Né subalterno, né di minore rilevanza di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 25 febbraio 2021 Così il Garante Nazionale, Mauro Palma, definisce il Volontariato e il Terzo Settore nelle carceri e in area penale esterna. Una storia comune a tante realtà del Volontariato e del Terzo Settore è che oggi si opera in carcere contando però sempre meno, in un mondo che, invece di aprirsi, con il diffondersi della pandemia sta ulteriormente accentuando una tendenza, che era già in atto da tempo, a chiudersi ogni giorno di più, in una visione “autarchica” in cui si pensa che l’Amministrazione possa fare tutto da sola, dando lavoro, rieducando, contenendo. L’Ordinamento penitenziario recentemente riformato dice che il trattamento penitenziario “si conforma a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione” delle persone detenute. Il Volontariato che opera nelle carceri e nell’area penale esterna ritiene che anche l’apporto della società esterna si deve conformare a questi principi, cioè costituire un modello che favorisca l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione, e in più, con le sue attività di sensibilizzazione della società sui temi delle pene e del carcere, contribuisca a quella finalità che il giudice della Corte Costituzionale Luca Antonini ha definito “far vivere il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero dentro le mura del carcere”. Per questo l’organizzazione delle nostre attività nelle carceri e nell’area penale esterna richiede scelte e decisioni nelle quali abbiamo sempre chiesto di avere un ruolo chiaro e riconosciuto. Oggi c’è, su questi temi, un motivo nuovo per sentirci meno isolati: la relazione del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, che a partire da una visita alla Casa di reclusione di Padova, sottolinea con forza “la necessità che la fondamentale cooperazione tra chi amministra e istituzionalmente opera in un Istituto e chi in esso svolge attività volte a saldare proficuamente il rapporto con la realtà esterna risponda all’esigenza di chiarezza della diversità dei ruoli, nel rispetto reciproco. Tale cooperazione deve basarsi, infatti, da una parte, sul rispetto della responsabilità di chi esercita la propria azione in virtù di un mandato pubblico e, dall’altra, sul riconoscimento di quella complementarità essenziale che l’azione di organizzazioni, cooperative, enti esterni costituisce. Non un apporto subalterno, quest’ultimo, né di minore rilevanza”. Complementarità e non subalternità: la scelta delle parole non è mai cosa da poco, ma qui è quasi rivoluzionaria. Penso per esempio al Protocollo operativo tra Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, sottoscritto nel 2014, e a quell’articolo 9 “Inosservanza delle condizioni di autorizzazione, comportamento pregiudizievole, inidoneità del volontario. Tentativo di conciliazione”. E penso anche di poter dire che in questi anni non c’è stato nessun tentativo di conciliazione per evidente disinteresse dell’Amministrazione, che ha sempre ignorato le nostre richieste di dialogo e confronto quando a qualche volontario è stata tolta l’autorizzazione all’ingresso in carcere. Quel Protocollo oggi dovrebbe essere rinnovato, la nostra richiesta non è tanto di fare grandi cambiamenti, quanto piuttosto di dargli gambe per funzionare e luoghi per confrontarsi, ma un confronto che sia fatto, come scrive il Garante, con “uno spirito di cooperazione tra Amministrazione penitenziaria e società esterna, fondata sul rispetto dei diversi ruoli, in un rapporto paritario e costruttivo che coinvolge il Provveditorato e la Magistratura di Sorveglianza e che trova fondamento nella prospettiva di una pena costituzionalmente definita” Ma penso anche ai Progetti di Istituto, che raramente coinvolgono attivamente nella loro elaborazione quel Terzo Settore, che secondo una ricerca promossa dall’Università Bocconi nelle carceri milanesi, realizza l’80 % delle attività rieducative, e una situazione simile si può ritrovare in tanti Istituti penitenziari italiani. Del resto, a proposito di parole, basta pensare che è lo stesso DAP che definisce certi Istituti “A elevata vocazione trattamentale”, come se la Costituzione permettesse ad alcune carceri di attuare percorsi di rieducazione a ritmo ridotto e con operatori che si possono permettere di non avere “una vocazione trattamentale”. I progetti che costano fatica, i progetti “spot”, quelli che “intrattengono” Parliamo allora di progetti partendo dal progetto “A scuola di libertà. Carcere e scuole: Educazione alla legalità”. È un progetto che abbiamo sperimentato per la prima volta nel 2002, e in molte scuole col passare degli anni è diventato “strutturale”, cioè tutte le penultime classi lo fanno. A Padova, dove il progetto è più radicato, intere generazioni sono coinvolte in questa autentica forma di prevenzione per i giovani a partire dalla realtà del carcere: e il male causato da tante persone detenute viene portato come testimonianza perché i ragazzi imparino a “pensarci prima” di lasciarsi andare a piccoli comportamenti rischiosi e di fare scelte sbagliate. Questo progetto, così come altri progetti innovativi proposti dal Volontariato, noi crediamo che non possa diventare prevalentemente un luogo di “osservazione scientifica” della personalità dei detenuti. Dovrebbe piuttosto restare una occasione fondamentale di prevenzione per gli studenti, e però anche di crescita e di responsabilizzazione delle persone detenute stesse, ma non un momento di osservazione continua di queste persone, operata dalle figure professionali che lavorano nelle carceri. Collaborare con queste figure professionali per noi è fondamentale, ma la nostra non è una attività esclusivamente “trattamentale” gestita dal carcere, è un’attività che mira alla crescita culturale e umana delle persone coinvolte, studenti, insegnanti, volontari, persone detenute. Anche su questo tema spende parole significative il Garante, spiegando che la partecipazione alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati viene spesso interpretata da molti esponenti dell’amministrazione come il presenziare a ogni attività dei progetti in corso nell’Istituto. “Una partecipazione”, afferma il Garante, “che, concordata e non sistematica, può avere certamente una funzione anche di conoscenza, ma che qualora si trasformi in una presenza imposta e continua può avere il sapore di controllo: certamente può essere giusto sconsigliarla nei casi in cui chi conduce l’incontro voglia stimolare maggiore spontaneità e libertà espressive delle persone verso cui si attua un progetto anche maieutico”. Chi ha paura della rieducazione? Serve comunque una riflessione seria sull’idea di rieducazione e sui progetti realizzati nelle carceri. È tutto più semplice per chi fa “progetti spot”, quelli che durano lo spazio di un finanziamento e magari coinvolgono un gruppo limitato di detenuti per due o tre ore a settimana; è tutto più semplice per chi fa attività che sono considerate una bella vetrina da ostentare; è tutto più semplice per chi, come diceva una vecchia circolare, più che “trattamento” propone l’intrattenimento delle persone detenute. A noi, a dire il vero, non piace nessuna di queste due parole, perché forse le persone in carcere non hanno bisogno di essere “intrattenute” (intrattenere = Tenere compagnia in modo piacevole), ma nemmeno di essere “trattate”, maneggiate, studiate come fa un entomologo con gli insetti. C’è bisogno di confronto con la società esterna, di sentire la studentessa che racconta cosa ha significato per lei trovare dei ladri in casa di notte o l’insegnante che testimonia del terrore provato quando è stata presa in ostaggio durante una rapina: è soprattutto così, capendo quanto distruttiva e crudele è la paura provocata dai reati, che chi i reati li ha commessi si misura con la sua responsabilità, è dall’incontro con le vittime e con la loro sofferenza che nasce la consapevolezza del male fatto. Osserva in proposito Mauro Palma: “La volontà del Legislatore di coinvolgere direttamente e a pieno titolo la società esterna nell’attività trattamentale è, del resto, evidente nell’articolo 17 o.p. che prevede che “la finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando e organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa”. Non si tratta quindi di soggetti la cui azione è tollerata, ma al contrario di attori la cui presenza deve essere “sollecitata”, evidentemente ritenendoli centrali nell’opera di reinserimento delle persone condannate”. Competenze e bisogno di formazione congiunta Il Garante parla anche di “collaborazione tra differenti attori nel rispetto della diversità dei ruoli e delle competenze”. Vorrei soffermarmi sulla parola “competenze”; io non ricordo, negli ultimi anni, di essere stata chiamata dall’Amministrazione penitenziaria a collaborare all’organizzazione di un corso di formazione che coinvolgesse tutte le componenti che a diverso titolo si occupano di percorsi rieducativi. Li chiamo “rieducativi” anche perché così li chiama la Costituzione, e io prima di buttare a mare il termine “rieducazione” vorrei promuovere un confronto proprio a partire da questa parola. E dalle competenze. Non credo di essere poco realista se dico che oggi c’è una parte consistente di Volontariato che ha competenze e che se le forma in un continuo processo di crescita, che poi significa veder crescere la qualità delle proposte di attività nelle carceri e sul territorio. Basta guardare la formazione organizzata dalla nostra Conferenza, di altissimo livello culturale, che ha saputo coinvolgere vittime, figli di persone detenute, detenuti, persone che hanno finito di scontare la pena, personalità del mondo della cultura, con la forza delle testimonianze, ma anche dello studio e dell’approfondimento. Ripartiamo allora da qui, cercando di andare oltre quello che Mauro Palma, parlando della Casa di reclusione di Padova, definisce “un clima difficile che si sta vivendo all’interno dell’Istituto: un clima di sfiducia, di accentuato controllo, di insofferenza nei confronti della presenza attiva della società civile e imprenditoriale”, una descrizione che purtroppo può riguardare tante altre carceri. C’è bisogno di ASCOLTO reciproco, di idee, di riflessioni profonde. Devo dire che nella Casa di reclusione di Padova c’è stata di recente la visita del Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Roberto Tartaglia, e del Direttore generale del personale e delle risorse, Massimo Parisi, che hanno voluto ascoltare volontari e operatori del Terzo Settore. Abbiamo apprezzato molto questo incontro e le modalità con cui si è svolto, è stata un’occasione che ci ha sorpreso positivamente per come le più alte cariche delle Istituzioni penitenziarie si sono dimostrate interessate a ciò che avevamo da dire. Speriamo che questa visita, insieme alle parole del Garante, siano segnali chiari del fatto che i dirigenti del DAP, che si sono insediati da poco, unitamente alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, vogliano promuovere una fase nuova per le carceri, in cui Volontariato e Terzo Settore possano finalmente portare le loro idee dialogando su un piano di parità. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Serve una svolta sui bambini in carcere vita.it, 25 febbraio 2021 Molti bambini vivono ancora negli istituti di detenzione assieme alle loro madri. Cittadinanzattiva e A Roma Insieme: “Dopo la nostra prima vittoria in Legge di Bilancio, ora si approvi al più presto la proposta di legge Siani”. Sono ancora 29 i bambini ristretti negli istituti di detenzione assieme alle loro madri, secondo i dati del Ministero della Giustizia aggiornati allo scorso 31 gennaio. Si tratta di numeri che oscillano nel tempo, ma restano comunque rappresentativi di un gravissimo ed irrisolto paradosso: quello della presenza in carcere di bambini piccolissimi. “È per superare questo paradosso che, negli scorsi mesi, abbiamo elaborato e promosso una serie di iniziative ed una fitta e proficua attività di interlocuzione istituzionale che ha prodotto un primo importante risultato: l’approvazione del nostro emendamento alla Legge di Bilancio, grazie al quale è stato istituito un fondo dedicato all’accoglienza delle mamme detenute con i loro piccoli in case famiglia o comunità alloggio”, dichiarano Cittadinanzattiva e A Roma Insieme-Leda Colombini. Oggi, forti di questa prima vittoria, le due organizzazioni tornano a chiedere che i bambini escano dalle carceri. “Occorre adesso che il percorso aperto con l’approvazione di quella misura economica, che da anni veniva sollecitata, si completi con l’adozione di misure idonee a consentire effettivamente la collocazione dei genitori detenuti assieme ai loro figli al di fuori delle strutture di detenzione, siano esse sezioni nido interne ai penitenziari o i cosiddetti ICAM (Istituti a custodia attenuata per detenute madri) che restano istituzioni carcerarie a tutti gli effetti, per quanto attenuate. Per tali ragioni, chiediamo di avviare al più presto la discussione per l’approvazione della proposta di legge recante norme sulla tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, a firma del Deputato Paolo Siani, che è stata appena incardinata in Commissione Giustizia della Camera, e ci auguriamo che i gruppi parlamentari convergano per una rapida approvazione della stessa”. Una proposta di legge che introduce nell’ordinamento misure organiche, finalizzate al superamento degli ICAM e a valorizzare contesti realmente alternativi alla detenzione, dove porre al centro l’accoglienza dei bambini, la tutela del loro sviluppo e del loro rapporto con il genitore, ed avviare al contempo percorsi di recupero e di reinserimento delle madri. “Questa proposta - concludono le organizzazioni - rappresenta pertanto un’opportunità che non va assolutamente sprecata e che sosteniamo con convinzione, affinché si superi definitivamente e senza compromesso un paradosso per troppo tempo dimenticato, e perché tutti i bambini oggi ristretti con le loro madri siano accolti in strutture idonee alla loro salvaguardia e crescita serena e perché in futuro nessun bambino varchi più le soglie di un carcere”. Case lavoro e misure di sicurezza, i 334 internati rimasti nel limbo di Marina Lomunno Avvenire, 25 febbraio 2021 È uno dei tanti nodi da sciogliere nel sistema carcerario italiano, anche se passa inosservato, “fagocitato” com’è dall’emergenza sovraffollamento e dalla carenza di personale: si tratta delle “Case lavoro per gli internati in esecuzione delle misure di sicurezza”, un istituto dell’Ordinamento Penitenziario mai riformato risalente agli anni 30 e che non ha mai raggiunto la finalità dell’inserimento nella società. A fine gennaio erano 334 le persone internate in colonie agricole o Case-lavoro che in realtà, nel migliore dei casi, sono dependence dei penitenziari, ex strutture carcerarie o ex ospedali psichiatrici se non addirittura sezioni all’interno delle prigioni, come ha illustrato Bruno Mellano, Garante dei detenuti della Regione Piemonte che ha promosso, giovedì 11 febbraio, il seminario online “Senza casa, senza lavoro. Gli internati in misura di sicurezza e il caso Piemonte”. Ai lavori hanno partecipato esperti di esecuzione penale e i Garanti di alcuni Comuni e Regioni in cui sono presenti le Case Lavoro, tra cui Biella con 53 ristretti, l’Abruzzo con 78, l’Emilia Romagna con 54, la Sicilia con 35, la Sardegna con 23 e altre Regioni. Il collegamento è stato introdotto da Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della Libertà, che ha evidenziato come “l’attuale Casa lavoro abbia poco di dissimile rispetto alla detenzione e, nel caso di rilascio, le persone si ritrovano a tornare nel loro contesto, ma senza casa e lavoro”. Una situazione “obsoleta” al limite della costituzionalità, “perché frutto di una cultura penalistica e giuridica del secolo scorso che conteneva la marginalità” ha denunciato Stefano Anastasia, portavoce nazionale dei Garanti regionali e territoriali, se si tiene conto che gli internati in quelle che dovrebbero essere Case lavoro (ma di fatto strutture carcerarie con sbarre e agenti) sono persone considerate socialmente pericolose, non condannate, né processate. “Si tratta di disperati, persone con problemi psichici, tossicodipendenti, infermi, stranieri senza documenti, persone fragili” ha elencato Alessandro Prandi, Garante della città di Alba. Siamo di fronte insomma a veri e propri “ruderi” che “continuano a far danni” ha detto Francesco Maisto, Garante della città di Milano, già magistrato di sorveglianza, proprio perché i reclusi non sono persone con una carriera criminale, ma molto spesso soggetti con gravi problemi personali. Di più: secondo Marco Pellissero, docente di Diritto Penale dell’Università di Torino, l’istituto delle Case lavoro altro non è che “un’etichetta che sa di truffa”. A Biella, ad esempio, ha raccontato la Garante Sonia Caronni, da quella che si definisce Casa-Lavoro (ma in realtà è una sezione del carcere) c’è la prospettiva incerta di spostare i 53 internati suddividendoli fra Alba ed Alessandria, sempre in ambito penitenziario. “Si tratta di percorsi di reclusione lunghissimi, che alienano totalmente dalla vita esterna le persone, le quali passano anche decenni all’interno di queste strutture. Ed è quasi impossibile il reinserimento nella società, quando abbiamo provato”. Un istituto dunque “decontestualizzato” rispetto a quella Casa di lavoro che “si pensava di realizzare e che dovremmo semplicemente e radicalmente cancellare” ha concluso Stefano Anastasia. Si tratta perciò di spazi che, come ha ribadito Bruno Mellano, devono essere riconvertiti “in ambito trattamentale con comunità ad hoc diverse dal carcere, con percorsi personalizzati che accompagnino gradualmente all’autonomia, attraverso casa e lavoro”. Un invito raccolto da Pier Paolo D’Andria, Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte Liguria e Valle d’Aosta, che ha assicurato l’attenzione alla delicata questione del ministero di Giustizia. Riforma della prescrizione: curare il male, non i sintomi di Glauco Giostra Avvenire, 25 febbraio 2021 Per evitare l’ingiusta durata dei procedimenti occorre andare oltre le barricate politiche. Una buona soluzione potrebbe essere la decadenza del processo anziché del reato, stabilendo però tempi ben precisi per lo svolgimento delle varie fasi del giudizio. Una buona soluzione potrebbe essere la decadenza del processo anziché del reato, stabilendo però tempi ben precisi per lo svolgimento delle varie fasi del giudizio. È stata la causa - o meglio, forse, il pretesto - per il deragliamento del Governo precedente; rischiava di essere il primo serio ostacolo sul binario del nuovo. Alludiamo alla prescrizione del reato o, più precisamente, alla riforma Bonafede, che ne interrompe definitivamente il decorso (impropriamente si parla di sospensione) dopo la sentenza di primo grado. Riforma che è stata da subito al centro di infuocate polemiche, polarizzate, italico more, in opposte tifoserie, e con argomenti la cui plausibilità giuridica risulta spesso inversamente proporzionale ai decibel delle invettive con cui sono stati proposti. Con molta accortezza la nuova ministra della Giustizia Cartabia ha chiesto e ottenuto di soprassedere per aver tempo di predisporre almeno le linee di una riforma del processo penale. Sacrosanto: anziché armeggiare, come si fa da vent’anni, sul termometro della prescrizione, si dovrebbero curare le cause organiche della cronica febbre - l’eccessiva durata - che affligge il nostro processo penale. Su questo sono quasi tutti d’accordo, ma le soluzioni sinora prefigurate sono divaricatissime e di quasi impossibile conciliazione. Non è quindi infondato il timore che le diverse forze politiche abbiano parlato di rinvio operoso, ma pensato a un mero time out, una pausa solo tattica. Per questo può essere utile, per quando riprenderà il confronto sulla prescrizione, disinfestare il terreno dialettico dalle forzature che l’hanno caratterizzato e andare oltre la deprimente alternativa tra il mero mantenimento della riforma Bonafede e il ripristino dello status quo ante. Se il nostro Paese ha l’avvilente primato di ben oltre centomila processi che ogni anno si concludono con la prescrizione, non è corretto addebitarne la responsabilità agli avvocati che tirerebbero alla lunga per lucrare l’effetto estintivo del decorso del tempo. In realtà, più della metà dei procedimenti si prescrive prima che il difensore possa incidere sulla loro durata. Il problema è anzitutto strutturale. Per contro, non si può certo dire che, interrompendo il decorso della prescrizione con la sentenza di primo grado, sia stata inaugurata - in spregio, si è sostenuto, persino della Costituzione - la stagione dei procedimenti infiniti. Quasi che, prima del blocco della prescrizione, questa garantisse che i processi non andassero al di là della loro ragionevole durata. Le cose non stanno così. Per molte tipologie di reati i processi potevano già protrarsi per più di trent’anni senza incorrere nella prescrizione; per altre - i reati imprescrittibili (di diritto o di fatto) - potevano addirittura durare in eterno. Eppure al riguardo non sono state registrate proteste o eccezioni di incostituzionalità. Né si può dire che una tale ‘intollerabile tolleranza’ era (ed è) sempre collegata alla estrema gravità dei crimini. Il processo potenzialmente senza fine era (ed è) previsto anche per reati di modesta entità, dei quali la più sfrenata demagogia ha voluto prevedere una perseguibilità senza fine: si pensi al reato associativo di contrabbando dei tabacchi lavorati esteri o a quello di agevolazione dell’immigrazione clandestina, che pochissimi anni fa la Lega, oggi tra i più fieri oppositori della riforma Bonafede, ha voluto aggiungere a quelli giudicabili all’infinito. La verità è che la gravità del reato, sulla cui base la precedente e l’attuale disciplina scandiscono il tempo della prescrizione, non c’entra nulla con la ragionevole durata del processo. La gravità del reato serve per misurare il tempo necessario all’oblio collettivo: più il reato è grave e più la società ha bisogno di tempo per dimenticare. Ma se, prima che questo tempo sia decorso, inizia il procedimento penale, cioè il rito della memoria, la gravità del fatto non dovrebbe più rileva- re: non è difficile immaginare, per un verso, efferati delitti di agevole accertamento o, per contro, reati di modesta entità che richiedono un’attività istruttoria estremamente impegnativa. Mantenendo invece in un unico compasso temporale il tempo dell’oblìo e quello del processo - come fanno la precedente e l’attuale disciplina - càpita che la saracinesca della prescrizione cada su un procedimento che ancora avrebbe potuto svolgersi con tempi ragionevoli o, ancora più spesso, che non cada su un procedimento protrattosi per una durata irragionevole. Molto dipende dal momento, del tutto casuale, in cui il reato viene scoperto: il tempo per giudicare è spesso troppo lungo, se viene scoperto subito; troppo breve, se scoperto a ridosso del termine di prescrizione. Qualora, dunque, si decidesse di mantenere la possibilità, che molti altri ordinamenti peraltro escludono, di fermare il corso della giustizia penale per eccessiva durata (‘prescrizione processualè), il cronometro per misurarla andrebbe avviato dall’inizio del processo e non già dal fatto di reato, se si vuole evi- tare che la prescrizione operi, intollerabilmente, come una sorta di amnistia random. Ma vi è un altro problema, purtroppo ignorato, su cui ci si dovrebbe concentrare. La ‘prescrizione del processo’, se ben congegnata, può servire ad evitarne una durata ritenuta in assoluto comunque inaccettabile, per quanto complesso sia l’accertamento; non può tuttavia garantire che il singolo processo abbia la sua giusta durata, cioè quella necessaria e sufficiente per assicurare le garanzie previste. Il processo, però, di per sé è pena. Bisogna quindi predisporre meccanismi per evitare che si protragga ingiustificatamente e, quando ciò succede, apprestare forme di riparazione (che non siano soltanto quelle pecuniarie oggi previste). È su questo terreno, quindi, che bisognerà lavorare, qualunque sia alla fine la soluzione che prevarrà in punto di prescrizione. Si potrebbero stabilire, ad esempio, termini indicativi entro cui ciascuna fase del processo dovrebbe concludersi e prevedere il dovere del magistrato procedente di informare gli organi competenti del loro superamento: ciò consentirebbe di monitorare le anomale dilatazioni temporali e - ove non dipendano, fisiologicamente, dalla speciale complessità del caso, bensì dall’insostenibilità del carico giudiziario, da deficit organizzativi o da negligenze professionali - di prendere i provvedimenti conseguenti affinché non si ripetano. Si potrebbero predisporre forme di ‘risarcimento’, già previste in altri ordinamenti, che tengano conto della sofferenza da processo: una proporzionale riduzione della pena inflitta (ad esempio, un anno ogni tre di ingiustificata protrazione del processo) o, addirittura, nei casi estremi e a particolari condizioni, la sua ineseguibilità. Per mettere a punto questi o ulteriori meccanismi normativi di prevenzione e di riduzione del danno da ingiusta durata del processo, tuttavia, sarà preliminarmente indispensabile rimuovere le barricate dello scontro politico, dalle quali è facile scorgere e censurare i limiti delle soluzioni altrui, quasi impossibile vedere ed evitare quelli delle proprie. Prescrizione, si fa sul serio: modifiche entro il 29 marzo di Errico Novi Il Dubbio, 25 febbraio 2021 Slitta il termine per gli emendamenti al ddl penale. Il 5S Perantoni, presidente della commissione Giustizia: “Giusto dare più tempo”. Altro che prescrizione rinviata alle calende greche: si fa prima di Pasqua. C’è una data: il 29 marzo. È il nuovo termine per gli emendamenti alla riforma del processo penale. Proroga di tre settimane: la precedente scadenza era all’ 8 marzo. A decidere la modifica del calendario è la commissione Giustizia di Montecitorio. Mario Perantoni, deputato 5 stelle che di quella commissione è il presidente, spiega al Dubbio: “È una decisione necessaria. Il precedente termine a questo punto sarebbe stato troppo ravvicinato. C’è una nuova maggioranza, abbiamo una nuova ministra guardasigilli: è chiaro che in un quadro simile maturino proposte di modifica al disegno di legge sul processo. Ed è chiaro che serve un margine di tempo in più per definirle”. Giusto. Ma è evidente come l’ulteriore margine concesso per cambiare il ddl penale chiami in causa il nodo prescrizione. Con un mese di tempo davanti, i partiti di maggioranza potranno mettere a punto le proposte per superare la norma Bonafede. Non solo. Considerato che l’ordine del giorno sulla prescrizione è nato dall’iniziativa della guardasigilli Marta Cartabia, è evidente come l’emendamento risolutivo possa venire proprio da lei. La ministra della Giustizia ha un mese per mettere fine allo stillicidio. Sembra poco, dopo quasi tre anni di liti. Ma può essere abbastanza per una ministra che giovedì scorso, tre minuti dopo il voto di fiducia alla Camera, ha riunito i responsabili Giustizia della nuova maggioranza in una sala di Montecitorio e ha scritto al volo il testo della pace. Il suo ordine del giorno è stato condiviso due giorni fa, sempre alla Camera, da tutti i partiti che sostengono Draghi. Impegna l’esecutivo a cambiare la prescrizione di Bonafede. E una guardasigilli che in una sera mette d’accordo una dozzina di partiti non dovrebbe trovare troppo angusto un termine di trenta giorni. Anche perché, interpellato dal Dubbio sui primi passi della ministra, il presidente Perantoni spiega: “Posso dire di aver trovato in Cartabia una figura capace di concretezza politica. Chi aveva in mente l’accademica di grande levatura scientifica ma impreparata ad affrontare le interlocuzioni coi partiti deve ricredersi. Cartabia ha dimostrato di saper fare sintesi. Lo ha fatto con la stesura dell’ordine del giorno, condivisa con l’intera maggioranza. Il testo è stato scritto quasi interamente durante l’incontro di giovedì scorso, nella sua ossatura. Nei giorni successivi”, fa notare il presidente della commissione Giustizia, “è stato sottoposto solo a piccoli aggiustamenti”. È così dunque: il lodo della tregua porta innanzitutto la firma di Cartabia. Ma ora comincia il countdown della verità. Perché entro il 29 marzo la maggioranza dovrà decidersi: ci si accontenta del lodo Conte bis, come vorrebbe Bonafede, o si va oltre, e si interviene profondamente sulla prescrizione dei 5 stelle? Con un’intervista al Dubbio, ieri il dirigente che coordina il lavoro del Pd sulla Giustizia, Walter Verini, ha messo sul tavolo l’ipotesi della “prescrizione processuale”. Vuol dire “un limite massimo di durata per ciascuna fase del processo, oltre il quale non si può andare”. Non è una proposta nuova: il dem avevano già provato a discuterne con Bonafede un anno fa. Ma l’allora ministro rispose: “Vorrebbe dire far rientrare dalla finestra la vecchia prescrizione che abbiamo fatto uscire dalla porta”. Ora è evidente che la maggioranza è cambiata. Che le forze garantiste prevalgono. Che i 5 stelle sono in minoranza, nella compagine che sostiene Draghi. E si capisce perfettamente, dalle parole da Verini, come il Pd in una cornice simile non abbia intenzione di restare schiacciato sulle ritrosie del Movimento. Ma mettere un termine di durata ad appelli e giudizi di Cassazione ora potenzialmente eterni potrebbe costare anche l’uscita dei pentastellati dalla maggioranza. Sulla proposta Verini, Perantoni non esprime valutazioni di merito: “Ho un ruolo istituzionale: presiedo la commissione Giustizia. Posso solo dire che se il Pd avanzerà una proposta, sarà discussa in commissione al pari delle altre”. Intanto dentro e fuori il Parlamento si discute anche di abuso d’ufficio. All’inaugurazione dell’anno giudiziario presso il Tar del Lazio, Draghi ha evocato una nuova fase basata sulla “fiducia” negli amministratori. Ne è venuta la richiesta di cambiare il reato di abuso, rilanciata da Berlusconi, che ne ipotizza l’abolizione. Sul punto, Perantoni ritiene necessario preservare la fattispecie come “presidio di legalità”, visto che “durante il Conte 2 è già stata modificata per agevolare l’attività degli amministratori onesti”. È un fronte ulteriore: difficile possa aprirsi seriamente ora. Ora si deve decidere sulla prescrizione. Chi come Giorgia Meloni temeva un rinvio della palla in tribuna, prenderà atto che la partita è entrata nella fase decisiva. Cosa è il lodo Cartabia, serve a prendere tempo e non esasperare la nuova maggioranza di Angela Stella Il Riformista, 25 febbraio 2021 Come previsto, ieri il Governo, durante l’esame del decreto Milleproroghe, ha dato parere favorevole all’ordine del giorno n. 46 firmato da tutti i capigruppo di maggioranza della commissione Giustizia della Camera - Giuliano, Turri, Bazoli, Zanettin, Annibali, Conte, Piera Aiello, Cecconi, Costa, Lupi - rispettivamente di M5s, Lega, Pd, Forza Italia, Italia viva, Leu, Centro democratico, Europeisti-Male-Psi, +Europa-Azione, e Noi con l’Italia. L’odg impegna il Governo “ad adottare le necessarie iniziative di modifica normativa e le opportune misure organizzative volte a migliorare l’efficacia e l’efficienza della giustizia penale, in modo da assicurare la capacità dello Stato di accertare fatti e responsabilità penali in tempi ragionevoli (art. 111 della Costituzione), assicurando al procedimento penale una durata media in linea con quella europea, nel pieno rispetto della Costituzione, dei principi del giusto processo, dei diritti fondamentali della persona e della funzione rieducativa della pena”. È quello che negli ultimi giorni è stato definito il lodo Cartabia che serve a prendere tempo e a non esasperare la nuova maggioranza che si è appena formata, proprio dopo la caduta del Governo precedente sul tema della prescrizione. L’odg, come è noto, è un impegno chiesto al Governo e non è alcun modo vincolante. Se sul lodo Cartabia non c’è stata discussione, il dibattito si è scaldato quando Fratelli d’Italia, come fatto due giorni fa con un emendamento, ha provato nuovamente, questa volta attraverso un ordine del giorno, a far emergere le differenze. L’odg, a prima firma Delmastro Delle Vedove (FdI), mirava ad impegnare il governo “ad adottare ogni iniziativa necessaria al fine di superare, quanto prima, la riforma della prescrizione voluta dal Ministro pro tempore Bonafede”. Il governo aveva chiesto la riformulazione in base all’odg n. 46 o avrebbe dato parere contrario. L’onorevole Delmastro, polemizzando sul fatto che “in quest’aula non si può parlare più di prescrizione, eppure l’Ucpi ci ha avvisato che questo istituto è l’unica garanzia a presidio della ragionevole durata del processo”, ha chiesto che l’odg originario fosse messo ai voti ma è stato respinto. Al momento del voto sono riemerse le posizioni differenti che si erano palesate anche l’altro ieri sullo stesso emendamento: Iv, Forza Italia e Lega si sono astenuti, mentre Pd e M5s hanno votato contro (anche per respingere l’odg, altrimenti sarebbe stato approvato se tutti si fossero astenuti), e Azione non ha partecipato al voto. “Ci asteniamo come atto di fiducia nei confronti della ministra Cartabia e nei confronti di una forte discontinuità rispetto al recente periodo di oscurantismo giuridico e manettaro”, ha spiegato prima del voto l’azzurro Pierantonio Zanettin. Anche Enrico Costa di Azione ha ribadito: “come maggioranza, nel rispetto del nuovo ministro, abbiamo trovato una sintesi in un odg che afferma dei principi, è chiaro che se non saremo soddisfatti sulle modalità e sui tempi brevi garantiti da D’Incà ogni forza porterà avanti le sue posizioni. Azione non partecipa al voto perché se dovessi partecipare voterei a favore, non potrei astenermi per coerenza, attendiamo le proposte del ministro e le valuteremo”. E quindi bisognerà vedere concretamente cosa il Governo intende fare sulla questione nella più ampia riforma del processo penale. Nulla è chiaro al momento come spiega al Riformista l’avvocato Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali: “Non pensiamo che l’abrogazione o la sospensione dell’efficacia di una legge vigente debba risolversi necessariamente a colpi di emendamento ma se si intende rinviare il tutto alla riforma del processo penale”, bisogna “comprendere di quale riforma del processo penale stiamo parlando”, perché “noi non lo abbiamo compreso. Se ne intende una su cui dobbiamo metterci tutti a discutere o si intende la legge-delega sulla riforma del processo penale firmata da Bonafede? Il Partito Democratico nelle sue dichiarazioni rivendica quest’ultima, per non parlare del Movimento Cinque Stelle con Bonafede. Se fosse questa non siamo affatto d’accordo, sarebbe un disastro. Il punto politico che si deve verificare è proprio questo”. Per Caiazza dunque “se la riscriviamo, noi ci siamo. Può essere un ragionamento persino condivisibile, ma se la riforma, ribadisco, è quella della legge-delega già da mesi depositata in parlamento, siamo molto allarmati, perché si tratta della riforma che porta il marchio di Bonafede”. Infine, Caiazza conclude: “La nomina della professoressa Cartabia è un segno di discontinuità, ma la discontinuità si deve tradurre, per esempio, in una riscrittura della legge-delega di riforma del processo penale. Noi ci auguriamo che la riforma del processo penale cui si rinvia la soluzione del tema prescrizione per una soluzione organica non sia quella che intende il parlamento, altrimenti sono guai”. Caiazza non ha torto se si rileggono le dichiarazioni dell’ex Guardasigilli in una intervista al Fatto Quotidiano due giorni fa: “sulla prescrizione sono arrivati segnali positivi. Detto questo, per noi deve restare il punto di caduta citato nel post che ha lanciato il voto su Rousseau, ossia il cosiddetto lodo Conte-bis, che introduce una distinzione tra condannati e assolti. Siamo disposti a muoverci esclusivamente nel perimetro del lodo”. Gli ha fatto eco ieri proprio il Pd con Alfredo Bazoli, capogruppo in commissione Giustizia della Camera: “Sarà il disegno di legge Bonafede sul processo penale l’occasione per misurarci su una riforma di sistema che affronti il tema in modo coerente, superando le forzature e le contraddizioni della riforma della prescrizione approvata da M5S e Lega. È già stata fatta una lunga e completa istruttoria su quel disegno di legge, ripartire da zero su una nuova proposta comporterebbe una ulteriore rilevante dilatazione dei tempi, con buona pace di chi invoca l’urgenza di un intervento”. Prima si fa chiarezza da via Arenula e meglio è, altrimenti qui si ricomincia a ballare tutti in maggioranza. Ecco perché il Csm va sciolto di Andrea Mirenda Il Riformista, 25 febbraio 2021 “Non risulta alcuna specificazione sulle ragioni per le quali il ricorrente è stato omesso nella valutazione a seguito dell’acquisizione degli atti sull’indagine in corso e non l’altro magistrato coinvolto, pure originario destinatario di una proposta”. Così il giudice amministrativo annulla, senza esitazioni, la nomina del dott. Prestipino a Procuratore di Roma. Pietre scagliate sul Lauto Governo. Perché, al netto dello stile curiale, il Tar Lazio ci addita - senza mezzi termini - l’ennesimo abuso commesso dai signori del Csm (qui i Fab Five di Area, gli ottimi consiglieri di Unicost, il pg Salvi, oltre a un incomprensibile Davigo che nel 2019 aveva votato per Viola, ed ancora i consiglieri Marra e Pepe di A&I e i due laici 5S Benedetti e Gigliotti). Il tutto a meno di un mese dall’altro clamoroso annullamento di 6 nomine su 6 dei membri del Consiglio direttivo della Scuola superiore della magistratura, altro fecondo terreno di pascolo del correntismo. Ma questa volta, purtroppo, assistiamo a qualcosa di assai più grave ed inquietante rispetto alla - per lo più grottesca - vicenda delle nomine della Scuola superiore, allora salutata orgogliosamente dal consigliere Cascini come capolavoro di pluralismo culturale e formativo… Ed è un qualcosa che non può lasciare indifferenti le nostre coscienze. Parliamo, difatti, dell’errore intenzionale, vera contraddizione logica. Perché con la sentenza n.1860/2021 il Tar Lazio, moderno Giudice a Berlino, ci mette al cospetto del più intollerabile degli illeciti che un consesso a prevalenza togata possa mai commettere, riassumibile nel “è così perché è così”. È così perché lo dico io, il Csm, con tutta la violenza morale di un’istituzione deragliata dai binari costituzionali nell’erigersi ad entità regolatrice del diritto. Che dicono i giudici amministrativi? In pillole, che il Csm (ma sarebbe meglio dire i consiglieri di cui sopra), senza aver indicato alcun motivo e, anzi, ben sapendo che non ve ne potevano essere (il dott. Viola, estraneo fino a prova contraria alle penose strategie degli “champagnisti”, era stato a suo tempo proposto, a larga maggioranza, proprio per quell’incarico dalla Quinta Commissione), decise comunque di affossarlo, escludendolo arbitrariamente dalla corsa a Capo della Procura romana. Con plateale violazione del diritto oggettivo e dei diritti del magistrato sgradito. Non è difficile ipotizzare il fine perseguito con tale sviamento di potere: colpire l’allegra brigata dell’Hotel Champagne, quella del “si vira su Viola”, che - laddove quella candidatura avesse invece trovato conferma in plenum - avrebbe avuto agio nel dire che, in fondo in fondo, al di là dei consueti traffici levantini “fuori sede” (peraltro comuni a tutto l’arco correntizio, non importa se tra modeste sale di hotel o splendide terrazze romane…) e al di là della “modestia etica” di questi artisti di arte varia, nulla di veramente sbagliato era stato fatto, attesa la comprovata qualità finale del “prescelto”. La qual cosa avrebbe reso assai difficile predicarne le dimissioni, come poi avvenute… Ecco, allora, il dolo, lo sbaglio lucidamente pianificato nella piena coscienza della violazione sincronica dei principi di legalità, trasparenza e imparzialità dell’azione amministrativa che l’art.97 Cost. impone, prima di tutti, ai custodi della legge chiamati all’alto compito dell’Autogoverno della Magistratura. Né sfugge, a questo punto, la devastante torsione istituzionale che segnalano, in filigrana, i giudici del Tar nel dar conto dell’abnormità di un organo di rilevanza costituzionale in contrasto con la Carta Fondamentale. Insomma e in breve, assistiamo all’ennesima conferma, ove mai ve ne fosse bisogno, dell’ottimo stato di salute di quel mondo parallelo che - lungi dall’essere venuto meno insieme a Palamara - riconferma la sua natura di “sistema” illegale sul quale bene farebbero a prestare attenzione le Procure competenti. E tuttavia, nel dubbio che ciò accada in tempi ragionevoli, si istituisca al più presto una Commissione parlamentare di inchiesta con i poteri dell’autorità giudiziaria. Il Paese non può più attendere ed è quanto mai necessario rinsaldare la fiducia dei cittadini nella Giustizia, seguendo la strada maestra del far chiarezza, per poi accingersi alle riforme conseguenti. E già che ci siamo, anziché dar corso alla farsa di una terza elezione suppletiva dall’esito già scritto, meglio sarebbe sciogliere il Csm, mandando negli spogliatoi l’allegra brigata del “rinnovamento erminiano” sulla quale, oramai, ben poco vi è da sperare. Perché Franco Gabrielli è stato scelto da Draghi come sottosegretario ai Servizi e alla sicurezza del Paese di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 febbraio 2021 Ex capo della Digos di Roma, capo del Sisde, responsabile della Protezione civile, prefetto, capo della Polizia, Gabrielli è ora sottosegretario con delega sui servizi segreti e la sicurezza del Paese: per Draghi sarà un consigliere sulle nuove tensioni sociali. Mario Draghi s’è insediato alla guida del governo sabato 13 febbraio, giorno del primo Consiglio dei ministri. Poi è trascorsa la domenica e lunedì 15 ha convocato il capo della polizia Franco Gabrielli. Uno dei primi incontri nell’agenda del premier, in cui s’è discusso di temi e problemi legati alla sicurezza e all’ordine pubblico, in un Paese in cui molte vicende legate ai Servizi segreti e alle tensioni sociali hanno segnato la storia nazionale. Questioni di prim’ordine, quindi; tanto più in tempi di crisi sanitaria ed economica. Da quel colloquio ha preso forma l’idea di trasferire Gabrielli dal Viminale a Palazzo Chigi, al fianco del presidente del Consiglio (come Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai Servizi segreti e alla sicurezza: qui la lista). Come autorità delegata agli 007, secondo quanto previsto dalla legge, ma anche nelle vesti di consigliere sui problemi della sicurezza. Una sorta di inedito doppio incarico, insomma, per un funzionario dello Stato che nella sua carriera ha sempre curato e privilegiato questi aspetti: da investigatore dell’antiterrorismo e di quella che un tempo si chiamava “polizia politica” alla guida del Sisde, il vecchio Servizio segreto civile; dal ruolo di prefetto in città diverse come L’Aquila e Roma al vertice della Protezione civile, fino al ruolo di capo della polizia, responsabile del Dipartimento della pubblica sicurezza. Ora arriva un ulteriore cambio di poltrona che da un lato lo riporta all’interno dell’intelligence, dov’era stato tra il 2006 e il 2008, e dall’altro lo colloca al fianco del capo del governo nella gestione di eventuali emergenze, ma pure sui temi più o meno ordinari connessi al comparto nel quale ha sempre lavorato. Un tecnico che ben conosce il mondo della politica accanto a un altro tecnico (di tutt’altro settore) chiamato a guidare un esecutivo che intende mantenere la qualifica di “governo politico”. Già nel 2012, Mario Monti aveva affidato la delega ai Servizi a un ex capo della polizia come Gianni De Gennaro, che però nel frattempo era transitato al Dis, l’organismo di coordinamento tra Aisi e Aise; stavolta però il campo d’azione del neo-sottosegretario sembra allargarsi. E diventa ancora più importante in un periodo in cui il disagio sociale provocato dalla diffusione del Covid che si fatica ad arginare, e dalla conseguente crisi economica finora contenuta da provvedimenti tampone ed emergenziali, sembra sempre sul punto di esplodere. Già in passato - durante il lockdown della primavera scorsa, e successivamente con le misure restrittive dell’autunno - ci furono episodi che fecero temere per la tenuta dell’ordine pubblico. Con relative infiltrazioni a vari livelli. E in quelle occasioni Gabrielli ha sempre cercato di coniugare la necessità di controllare le piazze con l’esigenza di comprendere le ragioni delle lamentele o delle mobilitazioni. Tanto più di fronte alle reali difficoltà di intere categorie di lavoratori. Nei costanti contatti con la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, il capo della polizia non ha mai smesso di raccomandare interventi e indennizzi (effettivi) in grado di prevenire disordini che sarebbe stato complicato fronteggiare o reprimere. Poi gli scontri sono arrivati ugualmente, in autunno, con la nuova ondata della pandemia e le ulteriori restrizioni. In molti casi fomentati da chi con i veri motivi delle proteste aveva poco a che fare. “Non si escludono da parte di gruppi estremisti, ovvero di categorie di facinorosi, tentativi di strumentalizzazione che potrebbero orientare il malumore dei settori economici maggiormente colpiti verso forme più incisive e violente di manifestazione”, scriveva Gabrielli a questori e prefetti d’Italia il 26 ottobre 2020. E si raccomandava: “La complessiva strategia di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza collettiva postula, in fase preventiva, l’esigenza di conferire maggior impulso all’attività informativa volta a intercettare i segnali di disagio sociale cui andrà riconnessa la massima attenzione”. Subito dopo veniva sottolineata la necessità di un’azione di polizia “sempre improntata a criteri di proporzionalità, in una prospettiva di bilanciamento tra il diritto di manifestare, l’esigenza di salvaguardia della salute collettiva e la necessità di contrastare con rigore atti di violenza”. Sono criteri che possono essere traslati anche nelle nuove funzioni di un sottosegretario che si occuperà di Servizi segreti, ma non solo. La designazione di un’autorità delegata alla sicurezza nazionale da parte del presidente del Consiglio era diventata uno dei punti su cui s’è consumata la crisi del governo Conte 2. Matteo Renzi (ma anche altri, sia pure con minore nettezza) contestava all’ex premier di aver tenuto tutto per sé nei quasi tre anni trascorsi a Palazzo Chigi. Ma la delega è una facoltà concessa dalla legge, non un obbligo, e solo sul traguardo della sua esperienza governativa Conte l’ha esercitata designando l’ambasciatore Piero Benassi. Era il 21 gennaio. Un mese dopo arriva Gabrielli. Il padre di Novi Ligure, un eroe silenzioso di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 25 febbraio 2021 Ripensando vent’anni dopo ai “fidanzatini” assassini Erika e Omar, non si può negare l’ammirazione all’ingegner Francesco De Nardo, fondamentale per la figlia. Ricorrono in questi giorni i vent’anni dalla strage di Novi Ligure. Forse la più efferata e sconvolgente strage familiare dopo quella di Rina Fort che nel 1946 eliminò la moglie dell’amante con i suoi tre figli piccoli. Anzi, se proprio vogliamo fare una crudele classifica della crudeltà, quello di Novi è un massacro ancora più sconvolgente perché fu una sedicenne, con il suo fidanzato quasi coetaneo, a eliminare la madre e il fratellino undicenne per motivi inaccessibili alla mente umana. E per di più con una ferocia senza pari. Ne è seguita una lunga bibliografia sulle “disfunzioni” familiari, sulla non comunicazione domestica, sulle debolezze dei genitori e le fragilità dell’adolescenza, sul narcisismo diffuso e le identità liquide. Da allora, si sono moltiplicate le diagnosi soprattutto sulla figura paterna, individuata come evanescente e in fuga: studi, saggi, pamphlet sui papà spiegati alle mamme, sui nuovi padri, su ciò che ogni uomo dovrebbe sapere sulla paternità, sulla famiglia in cerca del padre, su Ettore, su Enea e Anchise, su Ulisse e Telemaco, eccetera. Ma ripensando vent’anni dopo ai “fidanzatini” assassini Erika e Omar, che pare si siano avviati a un futuro normale, non si può negare l’ammirazione massima all’ingegner Francesco De Nardo, per il quale non si è mai usato un sostantivo di cui spesso si abusa: eroe. È lui l’eroe di questa storia diventata tragicamente mitica. Il Padre che, come ha detto don Antonio Mazzi, assistente morale della ragazza, è stato “fondamentale” nella sua ricostruzione. E mai aggettivo fu più etimologicamente appropriato. Un padre che riscatta tutti i padri (in fuga), essendo sempre stato presente a sua figlia nella stessa misura in cui è stato assente e silenzioso sulla ciarliera e chiassosa scena pubblica. Non è escluso che quel silenzio abbia contribuito ad accrescere in lui la forza e la dolcezza, che nella tradizione classica sono le qualità paterne. Un eroe antico del nostro tempo. Calcolo della prescrizione, anche per la recidiva vale il limite del cumulo delle pene di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2021 Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 7138 depositata il 24 febbraio, e segnalata per il “Massimario”. Ai fini del computo del termine per la prescrizione, si deve tener conto dell’aumento massimo di pena previsto per la recidiva qualificata ma con il limite previsto dall’art. 99, comma 6, cod. pen., in base al quale “l’aumento per la recidiva non può superare il cumulo delle pene inflitte con le precedenti condanne”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 7138 depositata oggi, segnalata per il “Massimario” e che rafforza un indirizzo già presente in seno alla Suprema corte. Inammissibile dunque il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di Appello di Venezia contro la sentenza che aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato condannato per sfruttamento della prostituzione essendo il reato estinto per prescrizione. Secondo l’accusa infatti la Corte territoriale aveva errato nel dichiarare la prescrizione del reato, in quanto non aveva considerato, nella determinazione del tempo necessario a prescrivere, l’aumento di pena derivante dalla recidiva infraquinquennale contestata. Per la Terza Sezione penale però il limite del cumulo delle pene inflitte con le precedenti condanne “vale per determinare non solo l’aumento di pena, ma, evidentemente, anche il tempo necessario a prescrivere, stante la correlazione tra l’art. 161 cod. pen. e l’art. 99 cod. pen. nella sua integralità - e, quindi anche il comma 6 - essendo peraltro del tutto irragionevole calcolare, ai fini del computo della prescrizione, l’aumento massimo di pena astrattamente previsto, ove in concreto esso non potrà mai essere inflitto, se superiore al cumulo delle pene inflitte con le precedenti condanne”. Carcere per la professoressa che insulta gli studenti compromettendo la loro salute psichica di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2021 Confermati tre mesi di reclusione, per abuso di mezzi di correzione, per l’insegnante di una scuola superiore che alzava il dito medio agli studenti e chiamava “cagna” le ragazze e “marciume” i maschi. Via libera alla condanna ad una pena detentiva per la professoressa che accoglieva in classe gli studenti mostrando il dito medio alzato. Come saluto una serie di insulti che variavano in base al sesso. Gli epiteti ripetibili erano “cagna”, “marciume” “deficiente”. La prof non mancava di predire il futuro alle ragazze - la cui moralità era messa in dubbio nel modo più esplicito - per le quali vedeva un avvenire da mantenute in cambio di favori sessuali che non si faceva problemi ad elencare. Il tutto anche condito da lanci di oggetti, spintoni, e colpi inferti con i libri e con i registri. Destinatari delle attenzioni dell’”educatrice” gli studenti di un istituito superiore, di età compresa tra i 14 e i 15 anni. La Cassazione (sentenza 7011) conferma la condanna dell’insegnante a tre mesi di reclusione, per abuso dei mezzi di correzione, valorizzando il fatto che la salute dei ragazzi nella difficile età dell’adolescenza era stata messa a rischio dai continui violenti attacchi, da parte di una figura che nella loro vita doveva avere un ruolo ben diverso. Ad incastrare la donna, classe 1952, la testimonianza di un collega e le segnalazioni orali e scritte genitori dei ragazzi, oltre che delle stesse giovani vittime. Per lei nessuna attenuante né sospensione del procedimento per messa alla prova, tra l’altro non chiesta in tempo utile. Chiare le ragioni della severità della condanna. Per i giudici era accertato che l’imputata aveva comportamenti che definire non professionali sarebbe un eufemismo. Una relazione fatta di violenze verbali e fisiche, di umiliazioni “anche con riguardo alla sfera sessuale, che avevano determinato un concreto pericolo per la salute mentale e fisica dei giovani alunni, adolescenti e perciò ancora tendenzialmente fragili sotto l’aspetto psichico”. La Suprema corte chiarisce che “nell’abuso di mezzi di correzione o di disciplina la nozione di malattia è più ampia di quelle concernenti l’imputabilità o i fatti di lesione personale, estendendosi fino a comprendere ogni conseguenza traumatica e rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo”. Licenziamenti e misure anti Covid, doppia decisione della Consulta di Francesca Spasiano Il Dubbio, 25 febbraio 2021 “Spetta allo Stato, e non alle Regioni, determinare le misure necessarie al contrasto della pandemia”. Sulle reintegre dei lavoratori torna l’obbligo se il fatto è insussistente. “Spetta allo Stato, e non alle Regioni, determinare le misure necessarie al contrasto della pandemia”. E ancora: è obbligatorio reintegrare il lavoratore in caso di “licenziamento economico” se il fatto posto alla base dello stesso è “manifestamente insussistente”. A stabilirlo è la Corte Costituzionale, che si espressa con una doppia pronuncia su due questioni dirimenti: restrizioni anti Covid e tutela del lavoro. Nel primo caso, la Consulta ha accolto il ricorso dell’allora Governo Conte contro la legge della Regione Valle d’Aosta, approvata lo scorso dicembre, “limitatamente alle disposizioni con le quali la legge impugnata aveva introdotto misure di contrasto all’epidemia differenti da quelle previste dalla normativa statale”. La decisione dei giudici costituzionali è giunta a termine della camera di consiglio di oggi dopo la discussione di martedì in udienza pubblica. In attesa del deposito delle motivazioni della sentenza che avverrà nelle prossime settimane, la Corte - che lo scorso 14 gennaio aveva sospeso in via cautelare l’efficacia della legge della Valle d’Aosta - ha ritenuto che il “legislatore regionale, anche se dotato di autonomia speciale, non può invadere con una sua propria disciplina una materia avente ad oggetto la pandemia da Covid-19, diffusa a livello globale e perciò affidata interamente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, a titolo di profilassi internazionale”. In merito ai licenziamenti, la Consulta ha esaminato la questione di legittimità sollevata dal tribunale di Ravenna sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori - come modificato dalla cosiddetta legge Fornero (la numero 92 del 2021) - nel punto in cui prevede la facoltà, e non il dovere, del giudice di “reintegrare il lavoratore arbitrariamente licenziato in mancanza di giustificato motivo oggettivo”. La questione - fa sapere Palazzo della Consulta in attesa del deposito delle motivazioni - è stata dichiarata fondata dai giudici delle leggi con riferimento all’articolo 3 della Costituzione: la Corte ha ritenuto che è “irragionevole” - in caso di insussistenza del fatto - la “disparità di trattamento” tra il licenziamento economico e quello per giusta causa. Per quest’ultima ipotesi è infatti previsto l’obbligo della reintegra mentre nell’altra è lasciata alla discrezionalità del giudice la scelta tra la stessa reintegra e la corresponsione di un’indennità. Secondo il rimettente, il Tribunale di Ravenna, “tra il licenziamento per giustificato motivo oggettivo fondato su un fatto (manifestamente) inesistente e il licenziamento per giusta causa fondato su un fatto (semplicemente) inesistente non sussisterebbe una differenza ontologica tale da giustificare un diverso trattamento sanzionatorio”. Dal momento che “la qualificazione del licenziamento”, secondo i giudici di Ravenna, “dipenderebbe solo dall’individuazione scelta dal datore di lavoro che inciderebbe così sul diritto di azione del lavoratore, causando una lesione dell’articolo 24 della Costituzione” secondo il quale “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. Padova. Il Terzo Settore nel carcere: quel fiore all’occhiello oggi mal sopportato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 febbraio 2021 Al Due Palazzi il Terzo Settore sta vivendo un momento di difficoltà. Il Garante: “clima di scarsa serenità nei rapporti tra soggetti istituzionali e non”. Rifiuti rovesciati per terra, oggetti e generi alimentari spostati, gli abiti da lavoro sparsi alla rinfusa. È questo lo scenario che, al rientro del lavoro, i detenuti del carcere Due Palazzi di Padova hanno dovuto assistere a ottobre scorso. Parliamo dei locali della pasticceria della Cooperativa Work Crossing - Giotto interni all’istituto penitenziario. La sera prima è avvenuta una ispezione quando i lavori non erano in corso, e quindi i locali erano vuoti, e senza avvisare nessuno della Cooperativa affinché potesse assistere all’ispezione. Un fatto che ha preoccupato il Garante nazionale delle persone private della libertà per le modalità con cui si è svolto: senza la doverosa informazione degli affidatari dei locali, senza la loro presenza all’operazione, senza la regolare autorizzazione della Direzione e la conseguente reportistica. “La mancanza di una procedura regolare rischia di configurare tale episodio come una attività impropria, simile a una forma di “perquisizione” esclusa dal nostro ordinamento e da ogni accordo di affidamento dei locali”, scrive il Garante nella relazione. Il carcere padovano un modello per le iniziative culturali, lavorative e sociali - Ma è solo uno dei tanti episodi che si sono verificati all’interno del carcere di Padova che rischiano di creare una grave frattura dei rapporti tra il Terzo settore operante in carcere e l’amministrazione penitenziaria. Una problematica che il Garante nazionale ha riscontrato durante la sua visita, avvenuta il 24 e 25 novembre scorso. Il Terzo settore non solo è fondamentale, ma ha reso il carcere padovano un modello per le iniziative culturali, lavorative e sociali che si svolgono al suo interno in una prospettiva di dialogo con il territorio e di reinserimento delle persone detenute. “Una esperienza che va preservata, valorizzata e proposta quale modello positivo”, sottolinea il Garante. Com’è noto nel carcere padovano operano le tre cooperative sociali Giotto, AltraCittà e Work Crossing, pienamente inserite nel circuito produttivo e di mercato. Senza dimenticare la redazione di Ristretti orizzonti, diretta da Ornella Favero, che quotidianamente, oltre il ben noto lavoro di selezione della stampa, porta avanti un lavoro di riflessione sul tema della privazione della libertà, in un confronto continuo con la società esterna. Fiammetta Borsellino ha visitato i detenuti per mafia - Tante le personalità ospitate in questi lunghi anni, come ad esempio Fiammetta Borsellino, figlia del giudice vittima insieme alla sua scorta della strage Via D’Amelio, ordinata da Totò Riina. Significativo il dialogo di Fiammetta Borsellino con i detenuti reclusi per reati di mafia. Quello di Ristretti orizzonti è un impegno che coinvolge in prima persona i detenuti in una prospettiva di responsabilizzazione volta a ricucire la ferita inferta alla società con il proprio reato. Nella lettera della vicecomandante la scarsa considerazione dei volontari - Il Garante chiede chiarezza anche per altre spiacevoli situazioni. Tra queste c’è l’affermazione contenuta in una missiva della vicecomandante, indirizzata alla Presidente della cooperativa AltraCittà, che esprime una visione distorta dei rapporti tra Amministrazione penitenziaria e Terzo settore, definendo l’attività dei cosiddetti volontari (termine usato anche per indicare responsabili di attività imprenditoriali che operano nell’Istituto) come “attività comunque ancillare”. Quindi di subordinazione. Una definizione, denuncia il Garante, “che non riconosce il ruolo che la società esterna, anche nelle sue espressioni dell’associazionismo e dell’imprenditoria sociale, può in generale svolgere in una prospettiva trattamentale e di reinserimento e che, peraltro, effettivamente svolge nella Casa di reclusione di Padova”. Colpiscono anche i toni e le parole usate nella stessa lettera da cui traspare una scarsa considerazione degli operatori del Terzo settore, una volontà di ridimensionare il loro contributo, di controllo del loro operato definito “al limite della legalità”. Anche quando si tratta - come nel caso specifico - di una lettera aperta alla più alta Autorità dello Stato e al Papa, scritta da alcune persone detenute e sottoscritta da molte altre. “Sono segnali di un clima di scarsa serenità nei rapporti tra soggetti istituzionali e non, rapporti che negli anni precedenti erano caratterizzati, al contrario, da uno spirito di forte collaborazione”, denuncia il Garante nazionale. Il Dap ha recepito le osservazioni del Garante e ha fatto sapere che il 25 e 26 gennaio ha inviato il vice capo del Dipartimento e il direttore generale del personale. L’obiettivo? Quello di richiamare il direttore affinché si attivi nel coinvolgere e valorizzare i rappresentanti del Terzo settore. Padova. Il paradosso: no alla declassificazione del detenuto, sì come esempio per gli studenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 febbraio 2021 Il parere negativo del Gruppo di Osservazione Interno alla “declassificazione” del detenuto basato sulle informazioni della procura antimafia. Nel carcere Due Palazzi di Padova c’è un detenuto, T. R., che da anni è nel circuito di Alta sicurezza. Sulla carta ha tutti requisiti per accedere alla “declassificazione”, ma il gruppo di osservazione interno ha dato parere negativo sulla base delle informazioni giunte dalla Procura antimafia. Per i non addetti ai lavori ciò non crea nessun sobbalzo dalla sedia, ma in realtà è una vera e propria anomalia. Un caso che il Garante nazionale ha rilevato durante la sua visita. Ma che cos’è la declassificazione? Come prevede l’ordinamento penitenziario, ogni sei mesi viene svolta una verifica su ogni recluso nel regime di Alta sorveglianza per valutare se abbia raggiunto i requisiti per avere una carcerazione più tenue. Come sottolinea il Garante nazionale, parliamo di una valutazione che soltanto chi opera a contatto con la persona può esprimere, avendone riscontrato e sperimentato direttamente la partecipazione al percorso definito, senza essere influenzata da informazioni esterne che serviranno solo successivamente per una decisione finale che spetta all’amministrazione centrale. Il detenuto T.R. dal 2014 partecipa alle attività della redazione di Ristretti orizzonti insieme a persone appartenenti al circuito dei detenuti comuni. Il Garante nazionale, per far comprendere meglio il paradosso che si è verificato, ha ricordato che nel corso di un incontro promosso dalla redazione il 24 gennaio 2020, il suo caso è stato oggetto di un confronto con il Sostituto procuratore distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Stefano Musolino. Il detenuto perseguitato dal suo stigma - È stato lo stesso direttore della Casa di reclusione a presentare la situazione di T.R. come il caso tipico di una persona vittima di ciò che rappresenta: “Lo stigma si chiama T.R. Lo perseguita sempre”. Ha quindi definito “un’ipocrisia a livello amministrativo e a livello del sistema” il fatto che T.R. partecipi ad attività con i detenuti comuni, ma rimanga nel circuito As1.Ma cosa è accaduto? Qualche mese dopo, il 16 giugno, si è svolta una riunione del Gruppo di osservazione e trattamento (Got), in vista della richiesta di declassificazione di T.R., riunione alla quale era stata invitata anche la responsabile della redazione di Ristretti orizzonti. È stato riferito al Garante che nel corso della riunione era emerso un giudizio complessivamente positivo sul percorso fatto in questi anni da T.R. Eppure il Got, in contrasto con le valutazioni emerse nel citato incontro di pochi mesi prima, ha emesso parere negativo all’istanza di declassificazione. Perché? Lo ha fatto sulla base delle informazioni giunte dalla Procura antimafia. Ma non funziona così. Il parere del Got deve essere autonomo, non può basarsi su quello della procura: sono due valutazioni separate che poi spetta all’amministrazione centrale farne una sintesi. Questo non è accaduto e si è verificato, come osserva il Garante, una situazione paradossale: la persona che non è ritenuta idonea alla declassificazione, viene proposta come testimone davanti agli studenti di Reggio Calabria. Palermo. Febbre e isolamento per Covid, ma era leucemia fulminante: muore un detenuto di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 25 febbraio 2021 Massimo Bottino, 52 anni era recluso al carcere Pagliarelli. Sarebbe stato messo in isolamento per diversi giorni col sospetto che fosse stato contagiato dal virus. Invece la sua patologia era un’altra ed è spirato al Buccheri La Ferla. Non era Covid come si sarebbe sospettato al carcere Pagliarelli, ma leucemia fulminante. Massimo Bottino, 52 anni, condannato a 12 anni con il rito abbreviato perché ritenuto appartenente al clan della Noce e detenuto nella struttura penitenziaria, è morto all’ospedale Buccheri La Ferla, dove era arrivato dal Civico in coma. Il decesso risale a più di un mese fa, il 24 gennaio, ma la notizia si è appresa solo ora. Al Pagliarelli dall’inizio della pandemia si sono sviluppati diversi focolai di Covid e, nelle ultime settimane, si sono toccate anche punte di 60 contagiati. Una situazione che ha avuto ripercussione sui processi e anche sull’udienze di convalida: in certi casi, per sicurezza, non è stato possibile neppure trasferire i detenuti nella saletta per i video-collegamenti. Anche nel caso di Bottino si sarebbe ipotizzato un caso di Coronavirus. Il detenuto era stato arrestato il 22 maggio del 2018 con l’operazione “Settimo Quartiere” della squadra mobile, coordinata dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca e dai sostituti Amelia Luise e Annamaria Picozzi (oggi aggiunto). A gennaio dell’anno scorso il gup Cristina Lo Bue gli aveva inflitto 12 anni di reclusione. Secondo l’accusa, sarebbe stato particolarmente vicino al capo della cosca, Giovanni Musso, condannato a sua volta a 15 anni. Il processo è pendente in appello. Ed è proprio in relazione ad una delle udienze del secondo grado di giudizio che, intorno al 10 gennaio, è emerso che Bottino non sarebbe stato bene. Avrebbe avuto la febbre abbastanza alta e sarebbe stato per questo messo in isolamento all’interno del Pagliarelli. Si sarebbe ipotizzato un caso di Covid. Il 14 gennaio, giorno del processo, Bottino non aveva partecipato all’udienza e era giunta alla Corte d’Appello una rinuncia da parte sua. Due giorni dopo le sue condizioni si sarebbero però aggravate e per questo Bottino era stato trasferito dal carcere al Civico. I medici avrebbero capito subito che non avevano davanti un caso di Coronavirus, ma invece una leucemia fulminante di cui nessuno però fino a quel momento si era accorto. Nonostante le cure, lo stato di salute del detenuto sarebbe ulteriormente peggiorato e dopo qualche giorno, ormai in coma, Bottino era stato trasferito al Buccheri La Ferla, dove poi è deceduto il 24 gennaio. Napoli. Ha 83 anni, oltre 20 patologie ma deve andare in carcere: “L’hanno portato in ambulanza” di Ciro Cuozzo Il Riformista, 25 febbraio 2021 Ha 83 anni e nel carcere di Poggioreale, a Napoli, è stato portato direttamente in ambulanza lo scorso 3 febbraio. Soffre di numerose patologie ma nonostante ciò il gip del Tribunale di Salerno ha accolto la richiesta della Procura acconsentendo all’aggravamento della misura cautelare di Giovanni Marandino, già sottoposto all’obbligo di dimora nel comune di Capaccio (Salerno) e accusato di usura ed esercizio abusivo di attività finanziarie. Niente arresti domiciliari perché la sua abitazione è ritenuta “un vero e proprio centro logistico di finanziamento. Di così eccezionale rilevanza il pericolo di reiterazione del reato - si leggeva nella nota della procura di Salerno del 3 febbraio scorso - che lo stesso giudice ha ritenuto necessaria la custodia cautelare in carcere, pur trattandosi di un ultraottantenne”. Così da Capaccio a Napoli in ambulanza nel carcere più sovraffollato d’Europa e con diversi casi di coronavirus registrati nelle ultime settimane che hanno stroncato la vita a una guardia penitenziaria. A fornire l’elenco delle oltre venti patologie di cui soffre l’83enne è Samuele Ciambriello, garante dei Detenuti della Campania, che ne sta seguendo gli sviluppi sanitari. Marandino soffre di “severa vasculopatia cerebrale con disturbi mnesici e disorientamento temporo-spaziale, depressione maggiore, ateromasia carotidea, distiroidismo, bpco, apnee notturne, diabete mellito scompensato e complicato, pregresso intervento per sostituzione valvola aortica, anuloplastica mitralica e rivascolarizzazione miocardica con bypass, postumi deiescenza ferita sternale tratta con vac terapy, cardiopatia sclero-ipertensiva-ischemia con pregresso ima, aritmia cardiaca da fibrillazione atriale cronica, postumi pancreatite, ipb, incontinenza neurogena, i.r.c da rene policistico, deficit visus, ipoacusia, laparocele, reflusso gastroesofageo, diverticolosi colon, severa artrosi polidistrettuale con gravi limitazioni funzionali”. “Sabato scorso, 22 febbraio 2021 - aggiunge Ciambriello - è stato colto da un malore ed trasportato all’ospedale dei Pellegrini dove è rimasto in osservazione per tutta la notte e domenica ha fatto ritorno in carcere”. “Sono in contatto quotidiano con la Direzione sanitaria del carcere di Poggioreale che mi aggiorna sui trattamenti sanitari in corso” spiega. “Credo che il diritto alla salute e alla vita debba godere di adeguata tutela anche rispetto alle esigenze di giustizia e di accertamento da parte dell’autorità giudiziaria. Pur nel rispetto del sistema cautelare in caso di gravi reati, ritengo che ciò debba essere attuato attraverso la gradazione della misura con l’applicazione di una restrizione più adeguata allorquando la persona coinvolta si trovi in condizioni psico fisiche precarie, come nel caso del signor Marandino”. Il garante infine stigmatizza le tante polemiche in corso sui giornali e nei dibattiti televisivi rispetto ai reati ostativi, alla certezza della pena: “È la Costituzione italiana all’art 32 che definisce la salute come diritto fondamentale dell’individuo. Significa che tutto ciò non riguarda solo il singolo ma si riflette sulla collettività. La tutela della salute è un valore costituzionale supremo di ogni cittadino, libero o diversamente libero, lo voglio dire anche a tanti pennivendoli e giornalisti televisivi giustizialisti e a quanti, anche tra i politici, disconoscono gli articoli della Costituzione sul tema “Carcere e salute”. Nello svolgimento della mia funzione, nei continui colloqui che ho con i detenuti e con gli uffici giudiziari, mi occupo personalmente di centinaia di casi analoghi” Sulla vicenda, così come anticipato dal Riformista, è intervenuto anche il garante napoletano dei detenuti Pietro Ioia che ha lanciato un appello alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. “Signora ministra, io non so se le arriverà questo messaggio - dice Ioia nel video - Sono il Garante dei detenuti del Comune Napoli, sono appena uscito dal carcere di Poggioreale. Ho visto un detenuto di 85 anni, mi creda, sulla sedia a rotelle. Una larva umana. Mi creda, faccia qualcosa. La prego e la supplico, faccia qualcosa. Per la Giustizia italiana, grazie”. “Signora ministra, io non so se le arriverà questo messaggio - dice Ioia nel video - Sono il Garante dei detenuti del Comune Napoli, sono appena uscito dal carcere di Poggioreale. Ho visto un detenuto di 85 anni, mi creda, sulla sedia a rotelle. Una larva umana. Mi creda, faccia qualcosa. La prego e la supplico, faccia qualcosa. Per la Giustizia italiana, grazie”. Rieti Covid, focolaio in carcere. Sono venti i detenuti positivi Corriere di Rieti, 25 febbraio 2021 Si amplia il focolaio Covid nel carcere di Rieti “Nuovo Complesso” di Vazia. I detenuti contagiati sono una ventina e sono risultati allo screening di massa a cui sono stati sottoposti insieme al personale e ai vari collaboratori che frequentano i laboratori del carcere per un totale di 480 persone. Le loro condizioni non destano preoccupazioni anche se il timore è che il focolaio sia destinato ad aumentare visto che nella giornata di ieri sono stati eseguiti altri tamponi di cui si attende l’esito. Ieri è stato ufficializzato il bollettino sull’emergenza coronavirus. All’esito delle indagini eseguite nelle ultime 24 ore si registrano 34 nuovi soggetti positivi al test Covid 19. Si registrano 46 nuovi guariti. Il numero dei tamponi eseguiti è stato di 434, quello totale di 54.187. Si registra un decesso: un uomo di 77 anni, ricoverato in Terapia Intensiva al De Lellis. Il totale dei positivi è di 575. La Asl lunedì avvierà la vaccinazione per le persone estremamente vulnerabili con gravi fragilità e la vaccinazione del personale docente e non docente della scuola e dell’università nati nell’anno 1956 (65 anni). I vaccini per le persone estremamente vulnerabili con gravi fragilità verranno somministrati presso il centro ex Bosi ogni lunedì. L’accesso alla vaccinazione avverrà attraverso una chiamata diretta effettuata dai Centri della Asl di Rieti che hanno in cura i pazienti stessi. Prosegue la campagna vaccinale dedicata al personale delle Forze dell’ordine e al personale docente e non docente della Scuola e dell’Università. Oltre agli under 55, dal 1 marzo il vaccino verrà somministrato anche ai nati nell’anno 1956 (65 anni). Il centro di riferimento sarà sempre il Distretto 1 di via delle Ortensie a Rieti, mentre le prenotazioni avverranno attraverso il link della Regione Lazio. Venezia. Il carcere torna Covid-free. Gli agenti: adesso fate presto con le vaccinazioni di Mitia Chiarin La Nuova Venezia, 25 febbraio 2021 Mentre il carcere di Venezia torna Covid-free, si muovono i primi passi per la campagna di vaccinazione dei detenuti e degli operatori di polizia penitenziaria. Proprio in questi giorni sta iniziando la raccolta dei consensi informati e delle adesioni tra chi intende sottoporsi al vaccino. Analoga operazione al via anche in Questura di Venezia. Visto l’alto numero di agenti e di uffici in terraferma, centro storico e nelle specialità, dalla postale al porto ed aeroporto alla ferroviaria, la macchina dei vaccini appare più complessa. Si parla in queste ore di un via alle vaccinazioni per i poliziotti dal 5 marzo con un hub della polizia al Tronchetto. “Nell’ultimo incontro con la Regione abbiamo avuto delle rassicurazioni importanti”, dice il Coordinatore regionale Cgil Polizia Penitenziaria Gianpietro Pegoraro, “da qui a qualche giorno saremo informati sul calendario vaccinale. Merito va al garante nazionale dei diritti dei detenuti e al dialogo tra istituzioni e rappresentanti delle forze dell’ordine”. Tra i problemi segnalati alla Regione a fine gennaio, c’era ad esempio anche la mancanza di comunicazioni tra sanità penitenziaria e direzioni delle Carceri: “Ciascuno segue la propria strada, come dimostrano gli ordini di servizio emanati dalle direzioni, che non sono controfirmati dai dirigenti sanitari”. Nel frattempo, la situazione contagi sembra essere tornata alla normalità. Nei mesi scorsi, importanti focolai avevano fatto preoccupare non poco direzione e operatori con 54 positivi, tra agenti e detenuti. “Stando all’ultimo bollettino ufficiale di mercoledì scorso”, continua Pegoraro, “la situazione è tornata alla normalità. Ora la speranza è che si possa continuare con questo trend”. Situazione tranquilla anche nel carcere femminile della Giudecca, dove si era registrato qualche caso di Covid prima della fine del 2020. “La partenza del 5 marzo per le vaccinazioni ai poliziotti della provincia di Venezia è una buona notizia”, dice Franco Maccari, vicepresidente nazionale FSP Polizia di Stato. “Meglio sarebbe se fosse anche stata condivisa con i colleghi, tra i quali rimangono molti incerti e contrari all’adesione alla campagna vaccinale, a causa anche delle opinioni contrastanti degli esperti, tanto che ad oggi l’adesione dei poliziotti a livello nazionale è circa del 80%”. Mauro Armelao, Ugl, conferma l’incertezza rispetto all’utilizzo del vaccino AstraZeneca. “Sarebbe stato utile poter scegliere il tipo di vaccino da fare”, ammette. “Attendiamo a giorni la comunicazione del calendario per partire”, dice Diego Brentani del Siulp. Maccari si rivolge al Questore. “Certamente il Questore Masciopinto si adopererà per informare adeguatamente anche sul personale over 55 sulla possibilità di aderire alla campagna vaccinale, ma va invitato caldamente a fare presto. Non abbiamo tempo da perdere”. Taranto. Dieci detenuti lavoreranno per il decoro e la bellezza della Città Vecchia girwebtv.it, 25 febbraio 2021 Si chiama “Ri-uscire” il progetto di inclusione sociale per detenuti presentato questa mattina dal parroco del Duomo don Emanuele Ferro, dall’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (UEPE) di Taranto, dall’amministrazione Melucci con gli assessori Gabriella Ficocelli (Welfare), Fabrizio Manzulli (Sviluppo Economico, Marketing Territoriale e Turismo) e Paolo Castronovi (Ambiente e Società Partecipate), e da Kyma Ambiente. Il progetto intende dare una nuova opportunità a dieci detenuti, consentendo loro di scontare il debito con la giustizia attraverso misure alternative alla detenzione. Ognuno si occuperà del decoro e della pulizia di una chiesa della Città Vecchia, dintorni compresi, e aiuterà i cittadini più fragili nella gestione della raccolta differenziata. Kyma Ambiente ha messo a loro disposizione anche un proprio deposito. “Siamo contenti di affiancare don Emanuele Ferro in questo progetto - ha dichiarato l’assessore Castronovi -, che corrisponde all’idea di rivitalizzazione che abbiamo per la Città Vecchia”. “Abbiamo avviato questo progetto sfruttando alcune risorse del Comune di Taranto per i Servizi Sociali - ha commentato l’assessore Ficocelli - e siamo davvero felici per questi ragazzi”. “Riteniamo che sia fondamentale coinvolgere i residenti in questo processo di crescita culturale - ha evidenziato l’assessore Manzulli - e sono contento che siano questi ragazzi a dare l’esempio”. Paliano (Fr). Dai detenuti della Casa di reclusione dei ceri pasquali dipinti a mano frosinonetoday.it, 25 febbraio 2021 Una volta terminati verranno portati nelle cappelle delle carceri italiane. Ha avuto inizio qualche giorno fa nel carcere di Paliano, nel nord della provincia di Frosinone il progetto artistico formativo dal titolo “La luce della libertà” con il quale verranno realizzati ceri pasquali dipinti dai detenuti per le cappelle delle carceri italiane. Iniziativa dell’Ufficio Ispettorato dei cappellani delle carceri italiane in collaborazione dell’associazione Liberi nell’arte (affiliato Acli del Molise) e dell’Associazione Caritas Regina Pacis. L’iniziativa si svolgerà presso la Casa di Reclusione di Paliano (Fr). I ceri, si legge in un comunicato, verranno dipinti interamente a mano da alcuni detenuti del carcere di Paliano che frequenteranno un corso di formazione guidati da un maestro d’arte figurativa. “Sarà un cammino di reinserimento e di “Luce” - afferma don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei Cappellani e ideatore del progetto - con lo scopo di indicare la strada e annunciare ai detenuti dentro le mura di un carcere, che il Cristo Risorto ha spezzato le catene della schiavitù, ha liberato l’uomo dal suo male, ha rialzato chi è caduto, ha ridonato Misericordia e Tenerezza all’umanità avvolta nelle tenebre. Anche in questo tempo di pandemia, di distanziamento e di solitudine - soggiunge il Capo dei Cappellani - non possiamo ignorare un mondo nascosto e sofferente, dove le persone che hanno sbagliato, stanno pagando il loro errore con la restituzione della pena. Il mondo ha bisogno di essere più umano, libero da pregiudizi che uccidono la speranza e il futuro di uomini già emarginati e macchiati dal reato commesso”. Il percorso di formazione “La luce nella libertà” vedrà, perciò, impegnati i detenuti del carcere di Paliano in attività artistico manipolativo “per perseguire finalità di reinserimento, ma anche come esempio concreto per rilanciare un appello alla giustizia, che non deve essere solo punitiva ma anche capace di sanare le ferite e di colmare il vuoto di tante vittime della società”. L’avvio del progetto artistico formativo, infine, è anche occasione per augurare, da parte dei 230 cappellani, al nuovo Governo, guidato da Mario Draghi, il cammino di rinascita dentro il “sistema di insicurezza sociale per migliorare la condizione delle carceri” da lui indicata. Al nuovo ministro della Giustizia, Marta Cartabia “giunga l’augurio per un appassionato lavoro Istituzionale e di collaborazione”. Al Provveditorato del Lazio- Abruzzo -Molise e alla Direzione del Carcere di Paliano vanno i ringraziamenti per aver sostenuto e promosso il progetto. Rimini. Comunità Papa Giovanni XXIII, oggi un webinar sull’emergenza Covid nelle carceri agensir.it, 25 febbraio 2021 Covid-19 e carcere: una emergenza nell’emergenza. Mentre le varianti del coronavirus mettono a dura prova il piano di contenimento e di cura della pandemia, oltre 53 mila persone vivono rinchiuse nelle carceri italiane in condizioni di promiscuità: un rischio enorme per loro, per i familiari, per il personale che lavora negli istituti penitenziari. Nell’ottica proposta dal neo-presidente del Consiglio Mario Draghi di “trasformare la crisi della pandemia in opportunità”, la Comunità Papa Giovanni XXIII ha organizzato per giovedì 25 febbraio alle 10:30 un seminario dal tema “Carcere, Covid-19 e Comunità” che potrà essere seguito sulla pagina Facebook della Papa Giovanni o sul sito www.apg23.org/it/lifeapg23tv/. Obiettivo, spiegano gli organizzatori, “cogliere gli elementi di crisi del sistema attuale e offrire valide proposte alternative da sottoporre al nuovo Governo”. Il confronto prevede gli interventi di Riccardo Turrini Vita, direttore generale della formazione (Dap); Giovanni Paolo Ramonda, presidente Comunità Papa Giovanni XXIII; Patrizio Gonnella, presidente Associazione Antigone; Alfredo Bazoli, deputato Commissione giustizia; Marcello Marighelli, garante dell’Emilia Romagna delle persone private della libertà personale; Bartolomeo Barberis, responsabile Comunità terapeutiche della Giovanni XXIII. Al termine un “question time” con il giornalista di Avvenire Pino Ciociola. Nel corso dell’incontro Giorgio Pieri, autore del libro “Carcere, l’alternativa è possibile” porterà una testimonianza sul funzionamento delle Comunità educanti con i carcerati (Cec). “Il carcere attuale è superato - afferma -. Oltre a essere pericoloso per la pandemia, non funziona nel suo scopo rieducativo dato che ogni 1000 persone che terminano la pena, in media 750 tornano a commettere reati spesso peggiori. Nelle comunità invece i delinquenti si pentono davvero e quando escono, tranne una minoranza che non supera il 15%, sono persone nuove, non più un problema ma una risorsa per la società”. “Per affrontare l’emergenza Covid - conclude - lo stato è disposto a finanziare l’accoglienza in comunità. È una bellissima notizia. Purtroppo pur avendo molte associazioni dato la propria disponibilità, molte comunità restano vuote; sono stati occupati meno di un quarto dei posti disponibili”. “Carcere, l’alternativa è possibile”, di Giorgio Pieri recensione di Alessio Zamboni semprenews.it, 25 febbraio 2021 Lo Stato italiano mantiene un sistema costoso e inutile. Un libro spiega perché e propone una soluzione. Oltre 52 mila persone vivono nelle carceri italiane. Quando terminano la pena, 3 su 4 tornano a commettere reati anche peggiori. Giorgio Pieri ci fa entrare con lui oltre le sbarre, evidenzia le contraddizioni del sistema attuale, ci dimostra che una soluzione esiste e funziona. A cosa serve il carcere? A rieducare chi è stato condannato per aver commesso un reato, dice la Costituzione all’articolo 27. A proteggere i cittadini onesti dai delinquenti, è il sentire comune. In entrambi gli aspetti il carcere è in realtà un vero fallimento: si stima che circa il 75 per cento di chi oggi esce di galera dopo aver scontato la pena torni a commettere reati, spesso perfino più gravi di quelli per cui era stato incriminato. Una vera scuola del crimine finanziata dallo Stato. Con l’aggravante di alcune situazioni assurde, come la pratica di incarcerare i bambini con le loro madri. Giorgio Pieri, riminese, laureato in Scienze Biologiche, diplomato in Erboristeria e in Scienze Religiose, con il carcere ha un rapporto particolare: da 25 anni, seguendo l’esempio di don Oreste Benzi, va a incontrare i detenuti oltre le sbarre. Un’esperienza che gli ha permesso di scoprire un mondo nascosto, pieno di contraddizioni e di assurdità. Ha quindi cercato delle risposte a tanti perché, e, con la Comunità Papa Giovanni XXIII di cui fa parte, ha sperimentato delle soluzioni. Ora tutto questo lo racconta nel libro “Carcere, l’alternativa è possibile” (Sempre Editore), disponibile nelle librerie fisiche e on line dal 18 febbraio. L’autore ci fa oltrepassare con lui i cancelli degli istituti di pena rivelandoci cosa succede davvero oltre le sbarre, raccontandoci le storie di alcune delle persone incontrate, mettendo in evidenza elementi che fanno emergere come questo sistema sia inutile, costoso e perfino dannoso. Ma allo stesso tempo ci dimostra che un’alternativa c’è e funziona: nelle Comunità Educanti con i Carcerati - ispirate al modello APAC brasiliano - il delinquente fa un vero percorso di consapevolezza del proprio errore e di rinascita, per cui alla fine è una persona nuova. Non più un pericolo ma una risorsa per la società. Se la ricetta funziona, viene da chiedersi, perché non modificare l’intero sistema? Chiude il libro una serie di interviste in cui l’autore interpella esponenti del no profit e delle istituzioni su alcuni temi cruciali: il carcere per i minorenni, i bambini piccoli incarcerati con le loro madri, l’ergastolo ostativo, i diritti delle persone detenute, l’esperienza brasiliana dell’Apac, il ruolo della Chiesa, l’esperienza di chi accoglie i detenuti in famiglia. Un libro indispensabile per chi si occupa di queste tematiche sociali, ma utile per tutti in quanto affronta temi come il perdono, la riconciliazione, il pregiudizio, la relazione con chi, per qualche motivo, si trova ai margini della comunità civile ed ecclesiale. La politica oscura di chi odia di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 25 febbraio 2021 In certe circostanze l’aggressività può anche tradursi in violenza fisica. In ogni caso, può innescarla e alimentarla. L’aggressione verbale di un professore universitario nei confronti di Giorgia Meloni, con connesso linguaggio da trivio, ci ricorda che la politica, oltre a un lato chiaro e pulito, ha anche un lato oscuro. Tenuto conto dei termini usati e dato che l’insultata è una donna, si può anche ritenere l’aggressione a Meloni un caso di sessismo. Ma sicuramente c’è dell’altro, di stretta attinenza con la politica. Escludendo tanto i professionisti, coloro che se ne occupano per mestiere, quanto i tantissimi che le prestano poca o nessuna attenzione, ciò che resta è una minoranza di cittadini che si interessa alla politica amatorialmente ma in modo continuo. Questa minoranza va divisa in due categorie. C’è la categoria di quelli che manifestano per la politica un interesse sano, non viziato da morbosità o da turbe di alcun genere. Sono coloro che, legittimamente, si sforzano di comprendere se e come la politica possa avere un influsso, positivo o negativo, sul loro Paese, su loro stessi, sui loro figli. Hanno ovviamente simpatie e antipatie partitiche o ideologiche. Apprezzano quello e detestano quell’altro. In ciò non c’è nulla da eccepire. C’è però anche una seconda categoria di persone che si interessa alla politica. Ne fanno parte individui, diciamo così, problematici. Sono coloro che usano la violenza verbale contro quelli che ritengono propri nemici politici. Sono gli odiatori in servizio permanente. Rappresentano il lato oscuro della politica. La loro aggressività, in certe circostanze, può anche tradursi in violenza fisica. In ogni caso, può innescarla e alimentarla. È questo il “vivaio” che fornisce la manovalanza che entra in azione tutte le volte che la politica attraversa una fase di forte turbolenza. Si noti che, talvolta, ci si può anche imbattere in persone che all’inizio danno l’impressione di essere normalissime. Poi, a un certo punto, ti accorgi che c’è qualcosa che non va, il loro cervello, che sembrava ben funzionante, va in tilt appena si mettono a parlare di politica. Ricordo un tale, ad esempio, apparentemente sano di mente, che, alla fine degli anni Novanta, affermava che per lui tutti gli elettori di Forza Italia (stava parlando di milioni di persone) erano dei delinquenti e dei depravati. Egli era uguale in tutto e per tutto ad altri che, ai tempi della Guerra fredda, consideravano farabutti e assassini gli elettori del Partito comunista. Diciamo, per lo meno, che esistono casi borderline (non mi riferisco allo specifico disturbo così chiamato), persone a cavallo fra la categoria dei sani e quella degli insani. La domanda sbagliata da porsi sarebbe: perché la politica esercita effetti così negativi sulla mente di certe persone? La domanda giusta è un’altra: che cosa c’è nella politica che attira irresistibilmente l’attenzione e l’interesse di persone sul cui equilibrio mentale è lecito avere forti dubbi? Ciò che le attira, plausibilmente, è una particolare “qualità” della politica, una qualità che la distingue da altre attività umane. Essa offre alle persone la possibilità di scegliersi una qualsivoglia “nobile causa” il cui perseguimento legittimi ai loro occhi, ma anche di altri che le osservano, l’adozione di comportamenti aggressivi. In questo simile a certe religioni, la politica ha la caratteristica di permettere alle persone di trasformare le proprie frustrazioni private in violenza contro gli altri nascondendone a se stessi (è una forma di auto-inganno) i veri motivi. Prendete un individuo molto frustrato a causa di vicende private. Se potesse scaricherebbe la frustrazione accumulata prendendo a schiaffi il primo che capita o ricoprendolo di insulti. Ma, in tal caso, non potrebbe giustificare in alcun modo, né davanti a se stesso né davanti agli altri, il proprio comportamento. Ma se ci mette di mezzo la politica, tutto cambia. Egli potrà accampare nobili ragioni per giustificare se stesso: “Aggredisco il tale non perché mi fa stare meglio scaricare la mia aggressività su altri, ma perché lui, o lei, come dimostra la sua attività politica, è il diavolo, il male assoluto, eccetera”. Aggredisse un passante incorrerebbe nella riprovazione generale. Ma prendendosela con il tal politico, e raccontando a se stesso e agli altri che lo fa per ottimi motivi, può contare, per lo meno, sulla solidarietà di quelli come lui, di quelli che gli assomigliano. Quella solidarietà, spesso, lo rende forte e sicuro di sé. Da quanto sopra detto discendono varie conseguenze. Ne cito due. In primo luogo, in contesti politici con forti divisioni, ad elevata temperatura ideologica (l’Italia), persone come quelle sopra indicate apprezzano della politica soprattutto le posizioni più estremiste. Sia chiaro: non bisogna affatto pensare che tutti gli estremisti appartengano al club dei frustrati. Alcuni scelgono posizioni estreme per calcolo razionale. Altri però trovano nell’estremismo (di qualsiasi colore) un mezzo per dare sfogo all’aggressività. La seconda considerazione è che spesso la “violenza paga”: i frustrati violenti hanno l’aria di essere pericolosi e molti, per paura o per quieto vivere, finiscono per assecondarli. Per fare un solo esempio, si pensi all’arrendevolezza di varie autorità, al momento soprattutto anglosassoni, di fronte alla protervia di quelli che pretendono di riscrivere la storia eliminando statue, cambiando i nomi di Università, eccetera. In molte occasioni, paga, eccome, essere verbalmente violenti. E paga ancor di più dare l’impressione di essere pronti a esercitare la violenza fisica. La politica ha molti aspetti. Talvolta, è in grado di trasformare “vizi privati” in “pubbliche virtù”: una combinazione di atteggiamenti spregiudicati e di ambizione smodata potrebbe fare di una persona un grande criminale ma se egli si dedicasse alla politica forse diventerebbe uno statista di alto rango, capace di fare cose buone per il suo Paese. Non sempre va così. Talvolta, dai vizi privati germogliano solo vizi pubblici. Migranti. Il mondo alla rovescia di Michele Passione Ristretti Orizzonti, 25 febbraio 2021 1997; invitato a parlare a un convegno su Le migrazioni del terzo millennio, Umberto Eco disse che “noi oggi, dopo un XIX secolo pieno di immigranti, ci troviamo di fronte a fenomeni incerti. Oggi, in un clima di grande mobilità, è molto difficile dire se certi fenomeni sono di immigrazione o di migrazione […] le immigrazioni sono controllabili politicamente, le migrazioni no; sono come i fenomeni naturali […] i fenomeni che l’Europa cerca ancora di affrontare come casi di immigrazione sono invece casi di migrazione. Il Terzo Mondo sta bussando alle porte dell’Europa, e vi entra anche se l’Europa non è d’accordo […] se vi piace, sarà così, e se non vi piace sarà così lo stesso”. Sono passati ventiquattro anni da allora, Umberto Eco non c’è più: lo Stato (e l’Unione europea) non sembra(no) aver preso sul serio le osservazioni del semiologo piemontese, e ancora si ostina(no) a rispondere con ciabatte e manganelli, per citare l’incipit di un bel libro di Maurizio Veglio (La malapena), uscito in questi giorni. Li vedo i migranti, mentre l’estate attraverso a piedi il confine tra Piemonte e Francia, dove sono nato, dove ogni anno incontro boschi di larici e dove poi anche la vegetazione si fa più rada, quando si sale di quota; li vedevo anche d’inverno, quando ancora si poteva sciare, mentre in ciabatte (di nuovo loro) affondavano furtivi nella neve, e spesso ci crepavano. A volte qualcuno li aiuta, in altri casi c’è chi avvisa la gendarmerie. La rotta alpina, quella che separa Claviere (ultimo Comune italiano prima del confine) da Briançon, attraverso il passo del Monginevro. Ne ha scritto Maurizio Pagliassotti nel 2019 (Ancora dodici chilometri); un libro necessario. Conosciamo i nomi di chi negli anni si è dato da fare, ha scritto o ha fatto; uno che non si è fermato mai si chiama Cédric Herrou, agricoltore che ha fatto a spallate con l’(in)giustizia francese. Nel 2018 il Conseil constitutionnel ha escluso l’applicabilità di disposizioni del Ceseda nel caso di atti compiuti per fini umanitari e disinteressati. Proprio qui su Ristretti a luglio di quell’anno un bel documento dell’UCPI ricordò quel caso, il ruolo delle Corti costituzionali per la difesa dei Diritti, non solo del Diritto, gli opportuni distinguo eurounitari tra soccorso, assistenza e favoreggiamento. All’epoca, il Ministro dell’Interno era Matteo Salvini. Dicembre 2018, in sala (ancora si andava al cinema) esce Dove bisogna stare, uno straordinario docufilm di Daniele Gaglianone, che attraverso le testimonianze di donne (anticonfine per eccellenza e costituzione), diverse per età e percorsi di vita, ci mostra il volto di un Paese che non si gira dall’altra parte, e praticando (non solo predicando) solidarietà prova ad affrontare i tanti problemi che un fenomeno come la migrazione produce. In quella storia, bellissima, ci sono anche Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, marito e moglie; lui ha 84 anni, è un ex insegnate di filosofia, lei ne ha 67, ed è psicoterapeuta. Sono i fondatori della Linea d’Ombra Odv, associazione triestina nata nel settembre 2019 per aiutare i migranti della rotta balcanica e portare aiuti ogni mese anche in Bosnia. E siamo all’oggi. All’alba del 23 febbraio la Digos triestina perquisisce l’abitazione della coppia, sequestrando telefoni, computer, e documentazione della Onlus; contemporaneamente, vengono eseguiti numerosi arresti, a carico di cittadini stranieri. Per quanto si legge dalle pagine de Il Piccolo, si procederebbe per associazione finalizzata al favoreggiamento a fine di lucro dell’immigrazione clandestina. Non conosco le carte, e mi guardo bene dal dire, ma alcune osservazioni possono farsi, sul metodo. La prima; in tempo di notte si fanno gli arresti (si pensa che serva ad impedire la fuga…); ma se non si procede in tal senso, era necessario agire così per due persone anziane e del posto, che certamente non sarebbero fuggite, e che tutto quel che fanno promuovono e rendono pubblico? Ed ancora (e ancor più grave), leggiamo sul giornale triestino un virgolettato del Procuratore De Nicolo, che speriamo smentisca, secondo cui “la Procura criminalizza i comportamenti che rivestono reato, cioè il favoreggiamento all’immigrazione clandestina con finalità di lucro. Se tra gli indagati c’è chi dimostrerà che ha operato non a scopo di lucro, ma umanitario, e non sapeva che dietro al proprio lavoro volontario di assistenza filantropica si svolgevano attività illecite la posizione sarà ovviamente archiviata”. Così, par di capire, si usa un mezzo di ricerca della prova onerando gli indagati di dimostrare la loro estraneità agli addebiti provvisori, che pure si ipotizzano nei loro confronti. Forse la Corte EDU potrà dire qualcosa; intanto lo diciamo noi. Nessuno dubita della possibilità di utilizzo dello strumento, legalmente previsto, ma forse l’ingerenza nella vita privata degli indagati non era davvero in questo caso necessaria in una Società democratica, per usare le parole del giudice alsaziano; senza forse, invertire l’onere probatorio è semplicemente contrario alle regole processuali, giacché così si sovverte l’assiologia del sistema su cui si regge il codice di rito e, ancor prima, il precetto costituzionale di cui all’art.27, comma 2. Allora stiamo dove bisogna stare, foss’anche in minoranza, e pazienza se qualcuno se ne avrà a male. Del resto anche Giorgia Meloni (non esattamente una fan di chi assiste gli immigrati, ma molto di moda di questi tempi), citando Brecht, ha di recente giustificato la sua scelta politica controcorrente al mainstream, affermando che “ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati”; con la speranza che ci siano ancora sedie vuote e libere, dove appoggiare il Diritto e i Diritti, sappiamo andare controcorrente, anche se qualcuno suona all’alba alla porta di casa. Migranti. Unhcr e Oim: “Morti 41 migranti in un naufragio davanti alle coste libiche” di Leo Lancari Il Manifesto, 25 febbraio 2021 La tragedia sabato scorso. Il gommone trasportava 120 persone. Tra i dispersi anche tre bambini e quattro donne, una delle quali incinta. Dall’inizio dell’anno le vittime sono state 160. Il Mediterraneo si conferma sempre più come una fossa comune per i disperati che tentano di attraversarlo per raggiungere l’Europa. Le ultime vittime, 41, sono di sabato scorso e di loro si è saputo solo grazie alle testimonianze raccolte dai funzionari dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) che si trovavano a Porto Empedocle per attendere 77 migranti che si trovavano sul mercantile Von Triton. Tra i sopravvissuti anche il corpo senza vita di una delle vittime del naufragio. “Salvare la vita di rifugiati e migranti alla deriva nel Mediterraneo deve tornare a essere una priorità dell’Unione europea e della comunità internazionale”, hanno chiesto ieri, in un appello comune, Unhcr e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). L’imbarcazione della quale no si hanno più notizie era partita giovedì scorso, 18 febbraio, dalla Libia con a bordo 120 persone tra le quali sei donne, una incinta, e quattro bambini. “Dopo circa 15 ore il gommone ha cominciato ad imbarcare acqua e le persone a bordo hanno provato in ogni modo a chiedere soccorso. In quelle ore, sei persone sono morte cadendo in acqua mentre altre due, avendo avvistato un’imbarcazione in lontananza hanno provato a raggiungerla a nuoto, annegando”, spiegano Unhcr e Oim. “Dopo circa tre ore la Vos Triton si è avvicinata per effettuare un salvataggio ma nella difficile e delicata operazione moltissime persone hanno perso la vita in mare. Solo un corpo è stato recuperato. Fra i dispersi ci sarebbero, 3 bambini e 4 donne, di cui una lascia un neonato attualmente accolto a Lampedusa”. Dall’inizio dell’anno sono già 160 le persone che hanno perso la vita nel mediterraneo centrale, che con quella delle Canarie è una delle rotte più pericolose al mondo, ma sono decine di migliaia quelle che sono vittime della violenza delle milizie. Secondo i dati dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, infatti, su un totale di oltre 3.800 persone arrivate in Italia via mare dal 1 gennaio al 21 febbraio, 2.527 sono partite dalle coste libiche. A queste vanno aggiunte oltre 3.580 persone che nello steso periodo per l’Oim sono state intercettate in mare e riportate in Libia, dove - costrette a subire una condizione di detenzione arbitraria - corrono il rischio di diventare vittime di abusi, violenze e gravi violazioni di diritti umani. “La Libia non è da considerarsi un porto sicuro e deve essere fatto ogni sforzo affinché le persone recuperate in mare non vi vengano riportate”, hanno ribadito anche ieri le due organizzazioni delle Nazioni unite. “In linea con gli obblighi internazionali il dovere di salvare persone alla deriva in mare deve sempre essere rispettato, indipendentemente dalla loro nazionalità e dello status giuridico”. “Il fatto che rifugiati e migranti continuino nel tentativo disperato di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo centrale è la riprova della necessità di uno sforzo internazionale immediato per offrire ad essi alternative valide”, hanno aggiunto Oim e Unhcr. Che poi hanno concluso: “Le soluzioni ci sono, ciò che serve è un cambio di passo per rafforzare l’accesso all’istruzione e per aumentare i mezzi di sostentamento disponibili nei Paesi lungo la rotta”. Un appello alle “autorità nazionali e sovranazionali” perché vengano riattivati i soccorsi nel mediterraneo è stata lanciato anche dal Centro Astalli: “Non soccorrere i naufraghi e rimandare i migranti in Libia - ha ricordato il centro - è contrario alle convenzioni internazionali in vigore in tutti i paesi Ue oltre che ai basilari principi di umana solidarietà”. Bombe italiane sullo Yemen, sì all’indagine su Rwm e Uama di Chiara Cruciati Il Manifesto, 25 febbraio 2021 Una famiglia sterminata nel 2016 da un ordigno prodotto a Domusnovas, il gip di Roma rigetta l’archiviazione per l’azienda sarda e l’Autorità della Farnesina. I nuovi dati: 233mila vittime di guerra, 83 miliardi in armi dall’Europa all’Arabia saudita. L’8 ottobre 2016 gli yemeniti sapevano già riconoscere il fischio delle bombe sganciate da un caccia. Era trascorso ormai un anno e mezzo dall’inizio dell’operazione a guida saudita contro lo Yemen. L’avevano ribattezzata “Tempesta decisiva”, si aspettavano una guerra lampo, ma Riyadh e i suoi alleati (dagli Emirati all’Egitto) hanno trovato - così dicono in tanti - il loro Vietnam. Quel giorno, alle 3 di notte, il villaggio di Deir Al-Hajari, nel nord-ovest del paese, vide cadersi sopra le bombe sganciate da un caccia saudita. Una casa rasa al suolo, una famiglia sterminata: la madre incinta, il padre e i quattro figli. Sul luogo della strage di civili (testimoni raccontarono che vicino non c’erano postazioni militari dei ribelli Houthi), furono trovati resti di una bomba prodotta negli stabilimenti di Rwm Italia, la filiale sarda della tedesca Rheinmetall, riconoscibile dal numero di serie. Quella bomba, come tantissime altre prima e dopo, era stata venduta da Rwm all’Arabia saudita grazie a una licenza concessa dal governo italiano, tramite Uama, l’Autorità nazionale per l’esportazione di armamenti. Per questo tre organizzazioni (Ecchr - Centro europeo per i diritti costituzionali e umani, Rete italiana Pace e Disarmo e la ong yemenita Mwatana) nell’aprile 2018 avevano presentato denuncia alla Procura di Roma perché indagasse le responsabilità dell’azienda di Domusnovas e i vertici di Uama. Un anno e mezzo dopo, nell’ottobre 2019, la Procura aveva chiesto l’archiviazione, una decisione appellata dalle tre organizzazioni. E ora è arrivata la risposta: il giudice per le indagini preliminari ha rigettato l’archiviazione, la Procura dovrà continuare a indagare penalmente Rwm e Uama per il ruolo svolto nella strage di Deir al-Hajari, una delle tante di cui in questi anni si è macchiata la coalizione anti-Houthi ma che diviene simbolo, prova concreta della globalità di una guerra che ha avuto come principali obiettivi zone residenziali, infrastrutture civili, ospedali, scuole, nel chiaro obiettivo di devastare la rete economica, sociale e civile dello Yemen. “Accogliamo con favore la decisione di continuare l’indagine penale relativa all’attacco mortale a Deir al-Hajari - hanno scritto ieri in una nota le tre organizzazioni - Questa decisione dà speranza a tutti i sopravvissuti agli attacchi aerei mortali senza un obiettivo militare identificabile e che hanno invece ucciso e ferito civili”. Centinaia di migliaia di persone. Lo scorso dicembre l’agenzia dell’Onu Ocha aggiornava i dati sulle vittime del conflitto iniziato nel marzo 2015, numeri molto più alti di quanto finora calcolato: 233mila morti, di cui 131mila per cause indirette, ovvero fame e malattie. Ora l’indagine italiana potrebbe dimostrare il nesso, denunciato da anni dalle società civili europee, tra le armi vendute con l’avallo dei governi occidentali e la catastrofe umanitaria yemenita. Le prove non mancano, i dati dell’export sono pubblici (vi invitiamo a navigare nel database dell’Unione europea, dove è possibile sapere quali armi e di quale valore ogni paese membro ha venduto a uno Stato estero): nel caso italiano 105 milioni in armi nel 2019, 13 nel 2018, 52 nel 2017 e così via. In totale l’Europa, dal 2013 al 2019, ha concesso licenze a Riyadh per 83,3 miliardi di euro. È in tale contesto che lo scorso 29 gennaio il governo italiano ha deciso di revocare le licenze, già autorizzate ma non consegnate, a Riyadh e Abu Dhabi. Una decisione storica, in linea con la legge 185 del 1990 che vieta la vendita di armi a paesi coinvolti in conflitti o violatori dei diritti umani. Tra le celebrazioni di chi da anni si batte per fermare il business militare, si è sollevata la voce contraria dell’azienda che ha fatto ottimi affari con le petromonarchie, la Rwm. “Provvedimento ad aziendam”, aveva protestato l’ad Sgarzi. Rwm, già nei mesi passati, aveva giustificato casse integrazioni e mancati rinnovi dei contratti con la temporanea sospensione delle vendite ordinata dal governo nel luglio 2019. Eppure, come abbiamo scritto su queste pagine, ha lavorato: in cantiere c’erano commesse da centinaia di milioni di euro per Qatar e Turchia. E anche per Riyadh, vecchie licenze non ancora consegnate. Altro che crisi. Siria. Ex agente dei servizi di Assad condannato in un processo storico di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 25 febbraio 2021 Quattro anni e mezzo di carcere per Eyad al-Gharib. Il tribunale di Coblenza lo ha riconosciuto colpevole di complicità in crimini contro l’umanità. È il primo procedimento al mondo sui misfatti del regime di Damasco. Quattro anni e mezzo per essere stato complice nelle sistematiche torture del regime siriano: Eyad al-Gharib non era solo una rotella nel sadico ingranaggio della dittatura di Bashar al-Assad, un agnellino che commetteva atrocità perché costretto, come aveva tentato di dimostrare la difesa. La Corte regionale di Coblenza lo ritiene colpevole e lo ha condannato per complicità nei crimini contro l’umanità. La procura aveva chiesto cinque anni e mezzo; la difesa, l’assoluzione. Il verdetto è storico: la Germania è il primo Paese ad assumersi il compito di processare gli aguzzini di Assad. In mancanza di un Tribunale internazionale che giudichi anni di prigioni segrete, di sistematiche sevizie e persecuzioni, è a Coblenza che si tiene in questi mesi una Norimberga della Siria. Un procedimento unico al mondo che, forte della legge sulla giurisdizione universale, sta cercando di mettere alla sbarra alcuni uomini dei servizi che si macchiarono di crimini indicibili. E di mandare un segnale chiaro ai tanti torturatori e assassini che negli anni scorsi cercarono riparo in Europa e in Germania, mescolati tra i profughi. La sentenza si è concentrata in particolare su un giorno dell’autunno del 2011, quando migliaia di persone manifestano a Douma contro il regime. Hafez Makhlouf, capo della famigerata sezione 40 dei servizi segreti e cugino di Assad, monta in macchina e spara raffiche di mitra sulla folla. Almeno tre persone muoiono sul colpo, altre due più tardi, per le ferite. Trenta manifestanti vengono arrestati, ed Eyad al-Gharib, che lavora per Makhlouf, è sul mezzo di trasporto con cui vengono trasferiti nelle carceri segrete dei servizi e dove vengono già picchiati. Un antipasto delle torture con bastoni, elettroshock e altre atrocità che subiranno più tardi. Al-Gharib, secondo l’accusa e secondo la corte di Coblenza sapeva, era complice. Il processo di Coblenza prosegue, ora, contro l’accusato principale, Anwar R., un ex capo dei servizi accusato di 58 omicidi avvenuti in una prigione segreta di Damasco dove furono torturati almeno 4.000 oppositori tra il 2011 e il 2012.