicativa e che la nozione di comunicazione deve essere estesa a ogni manifestazione esteriore in grado di veicolare un contenuto informativo idoneo a vulnerare le esigenze di controllo” come nel caso di Lupo. “La questione - scrivono i giudici - si pone in termini di particolare complessità nei casi di comunicazione occulta, ovvero nelle ipotesi in cui una interazione di carattere apparentemente neutro nasconda un significato diverso da quello apparente”. Bologna. Religione e carcere: sulla via della Dozza di Sergio Ucciero bandieragialla.it, 4 febbraio 2021 Domenica mattina. I preparativi fervono. Barba, un controllo al capello, i vestiti migliori. I più audaci, e fortunati, aggiungono una goccia di profumo. L’appuntamento è di quelli che, in un luogo come quello da cui vi sto scrivendo, potrei definire topico. E non manco mai di chiedermi: ma quanto di sincero c’è, quanto di vero si consuma in quelle poche decine di minuti che intercorrono tra l’inizio e la fine della funzione religiosa? Difficile la risposta. Eppure, per chi ha la ventura di entrarci, le stanze di pernottamento, come ora si chiamano con straordinaria e pomposa definizione le celle, sono tappezzate di immagini di devozione (padre Pio sugli scudi), di rosari e simboli religiosi vari che dovrebbero testimoniare una sensibilità ritrovata (o trovata) verso il sacro, l’interiorità religiosa o, per così dire, la religiosità in senso lato. E allora vien da pensare che, in qualche modo, nel mondo carcerario, l’aspra materialità della condizione spinge a una maggiore riflessione introspettiva, alla ricerca di un senso che impedisca il naufragio definitivo di chi, qualunque sia il reato commesso, cerca di raggiungere un approdo che lo mantenga a galla. E ancora mi chiedo: ma sarà proprio così? O le immagini sono solo segni, icone, simboli che fanno parte della tradizione culturale di un popolo ma che, ormai, sono ridotti a mero fatto estetico, se non peggio, a fatto superstizioso; tanto più quando questi sono esibiti da chi, nel suo percorso criminale, già ne faceva un uso distorto, immorale e lontano dai suoi significati, come ad esempio accade nelle mafie durante i riti di affiliazione. E, a questo proposito, è interessante notare che questo uso strumentale del sacro era pane quotidiano nelle regioni del sud dove si sviluppò il fenomeno del brigantaggio sul finire del settecento e per tutto il primo decennio dell’Italia unita. Ma torniamo al carcere. Le conversioni “sulla via della Dozza” non si contano; e non solo nel mondo cattolico romano, ma anche tra gli ortodossi, sempre più numerosi e tra gli “ospiti” di provenienza araba. Come con la messa, improvvisamente la preghiera, con tanto di chiamate dell’imam di turno, per molti scandisce il passare delle ore e il ramadan è un imperativo a cui non ci si sottrae. Per tradizione, per necessità identitaria, per non sentirsi fuori dal gruppo. E allora, per concludere questo breve scritto, mi chiedo: ma ha poi senso porsi la domanda su quanto, in carcere, c’è di vero in questo avvicinarsi al fattore religioso? O più semplicemente occorre non dimenticare il luogo, l’urgenza, il bisogno di credere che ci sia una promessa, una possibilità; che la vita non finisce dentro una cella, dietro le sbarre. È un sentimento necessario, indispensabile; mi vien da dire: semplicemente umano. E, ne sono convinto, è un sentimento che coinvolge anche chi, per missione evangelica o laica, continua, con testarda determinazione, a percorrere i corridoi delle sezioni per portare una testimonianza “antica” ma, in un mondo di esclusi, di ultimi fra gli ultimi, quanto mai contemporanea. C’è un tempo per le domande e un tempo dell’azione. Ma c’è sempre un tempo di speranza. E, in definitiva, ognuno sa quanto di autentico c’è in sé. Basta questo. Genova. Il progetto teatrale dei detenuti di Marassi a “Italia’s Got Talent” italiasgottalent.it, 4 febbraio 2021 La seconda puntata di Italia’s Got Talent è un turbine di divertimento, risate e talento, ma c’è anche spazio per l’emozione e i sentimenti profondi. Ecco che arriva sul palco Giorgio, un detenuto del carcere Marassi di Genova, a leggere e interpretare un’intensa lettera, che colpisce i nostri giudici Frank Matano, Mara Maionchi, Federica Pellegrini e Lodovica Comello dietro le quinte. Insieme a Giorgio, si uniscono sul palco altri suoi compagni, anche loro detenuti dello stesso carcere: tante voci, un’unica lettera scritta dal punto di vista di chi li aspetta a casa. Le parole si mischiano ai sentimenti e agli errori, regalandoci un’occasione per riflettere su qualcosa su cui non ci soffermiamo spesso. In una performance toccante, sul palco di #IGT appaiono cinque uomini che provano a chiedere scusa e dare sfogo ai propri sentimenti, a quelle parole non dette, creando un’atmosfera molto particolare e commovente. Il progetto di cui i 5 detenuti fanno parte è il Teatro Necessario, un’iniziativa a scopo rieducativo del Carcere Marassi, che ogni anno promuove il reinserimento dei detenuti tramite attività culturali. Fino al 2020, gli spettacoli sono stati portati in scena al Teatro Stabile di Genova. A IGT il nostro scopo è, e sarà sempre anche quello di dare voce al talento del nostro Paese e raccontare le tante realtà che ogni giorno svolgono attività di educazione e reinserimento nella società. Il Teatro Necessario ne è un esempio importante. Quello fatto stasera dai protagonisti ha fatto commuovere e riflettere anche i nostri giudici, che si si sono dimostrati colpiti dall’esibizione e non hanno potuto fare a meno di dare quattro Sì. Italia’s Got Talent è anche questo: si capisce che l’arte può essere una forma di rieducazione, un mezzo utile e importante per la crescita personale, ma anche semplicemente un modo per dire che si è presenti. #IGT 2021 continua a sorprenderci e ad emozionarci, tra esibizioni comiche e momenti profondi. Aspettando ancora Talenti fortissimi, continuate a seguirci ogni mercoledì alle 21.30 su TV8 e sui nostri canali social, commentando sempre con l’hashtag #IGT! In prigione non ci va più nessuno? Un magistrato smaschera i falsi miti di Angela Stella Il Riformista, 4 febbraio 2021 “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”, di Marcello Bortolato e Edoardo Vigna. Nel saggio edito da Laterza il giudice e il giornalista demoliscono, dati e statistiche alla mano, tutti i luoghi comuni sul carcere. “A un linguaggio che alimenta odio va contrapposta una analisi lucida, a partire dalla domanda: a cosa serve la pena?” Qualche anno fa, un detenuto ospitato a Regina Coeli, che stavo intervistando perché vincitore del Premio Goliarda, mi disse: “Il carcere è una cantina sociale: nelle cantine delle nostre case riponiamo gli oggetti che non ci servono più, qui abbandoniamo le persone di cui vogliamo dimenticarci. Quello che succede al di là del muro non interessa a nessuno”. Aveva perfettamente ragione: il carcere vive nell’indifferenza o ignoranza collettiva e, fatta qualche eccezione, anche la politica non riesce ad occuparsene come Costituzione vorrebbe. Il tema rimane circoscritto in una nicchia culturale di addetti ai lavori o tra realtà che si spendono per il rispetto dei diritti umani dei detenuti. In questo contesto, dunque, appare di estrema importanza l’opera divulgativa di Marcello Bortolato, magistrato dal 1990 e attualmente Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, ed Edoardo Vigna, giornalista del Corriera della Sera, che co-firmano il libro “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia” (Editori Laterza 2020, pag. 160, euro 14). Gli autori compiono un viaggio tra i luoghi comuni che connotano la narrazione del carcere e della pena, contaminata dal virus del populismo penale. Ad ognuno di essi è dedicato un capitolo: “Alla fine in carcere non ci va nessuno”, “Dentro si vive meglio che fuori”, “Bella vita: vitto e alloggio gratis e tutto il giorno davanti alla tv”, “Ci vorrebbero i lavori forzati”, “Condannato per omicidio, gode di permessi premio”. L’obiettivo del libro diviene pertanto quello di sfatare tutti questi falsi miti attraverso ricostruzioni storiche, dati scientifici, citazioni letterarie e filosofiche. “Negli anni Settanta - scrivono Bortolato e Vigna - Michel Foucault parlava del carcere come di un “fallimento continuo”. Utilizzava l’espressione “scacco della giustizia penale”: il carcere dovrebbe fare in modo che alla fine non ci sia più carcere. Invece ogni volta smentisce se stesso, perché per sua natura genera a sua volta reati, se non è rieducativo”. Infatti, secondo gli autori, sebbene nella storia la pena abbia avuto diverse funzioni - retributiva, special preventiva, di prevenzione generale e di mera funzione custodiale -, la Costituzione italiana prevede che essa debba prima di tutto rieducare: chi è in prigione è parte della nostra comunità e la maggior parte dei reclusi, prima o poi, comunque esce. Come vogliamo che ritornino in società? Incattiviti per aver vissuto in condizioni indegne o speranzosi in un futuro migliore? Dipende da noi e dalle nostre scelte di politica giudiziaria e penitenziaria. Ci aiutano nelle nostre decisioni i dati statistici: in Italia la recidiva degli ex detenuti è record - sette su dieci tornano a delinquere - ma la percentuale precipita all’uno per cento per l’esigua minoranza di chi in carcere ha potuto lavorare o studiare. Quindi, ammoniscono gli autori, “rinunciare a occuparsi del dopo è una politica da struzzi”, sbandierare sui social “Lasciamoli marcire in carcere!” come banale slogan acchiappa like non solo rappresenta la negazione del nostro Stato di diritto in cui tutti noi viviamo, ma è controproducente per l’amministrazione sociale. Ad un linguaggio politico violento che alimenta un odio collettivo verso chi commette un reato va contrapposta una analisi lucida che parte dalla domanda “a cosa serve la pena?”. Il punto fondamentale - dicono gli autori - “è che non bisogna sempre pensare al carcere come unica risposta anche per i reati meno gravi”. Pensiamo ai reati finanziari: “può far piacere al risparmiatore vedere il direttore della banca o un grande finanziere che ha commesso qualche crimine ai suoi danni finire in carcere per questo. Ma l’esperienza ci dice che in tali casi sarebbero assai più efficaci sanzioni pecuniarie o interdittive”. Di fronte a chi invece sostiene la funzione deterrente della pena, Bortolato e Vigna richiamano il caso degli Stati Uniti dove “nonostante il tasso di carcerazione più alto al mondo e pene elevatissime le persone continuano a delinquere, pure negli Stati in cui è ancora prevista la pena di morte”. Dunque certezza della pena non deve significare solo certezza del carcere e Bortolato e Vigna lo dimostrano nei vari capitoli, di cui non vi anticipiamo altro, se non la conclusione: “la vittima, sia essa collettiva o individuale, non può trovare soddisfazione nel fatto di vedere il suo carnefice semplicemente chiuso in una cella [...] una pena che sia solo vendetta pubblica e null’altro ha fallito il suo scopo”. Se il carcere diventa una vendetta pubblica di Stefano Piedimonte Corriere del Mezzogiorno, 4 febbraio 2021 “Certi discorsi suonano difficili in tempo di affanni e di croniche emergenze. Il gioco delle privazioni produce cattiveria, la rabbia umana diventa rabbia canina, le bocche schiumano, ognuno pensa a sé. Come sempre, si dirà, ma adesso un po’ di più. Diventa facile dimenticarsi degli altri, di quelli che se la passano male, se tutti, in fondo, ce la passiamo male. Soprattutto se quegli altri, come si dice, se la sono cercata. Ma è qui che la società regredisce di colpo, che ci sembra quasi di sentirne il tonfo e talvolta perfino il tanfo”. “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia” è il titolo del libro che il magistrato Marcello Bortolato e il giornalista e scrittore Edoardo Vigna hanno pubblicato con l’editore Laterza (151 pp, 14 euro). È un titolo che riassume sostanzialmente la domanda di fondo: ma noi, noi come Stato, cosa vogliamo di preciso dalle persone recluse? Pretendiamo vendetta? Pretendiamo che patiscano? O ci auguriamo, piuttosto, che tornino nella società, così come prescrive l’articolo 27 della Costituzione che recita: “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”? È una domanda importante: la risposta che diamo serve a valutare la grana sociale di un paese. Ed è chiaro che se si auspica per i detenuti un trattamento non umano, non si potrà sperare che rientrino nella società come persone migliori, poiché nessuno migliora se viene trattato come una bestia. Bortolato, che dal 2017 presiede il tribunale di sorveglianza di Firenze, e Vigna, nota firma del Corriere, offrono un punto di vista che parte da due posizioni distinte, cioè quella del tecnico e quella del cronista, e si fonde in un unico sguardo che è rigoroso ma non per questo arido. In questo, il saggio fornisce una prospettiva complementare a quella squisitamente narrativa - penso fra i contemporanei al bellissimo “Dentro”, scritto per Einaudi da Sandro Bonvissuto, e all’ottimo “Cattivi”, pubblicato per lo stesso editore da Maurizio Torchio, o a L’uomo che amava i libri, di George Pelecanos (Sem), che tratta il tema della letteratura in carcere - e non è rivolto, come si potrebbe credere, a un pubblico di addetti ai lavori, ma anzi si lascia apprezzare proprio per la sua cifra ibrida e divulgativa. Gli autori fanno iniziare ogni capitolo partendo da un luogo comune sui detenuti - e ce ne sono molti: “Alla fine in carcere non ci va nessuno”, “Dentro si vive meglio che fuori”, “Beati loro che hanno vitto e alloggio gratis”, “Ci vorrebbero i lavori forzati”, “Questi si fanno pure i permessi premio” - per opporre la logica dei fatti e dei numeri a quello che viene indicato come “populismo penale” e alla furia forcaiola, una furia che, vediamo bene in questi mesi, si dimostra tanto più trasversale quanto più la crisi s’inasprisce. La realtà dei fatti è che al 31 marzo 2020 i reclusi nei 190 istituti penitenziari italiani erano circa ottomila in più rispetto ai 50.754 previsti. Può sembrare poco, ma è un numero enorme. È dimostrato, e lo spiegano gli autori, che nelle situazioni di promiscuità e di sovraffollamento la tenuta psicologica delle persone recluse precipita. E questo, ancora, non le rende delle persone migliori. Spesso provoca disordini, altrettanto spesso è causa di suicidi. Nel carcere napoletano di Poggioreale, al 31 dicembre 2019 c’erano 2.090 detenuti contro i 1.636 consentiti, il che ne fa una delle carceri più sovraffollate d’Italia. Vaccini, ecco il nuovo piano. Da lunedì si parte anche con prof, forze dell’ordine e detenuti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 4 febbraio 2021 Agli under 55 di queste categorie verrà somministrato il farmaco di AstraZeneca. L’obiettivo è immunizzare altri sette milioni di persone entro aprile. Più dosi alle regioni con più anziani. Priorità anche alle persone vulnerabili. Sette milioni di italiani immunizzati entro aprile, oltre a quelli già vaccinati nella fase uno. E dalla prossima settimana, oltre agli over 80 e alle persone fragili e con vulnerabilità, si parte anche con insegnanti, personale scolastico, forze dell’ordine, detenuti e personale delle carceri. A queste categorie, per le persone con meno di 55 anni, andrà il vaccino di AstraZeneca la cui prima fornitura è attesa per lunedì. “Il tetto anagrafico di AstraZeneca potrebbe essere superato in futuro dopo ulteriori valutazioni scientifiche”, ha detto il ministro della Salute Roberto Speranza nel corso della riunione con le Regioni a cui hanno partecipato anche il ministro per gli Affari regionali Boccia e il commissario per l’emergenza Arcuri. Il nuovo piano - La rimodulazione del piano, che prevede la somministrazione di quattordici milioni di dosi nei prossimi tre mesi, terrà conto anche di un nuovo criterio di distribuzione per la fase 2. Così come chiesto dai governatori verranno inviate più dosi alle regioni con una maggiore platea di anziani da vaccinare. Questo avverrà non da lunedì ma da metà di febbraio, il tempo di comunicare alla Pfizer (che cura direttamente le consegne) i nuovi quantitativi. Poi verrà nuovamente osservato il criterio relativo alla popolazione residente. “La campagna di vaccinazione resti fuori da crisi e da contese politiche. È la cosa più importante per tutto il Paese”, ha detto il ministro Speranza. Speranza guarda a Sputnik - Sul vaccino russo “non dobbiamo avere timori delle origini dei vaccini, quello che per noi è importante è il passaggio Ema. A questo proposito, abbiamo sollecitato l’Unione europea alla valutazione scientifica su quest’ultimo e quello di altri paesi”, ha spiegato il ministro Speranza che ha ribadito le sue aspettative sugli anticorpi monoclonali. “ I vaccini sono essenziali ma si valutano anche altre opzioni, da questo punto di vista stiamo accelerando sugli anticorpi monoclonali”. Accordo con i medici di base - Intanto le Regioni si muovono per coinvolgere anche i medici di famiglia nella campagna vaccinale. Secondo un accordo di massima i sanitari dovrebbero ricevere 10 euro per una somministrazione a studio e 28 euro se l’iniezione avviene in casa del paziente. In vista c’è un protocollo quadro nazionale per la partecipazione dei medici di base - decine dei quali sono morti dopo essersi ammalati - anche in questa fase della guerra al virus. “Si procederà a un accordo quadro con i medici di medicina generale per coinvolgerli in questa campagna vaccinale al fine di raggiungere una gran parte della popolazione e in particolare i malati cronici o con specifiche patologie - ha detto il presidente della Conferenza delle Regioni Bonaccini -. Non c’è tempo da perdere, le Regioni sono pronte a offrire la massima collaborazione perché la campagna vaccinale ritorni ai ritmi delle prime settimane e anzi venga velocizzata”. Boccia: la campagna non si ferma - “La crisi in atto e le soluzioni che stanno avanzando non devono in nessun modo pregiudicare il lavoro svolto finora di collaborazione e unità istituzionale - dice il ministro per gli Affari regionali Boccia - Siamo stati insieme al centro di una sfida epocale - aggiunge il ministro - E le scelte che abbiamo fatto hanno permesso di tenere il virus sotto controllo senza chiudere il Paese, l’Italia non si è fermata e potrà ripartire forse anche più competitiva”. Chiusi in casa, zero scuola e genitori ostili: boom di adolescenti che tentano il suicidio di Grazia Longo La Stampa, 4 febbraio 2021 L’allarme lanciato da Telefono Azzurro: durante il lockdown è esploso il disagio fra bambini e ragazzi. No, non c’è soltanto la crisi economica tra le principali conseguenze del lockdown attuato per arginare il coronavirus. Uno dei problemi che più si impone negli ultimi mesi è il profondo disagio degli adolescenti. Da una ricerca di Telefono azzurro, la Onlus che dal 1987 fornisce ascolto a bambini e ragazzi che vivono situazioni di abuso e malessere, emerge che sono aumentati a dismisura i tentativi di suicidio, il suo ricorrente pensiero (la cosiddetta “ideazione suicidaria”) e gli atti di autolesionismo. Isolamento forzato, eccessiva didattica a distanza, convivenza difficile con i genitori, impossibilità di frequentare i coetanei scatenano spesso fragilità che non tutti gli adolescenti sanno affrontare senza soffrire così tanto da cercare la morte. Le cifre fanno paura. Nel 2020, al numero ascolto e consulenza 19696 di Telefono azzurro, le chiamate per tentativi di suicidio sono state il 121% in più del 2019 (86 casi rispetto a 39); quelle per ideazioni suicidarie costituiscono il 68% in più rispetto al 2019 (385 rispetto a 229); le richieste di aiuto per gesti autolesivi sono lievitate dell’84% rispetto al 2019 (325 contro 177). E non va meglio neppure all’altro numero telefonico, il 114, che la onlus gestisce per conto della presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per le Politiche della Famiglia. Qui nel 2020 si è registrato il 50% in più rispetto al 2019 di casi di tentativo di suicidio (21 episodi contro 14); il 53% in più rispetto al 2019 di ideazione suicidaria (89 casi contro 58); il 7% in più di atti autolesivi (49 rispetto a 46). Il fondatore e presidente di Telefono azzurro, Ernesto Caffo, docente di neuropsichiatria infantile all’Università di Modena e Reggio Emilia, non nasconde la sua preoccupazione: “Purtroppo con il lockdown e la conseguente impossibilità di seguire sempre le lezioni a scuola vengono meno i rapporti sociali. Un grave limite per gli adolescenti più esposti che non riescono a condividere con nessuno le fantasie negative. Per cui le idee suicidarie si annidano dentro e scavano solchi difficili da sormontare. Per i giovanissimi la fisicità è più importante rispetto agli adulti: i ragazzi parlano con il corpo, che costituisce un modo per rappresentarsi e mettersi in gioco”. Gli adolescenti comunicano molto tra di loro attraverso i social media, ma questi “non fanno altro che amplificare il loro disagio e diventano spesso lo strumento per dimostrare agli altri come sfidare la morte. Il tema della morte è molto cool, di moda, per gli adolescenti perché è fonte di mistero e di attrazione. L’adolescente più fragile vede come atto eroico il gesto di uccidersi”. L’emergenza italiana non è peraltro un’eccezione. A livello internazionale, diversi studi hanno riportato un peggioramento della salute mentale di bambini e adolescenti durante i mesi di pandemia. Alcuni studi hanno anche indagato il trend dei tassi di suicidio tra i più giovani. Telefono azzurro ha, infatti, rilevato che in Giappone (report Tanaka e Okamoto) si è verificato un incremento generale del 16% del tasso di suicidi durante la seconda ondata del virus (luglio-ottobre 2020). Per quanto riguarda nello specifico bambini e adolescenti, questa percentuale ad ottobre 2020 è salita al 49%. E secondo l’ultimo report del National Child Mortality Database, nel 2020 il suicidio è stato la causa del 4% dei decessi dei bambini, rappresentando il 10% delle morti tra i 10 e i 14 anni e il 31% delle morti dei 15-17enni. Tornando all’Italia, l’impegno di Telefono azzurro, nell’ultimo anno, si è concentrato anche sull’utilizzo di chat, whatsapp e app, per favorire le richieste di aiuto dei minori che avevano difficoltà a fare una telefonata nell’ambiente ristretto della propria abitazione. “Per alcuni ragazzini è impossibile parlare al telefono senza essere controllati da genitori con i quali magari esistono gravi conflitti - spiega la psicologa Simona Maurino, responsabile del 114 -. Durante il lockdown, la percentuale dei contatti attraverso la chat del nostro sito, www.azzurro.it, è aumentata del 263%”. Droghe. Oggi c’è un’altra San Patrignano di Monica Bogliardi Grazia, 4 febbraio 2021 Più ragazze nei posti di comando, rifiuto della violenza, possibilità di studiare. Negli anni la comunità per tossicodipendenti fondata da Vincenzo Muccioli è stata ripensata per cancellare le ombre del passato, come quelle raccontate nei recenti documentari. Ma resta viva l’idea del suo fondatore: creare un universo separato dove per liberarsi dalla droga bisogna seguire regole severe San Patrignano, sulle colline riminesi di Coriano, nasce comunità ma diventa cittadina: 270 ettari, 1.200 abitanti, ospedale, centro medico, distaccamenti di scuole superiori. La più grande struttura per tossicodipendenza d’Europa ha un programma di recupero, gratuito, a lungo termine: in media gli ospiti rimangono lì fra i tre e i quattro anni. In queste settimane è stata sotto i riflettori per il docufilm Netflix SanPa. Luci e tenebre di San Patrignano, basato sui primi 15 anni di vita del centro, che ha posto l’accento sui metodi a volte violenti degli ex tossicodipendenti messi a capo di settori della comunità e affiancati ai ragazzi appena entrati. Ma come è oggi San Patrignano? Che cosa resta e che cosa è cambiato di quella comunità fondata da Vincenzo Muccioli nel 1978 e che oggi reinserisce in società con un lavoro il 90 per cento dei suoi ragazzi? Il 72 per cento di quelli usciti a fine percorso, secondo studi realizzati dalle università di Urbino, Bologna e Padova, non ricade nella droga. Oggi come ieri regole e disciplina sono severi. Vietati cellulari e computer per uso personale. Vietato uscire dalla comunità. Vietato intrattenersi con ospiti di altri settori. Vietati i contatti tra maschi e femmine. Dopo ogni tranche di percorso c’è la cosiddetta verifica. La più importante è quella che, dopo tre anni, permette di tornare a casa per una settimana. “Solo dopo un anno si riceve la visita dei genitori. E non puoi parlare con persone di altri settori: per me quello è stato più difficile che rinunciare a cellulare e social. Ma poi capisci che certe regole servono a non farti distrarre dal compito principale: ricostruire se stessi”, dice Tiziana Filippi, a San Patrignano in forze al settore cucina. “Assumevo cannabis e alcol insieme: quando ho distrutto una macchina in un incidente ho chiesto di entrare qui, un anno e 11 mesi fa. Ho avuto momenti di crisi, non avevo un buon rapporto con la mia tutor. Ma ho trovato un affetto, un calore nel mio team che mi hanno dato la carica giusta”. Le droghe che oggi la comunità affronta sono diverse da quelle di ieri. Un tempo c’era solo l’eroina, e niente alcol. “Il 50 per cento dei ragazzi soffre per una multi-dipendenza, come quella da eroina e cocaina insieme. Molti hanno assunto le droghe chimiche. Tanti, sempre di più, iniziano con cannabis e alcol insieme. Oggi ci concentriamo anche sulla dipendenza psicologica: il 90 per cento dei ragazzi entra già disintossicato”, dice Antonio Boschini, storico responsabile terapeutico, a Coriano da 41 anni. L’altra novità è che si è abbassata l’età media degli ospiti. Oggi in comunità ci sono due centri per minori, spesso inviati dai giudici minorili, e si sta aprendo il terzo. “Anche per i minori il percorso terapeutico si basa sul recupero dell’autostima, che il tossicodipendente non ha più. Ricostruire una solidità affettiva e avvicinarsi a una passione professionale sono fondamentali. Questi sono i due segreti della nostra ricetta, al netto degli errori che, certo, sono stati fatti in passato”. Infine, a San Patrignano è arrivata la psicoterapia. “Abbiamo capito che per alcuni ragazzi sono necessarie sedute psicoterapeutiche per curare traumi preesistenti alla dipendenza”, dice Boschini. Nel 2021 San Patrignano è una realtà formativa: i suoi comparti, dalla carpenteria alla tessitura, danno titoli di studio. Alcuni, come quello delle carte da parati, sono un’eccellenza internazionale e ricevono commesse da tutto il mondo. Ci si può laureare. E la comunità vuole diventare una realtà produttiva indipendente dal punto di vista economico, almeno per i fabbisogni ordinari. “La produzione interna gestita dai ragazzi, penso agli allevamenti e ai servizi, copre il 70, il 75 per cento delle spese; il resto è garantito da eventi e donazioni”, dice il presidente Alessandro Rodino Dal Pozzo. “Purtroppo il Covid-19 ha ridotto gli ingressi nel 2020 e annullato le visite esterne: ogni giorno avevamo quattro bus scolastici in visita, perché ci occupiamo anche di prevenzione con le scuole”. Da SanPa sono passati 26 mila tossicodipendenti. Tutti hanno lavorato. “Ho visitato più volte la comunità l’anno scorso e ho visto i ragazzi darsi da fare in un’atmosfera di vero affetto”, dice Giorgio Gandola, autore del libro-reportage Tutto in un abbraccio (Panorama). “I due capisaldi dell’insegnamento di Vincenzo Muccioli, sentirsi amati e riacquistare la dignità del lavoro, sono ancora lì. Molti ragazzi si sono salvati non solo dalla droga ma dal carcere minorile”. Dal 1978 a oggi sono infatti 4.000 gli anni di carcere che sono stati convertiti in percorsi di recupero. Ma la vera sfida di SanPa è mantenere le linee guida di Vincenzo Muccioli e adattarle ai continui cambiamenti. “Non sono diverse solo le droghe, ma anche le sofferenze dei ragazzi”, dice la regista Maria Tilli, l’anno scorso presente a San Patrignano per realizzare Lontano da casa, intenso docufilm prodotto da Rai Cinema, ora su RaiPlay. “Ho visto ragazzi arrivati alla droga soprattutto perché, ognuno in modo diverso, si sentivano inadatti alla vita. E la droga era la scappatoia. La comunità, che non è certo permissiva come un centro di riabilitazione californiano, permette loro di riprendersi pezzo per pezzo la vita in mano. Senza più maschere”. Parte della cura è proprio l’assunzione di responsabilità. Oggi è trasversale perché riguarda sia ragazzi sia ragazze, in un ambiente che non ha più connotati sospettabili di misoginia. E lo dice anche chi ormai ce l’ha fatta. “Per me diventare l’angelo custode di una ragazza è stata la svolta. Prendersi in carico una persona più indietro nel percorso che tu capisci, perché ragiona come facevi tu un anno prima, è vincente. E poi oggi ci sono molte ragazze a capo di settori della comunità”, dice Giulia Alessandroni, che oggi lavora vicino a Latina, nella società del fidanzato. “Sono stata ospite per quattro anni. Ero dipendente da eroina e cocaina. Nel settore tessitura ho scoperto di avere talento per il rammendo. Mi hanno mandato a fare un tirocinio nella cittadina di Trivero, vicino a Biella, per il marchio Zegna. Che poi mi ha proposto un’assunzione. Ho rifiutato perché non volevo lavorare a 1.000 chilometri di distanza da famiglia e fidanzato. Ma sono contenta lo stesso: oggi ho una vita normale. E tutte quelle rinunce, quelle regole severe mi hanno fatto diventare una persona che sa vivere in mezzo agli altri. Che poi è quello che tutti desideriamo”. Social-media. TikTok obbedisce al Garante della Privacy di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 4 febbraio 2021 L’azienda cinese proprietaria della piattaforma di video-sharing dal 9 febbraio rimuoverà i profili dei minori sotto i tredici anni. Nel futuro potrebbe usare l’intelligenza artificiale per bloccare chi fornisce un’età fasulla. Con notevoli rischi per la privacy. Gli italiani minori di 13 anni non potranno più iscriversi a TikTok. L’azienda cinese proprietaria della piattaforma di condivisione video, ByteDance, ha deciso di collaborare con il Garante Italiano per la Protezione dei dati personali che gli aveva intimato di bloccare il trattamento dei dati degli infratredicenni dopo un triste fatto di cronaca. Pochi giorni fa una bambina di 10 anni era rimasta vittima di un incidente mortale, forse a seguito di una presunta challenge vista su TikTok, la #Blackoutchallenge, che sfidava gli utenti a misurare la propria resistenza al soffocamento. Della famigerata challenge, nota ai giovani, non ci sono più tracce e lo stesso Garante era intervenuto sulla base di notizie di stampa. Le “challenge”, nel gergo delle piattaforme, sono le gare in cui ci si sfida in performance di ballo, prove ginniche, dimostrazioni di resistenza. Alcune di esse, pubblicate su Youtube prima del loro divieto, invitavano a gareggiare a chi ingoia il maggior numero di palline di detersivo per la lavatrice, altre consistono nel darsi fuoco dopo essersi cosparsi di alcool. Vengono raccolte in compilation e pubblicate sui social. Così, adesso, a partire dal 9 febbraio, Tik Tok chiederà agli utenti di indicare di nuovo la loro data di nascita prima di continuare ad utilizzare l’app rimuovendo i minori di 13 anni. Poiché non è certo che i ragazzi dichiareranno con sincerità l’età, la piattaforma ha comunicato che potrebbe valutarla con sistemi indiretti. Come? Usando l’Intelligenza Artificiale (IA), previo un accordo con l’Autorità privacy dell’Irlanda dove ha l’azienda ha il suo stabilimento principale. Il rimedio potrebbe essere peggiore del male. La verifica dell’età può implicare la raccolta e l’analisi di tutti i dati riferibili a un utente, dall’indirizzo Ip con cui si connette alla rete fino al setaccio di dati e comportamenti attraverso tecniche di psicometria e biometria facciale, settore in cui i cinesi sono all’avanguardia. Bytedance infatti non si occupa solo di piattaforme digitali quanto piuttosto di servizi basati su algoritmi di machine learning come nel caso del suo un aggregatore di news, Toutiao, costruito sulle preferenze e sui gusti degli utenti. Già adesso TikTok utilizza l’intelligenza artificiale per analizzarne interessi e gusti con lo scopo di personalizzare i contenuti. Come fanno? Quando si entra in un social i contenuti proposti sono suddivisi per fascia d’età e anno di nascita. La fascia d’età viene dedotta dai comportamenti in-app come like, commenti, frequenza di scorrimento dei post, orari e frequenza di connessione, e poi dalla rete di amicizie. Con questi metodi TikTok è già in grado di individuare abbastanza bene i 14-17enni ma non i giovani sotto i tredici anni perché, dicono, non possono raccoglierne i dati. Motivo per cui i titolari della piattaforma - ci dice Guido Scorza - componente dell’Autorità garante, vorrebbero una norma di riferimento. Eppure potrebbero fare ipotesi abbastanza precise per sottrazione, usare i codici delle carte di debito e di credito o i token Spid degli adulti. Aprire all’uso dell’IA per l’age verification invece potrebbe aprire una più profonda voragine nella privacy di adulti e ragazzi. Anche per questo occorrerà valutare con attenzione la futura nuova Informativa Privacy di Tik Tok per i minori di 18 anni. TikTok adesso ha un miliardo di utenti. Nel 2018 era stata multata dalle autorità americane proprio per la mancata verifica dell’età degli utenti e l’anno scorso Antonello Soro aveva investito i Garanti europei del rischio pedofilia sulla piattaforma. La pandemia di Aids: le cure negate in Africa e gli errori da non ripetere con il Covid La Stampa, 4 febbraio 2021 Come è cambiata nei paesi poveri la strategia sanitaria anti-Hiv. L’analisi dello storico Roberto Morozzo della Rocca. “Nessuno si salva da solo”, ha ribadito più volte papa Francesco indicando alle nazioni una via condivisa per uscire dall’emergenza Covid a partire dall’accesso universale ai vaccini. L’errore da non ripetere è quello di non estendere ai paesi poveri i trattamenti sanitari come è avvenuto per lunghi anni con le pandemia di Ebola e di Hiv. A documentare questo tragico errore nella strategia globale di contenimento dei virus è il professor Roberto Morozzo Della Rocca, ordinario di Storia contemporanea all’Università RomaTre e impegnato nei progetti di cooperazione internazionale della Comunità di Sant’Egidio. Come si è invertita la rotta - Lo storico ha appena pubblicato con Laterza un saggio sulla storia dell’Aids in Africa: “La strage silenziosa. Come l’Africa ha rischiato di morire di Aids e come si è invertita la rotta” (con la prefazione di Jeffrey Sachs). Un tema particolarmente attuale per la connessione ai temi sanitari dell’emergenza Sars-Cov-2. “Si tratta della storia di una pandemia che ha preceduto in certo senso Ebola e poi ora Covid-19, e che fa riflettere sui comportamenti del nostro mondo globale- spiega alla Stampa.it lo storico Morozzo della Rocca- Mentre in Occidente c’erano le cure, tra 1996 e 2002 in Africa erano considerate impossibili. Così non era, ma dominava un afro-pessimismo. Poiché la gran parte dei malati di Aids era in Africa, si sono avute decine di milioni di morti, evitabili se si fosse osato oltre il politicamente corretto”. Vent’anni fa l’Aids ha messo a rischio la sopravvivenza di un intero continente nell’indifferenza delle maggiori istituzioni internazionali. Dal 1996 le cure per l’Aids, in Occidente, esistevano. E si poteva sopravvivere in buona salute. Cure negate - All’Africa invece le terapie erano negate, sebbene in quell’area i malati si contassero a milioni e non a migliaia come nei paesi ricchi. Perché questo doppio standard? Si dubitava della capacità degli africani di assumere regolarmente le medicine; le fragili sanità pubbliche africane erano considerate inefficienti; i costosi farmaci antiretrovirali contro l’Aids, che in Occidente salvavano vite, apparivano un lusso (senza però che i corrispettivi farmaci generici, a basso costo, fossero presi in considerazione, per tutelare gli interessi delle multinazionali farmaceutiche). Dominava insomma un afro-pessimismo: curare i malati di Aids nelle regioni subsahariane veniva giudicato una perdita di tempo e denaro. E intanto, la durata media della vita crollava e le economie collassavano. Malgrado gli sforzi di figure come Kofi Annan, Stephen Lewis, Jeffrey Sachs e di tanti medici e volontari sul campo, l’opzione terapeutica si sarebbe affermata in Africa lentamente. L’accesso universale alle terapie sarebbe stato convenuto a livello internazionale soltanto intorno al 2015. La storia di come si è invertita la rotta nel nome della necessità di salvare il numero più alto possibile di vite è una lezione esemplare che ci può aiutare ad affrontare meglio il presente. Russia. Navalny condannato a tre anni e mezzo di carcere di Emiliano Squillante Il Manifesto, 4 febbraio 2021 L’oppositore di Putin condannato dal tribunale russo. Lavrov: il Novichok montatura. Il tribunale di Mosca ha condannato l’oppositore russo Aleksej Navalny a tre anni e mezzo di carcere, dopo aver esaminato la commutazione della libertà vigilata disposta nei suoi confronti nel caso Yves Rocher in una pena detentiva. La decisione non è ancora entrata in vigore, dal momento che la difesa ha annunciato di voler presentare ricorso contro la decisione. Leggendo le motivazioni della sentenza, che soddisfa la richiesta presentata dal Servizio penitenziario federale a fronte delle violazioni della libertà vigilata commesse da Naval’nyj dal 2018, la giudice Natalja Repnikova ha precisato che l’oppositore trascorrerà in carcere “solo” due anni e otto mesi, essendo stato detratto dalla condanna il tempo trascorso ai domiciliari. Una sentenza che acuisce le tensioni nello scenario russo, con gli arresti dei sostenitori dell’oppositore che continuano a susseguirsi: oggi l’organizzazione Ovd-Info ha riferito di 358 arresti nei pressi del tribunale, e una manifestazione è stata convocata per stasera. Una mossa, quella delle autorità russe, che mostra il timore con cui a Mosca guardano alla vicenda, e che sicuramente non contribuirà ad attenuare le pressioni dall’estero. Una sentenza più “morbida” avrebbe infatti testimoniato la volontà di trovare un compromesso evitando un irrigidimento della repressione, alimentando l’immagine di un paese autoritario ma non dittatoriale e togliendo di fatto un’arma ai critici occidentali. Si sarebbe evitata, insomma, una deriva repressiva che potrebbe risultare pericolosa, andando potenzialmente ad aprire - dopo la Crimea - un ulteriore punto di contenzioso sui diritti umani, che in Russia era già presente ma non sotto i riflettori internazionali. Proprio su quest’ultimo punto si è espressa Natalja Zviagina, direttore dell’ufficio di Amnesty International a Mosca, sottolineando anche come gli “arresti amministrativi” disposti per molti sostenitori di Navalny stiano sovraffollando le carceri durante la pandemia. “Una vendetta nei confronti di Naval’nyj e dei suoi sostenitori: la sentenza ha rivelato il volto delle autorità russe, intenzionate a chiudere in carcere chiunque denunci la repressione”, ha detto. La condanna è stata appresa con “costernazione” anche dalla Farnesina, secondo la quale la detenzione “conferma la tendenza alla soppressione dei diritti fondamentali” nel Paese. Gli sviluppi del caso aggravano poi la tensione che da giorni si respira nei rapporti tra Mosca e Bruxelles, soprattutto in vista della visita a Mosca dell’Alto rappresentante Josep Borrell, in programma dal 4 al 6 febbraio. Lo stesso Borrell è intervenuto su Twitter definendo la condanna “in contrasto con gli impegni internazionali della Russia” e chiedendo il rilascio immediato dell’oppositore. La vicenda di Naval’nyj, così come le preoccupazioni per i diritti umani in Russia, avrà sicuramente peso nell’agenda della visita: ipotesi avvalorata anche dal portavoce della Commissione europea Peter Stano, che ha confermato “la volontà di incontrare Navalny se sarà possibile”. Prese di posizione cui è seguita la risposta delle autorità russe: il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha ribadito che il tema “è a discrezione di giudici e inquirenti”, mentre più duro è stato il commento del ministro degli esteri Lavrov che ha parlato dell’avvelenamento dell’oppositore come di una “messa in scena”. Il caso assume quindi una connotazione geopolitica, e le modalità con cui il Cremlino ha gestito la vicenda hanno sicuramente contribuito a renderlo tale. In questo contesto si inseriscono anche tensioni internazionali in cui entrano in gioco anche Stati Uniti, Francia e Germania nel caso della costruzione del gasdotto Nord Stream 2. Le pressioni di Washington, insieme alla richiesta delle autorità francesi di sospendere i lavori di costruzione, mettono in difficoltà la Germania, che per il momento non sembra tuttavia intenzionata ad accettare tali richieste visti gli interessi in campo. Il raddoppio del Nord Stream consentirebbe infatti di rafforzarsi configurandosi come piattaforma del gas europea. Proprio da Francia e Stati Uniti sono arrivate dure condanne alla sentenza: il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha ribadito la richiesta di “rilascio immediato e incondizionato”, mentre il presidente francese Emmanuel Macron ha definito la condanna “inaccettabile” in un tweet. Russia. Proteste per Navalnyj: il giornalista Smirnov in carcere per un “retweet” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 4 febbraio 2021 Il direttore di Mediazona, sito indipendente sugli abusi della legge, non ha mai partecipato a un corteo. Era stato arrestato davanti al figlio di cinque anni. Oltre 11mila le detenzioni legate alle manifestazioni per chiedere il rilascio di Aleksej Navalnyj. Non ha mai partecipato a un corteo non autorizzato, non ha mai invitato la popolazione a scendere in piazza, eppure il giornalista Serghej Smirnov, direttore di un sito media russo indipendente, è stato condannato a 25 giorni di carcere per “organizzazione di proteste di massa” per aver ritwittato una battuta sulla protesta del 23 gennaio per chiedere la scarcerazione di Aleksej Navalnyj. Una sentenza “ingiusta, assurda e vergognosa”, l’ha definita il Sindacato dei giornalisti e operatori dei media russo. E anche ironia dal momento che Smirnov è il direttore di Mediazona, il sito indipendente fondato dalle Pussy Riot sulle ingiuste detenzioni e gli abusi del sistema giudiziario. Il tribunale Tverskoij di Mosca ha riconosciuto Smirnov colpevole di aver ripetutamente violato la legge sull’organizzazione di una manifestazione. La sua colpa: aver ritwittato una battuta sulla sua presunta somiglianza con Dmitrij Spirin, il leader del gruppo punk Tarakany! (Scarafaggi!), che era accompagnata da una foto del cantante che segnalava l’ora e giorno dell’appuntamento delle proteste che hanno visto migliaia di russi scendere in piazza per chiedere il rilascio di Navalnyj. Smirnov era stato fermato lo scorso sabato 30 gennaio mentre passeggiava con il figlioletto di cinque anni nei pressi della sua abitazione. Era stato rilasciato solo diverse ore dopo, ma con l’obbligo di comparire in tribunale oggi mercoledì. Oltre 30 testate russe si erano mobilitate per la sua scarcerazione. “Prendere di mira Serghej Smirnov ha un solo obiettivo: terrorizzare la gente”, aveva commentato Meduza. Proteste in centinaia di città russe si sono tenute il 23 e 31 gennaio per chiedere il rilascio di Aleksej Navalnyj arrestato al suo rientro a Mosca dopo cinque mesi di convalescenza in Germania dove è stato curato dopo essere stato avvelenamento col Novichok. Con l’accusa di aver violato la libertà vigilata per un vecchio caso risalente al 2014, ieri un giudice ha convertito in detenzione la sua condanna a tre anni e mezzo di carcere. Al netto dei mesi già passati ai domiciliari, l’oppositore dovrà trascorrere in cella almeno due anni e otto mesi. Ma rischia ulteriori condanne in altri due processi. Le proteste seguite ieri al verdetto, secondo l’ong Ovd-Info, hanno portato all’arresto di oltre 1.400 persone, la maggior parte a Mosca. Salgono così a oltre 11mila i fermi legati alle manifestazioni per chiedere il rilascio di Navalnyj. Tra loro anche molti giornalisti. Egitto. Patrick Zaki è uno di noi: l’Italia abbia il coraggio di salvarlo dalla tortura di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 4 febbraio 2021 Un anno fa veniva incarcerato al Cairo. Ora affronta 45 nuovi giorni di tortura. Il nuovo governo si dia una priorità: la cittadinanza italiana a Zaki, per fare più pressioni sull’Egitto. Ma in fondo chi se ne frega di un ragazzo egiziano che da un anno se ne sta in un carcere del Cairo senza processo e senza colpe, che si è appena preso altri 45 giorni di tortura, soffre d’asma ed è più che indifeso dal rischio Covid. Dispiace, certo, ma abbiamo altre cose molto più importanti di cui occuparci e preoccuparci. La prima: se Mario Draghi riuscirà a farci uscire dalla più stralunata crisi di governo, e della politica, nella storia repubblicana. La seconda: che futuro si prospetta per il mezzo milione di persone che hanno perso il lavoro nel 2020, e più di due terzi sono donne, e per l’altro mezzo milione che lo perderà quando finirà il blocco ufficiale dei licenziamenti (ufficiosamente è già finito da un pezzo). La terza: se la coda lunga del Coronavirus si arrotolerà buona buona, stordita dal mare di giallo che ha rivestito l’Italia liberata dalle precauzioni, o tornerà a imbizzarrirsi travolgendo le fragili speranze del vaccino libera tutti. La sorte infame di Patrick Zaki è l’ultimo dei problemi: non è bello dirlo ma è ipocrita fingere di negarlo. In realtà, la violenza reiterata su quello straniero un po’ ci riguarderebbe, visto che proprio straniero, il ventottenne Zaki, non è. Per sette mesi è stato nostro ospite all’Università di Bologna, dove frequentava con eccellente profitto un master post laurea. Tornato a casa per un saluto alla sua famiglia a Mansoura, non ha potuto darlo perché il 7 febbraio 2020 l’hanno fermato al Cairo e da allora non l’hanno più rilasciato, accusandolo di essere un pericoloso oppositore del governo ed esibendo come prova dei commenti a favore dei diritti umani postati su Facebook. Per quel che conta, una prova risibile e nemmeno dimostrata. Ma l’Egitto di Al Sisi ci ha abituato a qualsiasi peggio, e la lacerante vicenda di Giulio Regeni, rapito e annientato dopo nove interminabili giorni, dovrebbe aver insegnato all’Italia che tipo di riguardo si riserva a un partner sì strategico ma per altri scopi (militari, commerciali, politici). Protestate quanto volete, processate a casa vostra i carnefici di Giulio che tanto mai vi consegneremo, vendeteci a buon prezzo le vostre fregate e i vostri elicotteri da combattimento, e fatevi gli affari vostri, che qui la legge è a misura di chi comanda e la primavera araba di piazza Tahrir, sbocciata nel lontanissimo 2011, è appassita per sempre, polverizzata in carceri inumane come quella di Tora, dove in una cella senza letto e senza luce, trasfigurato rispetto alle fotografie di quando frequentava felice i suoi compagni di corso in Italia, si va spegnendo la speranza di un ragazzo egiziano che sognava soltanto di tornare a scuola da noi. La meritoria mobilitazione a favore della sua scarcerazione, partita dall’università bolognese, l’Alma Mater, che l’aveva in carico e ne pretende il reintegro, ha coinvolto anche esponenti di rilievo delle nostre istituzioni e dell’Unione europea. David Sassoli, presidente del Parlamento di Strasburgo: “Voglio ricordare alle autorità egiziane che l’Ue condiziona i suoi rapporti con i Paesi terzi al rispetto dei diritti umani e civili. Chiedo che Zaki venga immediatamente rilasciato”. Da ministro degli Esteri, Luigi Di Maio aveva detto parole altrettanto definitive: “Stiamo seguendo la vicenda con la massima attenzione per riportare Patrick dalla sua famiglia il prima possibile”. Per poi aggiungere, con un’enfasi a cui non sempre hanno corrisposto i fatti: “Sui diritti umani non si arretra. Questo vale per la verità su Giulio Regeni e vale per Zaki. Patrick è cittadino egiziano ma lo sentiamo e lo abbiamo a cuore come se fosse italiano”. Ecco, come se fosse italiano. La città di Bologna ha conferito a Zaki la cittadinanza onoraria, che è un bel gesto ma senza possibili conseguenze concrete, proprio nei giorni in cui i carcerieri decidevano di prolungargli la tortura per altri 45 giorni, quasi in coincidenza con il quinto anniversario, 3 febbraio, del ritrovamento del corpo sfranto di Giulio Regeni. Con tutti i problemi che abbiamo, da ultimo, proprio in coda, volendo, ci sarebbe un pezzettino della nostra reputazione sulla scena internazionale che si gioca anche sulla pelle di uno studente egiziano “come fosse italiano”, spinto con brutalità in un pozzo senza fondo, forse per rappresaglia verso un Paese, il nostro, che si permetteva di esigere giustizia per un proprio figlio misteriosamente giustiziato al Cairo, Regeni Giulio da Fiumicello, provincia di Udine. Chi salva una vita, salva il mondo. L’ha ripetuto tante volte, inascoltata, la senatrice Liliana Segre, prendendo a prestito un passo del Talmud. E oggi vengono agli occhi gli ultimi degli ultimi, i profughi di Lipa, congelati al confine tra Bosnia e Croazia, la vergogna più recente sopportata senza pudore dal consesso dell’Europa per bene. Anche una nazione che salva una vita salva qualcosa di più: la propria coscienza e la propria immagine nel mondo. Nel ritratto molto accurato che Daniele Manca ha dedicato su questo giornale a Mario Draghi, incaricato di provare a salvare l’Italia da se stessa, la parola chiave è coraggio. È lo stesso Draghi a spiegarne il perché: “A cavallo tra le due guerre, mio padre vide un’iscrizione su un monumento. Diceva: se perdi denaro, non hai perso niente perché con un buon affare lo puoi recuperare; se perdi l’onore, hai perso molto ma con un atto eroico lo potrai riavere. Ma se perdi il coraggio, hai perso tutto”. Ci vorrà molto coraggio per ridare speranza a un’Italia interrotta da una crisi disperante. La lista delle priorità è lunga, il contesto pericolosamente litigioso, il clima dentro e fuori il Paese non butta al bello, il tutto al netto del virus. Ma le grandi imprese cominciano anche da piccoli segni. Per esempio, dall’emergenza depennata, nell’infuriare della bufera, di uno studente “egiziano ma come se fosse italiano” abbandonato nelle spire di una bestia congegnata per soffocarlo. Sta esaurendo le forze, il “nostro” Zaki, si sta perdendo dentro l’incubo in cui l’hanno precipitato. Non rimane tanto tempo e non bastano più gli attestati di solidarietà a ciglio umido. Ci vorrebbe un moto di coraggio. Dargli la cittadinanza italiana, per esempio, che è cosa ben diversa dalla benemerenza civica regalatagli dalla sua Bologna. Vero che questa concessione richiede passaggi complessi, compreso un decreto del presidente della Repubblica, ma non ci sono ostacoli di forma: Patrick Zaki potrebbe diventare, giuridicamente, sia egiziano sia italiano. E in questo caso la pressione sul Cairo aumenterebbe di potenza, anche agli occhi degli alleati europei in questa battaglia di umanità. La nostra legge prevede che il riconoscimento della cittadinanza a uno straniero sia possibile “quando questi abbia reso eminenti servizi al Paese, ovvero quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato”. Siamo nel secondo caso. Il nostro Stato, oggi più che mai, ha bisogno di dare segnali forti di coraggio. Nel suo proprio interesse, e in quello degli ultimi della fila. Guinea. Quattro detenuti morti in carcere, Amnesty invita a fare chiarezza africarivista.it, 4 febbraio 2021 Amnesty International ha chiesto alle autorità della Repubblica di Guinea di avviare un’indagine indipendente per accertare le cause della morte di quattro persone che sono decedute nel giro di due mesi mentre erano detenute nel carcere centrale della capitale Conakry. Come fa sapere l’organizzazione non governativa, tra di esse vi erano tre attivisti o sostenitori dell’Unione delle Forze Democratiche della Guinea (Ufdg) che erano stati arrestati in relazione alla contestazione del referendum costituzionale e ai risultati delle elezioni presidenziali dello scorso marzo e ottobre. Amnesty invita quindi le autorità a porre fine all’ondata di arresti che ha preso di mira almeno 400 attivisti dell’opposizione e della società civile in tutto il Paese dopo la pubblicazione dei risultati delle elezioni presidenziali di ottobre. Fabien Offner, ricercatore dell’Africa occidentale presso Amnesty International, ha sottolineato che “nella prigione in cui erano detenuti le regole del diritto internazionale per il trattamento dei detenuti non vengono applicate” precisando che “concludere che si tratti di morti naturali senza indagini approfondite e permettere che i prigionieri siano rilasciati o ricoverati solo quando i loro casi sono disperati dimostra un profondo disprezzo per la vita umana e una totale indifferenza per la disumanizzazione dei luoghi di detenzione nel Paese”.