La Giustizia come metafora. Una agenda di discontinuità di Franco Corleone L’Espresso, 28 febbraio 2021 Per fortuna, ma non per caso, è stata assicurata la presenza nel Governo Draghi di Marta Cartabia e che rappresenta un valore indiscutibile per rigore scientifico ma soprattutto per il legame profondo con i valori fondamentali della Costituzione. Il timore di chi è felice per la scelta compiuta per la responsabilità di via Arenula è legata al tempo a disposizione per cambiare le cose che non vanno nella giustizia. Non solo nella amministrazione, ma nei principi essenziali. L’occasione dell’impegno di una personalità di grande autorevolezza e prestigio non può essere bruciata dal prevalere di scontri corporativi o di contese particolari. L’ambizione, non personale ma diffusa, deve essere quella di lasciare un segno riformatore. Per questo occorre definire una agenda che leghi temi e tempi. Molti ritengono che la priorità sia legata al funzionamento della giustizia civile e i motivi legati all’economia e soprattutto alla capacità di spendere le molte risorse europee disponibili hanno un fondamento. Si devono compiere scelte per organizzare lo smaltimento dell’arretrato e impedire il sorgere di cause strumentali da parte delle grandi amministrazioni pubbliche e private. Così si potrebbero garantire tempi rapidi per le controversie serie e fondate. Di diverso spessore è la questione di come è vissuta la giustizia da uomini e donne. Una società in cui prevale odio, rancore e risentimento non può condividere il principio di umanità. Il sentimento da ricreare non è solo di fiducia generica, ma la sfida è di far deporre le istanze di vendetta. So che rimarrà un sogno ma sarebbe bello che nel novantesimo anno dell’entrata in vigore del Codice Rocco, architrave del regime dello stato etico e della dittatura, fosse approvato un nuovo Codice della Repubblica e della democrazia. Non sarebbe difficile perché i contenuti sono già presenti nei lavori di tante commissioni che hanno ben lavorato. Vi sono però questioni urgenti che devono vedere una precisa discontinuità. È in discussione alla Commissione Giustizia della Camera la proposta Magi (n. 2307) per rivedere l’art. 73 della legge sulle droghe sui fatti di lieve entità. Sempre alla Camera è presente la proposta di modifica costituzionale (n.2456) sull’art. 72 e 79 per restituire al Parlamento la possibilità di decidere, in casi straordinari e motivati, provvedimenti di amnistia e indulto. Al Senato è in discussione la proposta della Regione Toscana (n. 1876) per affermare finalmente il diritto alle relazioni affettive intime delle persone detenute. Piaccia o non piaccia costituiranno tre banchi di prova. Per il carcere basterebbe lanciare un grande piano di applicazione del regolamento del 2000 e un piano di ristrutturazione degli spazi per garantire diritti e dignità. Per diminuire la popolazione detenuta in maniera definitiva e non emergenziale occorrerebbe modificare la legge Iervolino-Vassalli sulle droghe (ddl 937 Pittella) che causa la carcerazione di oltre il cinquanta per cento dei detenuti; mi rendo conto che abbandonare il paradigma del moralismo proibizionista non è comodo per gli imprenditori della paura e per gli stregoni della propaganda, ma il mondo cambia e le ragioni della ragione anche in Italia dovranno essere prese in esame. Giustizialismo vuol dire odio: la lezione della Corte dei Conti di Errico Novi Il Dubbio, 28 febbraio 2021 All’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la sezione del Lazio, la lezione del presidente della Corte Tommaso Miele: “Oggi prevale un giustizialismo alimentato da odio e voglia di vendetta”. Sono vent’anni che il Paese è lacerato dalle divisioni attorno alla giustizia. E forse si è sempre sottovalutato il contributo che la magistratura può offrire sul piano culturale, in termini positivi, per superare una simile frattura. Ebbene ieri, all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la sezione Lazio della Corte dei Conti, si è avuto uno straordinario esempio di quanto sia prezioso il messaggio positivo dei magistrati. In particolare da parte del presidente Tommaso Miele, che su tutti ha voluto scolpire un principio: “Siamo noi magistrati a dover affermare la cultura delle garanzie”. Un intervento lucidissimo, davvero esemplare. Partito da una constatazione: “Oggi la nostra società è permeata da un giustizialismo alimentato da una sorta di voglia di vendetta, di odio sociale, che si sta quasi affermando come fine ultimo della giustizia, e che sta offuscando quei sacri principi di diritto scritti a caratteri cubitali nella nostra Carta costituzionale”. Una Costituzione che “non a caso si pone, per questa parte, fra le più avanzate del mondo”, ha detto Miele. E ancora: “Oggi sembrano essersi smarriti quei sacri principi quali la presunzione di non colpevolezza, il principio secondo cui “onus probandi incumbit ei qui dicit” e non viceversa: l’esercizio della funzione giurisdizionale”, ha scandito il presidente della sezione, “deve essere finalizzato all’affermazione della giustizia e all’accertamento della verità, e non alla vendetta; al diritto del cittadino a una giustizia rapida, efficiente e soprattutto giusta; al diritto a un giusto processo, al diritto a una ragionevole durata del processo”. E quindi quel passaggio sulla responsabilità, sull’onere persino pedagogico che ricade sui magistrati: “Soprattutto noi giudici dobbiamo impegnarci a che non si affermi questa cultura del diritto e della giustizia”, quella cioè che intende l’accertamento giudiziario come vendetta, “e dobbiamo”, appunto, “impegnarci a riaffermare con forza la cultura delle garanzie, dei diritti del cittadino che i nostri padri costituenti hanno voluto scrivere con tanta chiarezza. Oggi più che mai”, ha aggiunto Miele, “occorre riaffermare una giustizia dal volto umano. Impegnarsi per la riaffermazione di una giustizia giusta, che è riconciliazione. Il giudice deve essere fedele interprete dei principi sopra richiamati, sforzandosi di declinarli realizzando e assicurando il pieno ed effettivo contraddittorio e l’assoluta parità tra le parti, la terzietà e l’imparzialità, e, soprattutto, la ragionevole durata del processo”. Miele è un magistrato contabile. Ma è evidente l’attualità delle sue parole a proposito delle tensioni che anche nella nuova fase politica dividono la maggioranza sul processo penale, in particolare sulla prescrizione e sul rischio che la durata dei giudizi sia infinita, anziché ragionevole. “Il buon giudice”, ha continuato il presidente della sezione Lazio della Corte dei Conti, “non solo deve essere terzo e imparziale, ma deve anche apparire tale: mai deve far venire meno nel cittadino la fiducia in una giustizia giusta”. E un processo giusto, ricorda Miele, “va declinato e integrato con il diritto del cittadino a essere giudicato da un giudice sereno, equilibrato, che ispira fiducia e che non abbia altra finalità che quella dell’accertamento della verità”. E poi un altro passaggio esemplare sulla pena costituita già dal fatto di essere sottoposti alla giustizia, che si tratti di quella penale o di quella contabile: serve un giudice consapevole del fatto che “per il convenuto già l’essere sottoposto a un processo costituisce una pena. E un giudizio troppo lungo”, ha ricordato Miele, “diventa un anticipo di pena, anche se l’imputato, o il convenuto nel caso del nostro giudizio, non è ancora stato condannato. Di qui l’impegno a rendere una giustizia rapida, efficace, serena, che rassicuri e ispiri fiducia, che sappia conciliare il diritto dello Stato ad affermare il proprio potere, nel nostro caso a perseguire il danno erariale, con i diritti del cittadino a una giustizia giusta”. Fino a un’altra considerazione sacrosanta sul peso della giustizia mediatica: “Il tempo che scorre è già una condanna, specie se già il solo fatto di essere sottoposti a un processo viene comunque strumentalizzato attraverso una micidiale macchina del fango, sui media e sui social network”. Un discorso che sarebbe bello sentir ripetere a ogni inaugurazione dell’anno giudiziario. Il presidente Miele non ha mancato di soffermarsi sul tradizionale consuntivo dell’attività svolta dal suo ufficio nell’anno precedente: “Nel corso del 2020 la sezione ha definito 97 giudizi di responsabilità ed emesso 18 ordinanze istruttorie”. Quanto alla durata dei giudizi di responsabilità, si è riusciti a definirli “in tempi assolutamente ragionevoli e certamente inusuali rispetto al corso della giustizia ordinaria nel nostro Paese, vale a dire in una media di circa 18 mesi”. Ed è difficile dubitare che, oltre ai tempi brevi, siano state assicurate anche tutte le garanzie costituzionale evocate da Miele nel suo intervento. Cartabia: solo prove orali per sbloccare il concorso per gli avvocati di Liana Milella La Repubblica, 28 febbraio 2021 A causa della pandemia la Guardasigilli scrive al Cts per verificare la fattibilità di prove scritte, a cui parteciperebbero 26mila candidati costretti a stare nello stesso ambiente per molte ore. Marta Cartabia, la neo Guardasigilli, prova a evitare che esploda, di qui a poco, la bomba dei giovani praticanti avvocati. Per questo scrive al Cts per chiedere se, effettivamente, le prove scritte, fissate per la metà di aprile, sono compatibili con l’emergenza sanitaria. Contemporaneamente ipotizza - almeno per questa volta, e quindi non “a regime” - di ripiegare su una prova sostitutiva, che per adesso da via Arenula hanno ribattezzato come “un orale rinforzato”. È un passo politicamente accorto. E che - ma questo è solo un pettegolezzo - anticipa l’arrivo al ministero della Giustizia, dopo il giuramento al Quirinale di lunedì prossimo, dei due sottosegretari, entrambi avvocati pugliesi, Francesco Paolo Sisto di Forza Italia e Anna Macina di M5S. Ed è anche, come sottolineano dall’entourage di Cartabia, un passo a cui la ministra tiene molto, attenta com’è al futuro dei giovani e al loro ingresso nella professione. Proprio per questo Cartabia ha scelto Gian Luigi Gatta come consigliere per le questioni che riguardano le professioni, e quindi anche gli avvocati. Ordinario di diritto penale alla Statale di Milano, dove dirige dal 2017 anche il Dipartimento di Scienze giuridiche “Cesare Beccaria”, Gatta fa parte anche del comitato direttivo della Scuola della Magistratura. E dirige la rivista “Sistema penale”, dove ha affrontato ripetutamente il tema della prescrizione. Ma qual è l’obiettivo di Cartabia sugli avvocati? La questione è caldissima, perché sono ben 26mila i potenziali avvocati che attendono di poter fare la prova scritta. Ovviamente rinviata nella scorsa primavera a causa del Covid, e poi ancora fermata in autunno per le stesse ragioni. Ora con la prospettiva praticamente certa di un nuovo salto rispetto alla data - la metà di aprile - fissata dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. A dicembre, proprio contro Bonafede, le polemiche dei giovani avvocati sono state particolarmente dure. E tra chi attaccava l’ex ministro c’era la Lega, con l’ex sottosegretario alla Giustizia nel governo gialloverde Jacopo Morrone. “È assurdo - diceva Morrone a novembre 2020 - che il ministro abbia deciso e comunicato il rinvio delle prove scritte per l’esame di avvocato poco più di un mese prima della data prevista. Che vi fosse il rischio di dover rinviare l’esame era chiaro da mesi. Chi rimborserà i futuri professionisti per le spese effettuate inutilmente?! Probabilmente nessuno!”. Adesso ecco la novità di una possibile prova orale sostitutiva di quella scritta. Un “orale rafforzato” secondo la descrizione di chi sta lavorando con Cartabia. Sarebbe l’unica via per evitare un assembramento oggi di fatto impossibile, poiché la prova scritta comporta la permanenza dei concorrenti per molte ore nello stesso luogo. E già la suddivisione di 26mila persone è evidentemente problematica. Le prove si svolgono nelle Corti di Appello, e a Roma e Milano i candidati sono oltre 3mila e a Napoli oltre 4mila. Il Cts aveva già dato un parere a novembre in vista dell’inevitabile rinvio a dicembre, sottolineando che l’assembramento all’esterno degli edifici e la durata delle prove, almeno sette ore consecutive, non erano compatibili con la pandemia. La volontà della ministra è di fare le prove, ma di farle in sicurezza. Se il parere del Cts fosse negativo, soprattutto alla luce dell’ultimo Dpcm emesso dal governo, sarebbe necessario comunque ricorrere a un decreto legge ad hoc per questo concorso. La prova orale dovrebbe verificare l’esistenza effettiva delle stesse competenze richieste dalle prove scritte. Nel corso della settimana che va a chiudersi, Cartabia, oltre a mettere in piedi il suo nuovo staff, ha lavorato per superare le difficoltà del concorso. Giungendo alla soluzione di verificare, in via preventiva, il parere del Comitato tecnico scientifico. E poi, ottenuto il responso, il ministero metterà a punto la proposta alternativa. Sarebbe una vera rivoluzione per il concorso degli avvocati - ma in prospettiva anche per tutti i concorsi in tempi di Covid, come quelli dei magistrati e del personale amministrativo - che potrebbe rivoluzionare tutta la questione. La pandemia si abbatte anche sui Tar: nel 2020 il 28% dei ricorrenti in meno di Thomas Mackinson Il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2021 Non solo prescrizione e processo civile. Il 2020 ha travolto l’attività dei tribunali amministrativi dove tra udienze saltate, rallentamenti e lockdown tre italiani su dieci hanno rinunciato a farsi valere. Nel Lazio, dove si materializza un terzo di tutti i ricorsi d’Italia, situazione critica: ad affrontare un boom di ricorsi per Dcpm ed emergenza solo 61 magistrati (il 27% della pianta organica). Per stare al passo ciascuno dovrebbe decidere un ricorso al giorno. Nel 2020 i ricorsi ai Tar d’Italia sono stati 42.732, 8mila in meno rispetto all’anno prima. Ma gli italiani non hanno affatto smesso di litigare. La riduzione è effetto della maledizione del Covid che, al pari dell’economia, è un bastone infilato tra gli ingranaggi lenti, pesanti e arrugginiti della giustizia. Specie quella amministrativa, dove la soppressione ex lege di numerose udienze nel periodo iniziale della pandemia ha portato alla diminuzione dell’8% del numero delle sentenze emesse. Ma il dato forse più significativo è relativo ai ricorsi: il 28% in meno rispetto al 2019, che è come dire che tre italiani su dieci nel primo anno di pandemia hanno rinunciato a chiedere giustizia. Lo stato di salute dell’Italia si misura anche da qui, e un termometro utile è il Tar di Roma, dove ogni anno si materializza un terzo dei contenziosi di tutta Italia. Oggi il presidente Antonino Savio Amodio ha illustrato la relazione sull’anno giudiziario 2020 fornendo un quadro preoccupante. Fino al 31 luglio le udienze sono state celebrate da remoto per legge, riducendo l’accesso al Tribunale alle sole urgenze. Il Covid ha modificato perfino la natura del contenzioso, facendo emergere una nuova tipologia: il “contenzioso dell’emergenza”. “Indubbiamente la principale novità dell’anno trascorso è rappresentata dai numerosi ricorsi proposti avverso i provvedimenti assunti per far fronte all’emergenza da Covid-19, in particolare i D.P.C.M. Due sono le particolari implicazioni processuali riscontrate in ordine a tali impugnative: - la loro appartenenza alla sfera della cd. alta amministrazione, che ha reso oltremodo delicata la ricerca del punto di equilibrio tra effettività della tutela giurisdizionale e rispetto dei limiti della discrezionalità amministrativa; - e il rapido succedersi di tali decreti, sempre ad efficacia temporanea”. Tra le sentenze “emergenziali” più note e discusse, quella sull’affidamento ai medici dell’assistenza domiciliare ai malati Covid, sulle mascherine in classe, gli “errori” di regione Lombardia sui contagiati, le zone contese etc. Questa particolare forma di contenzioso si è aggiunta a quello “ordinario” del Tribunale, dove il giudizio spesso incide su interessi diffusi (mercato, tutela del consumatore…) con ricadute economiche e sociali che vanno ben oltre l’interesse del singolo amministrato. Nel 2020 al Tar del Lazio si devono, ad esempio, la sentenza che inchioda Apple alla sanzione da 10milioni di euro per aver spinto gli utenti a cambiare modello di Iphone. Tra le questioni di rilievo costituzionale le impugnazioni dei decreti di indizione del referendum sul “taglio dei parlamentari”, ma anche giudizi sui provvedimenti del Csm. Poi giudizi con forte impatto sociale, uno per tutti: quelli relativi all’attribuzione delle ore di sostegno agli studenti disabili. Il tutto, e siamo alla nota dolente, con una persistente scarsità di risorse umane che è un fattore condizionante per il buon andamento di qualsiasi organo di giustizia. Amodio lo mette nero su bianco, come fosse una prova di tenuta rispetto all’eccezionalità della situazione, che il tempo medio di definizione dei ricorsi si è attestato su poco più di 3 anni (1.117 giorni), una variazione di circa 6 mesi in più rispetto al 2019, “dovuta al rallentamento dell’attività decisionale imposto dall’emergenza sanitaria”. E il perché, però, ha a che fare solo in parte col Covid e molto con la cronica sofferenza degli organici. “A fronte della previsione teorica di 90 unità, vi è, intanto, una scopertura del 27%. Inoltre, la presenza media, nel corso del 2020, è stata di 61 magistrati, di cui 9 con funzioni presidenziali. Ciò comporta che, alla luce del numero dei ricorsi depositati, ciascun giudice in servizio (al netto degli incaricati di funzioni semi-direttive) avrebbe dovuto concorrere, nell’anno, ad esaminare e decidere (come relatore/estensore) 223 impugnative”. I giorni lavorativi sono 250: significa decidere un ricorso al giorno. A Roma, come si è visto tra le sedi più importanti, la situazione potrebbe migliorare grazie al “mille-proroghe” che prevede di rafforzare gli organici (10 magistrati al Tar del Lazio) e all’istituzione, nel 2021, di quattro nuove sezioni (due esterne, due interne) che saranno attivate dopo il concorso per 40 posti da referendario (si stanno correggendo gli scritti). Ma se arriva un ricorso, vista la situazione dei Tar raccontata dai Tar, c’è da incrociare le dita. “Abuso d’ufficio? Per come è adesso tanto valeva abolirlo” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 28 febbraio 2021 Per il magistrato Giorgio Fidelbo, presidente di Sezione della Corte di Cassazione, la normativa emergenziale dell’ultimo periodo ha prodotto una “politica criminale all’impronta”. Quasi schizofrenica. O meglio, “strabica”. Prendiamo il reato di abuso d’ufficio: secondo Fidelbo, l’intervento riformatore del legislatore ha finito soltanto per “depotenziarlo”, realizzando di fatto “un arretramento nel contrasto alla illegalità amministrativa”. Al punto che “eliminarlo del tutto potrebbe essere più coerente…”. Presidente, ci spieghi perché... Il reato di abuso di ufficio, dopo la recente riforma operata con il decreto legge n. 76 del 2020, è stato stravolto completamente, sicché già è stata operata una sua parziale abolizione. Sono dell’idea che la formulazione precedente, quella nata con la legge del 1997, aveva migliorato sensibilmente la fattispecie penale, modellando un reato con un tasso di tipicità e di articolazione molto superiore rispetto al vecchio abuso d’ufficio, che effettivamente era stato delineato come un gigantesco contenitore, in cui confluivano diverse fattispecie, il che consentiva, effettivamente, applicazioni sorprendenti e non prevedibili da parte del giudice penale, determinando appunto la paralisi del funzionario pubblico. Lei fa riferimento al decreto semplificazioni dello scorso luglio, con il quale il legislatore ha ristretto l’applicabilità della norma alle “violazioni di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Con quale effetto? Se, come sembra, la riforma era diretta ad eliminare del tutto la possibilità che il giudice penale possa attentare alla discrezionalità amministrativa, il risultato potrà essere quello di un sindacato penale rivolto soltanto all’attività vincolata della pubblica amministrazione, coinciderà cioè con il controllo dell’amministrazione nella sua attività meno significativa, quella meramente esecutiva, diretta cioè ad occuparsi di mere bagatelle che fino ad ora il giudice penale non ha mai nemmeno considerato, mentre resteranno penalmente irrilevanti tutta una serie di condotte che la giurisprudenza faceva rientrare nello sviamento di potere: si pensi ai favoritismi indebiti, allo sfruttamento privato, alla prevaricazione arbitraria, tutte situazioni che spesso ritroviamo nelle vicende amministrative. Siamo in presenza di una riforma che persegue un obiettivo di politica criminale che appare incomprensibile, nella misura in cui finisce per innalzare un muro contro la discrezionalità dell’amministrazione, con il rischio di sottrarre al vaglio di legalità le condotte più insidiose da parte del funzionario pubblico. Una politica criminale “all’impronta”, che continua ad essere orientata dall’emergenza e che avvertiamo come strabica: dopo meno di un anno dalla legge n. 3 del 2019, meglio conosciuta come “spazza-corrotti”, che si è posta la finalità di “combattere” la corruzione e, in genere, la criminalità amministrativa con misure assai aggressive, in alcuni casi spostando il baricentro verso la legislazione in materia di criminalità organizzata, senza neppure cogliere la differenza tra i diversi fenomeni criminali, improvvisamente si assiste ad una inversione di tendenza, con un legislatore che ci consegna un abuso di ufficio totalmente depotenziato, realizzando un arretramento nel contrasto alla illegalità amministrativa. Due interventi, entrambi, fuori misura, sicuramente contraddittori. In occasione di un convegno sul tema, Lei ha sottolineato che il problema dell’abuso di ufficio, più che la sanzione penale, è il danno di immagine prodotto dall’apertura delle indagini che finisce per ostacolare l’attività di politici e amministratori... La riforma, che ha quasi eliminato il reato di abuso d’ufficio, non coglie l’obiettivo di mettere davvero il funzionario pubblico al riparo da iniziative giudiziarie. Non è la formulazione della norma che “paralizza” il funzionario, bensì il solo fatto che viene iniziata una indagine, magari per un reato più grave. Anche a voler ammettere che possono esservi stati casi di uso strumentale delle indagini, va comunque detto che le indagini nascono perché c’è una denuncia di un cittadino che ritiene di essere vittima di un abuso, di un sopruso, di un favoritismo a vantaggio di altri e su queste denunce il pubblico ministero non può far altro che aprire un fascicolo e iniziare l’indagine. È anche vero che nel corso delle prime indagini spesso si omettono accertamenti approfonditi e si preferisce rinviare a giudizio l’imputato. Ma è altrettanto vero che le denunce che arrivano nelle procure della Repubblica sono la conseguenza dell’incapacità della pubblica amministrazione di operare con imparzialità ed efficienza, sono il sintomo dell’incapacità dell’amministrazione di assicurare la tutela delle situazioni soggettive e degli interessi che andrebbero presi in considerazione attraverso un’attenta ponderazione e tale incapacità è causata spesso dalla stessa normativa amministrativa che è chiamata ad applicare il funzionario. La prima e più efficiente difesa del cittadino dovrebbe essere rinvenuta nelle norme che l’amministrazione deve applicare, che dovrebbero essere nitide e precise. Solo a queste condizioni le iniziative giudiziarie basate su fattispecie incriminatrici incentrate sulle modalità di esercizio del potere possono e debbono trovare un argine naturale, diversamente questo argine non ci sarà. In molti casi le accuse per questa fattispecie finiscono con una sentenza di assoluzione. O addirittura non si giunge a processo, anche per la difficoltà di dimostrare il dolo... Esiste un rapporto sbilanciato tra indagini avviate e le poche condanne pronunciate. Il numero dei procedimenti per il reato di cui all’art. 323 c. p. pervenuti in Corte di cassazione è sempre stato molto esiguo, con elevatissime percentuali di annullamento. Questo dato è la riprova che la riforma del 1997 aveva realizzato un forte sforzo di tipizzazione della fattispecie penale, in cui tra l’altro l’ambito di applicazione era stato fortemente limitato dalla stessa giurisprudenza, che ha sempre assegnato un rilievo selettivo al dolo intenzionale. Quale soluzione intravede per il fenomeno della “fuga della firma”? Ritengo che il problema sia ancora una volta la pubblica amministrazione, che dovrebbe essere in grado essa stessa di reagire al suo interno a quelle che conosciamo essere forme di abuso di potere, di favoritismi, di preferenze indebite. Ad esempio, potrebbe essere utile ragionare su una proposta che il professore Antonio Pagliaro fece una ventina di anni fa: rivitalizzare l’azione disciplinare, prevedere sanzioni disciplinari proporzionate alla gravità del fatto, costruire un diverso rapporto con il procedimento penale al fine di evitare, ove possibile, l’applicazione della sanzione penale. L’esperienza di altri ordinamenti stranieri dimostra che il funzionamento tempestivo ed effettivo del procedimento disciplinare non rende necessaria la previsione di specifici reati e, quindi, riduce l’intervento del giudice penale sull’amministrazione. Sequestro Shalabayeva, perché hanno condannato i poliziotti e salvato i pm? di Claudia Fusani Il Riformista, 28 febbraio 2021 Questa è una storia che ha più domande che risposte. Che ne intreccia altre, tra cui il libro dell’ex magistrato Luca Palamara “Il Sistema”, e lascia sensazioni scomode, che inquietano. Ad esempio, che le indagini talvolta dimenticano pezzi importanti per strada. Per errore, per volontà o per sciatteria, al netto dell’umana fallibilità? È una storia che potrebbe cambiare copione grazie a due variabili non previste. La prima è il virus che ha fatto slittare la sentenza di un processo di primo grado da aprile a ottobre 2020 e le motivazioni a gennaio 2021 (ne parliamo poco più avanti). La seconda è appunto il libro di Palamara, uscito a ridosso di quelle motivazioni. A pagina 87 si legge: “A gennaio del 2015 mi attivo fortemente (è Palamara a parlare, ndr) per la nomina di Luigi De Ficchy a procuratore di Perugia. Ma non è tutto lineare. Pignatone (procuratore a Roma, ndr) infatti non la prende per niente bene, perché teme fortemente che la competenza di Perugia sui magistrati romani possa creare dei problemi alla luce del contenzioso tra De Ficchy e Prestipino (l’aggiunto che Pignatone ha scelto come suo braccio destro a Roma, protagonista al suo fianco delle più importanti indagini contro la mafia condotte in Calabria e in Sicilia, ndr). Anche in questo caso mi attivo per trovare un punto di equilibrio. Nei mesi successivi organizzo un incontro a tre: io, Pignatone e De Ficchy. Ci vediamo al bar Vanni, a Roma, zona Prati, una conversazione riservata che si svolge in una sala privata al piano superiore (…). La pace siglata tra i due durerà però molto poco: di lì a breve (nel 2016, ndr) la Procura di Perugia aprirà un’indagine nei confronti di uno dei più stretti collaboratori del procuratore Pignatone. Si tratta di Renato Cortese, autore della cattura di Provenzano e capo della squadra Mobile di Roma, che insieme a Maurizio Improta, responsabile dell’Ufficio Immigrazione della stessa Questura, nell’ottobre 2020 verrà condannato per la vicenda Shalabayeva, la frettolosa espulsione dall’Italia della moglie di un dissidente kazako. Indagine condotta da Antonella Duchini, in quel momento la più stretta collaboratrice di De Ficchy”. Occorre adesso fissare nella mente queste due variabili impreviste e tornare alla cronologia dei fatti. C’è un tribunale, quello di Perugia, che è convinto di aver raggiunto la verità circa la “frettolosa espulsione dall’Italia della moglie del dissidente kazako”: l’ottobre scorso ha condannato due investigatori di razza nell’antimafia e nell’antiterrorismo, i questori Cortese e Improta appunto, altri quattro funzionari di polizia e un giudice di pace per sequestro di persona e falso documentale. Accuse gravi che macchiano per sempre l’onore di chi invece ha scelto di servire lo Stato, da poliziotto o da giudice. I fatti risalgono al maggio 2013 (dopo otto anni siamo alla sentenza di primo grado…) e riguardano un caso all’epoca clamoroso, l’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia Aula, 6 anni, moglie e figlia del politico dissidente e imprenditore kazako Muktar Ablyazov, ricercato all’epoca da tre paesi (Russia, Kazakstan, Ucraina) per vari reati fiscali e aver sottratto decine di milioni dalla Banca centrale di Astana di cui era stato presidente. Nelle motivazioni depositate il mese scorso si parla di “rapimento di Stato” e si afferma che “per tre giorni è stata compressa la sovranità nazionale”. Fermiamoci brevemente su quei fatti. Nella notte tra il 28 e il 29 maggio 2013, in una villetta di Casal Palocco, zona residenziale a sud di Roma, irrompono 50 agenti della Digos e della squadra mobile allertati da un’informativa dell’ambasciata del Kazakistan sulla possibile presenza di Ablyazov sul quale pende il mandato di arresto internazionale. Nella villetta non c’è l’ex oligarca ma solo Alma e Aula, ospiti di Venera, sorella di Alma, e del marito. Gli agenti trasferiscono la donna nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria contestando l’autenticità del documento esibito, un passaporto emesso dalla Repubblica centroafricana intestato ad Alma Ayan. La sera del 31 maggio, alle 22.30, la donna e la figlia vengono imbarcate su un volo con destinazione Astana. Il provvedimento di espulsione è possibile grazie al nulla osta della Procura di Roma. In calce ci sono le firme del procuratore Pignatone e del pm di turno, Albamonte. Le indagini sulla vicenda restano alla Procura di Roma fino al 2016, poi vengono trasferite a Perugia perché tra gli indagati c’è un giudice di pace della Capitale che ha “attratto” la competenza in Umbria. Sempre a Perugia vive Madina Shalabayeva, sorella maggiore di Alma nonché moglie di un altro oligarca riparato in Svizzera, Ilias Krupanov, che nel 2014 aveva già presentato una denuncia per sequestro di persona. Il pm che riceve la denuncia di Madina Shalabayeva, e che poi nel 2016 attrae da Roma l’indagine sui poliziotti, si chiama Antonella Duchini, successivamente indagata a Firenze e trasferita dal Csm. I dettagli sono sostanza in questa storia complicata. Eccone altri, utili a fissare il contesto. La Procura di Perugia all’epoca è guidata da Luigi De Ficchy, “rivale” di Pignatone che non lo sceglie come aggiunto nella Capitale. De Ficchy è anche il procuratore che nel 2017 (quindi dopo l’incontro al bar Vanni) indaga il magistrato Luca Palamara per corruzione (il gup proprio nei giorni scorsi ha chiesto all’accusa di specificare meglio le accuse nell’udienza preliminare) e che autorizza l’uso del trojan per intercettarlo. Le chat e le conversazioni captate dal trojan (fiore all’occhiello del ministro Bonafede) saranno poi all’origine dello tsunami che ha travolto il Csm, Palamara e tutta la magistratura, mettendo allo scoperto gli scontri tra le correnti della magistratura e gli accordi spartitori per le nomine apicali di procure e tribunali. De Ficchy ha lasciato la Procura di Perugia due giorni prima che, a fine maggio 2019, i giornali comincino a pubblicare le intercettazioni del trojan di Palamara. Infine, qualche riferimento politico, anche questo utile. A maggio 2013, il governo Letta ha da poco nominato a capo della polizia il prefetto Alessandro Pansa, dopo un periodo di vacatio dovuto alla prematura scomparsa del prefetto Manganelli. Il governo Letta ha in maggioranza il nuovo partito di Angelino Alfano, ministro dell’Interno, creato dopo la traumatica scissione da Forza Italia. Torniamo all’indagine sulla “frettolosa espulsione” di Alma Shalabayeva e della figlia. Il passaporto trovato nella villetta di Casal Palocco risulta, come si è detto, falso. Motivo per cui viene avviata la procedura di espulsione. I notam dell’Interpol parlano di un ricercato per reati finanziari (il marito Ablyazov) che non gode e neppure ha mai richiesto lo status di rifugiato politico. Motivo per cui neppure la moglie può essere compresa sotto questa protezione. Il 31 maggio 2013, quindi, il procuratore Pignatone e il pm Albamonte, dopo vari scambi di carteggi con il capo della Mobile Cortese e il responsabile dell’Ufficio Immigrazione Improta, completano il fascicolo per l’espulsione con tanto di firma del giudice per i minori. Sempre il 31 maggio, nel primo pomeriggio, quando Alma e la figlia sono ancora a Ponte Galeria, si presentano in Procura a Roma i loro legali Riccardo e Federico Olivo, che comunicano che la donna ha la protezione diplomatica come risulta dal passaporto della Repubblica centroafricana. Passaporto che però è palesemente falso. Alle 17.30 Pignatone e Albamonte firmano il nulla osta e alle 22.30 mamma e figlia sono in volo per Astana. Dopo due giorni scoppia il caso: Shalabayeva diventa la cittadina più monitorata a livello internazionale. Emma Bonino, ministro degli Esteri, accende i riflettori e si mette al lavoro per proteggere madre e figlia che infatti torneranno in Italia pochi mesi dopo con un visto turistico, ottenendo poi l’asilo politico. Placate le acque mediatiche, la Procura di Roma, tra qualche imbarazzo visto che aveva autorizzato la partenza della donna, prosegue le indagini e nel maggio 2014 il pm Albamonte indaga per abuso e omissione il capo dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta, insieme a suoi quattro collaboratori. Poiché tra gli indagati c’è il giudice di pace romano che seguì la pratica di esplulsione, il fascicolo emigra direttamente a Perugia per competenza. Dove lo aspettano, e a quanto pare già da un pezzo, De Ficchy e l’aggiunta Duchini. Tra i primi atti istruttori c’è il verbale del pm Albamonte. Che mette nero su bianco che la Procura autorizzò la partenza di Shalabayeva e della figlia perché i documenti centrafricani della donna erano falsi e da nessuna parte risultava che godesse dello status di rifugiato politico. La domanda è: se così stanno le cose, perché Perugia cinque anni dopo arriva a condannare con accuse pesanti i due poliziotti e non coinvolge l’ufficio della Procura romana che firmò il nulla osta? Perché, soprattutto, il Tribunale non ha mai ammesso le testimonianze del sostituto Albamonte? Se errore ci fu, fu commesso da tutti, e non solo da una parte. Diversamente, non ci fu errore. E allora le condanne di oggi sono da rivalutare. A questo punto merita leggere alcuni passaggi del verbale che Albamonte rese all’aggiunto di Perugia Antonella Duchini. È il 2 marzo 2016, il fascicolo sull’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia (maggio 2013) è da poco stato trasferito a Perugia. Il dottor Albamonte ripercorre le ore del 31 maggio 2013. A metà mattina - racconta - “arrivò la telefonata del dottor Cortese (Mobile e Ufficio Immigrazione della questura di Roma erano responsabili della pratica per l’espulsione per cui era necessario il nulla osta della Procura, ndr) che chiese se c’erano motivi ostativi a negare il nulla osta. Domanda alla quale risposi non ravvisando tali motivi”. Si tratta a tutti gli effetti di un nulla osta verbale. È una giornata intensa, quella, segno che il caso della signora Alma Ayan (questo il nome noto in Procura) assume subito un certo peso. Dopo la telefonata infatti si presenta in ufficio l’avvocato Federico Olivo, vecchia conoscenza del dottor Albamonte: “Mi disse che c’era un problema perché era stato sequestrato un passaporto che risultava contraffatto mentre invece era originale ed era anche un passaporto diplomatico”. A favore di queste tesi, l’avvocato mostra documenti consolari della Repubblica centroafricana che attestano l’autenticità del documento. Nella stessa conversazione l’avvocato “riferì anche che non tanto la signora quanto il marito era un oppositore politico del regime kazako, circostanza che risultava anche da fonti aperte”. Non un segreto di Stato, quindi. A quel punto Albamonte va dal procuratore aggiunto titolare del fascicolo (il dottor Rossi che poi però esce di scena per impegni personali) dove trova il padre di Federico Olivo, Riccardo. Insomma, il nulla osta verbale viene momentaneamente sospeso in attesa di verifiche sull’autenticità del passaporto diplomatico sequestrato dalla squadra mobile. La verifica però non fa cambiare idea: “Ci convincemmo - racconta Albamonte - che gli atti prodotti dalla difesa non erano sufficienti a escludere la falsità del passaporto diplomatico a nome Alman Ayan”. Dopo qualche minuto telefona il dottor Improta che sostiene di avere altro materiale utile al caso. “Il dottor Improta mi disse anche che l’Ufficio Immigrazione aveva bisogno di tempi celeri perché avevano la disponibilità da lì a poche ore di un volo per Astana”. Non potendo assicurare tempi celeri, il magistrato suggerisce - poi dirà di non aver mai saputo della presenza di una minore - di riportare la donna al Cie di Ponte Galeria. Albamonte sottopone il caso al procuratore Pignatone. Nel frattempo si fa pomeriggio. La documentazione aggiuntiva inviata da Improta consiste nella nota di Polaria di Fiumicino; della nota kazaka datata 30.5.2013 da cui risulta che “il vero nome di Alma Ayan è Shalabayeva, titolare di due validi passaporti kazaki e di un falso passaporto a nome Ayan”; la nota del cerimoniale del Ministero degli Esteri da cui risulta che “il nominativo di Ayan Alma era stato oggetto di una richiesta di accreditamento diplomatico per il Burundi ma che la pratica risultava poi essere stata revocata”. Raccolta e analizzata tutta la documentazione, Albamonte e Pignatone valutano che “il passaporto era falso come stabiliva la nota dell’autorità kazaka”. Inoltre, “il tema della posizione di Ablyazov rispetto al regime kazako non fu centrale nelle nostre valutazioni. Avevamo la pro-va della falsità del documento. La presenza dell’indagata sul territorio italiano (richiesta dagli avvocati Olivo, ndr) non era dirimente. Tutto questo rese possibile il rilascio del nulla osta”. Nello stesso verbale Albamonte sottolinea che “nessuno gli aveva mai detto le vere generalità della donna erano Alma Shalabayeva” e che “non mi era mai stato rappresentato che l’espulsione potesse comportare rischi per l’incolumità della donna”. Il magistrato, proprio in chiusura di verbale, sottolinea di “non aver saputo che era coinvolta una bambina” e che nessuno gli disse che nella villa di Casal Palocco erano state rinvenute “mail da cui risultava che il nome di Alma Ayan era in realtà il nome usato da Alma Shalabayeva per ragioni di sicurezza”. Due circostanze che sembrano essere contraddette dalla lettura degli atti inviati in Procura il 31 maggio dal dottor Improta. L’oggetto scritto in testa al documento è infatti “Shalabayeva Alma alias Ayan Alma”. Nello stesso documento si legge: “Pertanto la Shalabayeva è nella condizione di essere rimpatriata unitamente alla figlia minore attualmente affidata a persona nominata dal Tribunale dei minori”. Conviene qui subito dire che la bambina partì regolarmente con la mamma, come prevede la legge, e che la procedura fu seguita dal giudice dei minori, che non risultano forzature o costrizioni e che anche all’arrivo ad Astana la donna e la figlia condussero una vita protetta fino a dicembre quando il governo italiano, a mo’ di scuse, le fece tornare in Italia con un regolare permesso. Nel frattempo il marito era in carcere a Nizza arrestato per fini estradizionali. Non ultima, va riportata la nota Interpol firmata dall’allora segretario generale Ronald Noble. La data è del 23 luglio 2013. “In sintesi - si legge - per quanto riguarda l’Interpol e qualsiasi paese membro il signor Ablyazov era un soggetto ricercato da tre paesi membri Interpol per gravi reati. Nessun paese membro Interpol sarebbe stato (il 31 maggio, ndr) in grado di sapere attraverso il segretariato generale che il Regno Unito aveva concesso ad Ablyazov lo status di rifugiato politico”. Come potevano quindi Procura e Mobile sapere che la moglie sarebbe stata a sua volta in pericolo tornando ad Astana? Leggendo le motivazioni della sentenza che ha condannato Improta, Cortese e gli altri poliziotti i giudici sembrano invece essere partiti dall’assunto che quello fu un “sequestro di persona”, quasi una “deportazione” e non di una regolare espulsione. Quella di Alma Shalabayeva è stata certamente una vicenda strana e per fortuna senza conseguenze su mamma e figlia. E questo è quanto più conta. Restano però aperte molte domande. La prima: come funzionò davvero la catena di comando che innescò l’irruzione a Casal Palocco? La seconda: dalla relazione del capo della polizia prefetto Pansa si desume che il capo della Squadra Mobile deliberò l’operazione sulla base dell’input ricevuto dall’ambasciatore kazako. È tuttavia evidente che né Cortese né Improta avrebbero potuto decidere autonomamente quella espulsione. Perché, poi, la Procura di Perugia non sentì tra i testimoni anche il procuratore Pignatone e il pm Albamonte? La lista delle domande sarebbe ancora lunga. E chissà che una chiave per trovare le riposte non possa trovarsi anche in quell’incontro al bar Vanni tra i due Procuratori di Roma e Perugia di cui parla Palamara nel suo libro. Tutto questo merita un approfondimento. Caserta. Agente penitenziario muore per Covid a Carinola, è il secondo di Elena Del Mastro Il Riformista, 28 febbraio 2021 Secondo morto nel Carcere di Carinola, in provincia di Caserta. Ieri, colpito dal Covid-19, è morto l’ispettore Giuseppe Matano che appena 3 giorni fa aveva compiuto 50 anni. A renderlo noto è Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria S.PP. “Scompare silenziosamente un altro Servitore dello Stato, lasciando la moglie e due figli. Sono due i poliziotti penitenziari morti nel giro di 10 giorni nel Carcere di Carinola e 9 dall’inizio della pandemia - spiega Di Giacomo - Siamo preoccupati per tre diversi ordini di motivi: l’ambiente carcerario è un ambiente chiuso per questo la probabilità di diffusione del virus è maggiore; nel corso della terza ondata ormai iniziata, le varianti sono molto più pericolose del virus allo stato precedente; le norme di prevenzione da sole non sono efficienti e che non bastano è ormai dimostrato, pertanto è necessario che tutti siano vaccinati immediatamente”. All’appello di Di Giacomo si aggiunge quello de Garante Campano per i detenuti Samuele Ciambriello: “Chiedo alle autorità sanitarie campane, al provveditore dell’Amministrazione penitenziaria di avviare al più presto la vaccinazione nelle strutture chiuse del carcere, sia per agenti di polizia penitenziaria che per i detenuti che ne facciano richiesta, visto l’elevato stato di promiscuità e di rischio”. Matano è il quarto agente a morire per Covid in Campania, così some sono quattro i detenuti morti per Covid e il medico sanitario di Secondigliano. Ciambriello aggiunge: “In molte Regioni sono iniziate le vaccinazioni per agenti di polizia penitenziaria. Il Virus è entrato da mesi dietro le sbarre e la sua avanzata non pare arrestarsi. Comunico altresì che la magistratura di Sorveglianza ha prorogato, fino alla fine di aprile, le licenze a casa per i semiliberi”. Di Giacomo poi spiega che bisogna fare molta attenzione perché se le varianti dovessero entrare nel Carcere, contagiando anche la popolazione detenuta, sarebbe una ecatacombe. “Ci stringiamo intorno al dolore destato dalla scomparsa dell’ispettore Giuseppe Matano ed esprimiamo le nostre condoglianze alla famiglia”, ha detto. Anche il sindacato Osapp informa sul decesso e spiega che altri poliziotti penitenziari sono ricoverati nei reparti di rianimazione. L’organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, per voce del segretario generale Leo Beneduce, spiega: “Nei giorni scorsi nell’istituto penitenziario di Carinola - prosegue il sindacalista - si era sviluppato un preoccupante focolaio di Covid19, che ha progressivamente coinvolto 10 appartenenti alla popolazione detenuta, per quanto si apprende, privi al momento di particolari sintomatologie e circa una trentina di appartenenti alla Polizia penitenziaria di cui 2 deceduti mentre un terzo risulta ricoverato in rianimazione, in imminente pericolo di vita”. Beneduci dell’Osapp aggiunge: “Se la presenza dei necessari presidi di protezione individuale ha probabilmente contenuto l’ulteriore propagarsi dell’infezione, soprattutto nella popolazione detenuta e le consistenti assenze dal lavoro per quarantena del personale sono state progressivamente integrate dall’arrivo dall’esterno di ulteriori addetti del Corpo - indica ancora il leader sindacale - quanto accaduto a Carinola rende di drammatica attualità il problema, ad oggi non ancora affrontato debitamente, di una urgente vaccinazione di massa all’interno del sistema penitenziario, attese le attuali condizioni di convivenza e di lavoro in luoghi chiusi, pressoché privi di areazione e con tangibili segnali di vetustà quali quelli penitenziari”. Caserta. Carceri, la moglie dell’agente ucciso dal Covid: “Mai fatto un tampone” Corriere del Mezzogiorno, 28 febbraio 2021 “Pino a Carinola non ha mai lavorato in sicurezza, lo Stato non tutela i suoi servitori e chiederò giustizia”. “Voglio raccontare a tutti quello che è successo, voglio che tutti sappiano il dramma assurdo che ha colpito la mia famiglia, che ha ucciso Pino e che, si badi bene, non è una casualità. Mio marito da quando è iniziata la pandemia non ha mai fatto tamponi nell’istituto penitenziario presso cui lavora (Carinola, ndr). Non ha mai ricevuto adeguate protezioni dal contagio sul posto di lavoro. Non è stato mai tutelato. Lo Stato lo ha fatto morire...”. È la denuncia della moglie di Giuseppe Matano, il sostituto commissario che prestava servizio nel carcere casertano di Carinola deceduto a soli 50 anni, compiuti lo scorso 23 febbraio, a causa del Sars-Cov-2. A pubblicarla sul Facebook è stato il figlio Luca, a nome della madre, Barbara Greco, che si scaglia contro le istituzioni. “Il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute - scrive ancora Barbara Greco nel messaggio - il 7 aprile ha pubblicato un bollettino. Anche qui solo parole per i detenuti. Si parla solo di detenuti. E del personale della Polizia Penitenziaria chi ne parla? Chi mi spiega come mai nel carcere di Carinola, dove mio marito lavorava, il 6 febbraio 2021 sono risultati positivi contemporaneamente 17 tra agenti e ispettori di Polizia Penitenziaria (di cui uno deceduto 2 giorni dopo, seguito oggi da mio marito), un infermiere ed un operatore sanitario, mentre le centinaia di detenuti sono risultati (a seguito di tamponi effettuati a tappeto) tutti negativi? Come mai l’Amministrazione Penitenziaria si è precipitata a sottoporre a tampone molecolare l’intera popolazione di detenuti del carcere dopo la scoperta di questo cluster tra agenti?”. Il post si chiude con una promessa: “non avrò pace finché lo Stato non risponderà alle mie domande e, se come immagino, le risposte non saranno soddisfacenti, non mi fermerò e chiederò giustizia per l’omicidio (perché questo sarebbe) di mio marito”. Padova. Focolaio in carcere: 22 detenuti e 9 poliziotti positivi di Marina Lucchin Il Gazzettino, 28 febbraio 2021 Il coronavirus ha varcato nuovamente le porte della casa circondariale di via Due Palazzi: il bilancio è di 22 detenuti e 9 agenti di polizia penitenziaria positivi al Covid. Tutti sono stati immediatamente isolati e il personale del Dipartimento di prevenzione dell’Ulss 6 Euganea si è messo subito al lavoro per tracciare tutti i contatti ed eseguire i tamponi. Ma intanto l’amministrazione del carcere è già pronta per vaccinare i detenuti: da martedì 2 inizieranno a essere distribuite le dosi nella casa di Reclusione, cui farà seguito la Circondariale. Tutto è cominciato quando 12 detenuti si sono sentiti poco bene, mostrando sintomi compatibili con il virus. La direzione del carcere ha deciso di far fare loro subito un tampone perché in una struttura come quella il contagio va isolato in fretta, prima che riesca a diffondersi. A rischio non sono solo i detenuti ma anche tutte le persone che vi lavorano all’interno, agenti di polizia penitenziaria, amministrativi e personale dell’impresa di pulizie. Tutti e 12 sono risultati positivi e sono stati isolati dal resto dei carcerati, con tutte le misure di precauzione del caso. Il personale sanitario ha proceduto, quindi, a tamponare tutti detenuti che sono entrati in contatto per qualsivoglia motivo con il primo positivo e che potevano essere a rischio contagio. Tra questi si è scoperto che altri 10 avevano contratto il virus e anche loro sono finiti in regime di isolamento per tutelare il resto della popolazione carceraria e gli agenti di polizia penitenziaria che lavorano al Due Palazzi: si parla di 600 detenuti e oltre 400 poliziotti. Tutti gli agenti che lavorano in carcere si sono sottoposti al tampone: 9 sono risultati positivi. Al Due Palazzi il virus in dicembre ha fatto una vittima illustre: il serial killer Donato Bilancia è stato stroncato dal Covid contratto in cella. Bilancia, condannato a 13 ergastoli per diciassette omicidi e a 16 anni per un tentato omicidio, è morto a 69 anni il 17 dicembre scorso. I delitti attribuiti a Bilancia sono avvenuti tra il 1997 e il 1998, tra la Liguria e il Piemonte. I primi anni di detenzione li scontò nel carcere genovese di Marassi, per poi essere trasferito a Padova negli ultimi anni: una volta in ospedale con l’aggravarsi della malattia ha deciso di rifiutare le cure, scegliendo di morire. Rieti. Carcere, focolaio Covid sotto controllo: i positivi sono 20 su oltre 300 detenuti rietilife.com, 28 febbraio 2021 Si è stabilizzata ed è monitorata costantemente la situazione in carcere, dopo l’esplosione di un focolaio Covid tra i detenuti. Sulle oltre 300 persone recluse nel carcere di Vazia, i positivi attuali sono 20: terminato il giro di tamponi su tutta la popolazione detenuta, il tasso di positività si è attestato al di sotto del 10%. I positivi, in buone condizioni, sono stati isolati e sono seguiti costantemente dal personale sanitario. Limitazioni momentanee sono attive per il carcere reatino, in termini di attività interne. La situazione è sotto controllo e, in attesa della negativizzazione, la prossima settimana è previsto un nuovo giro di tamponi tra gli oltre 300 detenuti per scongiurare la possibilità di altre positività. Pur con numeri molto contenuti, il Covid ha riguardato anche il personale di Polizia Penitenziaria: ci sono in tutto 4 positivi (due dei quali già da tempo individuati e in isolamento) e altri sei agenti sono in quarantena. Anche loro, a breve, saranno sottoposti ai test di rito per i necessari controlli. Proprio i sindacati, su tutti la Cgil, nelle scorse settimane, avevano chiesto la vaccinazione per il personale di Polizia Penitenziaria, al pari delle altre forze dell’ordine, nel Reatino già ampiamente interessate dalla campagna vaccinale. A quanto filtra, gli agenti saranno vaccinati dalla prima quindicina del mese in arrivo. L’Aquila. L’epicentro del 41-bis ilcapoluogo.it, 28 febbraio 2021 A L’Aquila sono ben 167 i reclusi in regime di isolamento del 41-bis, tra questi, diversi boss che hanno fatto richiesta di un permesso premio. Come ricostruisce Marco Lillo sul Fatto Quotidiano, “solo nel carcere di L’Aquila risultano tre richieste di permesso premio da parte di boss detenuti al 41bis”. “Il primo è Maurizio Capoluongo, 59 anni boss di San Cipriano d’Aversa dalla fine degli anni Ottanta, vicino a Michele Zagaria, recluso al 41-bis. Capoluongo ha chiesto un permesso ad agosto, ma pur non avendo avuto risposta sa che comunque uscirà tra sei mesi per fine pena”. “Più lontana la libertà per Giuseppe D’Agostino, 51 anni, boss della camorra salernitana. Ha chiesto un permesso di tre giorni il 23 settembre scorso. Dovrebbe uscire comunque per fine pena nel 2023”. “Pasquale Gallo, 64 anni, detto “‘O Bellillo”, boss di Torre Annunziata che per anni ha conteso lo scettro a Valentino Gionta, ha fatto richiesta di permesso il 17 ottobre del 2020. Gallo in cella ha preso tre lauree magistrali e l’istanza l’ha scritta da solo. Si accontenterebbe di 8 ore di permesso”. Il tutto nasce dalla sentenza della Corte costituzionale che ha di fatto eliminato l’articolo 4 bis che prima vietava i permessi ai boss e ha portato a diverse richieste che “sono basate sul cambiamento di personalità e sul comportamento corretto in carcere. La dissociazione è la nuova frontiera. Per ora compare nella richiesta di Filippo Graviano, classe 1961, recluso dal 1994. Il boss palermitano ha presentato la sua richiesta, scritta dall’avvocato Carla Archilei, il 5 gennaio del 2021. Graviano chiede un giorno di permesso”. Sassari. In carcere al 41-bis, sì alle videochiamate con la famiglia baritoday.it, 28 febbraio 2021 La decisione del magistrato di sorveglianza per Domenico Strisciuglio, detenuto a Sassari: accolto il reclamo proposto dal difensore. Visto il momento di pandemia, in caso di impossibilità alla visita, si può ricorrere alla tecnologia. Potrà fare una videochiamata al mese con i familiari il boss barese Domenico Strisciuglio, soprannominato “Mimmo la Luna”, 48enne ritenuto a capo dell’omonimo clan mafioso del quartiere Libertà. Strisciuglio è attualmente detenuto in regime 41 bis a Sassari, dove sconta condanne per reati di mafia e omicidi. Il magistrato di sorveglianza, come riporta oggi l’Ansa, ha accolto il reclamo proposto tramite il difensore, l’avvocato Massimo Roberto Chiusolo, ritenendo che “i colloqui visivi con i familiari costituiscono espressione di un diritto di primaria importanza: quello al mantenimento dei rapporti affettivi” e quindi, in questo momento di pandemia, “l’evoluzione tecnologica può fare ingresso nell’ordinamento penitenziario”, sostituendo, in caso di impossibilità alla visita, ai colloqui telefonici le videochiamate. Napoli. A un anno dall’uccisione di Ugo Russo ancora non c’è l’esito dell’autopsia di Adriana Pollice Il Manifesto, 28 febbraio 2021 La denuncia del padre. Manifestazione per chiedere “Verità e giustizia”. Il ragazzo di 15 anni stava tentando una rapina con una pistola giocattolo. Indagato un carabiniere ventenne per omicidio volontario. È passato un anno dalla morte di Ugo Russo e i genitori ancora non sanno cos’è successo esattamente al figlio. Avevano protestato a luglio, ieri sono tornati in piazza, a Napoli, in corteo (presente anche Ascanio Celestini) per chiedere “quanto conta la vita di un ragazzo”. Ugo Russo aveva 15 anni e viveva in vico Paradiso, tra Montesanto e via Toledo. La notte dello scorso 29 febbraio con un amico tentò con una pistola giocattolo di rapinare del Rolex un altro ragazzo di 23 anni, che era in auto con la fidanzata. Un ragazzo che di mestiere fa il carabiniere ed era in licenza: ha estratto la pistola e ha sparato. Ugo è morto poco dopo, il carabiniere è indagato per omicidio volontario. “L’autopsia è stata effettuata l’8 marzo e mai depositata, da un anno nessuna informazione. Dieci giorni fa la procura ha rigettato la nostra richiesta di riavere i vestiti di Ugo - spiega il padre, Vincenzo Russo -. Sono ancora in fase di indagini tecnico-scientifiche. In pratica non abbiamo nessuna certezza dalla procura, è come se mio figlio fosse morto ieri”. Eppure si tratta di un caso tragico ma non oscuro. Le telecamere della zona hanno persino ripreso il corpo di Ugo accasciato sul motorino, esanime. “I nostri periti ci hanno detto che è stato colpito frontalmente due volte, al petto e alla spalla, a distanza ravvicinata. Il terzo colpo, quello mortale, dietro la testa a 6, 7 metri dall’auto, mentre stava scappando. Ha lasciato Ugo a terra e ha inseguito l’amico di mio figlio sparando altre due volte”. Che ragazzo era Ugo lo racconta il padre: “Era intelligentissimo ma faceva fatica ad applicarsi, i professori lo sapevano che aveva le potenzialità ma non l’hanno aiutato, così lo hanno allontanato. Non è neppure colpa loro, è che non ce la fanno”. Con la terza media, ha provato a fare il barista: dalle 8 alle 20 per 50 euro a settimana cioè 7 euro al giorno. L’apprendista muratore, quello che porta i sacchi di cemento e prende meno della solita paga a nero. Il fattorino: consegna di pomodori dal fruttivendolo alle trattorie. Il suo sogno era fare il pizzaiolo via da Napoli. Nel quartiere, con l’autorizzazione del condominio, è stato realizzato un murales che chiede “verità e giustizia”, adesso il comune vuole rimuoverlo. Sulla stampa è finito sotto accusa come “murales dei clan”. “Questa storia tocca la tenuta delle garanzie democratiche - ribattono gli attivisti che hanno avviato una raccolta firme per impedirne la cancellazione -. Che non riguardano solo chi “non sbaglia mai”. L’intera comunità dovrebbe interrogarsi sulle opportunità negate ai tanti Ugo Russo di costruirsi una strada, realizzare i propri diritti. Ragazzi dimenticati dalla politica, oggetto di facili retoriche”. Il padre spiega: “Vorremmo creare un’associazione per i ragazzi del quartiere, per dare loro un’opportunità di lavoro, sport, studio ma anche in questo caso finiamo in faccia a un muro. Ma la prima cosa che vogliamo è sapere la verità. Mio figlio aveva 15 anni e una vita tutta in salita davanti, in un quartiere dimenticato dalle istituzioni. Anche da morto lo trattano come se non contasse nulla”. Rovigo. Un nuovo carcere minorile in via Verdi, sostituirà la struttura di Treviso di Nicola Astolfi Il Gazzettino, 28 febbraio 2021 Il 31 dicembre 2010 erano detenute 448 persone nei 18 istituti penitenziari per minori in Italia. A quasi 10 anni di distanza, secondo l’ultimo aggiornamento disponibile dalle statistiche del Ministero della Giustizia, è diminuita del 32% la popolazione carceraria nella stessa classe d’età: erano infatti 305 persone, allo scorso 15 dicembre, di cui 283 in carico agli Uffici di servizio sociale per i minorenni, nella fascia che comprende i minorenni e i giovani adulti (ragazzi di età tra i 18 e i 24 anni compiuti). “È evidente come la legislazione relativa alla giustizia minorile releghi il carcere ad un ruolo assolutamente residuale, in quanto luogo negativo e violento nel quale il minorenne può solo peggiorare negli atteggiamenti delinquenziali, e perciò prediliga forme alternative quali le comunità, case famiglia e l’istituto della messa alla prova, percorsi che servono ad aiutare i ragazzi a ritornare in fretta alla legalità e a riprendere i loro processi di crescita e maturazione, restituendoli alle loro famiglie” commenta Livio Ferrari, fondatore e presidente dell’associazione di volontariato Centro Francescano di Ascolto, esperto di politiche penitenziarie, fondatore della Conferenza nazionale Volontariato Giustizia e del Movimento No Prison, di cui è portavoce. C’è il rischio che il carcere minorile nell’ex casa circondariale in via Verdi diventi un carcere fantasma, mai utilizzato? “No, perché sostituirà il carcere minorile di Treviso e continuerà a recuperare principalmente i minori del territorio regionale che saranno arrestati, anche se il numero complessivo potrebbe attestarsi al massimo su una quindicina di soggetti”. Ferrari sottolinea che “entro un paio d’anni il nuovo carcere sarà operativo, visto l’appalto già assegnato per i lavori di ristrutturazione. Ora - continua - è necessario che i soggetti pubblici e privati del nostro territorio si confrontino per organizzarsi. E significa mettere in campo quelle progettualità che servano a far uscire di prigione i minorenni autori di reati in tempi brevi e inserirli in percorsi che privilegino l’istruzione e la formazione”. Che ne pensa del dibattito aperto sul tema, ormai da anni, tra gli esponenti politici locali e delle possibili conseguenze dell’arrivo dell’istituto minorile per il Tribunale e il centro storico? “La nuova casa circondariale è stata inaugurata il 29 dicembre 2015, ma si sapeva già nel 2007 che la vecchia struttura sarebbe stata chiusa, quando venne posta la prima pietra dall’allora ministro Mastella. Pertanto è evidente come in 8 anni nessuna amministrazione comunale si sia preoccupata di indicare per tempo al Ministero della Giustizia le proprie priorità. E già a marzo del 2017 lo stesso dicastero aveva deciso per il trasferimento a Rovigo del minorile di Treviso. Le successive prese di posizione e quant’altro sono state solo tempo perso. Non vedo comunque problemi per la comunità locale per questo nuovo insediamento, considerati anche i numeri esigui che comporterà”. Il suo impegno per l’abolizione dell’attuale sistema carcerario è noto: quali percorsi sono da preferire, al posto della carcerazione, per reinserire e recuperare i giovani autori di reato? “Certamente la detenzione è la modalità più violenta e diseducativa che si possa mettere in atto, e deve essere ridotta al minimo come avviene per fortuna nell’ambito della legislazione minorile, da cui dovrebbe prendere esempio anche quella per gli adulti: 18 carceri contro 190, al massimo meno di 500 giovani contro 55.000 persone di media. Per recuperare i ragazzi devianti sono sempre da privilegiare percorsi che educhino alla legalità e insegnino loro una professionalità, perché il lavoro è l’elemento principe per il reinserimento, attraverso il dispiegarsi di una vita decorosa e lontana da possibili emarginazioni”. Siena: Carcere Santo Spirito, progetto Inside: “Tutti meritano una seconda opportunità” di Alessio Duranti sienanews.it, 28 febbraio 2021 “Non sono individui chiusi in una scatola, ma essere umani a cui dobbiamo provare a dare una seconda opportunità”, è con questa convinzione che Giuseppina Ballistreri, funzionario giuridico pedagogico (si occupa del trattamento rieducativo dei detenuti ndr) del carcere di Santo Spirito, ha portato avanti il progetto formativo IN.SI.d.E. L’iniziativa, che partirà a breve, è un corso rivolto a 8 persone, la metà di nazionalità straniera, della casa circondariale. I detenuti parteciperanno ad un percorso di 250 ore sulla manutenzione di impianti termoidraulici e la realizzazione di lavori edili. Successivamente è previsto uno stage di 80 ore in alcune aziende di settore della provincia. Sono incluse inoltre 10 ore di attività non formativa ed 8 ore di accompagnamento, utili a sostenere il reingresso nella società e nel mondo del lavoro dei detenuti. Tutto finirà con un esame per il rilascio di 2 certificazioni di competenze agli allievi che concluderanno positivamente il corso. IN.SI.d.E. si pone l’obiettivo di agevolare l’inserimento/reinserimento lavorativo di detenuti, non lontani dalla dimissione, per i quali risulta determinante l’acquisizione di abilità spendibili sul mercato del lavoro. “Il carcere può dare gli strumenti per ripartire e con gli strumenti giusti tutti possono rimettersi in gioco”, commenta Ballistreri che aggiunge “Santo Spirito è molto piccolo, ma nel corso della sua storia ha raggiunto tanti obiettivi che si era posto. Molto è dovuto al Sergio La Montagna (il direttore della struttura ndr). Se non fosse per lui forse non saremmo qui, è una persona illuminata”. Il corso è totalmente gratuito e si finanzia con le risorse del bando Por Fse Toscana 2014-2020. Toscana Formazione ha presentato il progetto, con l’aiuto dell’istituto Caselli “attuatore dell’iniziativa”. A sostenere la realizzazione di IN.SI.d.E. ci sono stati anche il comune, l’università di Siena e le associazioni di volontariato operanti all’interno di Santo Spirito. “Ho trovato un collaboratore eccezionale come il dottor Simone Tiezzi - prosegue Ballistreri. L’Iter burocratico è stato abbastanza veloce. Adesso dobbiamo organizzarci con l’emergenza sanitaria in corso. La prima parte teorica comunque la svolgeremo interamente on- line”. Ballistreri continua: “Per il nostro stage abbiamo avuto un grande appoggio del territorio: la collaborazione con le aziende, tra pubblico e privato, ha portato a questo grande obiettivo”. Viterbo. “Semi liberi”: il progetto dalla reclusione all’inclusione di Simona Santicchia lamiacittanews.it, 28 febbraio 2021 Il progetto di impresa e di recupero di O.R.T.O. per formare i detenuti in agricoltori. Si chiama O.R.T.O. ed è un’associazione di promozione socio-culturale. L’acronimo sta a rappresentare la sua missione: Organizzazione Recupero Territorio e Ortofrutticole. Con sede a Soriano nel Cimino, opera con l’obiettivo di aiutare le fasce di popolazione forzatamente distanti dal contatto giornaliero con l’ambiente a considerare come l’ambito naturale e rurale possa diventare un’opportunità di di attività produttiva, di riscatto personale e di tutela di un bene comune. Quello di O.R.T.O. è in sintesi un progetto di inclusione degli appassionati di orticoltura, di chi è portatore di un disagio e dei giovani in cerca di primo impiego nel mondo del lavoro. Ha all’attivo la formazione per l’occupazione, l’inserimento lavorativo e l’inclusione con particolare riguardo alla popolazione carceraria. Abbiamo incontrato Agnese Inverni, impegnata nell’associazione come socio e operatore. “Il ruolo della formazione professionale - racconta - rappresenta uno strumento di consolidata efficacia sia per l’ingresso che per il rientro al lavoro delle persone detenute. La riduzione delle recidive passano da circa il 70% a meno del 20% con un evidente impatto positivo sulla collettività, nonché risparmi per il sistema di amministrazione penitenziaria”. Il progetto “Semi liberi” realizzato da O.R.T.O. nasce con lo scopo di creare un punto di contatto tra la realtà carceraria e la società civile esterna. È stato ideato nel 2017 per l’attivazione di corsi di formazione professionale in ambito agricolo e vivaistico all’interno della Casa Circondariale di Viterbo. “La particolarità di “Semi liberi” sta proprio nella sua multifunzionalità - continua - Il percorso di rieducazione passa attraverso la promozione di attività che rispettano l’ambiente, la dignità del lavoratore, la qualità dei prodotti e la salute del consumatore. Il progetto non nasce in un’ottica di assistenzialismo ma offre ai partecipanti la possibilità di impiegare al meglio le proprie abilità per costruire una vera e propria impresa commerciale; lo scopo ultimo di “Semi liberi” è che i detenuti imparino a realizzare, trasformare, confezionare e rendere disponibile al pubblico i diversi prodotti in maniera completamente autonoma, sviluppando il proprio senso di responsabilità e di autogestione”. Ad oggi oltre 30 persone hanno beneficiato di questa progettualità, occupandosi della produzione di piante aromatiche e officinali, piccoli frutti, olio extra vergine di oliva, micro-ortaggi e germogli freschi attraverso tecniche di coltivazione ecosostenibili. Elton e Pierpaolo, due tra i beneficiari - prosegue l’operatore dell’associazione - hanno iniziato la loro avventura con O.R.T.O. proprio nel 2017, anno in cui la cooperativa è entrata per la prima volta nella Casa circondariale. Sono i veri e propri veterani del progetto e hanno partecipato a tutte le fasi di sviluppo del programma fino a diventare a tutti gli effetti soci. Nel tempo hanno seguito corsi di formazione sulle tecniche di coltivazione in serra e sui metodi di produzione di germogli freschi, un alimento poco conosciuto in Italia ma che riscuote molto successo negli Usa e nel Nord Europa. Si sono poi dedicati alla coltivazione di diverse varietà di piante aromatiche e officinali, alla manutenzione dell’oliveto della Casa circondariale e alla produzione di micro-ortaggi. Con il tempo e l’esperienza hanno acquisito sempre più dimestichezza nella pratica agricola e si sono indirizzati verso settori specifici”. Parlare con Agnese Inverni racconta di come le attività siano progredite nel tempo, coinvolgendo sempre più detenuti e operatori del territorio sia sotto il profilo lavorativo che relazionale. “Uno dei maggiori benefici che i detenuti ricevono da un progetto di rieducazione e inclusione lavorativa è proprio la possibilità di socializzare tra loro e con gli operatori che gestiscono le attività. Pierpaolo ed Elton ribadiscono che l’incontro con persone provenienti dalla società esterna comporta molti vantaggi da un punto di vista psicologico; il lavoro pratico e la conversazione con i volontari distolgono l’attenzione da pensieri ricorrenti che, nella monotonia della vita in carcere, possono diventare ossessivi. Per loro ogni momento passato al lavoro è un modo per impegnarsi nella praticità e tenere la testa occupata, lontana dai soliti pensieri e dai soliti discorsi”. O.R.T.O. ha recentemente intrapreso una collaborazione con la onlus romana “Semi di libertà” per la realizzazione di nuove future iniziative di inclusione sociale e professionale sia dentro che fuori le mura del carcere, anche nella capitale. Per tutte le informazioni www.coopsocialeorto.it. Il coronavirus, la politica e il Paese incompreso di Dario Di Vico Corriere della Sera, 28 febbraio 2021 La nostra società è notoriamente vitale e ci sarebbe molto altro da raccontare e da apprendere sulle strategie di adattamento a quest’inedita situazione. In questo lungo e drammatico anno occupato dall’offensiva del virus e dalle restrizioni della mobilità decise da governo e Regioni la società italiana ha sviluppato come forma di reazione svariati processi di adattamento, che pur coinvolgendo milioni di persone, sono rimasti poco illuminati dai media e dal dibattito politico. La nostra è una società notoriamente vitale, in molti casi anarchica e in altri capace di scavare percorsi carsici, tentare di conoscerla e di mapparla non è un puro esercizio intellettuale bensì una condizione necessaria per cercare di governarla. Ancor di più in una circostanza storica nella quale la spinta alla ricostruzione non potrà venire solo dalle cospicue risorse del Next Generation Eu ma anche da comportamenti coerenti e da un movimento dal basso capace di accompagnare e valorizzare i flussi di denaro dall’alto. Una mappatura dei cambiamenti intervenuti nella società italiana nell’anno della pandemia non può certo esaurirsi nello spazio di un articolo di giornale, vale la pena però scattare qualche fotografia e incrociarla con gli orientamenti che abbiamo maturato nel frattempo e con i progetti che andiamo stendendo per il futuro. Partiamo, ad esempio, dalla formula della città dei 15 minuti, una suggestione lanciata dal sindaco di Parigi Anne Hidalgo e che sta incontrando un discreto successo in Italia. Nelle grandi città i quartieri si sono dati un loro codice di vitalità. La circolazione delle persone avviene con sufficiente regolarità a partire dai supermercati diventati il centro della vita di quartiere ma attorno ad essi hanno trovato un proprio ritmo tutta una serie di piccole attività artigianali o di servizio che sono riuscite per questa via a conservare la relazione con i propri clienti e a sviluppare nuove soluzioni per non perderli. Il tutto si dipana con sufficiente regolarità, quasi indipendentemente dal colore delle restrizioni e con una buona osservanza delle norme di sicurezza. Sarebbe interessante sapere quanto questa modalità di funzionamento dei quartieri si sia estesa perché si tratta di un’esperienza di cui far tesoro e da portarsi dietro nel dopo-pandemia. A patto evidentemente di ricondurre nel perimetro dei 15 minuti anche quote significative di lavoro e un decentramento dei servizi amministrativo-burocratici. Anche il lavoro da remoto va considerato una forma di adattamento alle restrizioni della mobilità che la società ha saputo far propria in un battibaleno. Non avremmo scommesso un euro che le organizzazioni e le persone sarebbero state capaci di delocalizzare i flussi esecutivi con tanta velocità e con le conoscenze tecnologiche necessarie. Invece è avvenuto. E oggi siamo in grado di fare due operazioni in una: apprezzarne i vantaggi in termini di capacità di reazione e di flessibilità e indicarne spietatamente i limiti, a cominciare dal rischio di peggiorare la condizione femminile riportandoci indietro di qualche lustro. Anche in questo caso però a dirimere la querelle sarà la capacità che avremo di operare una sintesi di quest’esperienza, di tenere il bambino e buttare l’acqua sporca. Se la città à la Hidalgo e lo smart working sono riorganizzazioni che hanno avuto come teatro la città, è rimasto in ombra forse il principale adattamento virtuoso avvenuto nel “contado” dove la comunità silenziosa delle imprese e dei lavoratori ha tenuto aperte le fabbriche applicando i migliori standard di sicurezza sanitaria. Questa continuità produttiva ha permesso di arginare la frana, di tenere agganciate le forniture italiane alle grandi catene internazionali del valore, di aumentare le esportazioni del made in Italy (+3,3%, intero 2020 su intero 2019), di modernizzare le aziende per tenerle al passo dell’evoluzione digitale e commerciale. In breve ha consentito a noi consumatori di avere sempre in tavola non solo la pasta ma anche il parmigiano e all’industria italiana di difendere il posizionamento internazionale. Scusate se è poco. Nella categoria delle strategie dell’adattamento credo che vada incluso anche il successo del generoso eco-bonus (110%). Secondo i dati forniti da Ance sulla base di un monitoraggio congiunto Enea-Mise al 22 febbraio 2021 risultavano protocollati 4.400 interventi con uno stato di avanzamento lavori almeno del 30%. Secondo le stime il tiraggio della misura dovrebbe arrivare nell’anno a 3,6 miliardi, una stima ampiamente per difetto perché non sono ancora partiti i lavori di efficientamento energetico dei grandi condomini. Grazie all’eco-bonus la filiera delle riparazioni edili non solo è ripartita ma sembra aver fatto il pieno di ordini anche per i prossimi mesi vista la difficoltà che in alcune città si trova nel rintracciare ditte con l’agenda libera. È sicuramente grazie a questo revamping e ovviamente alla spettacolare crescita delle spedizioni in e-commerce che le immatricolazioni di autocarri in Italia nel gennaio 2021 hanno fatto segnare un sorprendente +8,5% se paragonato al gennaio 2020, ovvero al pre-pandemia. Persino nel campo più delicato e considerato esplosivo dai politici e dai commentatori, quello dei licenziamenti post-blocco, c’è bisogno di rimanere legati ai fatti. Incrociando diversi dati di provenienza Inps, Istat e Veneto Lavoro uno dei più attenti esperti di mercato del lavoro, Bruno Anastasia, ha provato su Lavoce.info a formulare qualche analisi e previsione. In primo luogo non è pensabile che si verifichi una corsa a licenziare dal giorno dopo l’eventuale sblocco delle procedure ma caso mai inizierà un flusso destinato a svilupparsi nell’arco di qualche mese, in corrispondenza all’esaurimento delle settimane disponibili di Cig-Covid. Ad esserne colpiti sarebbero nella gran parte i dipendenti delle piccole imprese (sotto i 15 addetti) in crisi di mercato e rimaste fuori dalle filiere di fornitura. E comunque arrivando ai numeri Anastasia ipotizza da aprile circa 200-300 mila licenziamenti. “In concreto per qualche tempo il flusso ordinario di licenziamenti economici, pari a 40-50 mila al mese, potrebbe risultare raddoppiato o triplicato”. Un numero evidentemente cospicuo ma che mixando misure di sostegno e politiche attive non è impossibile da fronteggiare. Ci sarebbe molto altro da raccontare e da apprendere sulle strategie di adattamento degli italiani a quest’inedita crisi in diversi campi (sanità, scuola, ecc.) e ovviamente - prevengo l’obiezione - so benissimo che insieme al grano sarà cresciuto in questi mesi anche tanto loglio ma bisogna innanzitutto convincersi che nella difficile opera di ricostruzione post-virus non saranno sufficienti né un Super Piano né un Deus ex machina. Prima viene la società, poi la politica. Droghe. SanPa e i buchi nella storia di Sergio Segio rivistapaginauno.it, 28 febbraio 2021 La Storia è conflitto tra verità, interpretazioni e memorie. Chi ha il potere stabilisce ciò che è da considerarsi verità e impone le proprie interpretazioni come universali. Dentro questo interminabile conflitto, i dominati possono contare solo sulla propria memoria e sulla contro-narrazione per poterla comunicare. La rimozione dei contesti e la riduzione delle complessità e dinamiche della Storia sono la premessa di ogni operazione di riscrittura e revisione di ciò che è stato. Una tecnica in Italia più che collaudata in particolare riguardo le vicende degli anni Settanta, ma che funziona in generale. La miniserie SanPa, che tanto sta facendo discutere, non si è sottratta a questa regola e tendenza. Al filmato disponibile su Netflix, articolato in cinque puntate per una durata complessiva di 301 minuti, va riconosciuto un indubbio merito: quello di aver riaperto la riflessione e il dibattito non tanto e non solo sulla comunità terapeutica fondata da Vincenzo Muccioli nel 1978 quanto sulla questione delle droghe, da tempo rimossa dall’attenzione pubblica e dall’affrontamento politico e istituzionale. Basti dire che la Conferenza governativa che ha il compito di verificare e indirizzare le politiche in materia non viene più effettuata dal 2009, in violazione della legge che la prevede ogni tre anni. La tossicodipendenza oggi - Una inadempienza tanto più grave stante la permanenza di drammaticità ed estensione del problema. Secondo le fonti ufficiali, nel 2019 (ultimo dato disponibile) le morti per intossicazione acuta da droghe sono state 373, di cui 169 dovute all’uso di eroina, in aumento del 11% sull’anno precedente, che già aveva visto una crescita del 17% rispetto al 2017. Lo stesso Dipartimento per le politiche antidroga istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, nella propria relazione annuale al Parlamento, specifica peraltro che tale cifra è inferiore alla realtà, in quanto si riferisce solo alle morti attribuite in via diretta all’assunzione di droghe e ai casi per i quali sono state interessate le forze di polizia. Nel complesso, e con questa avvertenza, negli ultimi vent’anni i decessi correlati agli stupefacenti assommano a 9.718. Si consideri che nel 1985, l’anno del famoso “processo delle catene”, ricostruito nel documentario e che vide imputato e condannato in primo grado Muccioli, i decessi per droga erano stati 242. La questione, beninteso, non riguarda solo o particolarmente il nostro paese: secondo l’Osservatorio europeo sulle droghe, nel 2018 i decessi per overdose nell’Unione sono stati 8.300. In Italia, nel corso del 2019, i 6.624 operatori dei 562 Servizi Pubblici per le Dipendenze (SerD) hanno assistito complessivamente 136.320 persone, mentre i servizi gestiti dal cosiddetto “Privato Sociale” - ben 821 quelli registrati - al 31 dicembre 2019 avevano in carico 16.352 persone, la maggior parte (11.117) inseriti in strutture terapeutiche residenziali. Pur nelle differenze anche significative riguardo le sostanze oggi utilizzate, il loro mercato e le modalità di consumo, il quadro attuale delle droghe e delle dipendenze, insomma, ha dimensioni che dovrebbero allarmare, oltre che indurre adeguate risposte a livello politico e sociale. Eppure, il problema rimane pressoché invisibile e non rilevato nella informazione e consapevolezza pubblica. Benvenuto, dunque, il documentario SanPa, che ha saputo risvegliare l’attenzione del distratto e omissivo sistema mediatico, se riuscirà davvero provocare una riflessione che vada oltre il soggettivo dosaggio delle “luci” e delle “ombre” e un dibattito che esca dalle personalizzazioni per addentrarsi nella questione droghe (e politiche sulle droghe) in generale e, in specifico, nell’analisi dei modelli e delle culture che presiedevano e presiedono alle risposte terapeutiche. Di cosa stiamo parlando - Le premesse non rendono però ottimisti, poiché il racconto che SanPa propone non fornisce alcun elemento di contestualizzazione riguardo il periodo storico, le correnti culturali, la situazione politica, gli apparati normativi di riferimento, le diverse filosofie e metodologie di trattamento delle tossicodipendenze. Uno spettatore giovane o smemorato sarà anzi indotto a ritenere che quella di Muccioli sia stata l’unica struttura preposta alla cura di quanti in quell’epoca fossero stati dediti all’uso di droghe. E, così pure, che l’opera di San Patrignano sia da considerarsi tanto più meritevole stante la latitanza dello Stato e di ogni supporto pubblico. Una convinzione tanto diffusa quanto errata, come vedremo, da cui non si discosta Carlo Gabardini, che con Paolo Bernardelli è stato coautore della docu-serie ideata e scritta da Gianluca Neri e diretta dalla regista Cosima Spender. In un’intervista parla esplicitamente “dell’assenza dello Stato che bollò la droga come una tematica tabù e creò emarginazione e stigma sociale”. Una persuasione ribadita più volte: “È una serie su tutti noi. Su come decidiamo di risolvere i problemi che travolgono la società e su come ci confrontiamo con l’assenza dello Stato” (“Il Fatto Quotidiano”, 16 gennaio 2021). Se ci pensiamo, questo è un concetto cardine che ha invaso e colonizzato il discorso pubblico degli ultimi decenni, a consentire e sorreggere la restaurazione liberista oggi dominante, in una sorta di profezia che si autoadempie. La denuncia dell’assenza e dell’inefficienza dello Stato, culla prima del liberismo e poi del populismo, è stata cavallo di Troia delle privatizzazioni, dell’appropriazione dei beni comuni e della demolizione del welfare. “Il privato è meglio e funziona meglio” è lo slogan che ci accompagna da decenni. La sindemia del Covid-19, con il corredo di alta mortalità e le diverse problematiche connesse, derivanti dalla decennale penalizzazione e aziendalizzazione del servizio sanitario pubblico e dal depauperamento della medicina territoriale a favore del sistema privato e convenzionato, sta ora rendendo evidente anche ai più ciechi quanto fosse fraudolenta quella ideologia. Un sistema che, tuttavia, non demorde e che sta utilizzando lo shock pandemico per accentrare poteri e moltiplicare profitti, nella logica rapace e consolidata del capitalismo dei disastri. Secondo il documentario, dunque, già allora e anche nel campo delle tossicodipendenze l’iniziativa privata colmava il vuoto dovuto alla latitanza e disinteresse delle autorità pubbliche e “salvava” tanti giovani altrimenti condannati. Diversamente, già la legge n. 685 del 1975 aveva istituito i servizi pubblici territoriali, man mano cresciuti di numero, esperienza e di professionalità. Il confronto non era tra un’assenza e una supplenza, ma tra impostazioni diverse e talvolta opposte. Nel pensiero di Muccioli, in realtà, ciò di cui si lamentava la mancanza non era tanto dello Stato in sé, bensì dello Stato forte, dello Stato penale non di quello sociale. Non per niente le forze politiche maggiormente e per prime tifose di San Patrignano sono state quelle con medesima e dichiarata convinzione e con qualche nostalgia per passati regimi. La linea guida della docu-serie - Fatta salva la bontà delle intenzioni e l’indubbia perfezione tecnica, scontata l’evidente e preventiva ricerca di equilibrio (rivendicata da Gabardini: “Le luci ci sono e le abbiamo mostrate in maniera profonda e senza filtri”), quel che risulta ab origine discutibile è l’architrave, l’assunto fondante sul quale è costruito l’intero documentario. Quello di cui ha espressamente riferito il produttore Gianluca Neri: “La frase che ci eravamo dati noi autori come linea guida era: quanto male sei disposto a giustificare, per fare del bene? Era la chiusura del trailer che proponemmo a Netflix per farci prendere la storia” (intervista realizzata da Selvaggia Lucarelli per TPI.it, 3 gennaio 2021). Si introduce in questo modo un’affermazione apodittica e fattualmente indimostrabile, ovvero che l’esito di quei trattamenti, pur violenti, sia stato “il bene” dei soggetti in quel modo trattati. La cui alternativa sarebbe stata il permanere nella “schiavitù” della droga e la morte. Un male relativo e contingente per un bene assoluto e definitivo. E qui, a puntello dell’assunto, entra in campo non semplicemente un aspetto non comprovato, ma una vera e propria falsa memoria, una credenza e una disinformazione riguardo ai fatti e ai dati dell’epoca. Dice ancora il produttore: “Alcuni montatori che avevano 18 anni ci guardavano basiti chiedendo “Ma davvero si facevano con le siringhe?”. Gli dovevamo spiegare che i tossicodipendenti li trovavi nei parchi, morti sulle panchine, per spiegare quanto fosse un’emergenza nazionale”. Eppure, questa descrizione non corrisponde alla realtà di quel periodo, ma semmai a quella di un decennio successivo, allorché la risposta politica alle tossicodipendenze era divenuta marcatamente punitiva, anche sulla scia e per risultato dell’approccio e del verbo muccioliniano. La fotografia che più è rimasta nell’immaginario, condizionandolo, è, in effetti, degli ultimi giorni del 1979: un ragazzo riverso su una panchina di Milano, alla Bovisa, con un prete che ne benedice la salma. Si chiamava Dario Rizzi, aveva 16 anni. Ma, dopo le suggestioni e i fotogrammi rimasti maggiormente impressi, occorre tornare al quadro nel suo insieme e all’obiettività dei numeri e alla corretta datazione degli avvenimenti e del loro sviluppo, guardando in parallelo ai cambiamenti nelle politiche e nelle legislazioni antidroga. Galles. “Cannabis ai detenuti per ridurre le violenze in carcere” di Davide Falcioni fanpage.it, 28 febbraio 2021 Arfon Jones - commissario di polizia del Galles del Nord - ha proposto di somministrare cannabis ai detenuti nel tentativo di placare la loro dipendenza e frenare le violenze in carcere. L’idea, che ha suscitato ovviamente non poche polemiche, è venuta a Jones sulla scorta di un dossier del Global Drug Policy Observatory della Swansea University, secondo il quale almeno il 13 per cento degli uomini e delle donne dietro le sbarre hanno nella loro vita sviluppato una dipendenza dalle sostanze stupefacenti. Come se non bastasse un’ulteriore indagine ha dimostrato che il 52 per cento dei detenuti riesce comunque a procurarsi droga, soprattutto la cosiddetta Spice, una sostanza sintetica che ricorda la cannabis, ma i cui effetti sono molto più devastanti e le cui conseguenze ancora non sono chiare. Ebbene, diffusione di questa droga nei penitenziari gallesi rappresenta un enorme problema dal momento che si sono moltiplicati gli episodi di violenza. Alla luce di queste osservazioni Arfon Jones ha ritenuto di dover “affrontare le cause” del crescente disagio dei detenuti e un sistema, secondo lui, potrebbe essere quello di consegnar ad alcuni di loro quantità limitate e controllate di cannabis in modo da ridurre l’approviggionamento di Spice. Quello delle droghe sintetiche nelle carceri rappresenta infatti un serio problema anche per la salute dei reclusi: emblematico, infatti, è il caso di Luke Morris Jones, morto a 22 anni nel 2018 nel penitenziario di Wrexham. Un’inchiesta sulle cause del decesso ha stabilito che a ucciderlo non è stato un malore, bensì un’overdose proprio di Spice. Il decesso del 22enne ha dimostrato ancora una volta come sia tutt’altro che impossibile introdurre droga in carcere. Come se non bastasse negli ultimi anni è stato registrato un aumento del consumo di antidolorifici tra i prigionieri, in particolare farmaci a base di oppioidi. Da qui la proposta di Arfon Jones: “Se prendono morfina, non vedo perché negargli la cannabis che è molto meno pericolosa. Forniamone in condizioni controllate e osserviamo se i reati si riducono”. L’Onu in Congo indagava sui rapimenti. La strada di Attanasio nel mirino dei banditi di Paolo Mastrolilli La Stampa, 28 febbraio 2021 L’Onu in Congo indagava sui rapimenti. La strada di Attanasio nel mirino dei banditi. Giallo sulla sicurezza del diplomatico, Kinshasa: “Aveva comunicato di aver annullato il viaggio”. I rapimenti a scopo di riscatto, dilaganti nella regione di Rutshuru, erano stati un tema al centro della visita che la delegazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu aveva fatto il 12 febbraio, nella zona dove poi è stato ucciso Attanasio. Questo conferma la pericolosità dell’area, e quindi la necessità di avere una protezione più forte, ma indica anche la pista che probabilmente gli inquirenti stanno seguendo per trovare i colpevoli. Kinshasa nel frattempo ha detto che l’ambasciatore italiano aveva comunicato di aver annullato il suo viaggio. La delegazione guidata da Axel Kenes, direttore generale per gli Affari Multilaterali e la Globalizzazione al ministero degli Esteri belga, era arrivata a Goma l’11 febbraio. Durante un incontro, alcune attiviste di North Kivu avevano “sottolineato la necessità di azioni complessive e urgenti per ridurre la violenza nell’Est, orchestrata da gruppi armati, membri delle gang, e anche elementi delle forze di sicurezza della Drc”. Il 12 febbraio la delegazione aveva visitato Rutshuru, dove si dirigeva Attanasio. I diplomatici erano andati nella base di Monusco a Kiwanja, avevano incontrato il capo del Force Central Sector della missione Onu, e tenuto una conferenza. All’incontro c’erano l’amministratore territoriale, le forze armate del Congo Fardc, la polizia nazionale Pnc, l’agenzia di intelligence Anr, e il direttorato generale per le migrazioni Dgm. “I responsabili della sicurezza hanno sottolineato le grandi sfide nella protezione dei civili, poste dai vari gruppi armati operanti nel territorio. Hanno anche sollevato la questione dei rapimenti criminali a scopo di riscatto, dilaganti nella regione”. I diplomatici poi erano andati a Virunga, per vedere i leader del Congolese Institute for the Conservation of Nature (Iccn) che gestisce il parco. “La leadership del Virunga National Park ha spiegato che è minacciato dai gruppi armati, attraverso lo sfruttamento illegale per agricoltura, pesca, produzione di carbonella. L’Iccn ha notato come i residenti nelle vicinanze del parco cercano di sfuggire alla povertà sfruttandone le risorse, cosa che provoca frizioni”. Questa situazione nella zona dell’assalto al convoglio del Pam dimostra due cose. Primo, l’alto livello di insicurezza generale, che però non riguarda tanto i gruppi terroristi islamici, più presenti nell’area settentrionale di Beni, quanto le milizie hutu ruandesi e le bande armate. Ciò conferma che sarebbe servita più protezione, chiunque dovesse fornirla. Secondo, la probabilità che l’attacco fosse un rapimento a scopo di riscatto. A Rutshuru queste attività sono “dilaganti”, spesso nemmeno condotte da gruppi armati, ma da bande criminali. La povertà è molto diffusa, e non si rimedia col traffico di terre rare, minerali o altre iniziative sofisticate, ma anche solo con la produzione illegale di carbonella. Se un gruppo terroristico islamico, magari collegato a Shabab, avesse condotto l’attacco per alzare il proprio profilo politico, avrebbe avuto tutto l’interesse a rivendicarlo. Il silenzio invece si addice di più a criminalità e gang. Caso Khashoggi, centrosinistra all’attacco di Renzi: “Spieghi i suoi rapporti con i sauditi” di Davide Varì Il Dubbio, 28 febbraio 2021 Dopo la pubblicazione del rapporto Usa sull’implicazione diretta di Mohammed Bin Salman nell’uccisione del giornalista Khashoggi, Pd, M5S e Si chiedono chiarimenti. Matteo Renzi deve chiarire la natura dei suoi rapporti col principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman. A chiederlo, a più voci, sono gli ex alleati del Conte due - Pd, M5S e Sinistra italiana - dopo la la pubblicazione del rapporto dell’Intelligence nazionale degli Stati Uniti che dimostrerebbe l’implicazione diretta del principe ereditario saudita nella pianificazione dell’uccisione di Jamal Khashoggi, giornalista del Washington Post, avvenuta il 2 ottobre del 2018 nel consolato saudita di Istanbul. Il leader di Italia viva, infatti, è membro del consiglio dei garanti della Future Investment Initiative, un’organismo controllato dalla famiglia reale saudita per conto del quale Renzi si è recato più volte a Riad per tenere delle conferenze dietro compenso. “È un grande piacere e un grande onore essere qui con il grande principe Mohammad Bin Salman. Per me è un privilegio poter parlare con te di Rinascimento”, dichiarava Renzi nel corso di colloquio col principe ereditario avvenuto nei giorni in cui in Italia il suo partito apriva la crisi di governo. “Credo che l’Arabia Saudita possa essere il luogo per un nuovo Rinascimento”, proseguiva il senatore membro, tra l’altro, della commissione Difesa. Ma da dove nasce questo rapporto particolare tra Renzi e il principe ereditario adesso accusato di essere il responsabile di un atroce omicidio politico? È quello che vogliono sapere molti esponenti politici che adesso invitano il capo di Italia viva a fare chiarezza. “Matteo Renzi aveva detto che dopo la crisi avrebbe chiarito i suoi rapporti con l’Arabia Saudita e il “grande principe ereditario”. Lui non ha ancora detto nulla, ma ci ha pensato Joe Biden. Chiarire ora non è solo questione di opportunità, ma di interesse nazionale”, dice l’ex ministro dem per il Sud Peppe Provenzano, seguito a ruota da altri compagni di partito. Come il deputato Michele Bordo che rincara: “Renzi ci dica anche se è ancora convinto che in Arabia Saudita sia in atto un nuovo Rinascimento e che il principe ne sia addirittura l’interprete. Da quello che emerge in queste ore non mi pare proprio. Verificheremo se sia il caso di assumere una iniziativa parlamentare: dobbiamo chiarire questa vicenda. Si tratta di un tema di sicurezza nazionale ed è utile che un senatore della Repubblica, che ha avuto un ruolo importante nella nascita di questo governo, chiarisca realmente i suoi rapporti”. Anche Gianni Cuperlo invoca chiarezza su Facebook: “Renzi aveva annunciato che, una volta archiviata la crisi di governo, avrebbe offerto le motivazioni di quella sua iniziativa. È opportuno che lo faccia. Se possibile presto”. Per il Movimento 5 Stelle è il capogruppo nella commissione Esteri del Senato, Gianluca Ferrara, a prendere posizione: “Roba degna del più buio Medioevo, altro che Rinascimento. Mentre lui andava in Arabia Saudita a tessere le lodi di un regime assassino, il governo di Giuseppe Conte e la Farnesina guidata da Luigi Di Maio bloccavano ogni vendita di armi verso quello stesso regime. Tra cui le bombe usate in Yemen che Renzi aveva deciso di vendere all’Arabia Saudita nel 2016”. Durissime critiche anche dal segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni: “Renzi aveva promesso di rispondere sui suoi rapporti con quel regime dopo la fine della crisi di governo, è arrivato quel momento. Ora chiarisca per trasparenza e per dovere di onestà nei confronti dei cittadini italiani”. E una presa di posizione netta arriva anche da Amnesty International, convinta che sia “inopportuno essere invitati in forum internazionali che sono emanazione diretta della monarchia saudita e tacere sul sistema di violazioni dei diritti umani”. Per il momento da Italia viva tutto tace, ma c’è da scommettere l’omicidio Khashoggi riaprirà un regolamento di conti interno alla sinistra tra Renzi e il resto degli ex alleati. Grecia. Da 50 giorni a digiuno: il leader della 17 Novembre Koufontinas contro Atene di Dimitri Deliolanes Il Manifesto, 28 febbraio 2021 Trasferimento in un carcere lontano dalla famiglia e divieto di lavorare in prigione, per la legale è la vendetta della famiglia Mitsotakis. I medici avvertono: rischia di morire. Dimitris Koufontinas è un ex terrorista di 63 anni. È l’esponente di punta del gruppo armato 17 Novembre, attivo per 27 anni senza subire un arresto. Nel 2002, quando alla fine la polizia riuscì a sgominare l’organizzazione, Koufontinas evitò l’arresto ma dopo poche settimane si consegnò spontaneamente alla polizia, mettendo implicitamente la firma sulla fine della 17 Novembre. Al processo si è assunto l’intera responsabilità politica per la storia dell’organizzazione clandestina. È stato condannato a 11 ergastoli per concorso a 11 omicidi e altri atti di terrorismo. Ora Koufontinas rischia di diventare il primo detenuto politico europeo che perde la vita dopo uno sciopero della fame dopo il 1981, quando il militante dell’Ira Bobby Sands morì in carcere mentre a Londra regnava Thatcher. Ora ad Atene regna un convinto thatcheriano, Kyriakos Mitsotakis. Koufontinas è in sciopero della fame da 50 giorni. Negli ultimi giorni ha deciso di procedere anche allo sciopero della sete. Da 11 giorni è ricoverato al reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Lamia. Secondo il suo medico Thodoris Zdoukos, il suo fisico sta allo stremo, rischia il coma, c’è pericolo che non arrivi a lunedì. Koufontinas protesta perché la destra al governo lo ha preso di mira. Mitsotakis prima ha affidato la gestione del sistema carcerario al ministero dell’Ordine pubblico e subito dopo ha sancito una legge ad hoc che nega ai condannati per terrorismo una serie di diritti riconosciuti agli altri detenuti: brevi permessi premio e la possibilità di eseguire la pena lavorando nelle carceri agricole. Questo malgrado le autorità abbiano sempre riconosciuto al detenuto un comportamento esemplare. L’ultimo provvedimento, quello che ha portato Koufontinas all’estrema forma di lotta, è stata la decisione del ministero di polizia di spostarlo da Atene e internarlo in un carcere speciale collocato a Domokos, località montagnosa della Grecia centrale. Carcere non solo difficilmente raggiungibile dalla moglie e dal figlio di Koufontinas ma anche noto per il sovraffollamento e le pessime condizioni di detenzione. Una decisione del tutto irregolare e illegale, che la responsabile del ministero Sofia Nikolaou ha tentato invano di giustificare ricorrendo alla pandemia, mentre metteva in campo grossolani trucchetti burocratici pur di impedire al detenuto di agire per via legale. “È evidente che si tratta di un’azione di natura vendicativa”, spiega al manifesto l’avvocata Ioanna Kourtovik, difensore di Koufontinas. L’ex terrorista è ritenuto l’uomo che ha schiacciato il grilletto nell’assassinio di Pavlos Bakoyannis nel 1989. Un’azione terroristica difficilmente comprensibile. La vittima era un coraggioso giornalista schierato contro i colonnelli e poi eletto deputato di Nuova Democrazia. Ma era anche cognato dell’attuale premier, marito della sorella Dora Bakoyannis, ex sindaca di Atene ed ex ministra degli Esteri. Il figlio, Kostas Bakoyannis, è attualmente sindaco di Atene. “Sicuramente il premier ha in mente un’azione esemplare nel nome della sua dinastia politica - continua Kourtovik - ma dietro vi è anche una strategia da legge e ordine che ha scatenato dinamiche da guerra civile: distruggere il nemico o renderlo inoffensivo, per affermare la potenza dello schieramento conservatore e soffocare qualsiasi voce di protesta”. Questo malgrado alcuni esponenti del governo, l’Ordine degli Avvocati, Amnesty e molti altri abbiano chiesto che i diritti del detenuto siano rispettati. Al momento il governo sembra orientato a imporre allo scioperante l’alimentazione forzata, una pratica vietata dalle convenzioni internazionali, che i medici dell’ospedale di Lamia hanno già rigettato. Nigeria. Boko Haram tra sharia e sequestri, la discesa nella violenza assoluta di Domenico Quirico La Stampa, 28 febbraio 2021 Il “califfo” Shekau ha spinto il gruppo jihadista nigeriano verso il terrorismo puro. E i rapimenti finanziano gli attacchi. All’inizio è stato niente: soltanto un giovane predicatore, Mohamed Yusuf, che nel 2002 torna a casa dall’Arabia, dalle scuole coraniche salafite, ed è colmo e ribolle della gioia e della rabbia di chi sente dio dentro di sé. Poi una piccola città, Kanama, alla frontiera tra il Niger e la Nigeria, il Nord, il parente povero del boom petrolifero nigeriano, quello che vedi ad Abuja, a Lagos. Ancora niente. Immaginiamo il suo ritorno: i piccoli bus sgangherati e stracolmi. Botteghe capanne. Lunghe file nei mercati con le poche merci sdraiate per terra tra le mosche, la polvere, le immondizie, il sudore. Miseria, voci. La umili matita dei mille piccoli minareti di sabbia, e le rare chiese cristiane, che sembrano magazzini sbarrati da truci catenacci. E dietro la savana, gli alberi, il silenzio, il sole che scortica. L’eredità dei coloni - Yusuf si guarda intorno, è il suo mondo che scorre. Qui dovrebbe regnare la sharia, dal 1989, teoricamente ciò che è vietato dal Libro dovrebbe essere subito bandito. Teoricamente. Avviene sempre così: la rabbia deve trovare qualcosa di semplice che riassuma lo scandalo del tutto. E Yusuf la trova: “la scuola occidentale”, eredità dei colonizzatori britannici. Tutto quello che lo indigna e gli sembra una bestemmia contro dio: la povertà del Nord musulmano, l’acqua e la corrente elettrica rare, la sanità primitiva, la corruzione, il malgoverno, le elezioni truccate, la polizia brutale, il saccheggio dei beni pubblici, i cattivi costumi che offendono il Corano, tutto è colpa di quella scuola dimenticata in mezzo al buon popolo di dio come un bacillo dagli occidentali. Yusuf comincia a predicare, nella polvere nel caldo nella puzza di Kanama. È antica tradizione nigeriana, i predicatori possono occupare uno spazio pubblico, spiegare il Corano, maledire la depravazione dei costumi. Prima sono dieci poi cento poi mille ad ascoltarlo, poi così tanti che decide di spostarsi a Gaidam, una città più grande. E poi a Maiduguri, la capitale del Bornou. Nessuna autorità bada a loro, hanno altro da fare, rubare, che occuparsi dei quei pezzenti invasati da dio. E poi non predicano la violenza, convincono con le idee. Ecco: i Boko Haram, “la scuola occidentale è peccato”, il castigo nella storia della Nigeria. Yusuf è stato ucciso nel 2009 dai soldati, 800 seguaci furono massacrati nel villaggio di Waidil. Eccoli i martiri necessari ad ogni fanatismo totalitario. Ci sono incendi che ardono dentro, fiamme che divampano negli individui. Queste ultime sono le più pericolose, le uniche, le eterne. I talebani d’Africa sono diventati da allora il più sanguinario gruppo terroristico del mondo, quarantamila morti, con le loro grida che ti strappano all’indifferenza. Morti che parlano in incubi senza sonno. Ora annichiliscono ampi territori tra la Nigeria il lago Ciad il Niger e il Camerun, schierano tra diecimila e quarantamila lanzichenecchi arruolati tra i kanuri del Nord Nigeria, ma anche tra haussa, peul, buduma. Non gli eserciti in perenne ritirata ma feroci faide interne talora sfoltiscono i ranghi. Dal 2015 sono “la provincia dello stato islamico dell’Africa dell’Ovest”, un altro Califfato legato agli emiri di Siria e Iraq, ennesima schiera della Grande Minaccia islamista, del genocidio utopico in nome del paradiso in terra. L’economia del riscatto - Uomini nefasti, fautori di un fanatismo primordiale, che non credono nel valore del dubbio, nel rammarico per il ripetersi del proprio delitto. Gestiscono una florida economia criminale in quattro Paesi: tasse dai commercianti e dalle città che devono contribuire “al lavoro di dio”, milioni di euro di tangenti sulla esportazione di tonnellate del pesce del lago Ciad, i sequestri. Già: una economia del riscatto. Commercianti, studenti, funzionari, autisti, ognuno ha la sua tariffa. Nella sola regione di Dicca, in Niger, nel 2020 si è calcolato abbiano ottenuto un milione di euro. I Boko Haram muovono il commercio di intere regioni dall’economia derelitta, comprano cibo veicoli carburante carte telefoniche. Imprenditori si arricchiscono ripulendo il denaro dei riscatti. Ufficiali corrotti fanno finta di non vedere, di non sapere. Per decifrarne i troppi misteri bisogna addentrarsi nella foresta di Sambissa, feudo di Abubakar Shekau, il pazzo di dio, alla frontiera tra Camerun e Nigeria. O avere il coraggio di esplorare la geografia di “tounboun”, centinaia di isole che il progressivo ritrarsi del lago Ciad ha fatto emergere in quello che un tempo era “il mare d’Africa”. Non c’è nel continente un luogo più bello del lago; all’alba l’acqua è di una immobilità che sembra rendere minimi i dolori e le miserie degli uomini. E la fitta foresta delle piroghe indigene, ferme in riposo sulle rive, sembra attendere qualche avvenimento straordinario. Ma adesso tutto è finito e si respira l’aria di tristezza dei luoghi che un tempo floridi vivono di ricordi. Il lago si spegne come una creatura vivente, grandi cerchi di terreno secco, polveroso segnano lo spazio dove un tempo era l’acqua, simili agli anelli di vita di un albero abbattuto. Un popolo di profughi si aggrappa all’acqua che resta, la prosciuga, la uccide. Sulle isole più grandi i jihadisti hanno sistemato “caserme” e depositi di armi. A Tounboun-Kournawa un campo di addestramento ospita 500 reclute dell’emiro Abdulaye, uno dei capi della fazione vicina al califfato siriano. Qui, raccontano, ci siano soldati-bambini, dodici anni, iniziati alla crudeltà attraverso la tortura e la uccisione degli ostaggi. L’uomo? Buono per uccidere, buono per crepare. L’addestramento si svolge con proiettili veri, chi sbaglia riceve dieci colpi di frusta. Il precipizio - Ma chi comanda i Boko Haram? Ancora un mistero. Tutto ruota attorno a Abubakar Shekau, che fece rapire le studentesse di Chibok nel 2014, (“ho preso le vostre figlie, le venderò al mercato in nome di dio... “ gridava in un video, a tratti imbambolato, a tratti furente, nello sguardo assente il marchio di indelebile ferocia), numero di matricola negli elenchi dei terroristi Onu QI.S.322.14, taglia (americana) sette milioni di dollari. Non si sa dove è nato alcuni lo dicono nigeriano, altri del Niger; dubbia la data di nascita, il 1965... no forse il 1975. I governativi sostengono che Shekau che nei video minaccia come un invasato non è Shekau perché quello vero lo hanno ammazzato nel 2012! Dopo la morte di Yussuf di cui era mediocre allievo si è impadronito della setta, uno Stalin della boscaglia feroce e astuto, e l’ha convertita al terrorismo puro, che concima con il sangue. Il suo potere non era indiscusso, la violenza assoluta era criticata da un’ala “politica”. Le purghe del califfo - Nel 2016 quando si proclamò califfo dell’Africa occidentale una parte dissidente di Boko Haram si trasferì nel bacino del lago Ciad. Problemi gravi: chi controllava il denaro e le armi? Quanta violenza era produttiva contro le popolazioni? Una feroce purga ha spezzato subito i dissidenti. Su ordine alla Shura, il supremo tribunale, di Raqqa due capi, Maman Nur, influente ideologo, e al Barnawi sono stati giustiziati, accusati di moderatismo. Avrebbero tenuto contatti con il governo nigeriano che aveva lanciato la proposta “pentimento in cambio del perdono” a cui hanno aderito alcune centinaia di miliziani. Ora Shekau sembra aver ripreso potere. C’è la sua mano dietro l’ennesimo sequestro di quaranta studenti e insegnanti a Kagara, nell’Est. Ha sempre mantenuto infatti contatti con il banditismo, piccoli criminali e trafficanti a cui invia “consiglieri” e appalta i sequestri. I banditi hanno trovato una causa, fanno carriera. Egitto. Attivista egiziano ucciso da un poliziotto. Oggi udienza per Patrick Zaki di Chiara Cruciati Il Manifesto, 28 febbraio 2021 Adel Lofti era a capo di una ong che si occupava di microcredito, è morto accoltellato da un agente. La famiglia e la comunità chiedono giustizia. Oggi nuovo capitolo della lunga prigionia (senza processo) dello studente dell’Università di Bologna. Adel Lofti aveva 31 anni e viveva a Minya, nell’alto Egitto. Era il responsabile di una ong locale, “I am the Egyptian”, impegnata nel microcredito a piccole imprese. È stato ucciso a coltellate mercoledì scorso da un poliziotto che doveva restituire un prestito, racconta il portale di informazione Middle East Eye: Lofti era andato con alcuni colleghi a casa di Ayman Selim (che aveva chiesto un prestito per lanciare una piccola attività), per trovarsi di fronte un secco rifiuto e poi l’aggressione. Il poliziotto lo ha colpito al cuore con un coltello. Lofti è morto poco dopo nell’ospedale pubblico di Minya. Un caso, dunque, che non segue il copione ormai noto delle violenze strutturali della polizia su attivisti o semplici cittadini, ma che contiene abbastanza elementi da far temere alla famiglia e alla sua comunità che alla fine il caso venga archiviato, senza punizione per il responsabile. Per questo mercoledì fuori dall’obitorio in centinaia hanno manifestato chiedendo giustizia, per poi marciare verso i funerali nella chiesa cattolica della città (Lofti era copto). Di nuovo venerdì, durante il ricordo in chiesa, la famiglia ha ribadito di essere in attesa di spiegazioni ufficiali dalle autorità, mentre sui social in tanti partecipavano virtualmente alla protesta. Limitata nei numeri, ma comunque significativa in un paese in cui la repressione capillare del dissenso - vero e presunto, realizzato o intenzionale - è divenuto il metro che misura l’anormalità della vita politica e sociale. A preoccupare è l’appartenenza dell’agente, membro di un’unità nota nel paese per la corruzione che la attraversa, le violenze sui civili e i legami con la malavita, spiega il portale Mee. Al momento Selim è in custodia per quattro giorni in attesa della decisione della procura. E si difende: il coltello era di Lofti, ha detto, ci è caduto sopra. Intanto a 250 km di distanza, al Cairo, oggi si svolgerà una nuova udienza per la convalida della detenzione cautelare o il rilascio di Patrick Zaki, lo studente dell’Università di Bologna detenuto da oltre un anno. “Presenteremo alla corte documenti che provano le condizioni di salute di suo padre”, hanno riferito i legali alla pagina Fb “Patrick Libero”, nella speranza che possa spingere verso un po’ di clemenza. Il padre di Patrick è ricoverato da mercoledì in ospedale dopo un peggioramento delle sue già fragili condizioni: una brutta infezione si è aggiunta a malattie croniche, una situazione che gli attivisti imputano al dolore e la preoccupazione per il figlio.