Il coraggio che manca all’Italia: assicurare che nessuno muoia in carcere di Iuri Maria Prado Il Riformista, 26 febbraio 2021 Rendere più civile la giustizia italiana non è questione di dottrina, così come a farla incivile non è la sprovvedutezza di chi l’amministra. Il caso esemplare è quello dei cosiddetti mafiosi: è il furor di popolo che ne pretende la morte in cella, e a rintuzzarlo non serve erudizione ma la forza di essere impopolari. La morte in carcere di un mafioso, infatti, continua a essere una mostrina sul petto dello Stato che fa il suo malinteso dovere. E a pensarla in questo modo non è soltanto il senatore lombardo che, travestito da sbirro, accoglie all’aeroporto l’ex terrorista da far marcire in galera: è anche il collega fiorentino che giusto qualche mese fa rivendicava di aver fatto morire in carcere i mafiosi ristretti durante il suo potere. È cultura sparsa a destra e a manca, dunque, ottimamente accreditata presso gli opposti elettorati. E a revocarne l’imperio non basta qualche intervento pur importante su questo o quel comparto dell’amministrazione. Che la giurisdizione sia destinata a prendere un corso diverso solo in virtù del curriculum più sontuoso del presidente del Consiglio e della Guardasigilli è anche meno che una debole speranza, e cominciamo ad averne qualche temibile riprova a pochi giorni dall’insediamento del nuovo governo: perché a deturpare la giustizia di questo Paese non è soltanto il modo - certamente discutibilissimo - con cui è amministrata, ma soprattutto la cultura che ne legittima ogni aberrazione. Alla teoria che sia diritto dello Stato allestire sepolcri in cui seppellire la vita di qualcuno nell’attesa della morte; all’assunto che l’ordinamento resta civile se tiene in salute i detenuti per garantire alla società di vederli morire lì dentro; all’idea che l’ultimo sguardo del condannato si spenga inevitabilmente verso le sbarre di una cella anziché in quello di un familiare o di un amico; insomma a una concezione mortifera e puramente vendicativa del sistema penale bisogna opporre qualcosa di diverso e ulteriore rispetto al profilo accademico impeccabile: perché questo impedisce tutt’al più lo strafalcione ma, se resta impassibile, lascia intatto il diffusissimo accreditamento di quella buia impostazione. Le ragioni per opporvisi con efficacia devono essere reperite altrove, e in primo luogo nel coraggio che ci vuole per rivendicare un potere dello Stato esattamente opposto: quello di assicurare che in carcere non muoia proprio nessuno. La grillina dialogante e l’avvocato del Cav al fianco di Cartabia di Giulia Merlo Il Domani, 26 febbraio 2021 I Sottosegretari alla giustizia Anna Macina e Francesco Paolo Sisto, entrambi avvocati pugliesi, hanno posizioni opposte sulla prescrizione e si daranno battaglia. Uno dei ministeri chiave di questo esecutivo è quello della Giustizia. Non a caso al vertice è stata scelta la costituzionalista e fedelissima del Quirinale Marta Cartabia, una tecnica illustre chiamata a raffreddare il fronte tra i più divisivi tra le forze di maggioranza. Al suo fianco, il gioco a incastri che è stato la nomina dei sottosegretari ha collocato due personalità inedite e contrapposte. I Cinque stelle, per i quali il dicastero di via Arenula è da sempre luogo di battaglie di bandiera, hanno mantenuto il posto ma in sostituzione di Vittorio Ferraresi è arrivata Anna Macina. L’avvicendamento non è stato indolore e ha provocato più di qualche arrabbiatura dentro i Cinque stelle e sarebbe stato giustificato soprattutto dalla necessità di individuare figure femminili. Tuttavia non sposta gli equilibri correntizi: sia Ferraresi che Macina, infatti, sono considerati vicini alla linea istituzionale dell’ex capo politico, Luigi Di Maio. Se però Ferraresi operava con un ministro che era anche suo collega di partito come Alfonso Bonafede, Macina avrà un compito ben più gravoso: mantenere quanto più possibile il punto sulla riforma Bonafede dello stop alla prescrizione, che la ministra Cartabia ha già annunciato di voler modificare all’interno del disegno di legge sul processo penale. Chi è Macina - Quarantacinquenne avvocata di Brindisi ma nata a Bari e tra le animatrici della prima ora dei Cinque stelle pugliesi, Macina è capogruppo del Movimento nella commissione Affari costituzionali. Ha fama con l’ormai ex opposizione di essere una tra le grilline più dialoganti, anche se non si è mai occupata direttamente di giustizia. Capace di riconoscere i meccanismi politici, era stata tra i “pontieri” che, nelle settimane di agonia del governo Conte bis, non avevano chiuso del tutto le porte a Italia viva per un nuovo accordo di governo. In materia di prescrizione Macina ha sempre tenuto ferma la posizione intransigente del Movimento, ma nel farlo ha usato argomentazioni sufficientemente smussate da richiamare la mediazione raggiunta con il Pd: “Il problema non è la prescrizione, sono i tempi della giustizia - ha scritto recentemente su Facebook - All’interno delle commissioni la riforma del processo penale è già arrivata da tempo. La prescrizione non può essere la cura del male, se il male sono i tempi della giustizia, lavoriamo su questo”. Chi è Sisto - A prendere il posto del dem Andrea Giorgis, invece, è il deputato e responsabile nazionale per la giustizia di Forza Italia Francesco Paolo Sisto. Anche lui avvocato e anche lui barese proprio come Macina, il suo nome è però legato in modo strettissimo alle iniziative del centrodestra in materia di giustizia. Berlusconiano di stretta osservanza e in parlamento da tre legislature, è anche uno dei legali di punta del partito insieme a Niccolò Ghedini: è tutt’oggi il difensore di Silvio Berlusconi nel filone barese del processo escort, lo è stato di Denis Verdini nel processo sull’inchiesta P3 e anche di Raffaele Fitto, con cui condivide le radici pugliesi. Nell’ultimo anno è stato tra gli avversari più decisi della linea politica di Bonafede, contestando all’orgine la riforma dello stop alla prescrizione che “serve semplicemente a trasformare l’Italia in un Paese anticostituzionale” e ancora “così si trasforma l’Italia in un Paese dal diritto penale della intimidazione e della paura”. Proprio lui, a nome di Forza Italia, aveva depositato l’emendamento al Milleproroghe che doveva sospendere l’efficacia della riforma Bonafede ed è stato anche restio a ritirarlo. Il ritiro, infatti, è avvenuto solo dopo una prima interlocuzione con Cartabia, che ha assicurato con un ordine del giorno del governo la volontà di mettere mano alla prescrizione ma di volerlo fare con un disegno di riforma organico del penale. Salvo, tuttavia, astenersi invece che votare contro sull’emendamento di Fratelli d’Italia per lo stop della legge Bonafede discusso la settimana scorsa. Il lodo Cartabia - A rimanere apparentemente fuori dai giochi, invece, è il Partito democratico, che ha perso il suo sottosegretario alla Giustizia, nonostante il lavoro di Giorgis sia stato apprezzato anche nella sua capacità di mediazione. A penalizzarlo, oltre ai numeri ridotti di caselle da riempire, anche la necessità dei dem di pareggiare le quote di genere. Nessun disinteressamento rispetto alla pratica giustizia, quindi, ma semplicemente un sacrificio necessario nella complessa dinamica ripartitoria tra le correnti interne. Tuttavia, il ragionamento nel Pd è che una ministra come Cartabia, tecnica ma di alto profilo, è di per sé una garanzia di equilibrio del sistema. Altro discorso, invece, sarebbe stato necessario se a via Arenula fosse finito un politico. A convincere i democratici sono stati i primi passi della ministra, molto concreta ma anche dialogante, tutta orientata a raffreddare il clima pur prendendo in mano dossier complicati come la prescrizione. Il termine per farlo ora è fissato: entro il 29 marzo dovranno essere depositati gli emendamenti al disegno di legge penale e in quella sede si conoscerà la sorte della norma Bonafede. Si valuterà se conservare il lodo Conte bis già depositato (che differenzia le posizioni di assolti e condannati in primo grado) e che aveva ottenuto il via libera anche di Bonafede, oppure modificarlo in modo più significativo. Ora che la maggioranza è cambiata e il fronte garantista si è allargato, infatti, i dem per bocca di Walter Verini hanno rimesso sul tavolo l’ipotesi della “prescrizione processuale” al posto dello stop tout court dopo il primo grado, che consiste nella fissazione di “un limite massimo di durata per ciascuna fase del processo, oltre il quale non si può andare”. Toccherà a Cartabia trovare il punto di caduta. L’epoca di Bonafede e le profonde lacerazioni del sistema penale e processuale di Francesco Antonio Maisano Il Dubbio, 26 febbraio 2021 Il bilancio di gestione dell’amministrazione della Giustizia penale nell’epoca Bonafede, evidenzia forti lacerazioni del sistema penale e di quello processuale- penale. Nel primo abbiamo assistito alla proliferazione di nuove figure di reato e leggi speciali seguendo una chiara ispirazione pan- penalistica; tutto deve essere perseguito, tutto deve essere (maggiormente) punito. La moltitudine dei bersagli, come sempre accade, mette a nudo solo la velleità che li ispira ma pochi sono i risultati migliorativi delle prestazioni. Oggi abbiamo un sistema penale talmente caotico che persino l’interprete più avveduto ha difficoltà enormi a districarsi nella giungla normativa. Figurarsi il cittadino medio. Sulla sponda processuale ci ha pensato la sostanziale abolizione della prescrizione (che pure è istituto di diritto sostanziale) con la sentenza di primo grado quale che essa sia (assoluzione o condanna). Abbiamo creato l’imputato eterno (ma anche la parte offesa- parte civile eterna) e ciò nonostante sia evidente che la maggior parte dei procedimenti languono nella fase delle indagini preliminari col risultato che sono le Procure a decidere cosa deve andare avanti e cosa deve estinguersi. In un colpo solo si frantumano due principi costituzionali: la ragionevole durata del processo e la stessa “obbligatorietà” dell’azione penale. Invece di puntare su una vera deflazione processuale (estendendo l’accesso e rendendo davvero appetibili i riti alternativi oltre che forgiare l’udienza preliminare come autentico filtro di ciò che è davvero meritevole di sviluppo dibattimentale) si è pensato solo ad aumentare il peso specifico della sentenza provvisoria di primo grado. Dopo la sentenza provvisoria sarà compito della “nuova prescrizione” perpetuare l’orribile stasi senza scadenza. Se poi aggiungiamo a tutto questo l’assedio ideologico che il processo d’appello sta subendo (per tutte, la clonazione dell’inammissibilità alla stregua di quanto accade nel giudizio di Cassazione sino ad arrivare al giudice monocratico di secondo grado) vediamo chiari segni di voler deflazionare i processi con logica esclusivamente autoritaria. Ci si può aspettare un cambio di passo? Purtroppo credo che un Governo di salute pubblica - e proprio per questo di poliedrica tipizzazione politica - potrà poco. Questo è un Paese che, fino a quando non conquisterà la separazione delle carriere in magistratura e la conseguente formazione di due Consigli superiori distinti e autonomi, avrà sempre problemi enormi e contraddizioni evidentissime. Guardiamo, ad esempio, a ciò che succede tra Procure e Giudice. Ormai si focalizza sul lavoro dell’inquirente (spesso accompagnato da grancassa mediatica) e si dimentica che la verifica di quel lavoro la fa il giudice terzo all’esito di un confronto tra tesi opposte. Il processo è diventato l’arresto, la conferenza stampa, l’esibizione muscolare; poi se ci sarà una sentenza di assoluzione troverà il silenzio. Un sistema virtuoso dovrebbe salvaguardare la terzietà del giudice, la sua indipendenza dalle parti che si fronteggiano in contraddittorio. Invece accade che quell’accusatore, quel pubblico ministero, magari si troverà poi a giudicare la progressione in carriera del Giudice che gli diede torto. È un sistema senza senso, anzi no, contrario allo stesso buon senso. Ed è strano che proprio i Giudici (i giudicanti) cui è assegnata in via esclusiva la funzione di decidere in autonomia e indipendenza, non sentano il bisogno di “staccarsi” dai colleghi che nel processo hanno la fisiologica funzione di accusare l’imputato. In fin dei conti chi lotta per la separazione delle carriere in magistratura lo fa perché si affermi che il Giudice deve essere “immunizzato” da colleganze di lavoro, eguaglianza di carriera, etc. etc. Non puoi formare un corpo unico tra chi esercita funzioni contrapposte. L’innaturalità dovrebbe risultare evidentissima ad ogni osservatore che non abbia rendite di posizione. Si potrà posticipare ancora questo tema eternamente “divisivo” tra forze politiche non sempre autonome dai desiderata del diverso “ordine-potere” dello Stato, ma è un nodo gordiano destinato comunque ad essere reciso. Il ruolo attivo dei giudici contro la prescrizione di Guido De Maio* Il Mattino, 26 febbraio 2021 Con la formazione del nuovo Governo ha ripreso vigore la querelle sulla riforma dei processi, sia civile che penale, e dell’istituto della prescrizione in particolare. Tutto, o quasi, bene, sui tempi inammissibilmente lunghi dei nostri processi. Sia la nostra Corte Costituzionale che le Corti europee ci hanno più volte richiamati sulla necessità di abbreviare i tempi della celebrazione e della prescrizione. Ora che ci siamo, secondo me parzialmente, riusciti, quanto meno sulla prescrizione, non sono mancate voci reclamanti un ritorno all’antico. Pazzesco sarebbe dare ascolto a voci siffatte, il cui accoglimento ci riporterebbe agli insabbiamenti d’antan, ineluttabilmente dannosi (come riconosciuto da quasi tutti i commentatori) per il commercio, anche internazionale, e l’economia in genere. Tutto ciò premesso, con la speranza che non sia più necessario ripetersi, credo sia opportuno prospettare, alle allocuzioni correnti, un correttivo, uno solo ma fondamentale: qualsiasi riforma non risolverà il problema, se alle stesse non si aggiungerà la fattiva collaborazione dei giudici che intervengono nel processo. Ho letto interventi da tutte le parti e su quasi tutti i quotidiani (alcuni davvero illuminati, da Massimo Krogh a Carlo Nordio a Davigo, solo per fare qualche nome), ma in quasi nessuno di essi ho potuto cogliere una ulteriore e più approfondita visione degli interni corporei del processo: voglio dire ai protagonisti, oltre che alle norme provenienti ab extrinseco. Non si deve mai dimenticare che il deus ex macchina del processo è pur sempre il magistrato al quale normativamente incombe l’onere e l’onore di dirigerlo. Attività, questa, che comporta, insieme alla necessaria disponibilità all’ascolto delle ragioni e richieste delle parti, conoscenza dei propri poteri/doveri e fermezza nella conduzione come nelle decisioni. E in tal senso vanno preparate anche le nuove generazioni di magistrati. Il processo è funzionalmente diretto alla sua fine naturale, la sentenza. E in questa direzione devono essere dirette tutte le attività dei protagonisti. Da magistrato della vecchia guardia, ma anche attento all’attuale evoluzione degli istituti, direi, soprattutto per il penale, che il processo, una volta iniziato (“incardinato”, si dice in gergo), deve avere un suo percorso preferenziale verso la sua fine ultima, la sentenza, come si diceva. Inconcepibile che un processo, una volta esauriti i preliminari e la fase iniziale, venga poi rinviato a mesi e mesi di distanza, se non addirittura ad anno. Questo significherebbe tradire finalità e funzione del processo. Discorso a parte meriterebbero i cosiddetti maxi/ processi, che per loro stessa natura richiedono necessariamente tempi più lunghi per arrivare alla conclusione. Non per nulla la Cedu raccomandò all’Italia di ridurne, il più possibile, il numero, proprio per evitare tempi lunghi. Qui basterà dire che il primo di tali “mostri” (per intenderci quello in cui fu arrestato Enzo Tortora) pervenne al dibattimento con circa 900 imputati! Difronte all’impossibilità, anche fisica, di affrontare una siffatta fenomenologia, il processo (come molti ricorderanno) fu diviso in tre tranche, ciascuna affidata a un diverso collegio. Ma, anche così, la soluzione non fu del tutto soddisfacente. Il discorso relativo sarebbe molto lungo, ma spero che anche per questi non mancherà occasione di riparlarne. *Presidente emerito Corte di Cassazione Servizi segreti, Gabrielli deve mettere ordine sulla cybersicurezza di Stefano Feltri Il Domani, 26 febbraio 2021 Tra i tanti riciclati di governi passati, nelle nuove nomine del governo Draghi c’è almeno una novità rilevante: il capo della polizia Franco Gabrielli che diventa sottosegretario con la delega ai servizi segreti. Quella casella aveva contribuito a innescare la crisi di governo: per due anni l’ex premier Giuseppe Conte aveva rifiutato di nominare una “autorità delegata”. Italia viva di Matteo Renzi lo accusava, neanche troppo velatamente, di voler usare l’intelligence come strumento per consolidare il proprio potere personale. In questo duello a colpi di allusioni, alla fine Conte aveva ceduto, per togliere un argomento polemico al suo avversario, scegliendo l’ambasciatore Piero Benassi come sottosegretario pochi giorni prima che il governo giallorosso collassasse definitivamente. Servizi politici - Questa confusione intorno al mondo dell’intelligence ha avuto almeno due conseguenze rilevanti. La prima è aver reso oggetto di battaglia politica un comparto delicato che, per sua natura, deve rispondere soltanto a logiche di interesse nazionale invece che di parte. Gli agenti di Aisi (servizio interno), Aise (servizio estero) e Dis (coordinamento) hanno accesso a informazioni privilegiate, possono ottenere intercettazioni telefoniche senza l’autorizzazione di un giudice, hanno facoltà, quando necessario, di commettere reati e per questo sono protetti dalle cosiddette “garanzie funzionali”. Quando il tarlo del sospetto corrode la fiducia nella loro integrità, diventa impossibile preservare la fiducia necessaria alla loro missione. Negli ultimi mesi la “politicizzazione” dell’intelligence ha avuto tante conseguenze spiacevoli. Dalla coda di polemiche e messaggi cifrati seguita all’arresto di Cecilia Marogna, sedicente mediatrice con sequestratori internazionali per conto del Vaticano che si vantava dei contatti con i vertici dei servizi, fino alla gestione pasticciata del rilascio dei pescatori libici catturati dal generale Haftar in Libia. Per non parlare del Copasir, il comitato di vigilanza parlamentare sull’intelligence, che si è trasformato in una specie di tribunale segreto chiamato a giudicare un po’ tutto, dalle acquisizioni da parte di società straniere alla sicurezza delle forniture vaccinali. Lo stallo cyber - Lo scontro politico sui servizi segreti ha portato, durante la discussione sulla legge di Bilancio, a bloccare anche la creazione dell’Istituto italiano per la cybersicurezza. Italia viva lo attaccava perché, diceva il partito di Renzi, quel progetto era parte del tentativo di Conte di consolidare il proprio potere personale: l’Istituto avrebbe avuto soldi, autonomia e competenze per dare una regia pubblica al settore cruciale della cybersicurezza, dove si muovono tanti soldi e competenze. Poiché il capo del Dis, Gennaro Vecchione, era uno degli uomini di fiducia di Conte, Renzi ha fatto di tutto per far saltare la norma. Che è sparita insieme a Conte, al fulmineo sottosegretario Benassi e a tutto il resto del governo giallorosso. In realtà è dal 2017 che si cerca di dare un assetto diverso alla cybersicurezza, che è consideratala prima minaccia alla sicurezza nazionale, un tempo affidata soltanto al consigliere militare di palazzo Chigi. Basti pensare alle questioni relative al 5G e allo scontro geopolitico che c’è intorno a quella tecnologia e ai rapporti con i fornitori cinesi, primo fra tutti Huawei. Oggi molte competenze sono già al Dis - dopo i tentativi di Matteo Renzi di affidare quelle mansioni all’amico Marco Carrai e alla sua società Cys4 della quale, guarda un po’, l’ex premier è poi diventato consulente - e l’Unione europea spinge per la costruzione di centri nazionali dedicati al settore che si interfaccino col nascente Centro di competenza europeo di Bucarest. Ora sta per essere pubblicato il regolamento europeo che impone ai governi di connettere i loro centri cyber nazionali con quello europeo e l’Italia ha semplicemente rinviato il problema di qualche mese, così da trovarsi già in ritardo. Il prefetto Franco Gabrielli ha il compito di riportare un po’ d’ordine in un comparto che dovrebbe operare come minimo con discrezione, ma soprattutto dentro il perimetro di un mandato condiviso. Gabrielli conosce l’intelligence, ha guidato il Sisde (il nome dell’Aisi prima della riforma del 2007), ma il mondo è molto cambiato: allora, nel 2006, il pericolo maggiore era il terrorismo islamico, sull’onda lunga dell’11 settembre 2001. Oggi le grandi questioni sono la Cina, il 5G e la sicurezza dei dati e delle piattaforme. Il primo passo per garantire la sicurezza che l’intelligence promette è sottrarre materie così delicate alla polemica quotidiana tra i partiti. La politica, i clan e Bibbiano: ecco perché il pm è stato cacciato di Giovanni Tizian Il Domani, 26 febbraio 2021 Il trasferimento del procuratore di Reggio Emilia. Marco Mescolini è stato trasferito dal Csm per incompatibilità ambientale: parteggia per il Pd, è la sintesi. Il provvedimento è un mix di populismo giudiziario e desiderio di vendetta di chi era finito sotto processo. Il procuratore farà ricorso. Soffia un vento di restaurazione in Emilia. La normalizzazione cavalca la necessità moralizzatrice del Consiglio superiore della magistratura, costretta a rottamare al più presto il passato macchiato dal caso Palamara. Impressioni e turbamenti personali si trasformano così in prove schiaccianti che determinano, per esempio, la caduta di Marco Mescolini, procuratore di Reggio Emilia fino al suo trasferito per incompatibilità ambientale deciso dal Csm. Una decisione influenzata da pressioni mediatiche e politiche di chi era finito in disgrazia a causa di inchieste che hanno cambiato la percezione della mafia nella regione e nel paese. Per il Csm Mescolini è incompatibile in tutta la regione. Troppo legato al potere politico locale, è l’accusa grave della prima commissione dell’organo di autogoverno delle toghe. Dura meno di due anni, quindi, l’esperienza di Mescolini a Reggio, nel fortino di quell’organizzazione criminale che ha combattuto da sostituto procuratore dell’antimafia di Bologna: la ‘ndrangheta emiliana, impasto di imprenditoria, politica e clan che dagli anni Settanta ha messo radici nella pianura padana e che per quasi quarant’anni ha lavorato indisturbata. Con procure immobili e detective impreparati ad affrontare l’avanzata dei clan. Funzionava così. Con fascicoli sui boss che venivano spediti in Calabria o in Campania perché in Emilia nessuno aveva il coraggio di scrivere su una carta bollata della procura “416 bis”, reato di associazione mafiosa. Tutto cambia a partire dal 2009, alla guida della procura arriva l’esperto procuratore Roberto Alfonso, l’ideologo della lotta sistematica alle mafie in Emilia. È proprio sotto le ceneri della più importante indagine contro la ‘ndrangheta al nord, di cui Alfonso è stato la mente e Mescolini il braccio, che ha covato il rancore di chi da quell’operazione mastodontica è stato colpito duramente. Populismo togato - L’intervento del Csm su Mescolini è una conseguenza indiretta del caso Palamara, istantanea sul funzionamento del mercato delle nomine negli uffici direttivi di procure e tribunali. Palamara, l’uomo che tutto decideva nel Csm, è sotto inchiesta per corruzione: sono bastati pochi mesi perché si trasformasse da carnefice dell’etica a moralizzatore dei costumi giudiziari. Oggi è a tutti gli effetti il fustigatore delle toghe: il suo libro è usato come il vangelo dal quale pescare frasi, messaggi, pizzini, da usare contro quel giudice o quel pm. Da carnefice a eroe, appunto. Il percorso inverso rispetto a quello di Mescolini, da toga antimafia che ha inferto un colpo brutale alle cosche emiliane a appestato in combutta con il Pd che governa la regione da sempre. Dunque più che sulle chat, il trasferimento di Mescolini si fonda su questioni politiche. Mescolini farà comunque ricorso al Tar. Una storia emiliana - Mescolini inizia da sostituto procuratore, per qualche tempo va da fuori ruolo nel gabinetto del viceministro Roberto Pinza, all’epoca del governo Prodi, di nuovo magistrato sul fronte dell’accusa alla procura di Bologna dove diventa sostituto procuratore nella sezione antimafia, la Dda, ufficio che per molto tempo non ha toccato palla nella lotta ai clan, proliferati a dismisura tra gli anni Settanta e Duemila tra Rimini e Piacenza. Nel 2009 arriva Roberto Alfonso, considerato di area conservatrice, con grande esperienza nella guerra totale alle cosche. Alfonso rivoluziona il sistema di indagine. Chiede ai suoi sostituti di leggere ogni singolo reato in un quadro complessivo. È la svolta. Punta su Mescolini, al quale affida il delicato fascicolo “Aemilia”. “Lo considerava brillante”, dice chi ha vissuto in quegli anni il cambio di rotta dell’ufficio giudiziario. Mescolini in realtà non è una toga d’assalto, ha un profilo bassissimo. Eppure con Alfonso e Beatrice Ronchi toccano i livelli più alti della complicità mafiosa tra Modena, Reggio, Parma e Piacenza. L’inchiesta sui clan calabresi trapiantati in Emilia è per numeri la più imponente mai effettuata al nord. Mai come in quell’indagine il potere politico è stato messo a nudo: l’indagine ha portato allo scioglimento per mafia del consiglio comunale di Brescello, a guida Partito democratico, primo caso nella storia della regione. Ha travolto il municipio di Finale Emilia, sempre governato dai democratici, dove arrivarono i commissari per valutarne il commissariamento. Le perquisizioni sono arrivate fin dentro la prefettura di Modena coinvolgendo il vice prefetto, contestando al senatore Carlo Giovanardi l’aggravante mafiosa (poi decaduta) per aver tentato, con minacce a due ufficiali dei carabinieri, di salvare un’impresa modenese (accusata di complicità con la ‘ndrangheta) dall’esclusione dalle white list, gli elenchi di ditte “pulite” ai quali era obbligatorio iscriversi per lavorare negli appalti della ricostruzione post terremoto. La stessa indagine Aemilia che ha portato a processo consiglieri comunali del centrodestra e rappresentati di Forza Italia, come Giovanni Bernini: pupillo dell’ex ministro Pietro Lunardi, prescritto per il reato di corruzione elettorale, incontri con il boss documentati e agli atti. In un capitolo successivo della stessa inchiesta è finito in carcere e poi condannato a 20 anni per associazione mafiosa l’ex presidente del consiglio comunale di Piacenza: Giuseppe Caruso, Fratelli d’Italia. Processo alla destra - A scagliarsi contro Mescolini sono i dirigenti dei partiti che in questi anni hanno visto i loro colleghi sfilare nelle aule di tribunale insieme a boss e collusi di vario genere. Interrogazioni parlamentari a pioggia firmate da amici di Giovanardi, di Caruso e di Bernini con cui si chiedevano provvedimenti duri per il procuratore di Reggio alla luce della pubblicazione delle chat con Palamara. Bernini è stato il primo a dichiarare guerra all’indagine Aemilia dopo la pubblicazione delle conversazioni nelle quali Mescolini chiedeva a Palamara informazioni sulla fissazione del plenum per decidere della sua nomina a procuratore di Reggio. I messaggi si collocano in un arco temporale preciso: tra gennaio e luglio 2018, mesi caldi del maxi processo alla ‘ndrangheta, con una requisitoria di migliaia di pagine da scrivere. “La necessità di Mescolini in quel momento era definire la sua posizione per non creare scompensi organizzativi a un procedimento da tutti considerato storico”, spiega una fonte investigativa che ha lavorato fianco a fianco con il pool di magistrati. Bernini e molti altri del suo partito considerano Aemilia una montatura per colpire solo una parte politica: la destra. L’occasione delle chat era troppo ghiotta, da accusato è diventato il principale accusatore del pm che lo aveva trascinato a processo. La tesi del politico è che i pm hanno salvato il Pd, nonostante gli elementi raccolti su Graziano Delrio, storico sindaco di Reggio Emilia. Uno di questi indizi era il viaggio di Delrio a Cutro durante la campagna elettorale del 2009 in occasione della processione del Santissimo Crocifisso. Cutro è il paese d’origine della cosca che domina nella provincia reggiana dagli anni Settanta. In gita con Delrio c’era anche il candidato del centrodestra. Entrambi furono ascoltati come persone informate dai magistrati che conducevano Aemilia: un interrogatorio duro, in cui l’ex sindaco Pd palesa la sua inadeguatezza nel comprendere le dinamiche criminali in atto sul proprio territorio. Il pool di magistrati aveva anche chiesto a Delrio come mai avesse accompagnato alcuni imprenditori cutresi dal prefetto di Reggio Emilia, che si sentivano minacciati dalle interdittive emanate da quest’ultima contro aziende legate alle cosche. I magistrati non hanno cambiato valutazione su di lui: era un testimone, nulla di più. A differenza di altri politici poi processati non era mai stato a cena con mafiosi e né gli investigatori avevano mai documentato incontri con affiliati per chiedere voti, al contrario di quanto emerso su Bernini, per esempio. “Parziale” - La relazione della prima commissione del Csm firmata da Antonino Di Matteo, il magistrato che ha portato a processo la trattativa stato-mafia, è molto dura nei confronti di Mescolini. Dà ampio risalto ai sospetti di Bernini. “La mia riflessione era che d’ora in avanti qualunque tipo di indagine fosse stata fatta da questa Procura sicuramente avrebbe suscitato in un senso o nell’altro un sospetto, un sospetto di essere conniventi con qualche parte politica”, è una delle preoccupazioni esternate da Valentina Salvi, pm da oltre dieci anni a Reggio Emilia, tra le quattro firmatarie dell’esposto nei confronti di Mescolini. Il motivo? Troppa pressione mediatica aveva causato un turbamento dell’intera attività investigativa. Salvi cita anche un esempio: un’inchiesta in corso sugli appalti al comune di Reggio, con centinaia di indagati. Contesta a Mescolini di aver insistito per posticipare le perquisizioni alcuni giorni dopo le elezioni. Una scelta che ha indignato Salvi. Eppure quel fascicolo sugli appalti porta il numero di registro 2016, la prima informativa della guardia di finanza è del 2017. Mescolini si insedia a settembre 2018. Perché non era stato fatto niente prima e l’urgenza si presenta nei giorni del voto? Le perquisizioni alla fine si faranno come aveva suggerito Mescolini due giorni dopo le elezioni. Altro elemento del contendere è il sindaco del Pd Luca Vecchi: la pm sostiene che Mescolini aveva impedito l’iscrizione nel registro degli indagati, ma come è emerso durante l’udienza del Csm Vecchi è tuttora indagato. Salvi è la pm che, con a capo Mescolini, ha firmato l’indagine “Angeli e Demoni” sugli affidi illeciti dei minori che ha travolto il sindaco Pd di Bibbiano, arrestato e poi rilasciato. L’inchiesta stava costando le elezioni regionali di gennaio 2020 ai democratici in una campagna elettorale giocata dalla destra all’attacco sul “Partito di Bibbiano”: Salvini aveva scelto di chiudere la campagna a Bibbiano, in quell’occasione Mescolini e la sua procura erano baluardi della legge che non aveva timore di nessuno. Ma nella profonda provincia emiliana nulla è eterno e nulla è come sembra. “Qui è più difficile contrastare il potere mafioso rispetto al sud, bianco e nero si mischiano”, fu una delle prime constatazioni di Alfonso da procuratore capo di Bologna. Confondere, la parola chiave per decifrare il caso Mescolini. Graviano e il permesso premio: dalla disinformazione alla “trattativa Consulta-mafia” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 febbraio 2021 Dopo 27 anni, a seguito della sentenza della Corte costituzionale sul 4 bis, Filippo Graviano ha chiesto un permesso premio. Ogni volta, come nel caso di Graviano, che un detenuto mafioso “eccellente” fa istanza per chiedere un permesso premio, puntualmente arriva il Fatto Quotidiano a ricordare la famosa sentenza della Consulta che ha ritenuto incostituzionale l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui vieta il permesso premio. Non solo. Subito in qualche modo si evoca la presunta trattativa Stato-mafia, una tesi giudiziaria che è diventata una spada di Damocle sopra la testa di chiunque ha cuore la nostra Costituzione, nata per arginare qualsiasi forma autoritaria e concezione da Stato di Polizia. Ma fin dai tempi antichi, la paranoia e complottismo sono da sempre andati a braccetto con quei poteri che vogliono soffocare lo Stato di Diritto e avere sempre più potere ricorrendo perfino all’utilizzo dei nomi di quelle persone che hanno seriamente servito lo Stato come, in questo caso specifico, quello di Giovanni Falcone. Per farlo hanno bisogno di chi inconsciamente crea disinformazione, o fa allusioni come quando viene ricordato che tra i giudici della Consulta c’era anche l’attuale ministra della Giustizia Marta Cartabia. La colpa di quest’ultima è quella di essere una fine giurista, che ha come unica via maestra la Costituzione. Una carta che fa da scudo a ogni singolo cittadino dagli abusi di qualsiasi potere, economico, politico o giudiziario che sia. La dissociazione non è contemplata giuridicamente per i mafiosi - Ora è la volta di Filippo Graviano, il quale assieme al fratello Giuseppe ebbe un ruolo importante nell’organizzazione delle stragi continentali del 1993 a Firenze, Milano e Roma e nell’omicidio di don Pino Puglisi. Dal 1994 è ininterrottamente al 41 bis. Dopo 27 anni, a seguito della sentenza della Consulta, Filippo Graviano ha chiesto il permesso premio. “Si dice dissociato. Basterà?”, si chiede l’autore dell’articolo de Il Fatto. No, per la Consulta non basta assolutamente come parametro di valutazione. La dissociazione è un fatto personale, che a differenza di chi è dentro per terrorismo non è contemplato giuridicamente nei confronti dei mafiosi. Per quest’ultimi esiste solo lo status di collaboratore di giustizia per avere diritto a tutti i benefici penitenziari. Basti pensare al pentito Giovanni Brusca, colui che ha sciolto un bambino nell’acido e ha commesso quasi un centinaio di omicidi. Lui da tempo ha usufruito di vari permessi e nessuno si è scandalizzato. Un suo diritto, nulla da obiettare. Per Falcone il 4 bis non esclude i benefici in assenza di collaborazione - Così come, dal 2019 è un diritto poter richiedere il permesso premio anche da parte di chi non ha collaborato con la giustizia. Si fa il nome di Falcone che ha ideato il 4 bis dell’ordinamento penitenziario per i detenuti mafiosi. Verissimo, peccato che si omette di dire una verità “indicibile” per chi usa l’antimafia come strumento di potere: consapevole che l’ergastolo senza condizionale sarebbe stato incostituzionale, non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. In soldoni, ciò che aveva ideato Falcone contemplava questa ratio: se non collabori non è preclusa la misura alternativa, devi solo attendere il decorso del tempo per poterla chiedere, sapendo che è stato aumentato. Ebbene sì, la sentenza della Consulta, dove all’epoca - lo ricordiamo con piacere anche noi - c’era anche Marta Cartabia, avvicina il 4 bis al decreto originale ideato da Falcone: l’assenza di collaborazione non deve precludere a vita la possibilità di accedere ai benefici della pena. Era accaduto che, dopo la strage di Capaci e di Via D’Amelio, lo Stato italiano, non solo non si è giustamente piegato alla mafia, ma per reazione ha approvato il secondo decreto legge, quello del 1992, che introduce nel nostro ordinamento un regime ostativo del tutto differente rispetto a quello voluto da Falcone. Con il decreto legge post strage, senza la collaborazione con la giustizia, è preclusa in ogni caso la possibilità di accedere alle misure alternative. Uscendo, di fatto, dal perimetro costituzionale che Falcone voleva invece salvaguardato. Anche questo episodio dovrebbe far riflettere sul fatto che non c’è stata nessuna trattativa che aveva alleggerito la carcerazione dei mafiosi. Esattamente l’opposto. Una reazione durissima, tanto da approvare il 41 bis e rinchiudervi centinaia e centinaia di persone. Un vero e proprio rastrellamento dettato dall’emergenza del momento che però, oltre ai boss veri, hanno recluso in carcere tantissime persone non appartenenti a cosa nostra. Ci furono numerose istanze presentate dinanzi alla magistratura di sorveglianza che, a sua volta, ha sollevato il problema alla Corte costituzionale. Quest’ultima, con la numero 349 e depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993, ha sentenziato che per decidere la proroga del 41 bis, bisogna valutare caso per caso. Detto, fatto. A ben 300 detenuti non è stato rinnovato il carcere duro, ma solo 18 di loro appartenevano alla mafia. Non solo. A seguito di una nuova applicazione, si era ridotto a soli undici soggetti mafiosi. Il mancato rinnovo del 41 bis è frutto di scelta dettata dalla sentenza della Corte costituzionali e altri fattori che nulla c’entrano con la presunta trattativa. Casomai, ancora una volta, il “mostro” è la Consulta, rea di far applicare la Costituzione italiana e quindi difendere lo Stato di Diritto anche in tempi emergenziali. A meno che non si pensi che ci sia stata una trattativa Consulta- mafia. Non diamo limiti all’immaginazione. La Corte costituzionale ha posto paletti molto rigidi - Ma ritorniamo alla “dissociazione” mafiosa. Un falso problema sul quale, forse per ignoranza, alcuni giornali tentano di specularci sopra. Nonostante la portata “rivoluzionaria” della sentenza, la Consulta dimostra comunque di aver preso attentamente in considerazione le particolari esigenze di tutela alla base della previsione dell’articolo 4 bis. Essa, infatti, si cura di precisare che la presunzione di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata - che da assoluta diviene relativa, nei limiti in cui opera la pronuncia in esame - può essere superata solo in base a valutazioni particolarmente rigorose, che non si limitino alla regolare condotta carceraria, alla mera partecipazione al percorso rieducativo o a semplici dichiarazioni di dissociazione del detenuto. Viene messo in rilievo, in proposito, che già la prima versione dell’art. 4-bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario prevedeva che l’accesso alle misure alternative e premiali per i reati di prima fascia fosse subordinato all’acquisizione di “elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva”, requisito tuttora necessario ai sensi del c. 1-bis dell’articolo in parola per i casi di collaborazione inesigibile, impossibile o irrilevante. La magistratura di sorveglianza, pertanto, secondo quanto indicato dalla Corte, non dovrà solo svolgere una seria verifica della condotta penitenziaria del detenuto, ma dovrà altresì considerare il contesto sociale esterno, acquisendo dettagliate informazioni per il tramite del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente. Viene ricordato, poi, che ai sensi del comma 3-bis dello stesso art. 4 bis, tutti i benefici in questione non possono mai essere concessi allorché il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o il Procuratore distrettuale evidenzino l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. In sintesi, la sola “dissociazione” non basta. È uno dei tanti elementi che la magistratura di sorveglianza deve valutare per concedere o meno il permesso premio che può essere richiesto dopo l’espiazione di tantissimi anni. La collaborazione con la giustizia rimane la “via maestra”. Esattamente come prevedeva Falcone. Abuso d’ufficio, quel cappio al collo degli amministratori di Simona Musco Il Dubbio, 26 febbraio 2021 Il 70% delle accuse finisce con un nulla di fatto: sono in tanti a chiederne l’eliminazione. Governatori, sindaci, dirigenti pubblici: chiunque, prima o poi, può incappare nel rischio di finire indagato. E molti evitano di agire per sottrarsi al pericolo. Lo ha detto anche il presidente Mario Draghi: “Occorre evitare gli effetti paralizzanti della fuga dalla firma”. Una fuga dettata dalla paura, perché il rischio di finire sotto indagine per abuso d’ufficio, per chiunque svolga il ruolo di amministratore pubblico, è sempre dietro l’angolo. Così si finisce per rimanere immobili: meglio rallentare la pubblica amministrazione che finire in un vortice che rischia di sballottare il malcapitato per anni. Specie se, alla fine, come in molti casi, risulta essere innocente. Da nord a sud, il pericolo è uguale per tutti. E le statistiche non mentono: se si considera il periodo 2016- 2017, sono state circa 7.000 le contestazioni di abuso d’ufficio, con provvedimenti definitivi di condanna pari a 100. Una sproporzione che la dice lunga sulla fumosità del reato. Da quanto emerso nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021, risultano circa 500 iscrizioni tra luglio 2019 e giugno 2020, una sessantina in meno rispetto all’anno precedente. Rimane ancora da capire quali saranno gli effetti delle modifiche intervenute nel frattempo con il decreto-semplificazione del luglio 2020, che ha ristretto l’ambito di applicabilità della norma alle “violazioni di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Insomma, un minimo di libertà agli amministratori è stata restituita. Ma tocca fare i conti con i numeri: finora, circa il 70 per cento delle inchieste finisce nel nulla. Nel frattempo, molti amministratori finiscono nel tritacarne, nella gogna giustizialista, magari gettando la spugna. I casi sono migliaia, molti anche eclatanti. Uno degli ultimi in ordine di tempo è quello dell’ex governatore della Calabria, Mario Oliverio, assolto a gennaio scorso nel processo “Lande desolate”. “Due anni di gogna mediatica”, ha commentato dopo la decisione del gup. L’inchiesta, nel 2018, costrinse l’allora presidente della Regione a tre mesi di “confino” forzato nella sua casa di San Giovanni in Fiore. Ma non solo: proprio a causa di quell’indagine fu costretto a rinunciare alla sua ricandidatura, su pressione della segreteria romana del Pd, che per evitare imbarazzi decise di metterlo fuori gioco, decretando, di fatto, la vittoria del centrodestra. Ma i casi sono tantissimi. La grana per Vincenzo De Luca, presidente della Regione Campania, anche lui del Pd, casualmente, era scoppiata proprio alla vigilia della sua ricandidatura a governatore. Ma a pochi mesi da quello scoop, rilanciato a settembre da Repubblica nonostante la notizia fosse ancora coperta da segreto, l’inchiesta è stata archiviata. L’indagine aveva a che fare con l’assunzione di quattro vigili urbani nella segreteria istituzionale del Presidente della Regione Campania, con l’ipotesi di abuso d’ufficio, falsità ideologica e truffa. Pochi giorni fa è arrivata, dopo otto anni, l’assoluzione piena per 13 ex consiglieri regionali del Lazio, per fatti che risalgono al periodo compreso tra il 2010 e il 2013. Tra loro anche l’attuale senatore del Pd, Bruno Astorre. “Che vita è se per un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio ci si deve dimettere?”, aveva dichiarato ricordando la gogna subita, i titoli dei giornali e le accuse degli avversari politici. Il 27 marzo del 2020 ad essere archiviata è stata la posizione del governatore della Lombardia Attilio Fontana, accusato d’abuso d’ufficio per la nomina di Luca Marsico, avvocato ed ex socio del suo studio. Nel 2015 era toccato al sindaco di Milano Giuseppe Sala, indagato per le vicende Expo. Di mezzo ci sono finiti anche grillini illustri, come il sindaco di Roma Virginia Raggi. I più forti, quelli con la copertura mediatica maggiore, magari resistono alla valanga di fango dopo l’iscrizione sul registro degli indagati. Altri, invece, decidono di deporre le armi e attendere il giudizio. Basta cercare tra gli amministratori locali, infatti, per raccontare storie più drammatiche, come quella dell’ex sindaco di Alcamo, Sebastiano Bonventre, indagato assieme ad alcuni dirigenti comunali e prosciolto dal Gup di Trapani ad ottobre scorso. Dopo, però, aver deciso di dimettersi. Per molti si tratta di una crepa che consente alla magistratura di infilarsi nelle amministrazioni, studiarle da dentro, magari col pretesto di andare a cercare altri reati, come la corruzione. Ma il più delle volte finisce con un unico risultato: la distruzione di un’esperienza amministrativa che, buona o meno, era il risultato di una scelta democratica compiuta dai cittadini. Le voci che si alzano contro questo reato, ora, sono tante. Per Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto a Venezia, andrebbe eliminato. Della stessa opinione l’ex giudice costituzionale Sabino Cassese. L’ex premier Silvio Berlusconi è meno duro: per lo meno, andrebbe rivisto, a fronte di una società in continua evoluzione e un diritto non al passo coi tempi. Le motivazioni sono chiare: non c’è amministratore che non abbia paura di incappare, un domani, in una denuncia. “I tempi si triplicano, nel migliore dei casi: si chiama amministrazione difensiva. Ma il risultato è la paralisi delle amministrazioni, che sono l’alter ego delle imprese”, denunciava Nordio al Dubbio. Un concetto condiviso anche da Maria Masi, presidente facente funzione del Cnf, nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei Conti: “Anche la mera prospettiva della sanzione blocca l’iniziativa di dipendenti e amministratori, impedendo interventi incisivi e tempestivi dell’Amministrazione”. Eliminare totalmente il reato dal codice penale, secondo Nico D’Ascola, ex presidente della Commissione giustizia al Senato e ordinario di diritto penale, sarebbe insensato e metterebbe a rischio la tutela dei cittadini di fronte all’azione della pubblica amministrazione, spiegava lo scorso anno al Dubbio. La norma “dovrebbe mirare alla giusta criminalizzazione ma solo come extrema ratio, per evitare di incrementare la conflittualità tra politica e magistratura e non bloccare la pubblica amministrazione, punendo solo i comportamenti pienamente dolosi, che violano i poteri conferiti. La mia idea - aveva aggiunto - è che bisogna punire quei comportamenti che producono effetti del tutto contrari ai principi previsti dalla legge violata”. Reato di maltrattamenti per i genitori che prospettano e usano violenza fisica sui figli di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2021 Non si tratta di abuso dei mezzi di correzione in quanto le botte e il sistematico clima di paura non rientrano nell’educazione. L’uso della violenza verso i figli conduce diretti all’imputazione per maltrattamenti in famiglia in danno di minori e non alla fattispecie tra virgolette meno grave dell’abuso dei mezzi di correzione. Infatti, la violenza non è contemplata tra i metodi educativi leciti. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 7518/2021, ha confermato la condanna di entrambi i genitori per il reato di maltrattamenti in danno della figlia dodicenne e di riflesso nei confronti della più piccola di tre anni, che assisteva al clima di paura e violenze riparandosi dietro la figura della sorella “più grande”. Il contesto famigliare era connotato da disagi sociali gravi dovuti in primis allo stato di alcolismo del padre e alle cattive condizioni di salute della madre. Il punto centrale della difesa dei due ricorrenti sta nel puntare il dito contro la capacità di testimoniare della loro figlia dodicenne e la sua attendibilità. In pratica una palese richiesta di riconsiderare nel merito la vicenda, ciò che non può avvenire in sede di legittimità. La Cassazione ha comunque fatto rilevare che l’attendibilità della testimonianza della ragazzina era semmai supportata e non smentita dal fatto che ella avesse riportato anche fatti non negativi sulla condotta dei genitori. E con lo stesso argomento la Cassazione chiarisce che, dove la bambina ha dimostrato di comprendere lo stato di difficoltà in cui si trovavano i propri genitori, non viene meno la veridicità delle accuse di violenza contenute nella sua testimonianza, anzi ciò dimostrerebbe l’equilibrio emotivo e quindi l’attendibilità della piccola testimone. Dal narrato riportato nella sentenza emerge un atteggiamento di duro regime verso la bambina cui non sarebbero stati concessi i giusti tempi di svago e di serenità a fronte della prospettazione genitoriale di un suo obbligo quotidiano di occuparsi della casa e della sorella minore a meno di venire punita o malmenata. La vicenda prende luce dalle confidenze fatte dalla bambina alla propria insegnante. E anche sul punto la Cassazione contrasta il ricorso che voleva far rilevare discrepanze tra tali confidenze e quanto dichiarato in sede di incidente probatorio: un narrato praticamente sovrapponibile, a meno di poche irrilevanti differenze. Lo stesso discorso per le altre testimonianze, non oculari, dove tra la conferma delle accuse vi erano anche passaggi favorevoli al giudizio sugli imputati. Ma senza che venisse meno l’accertamento del reato. Emilia Romagna. Covid e carceri, il Garante regionale dei detenuti: utili misure alternative assemblea.emr.it, 26 febbraio 2021 “Affollamento nell’affollamento, emergenza nell’emergenza, l’amplificarsi dei problemi e non la loro soluzione sembra essere il paradigma del carcere, emerso in tutta la sua enormità quando, all’inizio del 2020, con l’evidenza della pandemia e delle sue drammatiche conseguenze sono state emanate le prime raccomandazioni di carattere igienicosanitario per prevenire i possibili contagi”. Marcello Marighelli, Garante delle persone private della libertà personale, è intervenuto in mattinata all’iniziativa “Carcere, Covid-19 e Comunità” promossa dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII per approfondire la situazione degli istituti penitenziari della nostra regione in relazione all’emergenza sanitaria. “Si è palesato il paradosso del distanziamento tra le persone nel carcere, della promiscuità, dell’uso delle mascherine, del frequente lavaggio delle mani, dell’uso dei disinfettanti nel carcere, della penuria di tutto e delle docce e dei servizi igienici inadeguati”, ha poi proseguito il Garante. Al 31 dicembre 2019 i detenuti presenti nelle carceri emiliano romagnole erano 3.834 e grazie al grande lavoro della magistratura di sorveglianza al 31 dicembre 2020 sono scesi a 3.139. L’emergenza però non è affatto finita, ancora una volta il carcere si sta chiudendo alla presenza della comunità esterna, anche la mobilità dei detenuti all’interno per svolgere attività, scuola, sport è difficoltosa e limitata. l’articolo 27 della Costituzione rischia uno stato di “sospensione” per quanto riguarda il senso rieducativo del carcere. Cosa potrebbe sostituire il carcere? “Un maggior ricorso alla misura alternativa, una misura parallela al carcere, certamente - ha concluso il Garante -non premiale ma fatta comunque di rinunce e impegno, una misura che, come la detenzione, va nella direzione dell’estinzione della colpa ma può aiutare il detenuto a iniziare il suo percorso di reinserimento nella società e attenuare il rischio di recidiva. L’esperienza ci insegna che se la comunità funziona e opera su principi condivisi che portano tutti a lavorare insieme e ognuno si sente parte attiva il cambiamento è possibile e il diritto alla speranza si realizza”. Sulla pagina Facebook dell’associazione (https://it-it.facebook.com/apg23) è disponibile la registrazione dell’evento. Sicilia. Nascono i Poli universitari per i detenuti: firmato l’accordo Giornale di Sicilia, 26 febbraio 2021 Nascono in Sicilia i poli universitari penitenziari. Lo stabilisce l’accordo quadro di collaborazione tra il Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia Giovanni Fiandaca, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria Cinzia Calandrino, le Università di Palermo, Catania, Messina ed Enna “Kore”, con l’intervento della Regione tramite l’assessorato dell’Istruzione guidato da Roberto Lagalla. L’intesa è stata sottoscritta a Palazzo Orléans, alla presenza del governatore Nello Musumeci, di Fiandaca, Calandrino, dei delegati degli atenei Fabio Mazzola (Palermo), Fabrizio Siracusano (Catania), Anna Maria Citrigno (Messina), Agata Ciavola (Enna), e del presidente della Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari, Franco Prina. La Regione Siciliana, dopo la Toscana, è la seconda istituzione locale che si inserisce a pieno, fornendo un supporto economico, nel dialogo fra atenei e Provveditorato. “È un evento al quale attribuisco un alto valore morale - afferma Musumeci - La Sicilia si intesta una battaglia, che diventa punto di riferimento per altre regioni e per il futuro. In questi tre anni, come governo regionale, abbiamo dedicato particolare attenzione a tutta la popolazione penitenziaria”. Fiandaca evidenzia che “l’ordinamento penitenziario prevede espressamente una sorta di obbligo di promozione e agevolazione dell’istruzione universitaria negli istituti penitenziari. Inoltre, riconosce l’istruzione come primo elemento del trattamento rieducativo. Questo vale specialmente nelle regioni meridionali, dove la popolazione carceraria statisticamente presenta un livello di istruzione e di scolarità più basso”. In Italia sono 80 gli istituti penitenziari in cui viene garantita l’istruzione universitaria, con la collaborazione di 37 atenei (compresi i quattro siciliani), per un totale di circa 1.000 studenti-detenuti iscritti. Per il 60 per cento si tratta di detenuti in regime di media sicurezza (delinquenza comune), per il 34% di alta sicurezza, per l’1,5% di detenuti al 41 bis. Solo il 2% degli studenti universitari detenuti è rappresentato da donne. Campania. “Leggere dentro”, l’AIB per le biblioteche carcerarie di Olga Beha deanotizie.it, 26 febbraio 2021 Al via il quarto appuntamento culturale dal titolo “Leggere Dentro” promosso da AIB Campania, nell’ambito di “Parole in Circolazione. LiberiAmo la cultura”, l’iniziativa di bookcrossing a favore della promozione alla lettura diventata negli ultimi mesi una agorà virtuale per una condivisione sui temi legati alla valorizzazione bibliotecaria in tutti i suoi aspetti. Oggi venerdì 26 febbraio dalle ore 18:00 in diretta streaming sulla pagina Facebook di “Parole in Circolazione” interverranno importanti ospiti: il dr. Samuele Ciambriello - Garante dei diritti dei detenuti della Regione Campania; la dr.ssa Francesca Cadeddu Concas - Associazione Italiana Biblioteche - già membro del comitato esecutivo nazionale e referente del gruppo di studio #AIB per le Biblioteche carcerarie e la Dott.ssa Cinzia Rosaria Baldi, Psicologa Età Evolutiva. Ad accompagnare i lavori la Dott.ssa Maria Pia Cacace, Bibliotecaria e Presidente di AibCampania, che ha posto in essere una convenzione per le Biblioteche del Polo Carcerario della Regione Campania. Si tratta all’incirca di 18 istituti penitenziari sparsi per il territorio che saranno al centro di un’azione volta ad attivare spazi di lettura e biblioteche in ogni istituto e, laddove sia possibile, metterle in rete. “L’obiettivo si evince dal tema della discussione “Leggere Dentro” - dichiara Maria Pia Cacace - per creare forme di reinserimento sociale puntando sulla formazione dei detenuti, e offrendo loro nuovi stimoli e nuove prospettive. La lettura si riscopre dall’interno e all’interno di un circuito virtuoso come uno strumento cardine per attivare in uno spazio di reclusione percorsi ed incontri culturali, occasioni di dialogo e confronto, momenti di crescita interpersonale e, soprattutto, diventa asset di riabilitazione sociale. La discussione nello specifico sarà affrontata da Samuele Ciambriello, Garante delle persone private della libertà per la Regione Campania. Padova. Garante dei detenuti, maggioranza in tensione sulla nomina di Alberto Rodighiero Il Gazzettino, 26 febbraio 2021 La maggioranza rischia di spaccarsi anche sul garante dei detenuti. Nonostante la compagine che sostiene il sindaco Sergio Giordani abbia già trovato un’intesa sul nome di Antonio Bincoletto, ieri a sparigliare le carte ha provveduto il consigliere della lista Giordani Luigi Tarzia che ha lanciato il sasso in piccionaia: “Dal momento che di recente abbiamo votato il nuovo regolamento sulla parità di genere, questa è la volta buona per passare dalle parole ai fatti e, quindi di nominare una donna”. Mercoledì prossimo il Consiglio comunale si riunirà per votare il “garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale”. A seguito del bando pubblicato dal Comune sono state dichiarate ammissibili 7 candidature (5 donne e 2 uomini). Di fatto, però, la maggioranza avrebbe già trovato un’intesa. Su “suggerimento” di Coalizione civica, infatti, a spuntarla sarebbe stato Bincoletto, scrittore, docente negli istituti superiori, con alle spalle corsi di Perfezionamento e di Alta formazione al Centro Diritti Umani dell’Università di Padova. Non solo. Il “Garante in pectore” collabora con “Ristretti Orizzonti” la rivista bimestrale del carcere Due Palazzi. A mettersi di traverso, però, ieri ha provveduto Tarzia. “Ho esaminato i curriculum e inequivocabilmente il migliore per titoli e competenze per ricoprire questo delicato e complesso incarico è quello della dottoressa Maria Pia Piva - ha suonato la carica l’esponete della lista Giordani - Anche se sono sempre le competenze che accreditano e accrescono i ruoli nelle società, siamo in questo caso specifico di fronte a una netta prevalenza di curriculum con sensibilità femminile, una circostanza che non dovremo deludere. La nomina, infatti, è un’occasione importante anche per quanto concerne la parità uomo/donna, tematica ribadita dal Presidente Draghi e ben evidenziata in città con il loro lavoro e la loro passione dalle componenti della commissione per le pari opportunità, le politiche di genere e i diritti civili”. “La parità di genere ha interessato i lavori dell’ultimo consiglio comunale con una discussione importante dentro e fuori dall’aula che ha coinvolto anche l’opinione pubblica e le diverse realtà cittadine patavine. Come ha ben detto la scrittrice padovana Antonia Arslan le donne si affermano per le competenze e i titoli e non in quanto donne e sono questi requisiti che devono guidarci e mai come in questa circostanza le competenze, facilmente riscontrabili nel curriculum della dottoressa Piva, sono indubbiamente le migliori e non sono confrontabili con quelle degli altri candidati”. “Questa nomina costituisce un’opportunità per l’implementazione delle politiche di genere. Si tratta infatti di una candidatura indipendente, non legata ad alcuno partito o movimento politico, in possesso di titoli di studio e di un curriculum strutturato e dettagliato. Il tutto unito ad un background formativo attinente alla delicatezza e alla complessità della funzione carceraria. Sono sicuro che anche il Pd padovano farà una riflessione accurata sul mio appello, visto anche quanto ha sostenuto in questi giorni il segretario nazionale Zingaretti rispetto alla parità di genere”. Milano. Covid, 17 condannati per la rivolta in carcere di Andrea Gianni Il Giorno, 26 febbraio 2021 Pene fra 4 mesi e 2 anni e mezzo: disordini scoppiati a Opera dopo la sospensione dei colloqui. Sono arrivate le prime sentenze, nella serie di procedimenti aperti dopo le rivolte scoppiate nella prima fase dell’emergenza sanitaria nelle carceri lombarde, sfociate in disordini e devastazioni. Dodici condanne con rito abbreviato e cinque patteggiamenti. Pene comprese fra 4 mesi e 2 anni e 6 mesi di reclusione per i 17 imputati, nel marzo scorso detenuti nel carcere di Opera, accusati a vario titolo di resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento e incendio. Lo ha deciso il gup di Milano Daniela Cardamone, a seguito dell’inchiesta coordinata dal capo del pool antiterrorismo milanese Alberto Nobili e dal pm Enrico Pavone. Il giudice ha anche mandato a processo altri quattro detenuti con prima udienza fissata per l’11 maggio. Le indagini, condotte dalla polizia penitenziaria, avevano portato inizialmente a 92 denunce e, dopo la chiusura delle indagini a luglio scorso, era arrivata la richiesta di processo per 22 (una posizione è stata poi stralciata). Tra le contestazioni a carico di alcuni detenuti anche quelle di aver tentato “di sfondare” un cancello di una sezione del carcere e di aver minacciato “di morte” alcuni agenti della polizia penitenziaria. E i detenuti il 9 marzo avrebbero anche provocato “un incendio” dando fuoco a materassi, distruggendo sedie e tavoli. In quei giorni di emergenza Covid varie rivolte erano scoppiate in diverse carceri italiane. Sono stati condannati a pene tra un anno e 8 mesi e 2 anni e mezzo i tre imputati accusati anche di incendio, mentre per gli altri pene tra 1 anno e 2 mesi e 1 anno e 1 mese e 4 mesi per il detenuto imputato solo per danneggiamento. Torino. Detenuto picchiato in tribunale da un agente per una sigaretta di Federica Cravero La Repubblica, 26 febbraio 2021 L’aggressione prima di un’udienza: indagine interna. Una sigaretta accesa nelle stanze del tribunale in cui i detenuti attendono l’inizio dei processi avrebbe scatenato la furia di un agente della polizia penitenziaria, che ha malmenato un imputato che cercava di ingannare l’attesa prima dell’udienza. Secondo quanto riferito sono stati gli altri due agenti a separare i due e a prestare al ferito le prime cure, prima che si presentasse davanti al giudice. La vittima è un trentenne detenuto al carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Nei giorni scorsi, assistito dall’avvocato Andrea Stocco, è stato accompagnato in tribunale per un processo in cui era accusato dal pm Paolo Scafi. Nonostante fosse arrivato un po’ malconcio in aula, l’imputato non ha riferito nulla e nessuno si è accorto di quello che era appena avvenuto. Al giovane erano stati rotti gli occhiali ed era stato sbattuto con la testa contro il muro, ma soprattutto la sera le sue condizioni sono peggiorate e si sono manifestate vertigini e sintomi di commozione cerebrale. Il caso è stato subito portato all’attenzione della direzione del carcere e gli agenti che avevano assistito al pestaggio hanno fatto rapporto sull’accaduto, raccontando la loro versione. La direttrice Rosalia Marino - arrivata al Lorusso e Cutugno in sostituzione di Domenico Minervini, dopo l’inchiesta coordinata dal pm Francesco Pelosi su presunte torture e abusi che si erano verificati ai danni di alcuni detenuti da parte di alcuni agenti - ha prestato subito la massima attenzione all’episodio e ha aperto un’indagine interna per verificare i fatti, ma della vicenda si stanno interessando anche gli ispettori e anche la procura generale, poiché l’aggressione è avvenuta all’interno del palazzo di giustizia. La vicenda è arrivata all’attenzione anche della garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo: “Non mi esprimo sul caso specifico - ha detto - ma c’è un clima di grande collaborazione e trasparenza con la direzione del carcere per gestire ogni situazione”. Milano. La Triennale a San Vittore cerca spazi di bellezza Il Giornale, 26 febbraio 2021 La piattaforma di “Triennale Upside Down” accende i riflettori oggi sul carcere di San Vittore, con uno “spazio alla bellezza”. Alle 18.30 sul sito e sul canale You Tube di Triennale Milano, l’incontro online racconterà l’avanzamento del concorso d’idee San Vittore, spazio alla bellezza promosso a dicembre 2020 da Triennale e dalla Casa Circondariale San Vittore, con il coinvolgimento di Fondazione Maimeri e con il supporto di Shifton e dell’Associazione Amici della Nave. Stefano Boeri, Giacinto Siciliano, Direttore della Casa Circondariale, Lorenza Baroncelli, Direttore artistico di Triennale Milano, e Emanuel Ingrao, Founder e Cco di Shifton, discuteranno di come è nato il progetto e delle fasi che verranno sviluppate nei prossimi mesi. Durante l’incontro verranno inoltre illustrati i dati emersi dalla ricerca sul campo realizzata da Fondazione Maimeri, Shifton e Associazione Amici della Nave che ha permesso di individuare i bisogni della Casa Circondariale, intercettando nuove esigenze per poi immaginare le funzionalità da destinare agli spazi da riprogettare. Il concorso, rivolto a progettisti, architetti, designer, urbanisti, è stato aperto per promuovere una nuova concezione di casa circondariale attraverso la riprogettazione di alcuni spazi del carcere, per cambiarne la percezione e migliorarne la funzionalità. Bergamo. Le parole dei detenuti in mostra alla GAMeC di Lucia Cappelluzzo bergamonews.it, 26 febbraio 2021 Il museo bergamasco, la casa circondariale e l’ITCTS Vittorio Emanuele II di Bergamo insieme per un percorso narrativo e visuale alla scoperta delle opere in mostra. “Ti Bergamo - Una comunità”, non è una mostra su Arte e Covid, ma una riflessione sul senso di comunità. L’esposizione trae il titolo dal disegno realizzato e donato al museo dall’artista rumeno Dan Perjovschi per sostenere la campagna di raccolta fondi per l’Ospedale Papa Giovanni XXIII che la GAMeC ha promosso attraverso i propri canali nel corso dell’emergenza sanitaria in città. Attraverso opere d’arte e produzioni dal basso, immagini fotografiche, filmati, gesti e pensieri di quegli autori che, in tempi diversi - e in particolare di recente - hanno interagito con la comunità Bergamo, entrando così a farne parte, il progetto restituisce il cortocircuito emotivo innescato dalla convergenza di eventi drammatici e gesti di solidarietà scaturitisi durante la fase più acuta della crisi, adottando un punto di vista che dal presente volge lo sguardo al passato, per immaginare il futuro. Una mostra che affonda le proprie radici nel dolore del territorio più colpito dalla pandemia di Covid, quello bergamasco. Ma che trova la sua linfa vitale nell’unione e nella collettività. Con questi presupposti e con questa mission, la mostra Ti Bergamo - Una comunità della Gamec (possibile visitarla ancora fino al 27 febbraio) ha dato vita ad un percorso chiamato “Individually Together” dove è stato coinvolto il mondo della scuola bergamasco con la partecipazione degli studenti e delle studentesse dell’ITCTS Vittorio Emanuele II e dei detenuti della Casa circondariale a Bergamo. “Siamo distanti, ma vicini. Siamo una comunità, così come scuola, casa circondariale e museo sono tutti e tre parti della città”, si legge del depliant consegnato ai detenuti del carcere bergamasco con racchiusi i pensieri di studenti e studentesse e delle persone detenute. Sì, perché ad entrambe le “parti” è stato chiesto di elaborare un proprio pensiero e commento attorno alle opere messe in mostra. E, così, è nato un lavoro corale di parole, racconti, pensieri ed emozioni in grado di oltrepassare pesanti mura e porte sbarrate: alla scoperta delle opere in mostra attraverso narrazioni legate al vissuto di ciascuno. Così diverso, eppure così unito agli altri. Grazie alla guida sapiente di Maria Grazia Panigada, direttrice della stagione di prosa del Teatro Donizetti che, con il gruppo “Patrimonio di storie”, ha messo a punto un metodo di narrazione, nato in Gamec, ma poi sviluppatosi anche agli Uffizi e in altri musei e istituzioni culturali. Marta Begna, Educatrice Museale GAMeC, ha guidato i detenuti nella realizzazione di elaborati nati da una riflessione sul disegno Individually Together di Dan Perjovschi, parte della serie Virus Diary: tante case separate, ma in cui le lettere contenute in ciascuna creano la parola “collective”. La classe IV F dell’ITCTS Vittorio Emanuele II, guidata dall’Educatrice museale Sabrina Tomasoni e con l’aiuto del regista Davide Cavalleri, ha realizzato una visita guidata virtuale alla mostra composta dagli interventi degli studenti registrati su Google Meet. Una visita guidata senza voce, racchiusa in poche pagine. “Queste narrazioni, che avreste dovuto ascoltare dalla voce delle protagoniste e dei protagonisti, girando per le scale, sono racchiuse in queste pagine - si legge. La classe non può uscire, i detenuti nemmeno, ma qui ci sono le loro voci, offerte in dono al vostro sguardo e alla vostra attenzione”. Bologna. Eduradio, il carcere va on air di Mara Cinquepalmi vita.it, 26 febbraio 2021 Nato durante il lockdown come programma di didattica e intrattenimento, oggi il progetto ambisce a diventare un ponte tra città e carcere. A Bologna c’è un quartiere multietnico e multiculturale che conta quasi 700 persone di cui 55% straniere e 25 etnie diverse. Un quartiere che la pandemia ha isolato ancora di più. Quel quartiere è la casa circondariale “Rocco D’Amato”, alla periferia della città, che dalla scorsa primavera è protagonista di un esperimento di comunicazione nato durante i giorni del lockdown. Si chiama “Liberi dentro - Eduradio” ed è il progetto pilota di un’esperienza che fa da ponte tra la città e il carcere. “Vogliamo che diventi un servizio pubblico che parli alla città e al carcere”, spiega Caterina Bombarda, giornalista, volontaria carceraria dell’associazione Avoc e curatrice del progetto insieme a Ignazio De Francesco, che da aprile dà voce al progetto che fa di Bologna città apripista, visto che alla fine della prima stagione del programma, verso fine giugno, volontari e operatori carcerari da altre città emiliano-romagnole hanno chiesto di entrare a far parte del collettivo Eduradio con puntate autoprodotte, poi trasmesse sul canale televisivo RTR 292. Così Eduradio si è allargata a Modena, Parma, Ferrara, Faenza e Reggio Emilia. “L’intenzione - spiega Bombarda - è di farne un progetto regionale. Speriamo di farcela e creare una rete, ma a livello tecnico non è facile”. Facciamo, però, un passo indietro. “Eduradio” comincia a trasmettere il 13 aprile 2020 su Radio Fujiko, emittente radiofonica bolognese. Nasce come programma di didattica, informazione e cultura dentro e fuori il carcere, in onda dal lunedì al venerdì per trenta minuti. Meno di un mese prima, tra il 9 e il 10 marzo, il carcere di Bologna è teatro di una rivolta, come altri istituti di pena in diverse città d’Italia, a causa della pandemia. Il bilancio, come riferirà qualche tempo dopo il garante per i Diritti delle persone private della Libertà personale del Comune di Bologna Antonio Ianniello in una relazione, è stato “pesante” con un decesso a seguito dei disordini, ma “si è davvero temuto, da più parti, che la situazione, a un certo punto, potesse andare fuori controllo”. Con l’emergenza sanitaria e le misure restrittive adottate dopo le rivolte, le attività educative sono sospese e così Eduradio prova a recuperare quei momenti di formazione. “In quel contesto - ricorda Bombarda - ci siamo chiesti in quale modo “varcare” le mura di quel quartiere cittadino, il carcere, mentre dappertutto l’emergenza imponeva la chiusura di qualsiasi luogo di incontro tra le persone e la sospensione di ogni attività “non necessaria”. Eduradio nasce “come tentativo di dare una “risposta d’emergenza” a un’emergenza che, dentro al carcere, è anche profondamente umana e sociale”. Un tentativo messo in piedi da Centro per l’istruzione adulti (CPIA), Associazione volontari per il carcere (A.Vo.C), Il Poggeschi per il carcere, Associazione Zikkaron, Cappellania della Casa Circondariale ‘Rocco D’Amato’ di Bologna, il Garante comunale dei detenuti Antonio Ianniello e quello regionale Marcello Marighelli e che ha ricevuto il plauso anche di papa Francesco, il quale ha incoraggiato - come scrive in una lettera del 26 maggio scorso “i volontari, i collaboratori e tutte le realtà coinvolte nel significativo progetto, a proseguire l’apprezzata opera di prossimità e di sostegno alle persone carcerate ed ai loro familiari”. Il palinsesto di quelle prime settimane alterna le lezioni, pillole di 10 minuti che permettono agli oltre 150 detenuti iscritti ai percorsi scolastici di continuare a studiare, a rubriche di cultura araba, diritto costituzionale, letteratura dal mondo, proposte di letture, sport, teatro ed anche d’informazione sui servizi sanitari e sui percorsi accessori per favorire il ritorno in libertà dei detenuti. Da settembre, però, Eduradio fa un passo avanti: è parte di Insight, associazione di promozione sociale nata a Bologna per studi, formazione e servizi al territorio nel campo interculturale e interreligioso. Oggi al progetto partecipa anche ASP Città di Bologna, che sta lavorando insieme al Comune di Bologna e alla Regione Emilia-Romagna per dare continuità al progetto. Le trasmissioni, infatti, per ora sono previste fino al 18 aprile e in questa terza nuova stagione il palinsesto si è arricchito accogliendo anche le richieste dei detenuti. Oggi tra le rubriche ci sono anche i “Laboratori di Eduradio”, per far ripartire via tv/radio le tante attività educative che non è possibile ancora svolgere in presenza. “A fine ottobre, alla fine della seconda stagione, - racconta ancora Bombarda - abbiamo fatto un sondaggio e sono stati i detenuti a chiedere delle rubriche. Ci hanno chiesto qualcosa di diverso perché ci hanno scritto che ‘i programmi che parlano di carcere fanno venire l’ansia”. Varese. La pandemia vissuta in carcere, se ne parla a Radio Missione Francescana varesenews.it, 26 febbraio 2021 Il giorno 28 febbraio, domenica, alle ore 17,30, sulle frequenze di R.M.F. 91.7 e 94.6 saranno trasmesse alcune testimonianze dei detenuti della casa Circondariale di Varese su come è stato vissuto il periodo del Covid-19 all’interno del penitenziario. Con questa iniziativa, frutto di una collaborazione tra le operatrici dell’associazione Auser di Varese, Gisella Incerti e Giovanna Ferloni, di Marita Viola, interprete lettrice, la direttrice dottoressa Carla Santandrea e il responsabile dell’area Pedagogica dell’Istituto di Detenzione Domenico Grieco, si è voluto dare voce ai sentimenti, alle paure, alle emozioni di persone altrimenti invisibili, maturati in un lungo anno segnato da una doppia sofferenza: da un lato l’esecuzione della pena della reclusione e dall’altro il disagio e l’angoscia per le notizie mediatiche sulla pandemia. Le incognite della ripresa dopo la pandemia di Ian Bremmer* Corriere della Sera, 26 febbraio 2021 L’economia globale non riuscirà a tornare ai suoi livelli pre-Covid finché tutti i paesi saranno in grado di controllare la pandemia. A un anno dall’inizio della pandemia, le conseguenze sanitarie del Covid-19 parlano da sole: oltre 110 milioni di persone sono state contagiate in tutto il mondo, e le vittime ammontano a 2,5 milioni. La buona notizia è che finalmente sono disponibili alcuni vaccini di comprovata efficacia. La brutta notizia è che siamo di fronte a una ripresa a singhiozzo che si protrarrà almeno per un altro anno, con tutte le inevitabili complicazioni economiche, politiche e sociali. Certo, alcuni paesi - e alcune fasce sociali al loro interno - sono meglio equipaggiati per affrontare l’avvenire. E qui sta il problema, mentre ci sforziamo di avviarci lentamente verso una nuova normalità: se la “ripresa a K” rappresenta un grattacapo per i mercati, quando si tratta di paesi interi questo genere di ripartenza potrebbe avere conseguenze nefaste. E vi spiego perché. Innanzitutto, un percorso accidentato verso il risanamento provocherà ulteriori spaccature in seno a questi paesi. Per le economie avanzate, il virus ha colpito in misura sproporzionata le entrate dei lavoratori a basso reddito e degli addetti ai servizi. In molti casi, le conseguenze peggiori della contrazione economica sono andate a penalizzare le donne e la popolazione di colore. I paesi avanzati, in grado di aiutare i propri cittadini, godono sicuramente di una posizione privilegiata, ma persino negli Stati Uniti - il paese più ricco al mondo - i ripetuti interventi a supporto della popolazione sono stati ostacolati dalle schermaglie politiche. Inoltre, non si può affatto dare per scontato che le nuove misure varate dal presidente Joe Biden e dai democratici, se verranno approvate dal Congresso, saranno sufficienti a soccorrere gli elementi più fragili del paese al di là dei prossimi mesi. In Europa, benché i pacchetti di aiuti siano stati ratificati con grande celerità, i fondi stessi non verranno erogati se non nella seconda metà dell’anno. Tanto l’Europa che gli Stati Uniti, negli ultimi anni, hanno avuto a che fare con movimenti populisti, alimentati sia dalla politica della classe dirigente che dai timori per un futuro sempre più incerto. La mancanza di risorse per fornire aiuti alle categorie più svantaggiate in questo momento rischia di prolungare lo stato di irrequietezza e di malcontento sociale. Nei paesi emergenti, la situazione è analoga: le fasce sociali più vulnerabili sono state colpite più duramente dall’instabilità economica, una situazione che rischia di alimentare le tensioni sociali, etniche e religiose già in subbuglio in molti luoghi. Ad aggravare queste criticità concorre la fragilità delle economie emergenti, che non dispongono di risorse sufficienti per offrire sussidi o reti di protezione sociale, come accade nei paesi dell’America Latina, del Medio Oriente e altrove. Questi paesi potrebbero essere tentati di prendere denaro in prestito per sopravvivere nel breve termine alle difficoltà causate dalla pandemia, ma così facendo corrono il rischio di sprofondare in un grave indebitamento, se quei fondi non verranno impiegati saggiamente, oppure se all’economia globale occorrerà più tempo del previsto per risollevarsi. È uno scenario interamente plausibile, se consideriamo le nuove varianti del virus oggi in circolazione. Le disparità nella ripresa tra i vari paesi, inoltre, faranno sorgere nuove difficoltà molto specifiche. I paesi che non dispongono di impianti di produzione del vaccino - e non sono in grado di acquistarlo dai fornitori - saranno destinati ad aspettare più a lungo degli altri. Il programma Covax lanciato dall’OMS appare promettente, ma potrà accelerare solo quando i paesi ricchi avranno vaccinato una quota importante della loro popolazione. I ritardi nelle vaccinazioni faranno prolungare le restrizioni ai viaggi nei paesi più poveri, ostacolando i loro sforzi per risollevare l’economia, in particolare quei paesi che dipendono dalle rimesse degli emigrati. L’impossibilità di vaccinare celermente i propri cittadini rappresenterà inoltre un ostacolo al turismo in molti di questi paesi, specie quelli del sud-est asiatico, le cui economie dipendono in larga misura dalle entrate turistiche. Si potrebbe essere tentati di sminuire tali preoccupazioni, in quanto le criticità sembrano limitate a paesi specifici e non a livello globale. Non dimentichiamo, però, che in un mondo globalizzato come il nostro le difficoltà in cui si dibattono i paesi in via di sviluppo innescano un effetto a catena su tutti gli altri. L’economia globale non riuscirà a tornare ai suoi livelli pre-Covid finché tutti i paesi saranno in grado di controllare la pandemia. Per quanto drammatico sia stato il 2020 a causa del coronavirus, la risposta economica si è rivelata robusta in quasi tutti i settori. Ma con il progredire della ripresa, e il calo dell’emergenza sanitaria, le ripercussioni economiche e politiche potrebbero essere fonte di crescente instabilità. Una situazione, questa, che minaccia non solo di complicare la politica interna, ma altresì la geopolitica del pianeta, e la classe politica farebbe meglio a tenerne conto. *Traduzione di Rita Baldassarre Femminicidi “mai più”, dicono le donne. Ma dove sono gli uomini? di Giulia Borgese Corriere della Sera, 26 febbraio 2021 Perché non sono mai lì a condividere dolore, orrore e paura con quelle loro compagne? Perché non sono capaci di dire “Siamo con voi, la pensiamo come voi”? L’altro giorno in televisione lo scrittore Maurizio de Giovanni ha detto proprio quello che io e tante, tantissime donne giovani o anche vecchiette come me pensano: ma dove sono gli uomini, dove restano nascosti, non hanno la fantasia - o la forza - sufficiente per chiedere una mattina di libertà dal lavoro per unirsi alle donne quando ci sono - ormai quasi ogni giorno - i funerali delle povere vittime quei tremendi assassinii, oggi ribattezzati con la parola femminicidi che mi pare così brutta nel voler distinguere per genere perfino delitti? Ogni volta vediamo sui giornali le fotografie di ragazze di tutte le età con i loro fazzoletti rosa, le loro scarpette rosse, le magliette con il nome di quella poveretta chiusa nella bara coperta di fiori, con i lenzuoli con su scritto “Mai più”, “Basta con la violenza sulle donne”, “Libere tutte”, “Non una di più”. E sono donne sole, abbandonate su quelle strade affollate all’improvviso dal dolore e da una giustissima rabbia. Ma dove sono i compagni buoni, gli uomini forti e veri, gli amici, anche quelli gentili e perfino amabili? Perché non sono mai lì a condividere dolore, orrore e paura con quelle loro compagne dal volto rigato di lacrime? Perché non sono capaci di dire “Siamo con voi, la pensiamo come voi, siamo anche pronti difendervi”? E non venitemi a dire che è per una questione di femminismo che i maschi non se la sentano di mescolarsi a quei gruppi di donne desolate, non ci credo che hanno ancora in mente il vecchio cliché delle ardite manifestanti che animavano le piazze degli anni Settanta, e un po’ li spaventavano. Io credo che sia invece soltanto per una questione di cultura e e di umanità; e forse anche di quella educazione che manca nelle scuole, nella nostra vita civile e purtroppo anche nelle famiglie. Migranti. “Trattati come criminali perché aiutiamo i rifugiati della rotta balcanica” di Nello Trocchia Il Domani, 26 febbraio 2021 Gian Andrea Franchi è indagato per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, la polizia gli ha sequestrato telefono e computer. Insieme alla moglie soccorre e cura i migranti in stazione. Bora, freddo, neve e gelo non hanno fermato, in questi anni, Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, moglie e marito, che guidano l’associazione Linea d’ombra. Passano le sere, le notti davanti alla stazione di Trieste, pronti, con coperte, scarpe ad accogliere i migranti che arrivano in Italia dalla rotta balcanica. Ieri mattina all’alba sono stati svegliati, alle 5, dalla polizia che gli ha notificato un decreto di sequestro, cellulare e pc sequestrati, Franchi è indagato per favoreggiamento del reato di immigrazione irregolare. “Ci tirano in ballo per un episodio di due anni fa, colpiscono la solidarietà associando mio marito a questa rete per infangarci”, dice Fornasir. “La contestazione è di aver aiutato, nel luglio del 2019, una famiglia iraniana a prendere il treno a Trieste, quella famiglia è stata fermata, portata in questura e non ha fatto richiesta di soggiorno ricevendo un foglio di via. Quel giorno mi hanno fermato, mi hanno seguito e ora mi accusano di favoreggiamento perché li ho portati in stazione. Era una famiglia con due bambini, uno di 11 e uno di 9 anni”, dice Franchi. La famiglia di iraniani, oggi, vive in Germania dopo aver ottenuto il permesso per motivi umanitari. A confermare le attività di polizia giudiziaria anche una nota della questura che recita: “È in corso una vasta operazione della Polizia, coordinata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trieste, per contrastare un’organizzazione criminale, finalizzata all’ingresso e al transito in territorio nazionale di immigrati irregolari, a scopo di lucro. L’attività investigativa è stata condotta dalla Digos di Trieste, supportata dal Servizio per il Contrasto all’Estremismo e Terrorismo Esterno dell’Ucigos”. L’attività di Linea d’ombra è volontaria e si basa, spiegano dall’associazione, su donazioni che vengono utilizzate per comprare scarpe, vestiti per i migranti. “Io penso che vogliano colpire Linea d’ombra, la nostra attività, non mi saprei dare altre spiegazioni. Siamo volontari, ci occupiamo di assistere i migranti in arrivo a Trieste che sono per la maggior parte irregolari. In due anni abbiamo assistito circa 2.500 migranti bisognosi di cure, scarpe e sostegno”. Sono centinaia le storie che sono impresse nella memoria di Lorena e Gian Andrea, una delle ultime è diventata un appello alle autorità per aprire un corridoio umanitario, e riguarda il signor Amir Labbaf, iraniano. “Siamo andati di recente in Bosnia e abbiamo conosciuto Labbaf che è stato perseguitato e torturato in Iran insieme alla moglie. Ora si trova in Bosnia su una sedia a rotelle. Era riuscito ad arrivare in Croazia, ma per evitare di essere investito da una macchina è caduto in un burrone rompendosi la schiena. La polizia croata lo ha rintracciato, ma piuttosto che aiutarlo lo ha denudato portandolo al confine con la Bosnia, oggi è in un campo di accoglienza senza aiuti e senza assistenza”. Labbaf è uno degli ultimi casi di cui si sono occupati Lorena e Gian Andrea. “È ora di smetterla di perseguitare le persone. Bisogna essere intolleranti con la Croazia che si comporta in modo indecente con i migranti. L’occidente con le guerre ha costretto tante persone a migrare, visto che in Siria, Libia, Iraq non si può più vivere decentemente”. Ora Gian Andrea Franchi deve affrontare un procedimento penale per favoreggiamento: “Che metodo è questo? Così trattano le persone che aiutano chi scappa da guerre, da torture e violenze?”, dice Franchi che, quando gli chiediamo un giudizio sul nuovo governo, taglia corto: “Non ho speranze nel nuovo governo, dopo Salvini i toni sono meno truculenti, ma Lamorgese sul nostro confine ha fatto peggio di Salvini. Negli ultimi sei mesi centinaia di migranti sono stati respinti in Croazia e in alcuni casi in modo illegittimo”. Migranti. Aumentano gli sbarchi, diminuiscono le richieste di asilo e i permessi di soggiorno di Fabio Albanese La Stampa, 26 febbraio 2021 Il rapporto della Fondazione Ismu fotografa la situazione dell’immigrazione in Italia nel 2020. Sbarchi aumentati, richieste di asilo diminuite così come i nuovi permessi di soggiorno. Ma chi si aspettava che il fenomeno dell’immigrazione sia concentrato nelle immagini dei gommoni che attraversano a fatica il Mediterraneo centrale, resterà deluso perché dei quasi 6 milioni di stranieri residenti in Italia, coloro che arrivano dall’Africa sono meno di quanto si possa pensare. La comunità più numerosa residente in Italia è quella dei rumeni (22,7%), seguita da albanesi (8,4%), marocchini (8,2%), cinesi (5,7%), ucraini, filippini, indiani, bangladesi, egiziani e pachistani. Sono dati contenuti nel 26esimo rapporto della Fondazione Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) sulle migrazioni 2020, presentato nei giorni scorsi a Milano. L’Ismu stima che, al primo gennaio 2020, gli stranieri presenti in Italia siano 5 milioni 923 mila su una popolazione di 59 milioni 641 mila, vale a dire un decimo. Un numero sostanzialmente invariato rispetto all’anno precedente. Gli immigrati residenti sono circa 5 milioni, cioè l’85%, gli irregolari poco meno di mezzo milione, con un calo dell’8% rispetto al 2019. Nonostante l’emergenza pandemia, nel 2020 sono aumentati gli sbarchi, 34 mila, dopo due anni di diminuzione, ma sono in calo le richieste d’asilo, 28 mila contro le 43 mila del 2019. “Nonostante la ripresa degli sbarchi, il fenomeno migratorio nel nostro Paese mostra i segnali di una fase di relativa stagnazione - rileva il rapporto Ismu -. Tale tendenza potrà verosimilmente accentuarsi anche a seguito della crisi economica che il post-pandemia porterà con sé, rallentando gli arrivi e incentivando la mobilità degli stranieri e naturalizzati verso altri Paesi. In prospettiva una riduzione della consistenza numerica è attesa anche per quanto riguarda la componente irregolare, su cui agiranno sia gli effetti della sanatoria intervenuta nel corso di quest’anno, sia l’eventuale riduzione della forza trainante di un mercato del lavoro che quasi certamente faticherà a recuperare le posizioni, già non brillanti, dell’epoca pre-Covid”. Al 31 dicembre 2020, nelle strutture di accoglienza in Italia risultavano essere presenti 80 mila migranti, dato in netta diminuzione rispetto agli anni passati. Ne ospita di più la Lombardia (13% del totale), seguono Emilia Romagna e Lazio. Per quanto riguarda i minori non accompagnati, il dato negli ultimi 5 anni è in continua crescita e oscilla tra il 13,2% e il 15,1% di tutti i migranti arrivati. La maggior parte sono maschi, a fine 2020 erano 7080. Il rapporto affronta anche altri temi legati all’immigrazione, come quello del lavoro. Gli occupati stranieri in Italia nel 2019 erano 2 milioni e mezzo su una popolazione in età di lavoro di circa 4 milioni. Il 15,6% di tutti i disoccupati italiani è rappresentato da stranieri. Per quanto riguarda la scuola, il rapporto nota come la didattica a distanza dovuta alla pandemia abbia penalizzato maggiormente i figli dei migranti che, in totale, sono circa 850 mila, il 10% di tutti gli alunni delle scuole italiane. Il numero più alto di alunni stranieri è in Lombardia, 218 mila, seguita da Emilia Romagna (100 mila), Veneto (94 mila), Lazio e Piemonte (79-78 mila), Toscana (71 mila). Al Sud, la Campania supera la Sicilia. Grave il dato sul ritardo scolastico perché, se la media nazionale è del 9%, per gli alunni stranieri raggiunge il 30%. Nel rapporto della Fondazione Ismu, particolare interesse lo ha il focus sulla relazione tra immigrazione, media e politica che, sebbene il Covid abbia poi modificato i temi del dibattito nazionale, nei primi nove mesi del 2020 fa emergere come i telegiornali abbiano dedicato al tema immigrazione il 6% dei servizi contro il 10,4% del 2019, considerato in questo senso un anno record. “Stesso trend si riscontra per la stampa - fa notare l’Ismu. L’immigrazione non fa più notizia sulle prime pagine (da marzo a giugno, la media è stata di circa 10 titoli a testata in un mese, contro i 30 nel 2019)”. Scarsa la voce data agli stessi protagonisti, cioè i migranti, mentre a parlare del fenomeno sui media sono soprattutto i politici. “Tra gennaio e settembre 2020, la politica nelle notizie sull’immigrazione è presente nel 25-30% dei casi, nei sette principali Tg di prima serata - sottolinea il rapporto -. Un tema quello dell’immigrazione che sembra essere in cima alle priorità più dei politici, soprattutto per motivi di consenso, che dei cittadini, afflitti da ben altri problemi. Secondo un’indagine Ipsos-Iusses 2020, infatti, i principali motivi di preoccupazione per gli italiani sono l’occupazione e l’economia (78%), mentre l’immigrazione preoccupa solo il 14% degli intervistati”. “Approvò l’omicidio di Khashoggi”. Biden scarica bin Salman di Marina Catucci Il Manifesto, 26 febbraio 2021 Tutto è pronto per la pubblicazione del materiale “esplosivo” della Cia sull’omicidio del giornalista avvenuto a Istanbul. L’amministrazione Biden rilascerà un rapporto dell’intelligence in cui si conclude che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman nel 2018 ha approvato l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. La valutazione dell’intelligence, basata in gran parte sul lavoro della Cia, non è nuova: già nel 2018 era stata confermata da diverse organizzazioni e testate giornalistiche, ma questo rilascio pubblico segna l’inizio di un nuovo capitolo significativo nelle relazioni Usa-Arabia Saudita e una chiara rottura del presidente Joe Biden con la politica dell’ex presidente Donald Trump, come dimostra la telefonata di Biden a Riad, non a Mbs ma al padre, il re Salman. Discontinuità con Trump confermata dal blocco della vendita di armi ma probabile continuità della vicinanza geopolitica dei due paesi, pur senza apprezzare la guida di Mbs. Ovvero, il patto di Abramo non è in discussione. Su Kashoggi, Trump aveva voluto coprire il ruolo dello Stato saudita nell’omicidio anche dopo che era stato ampiamente condannato dai membri del Congresso, dai giornalisti e da un investigatore delle Nazioni Unite; secondo il rapporto, invece, il principe ereditario saudita “approvò” l’omicidio. Khashoggi, 59 anni, era un cittadino saudita che lavorava come editorialista del Washington Post: il 2 ottobre 2018 era stato attirato al consolato saudita di Istanbul e ucciso da una squadra di agenti dell’intelligence con stretti legami con il principe ereditario. Il suo corpo è stato smembrato e i resti non sono mai stati trovati. Dopo aver prima negato l’omicidio, il governo saudita ha cambiato versione ed è passato a sostenere che Khashoggi era stato ucciso per caso, mentre la squadra cercava di estradarlo con la forza, affermando che il principe ereditario non era coinvolto. Otto uomini sono stati condannati, in un processo che gli osservatori internazionali hanno definito “una farsa”; 5 hanno avuto la pena di morte, commutata a 20 anni di detenzione. Agnes Callamard, che aveva indagato sull’omicidio per conto delle Nazioni Unite, ha accusato l’Arabia Saudita di “un’esecuzione deliberata e premeditata, un omicidio extragiudiziale di cui lo Stato dell’Arabia Saudita è responsabile ai sensi del diritto internazionale e dei diritti umani”. Già nel 2018 la Cia aveva presentato alla Casa Bianca la sua valutazione, ma questo non aveva cambiato le relazioni più che amichevoli di Trump con l’Arabia Saudita e con bin Salman in particolare. Nel 2020 il tycoon aveva co-firmato alla Casa Bianca gli “accordi di Abramo”, una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti, per normalizzare i rapporti, segnando la prima normalizzazione delle relazioni tra un Paese arabo e Israele, da quella dell’Egitto nel 1979 e della Giordania nel 1994. Trump aveva puntato sulla buona riuscita di questo trattato, sia per marcare un precedente storico, sia per isolare ulteriormente l’Iran e pur di portare a termine il suo progetto aveva preferito non ostacolare in nessun modo il principe. Nel 2019 The Donald si era vantato di aver protetto Bin Salman (“Gli ho salvato il culo”, aveva detto) dal controllo del Congresso, come si è appreso da Bob Woodward. Quei tempi e quel tipo di relazioni - con Mbs, sono dunque finiti? Durante la campagna elettorale Biden aveva promesso che i sauditi avrebbero pagato, diventando “i paria che sono”. La divulgazione del rapporto, però, sembra più esprimere la volontà di emarginare Mbs, più che gli affari geopolitici con i sauditi in funzione anti iraniana. Russia. Navalnyj trasferito in una località ignota di Rosalba Castelletti La Repubblica, 26 febbraio 2021 Portato molto probabilmente in una colonia penale dove sarà costretto ai lavori forzati per due anni e mezzo. La sua condanna al carcere era stata confermata in appello lo scorso sabato. L’oppositore russo Aleksej Navalnyj è stato trasferito dal carcere moscovita Mitrosskaja Tishina, dov’era detenuto da metà gennaio, verso una destinazione ignota. Molto probabilmente verso una colonia penale, eredità dell’Unione Sovietica, dove sconterà una pena di due anni e mezzo e sarà obbligato ai lavori forzati. “Non hanno detto a nessuno dove è stato trasferito”, hanno riferito i suoi avvocati. L’avvocato quarantaquattrenne era stato arrestato il 17 gennaio al suo rientro a Russia dopo cinque mesi in Germania dove era stato trasferito e curato dopo essere finito in coma su un volo Tomsk-Mosca a causa di quello che diversi laboratori occidentali hanno definito avvelenamento da agente nervino Novichok. Navalnyj era stato condannato a tre anni e mezzo di carcere con sospensione della pena e cinque anni di libertà vigilata il 30 dicembre del 2014 per frode ai danni di Yves Roches: processo giudicato “politico” dalla Corte europea per i diritti umani (Cedu). Il periodo di libertà vigilata era stato successivamente esteso di un anno e scadeva lo scorso 30 dicembre. Alla vigilia della scadenza, il Servizio penitenziario federale (Fsin) aveva accusato Navalnyj di non essersi presentato al giudice di sorveglianza durante la convalescenza, benché lo stesso presidente Vladimir Putin avesse autorizzato il suo trasferimento all’estero in deroga alle restrizioni sui suoi spostamenti. Su richiesta del Fsin, il 2 febbraio un tribunale moscovita ha convertito la sospensione della pena in detenzione e lo scorso sabato ha respinto l’appello condannando Navalnyj a tre anni e sei mesi di carcere che, scontato il periodo già trascorso ai domiciliari, si sono ridotti a due anni e mezzo. “Ricordo ancora una volta che in virtù di una decisione vincolante della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), Aleksej Navalnyj dovrebbe essere immediatamente rilasciato”, ha detto il suo stretto collaboratore Leonid Volkov precisando che neppure la famiglia è stata informata del trasferimento. La polemica su Amnesty che ha revocato lo status di prigioniero di coscienza - Mercoledì Amnesty International ha annunciato di non considerare più Aleksej Navalnyj un “prigioniero di coscienza” a causa di suoi passati commenti xenofobi. I sostenitori di Navalnyj avevano accusato l’ong di avere ceduto a una compagna organizzata per screditare l’oppositore. La polemica si è riaccesa oggi giovedì dopo che il duo specializzato in burle telefoniche, Vovan e Lexus, ha chiamato via Zoom i leader di Amnesty spacciandosi per Volkov, il braccio destro di Navalnyj. “Siamo consapevoli che quanto accaduto ha causato molti danni”, ha detto Denis Krivocheev, vicedirettore di Amnesty International per l’Europa e l’Asia centrale, durante la telefonata. “Francamente - e mi dispiace dirlo - questa chiamata Zoom è a mio parere sufficiente per qualificare la leadership di Amnesty come inadatta”, ha reagito Volkov. Venezuela: Ong, nel 2020 morti 208 detenuti sotto custodia della polizia agenzianova.com, 26 febbraio 2021 In Venezuela nel 2020 hanno perso la vita 208 detenuti mentre si trovavano sotto custodia della polizia. Lo riferisce un rapporto dell’Organizzazione non governativa “A Window to Freedom” secondo cui i decessi sono avvenuti nelle celle di polizia - luoghi di detenzione preventiva - di 19 Stati in tutto il paese. L’organizzazione, impegnata sul tema dei diritti umani e sulle condizioni delle persone private della libertà, ha sottolineato che la crisi sanitaria nei centri di custodia cautelare in Venezuela è stata resa ancora più drammatica a causa della pandemia Covid-19. “La principale causa di morte della popolazione detenuta nelle stazioni di polizia sono state le malattie, con un totale di 143 morti -68,75 per cento dei decessi. Al secondo posto ci sono i 42 detenuti uccisi nel corso di presunti tentativi di fuga, che rappresentano il 20.19 per cento dei morti”, si legge nel rapporto.