“L’opposto del distanziamento sociale”: un anno di Covid nelle carceri italiane di Nicolò Arpinati dinamopress.it, 27 febbraio 2021 L’arrivo del virus nei penitenziari italiani ha portato allo scoperto tutte le problematiche che già affliggevano il sistema carcerario: se la seconda ondata è stata gestita un poco meglio rispetto alla prima, è ancora troppo poco. A un anno dall’inizio dell’emergenza pandemica appare ancora lontano il momento in cui sarà possibile tornare alla normalità. Questa condizione di precarietà ha portato molte persone a sperimentare l’angoscia di un isolamento prolungato e la quotidiana assenza di orizzonti: sensazioni solitamente più consone a chi vive in uno stato di libertà assente o parziale, come ha riconosciuto anche la storica associazione Antigone lo scorso maggio, parlando nel consueto rapporto annuale di “detenzione coatta domiciliare universale”. Il lockdown e le successive restrizioni più drastiche (le cosiddette zone rosse e arancioni) hanno costretto la popolazione a confrontarsi con una situazione esistenziale che i detenuti già conoscono bene. Nel frattempo il virus è arrivato anche in carcere, portando alla luce problematiche strutturali per cui l’Europa ha, più volte, condannato l’Italia. Prima è arrivata la paura e con essa le rivolte. “Buona parte delle violenze dello scorso marzo, durante la prima ondata, sono derivate dal fatto che, quasi da un giorno all’altro, l’amministrazione aveva comunicato che si sarebbero bloccate tutte le visite e tutti i colloqui coi familiari”, spiega Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone. La situazione è andata poi migliorando con il passare del tempo: “Per utilizzare una metafora idraulica, durante la pandemia è aumentato il flusso del rubinetto di uscita e sono stati molto rallentati i rubinetti d’entrata, quindi i i nuovi ingressi”. Paradossalmente il virus ha costretto dunque le amministrazioni penitenziarie a mettere mano ai molti problemi già presenti nelle carceri italiane. “C’è stato anche un fatto molto rilevante”, continua Miravalle: “Il procuratore generale della Corte di cassazione ha chiesto alle procure italiane di arrestare meno, di mandare meno gente in custodia cautelare in carcere. Questo a causa della pandemia”. Così, dopo le scene pazzesche di marzo e aprile, che hanno portato alla morte di quattordici detenuti, la situazione nei penitenziari italiani è leggermente migliorata. “Nella seconda ondata c’è stata un po’ più di preparazione, se non altro sul fronte della gestione delle misure restrittive”, conferma Miravalle: “I colloqui in presenza non sono mai ripartiti del tutto, dunque la popolazione detenuta era più preparata. Inoltre l’uso delle tecnologie per continuare a comunicare con l’esterno non è mai stato interdetto e questo ha permesso, per esempio, un abbassamento della tensione”. Le note positive si fermano però qui: neanche l’emergenziale abbassamento del numero di ingressi ha infatti risolto i problemi di sovraffollamento. “Una situazione che permane e che non permette di gestire meglio le situazioni di criticità durante la pandemia”, prosegue Miravalle: “Se c’è la necessità di fare un isolamento per motivi sanitari di un presunto positivo e non hai spazio perché tutte le celle sono già piene, quell’isolamento non si può fare e quindi c’è il rischio di far circolare il virus molto più velocemente”. Questo è dovuto anche al fatto che in Italia continua a prevalere una forte mentalità giustizialista: anche le normative legate al virus hanno dovuto fronteggiare questo atteggiamento, risentendone. Sottolinea ancora Miravalle: “Abbiamo assistito a uno scontro tra il populismo penale, così come chiamiamo la cultura del buttar via la chiave, e una cultura che invece sostiene che, soprattutto nei momenti di emergenza, dobbiamo anteporre i ragionamenti sul diritto alla salute rispetto ai ragionamenti securitari”. D’altronde in Italia ormai quasi nessuno crede più al valore riabilitativo della pena: addirittura un sondaggio dello scorso dicembre riportava che il 43% degli italiani è favorevole alla pena di morte. “La pena è anzitutto difesa sociale”, ammette anche Miravalle: “È chiudere dentro un recinto chiamato carcere le persone che possono recare una qualche sorta di pericolo alla società. Forse oggi il paese è più interessato agli aspetti della sicurezza rispetto agli aspetti rieducativi: in questo modo però sottovaluta l’impatto che effettivi percorsi rieducativi potrebbero avere anche sulla sicurezza. Se non si fa un lavoro di reinserimento con le persone, e questo è dimostrato dagli altissimi tassi di recidiva, una volta uscite dal carcere queste tornano a delinquere: alla fine la sicurezza non è stata garantita per nulla”. Un altro tema che spaventa l’associazione Antigone riguarda in parte proprio la funzione riabilitativa della pena. Il vigente ordinamento penitenziario prevede infatti che “Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro”. La pandemia ha però interrotto tutte quelle attività che i detenuti potevano svolgere all’esterno della casa circondariale. “Il crollo delle attività lavorative è a tutti gli effetti una delle conseguenze più palesi e temiamo possa durare molto più a lungo della pandemia”, dichiara Miravalle. Anche in un’ottica di ripresa delle attività lavorative dei detenuti appare quanto mai necessario che la popolazione carceraria tutta abbia accesso quanto prima ai vaccini. “Grazie anche alle proposte da parte di Antigone, del Garante nazionale e di varie associazioni che chiedevano d’inserire la popolazione detenuta tra le fasce con accesso prioritario alla vaccinazione, si è riusciti a inserire detenuti e operatori alla terza fase, mentre prima erano proprio ultimi”, ci dice Miravalle, pur con una punta di malcelata diffidenza. Ed è stata la regione Lazio la prima a intervenire sul tema, rimarcando le troppe differenze nell’amministrazione delle istituzioni carcerarie: una problematica che Antigone denuncia da anni. “L’amministrazione penitenziaria è sì molto gerarchica, ma anche estremamente frammentata”, dichiara Miravalle: “Quindi c’è profonda differenza a livello di approcci, di modelli di intervento tra carceri che magari sono di regioni confinanti e distano pochi chilometri”. Per tutti questi motivi è anche complesso tracciare un quadro preciso degli effetti del virus nei penitenziari italiani: “La sanità della regione Lazio in generale ha avuto un approccio migliore rispetto alla sanità lombarda o piemontese”, ribadisce Miravalle: “Le regioni del nord invece sono state zona rossa anche dal punto di vista carcerario. Tra gli esempi negativi sicuramente il Piemonte, dove la gestione è stata molto problematica con anche strategie proprio sbagliate. Ma è molto difficile commentare la situazione carceri e Covid a livello nazionale”. Covid, più positivi tra gli agenti: servono misure deflattive di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 febbraio 2021 L’allarme dei sindacati degli agenti: sono 401 i detenuti e 603 gli uomini della polizia penitenziaria contagiati dal Covid. Secondo i dati aggiornati alle 20 di giovedì scorso, siamo a 401 detenuti e 603 agenti penitenziari positivi al Covid 19. Il carcere abruzzese di Chieti risulta quello con il focolaio più grande: 52 i detenuti contagiati, tra i quali due in ospedale. A seguire il nuovo complesso di Rebibbia con 25 casi di detenuti infetti, tra i quali 4 ricoverati. Ma, al momento, è il personale penitenziario a essere quello più colpito. Il focolaio del carcere di Carinola ha reso indisponibili circa 30 agenti - Pensiamo al carcere campano di Carinola. Ben quindici agenti del Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria hanno preso servizio nel carcere casertano, dove il personale è stato decimato dal Covid-19. La decisione del Dap fa seguito all’istanza congiunta dei sindacati (Sinappe, Osapp, Uil Pa, Uspp, Fns Cisl, Cnpp ed Fp Cgil) che nei giorni scorsi hanno lanciato un appello anche al presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, al prefetto di Caserta, Raffele Ruberto, e al direttore generale dell’Asl di Caserta, Ferdinando Russo. Nel carcere di Carinola è infatti attivo un focolaio che ha reso indisponibili al servizio poco meno di 30 agenti. Ricordiamo che è passato quasi un anno dall’arrivo del Covid-19 in Italia e la vita dei carcerati è drammaticamente peggiorata: interrotti i colloqui con le famiglie, gli ingressi da parte dei volontari e tutte le attività. Una situazione di totale isolamento che ha fatto anche emergere tutte le criticità persistenti e comportato rivolte in diversi istituti penitenziari che, come effetto “collaterale”, è costata la vita a 14 detenuti. Senza contare gli episodi di presunti pestaggi da parte di alcune forze di Polizia penitenziaria, ancora al vaglio della magistratura. Resta però il nodo del Covid e del sovraffollamento: due fattori che non possono stare insieme nel momento in cui è severamente vietato creare assembramenti ed è obbligatorio applicare la distanza fisica. Come ha recentemente sottolineato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: “Il carcere è un luogo dove purtroppo si vive affollati, dove è complicatissimo mantenere le distanze, dove le condizioni igienico-sanitarie non sono sempre ottimali”.Il governo precedente ha adottato delle misure deflattive che però non hanno raggiunto lo scopo prefissato. Sia in tempo di “pace”, sia per ovvie ragioni in tempi “emergenziali”, ogni carcere non deve avere un affollamento che supera il 100%. Rita Bernardini da settimane fa la sua “ora d’aria” sotto il ministero di via Arenula - Come ha ben spiegato il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, lo scopo ultimo da raggiungere è quello di non superare il 98% dei posti disponibili. In sostanza non solo non bisogna superare la disponibilità effettiva dei posti, ma bisogna anche non occuparli tutti. C’è Rita Bernardini che da settimane fa la sua “ora d’aria” sotto il ministero di via Arenula per intraprendere un dialogo con la nuova ministra della Giustizia Marta Cartabia. Una azione non violenta, accompagnata ogni giorno da diverse personalità della cultura, politica e del mondo giuridico, per chiedere misure efficaci per decongestionare le carceri.Ma forse qualche luce in fondo al tunnel comincia ad intravvedersi. Sulla situazione dei detenuti arrivano segnali positivi dal nuovo governo. Nel discorso alla Camera dei Deputati del 19 febbraio il presidente del Consiglio Draghi ha affermato: “Infine, ma non meno rilevante, in tempi di pandemia non dovrà essere trascurata la condizione di tutti coloro che lavorano e vivono nelle carceri, spesso sovraffollate, esposti al rischio del contagio e particolarmente colpiti dalle misure necessarie per contrastare la diffusione del virus”. Anche la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, mette il carcere tra le priorità del suo programma. Per la ministra i detenuti non sono numeri, ma persone a cui “va garantito il rispetto dei diritti umani e la certezza che la pena sia scontata nel senso indicato dalla Costituzione”. Le parole sono importanti, mai sentite nei governi Conte e Conte bis. Ma ora si è in attesa che si passi all’azione. Nel frattempo, come già programmato, una parte dei soldi del Recovery Fund andranno alla Giustizia e al sistema penitenziario. L’associazione Antigone auspica che si possa “investire nelle misure alternative, più economiche e più utili nell’abbattere la recidiva rispetto al carcere. Si devono ristrutturare le carceri esistenti, potenziando le infrastrutture tecnologiche per assicurare la formazione professionale anche da remoto, per consentire ancor più incontri con il mondo del volontariato, per aumentare le possibilità di video-colloqui con familiari e persone care che si aggiungano ai colloqui visivi. Bisogna investire nel capitale umano, assumendo più personale civile ed equiparando il loro trattamento economico a quello di chi porta la divisa. Insomma quello che serve è un nuovo sistema penitenziario”. Casciaro (Anm): “Il risanamento della magistratura deve accelerare” di Giulia Merlo Il Domani, 27 febbraio 2021 Intervista al segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Salvatore Casciaro, di Magistratura indipendente. “La lettera a Mattarella contro il procuratore generale Salvi esprime un malessere che è diffuso in magistratura. L’autopromozione non è affatto, a mio avviso, un peccato veniale perché contribuisce ad alimentare quelle dinamiche di degenerazione correntizia da tutti deprecate”. Dottor Casciaro, è appena avvenuto l’insediamento della nuova ministra della Giustizia, Marta Cartabia e le riforme della giustizia sono ancora tutte aperte. La priorità è stata data a quella del civile, anche in vista dei fondi per il Recovery. Il testo depositato in parlamento va riscritto o è un buon punto di partenza? Sicuramente è un punto di partenza, ma il piano di ripresa e resilienza non è ancora definito. Il testo, soprattutto nelle sue linee di innovazione organizzativa, risente a mio parere della non compiuta interlocuzione con le rappresentanze delle categorie interessate - magistrati, avvocati e personale amministrativo - che avrebbero potuto dare un significativo contributo di idee e riflessioni. Ora purtroppo non c’è molto tempo, il termine di presentazione del piano scade ad aprile. Sarebbe però fondamentale recuperare un momento di confronto per arricchire i contenuti e migliorarne l’impatto sulla giustizia civile, i cui accresciuti livelli di efficienza potrebbero essere volano di crescita economica del Paese. Quali modifiche ritiene che vadano apportate? Il testo attuale si incentra sulla semplificazione dei riti, riducendo i tempi morti del processo, ma mi sembra manchi un intervento significativo sui sistemi di risoluzione alternativa delle controversie (Adr). La domanda di giustizia (in gergo le sopravvenienze) è da noi tra le più alte dei Paesi dell’Unione e non può trovare sbocco esclusivo nelle aule giudiziarie. Questo aspetto, a mio parere, non ha avuto la necessaria attenzione. A fianco alle modifiche sulla semplificazione dei riti, servirebbero misure per accelerare il momento della decisione, che è il vero “collo di bottiglia” della giustizia civile, come ad esempio scelte forti sul principio di sinteticità e chiarezza degli atti processuali. Senz’altro utili, anche se temo che se ne sia sovrastimato l’apporto, sono le misure sull’abbattimento degli arretrati mediante l’ausilio dei magistrati onorari aggregati. Carente si rivela l’impostazione sull’edilizia giudiziaria, un settore in cui il Ministero della Giustizia ha mostrato in questi anni difficoltà, e ciò al di là degli stanziamenti di bilancio che si è riusciti in passato a utilizzare solo in parte. L’edilizia giudiziaria è un problema che la giustizia italiana si porta sulle spalle da tempo... Il problema dell’edilizia giudiziaria, che vuol dire edifici non agibili e spazi inadeguati, interferisce con il progetto legato all’Ufficio del processo nel quale si vorrebbero investire le maggiori risorse del Piano. L’idea di assumere alcune migliaia di collaboratori amministrativi con la finalità di fornire supporto al giudice nella attività di approfondimento scientifico delle questioni e di preparazione delle bozze dei provvedimenti è senz’altro positiva. Mi chiedo però se siano state studiate le ragioni per cui l’Ufficio del processo, che già esiste come modulo organizzativo, non ha in concreto funzionato, e se siano stati individuati i correttivi che ne consentano il rilancio. Dobbiamo anche domandarci se gli edifici giudiziari, di cui è nota la ristrettezza di spazi, siano effettivamente in grado di accogliere tale significativo afflusso di risorse umane e se sia stata individuata una modalità di reclutamento che coniughi velocità di tempi e qualità della selezione, assicurando altresì che le nuove figure di assistenti del giudice con contratto a tempo determinato non vengano distolte, con le attuali gravi scoperture del personale amministrativo, dai compiti assegnati. Altro fronte spinoso è quello sulla prescrizione. La legge Bonafede andrebbe cassata o modificata? Non spetta a me dirlo. Compete alla responsabilità degli organi di indirizzo politico l’individuazione delle soluzioni più conformi all’interesse generale. Certo è indubbio che l’istituto della prescrizione, per come disciplinato, si è reso funzionale a un uso distorto e dilatorio degli strumenti di difesa nel processo e alla fine ha contribuito anch’esso all’allungamento dei tempi del giudizio. La consapevolezza di tali distorsioni è alla base della riforma varata con la legge 9 gennaio 2019, n. 3. Ma è evidente che in quell’assetto non si è individuato un punto di equilibrio tra i diversi interessi meritevoli di bilanciamento: si sarebbe dovuto contestualmente intervenire sui tempi del processo, favorendone la ragionevole durata, ed evitando che la persona accusata di un reato potesse restare indefinitamente in balia della pretesa punitiva dello Stato con compromissione di altri concorrenti valori costituzionali. Giusto prendere atto di quello che non ha funzionato e porre adesso rimedio. Infine la riforma del Csm, che più interessa la magistratura. Chiederete alla ministra di farsene carico? Auspico che la Ministra, la cui sensibilità su questi temi è certamente alta, se ne faccia carico. Il pervasivo sistema di degenerazione correntizia e le logiche clientelari e di appartenenza che lo hanno nutrito vanno definitivamente abbandonati, come le improprie commistioni tra politici e magistrati. Richiamo il qualificato monito del Capo dello Stato che ha sollecitato, a più riprese, una legge di riforma del sistema di funzionamento del Csm. C’è un’esigenza di cambiamento largamente avvertita dai magistrati e dai cittadini che guardano con sconcerto a quanto è emerso. È il momento di scelte coraggiose che siano effettivamente in grado di restituire piena credibilità e prestigio dell’ordine giudiziario. L’Anm si farà portatrice di alcune proposte concrete al ministero della Giustizia? Sul tema della riforma del Csm, come pure sulle altre riforme della giustizia, l’Anm fornirà, se richiesta, il suo contributo tecnico frutto dell’impegno e dell’esperienza, vivificata dal lavoro quotidiano negli uffici giudiziari, delle migliaia di magistrati suoi aderenti. Sono state istituite delle commissioni di studio permanenti con la finalità di approfondire ogni aspetto nella consapevolezza che le diverse sensibilità culturali presenti dentro l’Associazione arricchiranno il dibattito, specie sul tema delicato della riforma elettorale del Csm e del T.U. della dirigenza giudiziaria. Ma l’Anm è pronta a interloquire anche sui temi delle riforme legate al Recovery e sulle proposte di modifica del processo civile e penale nonché sul ddl di riforma della disciplina ordinamentale. Con riferimento a quest’ultimo, siamo stati già sentiti dalla Commissione giustizia della Camera formulando in quella sede alcune prime osservazioni. C’è già stata interlocuzione con Cartabia, anche a livello conoscitivo? Non ancora; abbiamo espresso, indirizzandole una lettera, l’auspicio di incontrare al più presto la Ministra Cartabia, che è di certo consapevole della difficoltà del momento accentuata dalla drammatica crisi sanitaria che sta vivendo il Paese per l’emergenza pandemica in atto. L’incontro sarà importante per discutere anche sull’opportunità di prorogare la disciplina emergenziale. Si avvicina la scadenza del 30 aprile e l’emergenza sanitaria è purtroppo ancora in atto, sicché le esigenze di programmazione degli uffici giudiziari richiederanno, per assicurare continuità del servizio, l’adozione di misure con un certo anticipo. Alcuni magistrati, tra i quali anche suoi colleghi all’Anm, hanno scritto una lettera rivolta al capo dello Stato, nonostante lei e il presidente Santalucia lo abbiate incontrato nei giorni scorsi. Nella missiva si sollevano dubbi sulla condotta del procuratore generale di Cassazione, alla luce del caso Palamara. Come interpreta questo gesto? Sono iniziative che esprimono, sia pure con modalità clamorose, un diffuso malessere ed un’ansia di cambiamento di cui l’Anm deve necessariamente farsi interprete sul piano culturale e sul piano della concreta azione associativa; non è pensabile che non si recuperi una tensione etica nei comportamenti in netta discontinuità rispetto al passato. Quei colleghi hanno valutato in modo fortemente critico, proprio perché in apparente controtendenza con l’anelito di cambiamento, talune iniziative: mi riferisco in particolare alla contestata direttiva della Procura generale della Cassazione del giugno scorso sulla delibazione del materiale informativo proveniente dalla Procura di Perugia. Nella direttiva si considera non disciplinarmente rilevante l’autopromozione... L’autopromozione non è affatto, a mio avviso, un peccato veniale perché contribuisce ad alimentare quelle dinamiche di degenerazione correntizia da tutti deprecate. Come l’esperienza amaramente insegna, sull’auto o etero-promozione si è costruito e alimentato un costume esecrabile, che ha portato negli anni a interferire sulle nomine degli organi consiliari inquinando pesantemente i meccanismi di valutazione comparativa fra i concorrenti. Di qui il comprensibile disorientamento per l’esclusione - che è potuta apparire, in questo delicato periodo, sottovalutazione - dei fenomeni di self marketing, sia pure delineati restrittivamente nella direttiva, dalla lente del disciplinare. Si tratta di condotte che, ritengo, sarebbero avvertite nel comune sentire come gravemente offensive anche se non poste in essere da magistrati, dai quali è sicuramente lecito pretendere un supplemento di rigore e correttezza comportamentale. Tutt’altro discorso è quello che involge le rivelazioni del libro-intervista di Luca Palamara che, anche laddove hanno investito cariche istituzionali, meritano di essere sottoposte ad accertamento, con approccio garantista, nelle sedi proprie e nel pieno rispetto del contraddittorio. Tra le indicazioni per “sanare” la magistratura, la lettera indica il sorteggio per i membri del Csm e la rotazione degli incarichi direttivi. Soluzioni che, anche se di minoranza, verranno discusse all’Anm? L’Anm è il luogo dell’ascolto delle idee di tutti e dell’elaborazione di una sintesi, possibilmente alta; non ci sono argomenti tabù e tutte le componenti associative, e le idee e riflessioni che esse incarnano, hanno pari dignità. L’Anm recupererà appieno autorevolezza se mostrerà di avere la capacità di ascoltare e di confrontarsi culturalmente, dentro e fuori di sé, in maniera franca e rispettosa. Non a caso la premessa del programma della nuova Giunta esecutiva centrale muoveva dal rilievo, che era poi cifra di discontinuità col passato, che nessun gruppo associativo potesse rivendicare una superiorità etica rispetto agli altri, anche perché occorre partire dalla considerazione che in ogni componente associativa ci sono colleghi che offrono il loro tempo per gli ideali in cui credono e si battono generosamente per il bene comune. Il mandato della sua Giunta è cominciato con una dichiarazione di intenti di discontinuità rispetto al passato. È presto per i bilanci, ma è un cambiamento che si è innescato? È la domanda più difficile. Sono trascorsi poco più di due mesi dall’insediamento della nuova Giunta esecutiva centrale dell’Anm ed è presto per i bilanci. Credo che il cambiamento si sia inesorabilmente innescato, ma non le nascondo che vorrei progredisse molto più celermente. L’Anm è una realtà complessa, e quindi ha le sue regole funzionamento, i suoi riti direi, ne è dimostrazione il lungo percorso per la costituzione delle commissioni permanenti di studio, le cui proposte sui temi della dirigenza giudiziaria e dell’assetto del Csm saranno davvero fondamentali per dare il segnale di un risveglio dell’associazione. Questo cambiamento andrà avanti anche con il collegio dei probiviri che si è solo da poco insediato, rinnovato nella sua composizione, e che sta operando, con serietà e competenza, per l’accertamento della conformità delle condotte emerse allo statuto etico dell’associazione. Sono certo che la magistratura potrà attingere alle sue migliori risorse culturali, valoriali ed etiche per superare questo difficile momento e recuperare credibilità e prestigio. Riscrivere la riforma della prescrizione dovrebbe essere una priorità di Claudia Prioreschi Il Domani, 27 febbraio 2021 La scelta della ministra di salvare - almeno momentaneamente - la riforma Bonafede sembra più una mossa politica che un’organizzazione istituzionale dei lavori del Governo. Ma consentire il perdurare nell’ordinamento di una norma potenzialmente contraria alla Costituzione e ai diritti fondamentali dell’uomo è un errore e una correzione della norma non può non essere una priorità. Bisogna far comprendere al cittadino che la giustizia non è vendetta per le vittime e che domani potrebbe essere lui imputato e trascorrere la propria esistenza in attesa di una sentenza. Ho aspettato con profonda suspence le dichiarazioni della nuova ministra della Giustizia Marta Cartabia sulla riforma Bonafede che sospende la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Avevo immaginato che ci sarebbe stata una scelta più drastica di eliminazione di una legge con evidenti profili di incostituzionalità, invece l’aspettativa è stata ampiamente tradita. Il prodotto della mala gestio non è stato immediatamente defenestrato, dunque per ora la riforma della prescrizione rimane sospesa, in attesa di venire trattata nel più complesso quadro di una riforma del processo penale. Ci si interroga su quando verrà conferita l’ennesima delega al governo per mettere mano al processo penale e la speranza è che non arrivi allo scadere della legislatura e che sia in grado di rispondere alle reali esigenze di riforma del sistema giustizia. Tuttavia, la scelta della ministra di salvare - almeno momentaneamente - la riforma Bonafede sembra più una mossa politica che un’organizzazione istituzionale dei lavori del Governo. Come se consentire il perdurare nell’ordinamento di una norma potenzialmente contraria alla Costituzione e ai diritti fondamentali dell’uomo non sia una priorità. Questo atteggiamento di pericolosa tolleranza conduce a delle riflessioni inevitabili. Ci si chiede come sia possibile che correggere gli effetti non solo giuridici ma anche politici e sociali di alcune riforme nate storpie non si un obiettivo impellente per il nuovo governo. Una tolleranza anche temporanea della situazione, infatti, appare ai miei occhi come un’occasione persa di dimostrare che la missione dello Stato di diritto è quella di dare giustizia e non vendetta, garantendo un giusto processo a tutti i cittadini. Questo limbo di attesa spaventa, perché fa passare l’idea pericolosa che si possano anche solo temporaneamente tollerare le storture del sistema e la compressione dei diritti fondamentali. È il concetto di fondo, a prescindere dal verificarsi concreto del suo effetto, ad essere sbagliato ab origine. Lo spettro che aleggia ormai da anni, e che non è stato ancora esorcizzato è quello di una tendenza giustizialista, rafforzata spesso dalla difficoltà per l’opinione pubblica di comprendere alcune dinamiche processual-penalistiche. Proprio questo cortocircuito è stato la causa anche della prassi distorta - soprattutto a fronte di situazioni emergenziali - di una legislazione di emergenza, che però invece di avere effetti solo temporanei rimane annidata per anni nell’ordinamento. Un esempio per tutti è il regime del 41bis - quello del carcere duro per i detenuti di reati gravi come la mafia e il terrorismo - nacque per far fronte ad un temporaneo scenario emergenziale ed è invece diventato più longevo di tante misure adottate per essere perduranti nel tempo. La deriva giustizialista - La paura che il dibattito penale si riduca ad un problema di prescrizione è tanta e comprensibile: è giusto pensare ad una riforma penale di più ampio respiro, ma allora in questa sede bisognerebbe fare i conti anche con la tesi non veritiera che la responsabilità delle lungaggini del processo penale sia di avvocati e imputati, che vengono così ritenuti responsabili dell’ingiustizia del sistema. Chi non conosce le aule di giustizia ma solo i legal-thriller americani in televisione pensa che la difesa punti alla prescrizione facendo testimoni a difesa superflui, proponendo istanze dilatorie, chiedendo rinvii pretestuosi. Non sa cosa accade realmente nel corso delle istruttorie italiane. Non sa che la maggior parte di processi si prescrivono in fase di indagine, che alcune procure adottano la prassi distorta di posticipare l’iscrizione formale delle notizie di reato, mantengono indagini contro ignoti nonostante abbiano già identificato e proceduto a far eleggere domicilio all’indagato. Proprio questo comporta che il processo vero e proprio in contraddittorio tra le parti venga celebrato anni dopo i fatti, costringendo gli imputati a difendersi prima dal processo e dagli effetti del tempo, della memoria, dalle dimenticanze dei propri testimoni, dalle proprie dimenticanze, senza poter nel frattempo andare avanti con la propria vita. La mancanza di risorse economiche adeguate che consentano di implementare il sistema giustizia, di ampliare l’organico di magistrati, di cancellieri, di fonici trascrittori, di strumenti informatici (e di comprare risme di carta, perché in molti tribunali manca la carta) non può ricadere sul cittadino. Lo Stato Italiano non ha risorse per consentire un giusto processo in tempi brevi? Allora abdichi il suo potere e rinunci a perseguire un cittadino. Si fermi di fronte alla propria incapacità di garantire il rispetto del diritto alla difesa e soprattutto della finalità rieducativa della pena. Dopo decenni dai fatti oggetto del processo, si arriva a comminare delle pene a persone completamente differenti da quelle che hanno commesso il delitto per cui sono processati. Si paralizzano le vite delle persone imputate per anni. Non si pensa che un imputato sia una persona con una vita da continuare a condurre e che invece rimane sospesa in quei 10, 15 anni, 20 anni. E non si pensa che quest’imputato potrebbe essere innocente o - se colpevole - dovrebbe avere diritto ad una riabilitazione e un reinserimento nella società una volta scontata la pena. Nel film documentario “In the same boat”, alcuni tra i più autorevoli studiosi internazionali (come Pepe Mujica, Tony Atkinson, Zygmunt Bauman, Serge Latouche, Erik Brynjolfsson, Mariana Mazzucato e altri) si interrogano su temi come la globalizzazione, l’avvento della robotica, l’immigrazione: tutti processi in atto nelle grandi economie avanzate che indubbiamente potranno trasformare il mercato del lavoro, la distribuzione del reddito ma anche e soprattutto i sistemi di sicurezza sociale. Riflessioni quest’ultime che conducono a trattare temi come quello della giustizia e della riforma del processo in stretta connessione con l’obiettivo primario di ogni pubblica amministrazione: perseguire il benessere dei cittadini. Lo scenario di un’umanità che “viaggia su una stessa barca” e che sta attraversando una fase estremamente critica che necessariamente dovrà portare ad un cambiamento radicale sembra anticipare riflessioni fortemente attuali a livello mondiale. Se non si comprende che l’umanità è sulla stessa barca, che i sistemi e le istituzioni sono necessari a garantire il perdurare della civiltà, la pace tra i popoli, perseguendo l’unico scopo precipuo che è il benessere dei cittadini, ogni ramo delle istituzioni viene svuotato del suo significato. Se il cittadino non comprende che la giustizia non è vendetta per le vittime e che domani potrebbe essere lui imputato anche per un reato bagatellare e trascorrere la propria esistenza in attesa di una sentenza, il tema della compressione dei diritti dell’imputato nel processo non sarà mai una priorità. Se non si interviene con un’adeguata operazione di sensibilizzazione, di istruzione, che miri a consentire a tutti i cittadini di comprendere cosa sia veramente il processo penale, temo che la politica bisognosa di consensi continuerà ad avere tendenze giustizialiste. Se non dirigiamo il timone di questo vascello verso la retta via, la conseguenza sarà quella di perdersi e naufragare. I magistrati: “Troppi arresti per reati minori” di Giuseppe Legato La Stampa, 27 febbraio 2021 Lo studio promosso da Area Dg che ha coinvolto 60 tra pm e giudici del Piemonte: “Concentrare le forze su arresti facoltativi per fatti meno gravi distoglie le indagini da quelli complessi”. La premessa è d’obbligo ed è anche politically correct: “Non è una polemica, ma un’analisi che vuole costruire un miglioramento generale del sistema”. C’è ancora, prima di entrare nel merito, una richiesta esplicita: “Non creiamo contrapposizioni con la polizia giudiziaria, Non è né l’intento né lo spirito di questo lavoro”. E però è destinato ad aprire un profondo dibattito nel mondo della giustizia lo studio stilato da una sessantina di magistrati (pm, giudici, gip etc..) del Distretto, proposto e sviluppato dalla corrente di magistratura “Area”. Che pone l’accento su un dato: “Negli ultimi anni si è registrato un progressivo aumento degli arresti a Torino e il lockdown del 2020 non ha ridotto la tendenza per quanto ci si potesse attendere in linea teorica, Tutt’altro. “É aumentato il numero di arresti in flagranza soprattutto per fatti non connotati da particolare gravità”. “Le insicurezze sociali reali o percepite - ha detto Roberto Arata, del coordinamento nazionale di Area - non vanno sottovalutate: la credibilità della giurisdizione passa anche attraverso la capacità di fornire risposte serie e tempestive a reati che tutti i giorni quelle insicurezze alimentano. Le risorse però non sono infinite, e concentrare le forze su arresti in flagranza per fatti meno pericolosi implica distogliere le indagini da fenomeni criminali più complessi”. Chiaramente non ci si riferisce ai reati da “Codice Rosso” pur quadruplicati negli ultimi quattro anni (82 nel 2016, 253 nel 2019, 308 nel 2020)., tantomeno a quelli legato agli stupefacenti (passati da 977 a 1415). Il tema è sul totale degli arresti in flagranza “su cui hanno spiegato il pm Enrico Arnaldi di Balme, il gip Maria Francesca Abenavoli e il giudice Giulia Maccari - vogliamo stimolare una riflessione fra tutte le parti coinvolte per migliorare il servizio in un settore che viene troppo sbrigativamente liquidato come giustizia “minore”. Operazione resasi necessaria, per non dire indifferibile, anche dai numeri sul totale degli arresti e dei fermi passato dai 2.466 del 2014 ai 3.538 del 2019. Durante l’emergenza sanitaria del 2020 sono scesi nel complesso a 3.285, anche se sono aumentati in maniera netta quelli per resistenza a pubblico ufficiale (370 nel 2016, 540 nel 2020). Dal 2016 al 2020 nel circondario giudiziario di Torino so o invece calati gli arresti per furto e rapina, che nel 2014 erano 1.032 e nel 2020 si fermano a 825, 74 in meno del 2019 nonostante la pandemia da Covid-19 e i conseguenti lockdown. C’è una tendenza dunque che è già riscontrabile dalle prime comunicazioni tra la polizia operante e il magistrato di turno: “con maggiore frequenza rispetto a quanto avveniva in passato gli operanti insistono nella volontà di eseguire l’arresto anche davanti a forti perplessità manifestate dal pm”. Questo genera criticità frequenti. Tra di esse gli arresti per furto per particolare tenuità del fatto (“La professoressa incensurata arrestata perché in coda all’Ikea passa dritta alle casse rubando un mestolo”) o gli arresti per false dichiarazioni sull’identità personale”. Tra gli arresti facoltativi sempre più in aumento vanno segnalati quelli per resistenza a pubblico ufficiale “di ubriachi o sofferenti psichici che reagiscono con violenza ai controlli delle forze dell’ordine chiamati a interrompere le loro condotte moleste”. Sembra ragionevole - spiegano i promotori della ricerca di Area Dg - “ipotizzare che un approccio diverso, magari con un maggiore coinvolgimento di autorità sanitarie o altri enti, o con l’applicazione di protocolli specifici, in alcuni casi permetterebbe di evitare misure così estreme”. Intercettazioni “light”: con Bonafede costi giù di 10 milioni all’anno di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2021 Disarcionato nel passaggio dal governo Conte a quelle di Mario Draghi, l’ex ministro M5S della Giustizia, Alfonso Bonafede, almeno un fiore all’occhiello può appuntarselo con orgoglio: quello dei risparmi alle spese per le intercettazioni sostenute dagli uffici giudiziari italiani degli ultimi due anni. E, soprattutto, quelli previsti per il futuro dopo il varo del nuovo tariffario messo a punto da una commissione insediata negli uffici romani di Via Arenula. Iniziamo dalle spese recenti. La relazione tecnica stilata dal dirigente ministeriale Massimiliano Micheletti che accompagna lo schema di decreto recante “disposizioni per l’individuazione delle prestazioni funzionali alle operazioni di intercettazione e per la determinazione delle relative tariffe” (trasmesso alla presidenza del Senato 1’8 febbraio scorso), parla chiaro. Dall’analisi dei dati a consuntivo del relativo capitolo di bilancio, emerge infatti un andamento dei costi per intercettazioni variabile tra il 72% e il 75% rispetto alle risorse stanziate in bilancio. Nell’anno 2018, per dire, a fronte di uno stanziamento pari a 230 milioni e 718 mila euro, sono state registrate spese per complessivi 180 milioni. Mentre nel 2019, rispetto ai 215 milioni stanziati, ne sono stati spesi solo 191. E non è poco, vistele polemiche passate sulle risorse impegnate per questo tipo di attività dalle procure. Quanto invece alle buone notizie previste per il futuro, vengono appunto dalle proiezioni di spesa fatte dal ministero sulla base del nuovo tariffario previsto per ogni singola attività investigativa: intercettazioni telefoniche, informatiche e telematiche, ambientali audio e video, veicolari, eccetera. Per cominciare, non è stato stabilito un importo fisso peri costi che gli uffici giudiziari dovranno liquidare per queste prestazioni, ma un range tra un minimo e un massimo che non dovrà comunque essere superiore al costo medio rilevato presso i cinque centri distrettuali con maggior indice di spesa. Cioè le Procure di Palermo, Roma, Napoli, Milano e Reggio Calabria. Dall’analisi dei dati a disposizione della direzione generale di statistica del ministero della Giustizia, risulta intanto che i “bersagli intercettati” negli ultimi cinque anni sono stati mediamente 130 mila l’anno, di cui 1’85% sono state intercettazioni di tipo telefonico, il 12% ambientali e il 3% di tipo telematico. Il nuovo listino prezzi ministeriale stabilisce una tariffa massima giornaliera di 2,42 euro per gli ascolti telefonici, 75 euro per le intercettazioni delle comunicazioni di tipo ambientale, 120 euro per quelle telematiche. Considerando che la durata media di queste operazioni è stata negli ultimi anni di circa 57 giorni per le intercettazioni telefoniche, di 72 giorni per quelle ambientali e di 73 giorni per quelle di tipo telematico, “moltiplicando la durata complessiva con la tariffa giornaliera massima di ogni prestazione come da (nuovo) listino”, scrivono i tecnici ministeriali, “si ottiene il totale della spesa complessiva annua per categorie di prestazione funzionale alle intercettazioni”. In totale circa 134 milioni di euro, il 7% in meno rispetto all’anno scorso. Facendo il confronto “tra il risultato ultimo con la spesa sostenuta perle prestazioni funzionali dell’anno 2019 (oltre 144 milioni, ndr) si evidenziano possibili risparmi di spesa dell’ammontare complessivo annuo di 9,9 milioni di euro”. Naturalmente, da verificare a consuntivo. Non solo Graviano, altri 5 boss chiedono il permesso premio di Marco Lillo Il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2021 La richiesta del boss della mafia recluso al regime di isolamento del 41bis Filippo Graviano per ottenere il permesso premio non è l’unica. Solo nel carcere di L’Aquila, al Fatto Quotidiano risultano altre tre richieste di permesso premio da parte di boss detenuti al 41bis. Il primo è Maurizio Capoluongo, 59 anni boss di San Cipriano d’Aversa dalla fine degli anni Ottanta, vicino a Michele Zagaria, recluso al 41bis. Capoluongo ha chiesto un permesso ad agosto, ma pur non avendo avuto risposta sa che comunque uscirà tra sei mesi per fine pena. Più lontana la libertà per Giuseppe D’Agostino, 51 anni, boss della camorra salernitana. Ha chiesto un permesso di tre giorni il 23 settembre scorso. Dovrebbe uscire comunque per fine pena nel 2023. Pasquale Gallo, 64 anni, detto “‘O Bellillo”, boss di Torre Annunziata che per anni ha conteso lo scettro a Valentino Gionta, ha fatto richiesta di permesso il 17 ottobre del 2020. Gallo in cella ha preso tre lauree magistrali e l’istanza l’ha scritta da solo. Si accontenterebbe di 8 ore di permesso. L’Aquila è l’epicentro del 41bis: sono167 in tutto i reclusi con questo regime. Ma anche a Sassari, dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha di fatto eliminato l’articolo 4 bis che prima vietava i permessi ai boss, si sta alzando l’onda delle richieste. Come è noto non è andata bene a Pasquale Apicella, 52 anni, detto “‘o Bellomm”, vicino al clan dei Casalesi. Anche lui, nonostante sia detenuto al 41bis, ha chiesto il permesso, negato dal tribunale. Apicella ha fatto ricorso in Cassazione e la Suprema Corte ha riconosciuto che la motivazione del Tribunale era sbagliata. Non si può escludere il permesso per i boss al 41bis automaticamente solo perché quel regime “sarebbe stato vanificato da un permesso-premio”. Ci vuole qualcosa di più per dire no. Così a Sassari, un altro ‘casalese, cioè Vincenzo Zagaria (non parente di Michele) recluso al 41bis, ci ha riprovato, ma il Tribunale di Sorveglianza di Sassari non ha cambiato linea. Il 41bis “non avrebbe più alcun senso - per i giudici di Sassari - se il detenuto sottoposto al regime penitenziario differenziato potesse uscire dal carcere per tenere rapporti anche fisici con i propri familiari e conviventi (...) ne discende che fin tanto che Vincenzo Zagaria rimarrà sottoposto al regime sanzionatorio differenziato di fatto non potrà mai avere accesso al beneficio premiale invocato”. Le richieste sono basate sul cambiamento di personalità e sul comportamento corretto in carcere. La dissociazione è la nuova frontiera. Per ora compare nella richiesta di Filippo Graviano, classe 1961, recluso dal 1994. Il boss palermitano ha presentato la sua richiesta, scritta dall’avvocato Carla Archilei, il 5 gennaio del 2021. Graviano chiede un giorno di permesso. Il boss (condannato come mandante per le stragi del 1992 e del 1993 e per l’uccisione del beato don Pino Puglisi) come gli altri boss fa leva sulla sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019, presidente Giorgio Lattanzi, redattore Nicolò Zanon, membro della Corte, con Giuliano Amato e altri anche Marta Cartabia. La sentenza ha dichiarato incostituzionale l’articolo dell’Ordinamento penitenziario nel punto in cui di fatto I impedisce che un mafioso possa accedere ai permessi premio se non collabora. Marta Cartabia, poi presidente della Corte, ora è ministro della Giustizia e per uno dei suoi primi appuntamenti istituzionali ha incontrato il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, lanciando un segnale preciso. Filippo Graviano cita la sentenza ma nell’istanza si autocita con un passo della sua dichiarazione del 6 maggio 2010, quando era detenuto a Parma. Già allora vantava con i magistrati il suo cambiamento e scriveva che “la conclusione del suddetto percorso è la mia dissociazione dall’organizzazione criminale”. Filippo Graviano si dice cambiato. “Le motivazioni del mio miglioramento - scrive il boss - possono essere attribuite alla mia predisposizione al cambiamento”. “Intenti persecutori al 41bis per il nipote di Messina Denaro” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 febbraio 2021 La denuncia dell’avvocato Michele Capano che ha discusso il reclamo contro la proroga del carcere duro. La vendetta di Stato consumata nei confronti di Raffaele Cutolo, lasciato morire da solo al 41bis, ha riaperto la discussione sul carcere duro: è ancora necessario? E se sì, si trasforma spesso in una tortura, andando oltre la sua prerogativa che è semplicemente quella di isolare il detenuto dal contesto criminale? Lasciamo ai giuristi il compito di rispondere a questa domanda. Noi, invece, vi raccontiamo la storia di Francesco Guttadauro, nipote del super boss latitante Matteo Messina Denaro. L’uomo, classe 1984, è stato condannato definitivamente nel 2016 a 16 anni di carcere per associazione di stampo mafioso. Attualmente sta scontando la sua pena in regime di 41bis presso il carcere di Nuoro. Proprio il giorno in cui è morto Cutolo, il suo legale, l’avvocato Michele Capano, consigliere generale del Partito Radicale, ha discusso dinanzi al Tribunale di Sorveglianza di Roma il reclamo contro la proroga del 41bis per Francesco Guttadauro, disposta dal ministero della Giustizia il 7 gennaio 2020. Come è avvenuto con Cutolo, l’udienza è stata calendarizzata oltre un anno dopo dal reclamo difensivo: eppure l’ordinamento penitenziario prevede, sia pure in termini meramente ordinatori, il termine di 10 giorni per la decisione del reclamo da parte del Tribunale di Sorveglianza, per non vanificare la portata dell’eventuale rimedio giurisdizionale che deve intervenire su un provvedimento avente la durata di due anni. Secondo l’avvocato Capano, “nei confronti di Guttadauro, come ho cercato di illustrare al Tribunale di Sorveglianza di Roma, il ministero della Giustizia e l’amministrazione penitenziaria hanno da tempo assunto un atteggiamento persecutorio che nulla ha a che vedere con le questioni di sicurezza e con le finalità che presiedono alla stessa applicazione del “41bis”. Ho posto all’attenzione dei giudici come la condotta del Dap evidenzi l’intento di “potenziare”, in modo indebito, la portata afflittiva della pena in esecuzione. È emblematico e decisivo, a riguardo, il caso della fede nuziale: che per anni non è stato consentito al detenuto di indossare”. E infatti ha dell’incredibile questo episodio relativo alla fede nuziale. Ve lo riassumiamo così: nel 2018 Guttadauro era recluso nel carcere di Sassari, la cui direzione decide che non può tenere la fede per vari motivi: tutti gli oggetti di valore vengono ritirati appena si entra in carcere e inoltre quell’anello con un brillantino incastonato sarebbe potuto essere un oggetto attraverso cui Francesco Guttadauro avrebbe potuto manifestare superiorità nella sezione detentiva di appartenenza. A seguito di reclamo il magistrato di Sorveglianza di Sassari, Riccardo De Vito, accogliendo, motiva così: “il diritto a tenere la fede nuziale con sé trova base legale nell’articolo 15 dell’Ordinamento penitenziario e nell’articolo 28 del medesimo Ordinamento, dedicato alla particolare cura a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le famiglie. Più a monte si colloca l’articolo 29 della Costituzione, che costituisce norma intesa alla tutela della famiglia e del matrimonio anche perché il detenuto trascorre 22 ore in camera detentiva da solo. Proprio in tali momenti di solitudine il valore del possesso dell’oggetto emerge in tutta la sua dimensione morale ed affettiva, non essendo possibile alcun ostentamento”. Intanto il detenuto viene trasferito nel carcere romano di Rebibbia, ma comunque la fede nuziale non gli viene restituita e l’avvocato è costretto a chiedere un giudizio di ottemperanza: “Secondo un costume consueto, di inquietante portata eversiva, anche quando la magistratura di sorveglianza accoglie i reclami dei detenuti si registrano una resistenza pervicace e, talora, escamotage truffaldini come lo spostamento ritorsivo da un istituto all’altro. Si è costretti così, con l’ulteriore perdita di tempo (che è il tempo dell’esercizio negato di diritti), quale ulteriore tappa della “via crucis”, a ricorrere a giudizi di ottemperanza per consentire che avvenga l’effettiva esecuzione di quanto statuito in sede giurisdizionale”. Ma la teoria di “punture di spillo” persecutorie nei confronti di Guttadauro Francesco, spiega l’avvocato Capano, non finisce qui: “L’Amministrazione penitenziaria ha impedito al detenuto di godere del suo diritto alle due ore d’aria al giorno riducendola in maniera del tutto arbitraria e pretestuosa ad una sola, con grave pregiudizio alla socialità del Guttadauro”. A tal proposito il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha riconosciuto l’illegittimità della decurtazione dell’ora d’aria riconoscendo che le ore d’aria, esclusa quella della socialità, erano due al giorno per un totale giornaliero di tre ore. In questo caso il Dap e il ministero della Giustizia si sono impegnati in un ricorso in Cassazione per ribaltare, senza successo, il provvedimento della magistratura di sorveglianza; solo dopo la sentenza del 2018 della I sezione della Cassazione è stata scritta la parola fine su tale ulteriore e indebita, privazione. Stesso discorso per l’uso del televisore nel corso della 24 ore giornaliere, nonostante il magistrato di Sorveglianza di Sassari avesse accolto il reclamo della difesa scrivendo che quel divieto pregiudicava “il diritto all’informazione di ogni detenuto e il diritto a quel poco di trattamento residuo posto in essere nei confronti dei detenuti costretti in camera singola 22 ore su 24”. La morale sottesa al racconto è per l’avvocato Capano che “a fronte delle già rilevantissime limitazioni di diritti fondamentali connesse al regime del carcere duro, si succedono ulteriori restrizioni motivate, con evidenza solare, da puri intenti persecutori, che in uno Stato di diritto non dovrebbero avere cittadinanza. All’udienza del 18 febbraio, i cui esiti non sono giunti ma su cui non ci facciamo troppe illusioni, ho segnalato come il ministero e il Dap avessero “esibito” lo stesso profilo del caso di Raffaele Cutolo. La presidente Cimmino mi ha chiesto se mi rendessi conto di ciò che affermavo: le ho risposto che mi assumevo volentieri la responsabilità delle mie dichiarazioni. Mi chiedo se nella nostra povera Repubblica eguale assunzione di responsabilità ci sia per atti che compiuti come sono “in nome del popolo italiano” manifestano troppo spesso un disprezzo per le norme poste a salvaguardia delle prerogative fondamentali della persona, e quindi un disprezzo di quello stesso “popolo italiano” da cui promanano”. La pena di I grado sbagliata ma favorevole al reo non esclude in appello le diminuzioni di rito di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2021 Le Sezioni Unite precisano inoltre che nell’abbreviato non è rimessa all’apprezzamento del giudice la misura della decurtazione del trattamento sanzionatorio. La diminuzione della metà della pena inflitta per il reato contravvenzionale, prevista dal rito abbreviato, deve essere operata dal giudice di appello anche se la pena comminata in primo grado risulti per errore favorevole all’imputato perché inferiore ai minimi edittali della fattispecie per cui si doveva procedere. Così le sezioni Unite penali della Corte di cassazione con la sentenza n. 7578/2021, nel risolvere il conflitto tra orientamenti contrapposti, hanno affermato il seguente principio di diritto: “Il giudice di appello investito della sola impugnazione dell’imputato che, giudicato con rito abbreviato per un reato contravvenzionale, lamenti l’illegittima riduzione della pena ai sensi dell’articolo 442 del Codice di procedura penale nella misura di un terzo anziché della metà, deve applicare detta diminuente nella misura di legge, pur quando la pena irrogata dal giudice di primo grado non rispetti le previsioni edittali e sia di favore per l’imputato”. La Cassazione ribadisce l’immutabilità della pena che per errore sia favorevole all’imputato, al contrario del caso in cui sia sfavorevole. La diminuente risponde, infatti, all’applicazione di un automatismo a cui il giudice non può sottrarsi in ragione di non amplificare l’errore - favorevole all’imputato - commesso dal giudice di primo grado. La vicenda origina da un caso di porto d’armi abusivo che per errore il giudice di primo grado aveva fatto rientrare nella previsione del reato contravvenzionale del primo comma dell’articolo 699 del Codice penale di chi conduce un’arma oggetto di licenza di cui è, invece, sprovvisto. Ma in tal caso l’arma non era oggetto di licenza, ma rientrava tra quelle conducibili all’esterno solo con giustificato motivo a norma dell’articolo 4 della legge 110/1975. Dall’accoglimento della corretta configurazione del reato si determinava uno sfasamento dell’applicazione della pena per i diversi limiti edittali. Da ciò il giudice di appello aveva rilevato che l’errore del primo giudice - per la riduzione errata di un terzo e non della metà - non fosse errore da correggere in quanto il risultato era favorevole all’imputato. Bologna. “L’obiettivo è di mandare i detenuti psichiatrici in luoghi diversi dal carcere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 febbraio 2021 La vicenda dei detenuti psichiatrici del carcere “La Dozza” di Bologna arriva in comune. La risposta dell’assessora Susanna Zaccaria. La vicenda riportata da Il Dubbio a proposito dell’apertura del nuovo reparto di articolazione psichiatrica del carcere della Dozza per i detenuti psichiatrici approda al comune di Bologna grazie alla consigliera Mirka Cocconcelli (Lega nord). “I sindacati di Polizia Penitenziaria protestano per l’avvio del reparto di salute mentale all’interno della sezione femminile della Casa Circondariale Rocco D’Amato (già “Dozza) senza alcun preavviso e in assenza di figure sanitarie di riferimento, come riportato da articolo di stampa”, premette la consigliera, sottolineando che la mancanza del personale dell’Area Sanitaria potrebbe essere vissuta in maniera problematica, con rischi per l’incolumità del personale di Polizia Penitenziaria operante presso quelle sezioni e dei detenuti stessi. “Queste problematiche - prosegue Cocconcelli - sono già emerse e denunciate dal Sinappe e a tutt’oggi non hanno trovato soluzione. Chiedo al Sindaco e alla Giunta un parere politico-amministrativo nel merito e come intendano ovviare alla problematica esposta dal personale penitenziario”. L’assessora Susanna Zaccaria ha risposto spiegando che il reparto, al momento ospita una sola donna con disagio psichico e che può ospitare al massimo 4 o 5 donne con patologie psichiatriche. “È presente una persona con qualifica di tecnica della riabilitazione psichiatrica. L’equipe di professionisti della psichiatria operativa in istituto sovrintende alla cura delle pazienti, recandosi in loco quando necessario e a chiamata. È presente personale infermieristico per la somministrazione della terapia psicofarmacologica, con le criticità che però purtroppo lei ha evidenziato”, sottolinea l’assessora. Ha proseguito spiegando che, personalmente, crede che la strada da percorrere sia quella stabilita dalla sentenza della Corte Costituzionale del 2019: stabilisce che, se durante la carcerazione sopravviene una grave infermità psichica, si deve disporre che la persona detenuta venga curata fuori dal carcere, applicando la misura alternativa della detenzione domiciliare o in luogo di cura, così come già accade per le malattie fisiche. “Questa soluzione è certamente di maggiore tutela della persona malata - continua l’assessora - questo solleverebbe il personale sanitario dal dover fare degli interventi in un luogo non idoneo e il personale penitenziario che si trova senza una specifica formazione ad affrontare delle situazioni di criticità”. L’assessora Zaccaria ci tiene a sottolineare che come Amministrazione comunale operano attraverso il Garante del comune di Bologna Antonio Ianniello che è molto attivo e su questo tema e si è già molto speso. “Abbiamo ben presente - aggiunge - che è proprio la struttura delle sezioni, così come sono state concepite, a manifestare delle criticità che devono essere compensate con l’adeguata presenza di personale sanitario”. Ma conclude con un auspicio: “Secondo me l’obiettivo è che non ci siano pazienti con problemi psichiatrici perché quello non è il luogo dove devono essere”. Padova. “Garante dei detenuti? Non perdiamo altro tempo” di Alberto Rodighiero Il Gazzettino, 27 febbraio 2021 “Sul Garante dei detenuti serve responsabilità e non possiamo permetterci di perdere tempo”. A dirlo è stato ieri il consigliere di Coalizione civica Stefano Ferro che ha voluto rispondere, così, a Luigi Tarzia. Contrariamente alla maggioranza che sostiene la candidatura di Antonio Bincoletto, l’esponente della Lista Giordani, infatti, ha lanciato un appello in favore di Maria Pia Piva. “La mancanza della figura del Garante dei detenuti a Padova è un problema che va risolto al più presto, soprattutto dopo che negli ultimi anni il lavoro di chi opera in carcere ha incontrato maggiori difficoltà operative rispetto al passato - ha spiegato Ferro. Per questo non capisco la presa di posizione del consigliere Tarzia con cui ho tentato di confrontarmi più volte evidentemente senza successo. Da un parere con chi si confronta ogni giorno con la realtà carceraria di Padova è emersa una candidatura, quella del dottor Bincoletto, ampiamente condivisa”. “Era stato richiesto, a tutti i consiglieri, visto il ritardo della nomina di fare uno sforzo per riuscire a raggiungere la maggioranza dei 2/3 alla prima convocazione del consiglio comunale - ha aggiunto - Visto che la votazione deve essere segreta, bisogna procedere ad un consiglio in presenza e non online. Questo espone i consiglieri a dei rischi, ma nonostante questo, tutta la maggioranza e alcuni esponenti della minoranza hanno dato la loro disponibilità”. “Costringere ora ad effettuare 3 consigli di 10 minuti con i relativi costi di quasi 12.000 euro e con l’incertezza sulla possibilità di un ulteriore inasprimento delle regole che ne potrebbero bloccare la possibilità di essere effettuati - ha concluso l’esponente arancione - porterebbe solo al risultato che il garante per molti mesi non potrebbe essere nominato”. Orvieto (Pg). Cresce il focolaio all’interno del carcere, sale a 32 la conta dei positivi Covid di Monica Riccio Il Messaggero, 27 febbraio 2021 Continua a salire il numero dei positivi al Covid-19 relativi al focolaio scoppiato all’interno del carcere di via Roma a Orvieto. Sono infatti 32 le persone, ad oggi venerdì 26 febbraio, risultate positive dopo il responso dei test eseguiti con i tamponi molecolari. Intorno al cluster del carcere di Orvieto ruotano le positività di 14 agenti della polizia penitenziaria, 14 sono i detenuti contagiati, 3 i civili del reparto amministrazione e 1 medico del servizio sanitario interno. A confermare questi numeri, che iniziano a farsi preoccupanti, la stessa sindaca di Orvieto, Roberta Tardani. Relativamente ai 14 agenti positivi, 7 sono cittadini orvietani e compresi nel dato di oggi rilasciato dal Regione Umbria, dati che portano a 46 positivi attuali la città di Orvieto. Secondo quanto riferito dalla stessa sindaca Tardani, tra i 6 cluster familiari attualmente presenti sul territorio comunale, 2 sarebbero da ricondurre proprio al focolaio interno al carcere. Pescara. “In carcere è assicurata l’assistenza sanitaria” Il Centro, 27 febbraio 2021 Proseguono, da parte della Asl, le operazioni di screening di massa e vaccinazioni ai detenuti e agli agenti della polizia penitenziaria del carcere San Donato di Pescara. Secondo i dati dell’azienda sanitaria sono 12 i detenuti risultati positivi ai tamponi, di cui 1 ricoverato al Covid Hospital di Pescara. “L’unità operativa di Medicina penitenziaria della Asl”, si legge in una nota, negli ultimi giorni “ha eseguito 35 test, con risultato negativo. Ieri sono stati effettuati altri 24 tamponi di sorveglianza, di cui si attende l’esito, e domani (oggi) si svolgeranno 38 tamponi di sorveglianza al personale di polizia”. Invece “sono concluse le vaccinazioni di personale e detenuti”. Il Sinappe, il sindacato degli agenti penitenziari, in questi giorni ha lamentato carenza di organizzazione e di dispositivi di sicurezza (mascherine Ffp2 e tute) per gestire il focolaio Covid all’interno della casa circondariale nel quartiere San Donato. La replica della Asl: “Le “tute anti-contagio” sono regolarmente in uso alla polizia che accede alle celle dei detenuti Covid positivi, si indossano correttamente le mascherine FFP2 ed i guanti monouso: l’assistenza alla persona (vitto e biancheria) è assicurata dal personale Oss assegnato dalla Protezione civile e l’assistenza sanitaria è assicurata da personale infermieristico dedicato per ogni turno di servizio”. Roma. “Le procure intercettano gli avvocati”. L’allarme dei penalisti di Simona Musco Il Dubbio, 27 febbraio 2021 Il j’accuse dei penalisti romani: “L’esercizio del diritto alla difesa viene mortificato. Chi di dovere lo difenda: ne va della Costituzione”. “Intercettiamone uno, intimidiamo tutti gli altri”. La Camera penale di Roma non ci va leggera. Perché quello che riguarda Pier Giorgio Manca, avvocato 75enne del foro capitolino, indagato dalla Procura di Roma con l’accusa di associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti, non è un caso isolato. Il tema è delicato: l’abitudine delle procure di intercettare gli avvocati nelle conversazioni con i propri assistiti. Una violazione dell’articolo 103 del codice di procedura penale, che dispone che i colloqui tra difensore e indagato non solo non siano utilizzabili, ma non possano nemmeno essere intercettati. Il quinto comma dell’articolo, infatti, stabilisce che “non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, consulenti tecnici e loro ausiliari né quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite”. Il colloquio tra difensore e assistito, dunque, è inviolabile, in quanto mezzo essenziale ai fini dell’attività difensiva, che non può subire alcun tipo di controllo esterno. Se tale libertà non venisse garantita, il rapporto difensivo risulterebbe compromesso, così come il contraddittorio. Un principio sancito anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il diritto alla riservatezza dei colloqui tra avvocato e assistito rientra tra le “esigenze elementari del processo equo in una società democratica”. Ma troppo spesso tale regola viene bypassata. E nonostante gli esposti al Csm e alla procura generale della Corte di Cassazione, di cui la stessa Camera penale capitolina si è fatta promotrice, nessuna sembra fornire risposte. Il caso Manca riguarda un’inchiesta relativa ad un traffico di droga proveniente dalla Colombia, gestito da un’organizzazione di tredici persone, ai cui vertici ci sarebbero tre militari e il penalista romano, accusato di aver consentito la circolazione d’informazioni tra i componenti dell’organizzazione criminale e di aver fornito assistenza morale e materiale ai detenuti del clan. Ciò sulla base di due anni di intercettazioni video e audio all’interno del suo studio legale e sul suo cellulare. Un modus operandi che ha spinto la Camera penale “a esprimere sdegno e preoccupazione”, in quanto mina alla base “il ruolo fondamentale che la Costituzione assegna al difensore nel quadro degli equilibri processuali insiti nel concetto di giusto processo e di Stato di diritto”. La questione è delicata. Per i giustizialisti, la “pretesa” garantita dalla legge - di sfuggire ai sistemi di intercettazione significherebbe aspirare all’impunità. Ma la realtà è che le strategie difensive, a tutela del contraddittorio, principio sacrosanto del giusto processo, non dovrebbero essere violate. “Lo studio di un avvocato è luogo dove ogni giorno decine di clienti elaborano strategie difensive e scambiano con il proprio difensore notizie coperte da segreto professionale che la legge protegge da ogni tipo di intromissione o di interferenza indebita”, afferma la Camera penale. Che proprio recentemente, a seguito delle intercettazioni a carico dell’avvocata Roberta Boccadamo, difensore di Giovanni Castellucci, coinvolto nell’inchiesta sul crollo del Ponte Morandi a Genova, ha presentato un esposto al Csm e alla procura generale della Corte di Cassazione per denunciare la violazione della norma che tutela la segretezza delle conversazioni tra difensore e indagato. “Riteniamo che sia giunto il momento di una forte presa di posizione dell’avvocatura, che non può vedere violato un luogo che deve invece rimanere inviolabile a garanzia di tutti e a fronte del necessario e corretto bilanciamento degli interessi in gioco”, continua la Camera penale, ribadendo la centralità del ruolo del difensore nel processo “e l’esigenza che esso venga garantito in tutte le sue espressioni, contro ogni forma di indebita compressione”. Una posizione per la quale chiama in causa anche la magistratura, riservando ulteriori iniziative a tutela delle garanzie difensive. “Non vogliamo entrare nel merito della vicenda giudiziaria - spiega al Dubbio Vincenzo Comi, presidente della Camera penale - ma prendere posizione su una pratica che va assolutamente stigmatizzata. L’esercizio del diritto di difesa, seppure con i limiti previsti dalla normativa vigente, deve essere pienamente consentito nell’interesse degli avvocati, ma principalmente nell’interesse dei cittadini che sono coinvolti in un processo”. Secondo Comi, eventi del genere rischiano di intimidire l’azione degli avvocati, soprattutto dei più giovani. “La nostra presa di posizione non è a favore di un singolo caso sottolinea -, ma a difesa della funzione. Se queste sono le premesse, sono evidenti le difficoltà ad esercitare il nostro ruolo con la schiena dritta. La nostra è una professione difficile, il diritto alla difesa deve essere sempre garantito”. Gli esposti della Camera penale, al momento, non hanno ricevuto risposta. Ma i penalisti romani continuano a sollecitare una verifica, con una vera e propria presa di posizione politica per rivendicare il diritto alla difesa. Milano. Rivolta a San Vittore per le norme anti-Covid, nove detenuti a processo La Repubblica, 27 febbraio 2021 Tra le accuse sequestro di persona, devastazione e rapina. Lo scorso marzo, durante il primo lockdown e con il blocco dei colloqui, in dodici salirono sul tetto del carcere, tra incendi nei reparti e devastazioni. Il processo si apre il 10 maggio. Per la rivolta avvenuta a marzo dell’anno scorso, nel pieno della prima ondata di Covid, nel carcere di San Vittore a Milano sono stati mandati a processo 9 detenuti accusati, a vario titolo, di sequestro di persona, devastazione, lesioni personali e rapina. A deciderlo è stato il Gup Alessandra Del Corvo che ha stralciato la posizione di 3 imputati per i quali deciderà il prossimo 28 aprile. Per gli altri, accogliendo la richiesta del pm Paola Pirotta, ha fissato il dibattimento per il 10 maggio davanti alla nona sezione penale del Tribunale. I detenuti rinviati a giudizio, secondo la ricostruzione, un anno fa, durante l’emergenza, hanno devastato alcuni reparti dell’istituto milanese, mettendo fuori uso le telecamere. Tre agenti della polizia penitenziaria, durante i disordini, sarebbero stati anche aggrediti per sottrarre loro le chiavi dei reparti e uno, secondo l’accusa, sarebbe anche stato minacciato con una lametta. La rivolta di San Vittore è una delle tante di quel giorno, quanto in 22 case di reclusione sparse in tutta Italia, grazie al passaparola, è scoppiata in contemporanea una pesante protesta allo slogan: “amnistia e indulto contro il Coronavirus”. Durante i disordini in certi casi è stato dato fuoco alle suppellettili, i altri le infermerie sono state prese d’assalto, e in quasi tutti i carcerati sono saliti sui tetti degli edifici: il bilancio totale in Italia è stato 7 morti e 34 evasioni. Nel capoluogo lombardo il pm Gaetano Ruta e il responsabile dell’antiterrorismo con una gru erano saliti sul tetto della casa di reclusione per convincere i detenuti a rientrare nelle loro celle. Napoli. “E ‘mmò”, la canzone nata nelle carceri con Maurizio Capone & gli Ultimi Saranno di Ilaria Urbani La Repubblica, 27 febbraio 2021 Dalle carceri di Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere, Salerno e dagli istituti penali minorili di Nisida, Airola e tanti altri istituti penitenziari nasce il brano “E ‘mmò”. Ecco il video della canzone nata nel progetto delle carceri del collettivo Gli Ultimi Saranno composto da Maurizio Capone alla voce, percussioni e tubolophon, dalle voci recitanti Raffaele Bruno, autore fondatore dell’ensemble e parlamentare, e Federica Palo, Enzo Luk Colursi alla voce e piano elettrico, Carla Grimaldi al violino e Massimo De Vita alla chitarra elettrica e percussioni. Il videoclip del brano che vuole sensibilizzare la società civile sul tema della creatività in carcere è diretto da Alessandro Freschi (Frè) e interpretato da Cosimo Rega, ergastolano al carcere di Rebibbia, ex camorrista, diventato attore professionista proprio dietro le sbarre: Rega è il protagonista del film “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani e capocomico della storica compagnia “Stabile assai” di cui quest’anno ricorre il quarantennale. “E ‘mmò” nasce da un percorso laboratoriale in più di venti carceri italiane. Il testo del brano è di Raffaele Bruno, la musica è firmata da Emanuele Giovanni Aprile, Maurizio Capone, Enzo Colursi e Massimo De Vita, il pezzo è masterizzato da Luca Stefanelli e distribuito dall’etichetta discografica Soundfly. La lotta alla pandemia è competenza dello Stato di Sabino Cassese Corriere della Sera, 27 febbraio 2021 Si deve cambiare la rotta: il servizio sanitario da nazionale è divenuto confederale, scoordinato, non comunicante. Per affrontare la pandemia, governo centrale e Regioni devono cambiare rotta. Hanno finora agito come se operassero nella materia della sanità, che è ripartita tra Stato e Regioni. Invece si tratta della materia “profilassi internazionale”, che spetta solo allo Stato. Questo ha stabilito la Corte costituzionale con due pronunce a breve distanza l’una dall’altra, ambedue relative a una legge della Regione a statuto speciale Valle d’Aosta, impugnata dal governo. La prima pronuncia, del 14 gennaio scorso, ha sospeso in via cautelare l’efficacia della legge. Essa ha disposto che “la pandemia in corso ha richiesto e richiede interventi rientranti nella materia della profilassi internazionale di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera q), Costituzione”. Con la seconda decisione, del 24 febbraio scorso, la cui motivazione non è stata ancora pubblicata, il ricorso governativo è stato accolto, limitatamente alle disposizioni con le quali la legge impugnata ha introdotto misure di contrasto all’epidemia differenti da quelle previste dalla normativa statale. Per la Corte, la Regione, anche nell’ambito della propria autonomia speciale, non può invadere con una sua disciplina una materia come quella avente ad oggetto il contenimento della pandemia da Covid 19, diffusa a livello globale e perciò affidata interamente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, a titolo di profilassi internazionale. La genesi e gli effetti di queste due decisioni della Corte costituzionale sono singolari. Il governo Conte aveva impugnato la legge regionale della Valle d’Aosta per far valere la propria competenza. Ma, più che la Regione, è stato “bocciato” il governo stesso. Esso aveva imboccato dall’inizio la strada sbagliata, dimenticando - nonostante fosse stato anche messo sull’avviso - che la Costituzione riserva alla competenza esclusiva dello Stato la profilassi internazionale. Si può dire che il governo, impugnando la legge regionale, si è dato la zappa sui piedi. L’errore iniziale dello Stato nell’imboccare la strada sbagliata ha prodotto una cacofonia di voci, un tira e molla tra centro e periferia, più tardi anche un gioco a scaricabarile, producendo una confusione che ha stupito l’opinione pubblica. Il servizio sanitario, da nazionale è divenuto confederale, scoordinato, non comunicante. Basta notare con quale diversità di passo si sta procedendo nella vaccinazione, da Regione a Regione. Al primo errore si è sommato un altro errore. Alla sconcertante dimenticanza di una propria competenza esclusiva, da parte dello Stato, si poteva porre rimedio rafforzando le funzioni della conferenza Stato-Regioni, valorizzandone il compito, portandola al centro del contrasto alla pandemia, facendone un piccolo Senato delle Regioni “in nuce”. Ma anche in questo si è proceduto alla giornata, con alti e bassi, momenti di collaborazione e giornate di tensione o di conflitti. Il nuovo governo, per rimediare agli errori compiuti e seguire l’interpretazione della Costituzione data dalla Corte costituzionale, ha un unico modo: quello di assicurare la maggior collaborazione possibile governo centrale-Regioni, nella conferenza Stato-Regioni, condividendo dati e valutazioni, preparando insieme le decisioni e monitorando congiuntamente la loro esecuzione. Infatti, la Costituzione consacra il principio di leale collaborazione e ad esso collega la disposizione per cui il governo può sostituirsi a organi delle Regioni, nel caso di pericolo grave per l’incolumità e quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. “Io, ex bullo, insegno ai ragazzi come non diventarlo mai” di Giorgio Bernardini Corriere della Sera, 27 febbraio 2021 Daniel Zaccaro ha 29 anni e ha passato la sua adolescenza in un carcere e poi in comunità. Ora fa l’educatore e racconta la sua storia: “Ad un certo punto qualcuno ha trasformato la mia rabbia e io ho intrapreso il percorso del bene”. “La tendenza degli adulti è trovare un metodo per farsi ascoltare dai più giovani, però in realtà la vera fatica è ascoltare, interessarsi realmente agli altri. Solo dopo si può educare. Io chiedo verità se la so offrire”. Non è da tutti pensare con questo equilibrio a 29 anni. A meno che l’educatore che pronuncia queste parole non sia l’autore di pestaggi, violenze, numerose rapine, uno che ha passato la propria adolescenza nel carcere minorile e una volta uscito in quello di San Vittore. Oggi tuttavia Daniel Zaccaro pare essere una persona diversa. Ed è per questo che dopo essersi laureato fa l’educatore nella comunità ‘Kairos’, la stessa che lo aveva accolto per scontare una delle sue pene. La videoconferenza che ha tenuto venerdì, per i ragazzi delle le tre classi terze della scuola media “Salvemini - La Pira” di Montemurlo, è una sorta di lectio magistralis contro il bullismo. “Un fenomeno che ha cambiato solo il vestito, ma che ha sempre la stessa radice. I problemi - spiega Daniel a margine della lezione - è la grande distanza fra gli adulti e i giovani, oltre che la mancanza di proposte che siano affascinanti quanto il male. Il male è più concreto, il male è subito, affiliarsi è più facile. Il bene invece è un percorso, quindi si presenta spesso in modo noioso e strutturato”. A detta dell’educatore milanese la chiave risiede nella qualità delle relazioni che si costruiscono. “Il carcere - racconta riportando quanto è stato affrontato con gli studenti montemurlesi - è stata la prima parte del cambiamento, il mio stop. Io e le agenzie educative avevamo fallito, c’era solo il conflitto per me. Le regole del carcere sono state un punto. Poi quando sono andato in comunità ho cominciato a sperimentare uno stile di vita diverso, più sano, fatto di adulti responsabili che leggevano la rabbia nei miei occhi che hanno saputo trasformare, invece di mettermi ai margini”. Alla fine della lezione l’assessore alla pubblica istruzione del Comune di Montemurlo, Antonella Baiano, ha spiegato che “le testimonianze dirette sono le più importanti perché arrivano al cuore dei ragazzi. Daniel ci ha fatto capire che per cercare di affrontare e risolvere il problema del bullismo la chiave di tutto è l’ascolto. I nostri ragazzi - ha concluso Baiano - hanno bisogno di adulti che li sappiano guardare ed accogliere nelle loro fragilità senza essere giudicati. Bulli e bullizzati hanno bisogno di essere presi per mano e riuscire a liberarsi da un ruolo che li imprigiona”. Ma come si fa a credere al cambiamento di un ragazzo che all’apice del suo curriculum criminale ha 4 rapine in banca? “Non sono uno che pretende di essere creduto, ma una persona che aspira a essere credibile: tutti i gesti quotidiani della mia vita - dice Zaccaro - sono orientati alla coerenza dei valori che voglio trasmettere. Questo vale per un educatore, ma anche per un genitore”. Un consiglio che vale una cattedra. Iran. In attesa dell’esecuzione muore di infarto ma viene impiccata lo stesso di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 27 febbraio 2021 All’alba di mercoledì 17 febbraio, nel carcere di Rajaei Shahr, a Karaj città che dista una ventina di chilometri da Teheran, è accaduto qualche cosa di inimmaginabile. Una donna, Zahra Esmaili, ha avuto un attacco di cuore dopo aver assistito all’impiccagione di un gruppo di uomini. C’è chi parla di sei, altre fonti riferiscono di 8, altre ancora di 16. Fatto sta che uno dopo l’altro sono stati giustiziati mentre lei aspettava il suo turno per salire sul patibolo. Il suo cuore non ha retto. È crollata. Il verdetto è stato però eseguito lo stesso. Il capo della donna è stato infilato nel cappio ed il suo corpo, ormai morto, fatto penzolare dalla corda. Secondo l’avvocato Omid Moradi infatti il certificato ufficiale attesta come causa del decesso l’arresto cardiaco. Ad aggiungere ulteriore ribrezzo c’è un altro dettaglio raccontato sempre dall’avvocato. Quello per cui Fatemeh Asal-Mahi, la madre della vittima, avrebbe preso personalmente a calci lo sgabello da sotto i suoi piedi in modo da poter vedere il cadavere di sua nuora pendere dalla forca, anche se per pochi secondi. L’avvocato ha anche raccontato che Zahra Esmaili, aveva 42 anni e due figli ed era stata condannata a morte per l’omicidio del marito, Alireza Zaman, un alto funzionario del Ministero dell’Intelligence. In realtà l’omicidio lo avrebbe confessato per salvare la figlia adolescente. Sarebbe stata lei infatti a sparare al padre che picchiava e maltrattava regolarmente sia la moglie che i figli. Portava a casa donne sotto i loro occhi. Aveva persino minacciato di uccidere la moglie e aveva tentato di violentare la figlia. Dall’inferno di casa, Zahra Esmaili, si era così ritrovata nell’inferno del carcere. Perché la sua pena l’ha scontata nel famigerato istituto penitenziario femminile di Qarchak dove sono stipate assieme circa 2000 donne che siano detenute per ragioni politiche o per reati d’altra natura, che siano condannate definitive o in attesa di giudizio, che siano giovani o anziane. I letti non bastano per tutte e le detenute sono costrette a dormire per terra. Ci sono descrizioni di celle di 9 metri quadri con 11 detenute. Acquitrini e paludi circondano questo carcere infestato così da ratti e insetti. Per ogni 100 detenute ci sono 10 toilette ma di queste ne funzionano tre, ben che vada quattro. Secondo alcuni rapporti, le detenute subiscono ogni forma di tortura, compreso lo stupro. Chi si lamenta o protesta per le condizioni inumane e degradanti viene spedito all’isolamento. Le condizioni sono tali che la minaccia di trasferimento a Qarchak è usata spesso come mezzo di pressione nei confronti delle detenute politiche secondo Iran - Human Rights Monitor. Insomma una realtà che molti di noi riterrebbero plausibile solo in un film dell’orrore. Il 15 febbraio, Zahra Esmaili era stata trasferita da questo penitenziario nella sezione di isolamento a Rajaei Shahr, insieme ad altri dieci condannati a morte. La consuetudine iraniana vuole che gli ultimi giorni di un condannato a morte siano trascorsi in isolamento. Zahra Esmaili aveva così trascorso le sue ultime ore a Rajaei Shahr, chiamato anche Gohardasht, una galera altrettanto infausta se penso che qui sono avvenute gran parte delle esecuzioni di massa del 1988 quando oltre 30.000 prigionieri politici appartenenti ai mujaheddin del popolo iraniano sono stati giustiziati nel giro di pochi giorni dal regime dei Mullah. Lo stesso regime che pochi giorni fa ha impiccato Zahra Esmaili nonostante fosse già morta, portando a 114 il numero di donne giustiziate sotto la Presidenza Rouhani, cioè dall’estate del 2013. È una cifra impressionante. Come impressionante è il fatto che in Iran la discriminazione di genere assuma forme parossistiche: nei procedimenti legali, la testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo e la versione iraniana del “prezzo del sangue” stabilisce che per una vittima donna esso sia la metà di quello di un uomo. Se uccide una donna, un uomo non potrà essere giustiziato, anche se condannato a morte, senza che la famiglia della donna abbia prima pagato a quella dell’assassino la metà del suo “prezzo del sangue”. E poi, l’età minima per la responsabilità penale è di poco meno di nove anni per le donne, di poco meno di 15 anni per gli uomini. Lo stupro coniugale e la violenza domestica non sono considerati reati penali. Tutto questo deve indurci ad impegnarci per liberare l’Iran da un regime misogino e sanguinario. A non dare la nostra condizione di vita, per quello che di buono ha, per scontata. A riconsiderare le priorità nelle relazioni bilaterali e multilaterali con l’Iran, ponendo al primo punto, sempre e comunque, il rispetto dei diritti umani. Haiti. Rivolta in un carcere: decine di morti e di evasi di Chiara Gentili sicurezzainternazionale.luiss.it, 27 febbraio 2021 Il capo di una delle gang più potenti di Haiti, Arnel Joseph, è scappato da una prigione nella periferia della capitale, Port-au-Prince, durante una rivolta che ha provocato la morte di almeno 7 detenuti e di un ufficiale di polizia. La notizia è stata riferita dalle autorità ai media locali. “L’ispettore di divisione Paul Hector Joseph, responsabile della prigione civile di Croix des Bouquets, è stato ucciso”, ha confermato all’agenzia di stampa, Agence France Presse, Gary Desrosiers, portavoce della polizia nazionale haitiana, giovedì 25 febbraio. “Diversi prigionieri sono fuggiti”, ha aggiunto, senza specificare il numero delle persone evase. Desrosiers ha infine precisato che circa 40 prigionieri sarebbero stati arrestati dopo la rivolta scoppiata nel carcere, situato nel Sud del Paese. Intorno alle 12:00 di giovedì, i detenuti hanno dichiarato di aver cominciato a sentire spari e colpi di arma da fuoco. Foto e video di uomini in fuga dalla prigione sono diventati rapidamente virali sui social media. Dopo qualche ora, una massiccia unità delle forze di polizia è stata mobilitata ed è riuscita a riprendere il controllo dell’edificio, nel pomeriggio. Per cercare di sedare il caos, gli agenti hanno fatto ampio uso di lacrimogeni e hanno eretto barricate sulle vie di accesso alla prigione, impedendo l’evasione a chi non era ancora riuscito a scappare. Il primo ministro di Haiti, Joseph Jouthe, ha confermato al quotidiano Le Nouvelliste che l’ordine è stato ripristinato nel centro detentivo. Secondo il portale di notizie InfoHaiti, non è chiaro quale episodio sia all’origine dell’incidente, se un ammutinamento o un attacco armato dall’esterno, ma per il momento è certo che abbia permesso la fuga di numerosi detenuti. La prigione civile di Croix des Bouquets è già stata teatro di una considerevole evasione di massa, nel 2014, durante la quale centinaia di prigionieri sono riusciti a fuggire. Prima del suo arresto, Joseph era uno dei boss più ricercati di Haiti. La sua banda era la famosa ‘Village de Dieu’, vicino a Port au Prince. Il Paese centroamericano è già da tempo nel caos per via di una crisi sociale e politica che ha raggiunto il suo punto massimo il 9 febbraio, dopo che il presidente Jovenel Moïse ha denunciato un tentativo di colpo di stato contro di lui e ha confermato la sua intenzione di restare in carica fino a febbraio 2022. La reazione di Moïse è arrivata dopo diverse settimane di violente manifestazioni in molte città del Paese, finalizzate a chiedere le sue dimissioni. Il mandato del presidente sarebbe legalmente terminato circa tre settimane fa. “C’è stato un attentato alla mia vita”, ha detto Moise il 9 febbraio, in riferimento a un presunto complotto iniziato il 20 novembre. Il presidente non si è limitato a denunciare il golpe davanti alla stampa ma ha altresì annunciato l’arresto di 23 persone che ha accusato di aver tentato di assassinarlo. Tra queste, il giudice della Corte suprema, Yvickel Dabrézil, l’uomo sostenuto dall’opposizione per diventare presidente ad interim nel caso in cui Moïse avesse lasciato il potere e fosse rimasto in carica fino alla convocazione delle elezioni. Secondo le autorità, il giudice Dabrézil avrebbe avuto persino una copia del discorso di insediamento. L’origine politica del conflitto è nelle convulse elezioni del 2017. Un anno prima, Michel Martelly aveva concluso il suo mandato, ma lo svolgimento caotico del voto (tre turni elettorali in 9 mesi) lo aveva costretto a nominare un presidente provvisorio per un anno, fino a quando Moïse sarebbe entrato in carica. Secondo Francisco Fernández, consigliere del presidente, “la piazza è sobillata da gruppi violenti che non superano le 30 persone e che generano violenza e incertezza”. “È in corso un tentativo di colpo di stato. L’opposizione vuole contare il primo anno, ma quel primo anno un altro presidente in condizioni provvisorie era al timone ed era anche lui dell’opposizione”, ha detto il consigliere politico di Moïse. Il “grande dialogo nazionale” voluto dal governo per cercare di placare la situazione, inizialmente previsto per il 7 febbraio, è stato rimandato a data da destinarsi, secondo quanto riporta la stampa haitiana. L’opposizione ha denunciato anche la svolta autoritaria del presidente da quando ha sciolto il Parlamento un anno fa e governa per decreto. Allo stesso tempo, violenze e rapimenti sono esplosi nel Paese e sono il principale timore di una popolazione soggetta a bande violente, con un numero record di armi illegali che circolano tra la popolazione. Ad Haiti, secondo gli osservatori internazionali, ci sono almeno 76 bande armate, non su basi politiche o ideologiche, ma create per rapinare e rapire per pochi soldi, composte da membri di gang considerate più potenti dello Stato stesso. Russia. Navalny trasferito in una colonia penale di Vito Califano Il Riformista, 27 febbraio 2021 “Nessuna minaccia per la sua salute e la sua vita”. Alexei Navalny è stato trasferito in una colonia penale. Questo il nuovo capitolo del caso del dissidente avvocato 44enne russo del Presidente Vladimir Putin. A far sapere del trasferimento il capo dei servizi carcerari russo. Uno degli avvocati del dissidente, Olgo Mikhailova, aveva denunciato proprio l’imminente trasferimento dalla prigione di Mosca. Navalny è stato condannato a due anni e mezzo di reclusione. “È stato trasferito esattamente nel luogo in cui deve stare in base alla sentenza del tribunale”, ha dichiarato il capo del servizio carcerario federale Alexander Kalashnikov, che non ha reso noto il nome dell’istituto dov’è stato trasportato Navalny. “Garantisco che non esistono minacce per la sua vita e la sua salute”, ha aggiunto Kalashnikov. La settimana scorsa il tribunale di mosca ha confermato la pena a quasi tre anni per il blogger dopo il ricorso contro la condanna per violazione dei termini della libertà provvisoria, relativa a una condanna, anche questa controversa, per frode del 2014. Navalny è stato condannato anche per diffamazione per aver definito “traditore” un veterano della Seconda Guerra Mondiale che ha appoggiato pubblicamente la riforma della Costituzione che ha permesso il Presidente Putin di ricandidarsi al Cremlino fino al 2036. La scorsa settimana la Corte europea dei diritti umani aveva ordinato alla Russia di rilasciare Navalny sostenendo che la sua vita fosse in pericolo in prigione, ma Mosca ha respinto la richiesta. Quello di Navalny - una figura comunque controversa, come dimostra la cancellazione da parte di Amnesty Internationale del suo nome tra i prigionieri di coscienza - è diventato un caso internazionale: lo scorso agosto è stato avvelenato. Soltanto un atterraggio di emergenza del suo volo di ritorno dalla Siberia ha impedito la morte. È stato intossicato con il Novichok, gas nervino utilizzato e perfezionato dai servizi dell’Unione Sovietica. Sospettati funzionari dei servizi segreti russi. Il 44enne dissidente è stato trasferito e curato a Berlino. Ha quindi, dopo essersi svegliato, deciso di tornare in patria, cosciente che sarebbe stato arrestato, lo scorso gennaio. La sua rete ha pubblicato intanto un’inchiesta, che ha avuto risonanza mondiale, sulla villa “segreta” di Putin sul Mar Morto. Proteste e manifestazioni come in Russia non se ne vedevano da anni si sono viste negli ultimi mesi a partire dall’avvelenamento e dall’arresto di Navalny. Spagna. Quel Patriot act in salsa spagnola che ha sbattuto il rapper in cella di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 27 febbraio 2021 Da una settimana la Spagna è scossa da massicce proteste scoppiate all’indomani dell’incarcerazione del rapper Pablo Hasel, condannato per presunta esaltazione del terrorismo e invettive nei suoi testi contro la monarchia dei Borboni, in particolare Juan Carlos. Il caso di Hasel sta sollevando forti dubbi sull’effettiva garanzia della libertà di espressione mette a nudo una profonda divisione nella società spagnola riguardo i valori democratici. Le manifestazioni hanno costretto il governo guidato dal socialista Pedro Sanchez a doversi confrontare con alcune leggi ancora in vigore e soprattutto il ruolo della magistratura considerato sempre più reazionario. Lo stesso primo ministro, la scorsa settimana, ha riconosciuto che la democrazia spagnola “ha del lavoro da fare quando si tratta di ampliare e migliorare la tutela della libertà di espressione” anche se ha poi aggiunto che “in una democrazia piena, non c’è posto per la violenza, e non ci sono eccezioni”. Le leggi “liberticide” alle quali ha fatto riferimento, pur senza nominarle, sono quelle che considerano in un senso lato il reato di “esaltazione del terrorismo”. La giustificazione portata avanti dal mondo della magistratura è che i testi di Hasel potrebbero tradursi in violenza sul campo. Una tesi sostenuta dal fronte politico conservatore, all’opposizione nel Parlamento. Punire le persone non per i loro atti ma per il proprio pensiero costituisce un pericoloso arretramento democratico. Secondo Srirak Plipat, direttore dell’organizzazione internazionale di difesa delle arti, Freemuse, la “libertà di parola in Spagna ha subito forti attacchi a partire ultimi 10 anni”. Un periodo che coincide con la fortissima crisi economica che ha attraversato tutta l’Europa meridionale e che in Spagna ha visto il riemergere delle mai sopite spinte indipendentiste in Catalogna insieme agli scandali che hanno coinvolto la Casa Reale, a partire dalle tangenti che Juan Carlos avrebbe ricevuto dall’Arabia Saudita. Una situazione che ha provocato non solo la nascita del movimento dei cosiddetti “Indignados”, poi concretizzatosi nel partito Podemos il cui leader Pablo Iglesias è oggi uno dei vicepremier, ma soprattutto uno stato di mobilitazione politica permanente di diversi settori della società. Proprio per fermare questa ondata di rabbia sarebbero state emanate leggi restrittive sulla libertà di parola legandole ai reati di sostegno al terrorismo. Per Daniel Canales, ricercatore per l’ufficio di Madrid di Amnesty International, i legislatori conservatori hanno cominciato a irrigidire le sentenze a partire dal 2015. È questa una data spartiacque perché è il momento in cui è stata emanata quella che è stata ribattezzata “ley mordaza”. Si tratta più precisamente della legge 4/2015 del 30 marzo (poi entrata in vigore il 1 luglio dello stesso anno) sulla protezione della sicurezza cittadina e che ha sostituito la precedente legislazione risalente al 1992. Il provvedimento securitario fu introdotto dall’allora governo di centrodestra presieduto da Mariano Rajoy e fin da subito fu oggetto dei tentativi per abrogarla o almeno riformarla nei suoi aspetti ritenuti incostituzionali e lesivi dei diritti fondamentali dei cittadini. Il provvedimento si articola in 44 punti che prevedono infrazioni classificate come lievi, gravi e molto gravi. Ai trasgressori vengono comminate ammende che partono dai 100 euro fino ad un tetto massimo di 600mila. Il punto fondamentale è che la legge esautora praticamente la funzione dei giudici affidando la maggior parte della gestione giudiziaria agli organi di polizia. Nello specifico sono considerate gravi “perturbazioni alla sicurezza”: manifestazioni davanti ai palazzi del potere politico (Congresso, Senato, Camera delle autonomie) anche se non vi sono in corso sedute. Si rischia una pesante multa solo per essere presenti. Solo la polizia, e non più i giudici, può autorizzare eventuali riunioni di piazza. Nella sua interpretazione più stringente è vietato promuovere mobilitazioni attraverso i social prima della concessione del permesso da parte delle autorità. Particolarmente importante è il divieto di manifestazione davanti strutture, come ad esempio una centrale nucleare considerata una struttura sensibile. Sull’esempio della contestatissima legge francese per la sicurezza è poi vietata la ripresa e pubblicazioni di foto o video che catturino immagini di abusi da parte della polizia la quale ha ricevuto un’ampia discrezionalità d’intervento per i suoi agenti. Tutto ciò è mischiato a pene più severe per i reati di corruzione e terrorismo ma comprende anche una modificazione del codice penale che ha introdotto, sebbene mascherata, la condanna all’ergastolo. L’applicazione integrale della legge è stata comunque in parte violata come dimostrano proprio le manifestazioni spontanee per l’arresto di Hasel ma la normativa che doveva durare 5 anni è ancora in vigore. Nonostante le rassicurazioni dell’esecutivo l’Alta corte non si è ancora pronunciata, tra le ragioni lo scontro in atto tra i magistrati del settore progressista e quelli conservatori sui punti più controversi. La pandemia di Covid 19 ha poi ulteriormente bloccato il cambiamento, lo stato di emergenza, emanato la primavera dello scorso anno, non solo ha rinviato l’abrogazione, ma ha rivitalizzato la norma divenuta una chiave essenziale utilizzata dal ministero dell’Interno per punire i trasgressori. I dati infatti dimostrano che tra il 14 marzo e il 1 giugno, le multe e sono state 1.089.197, un aumento del 42% rispetto alle 765.416 registrate tra il 2015 e il 2018. Pakistan. Coppia di religione cristiana nel braccio della morte per “testi blasfemi” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 febbraio 2021 Ieri, mentre stava arrivando il momento dell’esame del loro ricorso, il giudice dell’Alta corte di Lahore ha deciso di chiudere l’udienza. Era successo anche la volta precedente, il 15 febbraio. Così, Shagufta Kausar e Shafqat Emmanuel, due cristiani arrestati nel 2013, continuano a rimanere nel braccio della morte, a rischio di esecuzione della condanna a morte emessa nell’aprile 2014. Le leggi contro la blasfemia in vigore in Pakistan rischiano dunque di fare altre due vittime (la più illustre, salvata alla fine dal patibolo, è stata Aasia Bibi): la coppia è stata giudicata colpevole di aver inviato all’imam di una moschea dei messaggi offensivi nei confronti del profeta Maometto. Entrambi hanno negato l’accusa sin dall’inizio, sostenendo che la sim del telefono dal quale erano partiti i messaggi era stata acquistata da qualcun altro usando una fotocopia della carta d’identità di Shagufta. Questa è l’ennesima storia emblematica dei rischi che corrono le minoranze religiose in Pakistan, cristiane e non, e che continueranno a correre fino a quando le leggi contro la blasfemia rimarranno in vigore. Birmania. Annullato il voto di novembre, spari in aria per disperdere i manifestanti di Raimondo Bultrini La Repubblica, 27 febbraio 2021 La giunta ha invalidato le elezioni vinte dal partito di Aung San Suu Kyi. Continuano le proteste contro il golpe. Fermato e rilasciato reporter giapponese. Contro il regime scritte con la “pasta tanaka” e colpi di pentole. Il capo della nuova Commissione elettorale nominata dalla giunta militare golpista del Myanmar ha dichiarato “invalidi” i risultati del voto plebiscitario che ha assegnato l’83 per cento dei consensi alla Lega nazionale della democrazia di Aung San Suu Kyi l’8 novembre 2020. L’annullamento ufficiale comunicato a Naypyidaw dal rappresentante dell’esercito Thein Soe a un gruppo di politici è solo un passo burocratico ed è parte della stessa farsa usata per giustificare il colpo di stato del primo febbraio. Proprio i presunti e mai dimostrati brogli denunciati dal comandante generale dell’esercito Min Aung Hlaing sono stati alla base del colpo di stato e dell’arresto della ex consigliera di Stato e de facto capo del governo civile, ancora detenuta nella nuova capitale assieme al presidente e un numero imprecisato di parlamentari e capi delle assemblee regionali. La notizia circolata attraverso il quotidiano The Irrawaddy non ha fatto che aumentare la rabbia delle migliaia di persone scese nuovamente in strada anche oggi contro i militari in tutto il paese dove aumentano le repressioni, ferimenti, spari in aria o ad altezza d’uomo e arresti, compreso quello del primo giornalista straniero, il giapponese Yuki Kitazumi di Yangon Media Professionals, già corrispondente del quotidiano economico Nikkei, colpito sul casco con dei bastoni, ma senza gravi conseguenze. Kitazumi è stato rilasciato poco dopo il fermo, probabilmente su pressione dell’ambasciata del suo Paese, che continua a mantenere forti relazioni diplomatiche ed economiche con il Myanmar, anche se alcune aziende hanno annunciato il ritiro dei loro investimenti e il governo sta studiando eventuali misure contro la giunta. Un altro straniero, Sean Turnell, consulente economico di Lady Suu Kyi, è invece ancora in carcere dai primi di febbraio, ma le Nazioni Unite stanno cercando di capire la sorte di almeno 900 birmani e membri delle etnie di minoranza tra i quali politici, funzionari statali, attivisti, giornalisti e studenti, compresi diversi monaci contrari al regime presumibilmente agli arresti. Alla repressione di soldati e polizia si aggiungono gli attacchi contro le manifestazioni pacifiche da parte di sostenitori dei militari tra i quali militano - a pagamento - almeno una parte dei 23 mila criminali comuni liberati recentemente con un’amnistia, destinata a fare posto nelle celle per i nuovi detenuti politici. Diverse immagini diffuse nei giorni scorsi via social media mostrano uomini armati di coltello e teppisti, mentre assaltano i dimostranti anche a calci, pugni e bastonate. Nonostante tutto, le proteste continuano ovunque nell’Unione del Myanmar, dove il movimento di disobbedienza civile contro la dittatura tenta di usare ogni mezzo per attirare l’attenzione internazionale appellandosi alla stessa celebre alleanza del “Tè al latte” che lo scorso anno ha unito gli studenti di Hong Kong e quelli thailandesi (invitati oggi a sostenere i birmani virtualmente via social media) nella sfida contro i regimi totalitari dei rispettivi paesi. Nel Myanmar molti ribelli hanno anche usato la pasta della “tanaka”, spalmata tradizionalmente come crema protettiva, per scrivere sul volto la parola Cdm (sigla della “disobbedienza”), oltre al suono metallico delle ormai popolari pentole e padelle che rimbomba di casa in casa dopo il coprifuoco delle 8 di sera, quando viene interrotto anche Internet. A colpi di pentole hanno protestato anche gli abitanti di Sagaing, Magwe, Ayeyarwady e dello stato di Karen davanti agli uffici delle amministrazioni di rione dove sono stati nominati nuovi rappresentanti scelti dai militari. Si tratta perlopiù di una resistenza non violenta e disperata contro un numero impressionante di militari - oltre mezzo milione armati di tutto punto - e quasi altrettanti poliziotti dei quali solo una minima parte si è schierata con le proteste. A Yangon un drammatico video mostra la folla in fuga dalle pattuglie di agenti che sparano colpi d’arma da fuoco nel distretto di Hledan vicino all’Università di Yangon. Si sentono le grida di terrore per la paura che si trattasse di proiettili veri, come quelli che hanno ucciso nei giorni scorsi una 19enne a Naypyidaw e due altri giovani nella seconda città del paese, Mandalay. La stessa Mandalay è scesa nuovamente in piazza oggi nonostante la pesante presenza di uomini e mezzi della polizia e dell’esercito che hanno sparato - a quanto pare - proiettili di gomma ferendo almeno uno dei dimostranti che si sono dispersi per poi tornare sulla 62esima strada dove è stato effettuato un numero imprecisato di arresti. Almeno venti persone sono finite in cella anche a Naypyidaw dove i soldati hanno sparato in aria e lanciato perfino granate senza fortunosamente ferire nessuno, mentre ad Hakha, capitale dello stato Chin sono stati usati potenti getti d’acqua degli idranti. La comunità internazionale continua a minacciare (come ha fatto l’Unione europea) ed annunciare sanzioni (le prime dagli Stati Uniti e - proprio oggi - dall’Inghilterra), anche se non tutti concordano sulla loro efficacia, vista la drammatica situazione economica del paese che colpisce ogni giorno che passa le classi più deboli. Le stesse Nazioni Unite hanno sostenuto che cercheranno di garantire l’assistenza umanitaria per quanto possibile, viste le restrizioni imposte anche ai gruppi umanitari, e lo stesso tentano di fare molte Ong tra le quali alcune anche italiane, come “Asia onlus”. Secondo un documento trapelato dalla Banca mondiale sarebbero però stati sospesi tutti i pagamenti dei numerosi progetti “di sviluppo” del paese mettendo a ulteriore rischio l’occupazione, considerando che per boicottare i colpisti molti dipendenti di servizi pubblici come strutture sanitarie e vari dipartimenti, dai trasporti all’ingegneristica e l’elettricità sono in sciopero incuranti delle minacce di licenziamento. Nigeria fuori controllo. “Rapite 300 studentesse” di Stefano Mauro Il Manifesto, 27 febbraio 2021 L’istruzione o la vita. Pressioni su Buhari perché dichiari lo “stato d’emergenza”. Amnesty: “Diritto allo studio negato”. Aumentano stragi e sequestri, inutili i raid aerei contro Boko Haram e le bande criminali. Diventa sempre più difficile la situazione sicurezza in Nigeria. Martedì pomeriggio, i miliziani di Boko Haram si sono infiltrati nella città di Maiduguri, capitale dello stato del Borno, e hanno lanciato diversi colpi di mortaio e bombe che hanno provocato la morte di 18 persone e dozzine di feriti. I video ripresi dai residenti e pubblicati sui social network testimoniano la violenza degli attentati, con centinaia di persone che corrono sconvolte nelle strade della città colpite dall’attacco, visto che alcuni colpi sono caduti nei quartieri densamente popolati di Adamkole e Gwange, uccidendo anche 9 ragazzi su un campo di calcio. Secondo quanto riporta Al Jazeera, ci sono stati altri due attacchi compiuti dai gruppi di “banditi” che imperversano nelle regioni settentrionali del paese: il primo lunedì nello stato di Katsina con 18 vittime e il secondo martedì nello stato di Kaduna con altri 16 morti. In entrambe gli attacchi uomini pesantemente armati e in moto avrebbero bruciato numerose case, rubato bestiame e sequestrato diversi abitanti. Riguardo ai rapimenti di civili, la situazione sembra essersi aggravata molto nell’ultimo mese. Se un gruppo di 53 ostaggi (tra cui 20 donne e 9 bambini), rapiti su un autobus la scorsa settimana nei pressi del villaggio di Kundu, sono stati rilasciati questa domenica dai loro rapitori, le 42 persone (insegnanti, studenti e loro familiari) rapite la scorsa settimana al liceo di Kagara, sono ancora disperse. A questo si aggiunge il rapimento di diverse centinaia di ragazze nello stato centrale di Zamfara. Il quotidiano nigeriano The Guardian indica che “almeno 300 ragazze sono scomparse” dopo che una cinquantina di uomini armati hanno fatto irruzione nella notte tra mercoledì e giovedì nel dormitorio della Government Girls Secondary School di Jangebe. “I rapitori sono arrivati su numerosi veicoli e hanno portato via le studentesse - ha riferito all’Afp il capo della polizia di Zamfara, Suleiman Tanau Anka - molto probabilmente i criminali si sono nascosti nella foresta di Rugu, che si estende su quattro stati della Nigeria settentrionale e centrale: Katsina, Zamfara, Kaduna e Niger”. Nonostante alcuni raid aerei e numerose operazioni di ricerca da parte dell’esercito, i gruppi armati locali restano una minaccia costante in queste regioni a tal punto che, secondo la stampa locale, alcuni governatori locali avrebbero firmato “accordi per fornire assistenza e materiali o avrebbero pagato cospicui riscatti in cambio di una tregua”. La scorsa settimana i partiti politici delle opposizioni e diverse associazioni della società civile nigeriana hanno richiesto al presidente Muhammadu Buhari di dichiarare lo “stato di emergenza, in maniera da poter arginare le violenze nel paese”. A causa delle proteste da parte di numerosi governatori, Buhari aveva sostituito, a inizio mese, i quattro generali a capo dei vari rami dell’esercito (Aviazione, Marina, Esercito di terra e Capo di Stato Maggiore) come segnale di discontinuità con le fallimentari campagne militari del passato. In una dichiarazione ufficiale Amnesty International ha esortato il governo “a migliorare la situazione nel paese”, visto che le connivenze tra i diversi gruppi di “banditi” e Boko Haram mettono in pericolo sia il diritto ad “una vita normale per i civili”, ma soprattutto “il diritto allo studio dei giovani nigeriani”, principale obiettivo dei miliziani jihadisti che identificano le istituzioni scolastiche di tipo occidentale come “il nemico da combattere”. Amnesty ha evidenziato, infatti, come a causa dei continui attacchi contro le scuole numerosi studenti siano stati costretti ad abbandonare gli studi e gli stessi insegnanti siano stati costretti a fuggire, danneggiando di conseguenza il sistema educativo in gran parte del paese. “Le scuole dovrebbero essere luoghi sicuri e nessun bambino o ragazzo dovrebbe scegliere tra la sua istruzione e la vita - ha dichiarato Osai Ojigho, direttore di Amnesty in Nigeria - quello che chiediamo è che il governo intervenga per garantire il diritto all’istruzione di migliaia di studenti nel nord della Nigeria”.