Per salvare i detenuti dal Covid 1.600 bracciali elettronici pagati 2,5 milioni di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 3 febbraio 2021 Sono stati comprati per 2 milioni e 510.000 euro presso Fastweb i 1.600 braccialetti elettronici acquistati nell’aprile 2020 per le carceri italiane dal Commissario all’emergenza Covid, in aggiunta a quelli potenzialmente già attivabili dai giudici (e sinora attivati per 10.000 dei potenziali 24.000 dispositivi) sulla base del contratto-quadro triennale dicembre 2018/dicembre 2021 negoziato dal ministero dell’interno con Fastweb. Questo contratto con il Viminale, a fronte del fatto che Fastweb garantisca per tre anni l’attivazione (se richiesta) di fino a 1.000/1.200 braccialetti al mese, riconosce all’azienda (oltre a due quote fisse di 75.000 per il piano di lavoro e 400.000 per le postazioni di polizia) un massimo fino a 7,7 milioni l’anno in proporzione al numero di dispositivi attivati e monitorati. A fine 2020, cioè alla fine dei primi 2 dei 3 anni di contratto, si sarebbero dunque potuti avere fino a 24.000 dispositivi, ma i braccialetti di cui i magistrati hanno richiesto l’attivazione sono stati molti meno, secondo quanto indicato dal viceministro dell’Interno Vito Crimi il 15 gennaio alla Camera, e cioè 10.155, di cui 5.940 poi disattivati e 4.215 tuttora attivi. Per il governo e per Fastweb “tutte le istanze presentate” dall’autorità giudiziaria “sono attualmente gestite o programmate”: espressione, la seconda, che forse spiega la doglianza invece ad esempio del Garante regionale dei detenuti in Campania, il quale pochi giorni fa, il 26 gennaio, rilevava “anche 2-3 settimane tra la decisione del magistrato e l’arrivo del braccialetto”. Quando però la pandemia esplose anche nelle carceri, nella primavera 2020, il governo ravvisò l’esigenza di prepararsi a un eventuale picco di richieste di braccialetti determinate dai due decreti legge volti in teoria ad “alleggerire” le carceri. E ricorse all’iter semplificato del Commissario straordinario all’emergenza Covid, Domenico Arcuri: che, su richiesta e per conto del Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, il 4 aprile 2020 ha affidato a Fastweb la fornitura (stavolta tutta in un colpo) di altri 1.600 braccialetti per 2 milioni 510.000 euro, di cui 1 milione e 400.000 per i dispositivi, 431.000 per la manutenzione, e 669.000 per servizi di outsourcing. L’incontro catartico tra l’autore del reato e la vittima di Marta Rizzo La Repubblica, 3 febbraio 2021 Il direttore dell’Istituto Penale Minorile di Nisida offre la narrazione di un luogo di detenzione dove si tenta di riparare danni profondi, senza illusioni, ma con tenacia e con risultati positivi. Nell’Istituto Penale Minorile (Ipm) di Nisida si applica la giustizia riparativa. In altre parole, è un luogo che - tiene a precisare il suo direttore Gianluca Guida - “rispetta un senso del bello di solito negato ai ragazzi ristretti”. Insomma, è un luogo che garantisce la scolarizzazione e quella che viene definita la “mediazione penale”, ovvero quella condizione, appunto, riparativa che rende possibile l’incontro tra l’autore del reato e la sua vittima. I numeri degli Ipm. In questo periodo di ulteriori privazioni per i ragazzi ristretti, emerge che davvero la pena carceraria per i minori, è l’estrema ratio: al 15 gennaio 2020 (ultimo aggiornamento del Ministero della Giustizia), i ragazzi presenti nei 17 IPM d’ Italia sono solo 305, 293 maschi e 12 femmine. Le alternative sono molte e se i giovani entrano in carcere è per reati gravi. I ragazzi di Nisida. “Attualmente abbiamo meno di 40 ragazzi e una solo ragazza - spiega Gianluca Guida - le sezioni femminili minorili d’Italia sono tre: Roma, per il centro; Pontremoli per il Nord e Nisida per il Sud, che ora è ai minimi storici di presenze, ma non abbiamo mai superato le 10 ragazze. I ristretti di Nisida sono soprattutto napoletani, qualcuno di etnia rom, altri sono rumeni e slavi. I reati per i quali sono costretti in istituto vanno dalle rapine aggravate, ai reati contro la persona, passando per lo spaccio, sia quello minuto, locale, che internazionale. Prevalenti sono i reati legati al patrimonio: rapine, con un crescente uso della violenza, sia fisica, sia tramite le armi. Ragionare ad personam. I ragazzi negli Ipm sono casi delicati. “Qui si ragiona ad personam. Fare calcoli percentuali, in questo ambito, non porta lontano”, sottolinea il direttore, che s’è trovato a gestire un luogo di ragazzi detenuti anche durante la pandemia in corso. “Malgrado il virus - racconta Guida - abbiamo cercato di mantenere la vita dei ragazzi il più possibile ordinaria, con sforzi psicologici e organizzativi tanto per loro, quanto per gli operatori. Il carcere impone privazioni, aggiungere quelle imposte dalla pandemia ha determinato un aggravamento generale. Le tre fasi del progetto educativo. 1) - L’alfabetizzazione. “Qui i ragazzi hanno problemi seri di analfabetismo, di ritorno e non. Questo determina un gap relazionale: gestire le funzioni di collegamento del pensiero attivate dalla scuola, è fondamentale per una vita sana. Molte tensioni dei ragazzi, lo abbiamo constatato spesso con le loro reazioni violente, sono determinate da incapacità e frustrazione, causate dall’ignoranza. La pandemia non aiuta: la didattica a distanza, dura e spesso negata dalla mancanza di dispositivi adeguati, qui dentro è del tutto inadatta. I ragazzi hanno sempre bisogno di un rapporto fisico con gli insegnanti, per concentrarsi ed esercitare un’applicazione non frustrante”. 2) - Acquisire competenze sul Fare. “Non si tratta esattamente di inserimento nel mondo del lavoro - precisa il direttore del carcere di Nisida - per il punto da cui partono i ragazzi e per lo stato del mercato del lavoro, parlare di inserimento al lavoro è davvero un’utopia. La nostra prospettiva è educarli ad un ritmo lavorativo, creare l’abitudine ad una frequenza quotidiana, far sviluppare una passione. Tocchiamo vari settori per far crescere le loro potenzialità, se si hanno risultati concreti è un passo ulteriore, ma non il principale”. 3) - Sviluppo del sé. “Si tratta di laboratori teatrali, musicali, giardinaggio, tutela e igiene dell’ambiente. Far concentrare i ragazzi in azioni utili per sé e per gli altri, vorremmo li portasse a leggere il loro malessere: questi giovani spesso non si rendono conto della qualità e quantità della loro violenza, ancor meno del perché hanno applicato la violenza che li ha portati qui dentro. Noi dobbiamo cogliere le radici dell’aggressività per aiutarli a capirla, gestirla, eventualmente eliminarla”. La mediazione penale minorile. La mediazione penale - come accennato - si basa sull’incontro tra il giovane detenuto e la vittima. Un metodo che dà ottimi risultati nell’ambito minorile. “È uno strumento della Giustizia Riparativa delicato e potente, perché fondato sullo scambio tra due persone che il reato ha messo in relazione - spiega Isabella Mastropasqua, responsabile della Giustizia Riparativa del Ministero di Giustizia - La mediazione penale si sperimenta in Italia dagli anni ‘90, pur non esistendo una norma che la regolamenti”. Come avviene la mediazione penale. “Il lavoro che porta all’incontro tra autore del reato e la vittima, di solito è essenzialmente emotivo. Sebbene raramente, ma si tende, per prima cosa, a far tornare il ragazzo sul luogo del reato. La reazione è comunque quasi sempre la forte negazione nell’ammettere il crimine, spesso è una vera e propria rimozione. Il secondo passo è riconoscere l’altro: sviluppata un po’ l’emotività, s’inizia il lavoro con le vittime, che hanno bisogno di tempo: conservano un bisogno non di giustizia, ma un senso più o meno evidente di vendetta. L’ultima fase comprende l’incontro, che quando si riesce ad ottenere è la svolta. Oltre il concetto astratto di Giustizia. Il confronto stempera immediatamente l’aspetto punitivo della detenzione e diventa consapevolezza, scambio tra chi ha violato la legge e chi ha subito la violazione. “Un salto verso una condizione psicologica che va oltre il concetto astratto di giustizia”, sottolinea Guida. “Per il momento - aggiunge - in un laboratorio di mediazione penale, che lavora su 6 ragazzi, si arriva a maturare il bisogno di riconoscere la vittima, al 50%. Negli ultimi quattro anni, solo un ragazzo e una vittima si sono incontrati, con un esito pienamente positivo di elaborazione. Altri due casi sono in fieri e non possiamo trarre conclusioni”. L’incontro di Antonio con Luciana. Antonio era a Nisida per un reato che aveva portato alla morte una persona: non l’aveva uccisa lui, ma guidava il motorino durante un tentativo di rapida e il suo compagno aveva ucciso il metronotte che li aveva fermati. Antonio è stato portato subito a Nisida. La moglie della vittima, Luciana, per puro caso faceva la volontaria per Libera contro le Mafie ed è così che ha saputo della presenza del ragazzo in istituto. Inizialmente, aveva chiesto di non incontrarlo continuando a svolgere le attività nel reparto femminile, ma col tempo aveva cominciato a chiedere informazioni su di lui. Lo stesso interesse era poi stato mostrato anche da Antonio. Durante una cerimonia nel carcere, erano presenti entrambi ed è stato in quella occasione che si sono voluti incontrarsi. Non si sono detti una parola, ma si solo abbracciati. “Da allora - riferisce il direttore di Nisida - li abbiamo accompagnati nel percorso di conoscenza e a 4 anni da quell’incontro, lei ha voluto dare ad Antonio un sostegno morale ed economico: lui ha 2 figli, una compagna e Luciana li aiuta. Da un po’ gestiscono il loro rapporto in autonomia, indipendentemente dall’Ipm”. Il diritto al bello negato. “I ragazzi di Nisida non sono mai stati bambini - sottolinea Gianluca Guida - come tutti i ragazzini che delinquono a Napoli, fanno i ‘guappi’, ma non sanno cosa succede durante l’infanzia affinché si possa formare un adulto sano: il diritto al bello, ecco cosa manca loro. I quartieri dai quali arrivano sono semplicemente brutti. L’arrivo a Nisida, che è un luogo bello, può addirittura essere uno shock. Ed è proprio quando rientrano a casa che capiscono il malessere che provoca il brutto. Lavorare sulla fiducia, senza illusioni. “Bisogna lavorare sulla fiducia - conclude Gianluca Guida - e modificare le attese verso i ragazzi ristretti e tentare di seguirli una volta fuori. Alcuni, tornano a trovarci, per salutare gli operatori. Altri, tornano perché tornano a delinquere, oppure veniamo a sapere che sono rinchiusi di nuovo a Poggioreale, nel carcere degli adulti. Sembrerebbero fallimenti, ma la nostra fiducia resta, perché l’esperienza ci ha insegnato che tutti possono riuscire a venir fuori dallo stato di emarginazione, che genera disagio e delinquenza”. “Folli rei”, è ora di abolire la giustizia speciale di Grazia Zuffa Il Manifesto, 3 febbraio 2021 Il binario “speciale” ha storicamente significato l’esenzione del soggetto con disturbi mentali dalla responsabilità per il reato, a prezzo però del giudizio di pericolosità sociale, con relativa destinazione a misure di sicurezza detentive, con caratteri più afflittivi della pena e con violazione di diritti fondamentali. Un manifesto per abolire il binario di giustizia speciale per le persone giudicate “incapaci di intendere e volere al momento del fatto” e “inferme di mente”. Il movimento che qualche anno fa ha lottato per la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari chiede una firma a sostegno di questa nuova sfida. Il binario “speciale” ha storicamente significato l’esenzione del soggetto con disturbi mentali dalla responsabilità per il reato, a prezzo però del giudizio di pericolosità sociale, con relativa destinazione a misure di sicurezza detentive, con caratteri più afflittivi della pena e con violazione di diritti fondamentali. Oggi l’Opg non c’è più, ma il binario “speciale” e le misure di sicurezza detentive ancora esistono. Non solo rappresentano un solido pilastro a sostegno della cultura custodiale, sono anche un efficace strumento normativo per ostacolare, se non per minare, la “rivoluzione gentile” che ha portato alla chiusura degli Opg (la legge 81 del 2014): snaturando in primo luogo l’esperienza delle attuali Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems). Le Rems, nelle intenzioni dei promotori dovrebbero essere ricoveri per cure residenziali ad alta intensità (e perciò di ultima ratio), a fronte della cura sul territorio in capo ai servizi di salute mentale e alla rete socio-assistenziale locale, come norma. Proprio questa norma è disattesa nell’applicazione della legge 81. L’urgenza della riforma del codice penale è in stretta relazione ai rischi di ritorno indietro. “Noi che firmiamo questo appello - scrivono i primi sottoscrittori - abbiamo condiviso la lunga battaglia per completare il processo di liberazione iniziato con l’approvazione della legge 180 nel 1978; e continuato con la legge 81 del 2014, che indica la strada delle misure non detentive ai fini di percorsi di cura e di riabilitazione, e solo come misura estrema la misura di sicurezza detentiva da eseguirsi nelle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza-Rems. In questo quadro, l’esperienza delle Rems, valida in quanto fondata su cinque pilastri irrinunciabili (soluzione di extrema ratio, territorialità, numero chiuso, limite temporale della durata della misura di sicurezza, rifiuto della contenzione meccanica) va considerata un tassello della più complessa battaglia per il superamento degli Opg”. Qui sta il nodo. La legge 81 non voleva chiudere l’Opg per fare delle Rems tanti mini-Opg. La pressione sulle Rems, che si traduce nella richiesta di moltiplicarne il numero, a farne grandi contenitori, senza più alcuna valenza terapeutica, di svariate problematicità psichiatriche e sociali, dimostra come la cultura manicomiale abbia ancora radici: che traggono alimento dalla permanenza del “doppio binario” e delle misure di sicurezza psichiatriche. Da qui il senso dell’abolizione del “doppio binario”: “Scegliamo la via del giudizio per le persone affette da gravi disabilità psicosociali, non per arrivare a una pena dura o esemplare ma per offrire loro la dignità di soggetti, restituendo la responsabilità, e con ciò la possibilità di comprensione delle loro azioni; e insieme risparmiando lo stigma che il verdetto di incapacitazione “di intendere e volere” e l’internamento recano con sé. Affermiamo convintamente che “la responsabilità è terapeutica”. Al testo si è lavorato a lungo, come dimostra la discussione nel recente seminario di Treppo Carnico (organizzato dalla Società della Ragione, l’Osservatorio di StopOpg, il Coordinamento Rems/Dsm e Magistratura Democratica) dal titolo Il Muro dell’imputabilità. Dopo la chiusura degli Opg, la riforma del regime legale dei folli rei. Il dibattito pubblico e l’esame parlamentare porteranno a ulteriori arricchimenti. Firmiamo il Manifesto per sostenere la nuova proposta di legge, e insieme per la corretta applicazione della legge 81: http://www.societadellaragione.it/follirei Taser inutile, contro la violenza in cella basta rispettare le regole di Riccardo Polidoro Il Riformista, 3 febbraio 2021 La notizia diffusa dai sindacati di polizia penitenziaria del lancio di uno zoccolo, da parte di un detenuto nel carcere di Poggioreale, che ha colpito al volto la comandante del reparto, si presta a una serie di valutazioni. Innanzitutto va condannato il gesto, perché la violenza - da chiunque esercitata - non va mai giustificata. Ma ciò non ci esime dall’approfondire quanto accaduto. Sull’episodio, allo stato, ci sono esclusivamente i comunicati dei sindacati che chiedono provvedimenti per “stroncare la spirale di violenza che caratterizza le carceri campane”. A dicembre, nel medesimo istituto, un detenuto aveva aggredito quattro agenti. Nell’attesa di conoscere anche la versione del lanciatore dello zoccolo, non solo nel corso dell’indagine interna, ma anche da parte della magistratura, non possiamo che condividere la necessità di “stroncare la spirale di violenza” di questi giorni. Cosa fare? La polizia penitenziaria chiede di abolire la vigilanza dinamica e avere in dotazione taser e bodycam, cioè pistole elettriche e telecamere da indossare. I detenuti dovrebbero restare chiusi nelle loro stanze e, in caso di ribellioni, sarebbero colpiti con i raggi della pistola mentre gli agenti potrebbero filmare quanto avviene. Il carcere necessita di maggiore trasparenza, perché resta un mondo sconosciuto dove, in passato e anche recentemente, sono avvenuti episodi sui quali non è stato possibile indagare con serenità. Ben vengano, dunque, le telecamere nei luoghi comuni a tutela di tutti, gestite non dal singolo individuo ma da una centrale che le tenga sempre accese e ne preservi i dati nell’interesse generale di un corretto rapporto tra il detenuto e coloro che nell’istituto vi lavorano. Le immagini diffuse, alcuni giorni fa, della spedizione punitiva di ben dieci agenti - oggi imputati per il delitto di tortura - nei confronti di un detenuto, dimostrano l’utilità di tale soluzione. Quanto all’uso dei taser, la proposta appare del tutto fuori luogo per la sua accertata pericolosità perché - come dichiarato dall’azienda che lo produce - ha un rischio di mortalità pari allo 0,25%. Cioè il raggio, pur se raramente, può uccidere. La posizione d’inferiorità del detenuto rispetto a coloro che devono vigilare, inoltre, la rende del tutto inutile. Restiamo, come sempre, sorpresi dalle dichiarazioni corporative dei sindacati di polizia penitenziaria che invece dovrebbero, proprio perché chiamati a tutelare gli interessi di una categoria di dipendenti pubblici, chiedere che negli istituti di pena vengano rispettati i principi costituzionali e le norme dell’ordinamento penitenziario. A Poggioreale, per esempio, manca il regolamento interno previsto dal 1975. Vi è un cronico sovraffollamento. Alcuni padiglioni sono fatiscenti. Vi sono cameroni dove sono rinchiuse 14 persone, con unico servizio igienico, in condizioni vergognose. Nel padiglione Livorno, luogo dove è avvenuto il lancio dello zoccolo, vi sono stanze anche con nove detenuti e letti a castello a tre piani. Riscaldamento non sempre funzionane e acqua calda disponibile solo al mattino e per poche ore. Le docce in comune sono completamente ammuffite e mal funzionanti. I detenuti lamentano la presenza di topi e insetti. Le attività trattamentali sono riservate a pochissime persone per mancanza di spazi, di risorse e di operatori. A questo quadro drammatico si è aggiunto il pericolo concreto - per l’impossibilità di garantire il distanziamento personale - di contrarre il virus, mentre non si conosce quando i detenuti e lo stesso personale dell’amministrazione penitenziaria potranno accedere ai vaccini. Ecco perché la tensione tra i detenuti è altissima e la possibilità di reazioni scomposte più che probabile, ma com’è possibile che non si comprende che per rasserenare gli animi - anche quelli della polizia penitenziaria - basterebbe applicare le leggi che già ci sono? Nell’interesse di tutti, di chi vive queste situazioni, di chi ci lavora e per la dignità stessa del nostro Paese. Un ministro forte con i deboli ma debolissimo con i forti di Tiziana Maiolo Il Riformista, 3 febbraio 2021 Quando ai detenuti a rischio per il Covid sono stati dati i domiciliari si è fatto intimorire dalla campagna contro di Giletti, Fatto e Repubblica ed è tornato sui suoi passi prendendosela coi più deboli della società. Ecco a voi il ministro Alfonso Bonafede, forte con i deboli, ma debolissimo con i forti. Dal Parlamento è scappato, prima di poter snocciolare numeri e solo numeri della sua relazione annuale sullo stato della giustizia, e prima di ricevere fischi e ortaggi dai senatori. Per l’inaugurazione dell’anno giudiziario si è rifugiato nell’aula-bunker di Lamezia, un luogo poco rituale dove si dovrebbero celebrare processoni e invece si dice che si lotta contro la mafia. Un luogo per lui, visto che il guardasigilli ostenta sempre con fierezza la sua coccarda di ministro antimafia. Soprattutto dopo che un membro del Csm, Nino De Matteo, che è anche il procuratore più scortato d’Italia per le minacce ricevute dalle cosche, si è permesso di usare una trasmissione televisiva per accusarlo di essersi piegato al volere dei picciotti. Indimenticabile quella domenica sera di un anno fa da Giletti (che ne parla ancora adesso), quando al ministro era stato contestato quanto meno un concorso esterno in associazione mafiosa. Il magistrato aveva improvvisamente buttato fuori un nocciolone che teneva in gola da due anni, dal giorno in cui aveva sperato di diventare capo del Dap, come gli aveva proposto il ministro, in alternativa alla direzione degli affari penali. Ma Bonafede aveva tradito le sue aspettative, preferendogli uno sconosciuto Basentini alla direzione del Dap e concedendogli solo l’alternativa poco attraente, che lui aveva prontamente rifiutato. Ma la cosa grave accaduta due anni dopo era il fatto che Di Matteo e lo stesso Giletti e tutti gli altri ospiti della compagnia di giro della domenica sera televisiva di La7, avevano pesantemente insinuato un cedimento di Bonafede ai chiacchiericci di ora d’aria di qualche mafiosetto che paventava l’arrivo del magistrato “antimafia” a occuparsi dei circuiti carcerari. I boss minacciavano, si era detto, e Bonafede aveva ceduto. Il ministro aveva telefonato in diretta in trasmissione, aveva pianto, aveva implorato che lo credessero, aveva gridato che era stato tutto normale, tutto casuale. Si era lasciato trattar male dal conduttore scortese e frettoloso. Si era umiliato, ma non aveva denunciato. Avrebbe potuto farlo, ma non lo aveva fatto. Si era dimostrato forte con i deboli e debole con i forti. Del davighismo aveva assunto solo la facciata, come quello che si fa passare sotto il banco il foglietto con la soluzione del compito di matematica. I suoi risultati, i momenti in cui lui è riuscito a fare il duro, difficilmente erano farina del suo sacco. Ne fa quasi una rivendicazione, sul Fatto di ieri, l’ex procuratore Giancarlo Caselli, l’unico ad apprezzarlo esplicitamente proprio per quelle iniziative (legge Spazza-corrotti, abolizione della prescrizione, iniziativa contro i magistrati di sorveglianza sul differimento pena di alcuni detenuti a rischio contagio da coronavirus) per le quali il guardasigilli sta oggi rischiando il posto. Sono i provvedimenti-medaglia della subcultura dei Cinque Stelle, ma che, va ricordato, sono stati votati dalle due diverse maggioranze che hanno sostenuto i governi Conte-Bonafede, prima dalla Lega e dopo dai partiti della sinistra. Che, oggi, soprattutto tra i parlamentari di Italia Viva, sono visti come ostacolo alla permanenza di Bonafede al ministero di giustizia. Stiamo parlando di provvedimenti che portano addosso le impronte digitali dei più accaniti pubblici ministeri, quelli che vedono i cittadini come furbastri colpevoli che l’hanno fatta franca. La prima medaglia, un vero fiore all’occhiello, è la legge del 2019 dal nome suggestivo nella sua spaventosità: “spazza-corrotti”. È una norma che equipara alcuni reati contro la pubblica amministrazione a quelli di mafia e di terrorismo nell’applicazione delle pene. Una specie di cappio al collo rispetto alla possibilità, per coloro che ne avrebbero avuto diritto, di accedere alla libertà condizionale o alle misure alternative alla detenzione. Bonafede vorrebbe gridarlo tutti i giorni “in galera!”, ma sa che adesso non può, non mentre la sua testa è già nelle vicinanze dell’accetta del boia. Né ha mostrato turbamento alcuno quando un anno fa l’Alta Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di una parte di quella legge, quella che mostrava il massimo accanimento con l’applicazione anche retroattiva. Nel comunicato stampa della Corte Costituzionale del 26 febbraio 2020, i giudici erano stati molto espliciti e chiari sul senso vero della detenzione, persino per uno prevenuto come Bonafede. E gli avevano pazientemente spiegato: “Tra il “fuori” e il “dentro” vi è infatti una differenza radicale: qualitativa prima ancora che quantitativa, perché è profondamente diversa l’incidenza della pena sulla libertà personale”. Ma è difficile, anche per persone che indossano quelle toghe nei cui confronti il ministro prova una vera venerazione, far capire il peso che la libertà ha nella vita delle persone. Del resto lo ha dimostrato un anno fa nel corso della lunghissima discussione che si era accesa, mentre l’angoscia per la paura della pandemia attraversava la società intera e preoccupava il timore per la salute di tutti quelli che erano rinchiusi, nelle case di riposo come nelle carceri, dei detenuti come degli agenti di polizia penitenziaria. Proprio per evitare delle vere stragi nei luoghi di reclusione il governo aveva emesso il decreto “Cura Italia”, una sollecitazione di grande buon senso che riguardava soprattutto gli ultimi sei mesi di pena da scontare a domicilio. Nello stesso periodo il direttore del Dap Basentini aveva anche suggerito con una circolare ai direttori delle carceri di segnalare i nominativi dei detenuti anziani e malati, e diversi giudici e tribunali di sorveglianza avevano pronunciato ordinanze di differimento pena. Un pezzetto di civiltà, di aria pura, che aveva alleggerito il sovraffollamento delle carceri e consentito al personale sanitario di evitare la strage del contagio da Coronavirus. Ma il coro dei giornali più forcaioli, Fatto e Repubblica in testa, la sfilata di magistrati “antimafia” nel solito salotto di Giletti, una vera mobilitazione militante al grido di “rimandiamo in galera i boss scarcerati”, faceva saltare la testa del direttore del Dap Basentini e rimettere sull’attenti Bonafede. Che mette subito una bella museruola ai giudici di sorveglianza, sottoponendo il loro giudizio a una consultazione dei pubblici ministeri “antimafia”. Perché l’uomo è fatto così: se una toga gli fa buu, china la testa e incassa il colpo. E chi sono i deboli più deboli della società se non coloro che sono privi della libertà, i detenuti? E prima di loro, i penultimi della fila in tema di libertà e di diritti, non sono forse tutti coloro che finiscono nelle mani di quel “Sistema” così ben descritto da Luca Palamara? Parliamo di indagati, rinviati a giudizio, processati. Cioè tutti coloro che, dalla sera alla mattina, si ritrovano costretti a difendersi da qualcosa di più grande della loro stessa vita che improvvisamente è cascato loro addosso: il processo penale. Ed ecco uscire dal cilindro del prestigiatore una bella legge di quelle che piacciono molto a Piercamillo Davigo. E Bonafede continua a farsi passare sotto il banco il compito di matematica. E inventa il massimo della giustizia vendicativa. Poiché i magistrati (e in particolare i pm nella fase delle indagini preliminari) non riescono a celebrare in tempo i processi, fino a lasciarli cadere in prescrizione, facciamone pagare il prezzo all’imputato, e blocchiamo la prescrizione del reato dopo il primo grado di giudizio. Cioè rendiamo eterno il processo. Come se spettasse all’imputato, e non allo Stato, garantire il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Come se fosse colpa sua il fatto che pubblici ministeri e giudici non sono capaci di rispettare il dettato costituzionale. Ma loro sono soggetti protetti, l’imputato no. L’emergenza non può fermare la tutela dei diritti: la giustizia sia accessibile a tutti di Maria Masi Il Dubbio, 3 febbraio 2021 L’intervento della presidente del Cnf Maria Masi all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio di Stato. Ringrazio il Presidente Patroni Griffi per l’invito soprattutto perché conferma un coinvolgimento reale e una condivisione sostanziale, dettati dalla consapevolezza del ruolo complementare e come tale necessario dell’Avvocatura, anche nella e per la giurisdizione amministrativa. La Giustizia amministrativa delinea il perimetro della tutela dei diritti di cittadine e cittadini nei confronti dello Stato. Tutela che, mai come nel corso dell’anno appena compiuto e purtroppo si teme, anche per quello in corso, si è resa particolarmente necessaria, oltre che urgente, in conseguenza della situazione di emergenza, generata dalla diffusione dell’epidemia, che ha complicato il già fragile equilibrio tra i rapporti civili, etico sociali, economici. L’invocato necessario bilanciamento tra libertà di circolazione, di riunione, diritto allo studio e al lavoro con il diritto alla salute ha posto il problema, altrettanto serio, dell’effettività e dell’efficacia della tutela giurisdizionale. Pur senza entrare nel merito dei provvedimenti o meglio dell’efficacia degli strumenti, adottati per conseguire gli obiettivi dettati dall’emergenza, non si può negare il rischio dell’alterazione dei principi che informano la gerarchia delle fonti e la separazione dei poteri. L’intervenuta legislazione emergenziale dei decreti e delle ordinanze, è stata percepita dai cittadini come un’eccessiva quanto ingiustificata forma di controllo piuttosto che come necessaria forma di tutela. Tanti, quindi, gli ostacoli rinvenuti in questa circostanza e certamente ancora pochi, rispetto alle esigenze palesate, quelli rimossi per ripristinare, in senso proprio, il principio di legalità. Ciò ha senza dubbio influenzato negativamente il rapporto di fiducia tra Stato e cittadino, il quale è indotto a recepire, come di fatto spesso recepisce, la giustizia, un ulteriore ostacolo all’esercizio dei diritti, piuttosto che tutela degli stessi. Essenziale, invece, come sempre, più di sempre, la funzione anche riequilibratrice della giustizia amministrativa, il cui accesso, a maggior ragione, deve essere garantito a tutti, anche sotto il profilo economico. Attualmente gli oneri contributivi sono ancora molto alti, a discapito dei cittadini più deboli che, spesso, nonostante la consapevolezza di aver subito un’ingiustizia rinunciano, per questioni economiche, alla tutela giudiziaria. Rinuncia che in questo particolare momento storico corre il rischio di assumere il significato di una resa acuita dalla distanza tra la richiesta del cittadino e la risposta o il silenzio della pubblica amministrazione e quindi dello Stato. Il diritto a chiedere giustizia, ancor prima del diritto a ottenerla, non può considerarsi avulso dal principio di eguaglianza sostanziale tra i cittadini che si esplica anche nell’assicurare pari opportunità di accesso alla tutela giurisdizionale. A proposito di tutela giurisdizionale, voglio sottolineare, anche in questa occasione, la costante e attenta interlocuzione tra Avvocatura e Consiglio di Stato, informata ad un proficuo spirito di collaborazione, nell’affrontare e risolvere i problemi legati anche agli aspetti pratici dell’accesso alla giustizia amministrativa e allo sviluppo del processo telematico nonché all’efficienza del processo nel pieno assolvimento delle garanzie di difesa, anche nella fase emergenziale. L’esperienza, originata dal primo documento congiunto e dal tavolo di monitoraggio, istituito al fine di rispondere alle necessità che la iniziale e concreta applicazione aveva fatto emergere, alla rinnovata collaborazione, in piena emergenza, con lo scopo comune di consentire il regolare svolgimento delle udienze, nel rispetto dei principi del “giusto processo”, ha dimostrato che il dialogo tra avvocatura e magistratura, quando consente lo scambio proficuo di opinioni ed esperienze, genera sempre buoni frutti. Nei decreti, infatti, sono state recepite le osservazioni dell’avvocatura così come in tutti i protocolli condivisi e sottoscritti relativi alla modalità di svolgimento delle udienze da remoto prima e in presenza dopo, è stato sempre garantito in maniera adeguata l’esercizio dell’attività di rappresentanza e difesa. Sottende il medesimo spirito, l’accordo di collaborazione, di recente sottoscritto tra l’Ufficio Studi formazione e massimario della Giustizia Amministrativa e l’Osservatorio Nazionale Permanente sull’esercizio della Giurisdizione, regolamentato dal Consiglio Nazionale Forense presso cui ha sede, con il quale si è inteso condividere attività di studio e ricerca in materie che rivestono interessi strategici per l’economia e le istituzioni nazionali e sovranazionali oltre a favorire e promuovere, come opportuno attività di formazione congiunta mirata all’aggiornamento professionale di magistrati e avvocati. Concludo, auspicando il massimo impegno da parte di tutti gli operatori del diritto, vocati al corretto funzionamento della giustizia, nell’emergenza e oltre l’emergenza, per rendere possibile la realizzazione di un nuovo o meglio rinnovato concetto di comunità della giurisdizione, informato ai principi di responsabilità, solidarietà ed eguaglianza. Pasquino: “L’abolizione della prescrizione è del tutto incompatibile con lo stato di diritto” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 3 febbraio 2021 Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica a Bologna, ritiene che il prossimo dovrà essere un governo “fattivamente, significativamente, totalmente europeista”, e vede con favore Mario Draghi come prossimo Presidente della Repubblica. Professor Pasquino, crede si riuscirà a formare un Conte ter o nei prossimi giorni prenderà quota l’idea di un governo istituzionale? Credo che siamo di fronte sostanzialmente al tentativo di Renzi di mostrare che è lui a controllare la formazione e la distruzione del governo. Quindi dipende da sino a dove il leader di Italia viva vuole spingere la sua megalomania. Negli ultimi due giorni attorno al tavolo delle trattative abbiamo visto personaggi “curiosi”... Che intorno al tavolo ci fossero personaggi curiosi è vero ma rappresentano una parte della società italiana. Non possiamo dimenticare che il Parlamento rappresenta la società e non dobbiamo stupirci o criticare troppo i nostri rappresentanti. La legge elettorale rimane pessima ma siamo stati noi a sceglierli. Come assegnare e utilizzare i fondi del Recovery Plan credo sia l’atto più eminentemente politico che ci possa essere. Immagino che quindi non sia d’accordo con la proposta di Italia Viva di una bicamerale guidata dall’opposizione su fisco e piano di ripresa… Il piano è compito del governo, non di una commissione che lavora a latere. Mi pare quindi una pessima idea pensare a una bicamerale per utilizzare meglio i fondi. No, non va bene. Sono il governo e i ministri, nello specifico quello dell’Economia, che si rapportano con il Parlamento e quindi anche con l’opposizione. Il punto di maggior scontro è stato sulla giustizia, con la riforma della prescrizione del Guardasigilli Alfonso Bonafede che Italia Viva puntava a cancellare. Su questo tema c’è sicuramente della sostanza. Che la giustizia italiana sia lenta e inefficiente è chiarissimo. L’abolizione della prescrizione è incompatibile con lo stato di diritto, che dice che un processo deve svolgersi in un certo tempo dopo il quale arriva la prescrizione. Hanno ragione i cosiddetti “garantisti” e su questo il Movimento 5 stelle sbaglia. La prescrizione è un elemento di civiltà giuridica, punto. Se fossi al tavolo direi al M5S di mollare sulla prescrizione e a Italia Viva di mollare sul Mes, visto che sono i due principali temi di discussione. Il Presidente Mattarella ha richiamato alle tre emergenze del paese: sanitaria, sociale ed economica. Riusciremo a gestire in maniera adeguata il piano vaccinale e al tempo stesso l’arrivo dei fondi dell’Unione europea? Terrei separato il piano vaccinale da altre tematiche, perché ha una componente tecnica notevolissima e deve essere elaborato con la supervisione e la partecipazione attiva del ministro della Salute. Sul Recovery plan sto a quello che vedo, anche se ci sono cose che non vedo e che vorrei vedere. Non dimentichiamoci che in Italia c’è il 20 per cento di evasione fiscale ma anche un alto livello di risparmio. La gestione di quei fondi è il compito maggiore che hanno il governo e il ministro dell’Economia in questa fase. Serve quindi un documento scritto o una parola d’onore per rispettare l’accordo di un governo che duri fino alla fine della legislatura. Ci saranno dei disaccordi, certo, ma serve lealtà di fondo. Sabella: “Sciogliere l’Anm? Non mi straccerei le vesti” di Angela Stella Il Riformista, 3 febbraio 2021 L’ex pm e ora giudice al Tribunale di Napoli, Alfonso Sabella, è uno dei tanti (troppi) che hanno pagato la non appartenenza alle correnti, e hanno visto la loro carriera rallentata perché non ha voluto mai alzare il telefono per chiedere a qualcuno un favore. Sul Sistema Palamara avverte: “Non fermiamoci alle chat di Unicost, la magistratura indaghi anche su quelle di Mi e Area, troverà le stesse dinamiche”. Parola chiave dell’anno giudiziario: “credibilità”. Solo operazione di facciata o secondo lei la magistratura ha preso davvero coscienza che bisogna attuare una vera (auto) riforma? Magari fosse così. La magistratura non credo che sia in grado di autoriformarsi da sola. Purtroppo il meccanismo delle nomine e delle correnti dell’Anm è un tipico modus operandi della magistratura che va avanti da troppo tempo. La questione è semplice: dalle chat di Luca Palamara - di cui tutti eravamo a conoscenza e che ora tocchiamo con mano - è emerso il quadro di una magistratura associata che ha preso il controllo di un organo istituzionale, il Csm. O dobbiamo credere che le correnti dell’Anm siano realtà eversive e andrebbero sciolte con un decreto del ministro dell’Interno oppure occorre interrompere questo circuito vizioso tra le correnti dell’Anm e il Consiglio Superiore della Magistratura per recuperare la funzione di assoluta garanzia di autonomia e indipendenza che deve avere il Csm. L’unico modo per invertire la rotta è un trattamento chemioterapico d’urto, ossia il sorteggio dei componenti del plenum. È una proposta di cui non sono un grande sostenitore ma che ritengo essere un male necessario per porre freno allo strapotere delle correnti. Ciò dovrebbe passare per una riforma costituzionale, per quello dicevo che la magistratura da sola non è in grado di riformarsi. Ieri Alberto Cisterna su questo giornale poneva sul piatto proprio la possibilità che l’Anm debba autosciogliersi: lei quindi sarebbe favorevole? Continuo a pensare che la condivisione di idee nella magistratura sia un valore aggiunto all’interno dell’esercizio della giurisdizione. Ammetto comunque di non provare alcuna simpatia per l’Anm, quindi non mi straccerei le vesti se un giorno ciò accadesse. Il Paese può sopravvivere anche senza di lei. Il problema vero è un altro: mi rendo conto che la politica non vuole affrontare questo discorso e si gira dall’altra parte, tuttavia bisogna non dimenticare che le correnti dell’Anm si muovono fuori da qualunque regola, o norma di legge. E ciò non riguarda solo l’Anm ma anche i partiti politici e i sindacati, appunto come l’Anm. Si tratta di soggetti che determinano il presente e il futuro del Paese ma lo fanno come associazioni private non riconosciute: è tempo di emanare una legge che regolamenti il loro operato. Pensi lei che l’Anm non ha nemmeno una pec. Non sono tenuti a nessun tipo di obbligo. Però c’è una differenza fondamentale tra l’Anm e le altre organizzazione sindacali. Quale? Le organizzazioni sindacali non decidono né le politiche aziendali né chi deve stare ai vertici delle società. L’Anm invece si arroga questo potere e ciò ha creato il sistema denunciato da Palamara. Lei intende i capi degli uffici giudiziari, i posti apicali? Certamente. Se i sindacati non decidono chi deve essere al comando di quella che fu la Fiat, invece le correnti scelgono colui che diventerà il prossimo Primo Presidente della Corte di Cassazione o il futuro Procuratore generale. Il problema fondamentale su cui tutti devono aprire gli occhi, invece di voltarsi e far finta di niente come stanno facendo ora i vertici della magistratura italiana, è un altro: ultimamente si torna a parlare di criteri oggettivi per la nomina dei vertici degli uffici, ma bisogna considerare che oramai i pozzi sono avvelenati. Chi ha avuto un incarico direttivo o semi direttivo con il sistema delle correnti oggi si trova “oggettivamente” in una posizione di vantaggio rispetto a chi quell’incarico non lo ha avuto. Anche qui occorre dunque un trattamento chemioterapico: non dico di tornare alla rigida soluzione dell’anzianità ma almeno utilizzare un sistema oggettivo che tenga conto anche di come sono stati ottenuti determinati incarichi. E quindi si faccia piena chiarezza su quello che è emerso dalle carte di Palamara: abbiamo solo le chat di Unicost, ma vediamo anche quelle di Mi e di Area dove troveremmo le stesse identiche cose. Su questo ci metto la mano sul fuoco. A proposito di questo, abbiamo aperto una serie di approfondimenti sulla valutazione professionale dei magistrati. L’Ucpi dice: siamo l’unico Paese dove le valutazioni sono al 99% positive... È verissimo: se non commetti errori grossi, scatta automaticamente la promozione. Ma se non sei particolarmente gradito alle correnti la tua valutazione arriva dopo. E ciò è quanto è accaduto a Lei... La mia valutazione è stata l’ultima ad arrivare perché non ho mai alzato il telefono per chiedere favori, in quanto credo profondamente nell’etica del nostro ruolo e, come me, la maggior parte dei magistrati italiani. Però è anche vero che come denuncia l’Ucpi a “prescindere da una valutazione di merito delle attività in concreto svolte dal singolo magistrato” la sua carriera progredisce... Certo, perché la propria corrente proteggerà sempre quel magistrato. Io ci tengo a dire questo: non sono assolutamente contrario all’ingresso degli avvocati nei Consigli giudiziari: sentire l’opinione di chi vede l’operato della magistratura dall’esterno è importante. La dialettica professionale tra le varie parti del processo penale è fondamentale che si svolga con la massima serenità. Per questo è necessaria una riforma profonda del sistema giustizia, compresa quella amministrativa, contabile, tributaria. Sempre ieri da questo giornale Tiziana Maiolo si è chiesta se le posizioni ideologiche di un magistrato possano influenzare l’esercizio della sua funzione. Qual è il suo parere? Il magistrato dovrebbe essere per Costituzione autonomo e indipendente. Molti miei colleghi purtroppo, e mi dispiace dirlo, hanno pensato che autonomia e indipendenza fossero un diritto e non un dovere. Io invece li ho sempre considerati come un dovere: qualunque idea politica io abbia, essa non può assolutamente condizionare il mio operato perché ho il dovere di presentarmi autonomo e indipendente dinanzi ai cittadini. Occorre pertanto un recupero etico della magistratura. A tal proposito voglio aggiungere una cosa che manca nel libro di Palamara. Prego… Riguarda la formazione dei magistrati e la lottizzazione pure dei corsi di formazione. Io non ho le prove ma da quello che so c’è il corso in quota Mi, quello in quota Area, e quello in quota Unicost: è così che vengono formati i nuovi magistrati che decidono sulle vite dei cittadini. Così si fa un danno enorme alla giurisdizione, e non vorrei tirare in ballo Socrate e la corruzione dei giovani. Io sto notando una perdita di senso etico da parte dei nuovi magistrati: persone preparatissime ma prive di afflato etico, del rispetto del principio della giurisdizione, che nessuno ha insegnato loro. Spero di sbagliarmi. Quindi secondo lei la priorità è la carriera più che il rispetto dello Stato di Diritto? Certo, è questo avviene perché vengono cooptati fin da subito. Il meccanismo non lo ha inventato di certo Luca Palamara. Accadde anche a me tanti anni fa, nel 1989, quando ero uditore giudiziario. Il mio coordinatore, elemento di spicco di Mi, la prima cosa che fece è invitare me e gli altri tirocinanti in un convegno a Taormina. L’incontro era finanziato non si sa da chi in due hotel di lusso sul mare, ci fu anche un concerto in un altro prestigioso hotel, fuochi d’artificio a mare, caviale e champagne a pasto: qual era l’obiettivo? Portarci da Mi e con qualche collega ci sono riusciti. Ora forse il meccanismo è cambiato ma la ratio è quella. Riguardo alcune dichiarazioni contenute nel libro di Palamara, alcuni suoi colleghi hanno invitato Giovanni Salvi e Giuseppe Cascini a smentire o a dimettersi. Che ne pensa? Non chiedo le dimissioni di nessuno ma chi esercita pubbliche funzioni ha il dovere di essere trasparente: se ci sono ombre vengano chiarite. E di ombre ce ne sono tante e su molti colleghi, e non mi riferisco solo a quelle che emergono dal libro di Palamara. La magistratura ha il dovere di scavare in tutte le chat. Molti suoi colleghi provano il suo stesso disagio, per così dire, ma non si espongono... Perché il sistema vive ancora. Io sono stato spedito a Napoli da cinque anni, ma la mia famiglia vive a Roma e faccio il pendolare. Mi aveva allettato l’idea di fare domanda per la posizione di sostituto procuratore generale di Cassazione: ho preparato tutta la documentazione ma poi ho rinunciato perché ho capito, parlando con colleghi del Csm, che il sistema è rimasto tale e quale. Con ogni probabilità questi posti saranno oggetto di spartizione tra le correnti. Il procuratore generale di Cassazione Salvi all’inaugurazione dell’anno giudiziario ha stigmatizzato la mediaticità di certe procure. Lei è d’accordo? La questione è delicata ed il problema è stato affrontato nel peggior modo possibile dalla riforma che ha dato troppo potere al capo degli uffici. Il discorso non è la mediaticità del pm, io tra l’altro quando ero pm a Palermo non andavo in televisione. La domanda da farsi è: perché impedire ad un magistrato di rappresentare degli elementi che possono essere utili per la collettività? Per esempio è utile per il controllo democratico del suo operato sapere se un pm arresta solo persone di destra o di sinistra. Il problema è come lo si fa: se arriva un pm e presenta come colpevoli persone per le quali vale la presunzione di innocenza ha fatto un cattivo servizio al Paese. Secondo Lei andrebbe abolita l’obbligatorietà dell’azione penale? No, ma bisognerebbe fare una scelta di fondo: l’azione penale andrebbe limitata solo a casi in cui è necessaria la sanzione penale. Noi viviamo in un Paese panpenalistico: occorre una depenalizzazione serissima. O Palamara o Gratteri: per la giustizia non c’è terza via di Iuri Maria Prado Il Riformista, 3 febbraio 2021 Con il crollo di fiducia nella magistratura è andata smarrita la speranza nello Stato di diritto. Ce l’ha sottratta la combinazione delle due degenerazioni: i traffici nelle nomine e i rastrellamenti giudiziari. Abbiamo scritto più volte, e tante volte anche su questo giornale, di quanto sia stupido, irresponsabile, pigro dichiarare “fiducia nella magistratura”. Decenni di malversazione del potere giudiziario obbligano infatti a non avere proprio nessuna fiducia nell’amministrazione della giustizia e in quelli incaricati di gestirla, e semmai bisogna - per quel che ancora si può - avere fiducia nel diritto, nella possibilità che esso si affermi non ostante e anzi contro il sacerdozio togato che ne fa carne di porco. E tuttavia non ci rallegriamo del crollo di credibilità della magistratura raccontato dai sondaggi circolanti in questi giorni: e quando vediamo che quel monito (“abbiamo fiducia nella magistratura”) magari esce ancora meccanicamente di bocca al politico di turno, ma davvero non è più accreditato presso la maggioranza dei cittadini, sentiamo che un altro bene importante è andato perduto. Ed è un’altra responsabilità - gravissima anche questa - dell’eversione giudiziaria: aver privato il cittadino che sia vittima di un sopruso del potere pubblico o privato, dell’arbitrio di chi ha più mezzi e agganci, della slealtà di chi si mette sotto i tacchi ogni regola per imporre la propria, averlo privato della speranza che almeno ci sarà un giudice cui fare appello per veder riparata quell’ingiustizia. Quella speranza, semmai c’è stata, non c’è più, ed è sostituita dalla richiesta di un po’ di manette e un po’ di galera, una pretesa abbondantemente ripagata dalle assicurazioni della magistratura televisiva che volentieri offre la propria disponibilità per la realizzazione di quel bel programma. Ma proprio mentre si incattivisce questo cortocircuito civile, con la fiducia nella magistratura pervertita nell’istanza forcaiola, si registra appunto il decadimento della credibilità pubblica di quella corporazione: con il risultato che la giustizia è percepita e desiderata, alternativamente, come cosa esclusivamente corrotta o puramente violenta. Per capirsi: o Palamara o Gratteri. La speranza nella terza possibilità - e cioè nello Stato di diritto - ci è sottratta. E a sottrarcela è la combinazione di quelle due degenerazioni, il doppio tratto distintivo della giustizia italiana: traffici nelle nomine e rastrellamenti giudiziari. “I detenuti non sono numeri. Stefano fu abbandonato” di Simona Musco Il Dubbio, 3 febbraio 2021 Caso Cucchi: le motivazioni della sentenza dell’appello ter. “Un monito severo ed un’occasione di riflessione per chiunque operi a contatto con i detenuti, a non considerarli un semplice numero del procedimento, ma esseri umani, fors’anche talvolta sgradevoli, eppur sempre doverosamente meritevoli, proprio in ragione del loro stato detentivo, di un’attenzione anche superiore a quella dedicata ad un uomo libero nella persona, la cui dignità non perdono mai, pena la regressione a tempi oscuri oramai trascorsi”. Quello firmato dal presidente della prima Corte d’Assise Tommaso Picazio è un duro atto d’accusa. Verso il sistema carcerario, verso la giustizia inquirente e giudicante, verso il sistema sanitario. Pezzi di un unico corpo colpevoli di aver abbandonato Stefano Cucchi. Sono parole pesantissime quelle che motivano la sentenza che il 14 novembre del 2019 ha dichiarato prescritte le accuse nei confronti del primario del Reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini, Aldo Fierro, e di altri tre medici, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. Un quinto medico, Stefania Corbi, è stato assolto “per non commesso il fatto”. Parole che certificano un fatto: la morte di Cucchi, come ha commentato il difensore della famiglia, Fabio Anselmo, è frutto di multifattorialità, riconoscendo le fratture come concause. E che se tutti avessero fatto il proprio dovere, il giovane geometra romano, arrestato per droga nell’ottobre 2009 e pestato con così tanta violenza da morire nel giro di una settimana, forse sarebbe stato ancora vivo. Cucchi non era solo un detenuto, recita la sentenza. “Era diventato un detenuto in una certa misura abbandonato a sé stesso”. Un detenuto la cui condizione psicologica non è stata tenuta in considerazione, una frustrazione ed una sofferenza ignorate “nella sua entità di essere umano durante l’udienza di convalida, sia dal giudicante che dal requirente i quali, evidentemente, non hanno ritenuto di dover tener conto, nel valutare le esigenze cautelari, delle condizioni generali psicofisiche del Cucchi”. I sanitari che hanno avuto Cucchi in cura, al Pertini, avrebbero dovuto avere cognizione della particolare situazione psicologica di un detenuto, “aspetto necessariamente aggravato dallo stato di prostrazione psico- fisica che discendeva dal contingente quadro patologico in atto (fratture, dolore, mancanza di autonomia fisica e via dicendo). Un festival di insipienze - scrive il giudice che deve aver prodotto una reazione, definiamola puerilmente sdegnata, da parte di un soggetto verosimilmente già portatore di proprie fragilità”. Il giudice evidenzia un fatto che dovrebbe essere ovvio, ma che ovvio, a quanto pare, non è stato: il momento iniziale della custodia cautelare rappresenta sempre un passaggio di grave impegno psicologico, che richiede tutta una serie di garanzie e cautele da parte di chiunque vi entri in contatto. “Tutto questo meccanismo, nella vicenda che ci occupa, occorre dirlo con molta chiarezza, ha fallito il proprio scopo”, sentenzia Picazio. Che poi ammonisce le istituzioni che hanno avuto in custodia Cucchi, lasciandolo di fatto morire: “Lo Stato ha certamente il diritto di fare un prigioniero - si legge -, ma non di disinteressarsene. Questo è il terreno, del tutto trascurato, in cui una vicenda, dal punto di vista giudiziario banale (un arresto per violazione in tema di stupefacenti), volge in pochi giorni in tragedia”. Troppo sbrigativo e troppo semplice, da parte dei medici, affermare che Cucchi rifiutava le cure ed i trattamenti e che, dunque, i sanitari siano esenti da responsabilità. Un’affermazione che riduce “ad un rango quasi mercantilistico” il trattamento sanitario, dimenticando che i protocolli prevedono un contenimento del paziente a rischio suicidio, valutazione che si ribalta, evidentemente, “se il paziente è un detenuto che instaura atti potenzialmente a rischio, anche di grave entità, per la propria salute. Un’evidente aporia”. E non basta nemmeno sottolineare che Cucchi fu, semplicisticamente, sollecitato a nutrirsi: “Non ricevette mai, e da alcuno, un’informazione adeguata, dettagliata e completa in merito alle sue condizioni cliniche e ai rischi cui andava incontro”. Per il giudice occorre ricordarlo: “Le sue condizioni di limitazione della libertà personale non lo privano dei diritti fondamentali propri della dignità umana”. Ed è per questo che arriva ad una conclusione fondamentale: “I sanitari che operarono furono in colpa per imprudenza, imperizia e negligenza, non caratterizzabile in alcun modo e sotto alcun profilo come lieve”. Impossibile stabilire il punto di non ritorno, ma “l’ipotesi che una diversa cura (alimentazione adeguata, monitoraggio cardiaco), in particolare se messa in atto fin dai primi giorni di ricovero, avrebbe potuto evitare il decesso, impedendo il verificarsi dell’arresto cardiaco, o consentendo un intervento immediato al verificarsi dello stesso, è ipotesi plausibile e supportata dai dati scientifici disponibili”. I medici del Pertini, inoltre, non valutarono in modo adeguato “l’ipoglicemia e la bradicardia” due “fattori d’allarme che avrebbero imposto cautela”. “Lo Stato non può disinteressarsi di un detenuto. Prescrizione fallimento della giustizia” di Liana Milella La Repubblica, 3 febbraio 2021 Caso Cucchi. Depositate le motivazioni della sentenza per i 5 medici del Pertini che ebbero in cura il giovane morto sei giorni dopo l’arresto. Erano tutti accusati di omicidio colposo. “Troppo facile dire che rifiutò le cure”. “Lo Stato ha certamente il diritto di fare un prigioniero, ma non di disinteressarsene. Questo è il terreno del tutto trascurato, in cui una vicenda, dal punto di vista giudiziario banale (un arresto in tema di stupefacenti), volge in pochi giorni in tragedia”. È quanto scrivono i giudici della corte d’appello di Roma nelle motivazioni della sentenza con cui il 14 novembre del 2019 hanno disposto una assoluzione e riconosciuto quattro prescrizioni per cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini, dove morì Stefano Cucchi sei giorni dopo l’arresto. Erano tutti accusati di omicidio colposo. “Cucchi rappresentava - riflette la Corte - indubbiamente un paziente di difficile approccio, probabilmente scarsamente disponibile all’interlocuzione, forse con venature antisociali, certamente oppositivo ed ancorato ad una caparbia ed infantile posizione di rifiuto dei trattamenti”. Ma appare “troppo sbrigativo e troppo semplice affermare a questo punto che il paziente rifiutava le cure ed i trattamenti e quindi nulla può contestarsi ai sanitari”. Secondo i giudici siamo in presenza di “un festival di insipienze che deve aver prodotto una reazione, definiamola puerilmente sdegnata, da parte di un soggetto verosimilmente già portatore di proprie fragilità. Di qui il passo è breve: lasciarsi andare, optare per il tanto peggio tanto meglio per far nascere nelle persone che si reputano intimamente responsabili del suo stato il senso di colpa”. E ancora: “Una sentenza oramai sostanzialmente pletorica rispetto al caso, i cui termini di redazione delle motivazioni sono anche caduti nel drammatico periodo della vicenda Covid; un fallimento della giustizia, come sempre avviene allorché cada la mannaia della prescrizione ma anche un monito severo ed una occasione di riflessione per chiunque operi a contatto con i detenuti”. Che non vanno considerati un semplice numero del procedimento, ma esseri umani, fors’anche alle volte sgradevoli, eppure sempre doverosamente meritevoli, proprio in ragione del loro stato detentivo di una attenzione anche superiore a quella dedicata ad un uomo libero nella persona, la cui dignità non perdono mai, pena la regressione a tempi oscuri oramai trascorsi”. “Cucchi fu certamente sollecitato a nutrirsi e ad assumere bevande liquide, ma, verosimilmente non ricevette mai né da alcuno una informazione adeguata, dettagliata e completa in merito alle sue condizioni cliniche, alle necessità di trattamento che esse comportavamo ed ai rischi cui andava in contro con il suo atteggiamento”. “Un dato storico incontrovertibile è rappresentato dalla crisi cardiocircolatoria che ha condotto a morte Stefano Cucchi, una verità banale se vogliamo ma di una consistenza rocciosa” ma i medici del Pertini non valutarono in modo adeguato altri due fattori emersi dalla nuova perizia d’ufficio: “l’ipoglicemia e la bradicardia” due “fattori d’allarme che avrebbero imposto cautela”, proseguono i giudici. Per i magistrati i medici “avrebbero potuto svolgere una efficace azione causale impeditiva dell’evento morte: il ripristino di una corretta assunzione di cibi e bevande, determinando in tal modo la regressione dei meccanismi patologici instauratisi (in quanto l’ipoglicemia e la bradicardia sono reversibili al ripristinare di una corretta alimentazione), e un monitoraggio seriato della funzione cardiaca onde potere intervenire tempestivamente per correggere le alterazioni del ritmo al loro manifestarsi”. “La motivazione della sentenza restituisce dignità e onore alla dottoressa Corbi la cui immagine di medico è stata per tanti anni macchiata da una accusa infondata”. Così afferma l’avvocato Giovanni Luigi Guazzotti, difensore di Stefania Corbi, medico del ‘Sandro Pertini’ assolta dai giudici della corte d’appello di Roma commentando le motivazioni della sentenza emessa novembre del 2019. Nei suoi confronti l’accusa era di omicidio colposo. Per gli altri quattro medici, coinvolti nella vicenda di Stefano Cucchi, è stata decisa l in prescrizione del reato di omicidio colposo. “Il distinguo delle posizioni dei sanitari mette in risalto che la Corbi ha fatto tutto quello che era possibile fare per salvare la vita di Stefano Cucchi. Dopo tanti anni viene riconosciuto che nessuna colpa professionale deve essere addebitata alla Corbi”, conclude il penalista. La Cedu esaminerà il caso Uva: ammesso il ricorso della famiglia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 febbraio 2021 Nel 2020 la Cassazione aveva confermato l’assoluzione di due carabinieri e sei poliziotti, accusati della morte di Giuseppe Uva. La Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu), ha ammesso il ricorso presentato dagli avvocati e dalla famiglia di Giuseppe Uva, dopo che nel 2020 la Cassazione aveva confermato l’assoluzione di due carabinieri e sei poliziotti. A darne notizia su La Stampa sono Luigi Manconi e Valentina Calderone, presidente e direttrice di “A Buon Diritto”. Il processo che ha fatto discutere è stato quello che vedeva imputati carabinieri e poliziotti intervenuti quella notte (il 14 giugno 2008). In appello gli imputati erano stati assolti, così come ha confermato la Cassazione. Ora - con l’ammissione del ricorso - gli atti verranno riesaminati appunto dalla Cedu. Per la Cassazione “non vi fu alcuna violenza gratuita” - Nel testo scritto dai giudici della V sezione penale della Suprema Corte si legge che “anche volendo ammettere che Giuseppe Uva disse forse di essere stato percosso (senza dire da chi, ma preannunciando intenti vendicativi) o che urlò “assassini mi avete picchiato”, fatto sta che di quelle violenze fisiche non vi fu alcun riscontro”. I giudici di piazza Cavour sottolineano anche che “non vi fu alcuna violenza gratuita, se è vero che si rese necessario bloccare fisicamente Uva senza che poi risultassero visibili segni di sorta riconducibili ad afferramenti o immobilizzazioni”. Continuano sottolineando che “è un dato pacifico e innegabile”, il fatto che nessuno abbia assistito a condotte violente realizzate da uno qualsiasi degli imputati: a parte le indicazioni dell’amico “su quel che credette di interpretare dai rumori della stanza accanto, nulla è stato acquisito a riguardo. Anzi, sul corpo della vittima non fu dato neppure riscontrare segni di afferramento, strumentali a una immobilizzazione coattiva realizzata con l’uso di una forza particolare”. Di violenze fisiche “non vi fu alcun obiettivo riscontro”. Il contenimento fisico che secondo la ricostruzione accusatoria avrebbe concorso allo stato di agitazione psico-motoria e alla morte, fu “assolutamente limitato” e “strumentale” a farlo salire in auto e tenerlo fermo in caserma. Il 14 giugno 2018 Giuseppe Uva morì in ospedale - Dopo la definitiva assoluzione, però, l’avvocato della famiglia, Fabio Ambrosetti, aveva dichiarato: “Ci rivolgeremo alla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Detto, fatto. Ora, grazie all’associazione “A Buon Diritto”, sappiamo che il ricorso è ammissibile. Questi i fatti. Nella notte tra il 13 e il 14 giugno 2008 Giuseppe Uva, operaio 43enne di Varese, probabilmente in stato d’ubriachezza, s’era messo a spostare delle transenne in Via Dandolo, nel centro cittadino. Uditi gli schiamazzi, i residenti avevano chiamato le forze dell’ordine. Sul posto erano accorse tre volanti, una dei carabinieri, due della polizia. Uva era stato fermato e tradotto in caserma, secondo i verbali vi era arrivato alle 3.50 insieme all’amico Alberto Biggiogero. Sempre secondo i verbali, alle 4.11 sul posto era arrivata la Guardia medica, allertata dai carabinieri, la quale aveva deciso di sottoporre Uva a un trattamento sanitario obbligatorio. Alle 5.45 l’uomo veniva trasferito in ospedale. Verso le dieci del mattino, Giuseppe Uva moriva. Per la sorella Lucia il suo corpo era quasi irriconoscibile - Lucia Uva ha sempre sostenuto che il corpo del fratello Giuseppe restituito ai familiari era quasi irriconoscibile, presentava tumefazioni e ferite, aveva i testicoli tumefatti e l’ano presentava tracce di sangue. In seguito alla denuncia da loro sporta, fu istituito il primo processo, dove sei poliziotti e due carabinieri vennero imputati con l’accusa di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona. Il processo si chiuse a metà del 2012, con l’assoluzione di un medico accusato di omicidio colposo, e la richiesta del magistrato che seguiva il caso di svolgere ulteriori indagini. Risultava infatti strano che Uva fosse stato portato in caserma, visto che per gli schiamazzi notturni è prevista solo una multa, e che non fosse stato redatto alcun verbale d’arresto. Non si spiegava perché fosse stato trattenuto così a lungo, e non era chiaro cosa fosse successo nel tempo intercorso tra il fermo e il ricovero in ospedale. Nel 2013, dopo cinque anni dalla morte di Giuseppe Uva, con inspiegabile ritardo la procura ascoltò Alberto Biggiogero, l’amico di Uva presente la notte del fermo. Questi dichiarò che quella notte uno degli agenti aveva detto ad Uva: “Proprio te cercavo, Uva”, frase spiegabile col fatto che l’operaio si vantava in giro di aver avuto una relazione con la moglie dell’agente in questione. Dichiarò inoltre che i carabinieri avevano picchiato Uva prima di caricarlo in macchina, e probabilmente anche in caserma, poiché aveva sentito l’amico, chiuso in una stanza con gli agenti, gemere di dolore. Quindi aveva chiamato un’ambulanza, ma il 118, stando alle deposizioni, non era arrivato, poiché aveva richiamato i carabinieri e questi avevano riferito che non c’era alcun bisogno di aiuto. Inoltre, durante il ricovero aveva sentito dire a Uva “Mi hanno picchiato”. Per i giudici sarebbe morto a causa di una patologia cardiaca - Nell’aprile del 2016 il secondo processo si chiuse con l’assoluzione degli indagati, sentenza confermata in appello due anni dopo. A parere dei giudici, le forze dell’ordine erano esenti da colpe, le ferite sul corpo dell’operaio erano dovute ad atti di autolesionismo causati da una “tempesta emotiva”, scatenata dallo stress e dallo stato di ebrezza in cui si trovava la vittima. Nel 2019 la sentenza della Cassazione ha posto termine ad un iter giudiziario tortuoso, dove tra le altre cose il magistrato incaricato di seguire il caso, è stato sottoposto ad un’azione disciplinare per non aver indagato a dovere sulla vicenda. Negli anni, poi, Biggiogero aveva in parte ritratto la sua testimonianza. Per i giudici, non c’è dubbio: Uva sarebbe morto a causa di una patologia cardiaca, per lo stress causato dallo stato di fermo e dallo stato di ebrezza in cui si trovava. Ora però, si avvia un altro iter. Quello della Cedu. L’esito non sarà scontato, ma almeno si apre un altro spiraglio. Liguria. Emergenza Covid nelle carceri, Toti respinge mozione: “Non è nostra competenza” genova24.it, 3 febbraio 2021 Il documento presentato da Pastorino chiedeva tamponi, sanificazione e spazi adeguati per l’isolamento fiduciario. “Questa mozione riversa in modo strisciante sull’amministrazione regionale alcuni dei problemi più generali su cui la Regione non ha alcuna voce in capitolo”. Così il presidente ligure Giovanni Toti ha invitato la maggioranza a votare contro il documento presentato dal consigliere Gianni Pastorino di Linea Condivisa con proposte per affrontare la “grave emergenza sanitaria negli istituti di detenzione liguri”. Nella mozione, sottoscritta anche da Pd e M5s, si chiedevano alla giunta i dati sui contagi riscontrati, istituto per istituto, e sulle condizioni dei soggetti risultati positivi; tamponi molecolari sui nuovi detenuti, un tracciamento sui positivi relativo ai contatti avvenuti prima dell’ingresso in carcere, uno screening generalizzato di detenuti e personale. Tra le misure proposte anche detergenti, gel disinfettante e dpi per detenuti, medici ed agenti, condizioni di igiene in tutti gli spazi; un tampone a coloro che sono venuti a contatto con soggetti positivi. Pastorino chiedeva che i locali per l’isolamento fiduciario all’ingresso e quelli per l’isolamento sanitario rispettino i requisiti di distanziamento e sicurezza; di verificare il trattamento sanitario dei positivi, secondo i protocolli ministeriali applicati alle persone in libertà e, infine, interventi di sanificazione e un supporto psicologico a detenuti e personale durante la pandemia. Il presidente Toti ha obiettato che tutti gli interventi di competenza della Regione segnalati nel documento sono già attuati mentre altre richieste sarebbero di competenza dell’amministrazione penitenziaria. La mozione è stata respinta con 18 voti contrari e 11 favorevoli. In Liguria al 30 ottobre 2020, secondo dati riportati dal consigliere Pastorino, risultavano presenti 1439 detenuti su una capienza di 1.049 posti e la situazione più grave si registrava nell’istituto di Marassi con 708 detenuti presenti su 450 posti regolamentari. A Marassi, al 7 novembre, risultavano positivi 11 detenuti (di cui uno ricoverato in ospedale) e 12 tra agenti e personale, mentre nell’istituto di Pontedecimo era stata segnalata la presenza di 6 detenuti e di alcuni agenti positivi. Liguria. Non solo sovraffollamento: “Attivare la Rems di Calice per i soggetti psichiatrici” cittadellaspezia.com, 3 febbraio 2021 L’appello del Sappe: “La struttura è pronta ma non è ancora stata consegnata”. “I problemi delle carceri liguri sono e restano collegati da una presenza di detenuti superiore a quella consentita. Ma il fenomeno che preoccupa è l’elevata presenza di detenuti psichiatrici, ancora non censita ma presupposta, che condiziona l’attività della Polizia penitenziaria in termini di sicurezza ed incolumità penitenziaria”. Lo afferma in una nota Michele Lorenzo, segretario regionale del sindacato Sappe. “Al 31 dicembre 2020 - proseguono dal sindacato - lo specchio dei detenuti ristretti nelle 6 carceri liguri, a fronte di 1120 posti, è di 1352 detenuti, 128 in meno rispetto al trascorso anno grazie ad uno svuota-carceri adottata per contenere l’effetto al contagio pandemico, ma questa riduzione non ha contribuito a rendere meno problematica la gestione delle carceri e i dati ne rappresentano la riprova”. “I detenuti stranieri sono 735 - prosegue Lorenzo. È il carcere di Sanremo a detenere la percentuale più elevata di stranieri reclusi con il 57,81% seguito da Imperia con 56,14%, La Spezia con il 54,65%, Genova Marassi con il 54,10%, Chiavari con il 52,31%, infine l’istituto di Genova Pontedecimo con il 49,68 %. Oggi, come detto, l’ulteriore caratteristica negativa della Liguria penitenziaria è rappresentata dalla presenza di detenuti psichiatrici ingiustamente ristretti nelle carceri, invece di essere curati in appositi centri regionali denominati Rems ancora inesistenti in Liguria, quindi non è solo l’assenza del carcere di Savona la negatività regionale per altro recepiamo la notizia di questi giorni di un ritrovato interesse per l’individuazione delle aree papabili all’edificazione del nuovo carcere savonese tra le aree di Cengio o quelle di Cairo Montenotte, che sia la volta decisiva dopo 5 anni di disinteresse. La presenza di soggetti psichiatrici è causa di una serie di eventi critici che inficiano la sicurezza dell’istituto oltre l’incolumità del poliziotto penitenziario; è quindi necessario capire le motivazioni per le quali la Rems di Calice al Cornoviglio non è ancora stata consegnata, benché ultimata, come è altrettanto indispensabile dotare gli istituti di un’assistenza specialistica idonea per ridurre l’aggressività dei soggetti psichiatrici”. La nota del Sappe riferisce poi di 58 tentativi di suicidio in carcere sventati nel 2020 (“36 in più rispetto al 2019”) e fornisce un quadro degli eventi critici registrati nelle carceri liguri nell’anno appena trascorso: parliamo, dato del sindacato, di 435 azioni di autolesionismo, 399 colluttazioni, 65 ferimenti. “Le azioni di proteste sono state 2.290 delle quali 184 casi di sciopero della fame, 32 rifiuto del vitto, 234 danneggiamenti a celle, 920 proteste per le condizioni di detenzione, 1452 proteste con battitura alle inferriate, 74 rifiuti di rientrare nelle celle”. Il Sappe fornisce anche il dettaglio istituto per istituto; la casa circondariale spezzina, nel 2020, ha fatto registrare 52 casi di autolesionismo, 2 tentati suicidi, 24 colluttazioni e 10 ferimenti. “Questa mole di criticità viene contrastata solo dalla tenacia e professionalità della Polizia penitenziaria, spesso non valorizzata e sempre in forte carenza d’organico, che si conta oggi in Liguria in 130 Poliziotti penitenziari. Come Sappe richiamiamo l’attenzione dei politici liguri e della magistratura, perché questo combinato aumento popolazione detenuta ed eventi critici con carenza di Polizia penitenziaria, nonché gestione detenuti psichiatrici ed assenza di strutture e assistenza sanitaria, potrebbe compromettere seriamente il futuro assetto sicurezza delle carceri liguri e ciò che ad esse è collegato”, conclude Lorenzo. Rieti. “Trascinavano i cadaveri nei sacchi, come immondizia” di Lorenza Pleuteri repubblica.it, 3 febbraio 2021 La denuncia dalla cella. Una lettera racconta i dettagli raccapriccianti sulla repressione della sommossa del 9 marzo: “Ci hanno lasciato morire. Io provavo a gridare, a chiedere aiuto. Invano. La gente veniva portata via senza denti, o svenuta dalle percosse”. Il provveditore Cantone: “Testo da valutare con cautela. Chi sa denunci”. “Calci e schiaffi e manganellate a freddo, a rivolta finita. Insulti. Celle allagate dagli scarichi dei bagni. Il metadone custodito in una cassaforte con le chiavi lasciate nella serratura. Assistenza sanitaria negata o ritardata”. E tre morti, “abbandonati come la spazzatura”. Una lettera uscita dal carcere di Rieti in estate (resa ora pubblica dal blog di area anarchico-libertaria Oltreilponte.noblogs.org) aggiunge una drammatica testimonianza alle prime voci filtrate dalla casa circondariale, un’altra storiaccia di presunte violenze e di pesanti omissioni, tutte da verificare. Il Dipartimento regionale dell’amministrazione penitenziaria, in attesa che la procura concluda le indagini, rimanda al mittente le accuse, chiedendo cautela e ponderazione. Il 9 marzo scorso, nella struttura terremotata da azioni di protesta vennero trovati senza vita Marco Boattini, 40 anni, il 28enne ecuadoregno Carlo Samir Perez Alvarez e Ante Culic, croato di 41 anni. I tre decessi furono attribuiti (prima ancora delle autopsie) ad overdosi di metadone e psicofarmaci, così come è successo per altri 10 detenuti morti alla Dozza di Bologna, al Sant’Anna di Modena e durante o dopo il trasporto dal carcere emiliano ai penitenziari di altre città. Poi la mamma del ragazzo sudamericano, assistita dall’avvocata Simonetta Galantucci, si è rivolta alla procura e ha cominciato ad aprire qualche crepa nelle versioni ufficiali. Un compagno di detenzione del figlio, visitato sommariamente qualche ora prima e agonizzante in cella, avrebbe chiesto aiuto per una notte intera. Ma nessuno sarebbe andato a vedere. E anche per Carlo i soccorsi arrivarono troppo tardi. Altri reclusi di Rieti avevano segnalato situazioni pesanti al garante nazionale dei detenuti, persone offesa nelle indagini in corso. Una telefonata arrivata ad un parente parlava di pestaggi indiscriminati e di persone che “cercavano almeno di ripararsi la testa”. Adesso la lettera-denuncia che avalla, integra, accusa. E sbatte in faccia a magistrati e investigatori altre informazioni da approfondire, cercando conferme (o smentite), con tutti i limiti e i vincoli che ci sono per gli scritti privi di firma e senza garanzie di autenticità. “Abbiamo iniziato la rivolta - spiega l’estensore della missiva, protetto dall’anonimato - per la solidarietà verso gli altri detenuti e per i nostri diritti negati senza motivo o almeno senza rassicurazioni... Era il 9 marzo. Prima della chiusura abbiamo sfondato telecamere e cancelli del carcere - riconosce - senza toccare uno solo degli assistenti, anzi dando loro la possibilità di scappare. Abbiamo preso il controllo del carcere arrivando fino sopra l’edificio, abbiamo contrattato con le istituzioni a lungo perché ci garantissero risposte, rassicurazioni, diritti, infine abbiamo deciso, dopo diverse ore, di restituire il carcere e il controllo alle istituzioni col patto di raggiungere un’intesa e che non ci fosse fatto nulla, come noi non avevamo fatto a loro fisicamente. Siamo rientrati nelle celle di nostra volontà restituendo il carcere”. Il racconto continua, duro, incalzante: “Alcuni di noi si sono feriti durante la rivolta, altri hanno avuto accesso a farmaci pericolosi come il metadone che era in una cassaforte nell’infermeria con le chiavi attaccate, chiavi che se fossero state tolte avrebbero salvato vite (nelle comunicazioni ufficiali fin qui rese note non si fa cenno a sostanze potenzialmente pericolose custodite in modo non adeguato e non sicuro, ndr). Ma non è bastato tutto questo, nel giorno a seguire e nei mesi fino a oggi abbiamo passato e ho visto ogni genere di sopruso, abuso di potere. “Per cominciare la sera stessa chi è stato male per le medicine non è stato subito portato all’ospedale. E infatti i 4 morti (3 uomini deceduti dopo la rivolta più uno a distanza di un mese e mezzo, un 31 indiano spirato ufficialmente per cause naturali e rimasto fuori dal macabro bollettino delle sommosse, ndr) lo sono perché, dopo che noi li abbiamo consegnati ai dottori e istituzioni finché ricevessero assistenza, hanno subito un primo soccorso e sono stati riportati a morire in una cella soli e in preda ai dolori, abbandonati come la spazzatura. “Solo il giorno successivo chi era sopravvissuto ha ricevuto assistenza ed è stato portato in ospedale. Chi non ce l’ha fatta, non ce l’ha fatta perché è stato lasciato morire senza un motivo o perché forse ancora non se ne aveva uno per farlo vivere. Con la speranza di cancellare tutto, di nascondere ciò che era successo”. Non è finita. “Per noi che invece eravamo lì, nei giorni a seguire non è stato facile dopo aver portato via i cadaveri il giorno successivo, trascinati come immondizia in un sacco, e ciò lo dico perché l’ho visto con i miei occhi dalla cella, sono saliti i celerini, le squadrette carcerarie. Sono entrati cella per cella, ci hanno spogliato chi più chi meno e ci hanno fatto uscire con la forza, messi divisi in delle stanze e uno alla volta passavamo per un corridoio di sbirri che ci prendevano a calci, schiaffi e manganellate; per i più sfortunati tutto ciò è durato quasi una settimana tra perquisizioni, botte, parolacce, ci dicevano “merde, testa bassa!” “vermi” e quando l’alzavi per dispetto venivi colpito ancora più forte. “Ricordo che per due giorni non passò neanche da mangiare e prima di cinque non avevamo potuto contattare neanche i nostri familiari. Io stesso sono stato in una cella allagata, bagno rotto dalle perquisizioni, nella merda più totale che c’era nella cella ho dormito in una palude senza coperte o zozze e bagnate; per tutti quei giorni ho provato a gridare, lamentarmi ma o mi veniva detto: “è quello che meriti merda” o venivo picchiato dalle squadre di celerini. “Sono stato fortunato perché ho visto gente trascinata fuori senza denti o svenuta per le percosse, ho urlato a chi lo faceva per prendere anche la mia parte ma fortuna e caso sono ancora qua, altri, invece, non ci sono o sono stati trasferiti lontano e i più sfortunati hanno preso altre botte all’arrivo di un altro istituto. Abbiamo subito tutti in quei giorni, alcuni meno, altri più. Ci hanno tolto o volevano toglierci la dignità, ma voglio dirvi una cosa, non ce l’hanno fatta perché anche in quei giorni ci davamo manforte, c’erano risate, c’era la voglia di alzare la testa anche se ci veniva spinta giù con la forza, di guardare anche se ci veniva detto di non farlo, non ci siamo arresi mai e siamo ancora qua con la voglia di vivere e di ridere ma con la consapevolezza e il ricordo di ciò che è stato e degli amici persi e dei torti subiti in nome della loro giustizia che giustizia non è, ad oggi - è la situazione a giugno - ci troviamo chiusi 20 ore su 24, 2 ore alla mattina 2 dopo pranzo, non ci sono attività ricreative così biblioteca, palestra, niente”. Possibile? Esagerazioni e calunnie? O frammenti di verità? Il provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio, Carmelo Cantone, non si sottrae alle domande. “I tre morti di Rieti, visti dall’esterno, devono preoccupare. La magistratura sta indagando e andrà a fondo. Io sono tranquillo. Da quelle risulta a me e da quello che ho constatato, andando di persona in carcere, non c’è stata alcuna “macelleria messicana”. “La lettera uscita adesso non la conoscevo, credo vada pesata e soppesata con cautela. Durante il mio sopralluogo - prosegue - ho incontrato i detenuti di tre reparti, uno ad uno. Lo stesso ha fatto il garante, giorni dopo. A tutti è stato chiesto se avessero qualcosa da segnalare. Nessuno ha denunciato abusi o sottovalutazioni, non a me, non alla direzione. Nessuno aveva segni evidenti di ferite o lesioni. Alle persone recluse è stato chiesto di dare una mano per ripulire e risistemare il carcere, devastato. La maggioranza ha accettato di collaborare. Ci sono state perquisizioni mirate, due volte. Lo scopo - spiega - non è stato punitivo. C’era la necessità di cercare le chiavi dei reparti che non si trovavano ed eventuali dosi di metadone o altri medicinali. Non mi risultano azioni violente o ritorsioni neppure in questa fase. “Sull’assistenza sanitaria torno a chiedere: se qualcuno ha qualcosa da denunciare, si faccia avanti. La causa del decesso che risulta, per i tre morti, è l’overdose. Ritardi nei soccorsi? Sottovalutazioni? No, non penso. A me, al momento, non risultano anomalie dal punto di vista amministrativo e gestionale. Su eventuali profili penali, come ho detto, sta lavorando la magistratura”. E il personale - va ricordato - soccorse altri reclusi che avevano bisogno di cure, portati in ospedale. Uno aveva problemi dovuti alla mancanza di insulina, trafugata durante la rivolta. Otto presentavano sintomi da intossicazione da oppiacei. Tutti poi sono rientrati in carcere. Uno, il 31enne di origini indiane S.G., è morto nel carcere di Terni il 24 aprile, ufficialmente per cause naturali. Nel carcere di Rieti, come ha ricordato il provveditore Cantone, dopo la rivolta e i decessi erano stati in vista il presidente dell’ufficio nazionale del garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e la collega Daniela de Robert, accompagnati dal garante del Lazio Stefano Anastasia, sollecitato a intervenire dai reclusi. “Oltre a constatare i gravi i danni e il ripristino dei servizi centrali di luce, acqua calda e riscaldamento - riferì l’agenzia Ansa, il 20 marzo - hanno avuto l’opportunità di esaminare i dati delle tre persone decedute sulla cui morte è stata avviata l’indagine dalla competente Procura della Repubblica. Hanno anche appurato le modalità secondo le quali sono state avvisate le famiglie, riscontrando l’avvenuta tempestiva informazione”. L’avvocato che seguiva Marco Boattini, Giovanni Tripodi, aveva invece raccontato: “Il mio cliente mi scriveva o telefonava una volta alla settimana. Le comunicazioni a un certo punto sono cessate, senza spiegazioni. Gli ho mandato una lettera in carcere. La busta mi è ritornata indietro con scritto sopra: “deceduto”. Non ho avuto alcuna comunicazione dall’istituto né dalla procura. Un compagno di cella, poi uscito, mi ha riferito che Marco ha bevuto parecchio metadone e forse ha ingerito anche degli psicofarmaci. Ma quel poco che si è saputo, sulla dinamica dei fatti, non riesce a convincermi”. Alessandria. “Il carcere Don Soria può essere potenziato” di Marcello Feola ilpiccolo.net, 3 febbraio 2021 Incontro tra il Garante dei detenuti Bruno Mellano, il sindaco Cuttica di Revigliasco e l’assessore Ciccaglioni. “Per anni abbiamo proposto la chiusura del vecchio edificio che ospita la casa circondariale ‘Don Soria’ e di destinarlo ad altri usi, ma ora chiediamo che sia valorizzato”: parole del Garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano durante l’incontro con il sindaco e l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Alessandria, Gianfranco Cuttica di Revigliasco e Piervittorio Ciccaglioni, per analizzare la parte del Dossier delle criticità delle carceri piemontesi relativa alla Provincia di Alessandria. “Oltre la metà degli spazi - spiega - non è utilizzata a causa di problemi al tetto e agli impianti elettrici, idraulici e di riscaldamento, nonostante gli interventi di manutenzione straordinaria previsti nell’ultimo anno dall’Amministrazione per garantirne l’utilizzo in sicurezza. Ora che i lavori sono stati fatti, la struttura merita di essere potenziata attraverso la realizzazione di un’ampia sezione che ospiti detenuti semiliberi o che lavorino fuori o dentro il carcere per sfruttarne al meglio la collocazione centrale e implementare la sinergia con il ‘San Michelè”. In merito alla conclusione dei lavori per il Progetto Agorà, che prevede nuovi spazi comunitari per circa 80 detenuti presso la Casa di reclusione “San Michele”, Mellano ha sottolineato che “con l’adeguamento degli arredi e delle attrezzature indispensabili per i laboratori formativi si prevede l’avvio delle attività e l’imminente ripristino delle 25 stanze di pernottamento andate distrutte nel corso delle proteste del marzo scorso”. Sindaco e assessore hanno confermato l’interesse della giunta comunale “a progetti di accoglienza e supporto all’housing sociale sostenuti dalla Cassa delle ammende e dalla Regione”. E, con il contributo del dottor Paolo Cecchini, hanno voluto approfondire le questioni legate alla gestione dell’emergenza Covid-19 nell’ambito penitenziario alessandrino. Ricordando la possibile intenzione del Parlamento di realizzare un nuovo carcere sul territorio alessandrino attraverso il riutilizzo di una caserma militare dismessa a Casale Monferrato, Mellano ha informato il sindaco della recente costituzione, al Ministero di Giustizia, di una Commissione di tecnici per un Piano nazionale di architettura e urbanistica penitenziaria che superi la mera edificazione di spazi di contenimento e preveda progetti integrati con il tessuto sociale del territorio. Al termine dell’incontro Mellano ha anticipato che il garante comunale Marco Revelli ha annunciato la volontà di rinunciare all’incarico per motivi personali e professionali. Forlì. Il Garante boccia il carcere della Rocca: “Struttura inadeguata” Il Resto del Carlino, 3 febbraio 2021 Per il carcere della Rocca di Forlì arriva l’ennesima bocciatura. Ma al contempo, dopo anni di attesa, non s’intravedono ancora spiragli reali, concreti, per l’attivazione del nuovo penitenziario, che dovrebbe sorgere al Quattro. Stavolta a mettere la matita blu sulla struttura correzionaria forlivese arriva il ‘Garante nazionale delle persone private della libertà. “Tutti gli istituti penitenziari visitati, ossia Bologna, Ferrara, Forlì, Modena, Parma, Ravenna e Reggio Emilia, sono risultati strutturalmente e funzionalmente inadeguati al presente, al di là dell’impegno e della professionalità innegabili di chi vi opera”. Non è certo un ‘mal comune mezzo gaudio’ il senso del messaggio che giunge dall’organo del Garante. Certo, tutte le strutture sono in sofferenza. Ma per Forlì, come si diceva, questa è l’ennesimo pollice verso che arriva da un istituto di controllo. “Particolarmente critica - spiega il Garante in una nota - la commistione dei detenuti nelle sezioni organizzate in microcircuiti detentivi”. Alba (Cn). Diretta Facebook sul progetto “Vale la pena”, il vigneto nel carcere Ristretti Orizzonti, 3 febbraio 2021 Parteciperanno la direttrice della Casa di reclusione di Alba Giuseppina Piscioneri, il responsabile del progetto Giovanni Bertello ed il sottoscritto. Lo sapete che, tra le mura del carcere Giuseppe Montalto di Alba, ci sono un vigneto e altre coltivazioni? Si tratta del progetto “Vale la pena”, un vino speciale che nasce dalle uve coltivate dai detenuti del corso di Operatore Agricolo, un’opportunità da sfruttare sul territorio una volta tornati in libertà. Nella puntata di “Lrm Green”, ideato e condotto da Francesca Pinaffo, di oggi, mercoledì 3 febbraio alle ore 18, ce ne parleranno Giovanni Bertello, responsabile del corso, insieme alla direttrice della struttura Giuseppina Piscioneri. In collegamento, anche il garante per i detenuti di Alba Alessandro Prandi. Altre info al seguente link: https://www.facebook.com/103069111453308/posts/228369035589981/ “La malapena”, di Maurizio Veglio. Centri per migranti: il diritto e la vergogna recensione di Paolo Borgna Avvenire, 3 febbraio 2021 La logica dei Centri per il rimpatrio è ineccepibile sul piano teorico, l’applicazione però genera mostri, con i “trattenuti” costretti a vivere in condizioni bestiali. C’è un modo “illuministico” per affrontare il tema delle espulsioni degli stranieri presenti irregolarmente in Italia Un approccio che si snoda attraverso alcuni passaggi logici inoppugnabili. Eccoli. Uno Stato democratico non può rinunciare ad avere contezza di chi vive sul suo territorio e dunque a stabilire i presupposti e le procedure per entrarvi e soggiornarvi. Se uno straniero vi dimora irregolarmente e, ancorché invitato, non si allontana, lo Stato dovrà occuparsi del suo allontanamento. Ma il “rimpatrio” di uno straniero irregolare va preparato: se di lui non si conoscono l’identità anagrafica e la provenienza nazionale, lo Stato deve in primo luogo accertare in quale Paese inviare il cittadino straniero. Quindi, bisogna verificarne in primo luogo la nazionalità (con la collaborazione dei consolati) e poi organizzare il viaggio. Tutte queste cose richiedono un certo periodo di tempo, nel corso del quale la persona da espellere deve essere “trattenuta”. A questo servono i Centri per il rimpatrio (Cpr, un tempo Cie). Non si tratta di “detenzione”, perché lo straniero irregolare deve essere espulso anche se non ha commesso reati. ù un mero “trattenimento amministrativo”. Provocato, a ben vedere, dallo straniero stesso: perché è lui a non aver fornito alla polizia i propri documenti di identità. E questo il ragionamento che, a partire da11998, fu alla base della regola introdotta dalla Legge Turco Napolitano, che per prima istituì i Cie, prevedendo però un periodo di trattenimento massimo di 30 giorni (da allora gradualmente ampliato sino a 18 mesi e ora stabilito in 6 mesi). E, comunque, è quanto ci è imposto dalle direttive europee (in particolare, la 115 del 2008) che impegnano gli Stati membri all’effettivo rimpatrio degli stranieri irregolari. Tutto molto razionale e corretto. Sennonché, c’è poi la realtà. E ci sono libri come quello di Maurizio Veglio, “La malapena” (Edizioni SEB 27, pagine 104, euro 15,00) che ci ricordano quante volte, nel corso della Storia, ignominiose ingiustizie sono state commesse applicando leggi ispirate a principi condivisibili. Perché la realtà è più complessa della logica “illuministica”. Ci sono i Cpr ideali, scritti sulla carta (dove tutto funziona bene). E poi ci sono i Cpr reali: luoghi in cui, come scrive Emma Sonino nella prefazione, lo Stato di diritto è un pallido ricordo. Amiamo sempre citare Voltaire: “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Ma qui le condizioni di vita e quelle igieniche fanno rimpiangere il carcere. L’implacabile memento che Maurizio Veglio ci mette sotto gli occhi fa male. Il “trattenimento” in gabbie che ricordano terribilmente quelle di uno zoo. Il contatto con gli operatori che, di regola, è possibile solo attraverso le piccole fessure delle grate. La possibilità di camminare soltanto nel cortile della propria area di assegnazione. La totale forzata inattività dei “trattenuti”, perché nei Centri mancano quelle strutture (biblioteche, laboratori, palestre) di cui dispongono le carceri. La presenza, mediamente, di sette persone in “moduli” di 50 metri quadrati in cui i gabinetti non sono separati dalla zona dei letti, con privazione totale della minima riservatezza. L’assenza di interruttori della luce, che può essere accesa o spenta solo centralmente dal personale. L’assenza di tavoli su cui mangiare. Il luridume. L’estenuante percorso burocratico anche della più banale richiesta legata alla vita quotidiana. La riduzione dei servizi e del personale, come inevitabile conseguenza del meccanismo dello schema ministeriale di capitolato d’appalto (del novembre 2018). Il risultato è un imbarbarimento della vita quotidiana che dai “trattenuti” si riverbera sul personale: le forze dell’ordine che sorvegliano; gli operatori e mediatori, contrattualizzati mese per mese dall’ente gestore tramite agenzie; gli operatori legali e il personale sociosanitario. In un sistema in cui tutti sono vittime e l’odio e la diffidenza si diffonde persino tra i “trattenuti”. Gonfiando una “fame di violenza” verso gli altri e se stessi. Molto più che in carcere gli atti di autolesionismo nel Cpr sono quotidiani: labbra cucite; ingestioni di pile; tentativi di impiccagione, abuso di psicofarmaci, ustioni; e poi, tagli, tagli, tagli su ogni parte del corpo. Tagliarsi come disperato tentativo di farsi ascoltare. E ancora, la violenza sulle cose: i servizi resi inagibili, l’incendio dei materassi e delle suppellettili. Dare fuoco. Le fiamme: come umiliazione della prigione che ti umilia; come rivendicazione del diritto ad un trattamento più umano; come simbolo di scontro verso lo Stato; come grido selvaggio di guerra di chi cerca libertà. Un grido sterile: destinato inevitabilmente a peggiorare le condizioni di vita nel Centro. Ma che dice molto sulla disperazione che lo alimenta. Un sistema che produce quest’odio denuncia, da solo, il proprio fallimento. Il fatto che in circa la metà dei casi, dopo sei mesi di “trattenimento”, lo straniero venga liberato perché non si è riusciti a organizzarne l’espulsione (“Il rimpatrio è un risultato occasionale”), rende ancor più drammatico questo fallimento. Il “trattenimento amministrativo” sarà servito soltanto a distillare odio sociale. Maurizio Veglio ottiene un sicuro risultato: spiegare che quel che stiamo facendo è completamente sbagliato. Le domande su quel che dovremmo fare rimangono aperte. Un esempio fra tutti. Il trattenimento nei Cpr di stranieri provenienti da uno Stato verso cui con certezza non potranno essere rimpatriati (perché quel Paese è teatro di guerra civile o perché lì il trattenuto rischia seriamente la vita). Poiché i Cpr sono luoghi destinati a preparare il rimpatrio, la permanenza in un Centro di persone che non potranno essere espulse è, ictu oculi, un arbitrio. La frase sfuggita a mezza bocca da un ispettore con riferimento a un cittadino afgano (“Intanto lo teniamo dentro tre mesi”, termine massimo di trattenimento all’epoca) dà la misura di quanto queste scelte non siano sviste ma decisioni consapevoli. Ma una persona non espellibile (perché a rischio di persecuzioni o torture nel Paese di origine) può essere altamente pericolosa, pur non avendo commesso reati in Italia ma perché, ad esempio, è contigua ad ambienti terroristici. Ed allora: che fare? Certo, si potrà applicare “un’appropriata misura di sicurezza, diversa dall’espulsione”, come dice la Cassazione. Ma sappiamo che, in concreto, la soluzione non è così semplice. Nulla è semplice, in materia di immigrazione. C’è bisogno di molta intelligenza. Per ridisegnare tutto. C’è bisogno di un impegno comune, che cessi di usare l’immigrazione come terreno di propaganda per conquistare consenso. C’è bisogno, come scrive Emma Bonino, di un tempo in cui “le politiche migratorie divengano patrimonio dell’Europa e non appannaggio di 27 staterelli ognuno con i propri egoismi e le proprie convenienze”. Migranti. Io, avvocata, difendo gli ultimi nonostante l’elemosina dello Stato di Cristina Polimeno Il Dubbio, 3 febbraio 2021 Mi chiamo Cristina Polimeno, sono un’avvocata e da quattro anni mi occupo di rifugiati insieme alla mia socia Martina Bianchi, con cui condivido sacrifici, etica professionale e valori. In legalese i nostri clienti si chiamano: richiedenti la protezione internazionale. Sui rifugiati, che nel 99 per cento dei casi hanno diritto al gratuito patrocinio, la narrazione passata nel senso comune è che gli avvocati che si occupano di questa materia facciano cause massive, strumentali, poco accurate, spesso infondate. Per guadagnare. Ovviamente non è così. I nostri ragazzi sono tutti passati dalla Libia. Non voglio fare facile retorica su questo Paese, non userò la storia dei nostri due clienti che per dieci mesi sono stati legati allo stesso palo con una catena in un lager (estranei fino ad allora e provenienti da Paesi diversi), e di come il più forte abbia adottato il più fragile salvandogli la vita. Non racconterò la loro storia qui. E non racconterò nemmeno dell’indifferenza con cui sono stati trattati da un Giudice di questa Repubblica (in nome del popolo italiano) il mese scorso davanti ai miei occhi, perché non posso trovare le parole. Quello che facciamo noi è parlare per ore e ore con i ragazzi in inglese o in francese per capire il contesto, la storia, le ragioni che possono (in modo serio e non velleitario) consentire di ricondurre la loro vicenda a una forma di protezione riconosciuta dall’Italia. Poi ragioniamo con loro sulle prove da raccogliere. Martina diventa un’investigatrice, imperversa per tutta l’Africa procacciando i documenti e le dichiarazioni che ci servono. Poi spieghiamo loro come far capire al Giudice la loro storia occupandoci di colmare un enorme gap culturale. Perché non tutti i giudici hanno alle spalle una formazione adeguata a condurre un’audizione. Bisogna saperne di antropologia e di etno-sociologia. Bisogna capire una mentalità. Bisogna comprendere la geopolitica. Ad esempio: io non lo so se tutti i nostri clienti che parlano di fughe dalle sette religiose che praticano il Juju raccontino storie vere. So che pochi giorni fa ho visto con i miei occhi un padre terrorizzato raccontare i dettagli di un rituale, perché era graniticamente convinto che uscito da quell’aula sarebbe morto per un maleficio. Infine, lavoriamo sulle fonti “terze”. Report internazionali (di commissioni parlamentari, di Ong, di missioni internazionali), tesi di laurea e di dottorato, libri in altre lingue, fonti giornalistiche del luogo e di molti altri Paesi. Nel ricorso traduciamo noi queste fonti per il giudice. Tutti questi passaggi avvengono due volte: una all’inizio della presa in carico, un’altra circa due anni dopo, quando si svolge l’udienza, per fare un recall e attualizzare la domanda. Sì, perché l’udienza si svolge circa due anni dopo il deposito del ricorso. Dopo l’audizione davanti al giudice, scriviamo una memoria per tirare le fila, cercando di indovinare quali siano le perplessità del magistrato. La sentenza, infine, è materia imperscrutabile e a volte creativa. Può succedere tutto e il contrario di tutto, a seconda dell’approccio del giudice, del suo umore o dell’allineamento dei pianeti. Raramente - invero quasi mai - c’entra la giurisprudenza della Corte di Cassazione. O una seria valutazione delle fonti. Può succedere che per casi analoghi si ottenga l’asilo politico da un giudice e un rigetto totale della domanda da un altro, con tutte le varianti possibili nel mezzo. Più facilmente, potrà accedere di ritrovarsi una sentenza con motivazioni simili: “In ogni caso, al di là del problema (non facile) dell’individuazione della normativa applicabile alla fattispecie in esame, l’appellante non ha offerto concreti elementi che possano indurre a considerarlo persona particolarmente vulnerabile, al contrario egli appare un soggetto forte, relativamente giovane, in buona salute, abile al lavoro e capace di districarsi con determinazione e coraggio tra le peggiori avversità della vita, come ampiamente dimostrato dalla sua storia personale. Se il medesimo è riuscito a sottrarsi con successo alle avversità familiari subite in Patria, se ha lavorato e si è mantenuto in Libia ed infine è riuscito ad inserirsi soddisfacentemente anche in Italia, allora si può star certi che sarà in grado con maggior facilità di riadattarsi alla vita del proprio Paese. L’analisi comparativa tra la situazione attuale dello straniero e quella ricostruibile in Patria non vale insomma ad integrare di per sé ragioni sufficienti di tutela umanitaria, dovendosi ritenere che il soggetto possa tornare in Nigeria a vivere sostanzialmente come tutti i nigeriani, senza andare incontro a particolari e intollerabili menomazioni dei diritti umani”. Dopo la sentenza, i ragazzi tornano in studio e Martina stampa loro la sentenza e gli spiega per circa un’ora come fare a sistemare i documenti grazie alla sentenza ottenuta. Nel mezzo, i costi per spostarsi da un Foro all’altro e per avere uno studio abbastanza grande da svolgere il lavoro in modo efficiente, le bollette, la stampante, l’affitto, i computer, il gestionale me li pago io, non so davvero nemmeno come. Bene. Ciò detto. Pochi giorni fa, per la mole di lavoro appena descritta, mi hanno liquidato 675 euro di onorari: 675 euro... Prima la media era mille/milleduecento (si badi bene: la sentenza arriva minimo due anni dopo l’apertura della pratica in studio, il pagamento ancora tre anni dopo). Poi è scesa a un inspiegabile e ricorrente 949,75. Poi 800. Adesso 675. Il diritto alla protezione internazionale trova il suo fondamento nella Costituzione Italiana, nella Convenzione di Ginevra del 1951, nella Cedu e nella Carta di Nizza. Il patrocinio a spese dello Stato è l’istituto riconosciuto dall’articolo 24 della Costituzione italiana a tutti i cittadini non abbienti, al fine di rendere effettivo il diritto di difesa. Non è l’avvocato Polimeno che ha deciso di radicare così tante cause davanti al Tribunale: sostenere i costi di un processo anziché investirli in integrazione è una scelta politica. È una scelta che lascia indietro i più fragili e i più sfortunati. Ieri ho veramente avuto la tentazione di mollare. Di rinunciare alle decine di cause che dobbiamo ancora trattare. Ma non è vero: noi questo lavoro lo facciamo perché la mattina ci dobbiamo guardare allo specchio. Senza rimpianti e senza vergogna. Accordo Italia-Libia: 4 anni di fallimenti, abusi e torture nel segno del cinismo della politica di Asgi, Emergency, Medici senza frontiere, Mediterranea, Oxfam, Sea-Watch Il Manifesto, 3 febbraio 2021 Le associazioni denunciano i risultati del memorandum con Tripoli e chiedono di cambiare rotta. Il bilancio, a quattro anni dall’accordo Italia-Libia sul contenimento dei flussi migratori, è sempre più desolante e riflette il fallimento della politica italiana ed europea, che continua a stanziare fondi pubblici col solo obiettivo di bloccare gli arrivi nel nostro paese, a scapito della tutela dei diritti umani e delle continue morti in mare. Senza disegnare nessuna soluzione di medio-lungo periodo per costruire canali sicuri di accesso regolare verso l’Italia e l’Europa. È l’allarme diffuso oggi da ASGI, Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Oxfam e Sea-Watch, che rilanciano un appello urgente al Parlamento, per un’immediata revoca degli accordi bilaterali e il ripristino di attività istituzionali di Ricerca e Soccorso nel Mediterraneo centrale. “Dalla firma dell’accordo, l’Italia, in totale continuità con l’approccio europeo di esternalizzazione del controllo delle frontiere, ha speso la cifra record di 785 milioni euro (1) per bloccare i flussi migratori in Libia e finanziare le missioni navali italiane ed europee. - affermano le organizzazioni firmatarie dell’appello -Una buona parte di quei soldi - più di 210 milioni di euro - sono stati spesi direttamente nel paese, ma purtroppo non hanno fatto altro che contribuire a destabilizzarlo ulteriormente e spinto i trafficanti di persone a convertire il business del contrabbando e della tratta di esseri umani, in industria della detenzione. La Libia non può essere considerata un luogo sicuro dove portare le persone intercettate in mare, bensì un paese in cui violenza e brutalità rappresentano la quotidianità per migliaia di migranti e rifugiati”. Libia: tutt’altro che porto sicuro Come riconosciuto dalle istituzioni internazionali ed europee, comprese le Nazioni Unite e la Commissione europea, la Libia non può in alcun modo essere considerata un luogo sicuro dove far sbarcare le persone soccorse in mare: sia perché è un Paese instabile, dove non possono essere garantiti i diritti fondamentali, sia perché migranti e rifugiati sono sistematicamente esposti al rischio di sfruttamento, violenza e tortura e altre gravi e ben documentate violazioni dei diritti umani. Eppure, continua ad aumentare il contributo italiano ed europeo alla Guardia Costiera libica, che negli ultimi 4 anni ha intercettato e riportato forzatamente nel Paese almeno 50 mila persone, 12 mila solo nel 2020. Molti vengono detenuti arbitrariamente nei centri di detenzione ufficiali, dove la popolazione oscilla tra le 2.000 e le 2.500 persone. Tuttavia, meno noti sono i numeri dei detenuti in altri luoghi di prigionia clandestini a cui le Nazioni Unite e altre agenzie umanitarie non hanno accesso e dove le condizioni di vita sono persino peggiori. La detenzione arbitraria è però solo una piccola parte del devastante ciclo di violenza, in cui sono intrappolati migliaia di migranti e rifugiati in Libia. Uccisioni, rapimenti, maltrattamenti a scopo di estorsione sono minacce quotidiane, che continuano a spingere le persone alle pericolose traversate in mare, in assenza di modi più sicuri per cercare protezione in Europa. Obiettivo raggiunto: nessun soccorso nel Mediterraneo centrale Dal 2017 - denunciano ancora le 6 organizzazioni - sono stati spesi 540 milioni di euro dall’Italia, solo per finanziare missioni navali nel Mediterraneo, il cui scopo principale non era quello di soccorrere le persone. Nello stesso periodo, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), quasi 6.500 persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo centrale, mentre tutti i governi italiani che si sono succeduti hanno ostacolato l’attività delle navi umanitarie, senza fornire alternative alla loro presenza in mare. Persino le recenti modifiche della normativa in materia di immigrazione non hanno di fatto eliminato il principio di criminalizzazione dei soccorsi in mare, che era stato introdotto dal secondo Decreto Sicurezza. Nel corso del 2020, l’Italia ha bloccato inoltre sei navi umanitarie con fermi amministrativi basati su accuse pretestuose, lasciando il Mediterraneo privo di assetti di ricerca e soccorso e ignorando, allo stesso tempo, le segnalazioni di imbarcazioni in pericolo. Contribuendo così alle 780 morti e al respingimento di circa 12.000 persone, documentate durante il corso dell’anno dall’OIM. Infatti, la risposta delle istituzioni Ue alla crisi umanitaria nel Mediterraneo centrale si limita alle operazioni di monitoraggio aereo di Frontex, Eunavformed Sophia e, ora, Irini, che di fatto contribuiscono spesso alla facilitazione dei respingimenti verso la Libia. Intanto le operazioni di monitoraggio aereo civile, seppur discontinue e anch’esse ostacolate, nel 2020 hanno avvistato quasi 5.000 persone in pericolo in mare in 82 casi, testimoniando continui episodi di mancata o ritardata assistenza da parte delle autorità. Infine, pur di fronte al tragico fallimento dell’accordo da anni sotto gli occhi dell’opinione pubblica - sottolineano le organizzazioni - nulla si è più saputo rispetto alla proposta libica di modifica del Memorandum, annunciata il 26 giugno 2020 e che a detta del Ministro degli Esteri Luigi di Maio andava “nella direzione della volontà italiana di rafforzare la piena tutela dei diritti umani”. Né tantomeno sono stati resi noti gli esiti della riunione del 2 luglio 2020 del Comitato interministeriale italo-libico, o se ci siano stati nuovi incontri, e neppure a quali eventuali esiti finali sia giunto il negoziato che avrebbe dovuto portare un deciso cambio di rotta nei contenuti dell’accordo. L’appello al Parlamento - Tenendo conto dell’attuale crisi politica, le organizzazioni chiedono quindi al Parlamento di istituire una Commissione di inchiesta, che indaghi sul reale impatto dei soldi spesi in Libia e sui naufragi nel Mediterraneo e di presentare un testo che impegni il Governo a: ? interrompere l’accordo Italia-Libia, subordinando qualsiasi futuro accordo bilaterale alla transizione politica della crisi libica, nonché alle necessarie riforme del sistema giuridico che eliminino la detenzione arbitraria e prevedano adeguate misure di assistenza e protezione per migranti e rifugiati; ? dare l’indirizzo a non rinnovare le missioni militari in Libia, chiedendo con forza la chiusura dei centri di detenzione nel paese nord-africano; ? promuovere, in sede europea, l’approvazione di un piano di evacuazione dalla Libia delle persone più vulnerabili e a rischio di subire violenze, maltrattamenti e gravi abusi; ? dare mandato per l’istituzione di una missione navale europea con chiaro compito di ricerca e salvataggio delle persone in mare; ? promuovere, in sede europea, l’approvazione di un meccanismo automatico per lo sbarco immediato e la successiva redistribuzione delle persone in arrivo sulle coste meridionali europee, sulla base del principio di condivisione delle responsabilità tra stati membri su asilo e immigrazione; ? promuovere la revoca dell’area di ricerca e soccorso libica, poiché solo finalizzata all’intercettazione e al respingimento illegale delle persone in Libia; ?riconoscere il ruolo delle organizzazioni umanitarie nella salvaguardia della vita umana in mare, mettendo fine alla loro criminalizzazione e liberando le loro navi ancora sotto fermo. La vera storia di GameStop: attenti ai social network di Daniele Manca e Gianmario Verona Corriere della Sera, 3 febbraio 2021 Il su e giù dei titoli della catena di retail fisico in crisi (presente anche in Italia) ha coinvolto ricchi e poveri in facili guadagni e perdite miliardarie. Dopo la politica, con l’assalto a Capitol Hill indotto dai tweet di Trump, e la società, con la morte della bimba palermitana per un gioco su TikTok, nel giro di pochi giorni tocca anche a un altro settore nevralgico del nostro vivere: l’economia. Il caso GameStop sta riempendo le pagine dei giornali e l’etere di tv, blog, newsletter. Inutile negarcelo, facciamo fatica a capire che la rivoluzione tecnologica dovuta all’avvento del protocollo di comunicazione Internet nel 1993, ha operato un cambio di passo decisivo nel 2004. In quell’anno inizia a muovere i primi passi Facebook, il social network per eccellenza. E il mondo virtuale si ribalta a valanga su quello reale. Come nel caso dell’incredibile corsa a Wall Street di GameStop. Il su e giù dei titoli della catena di retail fisico (è presente anche in Italia e in profonda crisi economico-finanziaria sia per il naturale declino del dettaglio tradizionale in epoca di ecommerce sia per il forzato lockdown che ci ha tenuto lontani dallo shopping tradizionale) ha provocato facili guadagni, perdite miliardarie e salvataggi di fondi che sembravano invincibili. Attorno al caso GameStop si è immediatamente sviluppata una narrativa che, come spiegato dal Nobel Robert Shiller nel suo Narrative Economics: How Stories go viral, è fondamentale per comprendere e addirittura anticipare i fenomeni economici. Narrativa basata su pochi concetti semplici, ma capace di spingere immediatamente allo schierarsi, spostando nell’ombra quello che era accaduto realmente. La logica del crowdfunding (il coordinamento di singoli che sono mossi a sostenere finanziariamente una specifica iniziativa) ha avuto storicamente un impiego a iniziative di sostenibilità economico-sociale. In questa circostanza il coordinamento di migliaia di acquirenti insospettati ha fatto schizzare in alto il titolo della compagnia. I potentissimi hedge fund che avevano scommesso sulle azioni al ribasso (attraverso vendite di titoli che non avevano sperando di riacquistarli a prezzi più bassi) sono stati costretti a riacquistarli per evitare perdite spingendo ancora più in alto i titoli. Ecco la narrativa facile e vendibile del Davide contro Golia. Messa in discussione in Italia da Mario Seminerio in America da newsletter come The Margins. Cosa è successo davvero? La combinazione dell’impiego di piattaforme social di aggregazione di contenuti, tra cui in particolare la californiana Reddit, con applicazioni che semplificano al massimo il trading on line, tra cui Robinhood (vien da affermare... nomen omen!), ha innestato una dinamica conosciuta ai mercati borsistici (la speculazione su titoli azionari), quanto apparentemente ignorata per la modalità con cui si è realizzata. Hanno tutti insieme, risparmiatori, studenti, famiglie, fondi e grandi investitori, contribuito a una crescita del titolo a quattro cifre, dovuta squisitamente al volume delle transazioni prodotte e quindi soggetta a un tracollo nel breve. Come si è verificato ieri. Hanno messo sì in difficoltà qualche grande operatore (uno in particolare), ma i singoli trader, gli studenti hanno spesso in modo inconsapevole messo a repentaglio i propri piccoli risparmi. Dietro alla bravata di questa e altre operazioni, si nascondono paladini delle nuove tecnologie come Elon Musk (che ha attivamente contribuito all’ascesa del titolo GameStop), ma anche tanti profili indecifrabili di signor nessuno che hanno competenze tecniche di investimento e capacità di orchestrazione dei messaggi sui social. Tratto distintivo di questa vicenda è anche la smobilitazione di migliaia di giovani appassionati di videogiochi che sono avvezzi alle logiche del crowd, ma meno propensi a investire in Borsa e che hanno in alcuni casi scommesso parte dei soldi del mutuo per sostenere i propri studi. Per chi non avesse ancora colto la pervasività degli strumenti, la vicenda in questione è l’ennesima dimostrazione che il web nei suoi multiformi aspetti, a cominciare dai social network, copra tutte le sfere della nostra vita e che a differenza del mondo analogico grazie alla sua capacità di connessione e di persuasione permette di fare cose letteralmente inimmaginabili fino a ieri. Nel caso in particolare del mondo finanziario si sta espandendo verso frontiere ben governate, quali i pagamenti digitali, ma anche come in questo caso verso sentieri inesplorati. Non è semplice orientarsi in un mondo che continuamente oscilla tra virtuale e reale. Non lo è per nessuno. Per alcune aree della società come i giovani apparentemente più a loro agio, è ancora più difficoltoso. Nel caso di GameStop impedire di investire in Borsa a un singolo che vuole cogliere un’opportunità economica è decisamente cosa non banale. Soprattutto se lo si fa limitandone la possibilità di transare - Robinhood ha bloccato la possibilità di acquistare ma ha lasciato aperta la possibilità di vendere - creando una polemica politica che ha coinvolto anche alcuni senatori democratici come Alexandria Ocasio-Cortez in quanto il blocco in questione favoriva i grandi fondi. Certo, occorre impiegare il più possibile le regole analogiche al mondo digitale. L’aggiotaggio e la turbativa di Borsa sono reati che nel mondo analogico siamo soliti applicare; quindi per quale ragione non applicare come già suggerito e come ha posto brillantemente Caterina Malavenda sul Corrierele regole ai social del mondo analogico? Ma ancora più importante, come sempre quando le “narrative” assumono importanza decisiva nelle scelte dei singoli, sarà l’educazione, il nudging, lo spingere a non ridurre la realtà a una scelta tra bianco e nero, ma a vederne i grigi. Un compito al quale scuola e università non sono adeguatamente preparati. Stati Uniti. Biden rottama Trump sui migranti di Paolo Mastrolilli La Stampa, 3 febbraio 2021 Il presidente crea una task force per riunire le famiglie ispaniche separate dal predecessore. Ci sono ancora 5000 bambini nei centri di accoglienza nella zona di confine con il Messico. La tattica dei narcos era sempre la stessa, durante la peggiore invasione degli illegali minorenni. Quando calava il buio, i coyotes messicani portavano i bambini migranti non accompagnati dai genitori sull’altra sponda del Rio Bravo (o Rio Grande, a seconda del paese), costringendo gli agenti americani della Customs and Border Protection (Cbp) a soccorrerli. Nello stesso tempo, poco più a valle oppure a monte, i trafficanti si approfittavano di aver distratto i doganieri, e attraversavano il fiume in barca per scaricare la droga ai loro complici in territorio Usa. Certe volte gli agenti non facevano in tempo a trovare i bambini, che quindi si perdevano nel deserto, morendo spesso di fame. Quando invece li prendevano, li portavano nei centri di accoglienza. Biden adesso vuole rivoluzionare la politica sull’immigrazione, a partire dai tre ordini esecutivi che ha firmato ieri, e lo fa con le migliori intenzioni. La realtà al confine però è ancora questa, con circa 5.000 bambini attualmente sotto la custodia della Cbp, così come resta uguale l’emergenza delle carovane, che ancora si formano in America centrale per puntare verso il confine. Il presidente dovrà farci i conti, e perciò tenterà un difficile equilibrismo. Da una parte cambierà tutto, almeno in linea di principio, ma dall’altra lascerà in vigore alcuni provvedimenti di Trump, perché non ha ancora un’alternativa più umanitaria pronta, e non vuole lanciare il segnale di debolezza che le porte sono state riaperte all’immigrazione illegale. Ieri Biden ha firmato tre decreti. Il primo crea una task force per riunificare le famiglie degli immigrati illegali separate dal predecessore, che ha lasciato 545 bambini ancora senza genitori. Il secondo riguarda il sistema per l’asilo, puntando ad affrontare le cause economiche e sociali alla radice delle migrazioni, nei paesi di provenienza, e rivedendo le regole per l’accoglienza negli Usa. Ad esempio rivedrà il programma che obbliga i richiedenti a restare in Messico, con l’idea di cancellarlo, senza però lasciar entrare subito quelli in attesa di risposta. Resterà invece in vigore la misura “Title 42” legata al Covid, per espellere subito i nuovi illegali. Il terzo decreto vuole “ristabilire la fiducia nel nostro sistema di immigrazione legale e integrazione”, ad esempio eliminando alcuni limiti imposti da Trump alle domande per le carte verdi. Il muro da 16 milioni di dollari e la tolleranza zero di Donald non hanno funzionato, se non altro perché gli arresti al confine sono stati più di 70.000 al mese negli ultimi quattro mesi, tornando quindi ai massimi livelli del decennio. Solo domenica scorsa, 260 bambini sono stati assegnati ai centri di accoglienza, quasi quanto i 294 di media nel picco della crisi del giugno 2019. Biden quindi deve cambiare linea, senza però provocare un’emergenza già pronta a scoppiargli in mano. Egitto. Sta per iniziare il secondo anno di detenzione di Patrick Zaki di Riccardo Noury Il Domani, 3 febbraio 2021 Alla fine dell’udienza precedente, il 17 gennaio, l’avvocata Hoda Nasrallah dovette aspettare oltre 48 ore prima di conoscerne l’esito. Questa volta il giudice ci ha messo poco: neanche due ore dopo, aveva già comunicato la sua decisione: ai giornali filo-governativi, che infatti hanno dato subito la notizia, ma non all’avvocata. In questi giorni si è così consumato l’ennesimo sfregio alle procedure, ai diritti, alla dignità dei prigionieri. Risultato: ulteriori 45 giorni di carcere disposti dal giudice nei confronti di Patrick Zaki. “I motivi della sua incarcerazione permangono sempre”, “le indagini proseguono ancora”: sono ormai 12 mesi che ascoltiamo le stesse parole, pronunciate dai procuratori egiziani per giustificare accuse pretestuose e fabbricate. Al centro delle “indagini” ci sono, come è noto, 10 presunti post su Facebook che la procura del Cairo non fa vedere alla difesa di Patrick, che li ritiene falsi: post che secondo l’accusa testimonierebbero “l’uso di un account su una rete internet internazionale per destabilizzare l’ordine pubblico, compromettere e mettere in pericolo la sicurezza della società”. Facciamo un passo indietro. Come si è arrivati fin qui. Patrick Zaki, studente del Master in studi di genere dell’Università di Bologna, viene fermato all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio 2020 e formalmente arrestato, dopo lunghe ore di sparizione, il giorno successivo. Viene indagato per cinque reati, gli stessi contenuti nei mandati di cattura che colpiscono regolarmente attivisti, avvocati, giornalisti, dissidenti e difensori dei diritti umani: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo. Una persecuzione giudiziaria basata sul “copia e incolla” di inesistenti reati che è una costante degli ultimi sette anni e mezzo di storia giudiziaria egiziana. Di rinvio in rinvio della detenzione preventiva, proprio perché ufficialmente “le indagini proseguono ancora”, da 360 giorni Patrick langue in una cella della prigione di Tora, al Cairo, in condizioni durissime e nel costante pericolo di contrarre il Covid-19, che nell’enorme complesso carcerario egiziano ha già fatto vittime tra i detenuti, il personale amministrativo e la polizia penitenziaria. In Egitto la detenzione preventiva ha una sola ragione: punire senza un processo e sottrarre all’attenzione dell’opinione pubblica un prigioniero di coscienza. Si può andare avanti così fino a due anni, al termine dei quali l’indagato va a processo, viene rilasciato o ricomincia dal giorno zero, grazie a un nuovo mandato di cattura che viene consegnato sull’uscio del portone del carcere. Cosa aspettarci ora - Dobbiamo prepararci ad altri possibili mesi di detenzione arbitraria, illegale e immotivata e sperare nel frattempo in una maggiore solerzia della diplomazia italiana, finora concretizzatasi nella presenza di rappresentanti dell’ambasciata alle prime e alle ultime udienze (quelle centrali si sono svolte a porte chiuse a causa dell’emergenza-coronavirus) e nell’impegno, a dicembre, del ministro degli Esteri Di Maio a riportare presto Patrick dai suoi familiari. È importante insistere. Anche perché Patrick, come lui stesso ha fatto sapere attraverso i suoi familiari, è afflitto ed esausto. Prova nostalgia per la sua Bologna, rammarico per non aver iniziato il secondo anno del suo Master. Aveva fatto una scelta importante, nel settembre 2019: lasciarsi alle spalle il paese natio governato da un regime repressivo e cercare un futuro, non solo accademico ma di vita, altrove. In Europa. In Italia. A Bologna. L’unico elemento di conforto è che Patrick è pienamente informato sulle iniziative di una sempre più solidale opinione pubblica che sente che la sua è anche una storia anche italiana. Lo ha recentemente confermato il comune di Bologna, che ha conferito la cittadinanza onoraria al “suo” studente con un voto unanime: la prova che storie come quelle di Patrick non dividono ma uniscono. Patrick è entrato nel suo secondo anno di detenzione. Anche la campagna di Amnesty International, dell’Università e del Comune di Bologna, di tanti altri enti locali e istituti accademici e dell’informazione entra nel suo secondo anno. Sempre con un unico obiettivo: #freepatrickzaki. Il calvario dei dissidenti nello Stato-prigione degli Emirati arabi uniti di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 3 febbraio 2021 La storia dell’attivista per i diritti umani Ahmed Mansour rinchiuso da 1500 giorni in un buco di quattro metri quadri. Da quattro anni Ahmed Mansour, attivista per i diritti umani negli Emirati arabi uniti, vive in stato di isolamento totale in una cella di quattro metri quadrati. Un quadratino di due metri per lato per quasi 1500 giorni senza praticamente nulla a parte una sudicia coperta e un buco dove fare i bisogni. Niente tv, niente radio, niente libri e niente giornali e soprattutto niente visite di parenti e amici a parte la mezz’ora che ogni sei mesi è concessa alla moglie; niente di niente insomma. In quelle condizioni disumane solo dei nervi d’acciaio e una ferrea convinzione nei propri principi può evitare di farti scivolare nella follia. Lo hanno arrestato nel 2017 e condannato a 10 anni di prigione per un reato tanto vago quanto diffuso nei tribunali degli Emirati: “attentato alla reputazione dello Stato”. Mansour aveva criticato la stretta repressiva di Abu Dabi che, dopo le primavere arabe e nel timore di una rivolta di massa aveva soffocato in culla qualsiasi tentativo di protesta pubblica nei confronti della monarchia. Migliaia le persone arrestate dalla famigerata polizia politica di Mohammed Ben Zayed (abbreviato in MBZ) che dal 2014 governa il paese con il pugno di ferro. Sul suo sito internet Mansour ha denunciato le violazioni e gli abusi di MBZ e del suo regime, vera e propria parodia dello Stato di diritto. Già nel 2011 era finito in carcere per sei mesi: aveva sostenuto i manifestanti egiziani di piazza Tahir che fecero cadere la dittatura di Hosni Mubarak e lanciato un appello sul web per riformare in chiave democratica le istituzioni del suo Paese. Il 4 marzo 2017 il secondo arresto: le forze di polizia irrompono a bordo di due suv dai vetri oscurati e lo prelevando direttamente nella sua abitazione per sbatterlo nella prigione di al- Sadr che sorge alle porte della capitale in un regime di isolamento feroce. L’idea che Mansour possa avere l’assistenza di un avvocato è semplicemente una pretesa lunare. Il suo calvario, praticamente ignorato dai media internazionali e dai governi occidentali troppo intenti a stringere accordi commerciali con le petromonarchie della penisola arabica, è però venuto alla luce in un dettagliato rapporto della Ong Human Right Watch che ha raccolto la testimonianza di Artur Ligeska un imprenditore polacco suo ex vicino di cella, una delle pochissime persone che in questi anni ha avuti dei contatti ravvicinati con Mansour. Inizialmente poteva riposare su sottilissimo materasso che le guardie carcerarie gli hanno tolto al rifiuto di rivelare le password del suo account Twitter. Nel 2018 comincia il processo- farsa che decreterà la sua condanna. Mansour si lamenta della costante “tortura” che è costretto a subire tra le mura della prigione, della brutalità dei secondini, della prostrazione fisica e piscologica di un isolamento che viole lò stesso codice penale degli Emirati che in teoria limita il regime di isolamento a un massimo di sette giorni. La crudeltà del trattamento raggiunge vette di perfidia; se il giudice gli dà in parte ragione chiedendo un ammorbidimento della detenzione, le autorità del carcere scavalcano le richieste del tribunale con semplici stratagemmi. Quando ad esempio Mansour può accedere alla mensa del carcere le guardie fanno in modo che la sala sia vuota per impedirgli di parlare, ma anche solo di vedere altri esseri umani, La condanna viene confermata nel processo di appello con la raccomandazione pero di trattarlo come un prigioniero comune, raccomandazione che anche questa volta viene bellamente ignorata: Mansour è rispedito nel “buco”. La sicurezza di Stato negli Emirati è d’altra gestita dal sadico Sheik Khaled, rampollo di Mohammed Ben Zayed che della spietatezza nei confronti dei prigionieri politici ha fatto una regola d’arte. “Quando lo hanno condannato è rientrato in cella e si è messo a urlare per la disperazione”, racconta Ligeska a Human Right Watch. Privo di conforto e speranza Mansour si aggrappa all’unica forma di protesta che gli è permessa detro le sbarre; lo sciopero della fame. Il primo dura 25 giorni, il secondo 49. Le condizioni di salute sono precarie e la morte del detenuto non è un’opzione prevista dal regime che preferisce tortrurare lentamente e in mod esemplare i suoi oppositori. Così Mansour ottiene qualche piccola concessione: può telefonare alla moglie e ricevere le sue visite una volta al mese per dieci minuti al massimo. Il resto rimane immutato: divieto di leggere, di scrivere, di incontrare altri detenuti. L’emergenza Covid ha poi fatto il resto; da un anno non ha più potuto incontrare la consorte. Uno degli aspetti più inquietanti del rapporto di Human Right Watch riguarda la cosiddetta comunità internazionale, rimasta silente sul supplizio di Ahmed Mansour, forse per paura di infastidire gli alleati emiratini: “Abbiamo consultato migliaia di documenti e non siamo riusciti a trovare la minima parola da parte degli Stati Uniti o delle altre nazioni europee sulla persecuzione di Mansour”. Perché la Birmania si inchina di nuovo di fronte ai militari di Antonio Fiori Il Domani, 3 febbraio 2021 Molti erano convinti che un colpo di stato fosse ormai improbabile in Birmania, dato che l’attuale sistema è stato progettato dai militari per mantenere il potere evitando al contempo di assumersi qualunque responsabilità di governo. Le elezioni politiche tenutesi in Birmania all’inizio di novembre erano state un plebiscito in favore di Aung San Suu Kyi e del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (Nld), per cui l’83 per cento dei cittadini birmani aveva entusiasticamente votato. La causa dell’ennesima intrusione da parte dei militari nella vita politica della Birmania è tanto semplice quanto infondata, e cioè le presunte frodi elettorali architettate proprio dalla Nld, la cui schiacciante vittoria è stata avvertita come un pericolo reale dai soldati. Gli arresti sono iniziati intorno alle 2:30 del mattino, condivisi in streaming dagli attivisti, prima che le linee telefoniche fossero interrotte per alcune ore, nella capitale Naypyidaw e poi a Yangon. La maggior parte dei cittadini è rimasta all’oscuro del colpo di stato per ore, tanto che molti dipendenti pubblici si sono recati normalmente al lavoro con i mezzi di trasporto governativi. E hanno notato la presenza di mezzi militari e soldati lungo le strade principali della capitale così come il cordone creato dalla polizia attorno alla foresteria municipale dove i legislatori si sarebbero dovuti riunire questa mattina prima dell’apertura del parlamento. Non appena sono emerse le notizie degli eventi accaduti durante la notte la gente si è riversata nelle strade e nei mercati per fare scorta di generi di prima necessità, prelevando anche i pochi risparmi agli sportelli automatici, dato che le banche sono state chiuse. L’esercito ha dichiarato lo stato di emergenza per un anno e ha nominato Myint Swe - vicepresidente nominato dai militari nel governo guidato dalla Nld - presidente ad interim. In una dichiarazione trasmessa dai media controllati dal Tatmadaw - il nome ufficiale con cui ci si riferisce alle forze armate - poco dopo le 8 del mattino, i militari hanno menzionato l’articolo 417 della costituzione, che consente l’assunzione di potere da parte dei soldati in caso di emergenza che minacci la sovranità del Myanmar o che potrebbe “disintegrare l’Unione” (il nome ufficiale del paese è, infatti, Repubblica dell’Unione del Myanmar) o attentare alla “solidarietà nazionale”. Tuttavia, questa è una eventualità che deve trovare l’avallo del presidente in accordo con il Consiglio Nazionale di Difesa e Sicurezza; dato, però, che il presidente Win Myint non sembra abbia preso la decisione, i militari starebbero facendo affidamento sull’articolo 73 (sezione a), che consente al vicepresidente “di assumere le funzioni presidenziali se l’ufficio del presidente diventa vacante a causa delle sue dimissioni, morte, invalidità permanente o qualsiasi altra causa”. L’esercito ha dichiarato che procederà alla riforma della Commissione elettorale dell’Unione, esaminerà le liste degli elettori, organizzerà una nuova elezione e trasferirà il potere al partito vincente. Promesse già ampiamente sentite in passato. Sulla pagina Facebook del presidente della Lega Nazionale per la Democrazia è stata pubblicata la foto di una lettera apparentemente vergata da Aung San Suu Kyi, in cui la Lady fa provocatoriamente riferimento a un testamento che scrisse nel 1989, la prima volta in cui dovette subire l’arresto da parte dei militari, nel quale decretò che se fosse morta la sua casa sarebbe stata trasformata in un museo. Ciò lascia supporre che Aung San Suu Kyi tema che la sua vita sia potenzialmente in pericolo. Ciononostante, la missiva si conclude con un messaggio forte e deciso che esorta i cittadini a non inchinarsi al colpo di stato ed anzi ad opporsi ad esso. Quale futuro per la Birmania? Dopo gli inquietanti eventi di stamattina la situazione è estremamente grave e risulta particolarmente difficile provare a fare speculazioni sul futuro politico del paese. La giustificazione per il colpo di stato è molto fragile: Win Myint non è stato in grado di adempiere ai suoi doveri solo perché i militari lo hanno arrestato. Allo stato attuale, tuttavia, la costituzione rimane in vigore. Da un lato ciò potrebbe essere positivo, poiché la carta offre potenzialmente un percorso per tornare al governo democratico; dopo che l’ultima costituzione è stata abolita nel 1988 ci sono voluti ben 23 anni per trasferire il potere a un governo eletto. Allo stesso tempo, però, la costituzione in vigore, come è stato dimostrato dai recenti eventi, è, da diverse prospettive, intrinsecamente antidemocratica. Il fatto che quanto avvenuto sia stato giustificato in base alla stessa carta costituzionale, non importa quanto subdoli siano i mezzi o quanto inconsistente la giustificazione, servirà solo a legittimare il colpo di stato. I militari potranno sostenere che le loro mosse siano legali. Ciò, inoltre, renderà più semplice ai paesi che non si preoccupano del fatto che il Myanmar abbia un governo democraticamente eletto - tipo la Cina - di sostenere il nuovo regime di fronte alle inevitabili richieste di sanzioni avanzate dalla comunità internazionale. Molti erano convinti che un colpo di stato fosse ormai improbabile in Birmania, dato che l’attuale sistema è stato progettato dai militari per mantenere il potere evitando al contempo di assumersi qualunque responsabilità di governo. La situazione, tuttavia, si è modificata repentinamente negli ultimi giorni: i militari si sono rifiutati di escludere la possibilità di un colpo di stato e, successivamente, il generale Min Aung Hlaing - capo di stato e comandante in capo delle forze armate - ha dichiarato che avrebbe potuto abolire l’attuale costituzione, se necessario. Di fronte alle preoccupazioni dimostrate immediatamente dalla comunità internazionale il Tatmadaw si è schermito, sostenendo che la responsabilità fosse attribuibile ai giornalisti, che avevano mal compreso le dichiarazioni di Min Aung Hlaing. Domenica scorsa, poi, in una dichiarazione insolitamente ben scritta indirizzata ai governi occidentali, i militari hanno affermato di “trovare inaccettabile il processo elettorale del 2020”. Nonostante l’insistenza del Tatmadaw, nessuno ha mai preso sul serio le accuse di frode e quindi tutta questa macchinazione veniva vista come una copertura per le reali preoccupazioni dei militari. Questa è una crisi causata dall’ansia di Min Aung Hlaing per il suo futuro; per legge, egli - uno degli uomini più ricercati del pianeta a causa del suo ruolo nel genocidio ai danni dei Rohingya - avrebbe dovuto ritirarsi a metà del 2021, quando compirà 65 anni. Aveva la concreta possibilità di raggiungere la presidenza del paese ma, data la vittoria schiacciante della Nld, gli sono rimaste pochissime possibilità che ciò accada. Le reazioni internazionali - La reazione dei gruppi per i diritti umani e della comunità internazionale non si è fatta attendere, con la promessa degli Stati Uniti di “agire contro i responsabili se questo percorso non verrà invertito”. Il portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ha detto che gli Stati Uniti sono “allarmati” per l’arresto di Aung San Suu Kyi e “altri funzionari civili”. I parlamentari Asean per i diritti umani hanno definito gli sviluppi “uno schiaffo in faccia a tutti i cittadini del Myanmar che sono andati a votare alle elezioni di novembre”, chiedendo ai militari di avere rispetto per la volontà del popolo. Istruttrici di guida cercansi per aiutare le donne arabe di Alberto Caprotti Avvenire, 3 febbraio 2021 L’Unione Nazionale delle Autoscuole cerca volontarie da inviare in Arabia Saudita, Paese dove solo da due anni la patente è stata concessa alle donne. Donne per le donne: è una questione di solidarietà femminile, ma non solo. La notizia sembra uno schiaffo al Medioevo, e in parte lo è: Unasca (l’Unione Nazionale Autoscuole e Studi di consulenza automobilistica) sta reclutando istruttrici di guida italiane che vogliano trasferirsi a Riad per aiutare le donne saudite a diventare a loro volta insegnanti. Il requisito è avere almeno cinque anni di esperienza, e naturalmente essere donne. Perchè in quel Paese arabo ora per fortuna la patente possono prenderla anche le femmine, naturalmente però non c’è ancora la possibilità che sia un uomo a istruirle. Il “bando” è allettante: lo spiega Manuel Picardi, Segretario generale Efa (Federazione delle autoscuole europee) e delegato Unasca: “In Arabia Saudita solo da un paio di anni le donne hanno la possibilità di conseguire la patente. Il Paese sta vivendo una transizione storica e le donne sono chiamate a dare il loro contributo nella formazione alla guida. È una buona opportunità economica per le istruttrici italiane che vogliano mettersi in gioco, con un compenso di 4.500 dollari al mese, spese di viaggio e alloggio a carico degli organizzatori. Soprattutto si ha l’occasione di contribuire all’accelerazione del processo di emancipazione delle donne di quel Paese. Le prime istruttrici di guida europee che partecipano al progetto arrivano da Francia e Olanda. Nei prossimi mesi ci aspettiamo una congrua partecipazione anche da parte delle nostre colleghe italiane, che non sono seconde a nessuno”. L’Arabia Saudita era l’unico Paese al mondo dove le donne non potevano guidare. Poi, a partire da giugno 2018, grazie alla “concessione” del principe ereditario Mohammed Bin Salman, il veto è caduto. Ma fino ad un certo punto, perché ancora oggi una femmina al volante da sola sulla propria auto, senza il marito o un parente maschio al suo fianco, viene considerata come una provocazione. Qualcosa è cambiato nel sentire comune quando la copertina di un noto mensile di moda due anni fa ha pubblicato l’immagine della principessa Hayfa Bin Abdullah al Saud, una delle figlie del defunto re Abdullah, al volante di un’auto decapottabile nel deserto mentre indossa i tacchi alti. Ma è utile ricordare anche che una giovane donna saudita è ancora in carcere, e in attesa di processo da oltre 900 giorni. Si chiama Loujain al-Hatlhou, ha 32 anni, e la sua incredibile vicenda giudiziaria è iniziata quando ha voluto sfidare il regime della monarchia più oscurantista di tutto il Golfo e guidare da sola un’automobile. Tanto è bastato per essere prelevata e portata in carcere dove, secondo quanto hanno sostenuto diverse Ong che si occupano di diritti umani, Loujan è stata anche torturata. “Oggi a Riad - spiega ancora Picardi - non c’è abbastanza personale ministeriale, quindi non ci sono esami di guida, gli allievi non guidano ed il sistema - anche per via della pandemia - è tutto bloccato. Ho già ricevuto diverse richieste d’interessamento da parte di istruttori italiani per partecipare al progetto. Al momento diamo la precedenza alle donne, il loro coinvolgimento in questo momento storico è determinante per la buona riuscita del progetto. In un secondo tempo ci attiveremo per il reclutamento degli istruttori uomini”.