Overdose di carcere. L’altra verità sulle rivolte di marzo di Gabriele D’Angelo Il Dubbio, 2 febbraio 2021 Le testimonianze dei medici e dei legali delle vittime sulle rivolte in carcere che hanno portato alla morte di 13 detenuti: 4 nel solo istituto di Modena. “Lasciatelo morire”. Un esposto arrivato a dicembre sul tavolo della procura di Ascoli Piceno solleva altri dubbi sulla gestione delle rivolte nelle carceri dello scorso marzo. La frase sarebbe stata pronunciata da una guardia carceraria del carcere di Ascoli Piceno, in risposta alle richieste di aiuto dei compagni di cella di Salvatore Piscitelli, appena trasferito dal carcere di Modena, e morto poco dopo. Come lui, altri 3 detenuti sono deceduti durante o poco dopo il trasferimento. Tutti, stando alle autopsie, “per overdose di metadone o altre sostanze”. La legge però, impone una visita medica prima di dare l’ok a ogni trasferimento. Se questi 4 detenuti stavano per andare in overdose, come è possibile che il medico di guardia li abbia fatti partire? Il podcast prova a rispondere a questa e a tante altre domande, con l’aiuto di Elia Del Borrello (tossicologo), Michelina Capato (regista teatrale e amica di una delle vittime), Luca Sebastiani (avvocato di una delle vittime), Donata Malmusi e Domenico Pennacchio (legali di due degli autori dell’esposto) e Gennarino De Fazio (segretario di Uil-Pa polizia penitenziaria). Ascolta l’audio delle testimonianze raccolte: https://soundcloud.com/user-314787818/rivolte-in-carcere-le-testimonianze 576 detenuti positivi al Covid: cresce il focolaio a Rebibbia (5 ricoverati) Il Messaggero, 2 febbraio 2021 Carceri, numeri che fanno riflettere: sono 576 i detenuti positivi al Covid, quasi un centinaio in meno in dieci giorni. Ma cresce il focolaio nel carcere romano di Rebibbia: sono 104 i detenuti positivi, di cui cinque ricoverati in ospedale e gli altri tutti asintomatici. Sostanzialmente stabili i contagi tra i poliziotti penitenziari: sono 600, a cui vanno aggiunti altri 60 dipendenti tra il personale dell’amministrazione penitenziaria, per un totale di 660. È il quadro che emerge dagli ultimi dati comunicati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ai sindacati del comparto e aggiornati alle 20 del 28 gennaio. Donne e bambini oltre la cella: “C’è una seconda possibilità” di Ilaria Sesana Avvenire, 2 febbraio 2021 Secondo piano dell’ex “Casa della gioventù” della parrocchia Quattro Evangelisti. Sul lungo corridoio si affacciano una ludoteca, la grande cucina e tre piccoli appartamenti in cui vivono cinque donne con i loro figli. Ogni giorno si ripetono gli stessi riti: la colazione, la passeggiata fino a scuola, la spesa, i momenti di gioco con gli amici del quartiere o il catechismo. Ma la quotidianità di questi piccoli gesti non è banale, né scontata. Siamo a Milano, nel quartiere Stadera, nella Casa famiglia protetta per detenute madri gestita dall’associazione “Ciao”, che dal 1995 lavora con i detenuti. Un luogo “delle seconde possibilità”, come ricorda una scritta sul muro del corridoio. La prima ospite, nel 2010, fu una mamma in uscita dall’Icam, l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri, di San Vittore con la figlia di soli tre anni. “La legge prevedeva che a quell’età i bambini dovessero lasciare la struttura: la piccola sarebbe stata quindi costretta a separarsi dalla mamma - racconta la presidente di “Ciao”, Elisabetta Fontana. Era la prima volta che mamma e figlia uscivano assieme. In quel momento abbiamo deciso di dare vita a un progetto specifico per tutelare le detenute madri e i loro bambini”. L’associazione ha quindi deciso di concentrarsi (a spese proprie) su questo tipo di accoglienza, dando così forma alle Case famiglia protette istituite poi dalla legge 62/2011. Una norma innovativa, che per la prima volta ha dato ai magistrati strumenti concreti per far uscire dal carcere i bambini con meno di tre anni costretti a vivere con le madri detenute: gli Icam e, appunto, le Case-famiglia protette. In questi dieci anni, tuttavia, solo i primi sono stati finanziati e costruiti: oltre all’esperienza pilota di Milano (dove l’Icam è stato aperto nel 2006) sono stati realizzati gli Icam di Venezia, Torino, Cagliari e Lauro, in provincia di Avellino. “Le Case famiglia protette, invece, sono rimaste a lungo solo sulla carta - spiega Bruno Mellano, garante dei detenuti della Regione Piemonte. La legge, infatti, prevedeva che queste strutture venissero realizzate “senza oneri per lo Stato”. In questi dieci anni, infatti, solo a Milano (nel 2016) e a Roma (nel 2017) sono state aperte due Case-famiglia protette grazie all’impegno, anche economico, delle associazioni e del Terzo settore. Il 2021 potrebbe essere l’anno della svolta e non solo per una crescente attenzione degli addetti ai lavori. La scorsa legge di Bilancio ha istituito un fondo ad hoc, con una dotazione di 1,5 milioni di euro l’anno per ciascun anno del triennio 2021-2023, per le Case famiglia protette. Queste risorse permetteranno di far uscire dalle carceri italiane tutti i bambini detenuti, dando alle loro madri la possibilità di scontare la pena in misura alternativa. A questi fondi, si è aggiunto l’impegno della Cassa delle Ammende del Ministero della Giustizia a finanziare progetti per il superamento degli Icam. “Dovremmo tendere all’eliminazione della detenzione dei minori in qualunque forma” ha precisato la segretaria generale Sonia Specchia durante un incontro organizzato dal Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna. “Il Piemonte si candida a essere sede di una Casa-famiglia protetta - aggiunge il garante Mellano. Le esperienze di Roma e Milano dimostrano che queste strutture funzionano al meglio quando sono in rete con i servizi territoriali. C’è davvero bisogno di costruire questa rete a livello nazionale”. “I bambini non devono stare in carcere e su questo tutti concordano - riflette Andrea Tollis, direttore di “Ciao”. L’esperienza delle Case famiglia protette dimostra che è possibile bilanciare i diritti con l’esecuzione penale dando alle detenute madri la possibilità di scontare la pena promuovendo, al tempo stesso, un processo che vede il ricorso al carcere come ultima ratio”. Le cinque donne che oggi vivono nella Casa-famiglia protetta di Milano hanno alle spalle un periodo, più o meno lungo, nell’Icam di San Vittore. Per loro, la detenzione domiciliare speciale rappresenta anche un’opportunità di crescita personale (in continuità con il percorso avviato in precedenza) grazie al supporto delle educatrici, tra le quali Simona Flandi e Stephanie Depretto. “Alcune di loro sono giovanissime, molte sono straniere e non hanno una rete familiare di sostegno - spiegano -. Noi le sosteniamo in un percorso di crescita e di genitorialità consapevole”. Complessivamente, dal 2010 a oggi, nella Casa famiglia di Milano sono state accolte 29 mamme con i loro bambini. Numeri che possono sembrare piccoli, ma che si spiegano con le lunghe permanenze all’interno della struttura. “Anche quando ottengono le misure alternative spesso c’è un residuo di pena piuttosto alto - riflette Elisabetta. Il nostro obiettivo è sempre quello di costruire percorsi di senso, per fare in modo che una volta tornate in libertà queste donne abbiano un’alternativa concreta. E non è una sfida facile. Quando questo non è subito possibile, continuano il loro percorso all’interno di altri appartamenti della nostra associazione”. “Modello da seguire. Così la pena rieduca” di Ilaria Sesana Avvenire, 2 febbraio 2021 Gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) a oggi sono sicuramente una soluzione più avanzata nella gestione delle detenute con prole, rispetto alle tradizionali “sezioni-nido” (peraltro ancora esistenti). Tuttavia è il momento di superare questi istituti, che devono restare l’ultima ratio”. Giulia Mantovani è docente di diritto penitenziario all’Università di Torino e indica nelle “Case famiglia protette” (già previste dalla legge 62/2011, ma mai pienamente attuate) il modello per trovare soluzione al dramma dei bambini costretti a vivere la detenzione accanto alle madri. “Dare impulso alle Case famiglia protette significa proteggere mamma e bambino e, al tempo stesso, riaffermare il valore “rieducativo” che l’articolo 27 della Costituzione attribuisce alle pene. Penso che sia il momento adatto per valorizzare queste strutture che, occorre ricordarlo, sono necessarie affinché l’Italia dia piena attuazione alle linee guida internazionali in materia penitenziaria”. Quali sono queste normative? Mi riferisco alle “Regole di Bangkok”, risoluzione delle Nazioni Unite del dicembre 2010: una pietra miliare, il primo documento internazionale specificatamente indirizzato alla popolazione femminile autrice di reato e che indica il carcere come ultima risorsa. C’è poi la raccomandazione R(2018)5 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che sollecita gli Stati membri a sostituire il carcere con misure extra-murarie per i detenuti che devono accudire i figli minori. Quali sono le indicazioni che vengono da questi documenti? Entrambi mettono al centro i bambini, esortano gli Stati a prestare attenzione ai loro bisogni e indicano come via maestra l’esecuzione penale esterna al carcere. Nel caso in cui non fosse possibile, si esortano gli Stati ad adeguare l’ambiente affinché possa accogliere in modo adeguato anche i bambini. In questo secondo filone rientrano gli Icam che, in Italia, sono stati un momento positivo ma che in futuro auspicabilmente dovrebbero svuotarsi, man mano che sul territorio si aprono le Case famiglia protette. La detenzione nell’Icam dovrebbe essere un’extrema ratio, solo in quei casi in cui il giudice ritenga inevitabile ricorrere a una struttura penitenziaria. Chi sono le donne che possono beneficiare delle Case famiglia protette? Oggi la normativa prevede che il tribunale di sorveglianza possa inviare in Casa famiglia protetta una donna con figli fino a 10 anni, che non ha domicilio idoneo e quindi non può accedere alla detenzione domiciliare. Penso ad esempio alle straniere, senza rete familiare a cui appoggiarsi, o alle rom: non di rado i magistrati non concedono la misura alternativa perché i luoghi in cui vivono queste donne non vengono giudicati adeguati. Il primo obiettivo è ovviamente far uscire i bambini dal carcere, ma in futuro si può pensare di far diventare le Case famiglia strutture importanti da un altro punto di vista. Quale? Se si diffonderanno sul territorio, in un’ottica più ambiziosa potremmo ricorrervi anche per le donne che, pur avendo un domicilio, possono trarre maggiori benefici da una detenzione in una struttura che offre più supporti e migliori opportunità di reinserimento. Verdini è libero: giusto! Ora liberate gli altri 850 di Piero Sansonetti Il Riformista, 2 febbraio 2021 Ci sono 850 detenuti ultrasettantenni che vanno scarcerati. E poi 1.000 che stanno in cella con una condanna a meno di un anno. Qualche giorno fa il tribunale di Sorveglianza ha deciso di scarcerare Denis Verdini per ragioni sanitarie. Il motivo di questa decisione è semplice e, direi, indiscutibile. Nel carcere di Rebibbia i malati di Covid sono ormai più di 100, quasi un detenuto su dieci ha preso il virus. Verdini è stato imprigionato recentemente, per reati finanziari, ed è uno dei detenuti anziani. In maggio compirà i 70 anni. Ha diversi problemi di salute che riguardano il funzionamento del suo cuore e dei suoi polmoni. Questo lo rende particolarmente vulnerabile: se dovesse beccarsi il virus rischierebbe una malattia molto grave o anche la morte. I giudici di sorveglianza hanno esaminato i referti medici e il certificato dell’anagrafe e, applicando la legge, gli hanno concesso la scarcerazione provvisoria, cioè l’invio agli arresti domiciliari. Per ora il provvedimento avrà una durata di soli due mesi, il tempo che finisca l’emergenza sanitaria. Poi a fine marzo Verdini dovrebbe tornare in carcere, se non ci saranno novità. Per quanto tempo? Ai primi di maggio compirà i 70 anni e la legge prevede che, in linea di massima, le persone che hanno compiuto i 70 anni scontino la pena ai domiciliari, o ai servizi sociali. Però questa norma non prevede l’automatismo: è affidata al giudizio dei magistrati. La liberazione di Verdini ha suscitato, naturalmente, delle polemiche. Voi sapete bene che la gran parte degli opinion leader, in Italia, e dei giornalisti (e naturalmente dei politici) sono travolti da una irrefrenabile amore per le manette e le punizioni. La principale religione laica, oggi come oggi, è quella che venera il Dio forca. Dunque la notizia della scarcerazione dell’uomo che per molti anni è stato l’ombra di Berlusconi ha gettato nello sconforto e provocato una montante rabbia in gran parte dei nostri commentatori. Invece è soprattutto una buona notizia. Perché è la notizia di una legge rispettata. Perché scrivo “soprattutto”? Perché ora ci aspetteremmo la liberazione di molti altri prigionieri che si trovano in condizioni molto simili a quelle di Denis Verdini. Quanti? Intanto, secondo gli ultimi dati ufficiali, alla fine del 2020 c’erano in prigione 850 persone che hanno più di 70 anni. Un numero molto alto. Probabilmente pochissime, tra loro, costituiscono un pericolo per la società. E quindi è possibile scarcerarle tutte o quasi tutte. O lo fanno i tribunali di Sorveglianza, che però, probabilmente, a questo punto son oberati dal lavoro, o lo fa il governo con un decreto. Poi si potrebbe anche prendere in considerazione la liberazione delle persone leggermente più giovani, per esempio i detenuti con più di 60 anni. Sono 3780. In questo modo, probabilmente, si potrebbe ottenere una prima, seppur modesta, riduzione del sovraffollamento nelle carceri, che in questi mesi è molto forte, mentre il Covid picchia duro. C’è solo Travaglio, credo, che non si è accorto di quanto sia drammatica la situazione Covid nelle prigioni. Oltretutto si potrebbero prendere ancora un paio di provvedimenti, sempre a norma di legge o attraverso un decreto, che produrrebbero un ulteriore ridimensionamento del sovraffollamento: scarcerare tutti i detenuti che sono stati condannati a una pena inferiore a un anno (si suppone per crimini non atroci) che sono circa 1000 e poi anche quelli con pene inferiori ai due anni, che sono più di duemila. Realizzando queste poche e ragionevolissime misure avremmo una riduzione della popolazione carceraria di 7.700 unità, circa, cioè di oltre il 15 per cento. Poi, certo, se vivessimo in un paese tollerante e liberale, potremmo addirittura giungere fino all’indulto e all’amnistia. Ma questo richiederebbe la presenza in Parlamento di una classe politica. Circostanza, al momento, quasi impossibile. Liliana Segre, la figlia di Auschwitz ancora lotta contro il carcere di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 2 febbraio 2021 Aveva appena tredici anni, Liliana Segre, quando il 30 gennaio del 1944 fu stipata nel convoglio che dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano portava a Auschwitz. Era stata per quaranta giorni detenuta nel carcere di San Vittore. Il giorno dopo, varcavano il confine. C’era il padre Alberto con lei, e altre seicento tre persone. Solo ventidue sopravvissero. Il binario 21 era stato utilizzato fino ad allora per i treni del servizio postale: era in una posizione un po’ discosta, fuori dallo sguardo, al di sotto del manto stradale. Con un ascensore, i vagoni venivano poi agganciati al locomotore all’aperto e potevano partire. Nel 1943, il comando nazista decise di convertirlo per la “soluzione finale” degli ebrei: sembrava “perfetto”. Tra il 1943 e il 1945 dal binario 21 partirono ventitré treni diretti ad Auschwitz e ad altri campi di concentramento. Non ci mettevano solo ebrei, i nazisti, in quei treni, ma anche altri perseguitati antifascisti detenuti nel carcere di San Vittore: per gli ebrei la meta era sempre Auschwitz, per gli altri a volte il campo di concentramento di Mathausen-Gulsen in Austria, a volte quello di Bergen- Belsen in Germania. Capitava anche che fossero destinati ai campi italiani, a Bolzano, Verona e Fossoli in Emilia. Di quei ventitré convogli, il più terribile fu proprio quello che lasciò la stazione di Milano il 30 gennaio 1944. Quando raggiunsero il lager di Auschwitz- Birkenau, 477 di loro vennero subito uccisi nelle camere a gas. Gli altri 128 finirono nel campo di concentramento. Di questi, sopravvissero solo quattordici uomini e otto donne. Tra loro, Liliana Segre, che il 19 gennaio 2018, in occasione del settantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali, è stata nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Mattarella. Il binario 21 è nel frattempo diventato il Memoriale della Shoah e ogni anno - nell’incontro della Comunità ebraica di Milano con la Comunità di Sant’Egidio - proprio il 30 gennaio vi si celebra una breve cerimonia, a ricordare “tutti quelli che non sono tornati”. C’è un “muro dei nomi”, con l’elenco di tutte le vittime che partirono da lì - ma si sa che furono di più. Più volte, Liliana Segre ha raccontato quei giorni: “Eravamo merci, vitelli destinati al mattatoio”. È stata lei a volere con forza la grande scritta “Indifferenza”, e lei più volte è tornata su questo aspetto. Quest’anno ha citato i versi di Primo Levi, deportato come lei ad Auschwitz: “Quando ognuno era ancora un sigillo / Di noi ciascuno reca l’impronta / Dell’amico incontrato per via / In ognuno la traccia di ognuno”. E ha spiegato il motivo della scelta: “I versi di Primo Levi sono il contrario dell’indifferenza. Quando ognuno è la traccia di ognuno, non ci può essere indifferenza. L’indifferenza porta alla violenza, è già violenza”. Ricorda il silenzio e l’indifferenza di Milano, la Segre, quando i camion che li portavano al binario 21 attraversavano la città e tutti si voltavano dall’altra parte. Ricorda la violenza dei loro vicini di casa fascisti - quando li arrestarono. Solo i detenuti di San Vittore, dice, mostrarono umanità: “I carcerati vedendoci partire e sapendo che eravamo innocenti ci salutarono lanciandoci quel poco che avevano - arance, mele, qualche sciarpa e soprattutto le loro benedizioni che ci furono di grande conforto e che io ancora oggi ricordo con grande affetto”. È forse in ricordo di questo affetto e di quei suoi quaranta giorni a San Vittore che Segre ha presentato il 17 dicembre scorso una interrogazione parlamentare, assieme ai senatori Loredana De Petris e Gianni Marilotti, chiedendo se il presidente Conte e il ministro Bonafede “non ritengano urgente la predisposizione di un piano vaccinale per detenuti e personale che lavora nelle carceri, e se non si ritiene altresì che, proprio per i rischi congeniti, l’insieme delle persone che vivono e lavorano nelle carceri debbano essere inserite sin dall’inizio fra le categorie con priorità sottoposte alla campagna di vaccinazione”. E il primo giorno di febbraio Liliana Segre è tornata sulla questione della vaccinazione, in un appello lanciato sul quotidiano la Repubblica e firmato insieme al Garante dei detenuti, Mauro Palma, chiedendo che “alla doverosa priorità assegnata a coloro che in carcere operano, si affianchi quella per coloro che vi sono detenuti”. Segre e Palma sottolineano come non si tratti solo di un “principio di equità”: “È proprio un obbligo, poiché alla privazione della libertà dei custoditi fa riscontro la responsabilità per il loro benessere di chi esercita il diritto- dovere di custodirli, cioè dello Stato”. Le notizie che arrivano dalle carceri non sono confortanti: nel sovraffollamento, nonostante alcune misure prese, dal Pagliarelli di Palermo fino al nord, corre il contagio. Speriamo che le parole di Liliana Segre rompano il muro dell’indifferenza. Il sociologo detenuto urla la sua innocenza ed è in cella dal 1995 di Valentina Stella Il Dubbio, 2 febbraio 2021 Alessandro Limaccio, siciliano di Lentini, è in carcere dal 1995, da quando aveva 23 anni, condannato a quattro ergastoli ostativi per cinque omicidi dei quali si è sempre proclamato innocente, anzi estraneo. Sociologo, nel 2018 è stato insignito del Premio Nazionale alla cultura ‘ Sulle ali della libertà’, con l’Alto patrocinio del Presidente della Repubblica. È il primo detenuto in Italia ad aver conseguito un dottorato di ricerca dietro le sbarre ed è anche il primo a rifiutarsi di chiedere i permessi per poter proclamare con più forza la sua innocenza. Ora è in libreria con “Il sociologo detenuto - Una storia Etnografica” (Herald Editore, collana Quaderni del carcere, pag. 178, euro 15) in cui realizza un resoconto etnografico dei suoi anni in carcere. Se per la Treccani l’etnografia è la “Rappresentazione scritta delle forme di vita sociale e culturale di gruppi umani”, per il nostro autore “non è mai un semplice elenco di cose viste e sentite, ma è una più o meno complessa operazione di scrittura, una modalità di presentazione dei dati, che siano in grado di produrre non soltanto etnografia di una determinata cultura, ma anche etnografia di un incontro di culture (quella del sociologo e quella che quest’ultimo vuole studiare), attraverso un rapporto dialogico, interattivo, interpretativo e riflessivo”. Detta in maniera più semplice il libro “descrive le mie esperienze sul campo: le pagine che seguono sono un racconto di sofferenza, determinazione, angoscia, coraggio, speranza e fede”. Già, quella speranza che lui non perde pur avendo un “fine pena mai” che, come ricorda il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma nella nota introduttiva al libro, rappresenta “una “pena capitale” così come Luigi Ferrajoli l’ha definita poiché - egli scrive - ‘ cambia radicalmente la condizione esistenziale del detenuto, il suo rapporto con sé stesso e con gli altri, la sua percezione del mondo, la sua raffigurazione del futuro. Pena capitale nel duplice senso: perché è una privazione di vita e non solo di libertà, una privazione di futuro, un’uccisione di speranza”. Ma chi è Alessandro Limaccio? Impariamo a conoscerlo in un racconto nel racconto grazie all’introduzione di Enrico Rufi, storica voce notturna di Radio Radicale: “Io ho conosciuto Alessandro tre anni e mezzo fa. Volevo abbracciare le persone che pochi mesi prima dal reparto G8 del carcere di Rebibbia, qui a Roma, avevano scritto una fraterna lettera di vicinanza e consolazione alla mamma, alla sorella e al papà (Rufi, ndr) dell’unica ragazza che non era tornata dalla Giornata Mondiale della Gioventù”, per una meningite fulminante. Rufi crede profondamente nell’innocenza di Alessandro, ragazzo di sana famiglia che credeva nelle istituzioni, lontanissimo da contesti mafiosi, e attivista della Democrazia cristiana; “eppure le gesta criminali che gli vengono attribuite fanno di lui non un killer assoldato all’occorrenza, un comodo insospettabile “monouso” per così dire, ma un picciotto regolarmente inquadrato nei ranghi di un clan mafioso”. Ed è così che becca quattro ergastoli ostativi che secondo il giornalista di Radio Radicale sono la conseguenza di una vendetta di un marito tradito “che aveva subito l’umiliazione di veder la moglie quarantenne scappare con quel ventenne aitante e intraprendente, lui che era uno degli uomini più potenti nelle istituzioni a Catania”. A ciò devono aggiungersi: “Telefonate anonime, voci confidenziali, pentiti, pseudo-pentiti, ma anche giudici ricorrenti e intercambiabili. Si prenda Francesco Aliffi: giudice a latere nella Corte d’Assise di Siracusa che aveva condannato Alessandro Limaccio al primo ergastolo nel procedimento “Tauro”; pubblico ministero nel procedimento “San Marco” che comminò tre ergastoli al futuro sociologo per i quattro omicidi appena citati”. Il libro e la storia di Alessandro sono molto di più di queste parole, quindi non dovete far altro che comprarlo. La conclusione di questa recensione la affidiamo proprio alle parole di Alessandro Limaccio: “Per quanto riguarda il mio caso giudiziario, con incrollabile fede in Dio, continuerò a urlare la mia innocenza, credendo nella magistratura e sperando che un Giudice onesto si interessi al mio caso, lo prenda a cuore e abbia il coraggio di non negare l’evidenza della mia totale estraneità ai fatti a me imputati e, con lealtà verso il diritto e applicando la legge, mi renda quella giustizia che ho sempre chiesto”. E noi speriamo con lui. La partita per il controllo di via Arenula che risolve la crisi di Simona Musco Il Dubbio, 2 febbraio 2021 Severino, Cartabia, Cassese e Orlando: ecco i nomi in ballo. È il nemico numero uno di Matteo Renzi: Alfonso Bonafede. Ed è la sua la poltrona più importante nella sfida tra i partiti della maggioranza uscente in vista di un nuovo governo. Davanti a tutto, ripetono i protagonisti della trattativa, ci sono le idee, i programmi. Ma sono i nomi, specie dalle parti di Italia Viva (che lo nega), a fare la differenza. Perché se c’è una certezza è che l’ex rottamatore non sarà disposto a dare l’appoggio a un nuovo esecutivo guidato da Giuseppe Conte se quest’ultimo non fosse disponibile a libererare la scrivania di via Arenula. Non ne fa mistero la deputata Lucia Annibali: “Credo si debba cambiare la cultura giudiziaria del governo. La giustizia è un tema importante, si è aperto un terreno di scontro e così non dovrebbe essere”, ha dichiarato ieri a “Oggi è un altro giorno”, su Raiuno. Invocando “discontinuità” e, soprattutto, “la modifica della riforma della prescrizione”, punto “dirimente” dello scontro di maggioranza. Il dato è così palese che proprio ieri Iv ha depositato un emendamento al decreto Mille proroghe all’esame della Camera, a prima firma Annibali e sottoscritto anche da Marco Di Maio e Mauro Del Barba, chiedendo di “congelare” le nuove norme fino a fine 2021: è l’ormai famoso “lodo”. Ma intanto rimane da capire chi potrebbe sostituire l’attuale guardasigilli. I nomi in ballo sono diversi e quasi tutti tecnici, forse per evitare un gioco al massacro che potrebbe portare a un nulla di fatto, replicando così lo schema del Conte 2, quando la poltrona del Viminale fu assegnata a Luciana Lamorgese per sostituire il leader della Lega Matteo Salvini. Escluso il vicesegretario del Partito democratico Andrea Orlando, che a capo di quel ministero c’è stato dal 2014 al 2018 con i governi Renzi e Gentiloni, gli altri nomi in ballo sono quelli di tecnici di alto profilo. In prima fila ci sarebbero due donne: l’ex presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, nei giorni scorsi indicata anche come possibile sostituta di Conte, e Paola Severino, anche lei già guardasigilli dal 2011 al 2013 col governo Monti. Secondo alcune indiscrezioni, Conte avrebbe telefonato a Cartabia per offrirle un posto nell’esecutivo e, dunque, spegnere le voci che la vedrebbero prendere il suo posto a Palazzo Chigi. Non è da escludersi, insomma, che sia proprio quello della Giustizia il ministero ipotizzato dal premier per l’ex numero uno della Consulta. Ma è quello di Severino, al momento, il nome con le quotazioni più alte. Avvocata e docente universitaria, si ritroverebbe a gestire la partita della giustizia e delle riforme contenute nel Recovery Plan da tecnica incline a valutare il funzionamento e il buon andamento del sistema giudiziario in termini economici, con un’analisi delle performance dei tribunali basata principalmente su tempi e contenimento dei costi. È sua, infatti, la legge che ridisegnò la geografia delle circoscrizioni giudiziarie, con la soppressione di numerosi Uffici del giudice di pace e diverse sezioni distaccate dei Tribunali, per un risparmio totale di circa 30 milioni l’anno, ottenuto grazie all’accorpamento di diversi uffici giudiziari, ma tra le polemiche degli addetti ai lavori. Sua anche la legge sull’incandidabilità e sul divieto di ricoprire cariche elettive e di governo dovuti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, che portò all’esclusione di Silvio Berlusconi. Recentemente proprio l’attuale ministro della Giustizia Bonafede ha inserito Severino nella task force denominata “Alleanza contro la corruzione”, “una grande consultazione pubblica di esperti di diversa provenienza professionale e di varia estrazione disciplinare, con l’intento di fare il punto sull’assetto messo in campo dal nostro Paese nei settori della prevenzione e del contrasto alla corruzione”, aveva spiegato il ministro. Ma proprio l’idea di un’ennesima task force, dopo le polemiche sulla cabina di regia per il Recovery Fund, aveva fatto storcere il naso, per l’ennesima volta, a Italia Viva: “La smania da task force si sta diffondendo. Ora anche il ministro Bonafede ne crea una, dimenticando come il compito che dovrebbe assolvere sia già svolto dall’Autorità Nazionale anticorruzione creata da Renzi”, avevano sottolineato polemicamente i parlamentari di Iv. Ma ci sono altri due nomi in ballo per la poltrona di Guardasigilli. Uno, meno probabile, è quello del procuratore di Milano Francesco Greco, attualmente titolare di un’inchiesta sulla Lega. L’altro è del giurista Sabino Cassese, ex presidente della Corte costituzionale, che non ha nascosto la sua contrarietà alla riforma Bonafede sulla prescrizione e, pertanto, potrebbe essere ipotesi gradita a Renzi e soci. “La prescrizione senza termine viola principi costituzionali (la durata ragionevole dei processi, il fine riabilitativo della pena) e di buon senso (come può un giudice disporre di tutte le prove dopo venti anni o più? Una persona non è diversa dieci anni dopo?)”, aveva affermato. Un giudizio, insomma, totalmente affine a quello di Italia Viva. Prescrizione, Italia Viva torna all’attacco: “Sulla giustizia serve discontinuità” di Davide Varì Il Dubbio, 2 febbraio 2021 Con un emendamento al decreto Mille proroghe in esame alla Camera, a prima firma Lucia Annibali (Iv), si chiede di “congelare” la riforma della prescrizione fino a dicembre 2021. Italia viva torna all’attacco sul fronte giustizia. Nel mirino la riforma della prescrizione voluta da M5s. Con un emendamento al decreto Mille proroghe in esame alla Camera, a prima firma Lucia Annibali e sottoscritto anche da Marco Di Maio e Mauro Del Barba, si chiede di “congelare” le nuove norme fino a fine 2021. Si legge nell’emendamento: “Art. 8-bis. (Sospensione dell’efficacia dell’articolo 159 del codice penale e disciplina transitoria) - A decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e fino al 31 dicembre 2021 è sospesa l’efficacia delle disposizioni di cui all’articolo 159 del codice penale”. E ancora: “Il corso della prescrizione rimane sospeso in ogni caso in cui la sospensione del procedimento del processo penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge, oltre che nei casi di: a) autorizzazione a procedere, dalla data del provvedimento con cui il pubblico ministero presenta la richiesta sino al giorno in cui l’autorità competente la accoglie; b) deferimento della questione ad altro giudizio, sino al giorno in cui viene decisa la questione; c) sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell’imputato o del suo difensore. In caso di sospensione del processo per impedimento delle parti o dei difensori, l’udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento, dovendosi avere riguardo in caso contrario al tempo dell’impedimento aumentato di sessanta giorni”. Recita ancora l’emendamento di Iv: “Sono fatte salve le facoltà previste dall’articolo 71, commi 1 e 5, del codice di procedura penale; d) sospensione del procedimento penale ai sensi dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale; e) rogatorie all’estero, dalla data del provvedimento che dispone una rogatoria sino al giorno in cui l’autorità richiedente riceve la documentazione richiesta, o comunque decorsi sei mesi dal provvedimento che dispone la rogatoria. Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso nei seguenti casi: a) dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi; b) dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi. 5. I periodi di sospensione di cui al comma 4 sono computati ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere dopo che la sentenza del grado successivo ha prosciolto l’imputato ovvero ha annullato la sentenza di condanna nella parte relativa all’accertamento della responsabilità o ne ha dichiarato la nullità ai sensi dell’articolo 604, commi 1, 4 e 5-bis, del codice di procedura penale. 6. Se durante i termini di sospensione di cui al comma 4 si verifica un’ulteriore causa di sospensione di cui al comma 3, i termini sono prolungati per il periodo corrispondente. 7. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione. 8. Nel caso di sospensione del procedimento ai sensi dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale, la durata della sospensione della prescrizione del reato non può superare i termini previsti dal secondo comma dell’articolo 161 del presente codice. 9. Il corso della prescrizione è interrotto dalla sentenza di condanna o dal decreto di condanna”. “Sul tema della giustizia serve necessariamente una discontinuità, anche tenendo conto del fatto che la relazione sullo stato della giustizia in Italia del ministro Bonafede non è stata presentata in Parlamento perché non avrebbe ricevuti i voti necessari. Serve una cultura giuridica diversa per il bene del Paese”, commenta al Fattoquotidiano.it la deputata di Iv Lucia Annibali. Per Annibali “la modifica della riforma della prescrizione - resta un punto dirimente”, su questo “si è verificato uno scontro politico e non possiamo permetterlo”. Flick: “Salvate la Giustizia: fra abusi delle toghe e Dpcm, ora fa paura” di Errico Novi Il Dubbio, 2 febbraio 2021 In un quadro già allarmante di crisi della legge, Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, inserisce l’incertezza creata dalla pronuncia costituzionale sulla prescrizione. “Da una parte il governo che introduce di continuo regole con strumenti impropri come i Dpcm. Dall’altra la magistratura che a volte altera le regole del processo e, nell’ultimo libro, sembra concedersi abusi impensabili”. In un quadro già allarmante di crisi della legge, Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, inserisce l’incertezza creata dalla pronuncia costituzionale sulla prescrizione causa Covid: “Avrei preferito fosse ribadito il principio di irretroattività della legge penale”. Cosa è cambiato rispetto al libro? Perché me lo chiede? Perché nel suo ultimo saggio, “Giustizia in crisi (salvo intese)”, lei si era affidato a una prospettiva di pacificazione. Da una parte la politica che smette di usare la giustizia come arma nei conflitti interni, dall’altra la magistratura che dismette l’abitudine di farsi interprete della legge in modo così esuberante da renderla imprevedibile... Ecco, infatti, ma non è intervenuto, nel frattempo, alcun revisionismo, per parte mia. Eppure lei adesso parla di una crisi della giustizia così evidente da chiamare in causa la sentenza della Consulta sulla “prescrizione Covid”, e rischi più generali per un principio sommo dell’ordinamento in materia penale, il principio di legalità... Il tono forse è cambiato. Non il mio auspicio. Il tono può risentire del libro appena pubblicato sulla magistratura. Il “Sistema” di Palamara? Sì. Vedere fino a che punto la perdita di ossequio verso le regole può arrivare mette davanti agli occhi le macerie. E non è una bella sensazione. Se i fatti descritti in quel libro riguardassero altri consessi, si sarebbero immediatamente aperti procedimenti penali. L’appartenenza alla corporazione, se così la si vuol chiamare, suggerisce la sgradevolissima idea di poter assicurare un trattamento diverso. E non è una bella sensazione. È un altro colpo alla stabilità del sistema delle regole. Cominciamo da un tema che incidentalmente è anche materia di “scandalo” per la politica: la prescrizione. Lei ne parla oggi a un webinar organizzato dalla Scuola superiore della magistratura, in particolare a proposito di “Garanzia dell’irretroattività nella nuova dimensione della legalità penale”. Intanto, molti italiani trovano giusto che si sia abolita la prescrizione: forse perché un’idea “premoderna” di giustizia è ritenuta tutt’oggi necessaria? C’è l’idea che la prescrizione sia il meccanismo favorevole ai furbi e ai ricchi, che con sofismi e ottimi avvocati posso sfuggire a una giusta condanna. C’è in realtà qualcosa di astuto da parte dello Stato, dietro una storia del genere. A cosa si riferisce? Al fatto che la prescrizione è diventata il manto sotto cui si occultano le inefficienze del sistema giudiziario. Dietro cui cioè lo Stato cela le proprie inadeguatezze organizzative e strutturali. Dire che la prescrizione favorisce i furbi, accreditare una simile lettura, nasconde per esempio il fenomeno per cui la maggior parte dei reati che si estinguono, viene dichiarata prescritta o durante le indagini oppure a causa di quella sorta di buco nero della macchina processuale costituito dal passaggio fra l’udienza preliminare e l’inizio del dibattimento. Mi sembra un modo equivoco e manipolativo di occultare un principio costituzionale: il principio della durata ragionevole del processo, più precisamente il principio secondo cui la durata ragionevole è un dovere il cui adempimento compete allo Stato, non all’imputato. Come risulta dalla diversa formulazione dell’articolo 111 della Costituzione rispetto all’articolo 6 della Cedu. Perché, qualcuno pensa il contrario? Sì, nel momento in cui si insinua che la prescrizione arriva per colpa dell’imputato, anzi del difensore astuto e bravo che ricorre a tutti i possibili trucchi per favorire l’estinzione del reato, si sostiene in modo implicito che l’imputato deve concorrere ad assicurare la ragionevole durata. No, non è affatto così. Nel diritto penale così com’è inteso da alcuni secoli, l’imputato non è neppure tenuto a dichiararsi colpevole. Se pure è colpevole, non è tenuto ad autoaccusarsi. Figurarsi se deve rinunciare a qualche garanzia pur di favorire la celerità dell’accertamento. Non è affatto vero. Il solo vincolo per l’imputato consiste nell’avvalersi delle previste garanzie all’interno del processo, senza fuggire grazie ad esse dal processo. Ma di più non si può pretendere. L’efficienza è un dovere in capo allo Stato. Ecco perché dire che la prescrizione è il riparo dei furbi è un doppio rovesciamento della verità. La distorsione dei principi si realizza anche per l’inconsapevole tramite di alcuni magistrati? Ad esempio quando si trasferisce di fatto il processo dalla sua sede naturale ai media? Si tratta di un problema diverso da quello della prescrizione. In comune c’è l’impressione che alcune regole, anche in questo caso, siano in effetti disconosciute. Nello specifico, la regola vuole che la pubblicità ci sia quando si è nella fase del dibattimento. Nelle indagini devono esserci segretezza e riserbo. Avviene il contrario. C’è un clamore mediatico enorme attorno alle indagini, trascinate verso l’orizzonte dell’aspettativa popolare, che vìola la regola della segretezza e può influenzare il giudice. Lei prima ha detto che si scarica ogni responsabilità sull’imputato: avviene perché lo si considera colpevole già per il fatto di essere accusato? Ci sono evidentemente approcci distorsivi, non solo sulla prescrizione. Se ne registra uno molto grave a proposito delle intercettazioni. Vale a dire del trojan. Le pare possibile ricorrere a uno strumento investigativo che ti segue ovunque e raccoglie tutto quello che trova? Mi sembra si vada nella direzione di voler indurre l’indagato a un’inconsapevole confessione. Si stravolge l’equilibrio che la Costituzione pone tra l’articolo 15 (privacy) e l’articolo 21 (comunicazione a tutti). Una tendenza ellittica nell’interpretazione delle norme potrebbe aver condizionato persino la Corte costituzionale sul blocco della prescrizione causa Covid, la cui retroattività è stata giudicata legittima? In realtà io sono stato colpito soprattutto da una cosa, ferma restando la possibilità di alternative tecniche nell’interpretazione della norma. Mi ha sorpreso il contrasto fra l’enfasi con cui la Corte aveva ribadito il carattere inderogabile del principio di irretroattività delle leggi penali in malam partem, in occasione della sentenza Taricco, e la pronuncia emessa appena due anni dopo sul blocco della prescrizione legato alla sospensione dei processi per la pandemia. La Consulta ha derogato dalla linea precedente, e ha detto che la prescrizione può essere sospesa anche per un fatto verificatosi prima dell’entrata in vigore della legge che introduce la specifica causa di sospensione del processo. Come ha potuto? Ha ritenuto che l’articolo 159 del codice penale, in cui si stabilisce che la prescrizione è sospesa quando il processo si interrompe e tutte le volte in cui una legge introduce un particolare motivo di sospensione del processo, sia da intendersi nel senso che il motivo specifico introdotto da una nuova legge valga pure per il passato. In parole semplici, ha “spacchettato” l’articolo 159 nella previsione generica della sospensione e nel richiamo alla “particolare disposizione di legge” che la impone. In tal modo si concede un potere molto ampio allo Stato, giusto? Quando ritiene, introduce una nuova causa speciale di sospensione: gli basta mettersi sotto l’ombrello dell’articolo 159... La Corte ha chiamato in causa, con motivazioni molto diffuse, il principio di emergenza e quello di ragionevolezza, ricollegati per esempio alla brevità del periodo in cui, nella primavera dell’anno scorso, i processi furono sospesi, e alla eccezionalità della pandemia. Ma io avrei preferito che fosse preservata anche l’integrità di un principio cardine, soprattutto in un periodo in cui le incertezze non mancano. La sentenza sulla prescrizione Covid è il sintomo di una giustizia senza certezze? La sentenza ci fa vedere con chiarezza quanto pesante sia un quadro in cui le certezze vengono a mancare e richiede un urgente confronto risolutivo fra politica e magistratura. Al nostro sistema dei diritti serve riconoscersi attorno a principi cardine. Altrimenti prevalgono la delegittimazione del Parlamento, il sovrapporsi multilevel delle fonti, la confusione. Tutto è incerto e la giustizia sembra vacillare. E ciò in contrasto con la precisione del principio costituzionale di legalità (articolo 25) che si esprime in termini di “una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, non di un fenomeno. E siamo alla domanda: è diventato pessimista a soli tre mesi dall’uscita di un libro in cui sembrava fiducioso? Io continuo a credere che l’albero della giustizia debba assicurare due frutti: la ragionevole durata del processo e la ragionevole prevedibilità dei suoi esiti. Dicono si tratti di requisiti necessari per ottenere i fondi del Recovery. No: sono innanzitutto i requisiti necessari per una civiltà del diritto. Servono ai cittadini, alle persone, prima che all’Europa o agli investitori. Quindi siamo messi male? Ora vedo al capezzale della legislazione, che rischia di morire, da un capo la politica, che fa venir meno la certezza della legge nel momento in cui introduce troppe norme attraverso strumenti discutibili. Trovo di straordinaria verità le parole pronunciate dal primo presidente della Cassazione alla cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario riguardo al timore che l’irrompere tumultuoso delle leggi confonda più che risolvere. Pare chiarissimo nel caso dei dpcm. Dall’altro capo del letto su cui giace la legislazione rischia di trovarsi il giudice, sempre più tentato dalla creatività interpretativa anziché dalla interpretazione creatrice. Da ciò la contesa fra politica e giustizia sulla spartizione dell’eredità della legislazione. Definire il quadro allarmante è un eufemismo... La piramide del diritto vede al vertice i principi, ossia la Costituzione. Quindi ci sono le regole che attuano quei principi, dunque il legislatore che fissa quelle regole. Nella parte inferiore, il governo che attua le regole, e coloro che esercitano la funzione di controllo, ossia i magistrati. Mi pare che la confusione abbia allontanato ogni certezza sui principi. Il suo discorso pare meno aperto alla fiducia in uno sviluppo positivo... Senta, lo spettacolo offerto da un libro come quello sulla magistratura appena uscito suggerisce il timore che l’uso un po’ arbitrario delle regole sia andato fuori controllo, in un contesto di autoreferenzialità. Eppure continuo a credere e a sperare che si smetterà di seguire questa strada, abbastanza presto da evitare che i capisaldi dello Stato di diritto vengano corrosi del tutto. Perché prima o dopo ci auguriamo che la pandemia finisca, mentre l’equilibrio fra i poteri e la funzione della giustizia dovranno continuare a esistere. L’uso dell’intelligenza artificiale nel sistema giudiziario e i rischi per i diritti umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 febbraio 2021 Lettera alla Commissione europea dell’Asgi e di altre 60 associazioni italiane sui rischi per l’uso dell’intelligenza artificiale nel sistema giudiziario. Entro il 2021 l’Unione europea emanerà una legge che regolamenta l’intelligenza artificiale (IA), ma sarà un compito delicato perché bisognerà evitare che intacchi i diritti umani come, di fatto, sta accadendo in Cina. Ad esempio, come mettono in guardia numerose associazioni che si occupano dei diritti umani, l’uso di strumenti di valutazione del rischio nel sistema di giustizia penale e nel contesto preprocessuale, come gli algoritmi per tracciare un profilo degli individui all’interno dei processi, rappresenta una grave minaccia per i diritti fondamentali. “Tali strumenti - si legge nella lettera rivolta alla Commissione europea a firma dell’Asgi e altre 60 associazioni italiane - basano le loro valutazioni su una vasta raccolta di dati personali non collegati alla presunta cattiva condotta degli imputati. Questa raccolta di dati personali al fine di prevedere il rischio di recidiva non può essere percepita come necessaria né proporzionata allo scopo, in particolare considerando le implicazioni per il diritto al rispetto della vita privata e la presunzione di innocenza. Inoltre, prove sostanziali hanno dimostrato che l’introduzione di tali sistemi nei sistemi di giustizia penale in Europa e altrove ha portato a risultati ingiusti e discriminatori”. Il Parlamento europeo, è tra le prime istituzioni a presentare delle raccomandazioni su ciò che le norme sull’Intelligenza artificiale dovrebbero includere in materia di etica, responsabilità e diritti di proprietà intellettuale. Queste raccomandazioni aiuteranno l’Ue a diventare un leader globale nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Non è un caso che negli anni passati, l’Ue ha stanziato diversi miliardi per la ricerca. Com’è detto, l’intelligenza artificiale deve rimanere dentro i confini di un quadro etico ben dettagliato. Anche perché qualsiasi approccio “umanocentrico” all’intelligenza artificiale richiede il rispetto dei diritti fondamentali, indipendentemente dal fatto che questi siano o meno esplicitamente protetti dai trattati dell’Unione Europea, come il Trattato sull’Unione Europea (Tue) o la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Nel 2019, su spinta della commissione europea, si è costituto un gruppo di esperti denominato Ai Hleg. E sono quest’ultimi che hanno suggerito all’Unione Europea di impegnarsi a una regolamentazione che punti verso nozioni quali “rispetto dell’uguaglianza, non discriminazione e solidarietà”. L’Ai Hleg ha esplicitamente raccomandato ai politici di emanare regolamenti per garantire che gli individui non siano soggetti a “tracciamento o identificazione personale, fisica o mentale ingiustificata, profiling e nudging attraverso metodi di riconoscimento biometrico basati sull’intelligenza artificiale come il tracciamento emotivo, Dna, scansione dell’iride e identificazione comportamentale”. Tali metodi dovrebbero, però, “essere consentiti solo in circostanze eccezionali, ma anche in questo caso solo se “basati su prove nonché sul rispetto dei diritti fondamentali”. In sostanza si chiede di non fare la fine della Cina che già usa l’Intelligenza artificiale per imporre il controllo. Di recente, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e altre 60 associazioni, in vista della proposta legislativa sull’intelligenza artificiale, hanno inviato una lettera aperta alla Commissione europea chiedendo che vengano posti dei limiti chiari nell’elaborazione di una regolamentazione comunitaria nell’utilizzo delle nuove tecnologie. Elencano una serie di preoccupazioni e si sollecita la Commissione europea affinché vengano affrontate in maniera inequivocabile per evitare eventuali rischi di violazione dei diritti umani fondamentali. Toghe onorarie: pronte a task force su arretrato ma “no” a nuovo precariato Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2021 Si utilizzino i magistrati in servizio da più di 20 anni, prevedendone la permanenza nelle funzioni. I magistrati onorari si dicono pronti a dare il proprio contributo per lo smaltimento dell’arretrato. Ma offrono alla politica una ipotesi diversa da quella contenuta nel Recovery plan. Il documento destinato alla Ue prevede infatti l’assunzione di 2.000 magistrati onorari aggregati (1.000 per ogni ciclo, della durata di due anni e mezzo), con la funzione di “collaborare con i giudici professionali che operano nelle sedi gravate da arretrati significativi nel settore civile, elaborando bozze di sentenze”. Ma per i “non togati” si tratta di altro precariato. La ricetta, dunque, deve essere diversa e deve fondarsi sul ricorso alla magistratura onoraria già in carica prevedendone una sorta di stabilizzazione. Di fronte a una pandemia che “ha quasi arrestato la macchina giudiziaria, già in precedenza in profonda crisi”, l’Associazione della magistratura onoraria è disponibile “a mettere a disposizione del Paese” la propria “professionalità ed esperienza ultraventennale” e a far parte di task force per “abbattere nell’arco di tre anni l’arretrato”. In cambio chiede “la rapidissima approvazione con Decreto legge della riforma della magistratura onoraria che riconosca la piena dignità e la permanenza nelle funzioni ed il rispetto dei diritti costituzionali (in primis previdenziali ed assistenziali), ancora oggi inopinatamente negati”. L’Associazione ha fatto anche i conti: utilizzando nelle task force per abbattere l’arretrato i magistrati precari in servizio da 25 anni, la spesa sarebbe nel triennio inferiore ai 200 milioni a fronte di un beneficio di oltre 40 miliardi di euro, visto che tanto costa all’Italia l’inefficienza della giustizia, l’equivalente del 2,5% del Pil. Senza contare “le diverse centinaia di milioni di euro che l’Italia spende ogni anno per le condanne per l’irragionevole durata dei processi ai sensi della cd. legge Pinto”. “In Italia Giudici di pace e Giudici di tribunale hanno definito negli ultimi 20 anni circa quaranta milioni di procedimenti in tempi celerissimi: la durata media dei giudizi è stata inferiore all’anno”, afferma l’Associazione citando dati del ministero della Giustizia. Proprio per questo nelle task force andrebbero utilizzati i magistrati in servizio da più di 20 anni, non invece “nuovi precari”, come si intenderebbe fare, “spendendo cifre dieci volte superiori”, perché in quel caso “occorrerebbero non meno di cinque anni solo per avviare la macchina”. La via di uscita è una sola: autosciogliete l’Anm di Alberto Cisterna Il Riformista, 2 febbraio 2021 È chiaro che i cinefili storceranno il naso e staranno a brontolare per la citazione blasfema, ma a guardare l’universo dolente descritto da Il Sistema è quasi naturale deformare il titolo di uno dei capolavori di Costa-Gravas (1969) e dire “P-L’orgia del potere” ove - sia chiaro - la “P” non identifica necessariamente il dottor Palamara o solo lui. Quel film è, come noto, ispirato alla vicenda del giudice Sartzetakis, cacciato dai militari greci dopo il golpe del 1967, imprigionato e torturato che diverrà, dopo il film e dopo la caduta del regime, presidente della Repubblica greca. Un mondo, quello della pluripremiata pellicola, distante anni luce dall’umanità fragile e moralmente emaciata che emerge da pagine e pagine di una narrazione resa visibilmente parziale dalla necessità di limitare il racconto ai soli fatti dimostrabili per evitare un profluvio di cause e querele. Dietro ogni chat si intravede l’esistenza di dialoghi, la consuetudine di conversazioni, il succedersi di contatti e di sollecitazioni puramente evocati dai messaggi in sequestro. Una scelta, probabilmente inevitabile per il prestigioso editore del libro, che tuttavia rende ancora più urgente la necessità che l’ex presidente dell’Anm sia compiutamente ascoltato e altrettanto meticolosamente riscontrato. Si nota, in questi giorni e dopo un silenzio ai limiti dell’osceno, l’affannarsi di qualcuno che sarebbe da ascrivere a buon diritto tra quelli tratteggiati dal dottor Palamara come pedine fondamentali del Sistema che taccia la narrazione del libro di fornire una “ricostruzione molto parziale, fondata su episodi chirurgicamente selezionati, … nonché su palesi dimenticanze e omissioni”. Una censura che, letteralmente, sottintende da parte di chi la formula una certa, come dire, più completa ed esaustiva conoscenza dei fatti che, allora, farebbe bene a disvelare, sol che la possieda. È la trappola argomentativa da cui si tengono fuori i più avveduti interlocutori in questi giorni di tempesta. Difficile dire che il magistrato abbia detto cose inesatte o imprecise senza esporsi al rischio di dover fornire una versione alternativa o più completa delle stesse vicende. Absit iniura verbis, è un po’ come nei processi di mafia in cui, da Pippo Calò in poi, e dopo il disastroso confronto con Tommaso Buscetta nell’aula bunker di Palermo, nessun imputato è disponibile al confronto con il pentito di turno. E non è un caso che il dottor Palamara, a fronte delle legittime rimostranze di taluno per le cose da lui raccontate, abbia detto di essere disponibile a qualunque confronto innanzi al Csm. Non v’è dubbio che, in questo clima, il solo ammettere certe conversazioni o certi contatti equivarrebbe a un riscontro a favore del narrante; dunque un buon avvocato suggerirebbe un accorto silenzio, ammesso che qualcuno di quelli più coinvolti non conosca minuziosamente i riti e la storia della mafia siciliana. In questo scenario in cui il silenzio giova tutto a favore dei colpevoli e in cui gli innocenti non possiedono ancora l’”audacia della speranza” (Barack Obama) - temendo di pagare il conto per qualche eccesso di zelo accusatorio contro un Sistema che si percepisce come troppo radicato per non ricompattarsi - non si intravedono soluzioni a portata di mano. Deve certo essere messa da parte la proposta stucchevole e ingenua del rinnovamento morale, totalmente improponibile non foss’altro perché non si capisce perché un codice deontologico dovrebbe sortire effetti migliori del codice penale che appare abbondantemente violato da molti dei protagonisti della stagione spartitoria e che solo la riforma dell’abuso d’ufficio varata dal governo Conte-bis manda impuniti. Resta il profilo delle riforme. Anche qui si deve constatare come siano sul tappeto proposte insufficienti, macchinose, burocratiche, largamente inidonee al fine di correggere la rotta morale della magistratura italiana, o meglio di quei settori coinvolti nell’arena degli incarichi e delle prebende di vario genere. Si potrebbe ritornare, per gli incarichi direttivi, al criterio dell’anzianità che venne derogato in una stagione della magistratura italiana in cui vi era un’evidente e chiara disparità tra le qualità di alcuni sul versante dell’impegno professionale e il quieto vivere di molti altri. Il merito divenne allora il grimaldello con cui scardinare un assetto, soprattutto delle procure della Repubblica, che si mostrava refrattario alla modernità delle investigazioni e titubante nell’aggressione al malaffare politico-mafioso. Un modello meritocratico che, a dire il vero, in tanto si è potuto affermare in quanto il rinnovamento generazionale della magistratura aveva accresciuto la platea di quanti scalpitavano, a fronte di capi ufficio visibilmente inferiori, ed erano alla ricerca di spazi di responsabilità. In seguito, purtroppo, il merito è diventato l’escamotage con cui promuovere i più rampanti (anche mediaticamente) a incarichi cui mai avrebbero potuto aspirare in ragione della loro anzianità o per agevolare opachi protégé delle correnti. Quella stagione del merito è così terminata, e da un pezzo. Nella magistratura italiana non vi sono da anni “mostri” di professionalità cui dover cedere il passo. O verso l’alto o verso il basso, difficile a dirsi, la magistratura si è ampiamente livellata e un rafforzamento reale dei controlli di professionalità (si veda l’ottimo intervento di Nello Rossi su queste pagine a proposito di un “sismografo inceppato”) potrebbe rappresentare il giusto contemperamento del criterio della sola anzianità. Criterio il quale, si badi bene, conosceva ai suoi tempi un corollario nient’affatto secondario poiché si discuteva pur sempre di una “anzianità senza demerito”. Certo provoca amarezza immaginare che un corpus così ristretto di funzionari pubblici sia percepito dalla pubblica opinione come fuori controllo e che il male minore sia ritornare a un tempo passato. Non bisogna trascurare che qualche buona scelta è stata fatta anche dal dottor Palamara o, meglio, dal Sistema e che di questa entrambi vadano giustamente fieri. Ma il tributo da pagare è stato enorme se si pensa alle tante nomine discutibili, alle distorsioni clientelari che sono deflagrate per l’esplodere di ambizioni smisurate, alla messe di ricorsi alla giustizia amministrativa. A torto o a ragione quella che viene divulgata in questi giorni è l’epopea degli incarichi che ha avvelenato i pozzi della giustizia in Italia, trasformando agli occhi di tanti le correnti in ciò che il presidente dell’Eni, Enrico Mattei, diceva dei partiti: “uso i partiti allo stesso modo di come uso i taxi: salgo, pago la corsa, scendo”, ossia mezzi per conseguire un fine personale; una normale, banale macchina clientelare. Certo nulla è perduto per sempre e un gesto clamoroso potrebbe suonare da provocazione verso la politica, per una stagione di riforme, e da rassicurazione, verso la pubblica opinione, per una reale volontà di cambiamento. L’articolo 57 dello statuto dell’Anm regola lo scioglimento dell’Associazione che deve essere deliberato dall’Assemblea Generale a maggioranza dei due terzi dei votanti. Non sarebbe la prima volta, la gloriosa Associazione generale dei magistrati italiani scelse la via dell’autoscioglimento, prima di finire soppressa da Mussolini in base alla nuova legge del 1926 che vietava agli impiegati pubblici l’adesione a qualunque sindacato e risorse il 21 ottobre 1945. Achille Occhetto chiuse la stagione di un partito glorioso che rappresentava milioni di italiani per l’impellente necessità della storia e non per una costrizione giudiziaria e lo fece con una mozione approvata dal 67,46% dei votanti. Quindi diede vita a un nuovo partito, eliminando le scorie del passato. Certe volte il destino bussa alle porte e si deve avere il coraggio di spalancare l’uscio per evitare che il muro sia buttato giù a picconate. Sul Pc del giornalista tempi rapidi di perquisizione e limiti specifici al sequestro di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2021 Non sono apprensibili tutte le res riferibili all’attività professionale in assenza di specifico invito a consegnare. Nei confronti del giornalista indagato le attività di perquisizione e quelle conseguenti di sequestro devono essere espletate tenendo conto dell’alto livello di garanzia della riservatezza che la legge e le convenzioni internazionali assicurano a questa categoria professionale. Il che, in concreto, vuol dire che non può essere appreso a fini di sequestro e mantenuto per mesi - prima di estrarne copia - l’intero compendio informatico di cui il giornalista si avvale per lavorare. Così la Cassazione, con la sentenza n. 3764/2021, ha dato ragione al ricorrente che contestava la mancanza di un invito diretto a esibire le informazioni attinenti al reato nella fase della perquisizione e la mancata disponibilità del proprio personal computer per circa due mesi in attesa che fosse copiato l’hard disk. Ciò che afferma la Cassazione è che illegittimo rinviare qualsiasi interlocuzione col giornalista indagato soltanto al momento della formalizzazione del sequestro. Inoltre, non è legittimo procedere tout court all’apprensione di tutte le res dell’indagato neanche attraverso la giustificazione che ciò sarebbe necessario proprio per la ricerca dei dati rilevanti. Infatti, in materia di dispositivi informatici del giornalista la celerità, la specifica indicazione di quanto ricercato e l’indicazione della chiave di ricerca con cui è stato selezionato il materiale sequestrato sono aspetti fondamentali del legittimo procedere in fase di indagini e di successiva previsione di misure cautelari reali. La Corte, infine, ricorda il principio generale che riguarda appunto le investigazioni informatiche e da cui discende che, anche quando si ritenga necessario procedere alla copia integrale dell’intero compendio informatico dell’indagato, questa è solo copia-mezzo e che va mantenuta solo il tempo strettamente necessario all’estrazione delle informazioni da sottoporre a vincolo. Si affermano in concreto come fondamentali il principio di proporzionalità, sia in fase di perquisizione che di sequestro, e il diritto a verificare la chiave di ricerca con cui si è svolta l’attività di ricerca, ma soprattutto la sottoposizione al vincolo. Emilia Romagna. “Carceri meno sovraffollate, ma conflitti quotidiani” ilpiacenza.it, 2 febbraio 2021 A Piacenza il record di stranieri (62,7%). È quanto emerge dalle relazioni di Roberto Aponte e Ignazio De Francisci, presidente vicario della Corte d’Appello di Bologna e procuratore generale di Bologna. I detenuti sono 3mila33 a fronte di una capienza teorica di 2mila995. Il sovraffollamento carcerario in Emilia-Romagna si attenua, sia per le conseguenze dell’emergenza sanitaria sia per le rivolte scoppiate a inizio 2020 nei penitenziari di Modena e Bologna, dai quali sono stati trasferiti molti detenuti, anche se restano affollate le carceri di Ravenna, Ferrara e della stessa Bologna. È quanto emerge dalle relazioni di Roberto Aponte e Ignazio De Francisci, presidente vicario della Corte d’Appello di Bologna e procuratore generale di Bologna, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Secondo i dati al 30 giugno 2020, i detenuti presenti in Emilia-Romagna sono 3mila33 a fronte di una capienza teorica di 2mila995. La percentuale di detenuti stranieri è del 48,99%, in leggero calo rispetto al 51,37% dell’anno precedente (il record spetta sempre a Piacenza, con il 62,67% di stranieri). Se il numero delle misure alternative è ulteriormente aumentato, osserva De Francisci in particolare “le condizioni di vita all’interno degli istituti sono purtroppo stabilmente negative e ciò rende sempre più problematico l’efficace svolgimento delle attività trattamentali, determinando in sostanza un’inaccettabile accentuazione del carattere afflittivo della pena e della sofferenza ad essa connessa e ciò aumenta le condizioni di disagio”. Sorgono così situazioni di conflittualità “pressoché quotidiane”. Per questo, raccomanda il procuratore generale, “occorre investire nei progetti riabilitativi che perseguano un effettivo reinserimento dei condannati attraverso il lavoro, la scuola, la sistemazione abitativa” e “bisognerebbe poi distinguere tra strutture penitenziarie per detenuti pericolosi, i quali purtroppo non mancano, da quelle per detenuti a custodia attenuata, fondate su attività trattamentali anche praticabili all’esterno”. In ogni caso, resta “notevole” sia l’aiuto del volontariato penitenziario sia il rapporto collaborativo con l’ufficio del Garante regionale per i diritti dei detenuti, riconosce De Francisci. In questo quadro, Aponte avvisa che il carico di lavoro della magistratura di sorveglianza “continua ad aumentare in maniera consistente”: nel periodo 1 luglio 2019-30 giugno 2020, pendono infatti 68mila 602 pratiche tra Tribunale e uffici di sorveglianza di tutto il distretto, mentre l’anno scorso erano pari a 66mila226, di cui 36mila394 definite. Sardegna. Corsi universitari per il 5,4% dei detenuti, contro la media nazionale dell’1,4% di Luigi Alfonso vita.it, 2 febbraio 2021 I dati del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria mostrano una progettualità che può essere imitata nel resto d’Italia. Il lavoro dell’Università di Cagliari conferma che l’istruzione è una delle migliori ricette per abbattere il tasso di recidiva. Ora serve una maggiore attenzione per chi vuole ottenere la licenza media o un diploma di scuola superiore. In Sardegna il 5,4% dei detenuti frequenta corsi universitari, contro l’1,4% registrato a livello nazionale. A rivelare i numeri è il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Maurizio Veneziano, che definisce il fenomeno “fortemente significativo di un’azione condotta in questa regione con il supporto dell’amministrazione penitenziaria nazionale, che ha saputo creare una rete interistituzionale in grado di far salire questo dato a livelli così importanti. In Sardegna siamo capofila di una progettualità che sarà certamente seguita e avallata nel resto d’Italia”. Dallo scorso anno l’Università di Cagliari ha attivato un Polo universitario penitenziario che garantisce la frequenza a corsi e seminari a detenuti e detenute negli istituti di Uta (Cagliari) e Massama (Oristano) che ne facciano richiesta. Un’attività che genera anche un indiretto risparmio di risorse: “Normalmente - aggiunge Veneziano - un detenuto costa allo Stato in media 300 euro al giorno. Tutto quello che spendiamo in cultura, istruzione, lavoro - elementi premianti del trattamento penitenziario che riducono la recidiva una volta terminata la pena - va a formare un grande valore economico”. Il riferimento è all’attività svolta dai Poli Universitari Penitenziari, istituiti dal 2018 in tutta Italia e operativi anche in Sardegna: “Abbiamo iniziato in una ventina di atenei”, è il parere di Franco Prina, presidente della Conferenza nazionale dei Poli Universitari Penitenziari della Conferenza dei Rettori italiani. “Oggi siamo 37 e copriamo regioni nuove, come Puglia e Sicilia, in cui stiamo attivando nuove convenzioni con i provveditorati. In totale l’anno scorso erano 920 i detenuti iscritti in università italiane che offrono questo servizio”. “L’unico ascensore sociale che funziona, l’unica realtà che può far cambiare di stato una persona è la cultura, la conoscenza”, commenta Maria Del Zompo, rettore dell’Università di Cagliari. “Questo accade nella scuola e negli studi universitari: è con orgoglio che il nostro ateneo, grazie alla professoressa Cristina Cabras (vera anima del progetto, ndr) e alle altre istituzioni coinvolte, porta avanti un percorso difficile di recupero di persone che hanno sbagliato e che hanno voglia di riscattarsi”. Nel 2020 l’Università di Cagliari ha garantito lezioni e seminari ai detenuti che ne hanno fatto richiesta, grazie all’impegno di decine tra ricercatori e unità di personale tecnico-amministrativo. “Negli anni scorsi gli studi scientifici dello staff della professoressa Cabras - precisa Gianfranco De Gesu, direttore generale dei Detenuti e del Trattamento, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia - hanno dimostrato che, quando i detenuti delle colonie penali sarde avevano la possibilità di acquisire competenze attraverso lo studio, il tasso di recidiva crollava. Il Covid ha poi fatto sì che anche l’amministrazione penitenziaria adottasse collegamenti multimediali che hanno consentito in questo periodo la partecipazione dei detenuti ai corsi universitari”. Per don Ettore Cannavera, fondatore della Comunità La Collina e per tanti anni cappellano nel carcere minorile di Quartucciu, “devianti non si nasce, ma si diventa. Soprattutto quando non si ha avuto la possibilità di crescere culturalmente. Per questo l’impegno dell’università nelle carceri è fondamentale: la maggior parte dei ragazzi però non ha accesso a questa opportunità, molti perché vivono ancora nell’analfabetismo. È importante che l’università ci aiuti a far crescere i nostri ragazzi nella cultura e nella stima di sé”. C’è però un altro aspetto su cui bisogna lavorare a fondo, come spiega Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”: “Quello registrato tra i detenuti della Sardegna è un risultato straordinario. Tuttavia, un centinaio di studenti della Casa di reclusione di Oristano-Massama, iscritti alle superiori e ai corsi Cpia, attende inutilmente da mesi di poter studiare. Un problema irrisolto che impedisce a persone che esprimono la volontà di cambiare se stessi di fruire di un diritto costituzionale. Gli apprezzabili risultati universitari sono quasi sicuramente da mettere in relazione all’incremento dei detenuti in alta sicurezza e in 41bis presenti nell’Isola (la più alta percentuale in Italia rispetto al numero di ristretti). Lo studio ad alto livello soddisfa e impegna particolarmente le persone private della libertà con pene lunghe. Ecco perché, a parte Alghero, la presenza di studenti universitari si registra nelle sezioni AS e tra gli ergastolani. Il problema è rendere la scuola e la formazione strumenti per tutti specialmente per tossicodipendenti e analfabeti di ritorno, spesso dietro le sbarre per pochi mesi in attesa di essere trasferiti in Comunità di recupero e/o in centri sanitari”. Modena. Morti al carcere Sant’Anna, nasce un comitato dire.it, 2 febbraio 2021 Mantenere alta l’attenzione sulle indagini in corso e aiutare i detenuti che, dopo la rivolta dell’8 marzo di un anno fa nel carcere Sant’Anna di Modena (in cui nove di loro hanno perso la vita), vivono ora una situazione critica nelle nuove strutture dove sono stati trasferiti. Sono gli obiettivi del comitato “Verità e Giustizia per la strage del Sant’Anna”, che si presenta ufficialmente alla città della Ghirlandina questo sabato (alle 10.30) in Piazza Grande. Un’esperienza che Alice Miglioli, uno dei portavoce, definisce “un comitato di scopo o meglio un tavolo allargato, senza casacche politiche, legato al Consiglio popolare di Modena nato per la vicenda Italpizza” e che vede oggi impegnate attivamente una ventina di persone, referenti di altrettante realtà tra organizzazioni, partiti e movimenti sindacali modenesi. “Cerchiamo di tenere alta la testimonianza su quanto accaduto, dando voce anche alle lettere e agli esposti dei detenuti, perché la verità ufficiale su quello che è successo non convince. E crediamo che sia responsabilità della società civile modenese impedire che cali il silenzio sulla strage più grave dal dopoguerra in città”. Il comitato ha preso le mosse come realtà più strutturata dopo una prima manifestazione pubblica andata in scena a Modena il 7 novembre scorso. E ora affianca alla sete di verità anche una missione di solidarietà. “Molti dei detenuti che sono stati trasferiti - segnala Miglioli parlando alla Dire - si trovano in condizione di isolamento in altre carceri italiane ormai da mesi. E questo vuol dire non potere neanche ricevere pacchi, che a sua volta in carcere equivale a non avere nulla”. Per questo, “soprattutto per i reclusi stranieri che non hanno famiglia in Italia, ci stiamo attivando per inviare loro generi di prima necessità, come coperte e pigiami caldi per l’inverno”. Nell’orizzonte del comitato c’è infine una nuova iniziativa di piazza che - Covid permettendo - dovrebbe svolgersi il prossimo 7 marzo, per non interferire con le iniziative della festa della donna. “Ci piacerebbe che fosse una chiamata nazionale - spiega Miglioli - ma vedremo cosa sarà possibile fare”. Diverse componenti del neonato raggruppamento civico, in contatto anche con realtà nazionali, puntano infine ad avviare una riflessione più generale sull’attuale sistema penitenziario, ritenuto da riformare, “visto che il 75% di chi va in carcere, ci ritorna poi per recidiva”. Torino. Affollamento e virus tra detenuti: “Difficile evitare il rischio contagio” di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 2 febbraio 2021 Pioggia di istanze al tribunale di Sorveglianza. Dove l’affollamento, e non il distanziamento, è la regola sociale (e illegale), le cose sono andate così, durante il primo anno di pandemia: “Tale situazione rendeva scarsamente osservabili le norme tese a evitare i rischi di contagio”, riassume il presidente del tribunale di Sorveglianza, Anna Bello. Difatti, di Covid si sono contagiati in tanti, nei penitenziari. Del resto, la maggioranza degli istituti di pena di Piemonte e Valle d’Agosta “presentavano un esubero di presenze compreso tra un quarto e la metà della capienza”. Dal +47,6 per cento di detenuti di Alessandria-san Michele al +24,7 per cento di Vercelli, passando per il +34,7% delle Vallette. E se l’affollamento delle carceri italiane è ormai vergognosa consuetudine, vederne elencate le cifre su un documento delle istituzioni fa sempre un certo effetto. Come succede sfogliando la relazione del presidente della corte d’appello, Edoardo Barelli Innocenti: 185 pagine sull’amministrazione della giustizia nel 2020 inviate al primo presidente della corte di Cassazione. Affollamento e virus, ovviamente, hanno provocato un altro effetto: “Un improvviso ed elevato afflusso agli uffici della magistratura di Sorveglianza di istanze” dei condannati e di segnalazioni da parte delle stesse amministrazioni penitenziarie. Una mole di lavoro, ulteriore, che è andata a impegnare uffici già a loro volta rallentati dallo smart-working, imposto dalla stessa normativa anti-covid. Uffici da tempo colpiti dalla “stabile scopertura del personale amministrativo”, ora al 31,8 per cento; e destinata “per gli imminenti ulteriori pensionamenti a salire a breve al 38,6 per cento”. Un grande classico italiano, e della giustizia, di più. Dopodiché, l’emergenza epidemiologica ha fatto schizzare in alto diverse istanze: come quelle “di rinvio dell’esecuzione della pena per ragioni di salute, passate dalle 237 del 2018/19 alle 588 del 2019/20”. Con un aumento record del 148,1 per cento. E nonostante “la produttività del tribunale sia significativamente aumentata, la pendenza a fine periodo - i rilevamenti statistici vanno da fine giugno 2019 a inizio luglio 2020 - si è incrementata: “passando da 4.793 a 6.457 pendenze” con un incremento del 34,7 per cento. Impennata pure dei “procedimenti riguardanti istanze di applicazione provvisoria di misure alternative (da 214 a 576, +169,2 per cento) e quelle relativo ai procedimenti riguardanti istanze di esecuzione della pena presso il domicilio”, passati da 291 a 345, con una crescita del 57,5 per cento. Inevitabile, con tutto ciò, l’accumulo di fascicoli, pure per la sospensione, durante il primo lockdown, di quelli con condannati non detenuti. Già a ottobre capitava che le file di avvocati convocati per le udienze alla Sorveglianza, si formavano al mattino e finivano ben oltre le sette della sera. A volte, con prestazioni da guinness, fino a 179 fascicoli in un giorno. “Ma quell’udienza con numero particolarmente elevato di procedimenti fissati - fu la spiegazione dal Tribunale - era successiva al periodo feriale, in cui oltre ai procedimenti già in precedenza rinviati a causa del Covid si sono concentrati molti altri, urgenti e sopravvenuti nell’estate, relativi a condannati detenuti”. Oltre al fatto che ci fossero contemporaneamente “due collegi giudicanti con tre giudici relatori”. Uguale telemetria, però, nei mesi successivi: “Per le stesse ragioni, le udienze avevano ruoli significativamente impegnativi”. Palermo. Carcere Pagliarelli, cinquantotto contagiati: il focolaio è stabile di Roberto Puglisi livesicilia.it, 2 febbraio 2021 La situazione dei positivi in carcere. Ecco gli ultimi dati. Non ci sono casi gravi. Sono diventati cinquantotto, da cinquantacinque che erano, i positivi al Covid del carcere ‘Pagliarelli’. Il numero è frutto dei nuovi positivi e di quelli che, nel frattempo, si sono negativizzati al virus. Ci saranno nuovi tamponi di controllo e si è in attesa dei risultati di altri che sono stati effettuati. L’aria che si respira racconta di un abbassamento della tensione. Il contagio in carcere esaspera, per ovvie ragioni. Ma alle proteste dei primi giorni, che avevano portato alcuni a rifiutare la visita dell’Usca, sembra che si sia sostituito un clima un po’ più sereno, di accettazione del momento di difficoltà. La buona notizia è questa: nessuno presenta sintomi preoccupanti. L’intervento del Garante dei detenuti - Sul punto specifico che riguarda il ‘Pagliarelli’ e sul tema più generale del Covid in carcere era intervenuto il garante regionale dei detenuti, il professore Giovanni Fiandaca che segue quotidianamente la situazione. “Prima che emergessero i positivi al Pagliarelli - aveva detto il professore Fiandaca - la situazione siciliana non è mai stata preoccupante in termini di numeri. Già l’otto gennaio scorso ho inviato una nota formale all’assessore Razza e al presidente Musumeci per chiedere, sulla scia di quanto rappresentato dal garante nazionale e dalla conferenza dei garanti regionali, di prendere in considerazione, tra la categorie da vaccinare in via prioritaria, detenuti e personale penitenziario, o di prendere in considerazione, in subordine, gli over sessanta e i soggetti affetti da comorbilità. Sappiamo che ci sono ritardi e problemi nella campagna vaccinale. Il commissario nazionale Arcuri, qualche giorno fa, ha dichiarato che dopo gli over ottanta toccherà a detenuti e personale penitenziario. Noi garanti vigileremo”. Milano. Il direttore di Opera: “Dateci i vaccini, siamo come una Rsa con fragili e anziani” milanotoday.it, 2 febbraio 2021 L’appello durante la seduta della sottocommissione carceri a Palazzo Marino. “Abbiamo detenuti di oltre 70 anni e soggetti fragili”. La richiesta è chiara e netta: si dia priorità anche ai detenuti per i vaccini anti Covid. L’ha formulata Silvio Di Gregorio, direttore del carcere di Opera, parlando alla sottocommissione carceri del consiglio comunale di Milano: “Sarebbe importantissimo che le vaccinazioni vedessero gli istituti di pena tra le sedi nelle quali fare le vaccinazioni prima di tutte”, ha affermato. Di Gregorio ha poi poso l’attenzione sul fatto che la popolazione carceraria in generale soffre di sovraffollamento, una condizione pericolosa per la diffusione dell’epidemia Covid. In più, a Opera in particolare “l’età media è molto avanzata, con detenuti anche ultra settantenni, per cui sarebbe a tutti gli effetti paragonabile a una Rsa. Per di più abbiamo categorie fragili, perché alcuni detenuti sono malati”. Di conseguenza, secondo il direttore sarebbe utile che “l’istituto venisse tenuto in debita considerazione nell’ambito delle priorità per le vaccinazioni”. Dell’importanza di vaccinare al più presto i detenuti nelle carceri aveva parlato, domenica 31 gennaio, anche la senatrice a vita Liliana Segre, a margine della commemorazione del Giorno della Memoria al Memoriale della Shoah, a Milano. Trieste. Protesta in carcere, le detenute danno vita alla “battitura” triesteprima.it, 2 febbraio 2021 La protesta della sezione femminile è iniziata intorno alle 15:30 di ieri. All’esterno del carcere presente anche l’Associazione Senza Sbarre che si è unita alla “battitura” con mestoli e pentole. Tamponi ed esami del sangue sierologi, più che essere sottoposte al vaccino, indulto e domiciliari per le persone con problemi sanitari e gravi patologie e per i detenuti in residuo di pena. Queste le richieste alla base della protesta di oggi, 1 febbraio, al Coroneo. Intorno alle 15:30 di ieri le detenute della Casa circondariale triestina hanno infatti dato vita alla cosiddetta “battitura”, rito che consiste nel percuotere le sbarre con oggetti di metallo per fare rumore. All’esterno del carcere presenti anche alcuni rappresentanti dell’Associazione Senza Sbarre che si sono fatti sentire con mestoli e pentole. “Ormai da quasi un anno - si legge nella nota stampa - a partire dalle giornate di rivolta nelle carceri dello scorso marzo per cui sono morti 14 detenuti a botte e spari, le battiture, il non rientrare in cella dopo l’ora d’aria, lo sciopero del carrello, lo sciopero della fame, le rivolte sono le forme di lotta con cui i detenuti portano avanti la loro ribellione al carcere che oggi più che mai altro non è se non una struttura in cui ammalarsi, in cui morire”. Prato. 5 neo-assunti nel tessile, sono detenuti della Dogaia di Giorgio Bernardini Corriere Fiorentino, 2 febbraio 2021 La Pointex installa i macchinari in uno spazio del carcere. Oggi via alla produzione. Cinque detenuti del carcere della Dogaia di Prato, da oggi, avranno la possibilità di essere impiegati in un “vero lavoro”. Non un lavoro penitenziario, non una parte della pena, ma un impiego che arriva dall’esterno. Il reparto di confezioni aperto da oggi nella casa circondariale dall’azienda tessile Pointex, infatti, è pronto per iniziare la propria produzione. Gli assunti hanno firmato un regolare contratto, cuciranno cuscini e materassi che saranno immessi nel mercato dalla ditta di Capalle (Campi Bisenzio), che ha installato le attrezzature necessarie in uno spazio offerto in comodato gratuito dal carcere. Cinque macchine per cucire, tavoli, scaffalature e tutto quel che serve per mandare avanti un reparto. Ieri mattina sono stati inaugurati i macchinari e le attrezzature che serviranno per realizzare fodere per cuscini e materassi. Che il progetto sia realmente funzionale alla produzione - e non un’opera assistenziale - è dimostrato dal fatto che il committente, azienda specializzata nel settore, si sia posta un vero obiettivo: produrre dai 300 ai 500 pezzi al giorno. Gli spazi del carcere sono un’appendice diretta dell’azienda, ai detenuti sarà fornito materiale semilavorato che dovrà essere tagliato, cucito e confezionato. “Questa sfida andrà avanti solo se è sostenibile da un punto di vista economico, si tratta di un lavoro vero, solo così sarà possibile creare uno sbocco lavorativo successivo per queste persone”, spiega in modo diretto Marco Ranaldo, l’imprenditore che ha creduto seriamente a questa opportunità, titolare della Pointex. Il progetto è promosso dalla Fondazione Solidarietà Caritas onlus di Prato, dalla Società della Salute e dalla Cooperativa sociale San Martino di Firenze. Il carcere pratese, negli ultimi anni, è divenuto un triste simbolo della parabola di gran parte delle strutture detentive italiane: carenza di personale, sovraffollamento, violenze ripetute e persino un tentativo di insurrezione dei detenuti (lo scorso 9 marzo). Attualmente sono 150 - sui circa 600 in detenzione - i carcerati impegnati in attività lavorative, ma si tratta di occupazioni che riguardano la vita carceraria: cucina, pulizie e lavanderia. “Questa iniziativa sancisce la grandezza e la validità della nostra Costituzione e la sua messa in pratica - ha commentato il vescovo Giovanni Nerbini - non c’è questione più importante del lavoro perché un detenuto possa aprirsi a un vero riscatto”. Napoli. Ragazzi dentro (in cantiere). Nisida rinasce di Laura Aldorisio Corriere della Sera, 2 febbraio 2021 Finora hanno aderito al progetto dodici giovani: ripulita e restaurata la vecchia cisterna che oggi ospita i corsi di teatro. Chi ha distrutto può costruire. Questo si impara a Nisida, al carcere minorile sul golfo di Napoli. Lo racconta Felice Iovinella, architetto, ma anche insegnante di Laboratorio edile ai ragazzi detenuti. All’inizio era previsto solo un corso in sicurezza sul lavoro di tre mesi. È diventata un’avventura lunga nove anni che sta riportando allo splendore originario molti locali del castello angioino trasformato in riformatorio. Dopo tre anni di formazione i ragazzi che lo desiderano possono anche ottenere la qualifica di operaio edile. Tutto è iniziato da un’osservazione, che sembrava nulla, e, invece, è diventata la strada. “Nove anni fa una delle guardie di ingresso mi stava accompagnando nell’ufficio del direttore del carcere per discutere del programma del corso con la cooperativa Consvip. Mentre camminavo ho visto in uno scorcio un locale in disuso che avrebbe avuto bisogno di restauro”. È così che, quando il direttore lo presenta ai ragazzi, Felice si rende conto che non si sarebbero mai accontentati di restare seduti a vedere sfide. Avevano bisogno di fare e l’opera da ricostruire era a portata di mano: il carcere stesso. “Abbiamo dovuto rivedere i nostri programmi chiedendo al direttore il permesso di far partire un vero cantiere. Lui ha accettato subito”. In una settimana tutto era pronto. La realizzazione stessa del cantiere è stata una lezione pratica: montare il ponteggio, il ruolo della tavola in quella posizione, le attrezzature necessarie. Aderiscono da subito dodici ragazzi, una buona percentuale dato che il carcere conta una presenza di settanta ragazzi dai 14 ai 25 anni. “Alcuni conoscenti mi chiedevano “Architè ma per tre mesi vale la pena uno sforzo simile?” manifestando così il pregiudizio che si potessero meritare una possibilità”. I ragazzi, intanto, erano entusiasti. Ma Felice non aveva messo in conto le difficoltà del contesto. “Ogni mattina si faceva l’elenco degli attrezzi e li si contava. E così la sera. A me sembrava una perdita di tempo. Ma era necessario. Solo che con il passare dei giorni questo fattore mi preoccupava sempre più e dicevo ai ragazzi “hai rimesso a posto l’attrezzo?”, “mi raccomando non farti male”. Ma tutelare non significa insegnare”. Lo capisce un giorno quando accade un fatto che stravolge il suo pensiero e il cantiere. Il primo lavoro era suddiviso in due fasi: distruttiva, cioè scrostare alcune pareti, e costruttiva, dipingerle. Alla prima avevano partecipato tutti, alla seconda molti meno. “Mi sono accorto che uno di loro stava in disparte. Ho domandato a uno dei ragazzi di fargli vedere come fare. “No, non mi puoi chiedere questo”, mi ha risposto perché quel compagno non era della sua cerchia”. Eppure, dopo qualche minuto in silenzio gli ha preso il braccio e gli ha mostrato il gesto giusto. “Quello che pensava di non essere capace mi ha detto: “ora so farlo”. Ho imparato che insegnare non è solo far rispettare le norme, ma che qualcuno mi prenda la mano e mi conduca”. Il cantiere, così, è il luogo di grandi scoperte personali e materiali. Durante il ventennio fascista erano state abbattute alcune mura del carcere, ma Nisida è un’isola dalle strade strette e smaltire i detriti era un impegno gravoso. Alcuni locali, allora, erano stati riempiti di scarti. Come era accaduto alla grande cisterna che oggi, grazie ai ragazzi, è stata ripulita e ospita il laboratorio teatrale. “Tutti i lavori sulla parte più vecchia rispettano le tecniche del restauro e favoriamo il pieno recupero dei materiali”. Come nel caso della cisterna, i detriti sono stati battuti e lavorati diventando la pavimentazione dei locali. “Di cantieri ne ho fatti tanti, ma questo è il mio preferito. I ragazzi acquisiscono tecniche utili ma non solo. Mentre lavorano, sgranano gli occhi e dicono “ero solo capace di fare reati e ora siamo capaci di costruire una cosa bella”. 365 giorni di pandemia di Gabriele Romagnoli La Stampa, 2 febbraio 2021 Per valutare come siamo cambiati in questo anno vissuto pericolosamente basta cominciare guardandosi intorno e dentro. Scrivo questo articolo nella stanza in cui, da undici mesi, trascorro circa otto ore al giorno, sonni esclusi, il passaporto impolverato in un cassetto. Indosso t-shirt, felpa, pantaloni comodi, scarpe da ginnastica; camicie e giacche detenute nell’armadio. Ho sul mobile una catasta di libri, ne leggo il doppio a settimana rispetto al passato. Seguo più serie tv contemporaneamente, confondendo nei sogni le persone (poche) della realtà e i personaggi (tanti) della finzione. Quando sento dire che la pandemia ci ha indotti a un sistema di vita inedito dissento. Non solo per quel che riguarda me, ma per tutti. Se ci pensiamo bene abbiamo già sperimentato questo modo di stare nel mondo: è accaduto nella nostra infanzia. Il Covid-19 ha riportato l’umanità a quella stagione, ci ha indotti a tornare bambini. Cercherò di dimostrarlo. Lo farò da questo ambiente limitato. E il limite è la prima caratteristica dell’esistenza quando si è piccoli. Si sta a casa, per lo più nella cameretta. Ci dicono di fare così perché là fuori è pericoloso. Se mai si esce bisogna tornare entro una certa ora, dopodiché scatta il coprifuoco. I ritardi comportano punizioni. Ogni eccezione deve essere supportata da una giustificazione superiore, piuttosto standard, sottoposta a un pigro vaglio. Non si può accedere alla vita notturna, peccaminosa e portatrice di malattie. Anche per andare a trovare i nonni occorre si verifichino alcune condizioni. Ricevere gli amici? Con moderazione e senza schiamazzi. Stare insieme con loro in posti che non siano la casa dell’uno o dell’altro? Non se ne parla. Quella che si rivive ora è una solitudine da figli unici. Si immaginano universi. Come da ragazzi si sognava l’America mai vista, ora la si ricorda e la si spera. Lo stesso vale per molte esperienze dell’età adulta, a cominciare dal sesso inteso come esplorazione e non come atto d’amore. Viviamo la timidezza dei più piccini, che non si avvicinano, temono l’estraneo, si rifugiano negli abbracci sperimentati e consolatori. Questo perimetro ci viene tracciato da un’autorità. Per i bambini sono i genitori, nel nostro caso lo Stato. Il rapporto fiduciario segue la stessa parabola. A lungo abbiamo creduto nell’infallibilità del padre o quanto meno che lui e nostra madre sapessero quel che facevano e dicevano, che ponessero confini “per il nostro bene” e ci mettessero così al riparo dal male. Prima o dopo ci siamo accorti che non era così: che stavano ripetendo lezioni, copiando esempi, improvvisando. Ne sapevano dell’esistenza dei rischi e del modo di evitarli quanto ne sappiamo noi, adesso che abbiamo la loro età: poco. Si bluffa. Così i governi: fanno quel che hanno visto fare, impongono perché possono e devono, ma spesso senza logica. Nel giro di un anno siamo passati dal credere a loro e alle altre autorità, quelle scientifiche, a sbeffeggiarle continuamente, inventando gag e vignette, come da bambini disegnavamo caricature dei professori. Lo smart working è un diverso modo di “fare i compiti”. Ogni tanto ci distraiamo e ci colgono in diretta mentre facciamo altro, solitamente qualcosa di puerile. Che colpa abbiamo noi? Non ci abbiamo capito niente. Abbiamo perso tutti i punti di riferimento. È cambiato il nostro rapporto con lo spazio, il tempo, soprattutto quello futuro e perfino quello con il senso delle cose, che per alcuni sta in dio, ma quale idea di dio? Lo spazio, per cominciare, si è dilatato. Distanze un tempo considerate poco più che un salto sono diventate un percorso accidentato e pieno di insidie. Quali? Lo sono proprio perché non le abbiamo pienamente individuate. Un percorso da pendolari è una sfida. Un trasferimento in autobus una risorsa estrema a cui ricorrere in caso di emergenza. Il pianeta con le frontiere chiuse, respingente e autoprotetto non lo ha realizzato un’ideologia di ritorno, non i sovranisti, ma un virus. È curioso che abbia saputo frazionare pur essendo universale. La distanza ha cambiato verso. Eravamo abituati a considerarla negativamente, anche nel lessico. “Tenere le distanze” indicava diffidenza e possibile belligeranza, “una persona distaccata” era fredda e indifferente, “siamo distanti” significava inconciliabili, destinati a non trovare accordi. Ora la distanza è un dovere ed è salvifica, per sé e per gli altri. È un effetto che si propaga in scala: io da te, noi da voi, un Paese dall’altro, continenti alla deriva, irraggiungibili. Non è così che un bambino vede il mondo? Come un oscuro insieme di entità con cui il contatto è difficile e forse da evitare? Meglio, molto meglio restare dove si è, nell’unico posto sicuro. In quel luogo il tempo ha smesso di scorrere come prima. Nel periodo della clausura è evaporata la settimana, il weekend (già proclamato da Jovanotti il più grande spettacolo dell’umanità) si è sciolto nel continuum temporale. Anche adesso, con la parziale libertà che ci è stata accordata fatichiamo a regolarci. Perché a marcare il nostro tempo era quello che ci manca: il tempo libero. Senza i giorni per gli spostamenti verso altre località, le serate a cinema o a teatro, l’ora in palestra, tutto fluisce senza traccia. A rendere avvincente il romanzo di qualunque vita è che i capitoli sono segnati da forti differenze: gli anni del liceo, il primo matrimonio, gli alti e bassi della carriera. Senza questi snodi di trama sarebbe monotono, un po’ come la vita di un bambino, dove non succede nulla. L’homo virus è un solitario Peter Pan, che si è trasferito in campagna e contempla un orizzonte mobile in cui solo le stagioni segnano un succedersi, ma le chiama fase 1, 2, 3, 4. È cambiato soprattutto il nostro rapporto con il tempo futuro. Ci sembrava una terra di conquista, ora è simile alle acque incognite evocate da Mario Draghi. È una pagina bianca che non sappiamo più colorare per paura ci cancellino ogni tratto, come è avvenuto nel 2020. La cosa più evidente è che l’ideale futuro è universalmente concepito allo stesso modo, ed è il passato. Non vogliamo andare avanti, ma tornare a come eravamo, d’incanto. Uno skipper italiano arrivato nella Nuova Zelanda Covid-free ha assicurato che dopo 10 minuti ci si reimmerge nelle abitudini trascorse come nulla fosse mai accaduto. Può valere per le piccole cose (e non è detto che sia un bene), ma la visione macro? Uno dei libri che ho sul mobile si intitola The New Great Depression. Il suo autore, James Rickards, sostiene che “nelle depressioni le cose non tornano alla normalità perché non esiste più la normalità”. E a quelli che predicono una nuova età dell’oro quando avremo sette miliardi di vaccinati (vi fidate ancora della frase “ogni crisi è un’opportunità”? Avete sentito il senatore Renzi predire uno “spettacolare rimbalzo”?) si limita a suggerire: investite in oro, è la sola certezza, l’affidabile luccichìo nei tempi bui. Vorremmo farcene una ragione. C’è una domanda che i bambini pongono con ostinazione, insensibili al crescente fastidio con cui viene accolta: perché? Questa domanda è risuonata e ancora risuona continuamente. Perché è successo? Ci hanno raccontato alcune favole: c’era una volta un pipistrello in un mercato cinese. Le abbiamo ascoltate con la diffidenza con cui, da quando giochiamo incessantemente con la rete, vagliamo ogni informazione, pronti ad accogliere una controstoria, una qualsiasi, anche incredibile, diffusa all’intervallo dall’ultimo della classe per ripicca. Gli Stati sono i più grandi creatori di fiabe, basti pensare a Jfk ucciso dal solitario Oswald poi ucciso dal solitario Ruby che al mercato mio padre comprò o a Giulio Regeni abbandonato sulla strada da “una banda di predoni omosessuali”. Diteci la verità: perché? È stato Bill Gates? È stato Soros? Sono stati quelli del 5G, le big tech, Putin? Non si può accettare una cosa tanto eccezionale senza una spiegazione. I bambini non vogliono quella di tipo scientifico, troppo complicata. Preferiscono il nesso morale: ti è venuta l’influenza perché sei stato cattivo. Nel gioco del mondo questa è accettabile consequenzialità. È stata applicata anche nel caso di quella che fu chiamata impropriamente “la peste del XX secolo”: l’Aids. Fu additato un collegamento tra la condotta considerata immorale (il peccato) e il contagio. Lo prendi perché ti sei comportato male. La pandemia da coronavirus, immune da letture che l’affiancassero a una piaga divina, non è tuttavia sfuggita a una concatenazione laica. Si è detto: è il male del nostro stile di vita. Abbiamo distrutto l’ambiente, costruito città in cui viviamo stipati, a contatto di gomito e respiro, delegato le scelte a uomini rabbiosi che scambiano la visione con l’impulso. Dio? Che cosa potrebbe aver a che fare con tutto questo? È bambinesca la visione contrattualistica della fede: il premio al bene, il castigo al male. Abbiamo letto troppo Pinocchio (con tutto il rispetto) e troppo poco il libro di Giobbe. Dove si insegna che niente di ciò che accade al mio vecchio fratello, alle migliaia di esseri umani su cui si abbatte una sventura, nessuna malattia, nessun accidente è ingiusto. Niente lo è, poiché vorrebbe dire che qualcosa è giusto (lo sostiene la teologa francese Marion Muller-Colard). Non esiste dogma o talismano che dispensi dalla nostra vulnerabilità, è illusoria la perfetta geometria del karma. E allora, come ne verremo fuori? In cinque parole: non ci resta che crescere. L’assurdo silenzio sui femminicidi di Dacia Maraini Corriere della Sera, 2 febbraio 2021 Immaginiamo per un momento che la cronaca ci desse le notizie rovesciate: ogni tre giorni un uomo viene ucciso dalla moglie, accoltellato, sgozzato, bruciato, strangolato, fatto a pezzi, gettato nel cassonetto o in fondo a un burrone. Queste donne, assieme al marito hanno ucciso anche i figli, strangolandoli o sparando loro in testa. Cosa succederebbe? Roberta Siragusa, torturata, sgozzata e poi bruciata dal fidanzato; Teodora Casasanta, uccisa assieme al figlio di cinque anni dal marito; Tiziana Gentile colpita a coltellate dal compagno; Victoria Osaguie, scannata davanti ai figli di 9, 6 e 2 anni dal coniuge; Rosalia Garofalo ammazzata dal suo uomo che prima l’ha picchiata selvaggiamente. Queste sono le donne uccise nei primi mesi del nuovo anno. Solo nel 2020 sono state 112 le donne massacrate dai conviventi. La media: due donne alla settimana. Immaginiamo per un momento che la cronaca ci desse le notizie rovesciate: ogni tre giorni un uomo viene ucciso dalla moglie, accoltellato, sgozzato, bruciato, strangolato, fatto a pezzi, gettato nel cassonetto o in fondo a un burrone. Queste donne, assieme al marito hanno ucciso anche i figli, strangolandoli o sparando loro in testa. Cosa succederebbe? Si leverebbero voci scandalizzate, urla, denunce, grida di “torniamo alla pena di morte”! I giornali si scatenerebbero. Qualcuno certamente teorizzerebbe che le donne sono malvage per natura, nemiche dell’uomo e tendono a distruggerlo. Verrebbero fuori decine di psichiatri a dire che le donne sono incapaci di vincere la gelosia, portate al crimine e oggettivamente pericolose. Esagero? Ma cosa dire di fronte al silenzio drammatico che accompagna le centinaia di femminicidi? Mentre tutti i delitti contro la persona diminuiscono, come dichiarano tutti gli Istituti di statistica, i delitti in famiglia crescono. Come spiegare questo aumento di violenza se non come una rivolta contro le nuove libertà delle donne? La vita della politica, della sessualità, della famiglia si regola su equilibri di potere decisionale. Ricordiamo che a ogni conquista di diritti corrisponde una perdita di privilegi: in famiglia, sul lavoro, nei rapporti sociali e sessuali. Per certi uomini deboli che identificano la propria virilità col dominio, questa perdita viene considerata un affronto talmente grave da ripescare nel profondo il più arcaico e selvaggio degli istinti: la vendetta. Ma si tratta di una tristissima confessione di impotenza. L’uomo saggio capisce, acconsente e si adatta. A tutti faceva piacere avere degli schiavi in casa. Eppure abbiamo trovato il modo di farne a meno. Bisognerà che gli uomini, avvezzi ai tanti privilegi storici, imparino ad adattarsi. Non ci sono alternative. Inchiodata alla tv ho visto la follia di Ilaria Cucchi La Stampa, 2 febbraio 2021 Siamo alle solite. Stiamo scivolando sempre più in basso. Nel baratro di una violenza inutile ed ingiustificata inferta agli inermi, ai deboli, agli ultimi della scala sociale nel nome della sicurezza e del benessere di coloro che ne occupano i gradini più in alto. Di coloro che stanno più su. Violenza ipocritamente intesa come neutralizzazione ma che ha un unico vero nome: sopraffazione. Che sempre più spesso colpisce chi non è in grado di difendersi, di reclamare i propri diritti. Mentre stavo preparando la cena mi è arrivata una telefonata: “Ila - mi viene subito detto- guarda il Tg! Guarda quel video. Guardalo per favore”. Avevo già la tv accesa. Sono rimasta inchiodata lì davanti. Impietrita. Col mestolo in mano ed il fiato sospeso. Una bambina di soli nove anni viene trattata come una delinquente da alcuni poliziotti che la immobilizzano in modo violento. È in crisi psichiatrica - stanno dicendo - e per questo ora le spruzzano lo spray al peperoncino in faccia mentre è già stata caricata sul sedile posteriore dell’auto di servizio. Osservo la scena mentre quelle parole risuonano nella mia testa. Le solite scuse. Le solite versioni ufficiali che fanno torto alla intelligenza comune. Che annientano la sensibilità delle vittime e di coloro che con esse si identificano mossi da una solidarietà sociale che è sempre più merce rara. Come si può essere così incapaci di vedere ciò che si ha davanti? Una bambina in difficoltà, terribilmente spaventata. Come si fa a non capire che, così agendo, non si fa altro che esasperare la sua crisi di terrore infliggendole una punizione medioevale. Solo una bambina “afro-americana” per usare un’espressione che sento ipocrita. Succede negli Stati Uniti. Già, ma non ci illudiamo. Questo modo di trattare i cosiddetti pazienti psichiatrici non ci è affatto sconosciuto. Riccardo Rasman di Trieste, Riccardo Magherini di Firenze, Vincenzo Sapia di Mirto Crosia sono stati resi inoffensivi con gli stessi metodi. Erano tutti e tre in “crisi psichiatrica”. Terrorizzati invocavano aiuto prima di morire. Sono morti in questo modo “perché dovevano essere protetti da sè stessi”. Lo Stato, in qualunque parte del mondo si trovi, non può essere questo. È possibile che da chi deve proteggerci non sia esigibile un comportamento diverso? Questi non sono incidenti ma appartengono ad una cultura che abbiamo il dovere di ripudiare. Quella bambina, grazie a Dio, si è salvata ma altri non hanno avuto quella fortuna. Quando impareremo ad amare le persone per ciò che sono? Ad amare la verità per quanto cruda possa essere. Questa si chiama tortura. Imparando ad avere il coraggio di riconoscerla e chiamarla col suo nome forse potremo davvero sconfiggere questa cultura di violenza e sopraffazione. Sull’immigrazione dobbiamo cambiare tutto di Pierfrancesco Majorino* Il Manifesto, 2 febbraio 2021 Non si può far altro che dire che sull’immigrazione dobbiamo cambiare tutto. E che quel che si è visto in questi mesi e in questi giorni lungo i tratti più o meno europei di rotta balcanica è qualcosa che domanda un’assunzione di responsabilità collettiva. Affinché venga ribaltato l’ordine delle priorità. Può perfino paradossalmente apparire come una formula autoconsolatoria, una sorta di macabro “mal comune mezzo gaudio”, tuttavia è corretto affermare che davvero pochi possono dire di avere la coscienza pulita quando si deve affrontare il tema delle scelte che riguardano il “governo dei flussi”. Il piccolo e arcigno cordone di polizia che ha fermato me, Pietro Bartolo, Brando Benifei, Alessandra Moretti, affinché non raggiungessimo il confine tra la Croazia e la Bosnia, laddove solitamente non passano le delegazioni delle istituzioni ma si avverte il calpestio dei piedi scalzi dei profughi, è il racconto della debolezza delle politiche di questi anni. Il governo croato (in questi giorni impegnato in un’assurda azione di disinformazione operata nei nostri confronti e delle nostre volontà) pratica in modo esplicito la politica dei respingimenti. Nella foresta di Bojna si realizzano aggressioni e interventi che molte voci libere dell’informazione e della galassia dei militanti dei diritti han ben documentato e la polizia sostiene, nei fatti, di non c’entrare nulla. Non so dove sia la verità, so solo che a quattro europarlamentari non è stata nemmeno data la possibilità di vedere, alla luce del giorno, i luoghi dove il confine può essere superato e che tanti ragazzi con cui siamo poi entrati in contatto hanno raccontato di episodi semplici e ripetuti (“ci rubano tutto, perfino le scarpe, ci picchiano e ci ributtano indietro”). Ma non c’è solo la Croazia e sbaglieremmo a immaginare che il tema sia ascrivibile a singoli comportamenti di alcuni o perfino, come ogni tanto si legge, alla tradizione “dura” di un popolo (composto, è bene scriverlo mille volte, da tantissima gente perbene). Del resto, dal punto vista delle politiche nazionali, altri fanno pure peggio (basta spostarsi verso l’Ungheria) e molti, poi, rimangono colpevolmente immobili di fronte ad un bisogno nettissimo di compiere scelte diverse. Le file del campo di Lipa, composte da giovani uomini provenienti dal Pakistan, dall’Afghanistan, dal Kurdistan che attendono sotto la neve un po’ di cibo dal sistema degli aiuti (realizzato senza una vera strategia nazionale bosniaca), quelle file che tanto sinistramente riportano le lancette in un passato lontano, non nascono nei Balcani. O meglio non solo dalle parti di Bihac e tra le terre imbiancate dall’inverno. Esse sono il frutto di una poderosa concatenazione di eventi che propone il tema del desiderio e del bisogno di “migrare” in modo ineluttabile. Un contesto che segna questa fase storica e continuerà a farlo nei prossimi anni, pure a prescindere dalle normative nazionali, dalle facce dure di una parte dei politici o dall’ostilità di pezzi di società. Questa dimensione, data dagli squilibri sul piano dello sviluppo, dalle tensioni geopolitiche, dagli effetti della crisi climatica e dal desiderio irriducibile di molti di cercare pezzi di futuro “altrove” non è accompagnata da scelte adeguate da parte degli Stati (pure dagli Stati membri della Ue, ovviamente) e della comunità internazionale. Attenzione: guai a semplificare e a ridurre l’enorme quantità di problematiche e conflitti che l’intera vicenda migratoria porta con sé. Sinceramente non mi ha mai convinto un pensiero genericamente confidente verso la “bellezza” della società segnata dal pluralismo culturale ed etnico. Non è (solo) quella “bellezza” che ci permetterà oggi di trasformare le politiche. Serve infatti un lavoro enorme, in particolare in alcune aree geografiche più esposte di altre, fatto dalla cultura dello “stare nel mezzo” e dunque, al contrario della logica della deresponsabilizzazione continua di tutti, costituito da una necessità di gestire, scegliere, assumersi l’onore del sostegno alle comunità locali e dell’accoglienza e dei processi (spesso difficili) di integrazione. Lo penso a maggior ragione osservando la Bosnia Erzegovina, laddove comunità anche piccole, persone, che si sono in anni recenti dimostrate ospitali e accoglienti, oggi, raccontano della fatica causata, innanzitutto, dalla sensazione di solitudine che è destinato spesso a provare chi in qualche modo si occupa di immigrazione. Per questo il punto è proprio quello di decidere un’”agenda” diversa fatta da azioni immediate, come quelle riguardanti l’apertura dei corridoi umanitari (in Bosnia ma pure sul confine greco o in Libia) ma soprattutto da interventi strutturali condizionati dall’idea che l’Europa non possa continuare a viversi come una “fortezza assediata”, nella quale di volta in volta sperimentare, in ragione delle scelte di singoli Stati, misure più o meno nette di chiusura e contenimento. Ecco perché la Bosnia è “questione europea”. Come lo è la Libia o come lo è stata Lampedusa. E ciò significa che serve buttare via il regolamento di Dublino che ha formalmente sancito, come ci ha ricordato in questi giorni il parlamentare europeo Massimiliano Smeriglio (presente sul versante italiano della rotta balcanica) la logica dell’assenza di una responsabilità comune. E per lo stesso motivo, se non vogliamo commuoverci di fronte ai corpi nudi nella neve, per poi dimenticarli nel vuoto delle politiche, serve un nuovo Piano europeo ben diverso da quello recentemente pensato dalla Commissione. Molti, in questi giorni, si stanno accorgendo della Bosnia, anche in Italia. Occupiamocene, sempre di più, al fianco di chi da anni (dalla Caritas alle Acli a Croce Rossa) è lì sul campo. Ma occupiamocene anche decidendo di concludere il finanziamento alla missione in Libia, di mettere all’indice la vergognosa direzione di Frontex, di realizzare, ad esempio, un grande progetto di “Protezione civile e umanitaria” di livello veramente europeo, capace di buttarsi, per l’appunto, nel mezzo. * Parlamentare europeo Socialisti e Democratici, fa parte della delegazione in Croazia e Bosnia degli europarlamentari Migranti. Rotta balcanica, le responsabilità italiane ed europee di Massimiliano Smeriglio Il Domani, 2 febbraio 2021 Gli eurodeputati Smeriglio, Benifei, Bartolo, Majorino e Moretti sono stati alla frontiera tra Bosnia e Croazia e poi sul confine italo-sloveno per capire meglio cosa sta accadendo sulla rotta balcanica. Adesso, con una specifica iniziativa parlamentare, riporteranno l’esito della missione al parlamento di Bruxelles. Siamo stati in Bosnia per capire come sia possibile accogliere le persone in transito in condizioni disumane, nonostante le cospicue risorse investite dall’Unione europea. In Croazia per verificare sul campo se corrispondono al vero le tante testimonianze di migranti, anche minori, sulle violenze della polizia. L’atteggiamento arrogante che ha impedito, di fatto, a quattro europarlamentari di muoversi liberamente su territorio europeo è una pessima spia del modo di agire e pensare delle forze dell’ordine di quel paese. E sul nostro confine per comprendere le ragioni di quelli che di fatto si sono configurati come respingimenti illegali. Parliamo di circa mille persone rimbalzate prima in Slovenia, poi in Croazia e poi ancora di nuovo in Bosnia, come in un gioco sadico in cui si torna sempre al punto di partenza. Lo chiamano the game, un gioco sporco in cui qualcuno ha barato. In gergo burocratico trattasi delle cosiddette riammissioni informali. Peccato siano illegali. Non solo perché violano l’articolo 10 della Costituzione, l’articolo 18 della carta dei diritti fondamentali dell’Ue e la Convenzione di Ginevra del 1951; sono illegali perché lo afferma una sentenza del tribunale di Roma che porta alla luce la condotta del ministero degli Interni che avrebbe applicato norme sbagliate riesumando un accordo bilaterale italo-sloveno del 1996, mai applicato prima, mai ratificato dal parlamento italiano. L’implementazione di questa pratica avrebbe una data di inizio, maggio 2020, coincidente con una direttiva sembrerebbe a firma del capo di Gabinetto della ministra Luciana Lamorgese, prefetto Piantedosi, che peraltro ha svolto il medesimo incarico anche per l’ex ministro Matteo Salvini. Questo ci hanno raccontato le figure istituzionali incontrate durante la missione. Questa interpretazione delle norme avrebbe determinato l’impossibilità per mille persone di chiedere asilo al nostro paese. Mille persone consegnate di nuovo all’inferno della rotta balcanica, braccate dalla polizia croata, ricacciate nel campo di Lipa. Dunque è giusto chiedere conto alle autorità bosniache, paese extra Ue, così come alle autorità croate e slovene, che invece sono suolo europeo. È doveroso verificare il funzionamento di Frontex. Ma per essere credibili dobbiamo mettere a fuoco le nostre responsabilità che non dipenderebbero da funzionari di polizia più o meno zelanti, ma da una precisa volontà politica del governo italiano. Scaricare sull’ultimo anello della catena di comando non è mai una buona pratica. I dipendenti della polizia di stato italiana che operano sulla frontiera lavorano in condizioni di precarietà, con scarsi mezzi e risorse. Inutile tirarli dentro una storia più grande di loro. Casomai dovremmo interrogarci su come presidiare meglio quello snodo della rotta, potenziando accoglienza, mediazione interculturale, assistenza sanitaria, visto che continuiamo a considerare quel confine come interno quando nei fatti ha ancora caratteristiche esterne. Dopo la sentenza del tribunale di Roma, dopo l’interrogazione parlamentare di Erasmo Palazzotto del 13 gennaio a cui ha risposto direttamente la ministra questa pratica sembrerebbe di fatto sospesa. Una buona notizia. Ora è tempo di ripristinare legalità e buone pratiche di accoglienza e di contrasto alla tratta degli esseri umani. Perché più rendiamo incomprensibili le prassi di accesso o attraversamento del nostro paese, maggiore sarà il potere dei trafficanti di esseri umani. Per la nostra civiltà giuridica, per lo stato di diritto chi chiede asilo deve essere ascoltato e preso in carico. Tutto il resto riguarda una brutta pagina del modo in cui il nostro governo ha gestito la rotta in questi mesi. Basti ricordare che si tratterebbe complessivamente di circa 3.600 persone, non di milioni. Nessun esodo biblico, solo la gestione ordinaria delle nostre frontiere. Cerchiamo di restare fedeli ai nostri valori e alle nostre leggi. Senza cedere alla tentazione di esternalizzare a paesi terzi la gestione e il governo dei flussi. Insomma, non può essere la Libia il modello a cui guardare. Non può esserlo per un governo che abbia a cuore la Costituzione repubblicana e la tutela dei diritti umani. Migranti. Memorandum Italia-Libia: quattro anni di complicità in gravi crimini di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 febbraio 2021 In occasione del quarto anniversario della firma del Memorandum d’intesa tra Italia e Libia, Amnesty International ha denunciato che nel paese nordafricano si susseguono arresti arbitrari, torture, rapimenti e violenze ai danni di rifugiati e migranti con la complicità e nel silenzio delle istituzioni italiane. Nel corso del 2020, 11.265 rifugiati e migranti sono stati intercettati in mare dalla guardia costiera libica e riportati in Libia. Quasi tutti sono stati immediatamente trasferiti nei centri di detenzione ufficiali o in altri luoghi di cattività, dove sono stati trattenuti arbitrariamente e per lunghi periodi di tempo ed esposti al rischio di subire torture e maltrattamenti. In alcuni casi, documentati da un rapporto pubblicato da Amnesty International nel settembre 2020, persone intercettate in mare e riportate in Libia sono state trasferite in centri semi-clandestini, come la famigerata Fabbrica del tabacco di Tripoli, prima che se ne perdessero completamente le tracce. Dalla firma del Memorandum, sono oltre 50.000 i rifugiati e i migranti intercettati in mare dalla guardia costiera libica e riportati in Libia. Come più volte ricordato da Amnesty International, in questi quattro anni l’Italia ha fornito la propria assistenza - in particolare mediante motovedette, formazione alla guardia costiera, appoggio alla dichiarazione di una zona di ricerca e soccorso (Sar) libica e coordinamento delle operazioni in mare - senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze per le persone riportate in Libia e rinchiuse nei centri di detenzione o scomparse nel nulla. Pur di ridurre il numero degli approdi irregolari in Italia, le autorità italiane si sono rese complici degli abominevoli crimini di diritto internazionale commessi nei centri di detenzione, che potevano essere ampiamente previsti. Anche quando sono in libertà, i rifugiati e i migranti intrappolati in Libia restano a rischio costante di uccisioni, rapimenti, rapine, violenze e sfruttamento da parte di milizie armate o bande criminali che godono della più completa impunità. Pur perfettamente conscio della sofferenza causata dall’applicazione del Memorandum, un anno fa il governo italiano lo ha rinnovato per un ulteriore periodo di tre anni. All’epoca del rinnovo, per scansare le critiche, il ministro degli Affari esteri, Luigi Di Maio, si era impegnato a modificare il testo del Memorandum per inserirvi garanzie a tutela dei diritti umani. Tale impegno è stato ampiamente disatteso e le pur minime e del tutto insufficienti migliorie proposte dal governo italiano non sono state neanche accettate dalla controparte libica. Ciononostante, le autorità italiane hanno continuato a prestare la loro assistenza, anche tramite la proroga delle missioni militari in Libia e la donazione di nuove motovedette. Nel frattempo, la situazione per i rifugiati e i migranti intrappolati in Libia rimane catastrofica, persino aggravata dalle limitazioni alla libertà di movimento ed alle attività economiche imposte per far fronte alla pandemia da Covid-19. Queste hanno avuto un grave impatto su migliaia di rifugiati e migranti, la maggior parte dei quali dipende da lavori a giornata anche per poter acquistare cibo. Oggi, dunque, Amnesty International ha sollecitato le autorità italiane a impegnarsi concretamente per porre rimedio ai crimini subiti dai rifugiati e dai migranti in Libia: interrompendo forme di cooperazione che intrappolano persone in luoghi dove sono a rischio di torture e violenze; condizionando il proprio sostegno all’approvazione da parte libica di misure a garanzia dei rifugiati e migranti; e concentrandosi sull’apertura di canali sicuri e regolari che consentano ai cittadini stranieri intrappolati in Libia, in primis rifugiati e richiedenti asilo, di viaggiare in sicurezza verso l’Europa. Droghe. L’Oregon depenalizza il possesso di tutte le sostanze stupefacenti di Anna Lombardi La Repubblica, 2 febbraio 2021 La misura punta al recupero in comunità al posto del carcere e introduce per la prima volta il concetto di “modica quantità”. Chi verrà trovato con sostanze per uso personale, compresa l’eroina, la cocaina e la metanfetamina, potrà pagare una multa di 100 dollari, che sarà ritirata se ci si sottopone a valutazione medica. Assistenza sanitaria e comunità terapeutiche al posto del carcere, per chiunque verrà trovato in possesso di stupefacenti. L’Oregon è il primo stato d’America a scegliere la via della depenalizzazione completa nei confronti dei consumatori di droga. E non parliamo della marijuana, qui già legale dal 2014 quando lo stato del Nordovest fu il primo ad autorizzarne l’uso medico, approvando, l’anno dopo, anche quello ricreativo. La misura 110 appena ratificata abbandona infatti ogni approccio giustizialista per concentrarsi su un metodo esclusivamente medico. Da oggi, chiunque verrà trovato in possesso di eroina, cocaina, metanfetamine e ossicodone verrà sanzionato con una multa da 100 dollari e pure sottoposto alla misura cautelare di una citazione in tribunale. Questa, però, verrà ritirata se la persona accetterà di far valutare il proprio stato di salute, pronta a intraprendere un percorso di recupero. “Se vogliamo aiutare i tossicodipendenti a fare scelte diverse, dobbiamo dare loro più opzioni” dice a Usa Today Kassandra Frederique, direttrice di Drug Policy Alliance, no profit che si è battuta fortemente per la nuova legge. “Porre fine al carcere permette a chi vuol cambiare strada di avere opportunità che una fedina penale sporca cancella per sempre”. Una disparità, qui in America, soprattutto razziale: “In tribunale gli afroamericani vengono condannati il doppio dei bianchi, pur se il reato è lo stesso”. I numeri nazionali parlano chiaro: l’87 per cento degli arresti per droga sono legati al solo possesso: “Curare costa meno del tenere tutta questa gente in carcere”, dice ancora Frederique. Augurandosi che ancora una volta, sul tema narcotici, l’Oregon sia l’apripista dell’intera nazione: “L’approccio punitivo, ormai è dimostrato, non funziona”. La legge entra in vigore in un momento particolarmente delicato per lo stato del Nordovest: in un anno di pandemia, il numero di overdosi è schizzato su del 70 per cento. “Dobbiamo basare le nostre politiche sulla scienza e la statistica anziché sul mito dello stigma e sulla punizione”. Il programma sarà finanziato attraverso i proventi dalla tassa statale sulla cannabis. Colpo di stato in Myanmar, Aung San Suu Kyi dalla prigionia al potere e ritorno di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 2 febbraio 2021 Da icona della libertà, a leader politica anche discussa e criticata, il ritratto della Premio Nobel che ora non serve più ai generali. Il tempo ha fatto un salto indietro a Myanmar. Aung San Suu Kyi è tornata prigioniera dei militari, come lo fu per quindici anni, fino al 2010 quando finalmente i generali fecero un passo indietro, non per decenza ma per convenienza. I golpisti decisero di condividere il potere dopo che le loro giunte avevano fatto sprofondare il Paese nel sottosviluppo e nell’isolamento. Aprirono i cancelli della villa dove la signora era stata confinata dal 1989 e le permisero di parlare a una popolazione che già la adorava, in quanto figlia di Aung San, l’eroe dell’indipendenza nazionale raggiunta nel 1948. Forse, la sintesi migliore della sua vita, è in una frase della motivazione per il Nobel per la pace che le fu assegnato nel 1991: “Un esempio del potere di chi non ha potere”. Guardando al suo viaggio tragico e tormentato, quel giudizio resta valido anche ora che l’icona (scolorita) della libertà ha 75 anni. Il padre è considerato l’eroe dell’indipendenza della Birmania. Fu assassinato nel 1948, quando ancora non aveva potuto esercitare il potere. La madre è stata ambasciatrice in India negli Anni 60, quando il Paese era già retto da una dittatura militare, nominalmente socialista. Aung San Suu Kyi ha potuto avere una formazione cosmopolita: una prima laurea a New Delhi, la seconda a Oxford, poi un periodo di lavoro al Palazzo di Vetro dell’Onu; di nuovo in Inghilterra dove sposò un professore universitario britannico dal quale ha avuto due figli. Una vita privilegiata, lontana dalla politica e dai giochi di potere. Fino a quando nel 1988 tornò in patria per assistere la madre in fin di vita. Proprio in quei mesi la Birmania chiusa e dimenticata dal mondo fu scossa da una ribellione popolare contro la giunta che con incompetenza e corruzione aveva rovinato il Paese. L’esercito aprì il fuoco facendo una strage. E quella donna esile ed elegante decise di esporsi: “Non posso restare indifferente”. Ispirata da Martin Luther King dal Mahatma Gandhi, organizzò un movimento per la democrazia. Lanciò appelli non alla rivolta, ma alla pacificazione, chiese alla gente di rispettare l’ordine e ai generali di riconquistare la fiducia. Non si scagliò mai apertamente contro l’esercito, perché ricordava con orgoglio che era stato fondato dal padre. I generali non ascoltarono la voce del dialogo e Aung San Suu Kyi nel 1989 fu arrestata. Nel 1991 le fu assegnato il Nobel che non potè andare a ritirare; nel 1999 non accettò la via d’uscita offertale dal regime: il marito era malato di cancro, sul letto di morte a Londra e lei avrebbe potuto essere liberata per andarlo a vedere per l’ultima volta. Un espediente per chiuderla fuori dalla patria, appena ribattezzata ufficialmente Myanmar. Per altri dieci anni lei sopportò con inflessibilità e grazia la condizione di prigioniera politica. Liberandola, per dare una patina di nobiltà alla loro ritirata tattica, i generali le hanno permesso di guidare la Lega nazionale per la democrazia alla vittoria elettorale nel 2015; ma le hanno negato la possibilità di diventare presidentessa, con la scusa che aveva sposato un inglese e i suoi figli hanno mantenuto la cittadinanza britannica. Suu Kyi da allora è rimasta Consigliera di Stato, una sorta di governatrice ombra. Il colpo di genio dei generali è stato di trasformare l’icona della democrazia in donna politica, costretta a fare i conti con il potere reale. E facendo questi conti, la Consigliera di Stato ha rifiutato di spendere anche una sola parola di solidarietà per i musulmani Rohingya braccati dall’esercito, massacrati, costretti a fuggire all’estero a centinaia di migliaia tra il 2017 e il 2018. Inseguendo la stabilità politica si è prestata a difendere la pulizia etnica davanti alla Corte internazionale dell’Aia. Ha cavalcato il sentimento nazionalista prevalente forse per prendere tempo, per consolidare la situazione ambigua. Mentre nel mondo si sono levate voci che invocavano la revoca del Nobel, i sondaggi di opinione la danno sempre popolarissima tra la maggioranza buddista di Myanmar. Un calcolo, un azzardo non all’altezza di una combattente pacifista che era stata premiata per aver esercitato il “potere di chi non ha potere”. Ha coperto i crimini contro i Rohingya, ma quando ha trionfato di nuovo nelle elezioni dello scorso novembre, i generali hanno deciso di riportare indietro il tempo. Non hanno più bisogno di una Premio Nobel per dare credibilità internazionale al loro potere nascosto. Spagna. Il rapper Hasél in galera di Marco Santopadre Il Manifesto, 2 febbraio 2021 Il rapper catalano Pablo Hasél condannato a 9 mesi di carcere per i suoi brani contro la Monarchia. Secondo la Corte Suprema di Madrid incitano alla violenza. “Non serve concordare con ciò che canto per riconoscere la madornale violazione della libertà d’espressione”. L’affermazione di Pablo Rivadulla Duró, in arte Pablo Hasél, riassume una vicenda che ha implicazioni assai più vaste del caso specifico. La corte suprema di Madrid ha confermato infatti la condanna inflitta nel 2018 dall’Audiencia Nacional al rapper catalano per “apologia del terrorismo” e “ingiurie alla Corona e alle istituzioni statali” a causa dei suoi versi e dei suoi post sui social. L’entità iniziale della pena, due anni, è stata ribassata a nove mesi, che però Hasél dovrà scontare perché già nel 2014 il 32enne è stato condannato a due anni - e la pena sospesa - dopo un arresto nel 2011 sulla base di accuse simili. La giustizia spagnola non perdona al cantante, comunista e indipendentista, le sue aspre accuse nei confronti della famiglia reale, del Partito Popolare, dell’esercito, e ancora meno i suoi riferimenti ad organizzazioni armate come i Grapo o l’Eta basca (entrambe sciolte) o ancora i suoi appelli alla liberazione dei detenuti politici. Lo scorso 27 gennaio l’amministrazione penitenziaria ha intimato all’artista di consegnarsi entro dieci giorni per scontare la pena; se non lo farà - e Hasél ha chiarito che non è sua intenzione - verrà arrestato. Nel motivare la sentenza, il giudice ha esplicitamente affermato che Hasél è “recidivo” e “molto conosciuto, e quindi il suo messaggio può effettivamente incitare alla mobilitazione di piazza”. Insomma, il rapper è pericoloso perché l’invito alla ribellione, viaggiando attraverso le note, si rivela più pervasivo. Di fronte ai suoi testi durissimi, estremi, a volte truculenti, in molti affermano che la libertà di espressione va garantita ma anche regolata all’interno di certi limiti. Un discorso che ha un qualche fondamento se non fosse che, sul fronte opposto, gli appelli al linciaggio di esponenti della sinistra o dei movimenti indipendentisti, o le continue minacce di golpe provenienti da esponenti dell’estrema destra o da militari, non suscitino l’attività censoria dell’Audiencia Nacional. E se non fosse per il sistematico accanimento degli organismi giudiziari nei confronti di artisti di vario tipo che negli ultimi anni hanno subito censure e condanne che rendono la Spagna uno tra i paesi più allergici alla libertà d’espressione tra quelli democratici. Nel mirino della magistratura spagnola è finito, tra gli altri, César Strawberry, il cantante della nota band Def con Dos condannato per alcune battute via social sul terrorismo e le malefatte del re; e poi ancora i membri della band hip hop La Insurgencia, anche loro condannati a due anni per apologia. Nel 2016 erano finiti in cella addirittura due marionettisti di Madrid perché, nel corso di uno spettacolo, avevano esposto sulla scena uno striscione che, secondo l’accusa, incitava alla violenza. Ma se ora dovesse effettivamente entrare in carcere per scontare la pena, Hasél sarebbe l’unico artista finito in galera in tutta l’Unione Europea a causa della sua attività artistica, per quanto politicamente connotata. Per evitare una sorte simile un altro rapper, Valtonyc (al secolo Josep Miquel Arenas, di Maiorca), ha trovato rifugio a Bruxelles. Su di lui pende una condanna a ben tre anni e mezzo inflittagli ancora dall’Audiencia Nacional. In una lunga intervista ospitata da TV3, il principale canale pubblico catalano, Hasél ha spiegato che, pur avendo ricevuto delle offerte in vari paesi, non andrà in esilio e non chiederà l’indulto. Il suo arresto, afferma, rivelerà l’assenza di separazione dei poteri e inciterà a una mobilitazione di solidarietà che effettivamente è già iniziata. Nei giorni scorsi, qualche migliaio di persone hanno manifestato in diverse città catalane e altre iniziative sono previste nel fine settimana in tutto il Regno. Intanto Podemos è tornata a chiedere la cancellazione della Ley Mordaza, la legge bavaglio approvata nel 2015 dal popolare Rajoy; la deroga era stata promessa dal premier socialista Sánchez, ma il capitolo sulla repressione del “dissenso digitale” è stato addirittura inasprito. La vicenda rivela, una volta ancora, quanto la magistratura - insieme all’esercito e alla monarchia - sia uscita relativamente indenne dalla transizione dal franchismo alla democrazia: gli alti gradi della magistratura costituiscono un influente strumento di condizionamento per le correnti più conservatrici, se non reazionarie e nostalgiche. Eclatante il caso dell’Audiencia Nacional, il tribunale antiterrorismo nato dalle “ceneri” del Tribunal de Orden Público incaricato di perseguire gli oppositori al regime. Dopo la morte del Caudillo, una parte dei giudici franchisti passarono alla nuova istituzione, ospitata nello stesso lugubre edificio di Madrid. Colombia. La strage silenziosa dei combattenti delle Farc: “Ci stanno ammazzando” di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 2 febbraio 2021 Dagli accordi di pace del 2016, ne sono già morti 253 di ex guerriglieri. Molti avevano chiesto protezione allo Stato. Non si conoscono i responsabili. L’ultima vittima si chiamava José Alexander Quiñones, aveva 27 anni, 8 trascorsi nella guerriglia. Lo hanno sorpreso tre giorni fa in una strada di Tumaco, nel sud della Colombia. Quattro colpi di pistola mentre rincasava. È rimasto sull’asfalto e solo dopo un paio d’ore hanno raccolto il corpo. Fa parte di una lista che cresce e preoccupa i 13 mila ex soldati delle Farc-Ep (Fuerzas Armadas Revólucionaria de Colombia- Ejército Popular) che hanno aderito all’accordo di pace del settembre del 2016. Da quel momento ne hanno assassinati 253, secondo il Consiglio Nazionale per il Reinserimento. Cinque solo in questo primo mese del 2021. “Ci stanno ammazzando”, dice al Pais che racconta questa allarmante mattanza Antonio Pardo, anche lui ex militante dell’organizzazione e oggi alla guida di un gruppo di fuoriusciti che si dedica a coltivare caffè dove prima si coltivavano foglie di coca. Vive nel Cauca, Dipartimento difficile del nord-ovest, al centro del corridoio usato dalle gang e dai narcos per trasferire droga e armi verso Panama, il Guatemala, il Messico e poi gli Usa. È qui che si conta il numero più alto di vittime: 42. “Ci sentiamo nel mirino”, spiega Pardo. “Non è stato facile reinserirsi nella vita civile. Dopo la guerra la stessa società non sapeva come accoglierci. È stata, e continua ad essere, una strada difficile. Con le Farc si camminava tutto il tempo. Anche settimane. Ci spostavamo di continuo. Ma almeno eravamo insieme, con le armi. Potevamo difenderci. Adesso siamo soli e ci tocca guardarci sempre alle spalle”. Altri ex combattenti ammettono che molti tra loro si sono inseriti e oggi vivono un’esistenza abbastanza serena. Si sono sposati, hanno dei figli, un lavoro, progetti, sogni. Ma molti altri che conoscevano e con cui hanno diviso una guerra che ha diviso e insanguinato la Colombia sono invece spariti. Sequestrati, fatti fuori, scomparsi e mai più ritrovati. Qualcuno non ha retto e, deluso, senza modo di guadagnarsi da vivere, è tornato nella giungla e si è unito alle gang che dominano i territori un tempo controllati dalle Farc. Sono proprio le narcoguerriglie o Cartelli organizzati, come il Clan del Golfo, ad occupare regioni strategiche per i traffici di ogni genere: dalle armi, alle estorsioni, al pizzo per garantire sicurezza e protezione agli abitanti, alla droga da portare verso Nord, agli esseri umani, alle miniere d’oro clandestine. Mario Morales, ex comandante che dopo aver consegnate le armi lavorava con alcune altre vittime nelle zone rurali, lo hanno assassinato ad agosto scorso. A Wilson Saavedra lo falciarono mentre si recava in moto a comprare una torta per il compleanno di uno dei suoi due figli. Tra il 1 e il 24 gennaio, ogni cinque giorni, un ex guerrigliero è stato ucciso, secondo il Tribunale Speciale per la Pace (Jep), istituzione giuridica creata con gli accordi di Cuba. In un recente rapporto si sofferma sull’inizio violento di questo 2021: 14 scontri tra gruppi criminali e forze di sicurezza, 13 minacce di morte a leader sociali, sei stragi, cinque omicidi di ex combattenti della guerriglia, 14 tra leader sociali, sette confronti armati tra gruppi criminali. Le Nazioni Unite, che vigilano sull’applicazione dell’accordo di pace, confermano che 25 ex combattenti delle Farc assassinati avevano chiesto ufficialmente protezione allo Stato. Ci sono mille richieste in sospeso in tutta la Colombia. Ma Pastor Alape, negoziatore a L’Avana, ha denunciato che c’è stata una riduzione dei sistemi di protezione. Giovedì scorso ha dovuto raggiungere il nord del Paese pesantemente scortato da poliziotti e soldati. Durante il viaggio gli è giunta la notizia che era stato rinviato a giudizio con altri 7 dirigenti delle vecchie Farc per concorso nel sequestro di 21 mila ostaggi. “Il clima è diventato pesante”, dice, “sono in molti a remare contro la pace”. Dietro questa strage silenziosa ci sono mani diverse. Vecchi gruppi paramilitari mai dissolti, trafficanti, criminali, a volte forze di sicurezza e spesso le frange dissidenti della guerriglia, gente delle Farc che ha ripreso le armi e più che al vecchio conflitto si tuffano nel mondo dell’illegalità. Hanno sempre fatto quello e quello continuano a fare. Vendette, segnali da dare a chi ha mollato la lotta armata. Per loro la pace è un ostacolo non una conquista. Etiopia. La carestia minaccia il Tigrai. L’esercito dà la caccia alle milizie patriottiche di Pietro Del Re La Repubblica, 2 febbraio 2021 Uccisi a sangue freddo tre veterani del Tigray peoplès liberation front. Secondo fonti locali, le truppe di Addis Abeba usano la fame come arma di guerra. Già si contano 4,5 milioni di persone che soffrono per carenze alimentari e 2,5 milioni di spostati interni. Basterebbe il triste destino di Asmelash Woldeselassie, accanitosi sul suo proprio corpo, per illustrare la brutalità dei conflitti che ciclicamente insanguinano le montagne del Tigrai etiopico. A cominciare dal 1975, quando Asmelash rimase accecato dallo scoppio di un ordigno durante un bombardamento del regime di Addis Abeba contro il nascondiglio delle Tigray Peoplès Liberation Front (Tplf), le milizie tigrine a cui l’uomo si era appena unito. Le stesse con cui nel 1991 marciò verso Addis Abeba per rovesciare la dittatura del feroce Mengistu Haile Mariam. Nel 1998, quando scoppiò la guerra con l’Eritrea, Asmelash perse un braccio in un raid aereo contro Macallè, capitale del Tigrai. E poche settimane fa, nuovamente costretto a nascondersi in montagna assieme agli uomini del Tplf, Asmelash è stato ucciso dall’esercito federale assieme ad altri veterani, tra i quali l’ex ministro degli Esteri, Seyoum Mesfin, e l’ex ministro degli Affari federali, Abay Tsehaye. Ora, a ordinare la vasta offensiva militare in cui hanno perso la vita Asmelash e i suoi compagni di lotta, è stato il premier etiope Abiy Ahmed, membro della coalizione di governo a guida Tplf fino alla sua elezione nel 2018. Adesso, invece, Ahmed considera le milizie tigrine come il suo peggior nemico nel controllo di una regione di strategica importanza, perché confinante con il Sudan e l’Eritrea, e perché sbocco commerciale verso il Mar Rosso. Anche il presidente eritreo Isaias Afwerki ha recentemente inviato truppe nel Tigrai, per dar manforte al suo nuovo alleato etiope, Abiy Ahmed, con il quale ha firmato la pace nel 2018, ma soprattutto per scovare e rimpatriare gli storici oppositori del suo regime tra le decine di migliaia di eritrei fuggiti negli anni. Tanto che sia il governo etiope sia quello eritreo negano l’ingresso dei soldati di Asmara nel Tigrai, mentre tutti gli altri lo confermano. Fatto sta che, nonostante la caduta di Macallè il 28 novembre scorso, e la vittoria annunciata dal premier Abiy, il Tplf ancora conta 250 mila uomini decisi a non a deporre le armi. Sono ancora sconosciute le cause della morte di Asmelah, Seyoum e Abay, tutti e tre sessantenni. Secondo alcune testimonianze sarebbero stati assassinati a sangue freddo, secondo altre, provenienti dall’esercito etiope, i veterani tigrini sarebbero stati uccisi in una grotta dopo essersi rifiutati di arrendersi. La notizia delle loro morte è giunta assieme a quella della cattura di altri esponenti di spicco del Tplf, tra cui Sebhat Nega, mostrato alle telecamere in manette, con la barba lunga e stretto tra due soldati, come un brigante d’altri tempi. Il che non ha fatto che aumentare il patriottismo tigrino, con la popolazione locale che ha già reso martiri sia Asmelash (“hanno sparato contro un cieco”) sia Sebath (“hanno messo in catene il nostro eroe”). È vero, pesantemente bombardato dai caccia e dai droni da combattimento, e attaccato via terra dall’esercito federale etiope e da quello eritreo, negli ultimi tre mesi il Tplf ha perso uomini e posizioni. Ma non alzerà la bandiera bianca. È tornato a nascondersi nelle campagne, nelle montagne e le colline del Tigrai da dove si appresta a lanciare una guerra d’usura, con attacchi mirati, kamikaze e imboscate nelle città appena perdute. Intanto, il governo centrale starebbe usando la carestia come arma di guerra contro alcuni villaggi che offrirebbero riparo ai patrioti tigrini. Tra i profughi scappati in Sudan c’è chi racconta che i lealisti danno fuoco ai raccolti, impedendo l’ingresso di altre forme di cibo e di aiuti internazionali nella regione. Secondo una fonte locale, c’è già chi muore di fame, in una crisi umanitaria che non ha precedenti nella storia del Tigray, con 4,5 milioni di persone (75% del totale) che soffrono per carenza di cibo, e con 2,5 milioni di spostati interni.