Sul carcere Cartabia sarà divisiva di Maurizio Crippa Il Foglio, 24 febbraio 2021 Il tema le è caro e avrà libertà d’azione (e di lite con Salvini). I provvedimenti necessari (obbligatori) per migliorare il sistema di giustizia civile sono scritti nelle Country specific recommendation per il 2019-20 a cui puntualmente rimanda il Next Generation Eu, come ha indicato Mario Draghi nel discorso per la fiducia. Poco o niente spazio per litigare, o per procrastinare, da parte dei partiti delle larghissime intese. Poco o niente spazio per litigare anche sulla riforma della prescrizione. Come dimostra l’odg concordato in commissione Giustizia dalla neo ministra Marta Cartabia, dopo che Fratelli d’Italia aveva provato a far esplodere la contraddizione (“Il nuovo ministro della Giustizia si comporta esattamente come il suo predecessore”) con un emendamento al Milleproroghe che chiedeva di cancellare l’abolizione della prescrizione di bonafediana memoria. Emendamento bocciato, governo che si impegna “ad adottare le necessarie iniziative di modifica normativa ma solo all’interno delle riforme della complessiva riforma dei processi”. Augurandosi che gli interventi di giustizia civile procedano su un binario spedito, ed essendo evidente che la modifica della prescrizione non verrà affrontata (curiosamente, nei giorni dei “tavoli” per cercare una maggioranza per il Conte ter, Andrea Orlando aveva proposto a Italia viva una soluzione analoga: intervenire sulla prescrizione solo se la riforma del processo penale non fosse arrivata in tempi certi. I renziani, sdegnosamente, rifiutarono) resta da domandarsi quali saranno il compito specifico e il raggio d’azione del presidente emerito della Corte costituzionale, chiamata come tecnico d’alto rango a Via Arenula. La nomina di Cartabia, costituzionalista, docente alla Bocconi, con vasta esperienza in sedi internazionali, è stata una delle più annunciate e meno messe in discussione durante la formazione del nuovo governo, e non soltanto per la nota stima di Sergio Mattarella oltre che di Draghi. In un settore che necessita di interventi persino drammatici, e ulteriormente devastato dall’ordalia grillina, serviva una personalità riconosciuta e non politica. Ma il campo d’azione non è esteso. Eppure c’è un settore ugualmente cruciale e su cui - per esperienza giuridica e per sensibilità - Cartabia potrebbe concentrare l’attenzione: le carceri e il sistema dell’esecuzione penale nel suo complesso. Nel suo percorso professionale e personale Cartabia ha incrociato più volte quei “pensieri impensabili che erano in attesa di essere pensati” - come scrive il criminologo e saggista Adolfo Ceretti in un breve libro scritto proprio assieme a Cartabia, Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione, edito da Bompiani, che rifletteva sulle idee di giustizia, pena, riconciliazione di Carlo Maria Martini. Il pensiero “in attesa di essere pensato”, appunto, di un’altra giustizia possibile. In un incontro di presentazione, aveva espresso “la convinzione che l’uomo può sempre essere salvato e che la pena deve essere volta a sostenere un cammino di recupero” e auspicato “la costruzione dì un sistema che assicuri l’armonia dei rapporti sociali; una cura che salvi insieme assassino e città”. La “sua” Corte costituzionale è stata per la prima volta protagonista di visite nelle carceri: partendo da Rebibbia, il 4 ottobre 2018. E poi San Vittore, il minorile di Nisida e altri. Non è casuale che tra i sostenitori più speranzosi del suo mandato ci siano i Radicali come Rita Bernardini. Una delle strade è proprio riprendere in mano la riforma dell’esecuzione penale, che era stata malamente abbandonata ai tempi della riforma Orlando e poi definitivamente “buttata con la chiave” dal primo governo Conte, il più giustizialista della storia repubblicana. Va anche ricordato che la Consulta guidata da Cartabia ha portato attenzione sistematica ai “terreni del diritto penitenziario e dello stesso diritto penale sostanziale” (come si legge nella sua ultima relazione da presidente), ad esempio sui meccanismi premiali. Insomma una conoscenza anche diretta e una concezione del carcere come luogo non solo di erogazione di pene, ma anche di finalità rieducativa. Visione diametralmente opposta a quella di scuola Bonafede, il ministro che puntava ad abolire le misure alternative al carcere. Nel suo “principio della certezza della pena” il trattamento umano dei carcerati sottostava inderogabilmente “al principio inderogabile che chi sbaglia paga” (disse a Radio radicale). L’unica modalità di espiazione della pena era la detenzione, il resto “tutt’al più” poteva esser concesso “dopo anni”. Sull’altro lato della maggioranza di governo, il carcere è un terreno in cui è inevitabile lo scontro con la Lega, se l’Infiltrato Salvini ritenesse di non dover abdicare almeno a una delle sue bandiere, quella del “buttare la chiave”. L’intervento è urgente, come dimostrano non solo le sentenze europee ma anche la situazione sanitaria degenerata in questi mesi. Quale possibilità di manovra potrà avere Cartabia, e che sostegno reale da parte dei partiti (spesso soi disant) garantisti della maggioranza, si vedrà presto. Così come le regole d’ingaggio con il fronte giustizialista: calcolando che, dall’opposizione, in caso di “cedimenti” della Lega, Giorgia Meloni avrà gioco facile contro Salvini. Carceri un anno dopo le rivolte: lo sgomento del garante nazionale sull’indifferenza radiocittafujiko.it, 24 febbraio 2021 È passato quasi un anno da quando nelle carceri italiane si manifestarono rivolte dei detenuti connesse all’inizio della pandemia. Erano infatti i primi giorni di marzo quando, negli istituti di pena di diverse città italiane, le persone recluse iniziarono drammatiche forme di protesta, incendiando materassi, salendo sui tetti e barricandosi all’interno. 15 morti fu il tragico bilancio di quelle giornate, con tentativi di archiviare velocemente quei fatti da parte delle istituzioni carcerarie che non sempre hanno incrociato la posizione della magistratura. Diverse, infatti, sono le inchieste aperte nel tentativo di vederci chiaro. Per ricordare quei fatti e sviluppare una riflessione ad un anno di distanza, “Liberi dentro - Eduradio”, la trasmissione sul carcere in onda sulle nostre frequenze ogni giorno alle 9.00, ha intervistato Mauro Palma, già presidente dell’Associazione Antigone e attuale Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Palma ha recentemente incontrato la neo-ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per affrontare alcuni nodi irrisolti che riguardano il mondo delle carceri. Carceri, un anno dopo le rivolte: l’intervista al garante nazionale Siamo quasi a un anno dalle rivolte scoppiate nelle carceri, quale lettura ne dà lei oggi? “La prima lettura che do è che guardo con un certo sgomento come l’intellettualità italiana, il mondo culturale e quello istituzionale abbiano archiviato con grande facilità una situazione che invece è drammatica per il numero di morti che non si era registrato nelle vicende passate. Questo, prima ancora della questione dell’accertamento di responsabilità su cui ho piena fiducia nella magistratura. E credo anche che tutti sappiano che c’è un punto di controllo dal garante nazionale che ha nominato un proprio avvocato, un proprio perito. Ma prima ancora dell’accertamento giudiziario, questo ci deve far riflettere perché è stato un brutto segnale inviato al mondo detentivo, quasi questo sia un mondo a parte, rispetto al quale anche se si muore c’è un disinteresse della collettività”. Lei ha detto “è un po’ mondo a parte”. Come sta vivendo questa fase storica della pandemia sul fronte dei diritti del quale lei è chiamato ad essere garante nazionale, e quali richieste urgenti porrà sul tavolo del nuovo ministro della Giustizia, Marta Cartabia? “Il punto centrale attorno al quale ruotano le mie osservazioni, critiche e richieste alla nuova ministra della Giustizia, nasce dal fatto che non esistono mondi separati, che la collettività sociale è un tutt’uno e che il carcere deve tornare ad essere una parte della nostra società. Una parte problematica, che rappresenta la parte difficile del nostro corpo sociale, ma se non si esaminano le parti difficili si finisce col non riconoscere la positività della parte facile. Certamente, poi, questa richiesta si articola in più punti. Con la senatrice a vita Liliana Segre abbiamo fatto una proposta pressante, e devo dire abbiamo avuto risposta positiva al fatto che la corporazione detenuta sia considerata al pari di tutte le altre collettività chiuse, come le residenze sanitarie e assistenziali. E quindi, vi sia data precedenza sui vaccini, e abbiamo ora assicurazione da parte del governo. Ma accanto a questo c’è anche il problema, che sento di discutere ad esempio nei dibattiti televisivi, del rapporto tra giovani, scuola e non perdere la socialità. Un problema a tutti i livelli è la scolarità del mondo detentivo. La scolarità del mondo detentivo in molti casi si è interrotta, e accanto si è interrotta anche quell’elemento positivo del nostro sistema penitenziario che è il fatto di avere un grande volontariato, grande attività sociale, che entrano nelle carceri. Se perdiamo questo, che è quasi l’unico valore aggiunto che ha il nostro sistema, ci rimangono soltanto dei corridoi vuoti, delle celle che in realtà spesso non sono neanche adeguate agli standard nazionali ed internazionali”. La pandemia ha portato anche gli smart-phone per il diritto dei detenuti a contattare i propri familiari. Ma quali altri sviluppi si possono immaginare per l’utilizzo delle tecnologie, che non si era mai pensato prima, per le telecomunicazioni e anche per la scuola online? “Io ho avuto pochi giorni fa un incontro con una capo dipartimento delle Risorse del Ministero dell’Istruzione relativamente al problema della continuità della formazione, e avremo un incontro operativo attorno al 17. Bisogna dotare le aule scolastiche carcerarie della strumentazione che possa andare incontro a questa esigenza, e prenderla come un’occasione per ricordare un punto: la scuola e l’università in carcere non sono degli invitati aggiunti, sono degli attori essenziali. Non sono delle persone più o meno tollerate, come degli ospiti che prima o poi se devono andare. Sono uno degli elementi essenziali, e il dialogo che avviene tra l’istituzione scolastica e il ministero della giustizia deve essere un dialogo inter istituzionale, non di chi è il padrone di casa e chi è temporaneamente lì dentro. Devo dire che ho trovato molta sensibilità nel Ministero dell’Istruzione. Si tratterà di fare una pianificazione e capire che non è che tutti gli indirizzi scolastici possono essere attivati in tutti gli istituti penitenziari. Si dovrebbero fare degli istituti in cui si sa anche qual è l’offerta formativa, ed eventualmente i detenuti che vogliono seguire quei corsi essere trasferiti in quegli istituti, e seguire i corsi. È un ragionamento che stiamo un po’ avviando”. Rivolta carceri e proteste: le nuove (contestate) linee guida di Gabrielli di Lorenza Pleuteri osservatoriodiritti.it, 24 febbraio 2021 Arrivano con una circolare riservata firmata dal capo della polizia, Franco Gabrielli, le nuove disposizioni per gestire le rivolte nelle carceri italiane. Ma molti addetti ai lavori sollevano dubbi e critiche sul metodo usato e sul contenuto del documento. Fanno discutere e dividono, mettendo al centro dell’attenzione il sistema carcerario e il bilanciamento di poteri e prerogative, le linee guida varate dal capo della polizia Franco Gabrielli per pianificare e coordinare gli interventi da attuare in caso di rivolte e in occasione di presidi di solidarietà ai carcerati. Con una circolare riservata datata 29 gennaio e resa nota da Repubblica, il numero uno del Dipartimento di pubblica sicurezza fissa i passaggi da seguire se e quando scoppieranno altri disordini dietro le sbarre e precisa ruoli e procedure, con l’obiettivo dichiarato di stabilire esattamente chi fa cosa e di gestire in modo più efficace e sinergico situazioni critiche e problemi di ordine pubblico e sicurezza. Durante la rivolta nelle carceri italiane di marzo 2020 morti 13 detenuti - Nelle sommosse di inizio marzo 2020, senza precedenti nella storia delle patrie galere, si intervenne sull’onda dell’emergenza e senza protocolli predeterminati. Interi reparti furono devastati, dal penitenziario di Foggia evasero decine di carcerati, si contarono decine di feriti tra gli agenti della polizia penitenziaria e le persone detenute e i danni si contarono in milioni di euro. E morirono 13 detenuti, in circostanze ancora tutte da chiarire. Una strage. Inizialmente si parlò di overdosi di metadone e psicofarmaci razziati nelle farmacie saccheggiate, poi sono arrivate denunce di abusi, pestaggi e omissioni. Le procure stanno ancora indagando, rimpallandosi i fascicoli, avviati contro ignoti. A Bologna pende una richiesta di archiviazione per il ragazzo deceduto alla Dozza. Cosa fare in caso di rivolta: domande, perplessità, obiezioni - Ora si cerca di correre ai ripari, mettendo a punto procedure e criteri di intervento pianificati a tavolino, a monte. Lo strumento scelto e i contenuti non trovano però tutti d’accordo. Le nuove diposizioni non coinvolgono solo polizia, carabinieri, guardia di finanza e gli uffici territoriali del Viminale, con la competenza in materia di ordine pubblico e sicurezza. Riguardano anche polizia penitenziaria e vigili urbani, protezione civile, esercito, servizi sanitari, altri ministeri, strumenti da utilizzare (mezzi con idranti, ad esempio), misure accessorie (la chiusura di strade). E si incrociano con leggi e normative che disciplinano il delicato settore penitenziario e i lavoratori del comparto, in divisa e no. Una questione non da poco, portata all’attenzione dell’opinione pubblica da chi nelle strutture detentive lavora. “Possono semplici disposizioni di rango amministrativo - chiedono gli operatori più perplessi - incidere su aspetti e funzioni regolate da norme e decreti? Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è stato coinvolto nella stesura delle linee guida e, se sì, in quale modo?”. E, ancora: “Tutti i ministri interessati sono stati messi al corrente dell’elaborazione delle linee guida e in che fase?”. Che cosa dice la circolare Gabrielli - I prefetti, chiamati a stilare piani provinciali di intervento, sono invitati a convocare appositi Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica e a coinvolgere i direttori delle carceri presenti sul territorio e i comandanti locali della polizia penitenziaria, chiamando in causa anche gli investigatori e gli analisti del Nucleo investigativo centrale del corpo e il Gruppo operativo mobile (reparti specializzati della stessa polizia penitenziaria). La traduzione tecnico-operativa della pianificazione verrà poi fatta dai questori, a capo della catena di comando. Le misure saranno graduate e progressive, calibrate in base ai possibili scenari. Nelle situazioni meno critiche si prevede un “mero ma visibile dispiegamento della forza pubblica, posizionata in assetto di pronto intervento nei pressi dell’intercinta, a scopo dissuasivo e preventivo”. L’accesso e l’azione all’interno di un istituto in rivolta si potranno invece verificare esclusivamente in via residuale e straordinaria e solo dopo che siano stati esperiti tutti i sistemi di contenimento e le risorse a disposizione dell’amministrazione penitenziaria”. Rivolta carceri: chi autorizza l’ingresso di personale armato - Uno dei punti che solleva più dubbi è la presenza di personale esterno armato dentro gli istituti di pena. La riforma penitenziaria del 1975 prevede che gli agenti in servizio all’interno del carcere - e il riferimento sembra essere alla sola polizia penitenziaria - non possono portare armi. Solo il direttore può decidere in che circostanze devono dotarsi di pistole. La circolare Gabrielli non dice esplicitamente se il direttore dovrà dare il nulla osta anche all’ingresso di poliziotti, carabinieri e finanzieri armati. Stabilisce che il questore, in situazioni di eccezionale gravità e dopo la richiesta di rinforzi formulata dalla direzione ai referenti o alla prefettura, avvierà immediati contatti con il comandante della polizia penitenziaria (e non con il direttore) e deciderà se dare all’ufficiale la regia delle operazioni o se affiancargli un funzionario della questura. Non si esclude, nemmeno all’intero degli istituti, il ricorso al reparto Mobile. “Però la legge - viene fatto osservare dai dissidenti - pone tutto il personale penitenziario alle dirette dipendenze del direttore, verso cui gli appartenenti alla polpenitenziaria hanno doveri di subordinazione”. Anarchico-insurrezionalisti considerati un pericolo dalla circolare Gabrielli - Per eventi di estrema gravità è prevista l’attivazione dell’Unità di crisi della prefettura, con la possibilità di mobilitare le teste di cuoio dei reparti speciali (Nocs della polizia e Gis dei carabinieri). Un’attenzione particolare, lo prevede sempre la circolare Gabrielli, sarà data alle “iniziative di dissenso poste in essere nei pressi delle stesse strutture”, cioè a presidi e picchetti e in particolare a quelli promossi da anarchico-insurrezionalisti, citati esplicitamente. Per scongiurare e contrastare azioni violente si esplicita la possibilità di usare idranti, elicotteri e reparti Mobili, mettendo in preventivo la chiusura di strade e vie d’accesso. La protesta dei direttori delle carceri italiane - Sui siti d’area e tra i familiari dei detenuti cresce la protesta. E voci critiche arrivano anche dal fronte interno, da coloro che leggono nelle disposizioni un ridimensionamento delle responsabilità e dei poteri dei direttori, pur riconoscendo la necessità di pianificare e raccordare gli interventi anti sommosse. Le nuove linee guida, viene rammentato, vanno a impattare sulle prerogative e sui compiti di chi ha la responsabilità degli istituti e del personale, attribuzioni che sono stabilite da leggi, regolamenti e decreti. I primi a sbilanciarsi sono stati i vertici della Cgil- Funzione pubblica. Il via libero all’ingresso nelle carceri di poliziotti, carabinieri e finanzieri, canonizzato dalla circolare, è visto come “una sconfitta”. Singoli appartenenti all’amministrazione penitenziaria hanno fatto filtrare malumori e preoccupazioni. Poi ha preso posizione il segretario nazionale del Sindacato dei direttori penitenziari, il Sidipe, con una lettera aperta al ministero di Giustizia e ai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del Dipartimento per la giustizia minorile, cui fanno capo gli istituti per minorenni e giovani detenuti (fino a 25 anni di età). “Trasparenza dell’amministrazione penitenziaria da tutelare” “Quello penitenziario - ricorda il numero uno del Sidipe, Rosario Tortorella, precisando di non avere avuto copia della circolare Gabrielli - è un contesto del tutto peculiare e specifico ed è regolato da proprie norme, anche di rango primario, che declinano un concetto di ordine, sicurezza e disciplina proprio degli istituti penitenziari. (…) Non vogliamo credere che le “linee guida” possano inficiare o modificare questo complesso ed articolato quadro normativo, posto a tutela della legalità e della trasparenza dell’azione della stessa amministrazione penitenziaria, né sarebbe possibile, neppure in via analogica o interpretativa, una pedissequa trasposizione all’ambiente penitenziario delle regole che disciplinano la tutela dell’ordine pubblico, afferente la sicurezza all’esterno delle carceri”. Altro rilievo, sempre del sindacato dei direttori: le disposizioni del capo della polizia non prendono in considerazione gli istituti penali minorili, apparentemente tagliati fuori dalla circolare, ma non immuni dal rischio di rivolte. “Sì al dialogo, no interferenze”: la gestione della rivolta dei detenuti - La Cgil Funzione pubblica, attraverso i responsabili nazionali Carla Ciavarella e Florino Oliverio, riconosce la necessità di fornire “regole di ingaggio”. Ma va oltre, in una nota indirizzata al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: la circolare Gabrielli, sostiene, “ha suscitato forti perplessità relativamente alla declinazione delle linee operative da adottare nel caso in cui, eccezionalmente, si renda necessario l’intervento delle altre forze di polizia dall’esterno per ristabilire l’ordine e la sicurezza interna negli istituti. Le linee guida sembrano obbligare la nostra amministrazione ad appiattirsi sul terreno della pubblica sicurezza come se avessimo nel frattempo dimenticato che il ricorso all’ausilio di altre forze di polizia resta un evento estremo da invocare solo quando tutte le altre strade di dialogo, mediazione, depotenziamento dei rivoltosi non abbia avuto esito positivo. Non può e non deve sussistere alcuna interferenza tra le attività di competenza dell’autorità preposta all’ordine pubblico, svolte all’esterno del muro di cinta, e quelle autorizzate all’interno dal direttore e attuate dalla polizia penitenziaria”. Il sostegno alle nuove linee guida in caso di rivolta nelle carceri italiane - Nel fronte dei favorevoli alle linee guida si è schierata l’Associazione nazionale dei dirigenti e dei funzionari della polizia penitenziaria: la circolare è definita “storica e di portata eccezionale”. Anche i curatori del blog di ultradestra “storiedipoliziapeniteziaria” approvano le disposizioni per la pianificazione e per azioni coordinate, con un solo appunto a Gabrielli: aver ignorato l’esistenza dei Gil, i gruppi rapidi di intervento locale della polizia penitenziaria, creati in Lazio e in Campania dopo le rivolte e attivabili per operazioni veloci e mirate nei reparti carcerari fuori controllo. Tortura e Costituzione, c’è un giudice a Siena di Sofia Ciuffoletti* Il Manifesto, 24 febbraio 2021 Con sentenza del 17 febbraio 2019, il Gup di Siena, Jacopo Rocchi, ha condannato con rito abbreviato dieci agenti di polizia penitenziaria per fatti qualificati come tortura, commessi nella Casa di Reclusione di Ranza, San Gimignano, nell’ottobre 2018. Le condanne vanno dai 2 anni e 8 mesi ai 2 anni e 3 mesi (con la riduzione per il rito abbreviato). Si tratta di un troncone dell’indagine che coinvolge quindici agenti di polizia penitenziaria e che vedrà come imputati, in fase dibattimentale, gli altri cinque agenti, considerati i “mandanti” della spedizione punitiva. È la seconda decisione in tema di “tortura di stato” (dopo la recentissima condanna di Ferrara a carico di un agente di polizia penitenziaria). La storia dell’introduzione nell’ordinamento italiano del reato di tortura è costellata di incidenti, ritardi e ambiguità. Ritardi perché l’Italia, pur avendo ratificato la Convenzione contro la Tortura delle Nazioni Unite del 1984, ha persistito per decenni nell’inadempimento a un obbligo di diritto internazionale, non introducendo il reato di tortura nel suo ordinamento. A dire il vero, l’Italia in primo luogo latitava rispetto al proprio stesso assetto costituzionale, alla “Costituzione più bella del mondo”, che all’art. 13 introduce (unica fattispecie punitiva inserita nel testo costituzionale dalle madri e dai padri costituenti) l’obbligo di punire “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. A quest’obbligo risponde la sentenza del Gup di Siena, affermando in modo chiaro nel dispositivo la natura di fattispecie autonoma del reato di tortura di stato. La legge 110/2017 che introduce in Italia (con “soli” 29 anni di ritardo) il reato di tortura di cui all’art. 613 bis c.p., era stata da più fronti criticata proprio per aver introdotto una fattispecie di reato comune, restando ambigua la natura della tortura commessa da state agents. Le critiche erano corrette, dal momento che ancora oggi, leggendo l’accidentato iter legislativo della l. 110/2017, troviamo che si parla della tortura di stato come “fattispecie aggravata”. Una interpretazione siffatta avrebbe esposto l’Italia alla censura della Corte Europea EDU (la vera master del reato di tortura, con la sua sterminata giurisprudenza in tema di art. 3, divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti) e avrebbe tradito la Costituzione italiana e le istanze di tutela penale per la tortura perpetrata da agenti dello stato, che discendono sia dalla Convenzione ONU che dal diritto di Strasburgo. La magia del diritto, però, sta nel fatto che esso vive nell’interpretazione che ne fanno le Corti e oggi un giudice penale rimette il timone dell’esegesi domestica in linea con la tradizione del diritto internazionale. La tortura è primariamente tortura di stato e la decisione di Siena segna -finalmente - l’affermazione dell’habeas corpus nell’ordinamento italiano. Dall’altra parte, la sentenza finalmente “prende sul serio” la voce e la dignità alle persone detenute in Italia, rifiutando la logica (improponibile in uno stato di diritto) dell’obbedienza all’ordine (criminale) del superiore e riconoscendo il risarcimento del danno per il detenuto, vittima diretta del reato di tortura, nella misura di 80.000 euro, l’intera somma richiesta dalla difesa. Una somma che per la sua consistenza ci dice che i diritti delle persone detenute pesano e che la loro voce conta! Latita però il Ministero della Giustizia. Poteva e doveva (forse può e deve, per ciò che riguarda il secondo filone in fase dibattimentale e con il nuovo corso di via Arenula) costituirsi parte civile, anche in nome di tutte le agenti e gli agenti di polizia penitenziaria che fanno il proprio (difficile) dovere ogni giorno nel rispetto della legalità e dei diritti. *Direttrice L’Altro diritto Covid e carcere: un webinar tra terzo settore e istituzioni di Marco Tassinari apg23.org, 24 febbraio 2021 53mila persone vivono recluse in promiscuità. Una bomba da disinnescare prima che esploda. Giovedì il webinar. Covid-19 e carcere: una emergenza nell’emergenza. Mentre le varianti del coronavirus mettono a dura prova il piano di contenimento e di cura della pandemia, oltre 53 mila persone vivono rinchiuse nelle carceri italiane in condizioni di promiscuità: un rischio enorme per loro, per i familiari, per il personale che lavora negli istituti penitenziari. Nell’ottica proposta dal neo-presidente del Consiglio Mario Draghi di “trasformare la crisi della pandemia in opportunità”, la Comunità Papa Giovanni XXIII ha organizzato per giovedì 25 febbraio alle ore 10:30 un seminario dal tema Carcere, Covid-19 e Comunità che potrà essere seguito sulla pagina Facebook della Papa Giovanni o sul sito www.apg23.org/it/lifeapg23tv/ L’obiettivo, spiegano gli organizzatori, è “cogliere gli elementi di crisi del sistema attuale e offrire valide proposte alternative da sottoporre al nuovo Governo”. Il confronto prevede gli interventi di Riccardo Turrini Vita, Direttore Generale della formazione, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; Giovanni Paolo Ramonda, Presidente Comunità Papa Giovanni XXIII; Patrizio Gonnella, Presidente Associazione Antigone; Alfredo Bazoli, Deputato della Commissione giustizia; Marcello Marighelli, Garante dell’Emilia Romagna delle persone private della libertà personale; Bartolomeo Barberis, Responsabile Comunità Terapeutiche della Giovanni XXIII. Al termine un “question time” con il giornalista di Avvenire Pino Ciociola. Nel corso dell’incontro Giorgio Pieri, autore del libro Carcere, l’alternativa è possibile (Sempre Editore, in libreria dal 18 febbraio) porterà una testimonianza sul funzionamento delle Comunità Educanti con i Carcerati (CEC). “Il carcere attuale è superato - sottolinea Pieri. Oltre a essere pericoloso per la pandemia, non funziona nel suo scopo rieducativo dato che ogni 1000 persone che terminano la pena, in media 750 tornano a commettere reati spesso peggiori. Nelle comunità invece i delinquenti si pentono davvero e quando escono, tranne una minoranza che non supera il 15%, sono persone nuove, non più un problema ma una risorsa per la società”. E denuncia: “Per affrontare l’emergenza Covid, lo stato è disposto a finanziare l’accoglienza in comunità. È una bellissima notizia. Purtroppo pur avendo molte associazioni dato la propria disponibilità, molte comunità restano vuote; sono stati occupati meno di un quarto dei posti disponibili”. Anche di questo si occuperà il webinar. Cittadinanza, legalità e Case Lavoro di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 24 febbraio 2021 Sebbene limitati dal coronavirus e costretti a seminari e convegni on line, non si arresta la riflessione sulla legalità e la detenzione. Due sono state le occasioni per sensibilizzare opinione pubblica e addetti ai lavori su questi temi. Il primo, un seminario promosso il 5 febbraio da “Capitale Torino” e moderato da Francesco Tresso, vicepresidente della Commissione per la legalità e il contrasto dei fenomeni mafiosi, sul tema “Cittadinanza, legalità e sicurezza”, ha chiamato a raccolta tutti gli attori che in città operano per garantire la convivenza civile dai Penitenziari (Simona Vernaglione, direttore del Ferrante Aporti) all’Ufficio di esecuzione Penale (Domenico Arena, direttore Uepe), dai garanti dei detenuti (Monica Cristina Gallo) ai docenti di Giurisprudenza (Miryam Borrello, Davide Petrini, Lorenzo Grignani) dai vigili del Nucleo di Prossimità (Valter Bouqulè) ai mediatori culturali (Giovanni Ghibaudi). Tutti sono stati coinvolti, come ha introdotto Tresso, per fare il punto sulla situazione della legalità e per sensibilizzare la prossima Giunta comunale, che verrà eletta in primavera, sulla necessità che a Torino la legalità si coniughi con la cittadinanza e perché la sicurezza non diventi paura e diffidenza nei confronti di chi è diverso ma si costruisca con i diritti di ogni cittadino. A questo riguardo - a fronte (secondo i dati Istat) di una diminuzione di omicidi, furti e rapine ma di un aumento di reati informatici e atti persecutori - è in crescita la recidiva di chi ha scontato una pena in carcere: 5 su 8 ex detenuti tornano a delinquere. Un dato preoccupante su cui bisogna riflettere e mettere in atto politiche che prevengano la diffusione dell’illegalità, come hanno sottolineato Monica Gallo, Simona Vernaglione e Domenico Arena perché l’amministrazione è ancora lontana dalle problematiche carcerarie. “Laddove infatti il tempo della pena è ricco di contenuti formativi e di avviamento al lavoro”, ha detto Monica Gallo, “allora la recidiva crolla”. Un concetto ribadito dalla direttrice del carcere minorile Ferrante Aporti, Istituto da sempre fiore all’occhiello in Italia per le attività di reinserimento dei ragazzi, che ha presentato l’iniziativa di creare un teatro all’interno dell’Istituto, aperto alla cittadinanza in modo che i ragazzi siano in contatto con “chi è libero”: “solo così ti puoi sentire cittadino già quando “sei dentro perché non si può imparare a nuotare senza andare al mare”. Più strettamente inerente all’Amministrazione carceraria, il seminario organizzato da Bruno Mellano, Garante dei detenuti della Regione Piemonte giovedì 11 febbraio, sul tema “Senza casa, senza lavoro gli internati in misura di sicurezza e il caso Piemonte”, uno dei tanti drammi “dimenticati” del sistema penitenziario italiano. Si tratta delle “Case-lavoro per gli internati in esecuzione delle misure di sicurezza”, un istituto dell’Ordinamento carcerario mai riformato risalente agli anni 30 e che non ha mai raggiunto la finalità dell’inserimento nella società. A fine gennaio erano 334 le persone internate in colonie agricole o Case-lavoro che in realtà, nel migliore dei casi, sono edifici annessi ai penitenziari, ex strutture carcerarie o ex ospedali psichiatrici se non sezioni all’interno delle galere, tra cui Biella con 53 ristretti (78 sono in Abruzzo, 54 in Emilia Romagna, 35 in Sicilia, 23 in Sardegna e in altre regioni). Obiettivo dei lavori introdotti da Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della Libertà, portare all’attenzione dell’amministrazione della Giustizia un istituto “obsoleto” al limite della costituzionalità e da cancellare “perché frutto di una cultura penalistica e giuridica del secolo scorso che conteneva la marginalità” se si tiene conto che gli internati in quelle che dovrebbero essere Case lavoro (ma di fatto strutture carcerarie con sbarre e agenti) sono persone considerate socialmente pericolose, non condannate, né processate. “Si tratta di “disperati, malati di mente, tossicodipendenti, infermi, stranieri senza documenti, persone fragili”, ha elencato Alessandro Prandi, Garante della Città di Alba, gli scarti della società direbbe Papa Francesco. Giustizia, ricetta in tre punti verso un nuovo umanesimo di Vincenzo Maria Siniscalchi Il Mattino, 24 febbraio 2021 Pareva segnato il destino della Giustizia italiana come “immodificabile” e come paradigma amaro del fallimento di ogni tentativo di ritornare ad una Giustizia fatta di ragionevolezza delle regole, di responsabile riferimento ai diritti della società, pilastro della struttura costituzionale dello Stato repubblicano. Pareva che si spegnesse lentamente l’attesa del recupero elementare di una credibile giurisdizione. Alla giustizia penale, in particolare, ridotta a mero campo di esercizio di prepotenze contro-riformatrici (riferibili ad esempio allo stravolgimento di un istituto giuridico come quello della prescrizione) ed anche l’abbandono di ogni adeguata riflessione sulle avvilenti condizioni della detenzione documentate con encomiabile fermezza e corretta analisi dal garante Mauro Palma e dai rappresentanti regionali del medesimo istituto di garanzia delle condizioni della carcerazione in Italia. Qualcuno scrive che per la Giustizia occorrerebbe dare vita ad un nuovo “umanesimo” che conferisca senso reale alla lotta per l’affermazione del diritto. È una proposta di alto valore culturale e morale. È una proposta di indiscutibile responsabilità eppure, senza volare a quote troppo elevate, sta diventando maturo il tempo di riforme anche minimali che scuotino in special modo, per ciò che attiene al processo penale, il vero e proprio blocco di ogni percorso di recupero a fronte della vera e propria sospensione del diritto che si esprime nella irragionevole durata dei processi! Chiara la violazione dell’art. 111 della Costituzione, la limpida norma che rispecchia la regola europea e delle statuizioni della C.E.D.U. In speciale modo negli ultimi anni, con l’abdicazione completa del dibattito legislativo a favore della decretazione di urgenza (e con l’astratta conflittualità tra “giustizialisti” e “garantisti”) si è sostanzialmente aggredito il processo penale ormai garanzia solo simbolica per i cittadini che vi sono coinvolti sia dello Stato repubblicano che da questa deriva oscurantista registra la sconfitta più mortificante della sua credibilità, in una Magistratura sempre più devastata nei suoi fondamentali valori di garanzia costituzionale. Il Presidente del Consiglio, professor Draghi, nei suoi decisi e chiari interventi programmatici innanzi alle Camere e la professoressa Cartabia Ministra della Giustizia, hanno richiamato l’attenzione sulla necessità di recuperare metodi corretti di accelerazione delle procedure per contenere l’inaccettabile lunghezza del processo penale ma anche sulle altrettanto inaccettabili complicazioni del processo civile ed amministrativo che scontano, tra l’altro, il peso dei lacci e lacciuoli che quelle procedure deprimono. Porre riparo a queste anomalie significherebbe, a parte le ragioni di ripresa di una credibilità della giurisdizione, collegarsi alle ragioni di fondo dei piani europei di sviluppo. In sede parlamentare è stato accantonato conia proposta contenuta per ora in un significativo e vincolante “ordine del giorno”, il problema del recupero alla dignità giuridica dell’istituto della prescrizione. Prima dovrà porsi riparo con urgenza alla costruzione di un quadro legislativo organico e compatibile con la situazione generale per una riforma processuale penale con un impianto organizzativo dopo la individuazione dei “tempi morti”. Possiamo indicare tre punti centrali, che ad avviso dei molti esperti, potrebbero cancellare i ritardi che l’esperienza di ogni giorno fa ricadere su difetti strutturali del processo penale. E si tratta in sintesi: a) di intervenire sulla dilatazione dei tempi prodotti da una arcaica sovrabbondanza di notifiche che soprattutto nei processi con pluralità di imputati potrebbero essere contenute con una più intensa applicazione informatica. La dispersione dei tempi in questi casi produce rinvii che incidono sulla ritardata trattazione delle udienze più utili; quelle per la valutazione delle prove, problema centrale del processo a tendenza accusatoria come il nostro; b) nella fase delle indagini preliminari, vanno rese perentorie le decadenze dei termini di durata delle indagini stabilendo un contenimento delle richieste di proroghe previste per legge individuando un termine per le deleghe alla Polizia Giudiziaria da parte del P.M. In caso di delega alla P.G. (ad esempio per intercettazioni telefoniche o, comunque, per captazioni informatiche) la P.G. dovrà relazionare in sintesi senza operare commenti, interpretazioni, valutazioni che competono al P.M. delegante; c) valorizzare tutti i sistemi informatici, specialmente in fase di giudizio di appello, al fine di potenziare (salvo il caso di rinnovazione del dibattimento) il processo “a distanza”. Ecco, in estrema sintesi, qualche indicazione per un percorso che si ponga lo scopo di iniziare e concludere in termini di tempo ragionevoli il “giusto processo”. Dalla Ministra Cartabia che, da costituzionalista di riconosciuto impegno etico e culturale, da componente e poi Presidente della Corte costituzionale, pensiamo che, proprio in attuazione di quel “moderno meccanismo” di cui si parla, possiamo attenderci una attenzione sensibile per quei primi passi che occorrono per risalire la china. E siamo sicuri che dalla Cartabia, di cui tutti ricordiamo, le limpide pagine scritte con i commenti ai Viaggi nelle carceri italiane (pagina di civiltà indimenticabile che onora la Corte Costituzionale), si apra finalmente un percorso di vero recupero in senso umanistico e riformatore per il mondo delle carceri italiane che si nutra del precetto costituzionale riassunto dall’articolo 27, comma 3 della Carta. Meno gradi di giudizio e più fiducia nello Stato di Niccolò Nisivoccia Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2021 La riforma del processo civile è uno dei capitoli più importanti del programma di riforma della giustizia. I processi civili sono lenti, troppo lenti, si osserva; ed è convinzione diffusa che questa lentezza sia una delle cause principali degli scarsi investimenti esteri nel nostro Paese. Una riforma è indispensabile, se ne deduce, perché il funzionamento dei processi dipende in ultima analisi dalle leggi che li regolano. Il ragionamento ha la forza di un sillogismo, almeno in apparenza, perché è un dato che i processi civili siano lentissimi; così come sono gli stessi investitori esteri a dare spesso atto delle loro ritrosie, motivandole alla luce di questo dato. Ma è altrettanto vero che il funzionamento dei processi dipende in ultima analisi dalle leggi che li regolano? In parte sicuramente lo è. Negarlo significherebbe disconoscere la funzione stessa della legge, che è quella di regolamentare il vivere comune; ed equivarrebbe, come giuristi, ad abdicare al proprio molo, se non alla propria essenza. È quindi sempre vero, senza dubbio, che lo svolgimento di un processo è anche il frutto della legge che lo disciplina e lo scandisce, essendo il processo a sua volta una delle dimensioni nelle quali il vivere comune si realizza e si manifesta (Salvatore Satta sosteneva addirittura che nel processo l’esistenza umana sfiora una dimensione divina). E per quanto riguarda il processo civile, in particolare, sono molti i profili sotto i quali una riflessione avrebbe una sua ragion d’essere, a cominciare dall’intoccabilità del triplice grado di giudizio. La realtà è che alla moltiplicazione dei gradi di giudizio non corrispondono, di per sé, maggiori garanzie che una sentenza sia giusta, perché i modelli processuali dipendono piuttosto dai modelli di organizzazione dello Stato. Lo aveva spiegato benissimo Mirjan Damaska, ad esempio, in un suo saggio fondamentale del 1986 (“I volti della giustizia e del potere”, il Mulino): quanto più è radicata la fiducia nello Stato, nello Stato di diritto, tanto meno sarà necessaria la moltiplicazione dei gradi. Da questo punto di vista potrebbe allora valere la pena quantomeno di ragionare sull’ipotesi dell’eliminazione del giudizio d’appello, sulla quale si discute da anni: considerando fra l’altro che l’eliminazione di un grado potrebbe forse finire perfino per contribuire, se immaginata nel contesto di una riforma più generale, a generare o ad aumentare, per effetto di un circolo virtuoso, quella medesima fiducia verso lo Stato intorno alla quale il discorso è centrato. Ma la legge non basta. Pensare che una buona legge, da sola, possa produrre giustizia ed equilibrio non è semplicemente illusorio: è anche controproducente, nella misura in cui può tradursi in un alibi deresponsabilizzante. Le leggi non vivono solo delle proprie prescrizioni, ma - al contrario - hanno bisogno di comportamenti che alle prescrizioni conferiscano un senso, riempiendole di contenuti. Di più: come notava già Gustavo Zagrebelsky in un libro di una decina d’anni fa (Intorno alla legge, Einaudi) proprio l’eccesso di leggi tipico del nostro tempo ha rovesciato ormai quasi del tutto la situazione. “La silenziosa sacralità del diritto è stata soppiantata dalla verbosa esteriorità del diritto”, scriveva Zagrebelsky, aggiungendo che “lo Stato è da tempo una machina legislatoria”. Ed è proprio per via di questa “verbosa esteriorità” e di questa trasformazione dello Stato in una “machina legislatoria” che la legge sembra aver smarrito ormai molta della sua forza, ammesso che per certi versi non abbia fallito tout court, secondo la tesi sostenuta di recente da Carla Benedetti nel suo “La letteratura ci salverà dall’estinzione” (Einaudi). Tutto ciò non può non valere anche in relazione al processo civile, della cui funzionalità, o disfunzionalità, dovrebbero farsi carico, prima di chiunque altro, coloro che del processo fruiscono e che il diritto sono chiamati ad applicarlo, in concreto: parti, avvocati, giudici, ciascuno per la propria parte. È soprattutto da loro, oltre che naturalmente dalla dotazione di maggiori risorse (di persone e di mezzi), che dipende il funzionamento del sistema, aldilà di qualunque riforma presente o futura. Il governo Draghi e la questione giustizia: per ora vedo solamente tanti buoni propositi di Bartolomeo Romano* Il Dubbio, 24 febbraio 2021 I primi passi del Governo Draghi, in materia di giustizia, sono nel segno dell’agrodolce. Si percepiscono buoni propositi e impaludamenti possibili. Certo, è ancora presto: ma abbiamo materiale per riflettere, sia per quel che attiene quanto detto dal Presidente del Consiglio, sia per le iniziative prese dalla Ministra Cartabia. Per quel che concerne Draghi, mentre il discorso di mercoledì al Senato mi aveva deluso, sui temi legati al “pianeta giustizia”, la sua replica alla Camera dei Deputati in occasione del voto di fiducia, nel tardo pomeriggio di giovedì, sembra aver fatto segnare, finalmente, un positivo salto qualitativo. Ho percepito una attenzione, sia pur necessariamente sintetica, ai temi della giustizia e una consapevolezza dei relativi problemi che alimenta ragionevoli aspettative. Con il coraggio di affrontare le questioni, che prima era mancato, e con analisi e conclusioni in gran parte, dal mio punto di vista, condivisibili. Il primo punto toccato, in materia, dal Presidente del Consiglio ha riguardato il tema della corruzione. Qui il Presidente ha dapprima utilizzato argomentazioni consuete. Ha affermato, certo a ragione, che un Paese capace di attrarre investitori deve difendersi dai fenomeni corruttivi, veicolo di ingerenza criminale anche da parte delle mafie e fattore disincentivante sul piano economico per gli effetti depressivi sulla competitività e sulla libera concorrenza. Inoltre, in riferimento allo sviluppo nel meridione, ha sottolineato che legalità e sicurezza sono una precondizione per la crescita economica. Anche qui, affermazioni corrette; ma ovvie. Poi il tono è cresciuto e Draghi ha avuto lungimiranza e coraggio. Infatti, riferendosi al settore degli appalti pubblici, dopo aver riaffermato la centralità del ruolo dell’Anac, e sottolineato l’importanza dei presidi di prevenzione per combattere la corruzione, è andato in profondità. Il Presidente ha notato come occorra superare i controlli troppo formali, che richiedono gravosi adempimenti per i cittadini e le imprese, e che finiscono per alimentare la corruzione. E ha proseguito invocando una semplificazione con funzione anti-corruttiva, uno snellimento e una accelerazione dei processi decisionali pubblici, nei quali si annidano gli illeciti. E una reale trasparenza della pubblica amministrazione, con un virtuoso rapporto di collaborazione tra istituzioni e collettività amministrate. Questo è un aspetto centrale. Ho dedicato due recenti volumi ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e all’abuso di ufficio e, proprio da penalista, non posso che concordare in toto. Occorre superare la “burocrazia del non fare”; occorre impedire che lo Stato e tutte le pubbliche amministrazioni siano, o sembrino essere, nemici o avversari dei cittadini e delle imprese; occorre che i pubblici funzionari ci spieghino perché dobbiamo fare certe cose o non ne possiamo fare di altre, anziché, semplicemente ed autoritativamente, imporcele. Questa, sì, Presidente, che sarebbe una rivoluzione, con significative ricadute sulla giustizia amministrativa, su quella penale e sullo sviluppo del Paese. Che ci potrebbe trasformare, realmente, da sudditi a cittadini. Ma occorre sempre stare attenti alle cadute demagogiche. Draghi ha infatti proseguito sostenendo che, seppure i dati quantitativi sulla criminalità nel corso degli anni sono andati migliorando, non è tuttavia migliorata la “percezione” che ne hanno i cittadini. Per concludere che “deve essere la percezione a guidare l’azione, a stimolare una azione sempre, sempre più efficace”. No, Presidente: di populismo penale e giudiziario, di “criminalità percepita”, non ne abbiamo veramente bisogno. Occorre stare ai dati; lavorare sui numeri. Come ha dimostrato di saper fare in passato. Tanto più che Lei è lontano dai social, sarebbe opportuno evitare venti mutevoli e mode passeggere. Ma, forse, è stato solo un momento. Perché poi il Presidente del Consiglio ha concluso il suo intervento sulla giustizia con veri e propri giochi di artificio, fragorosi e festosi, almeno per le mie orecchie. Ha detto, Draghi, che occorrono azioni innovative per migliorare la giustizia civile e penale quale servizio pubblico fondamentale, nel rispetto delle garanzie costituzionali, mirando ad un processo giusto e di durata ragionevole, in linea con la media degli altri Paesi europei. Esattamente quello che avevo auspicato in articoli e interviste radiofoniche. Poi, nuovamente, un messaggio rassicurante, nel solco del consueto, forse per preparare il passaggio conclusivo: il Presidente del Consiglio ha tenuto a ribadire che occorre tutelare il sistema economico contro il rischio di infiltrazioni criminali conseguente a immissione di denaro pubblico anche proveniente dall’Unione europea. Infine, e qui il “botto” è stato fortissimo, il Presidente Draghi ha affermato che non deve essere trascurata la condizione di tutti coloro che lavorano e vivono nelle carceri, spesso sovraffollate, i quali sono esposti al rischio e alla paura del contagio e sono particolarmente colpiti dalle misure necessarie a contrastare la diffusione del virus. Parole sagge, non scontate e che pongono questioni delicate e complesse. E che, a mio modo di vedere, aprono certamente al tema della vaccinazione per soggetti oggettivamente a rischio, forse anche ad un rafforzamento delle misure alternative al carcere, e persino alla opportunità di amnistia o indulto in tempi eccezionali, quali quelli che stiamo vivendo. Apparentemente, la Ministra Cartabia sembra aver toccato temi simili. Da un lato, ha avuto una prima riunione alla Camera con i capigruppo della maggioranza, nella quale pare abbia usato parole ragionevoli, per poi, tuttavia, legare la riforma della prescrizione ad una più ampia riforma del processo penale. Non dubito della buona volontà (stavo per scrivere “buona fede”) della nuova Guardasigilli. Ma chi, come me, ha firmato più appelli per il rispetto dell’art. 111 della Costituzione e il conseguente riallineamento della prescrizione ai princìpi di civiltà giuridica, ha sentito puzza di bruciato, odore di inciucio, sentore di melassa e di rinvii alle calende greche. Tanto più se si sceglie la via della delega al governo, asseritamente sulla base della considerazione che sulla questione della prescrizione gli effetti della riforma Bonafede si vedranno in tempi non brevi e dunque, non vi sarebbe particolare fretta. Spero di sbagliare; ma un mio insegnante di una vita fa, mi avvertiva: “la via del poi porta alla piazza del mai”. Del resto, l’intransigenza dell’ex guardasigilli Bonafede, disposto solo ad accettare il c. d. lodo Conte-bis, che incide solo sulle assoluzioni in primo grado, non preannunzia giorni facili e soluzioni condivise. E la Camera ha già respinto l’emendamento di Fratelli d’Italia che prevedeva di congelare la riforma Bonafede fino al 31 dicembre 2023, con 29 favorevoli allo stop, 227 contrari (Pd, M5s e Leu) e 162 astenuti (Lega, Forza Italia e Italia Viva). L’altra iniziativa della Ministra Cartabia, la visita a sorpresa al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, lascia ben sperare. Ma, anche qui, al segnale, certo positivo, occorre far seguire i fatti. Non bastano alte testimonianze; occorrono provvedimenti concreti. Il Presidente Draghi è, certamente, persona seria e di altissimo profilo; come la Ministra della giustizia Cartabia. Ma, almeno per quel che attiene ai temi della giustizia, il Governo ha una maggioranza persino troppo ampia. Il rischio, allora, mi sembra sia quello che ai buoni propositi non seguano fatti corrispondenti e che tutto finisca in “melina”. Perché neppure un Presidente del Consiglio e una Guardasigilli possono far tutto se le forze politiche presenti in Parlamento non traducono le idee in fatti. *Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo. Ex componente Consiglio Superiore della Magistratura Prescrizione, arriva la tregua: ma la maggioranza è ancora divisa di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 24 febbraio 2021 Nuovo caso in Aula. Poi arriva la mediazione: il governo s’impegna sui tempi del processo. La riforma Bonafede, che congela i tempi di prescrizione dopo il primo grado di giudizio, torna a mietere consensi tra chi non la vuole. E Fratelli d’Italia, per la seconda volta in due giorni, fa riemergere le divisioni nella maggioranza sul tema giustizia. Dopo la bocciatura, lunedì, dell’emendamento a firma Delmastro Delle Vedove, che chiedeva di bloccare la riforma, ieri è stato respinto anche l’ordine del giorno, dello stesso deputato di FdI, che invocava un impegno del governo “ad adottare ogni iniziativa necessaria al fine di superare, quanto prima, la riforma della prescrizione”. Forza Italia, Italia viva e Lega si sono astenuti. Azione non ha partecipato al voto e il Pd, per evitare che l’odg venisse approvato, ha votato in favore dell’avversata riforma, assieme al M5S. “Il governo Draghi sembra sempre più una prosecuzione del Conte bis, anche nei suoi aspetti più critici fra cui quello di trasformare i cittadini in sudditi sottoposti a processi a vita”, ha rimarcato il meloniano Delmastro, spingendo la maggioranza alla difesa. “Ci asteniamo come atto di fiducia nei confronti della ministra Cartabia e di una forte discontinuità rispetto al recente periodo di oscurantismo giuridico e manettaro”, spiega il forzista Pierantonio Zanettin. Ed Enrico Costa, di Azione, ammette: “Da FdI arriva una sollecitazione verso una direzione che avevamo intrapreso. Ma nel rispetto del nuovo ministro abbiamo trovato una sintesi”. Una sintesi che, come per il blocco degli sfratti, è stata trovata con un rinvio a data da destinarsi. Ad ottenerlo la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, grazie a un richiamo ai principi costituzionali e ai valori di riferimento dell’Unione europea. Già lo chiamano “metodo Cartabia”. Applicato alla giustizia si è condensato in un ordine del giorno, approvato ieri, che “impegna il governo ad adottare le necessarie iniziative di modifica normativa e le misure organizzative volte a migliorare l’efficacia e l’efficienza della giustizia penale, in modo da assicurare la capacità dello Stato di accertare fatti e responsabilità penali in tempi ragionevoli (art. 111 Costituzione), assicurando al procedimento penale una durata media in linea con quella europea, nel pieno rispetto della Carta, dei principi del giusto processo, dei diritti fondamentali della persona e della funzione rieducativa della pena”. Soddisfatti i Cinque Stelle che, con Mario Perantoni, rivendicano: “Mi pare evidente che il clima politico sia cambiato sul tema della riforma del processo penale. Qualcuno sembra non voglia prenderne atto e continui a fare crociate”. Mentre il dem Alfredo Bazoli fa notare che l’odg “consente finalmente di deporre le armi della polemica, e di concentrarsi sul merito dei problemi”. Ma è proprio nel merito che sorgono le divergenze. Anche fra i tecnici. Secondo il presidente dell’Unione Camere penali, Giandomenico Caiazza, “la soluzione è la riscrittura della legge delega”. Per Bazoli, invece, ripartire da zero “comporterebbe una ulteriore rilevante dilatazione dei tempi”. Mentre, sostiene, il “dl Bonafede sarà l’occasione per misurarci su una riforma di sistema che affronti il tema in modo coerente, superando forzature e le contraddizioni della riforma della prescrizione approvata da M5S e Lega”. Lodo Cartabia accolto, regge (per ora) la tregua sulla norma Bonafede di Errico Novi Il Dubbio, 24 febbraio 2021 L’ordine del giorno preannuncia l’addio alla prescrizione 5S. Respinto il testo di FdI. A marzo resa dei conti nel ddl penale. La tregua nella maggioranza regge. La tregua sulla prescrizione, s’intende. Non vuol dire che già sia stata riscritta la norma, ma che fronte garantista e Movimento 5 Stelle aderiscono entrambi, almeno per ora, alla logica indicata nell’ordine del giorno Cartabia. Ieri alla Camera, al termine dell’esame sul decreto Milleproroghe, il governo ovviamente lo ha accolto, mentre l’Aula ha respinto quello di Fratelli d’Italia, che impegnava in modo esplicito l’esecutivo a “superare quanto prima” la legge Bonafede. Ma lo stesso obiettivo è contenuto, di fatto, anche nel “lodo” della guardasigilli. Secondo cui si deve “raggiungere un punto di equilibrio, che assicuri il contemperamento” fra “effettività nell’accertamento dei reati e delle responsabilità personali” e “tutela dei diritti fondamentali della persona, attuazione dei principi del giusto processo e della funzione rieducativa della pena”. E la pena non può essere rieducativa se “inflitta ad eccessiva distanza dai fatti”, oppure si “rischia di veder vanificata la funzione che le assegna l’articolo 27 della Costituzione”, giacché si andrebbe a incidere “su una personalità mutata o per la quale diventa impossibile la costruzione di un percorso rieducativo”. Marta Cartabia, costituzionalista e guardasigilli, lo sa. E ha tracciato, con quel sottile richiamo, una linea chiarissima. Ieri, dopo il voto sul testo di Fratelli d’Italia, il tabellone luminoso ha riportato numeri quasi identici a quelli mostrati il giorno prima, quando era stato bocciato l’analogo emendamento del partito di Giorgia Meloni: 241 voti contrari, quelli di Pd, M5S e Leu, 27 favorevoli, una caterva di astensioni, 189, espresse dai gruppi di FI, Lega e Italia viva, l’uscita dall’Aula di Azione. Enrico Costa chiarisce: “Non partecipo perché per coerenza avrei dovuto approvare il testo di FdI. Abbiamo trovato un equilibrio di maggioranza nell’ordine del giorno condiviso con la ministra Cartabia. Certo, se i tempi si allungassero, tornerei a proporre il congelamento della prescrizione di Bonafede”. Al di là dell’arlecchino di posizioni, prevalgono gli indizi di un intervento che vada ben oltre il lodo Conte bis. Basta ascoltare il capogruppo dem in commissione Giustizia Alfredo Bazoli: “Sarà il ddl Bonafede sul processo penale l’occasione per misurarci su una riforma di sistema che superi” tra l’altro “le forzature e le contraddizioni della riforma della prescrizione approvata da M5S e Lega. Una disciplina che necessita certamente di essere migliorata”. Il Pd sembra ormai convinto di convergere verso l’ipotesi della prescrizione per fasi, o prescrizione processuale (come dice con chiarezza il responsabile Giustizia Walter Verini in un’intervista pubblicata in altra parte del giornale, ndr). Non piacerà ai 5 Stelle. In parte lo ribadisce Mario Perantoni, deputato del Movimento e presidente della commissione Giustizia: nell’intesa di maggioranza vede ribaditi i “principi cardine della efficienza del sistema, dei giusti tempi di durata dei processi e della esclusione di scappatoie per l’impunità”. Bonafede era stato ancora più netto nel definire invalicabile “il perimetro del lodo Conte bis”. In realtà, del suo ddl penale non solo verrà cambiato quel controverso aggiustamento della prescrizione, ma anche varie ritrosie, come quelle sul patteggiamento. Ieri è tornato a chiederlo il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza: “Non è chiaro qual è la riforma che dovrà superare la norma sulla prescrizione: se è il ddl Bonafede, Dio ce ne scampi e liberi”. Il destino è segnato: l’8 marzo scade il termine degli emendamenti su quella riforma del processo penale. Il limite potrebbe slittare di altre due settimane al massimo, non di più. È in quel passaggio che Cartabia potrebbe presentare un proprio schema correttivo sulla prescrizione. Ed è lì forse che potrebbe svanire l’idillio nella maggioranza. Anche sew sembra presto per dire che a quel punto il Movimento 5 Stelle deciderebbe di non farne più parte. “Portare il fine processo mai davanti alla Consulta”, la sfida dei Radicali di Simona Musco Il Dubbio, 24 febbraio 2021 Il Segretario Maurizio Turco in prima linea nel ricorso presentato al tribunale di Lecce. La nuova norma sulla prescrizione è incostituzionale. Lo grida a gran voce il segretario del Partito Radicale Maurizio Turco, che si è rivolto al Tribunale civile di Lecce chiedendo di mandare alla Corte Costituzionale “la legge sul “fine processo mai”“ dell’ex ministro Alfonso Bonafede. Turco, assistito dagli avvocati Giuseppe Talò e Felice Besostri, ha sollevato una questione semplicissima: il diritto di ogni cittadino ad un processo dalla ragionevole durata. Ed è per questo che chiede al ministro della Giustizia Marta Cartabia di attendere la pronuncia del giudice Katia Pinto prima di decidere il da farsi sulla prescrizione. “Sulla titolarità a ricorrere in assenza di un processo in corso - hanno sottolineato Turco, Besostri e Talò -, è stata di recente la stessa Corte costituzionale (sentenza 278/ 2020) a riconoscere che tutti i cittadini hanno diritto a conoscere preventivamente la “tabella” del tempo che manca a proscioglierli da una eventuale accusa”. Nel loro ricorso, i due legali pugliesi hanno denunciato la violazione degli articoli 3, 24, 25, 27, 111 e 117 primo comma della Costituzione, rivendicando l’esigenza di accertare il “diritto ad una ragionevole durata del processo, così come attribuito e garantito nel suo esercizio dalla Costituzione italiana, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dai vigenti Trattati sull’Unione Europea e il suo funzionamento e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’unione, e di difendersi in ogni stato e grado del giudizio mediante proposizione di ricorso efficace anche nei confronti degli organi dello Stato e della pubblica amministrazione”. In quanto istituto sostanziale, sostengono Talò e Besostri, il legislatore non può intervenire sulla norma della prescrizione “in contrasto con i principi costituzionali, convenzionali ed unionali europei che tutelano le parti processuali da un’ottusa applicazione del principio tempus regit actum”. La norma deve dunque rispettare il principio del giusto processo. Ma non solo: il legislatore, laddove utilizza l’istituto della sospensione, violerebbe la semantica giuridica. “Non di sospensione si tratta - contestano i due avvocati -, ma di vera e propria abrogazione, in quanto non vi è una causa definita al cessare della quale cessi la stessa sospensione. L’unico orizzonte temporale è il passaggio in giudicato della sentenza di condanna”. Ma tale “artificio semantico” servirebbe ad ignorare la possibilità dell’assoluzione, violando il principio di non colpevolezza sancito dalla Costituzione, che dura fino al giudizio di Cassazione e non cessa, dunque, al termine del primo grado. Inoltre, tale violazione risulterebbe aggravata dal fatto che neppure una sentenza di appello confermativa dell’assoluzione di primo grado potrebbe sventare la sospensione, lasciando l’imputato in balia dell’eccessiva durata del processo, pur essendo risultato, nel merito, innocente. Senza contare, poi, la “dilatazione infinita dei termini”. E ciò vale non solo per l’imputato, ma anche per le parti offese, che rischiano di vedere l’accertamento dei fatti rimandato sine die. “Senza più determinatezza - sottolineano i due avvocati - il cittadino non sa più se e quando potrà dirsi ripristinata la certezza della sua situazione giuridica, se e quando potrà godere del risarcimento del danno da reato, se e quando potrà dirsi accertata definitivamente la sua estraneità ad una ipotesi di reato. Sono tutti elementi che inducono i sottoscritti a richiedere l’accertamento del loro diritto ad un giudizio di durata ragionevole, ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione”. “Cartabia è una certezza: noi toghe troveremo in lei aiuto per ricostruire” di Errico Novi Il Dubbio, 24 febbraio 2021 Intervista a Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm: “Il carcere sia riformato nel rispetto dell’articolo 27 della Costituzione”. Chiamatele coincidenze. Da una parte una guardasigilli come Marta Cartabia: costituzionalista, presidente emerita della Consulta, prima vera militante del garantismo alla guida del dicastero di via Arenula dopo anni contrastati. Dall’altra a presiedere l’Anm c’è un signore che si chiama Giuseppe Santalucia, che è una sorpresa, per chi non ne conoscesse già le idee, proprio quanto a cultura delle garanzie. Una convergenza da cui trarre la migliore premessa per la fase nuova della politica giudiziaria. Soprattutto se si pensa alle posizioni non scontate che il dottor Santalucia, magistrato di Cassazione, ha su prescrizione - “serve un meccanismo che governi i tempi del processo” - e carcere - “anche per il più efferato dei criminali vale il principio della pena come rieducazione, e la riforma penitenziaria dovrebbe guardare alla stella polare dell’articolo 27”. Presidente Santalucia, una ministra come Cartabia può aiutare la magistratura nella cosiddetta auto-ricostruzione? Credo proprio di sì. Non vuol dire che riconosca limiti nei precedenti ministri, non dico questo. Ma mi sento di confidare davvero nell’aiuto che la ministra Marta Cartabia potrà dare alla magistratura nel nuovo e difficile percorso che ci aspetta. Presidente emerita della Consulta, ordinario di Diritto costituzionale: sono titoli che favoriscono evidentemente una dialettica sui problemi dell’ordine giudiziario, su questioni così strutturali. Il profilo della guardasigilli susciterà anche nell’Anm la piena disponibilità a collaborare, nelle forme che la ministra riterrà opportune, al percorso di riforme in arrivo sulla giustizia. L’ex ministro Bonafede torna a difendere il “lodo Conte bis”: ma si può lasciare in vigore la norma dell’ex guardasigilli senza sapere se la riforma del processo, seppure fosse approvata in pochi mesi, produrrà davvero l’accelerazione sperata? È una domanda a cui credo debba rispondere la politica, non il sottoscritto: per parte mia faccio una considerazione tecnica. Da noi la prescrizione ha assunto una funzione duplice: da una parte presidiare il diritto all’oblio, dall’altra assicurare una durata non irragionevole ai processi. Certo, la seconda funzione è indebita. Però un meccanismo che governi i tempi del processo serve, va trovato, nel momento in cui la prescrizione viene abolita dopo una condanna in primo grado. Quindi non ci si potrebbe accontentare del “lodo conte bis”? Chiariamo una cosa: dire che la prescrizione del reato, e ribadisco del reato, debba assicurare il diritto all’oblio anche dopo che sia stato ordinato il rinvio a giudizio, o addirittura dopo una sentenza di condanna in primo grado, è contro la logica. In che senso? Non si può più parlare di diritto all’oblio nel senso che non c’è più oblio dal momento che la memoria della vicenda è stata vivificata dall’esercizio dell’azione penale. Però subentra la questione che dicevo, il governo dei tempi, e dunque il meccanismo della cosiddetta prescrizione processuale, per esempio. Lei condivide l’idea che se una fase processuale dura troppo l’azione penale è improseguibile? Non entro nel merito delle conseguenze. Non mi interessa dire qual è il meccanismo che preferisco, per il semplice motivo che non è il caso di spostare l’attenzione sul dettaglio. Conta il principio. Una conseguenza per la durata eventualmente irragionevole del processo deve pur esserci, se viene meno l’impropria funzione limitatrice assunta finora, nel nostro ordinamento, dalla prescrizione. In Paesi in cui il termine di estinzione del reato non è previsto nelle forme in cui esisteva da noi, prima della riforma del 2019, c’è sempre e comunque un governo dei tempi processuali. I magistrati sul carcere sono stati anticipatori coraggiosi, con le ordinanze sui domiciliari anti covid, ma anche critici, in altri casi, su quell’istituto: quale anima prevarrà? Spero ne prevalga semplicemente una ispirata al principio costituzionale del fine rieducativo della pena. Che naturalmente considera anche i casi particolari, i reati più gravi, ivi compresa la persistente legittimazione, a mio giudizio, del 41 bis. Ne ha parlato su La Stampa il dottor Pignatone. Ma anche nei confronti del più terribile dei criminali va comunque affermato il principio secondo cui il carcere ha una funzione rieducativa. In ogni caso va tenuta come stella polare sempre e comunque l’idea contenuta nell’articolo 27: si deve operare in vista della risocializzazione del condannato. Quindi ci sarà spazio per una riforma del carcere? Me lo auguro. La riforma era stata predisposta, poi non se ne sono realizzati alcuni degli aspetti centrali. Credo li si debba recuperare. Innanzitutto la diversificazione delle misure, a seconda del profilo del condannato: non è pensabile che la detenzione in carcere debba rappresentare la sola alternativa alla sanzione pecuniaria. Come ha scritto il professor Fiandaca sul Foglio, non è questione di buonismo ma di utilità sociale: senza una nuova visione dell’esecuzione penale non si riuscirà a ridurre la recidiva. Laddove riuscire a ridurla mi pare sia l’interesse primario della collettività. Alcuni magistrati dell’Anm rilanciano l’iniziativa per il sorteggio al Csm: perché la maggioranza che si riconosce nella sua presidenza è contro il sorteggio? C’è una questione costituzionale, innanzitutto: l’articolo 104 parla di magistrati “eletti”: da lì non si scappa, è difficile giocare con le parole. A meno che non si modifichi la Costituzione, io credo che anche le ipotesi di sorteggio temperato o qualificato siano fuori dal perimetro della Carta. Poi c’è una considerazione più personale, di cui sono altrettanto convinto. Vale a dire? Non credo che la selezione random aiuti la magistratura a superare la crisi in cui si è venuta a trovare. Premesso che dobbiamo riconoscere i fatti, e cioè che la magistratura si è lasciata andare, che serve una profonda ristrutturazione culturale. Premesso che certamente ci saranno ulteriori verifiche disciplinari sui comportamenti che sono emersi, premesso tutto questo io non credo che tornerebbe utile trovarsi con un Csm formato per sorteggio. Noi magistrati non dobbiamo e non possiamo sottrarci, e dico di più: forse la crisi drammatica in cui il Paese si trova potrà, per cosi dire, costringere anche noi magistrati a completare questo processo di ricostruzione. Però mi sento di dire che non si fa tutto con le regole, che le procedure non bastano. Dobbiamo recuperare il senso della nostra funzione, prima di tutto. La vera riforma, che non si può scrivere ma che si deve profondamente realizzare, è questa. Verini (Pd). “Giustizia, basta guerre e addio bandierine. Sì alla prescrizione per fasi” di Errico Novi Il Dubbio, 24 febbraio 2021 “È un’occasione preziosa. Una svolta. Via il populismo giudiziario. Via il garantismo a intermittenza. Basta con la guerra termonucleare sulla giustizia che dura da vent’anni. Si intervenga sul civile, sul penale, ma poi anche sul carcere e sul Csm. Con lo sguardo rivolto alla Costituzione e all’efficienza del processo. Si può fare: se non ora, quando?”. Walter Verini, che nel Pd coordina il lavoro sulla giustizia, oltre ad essere tesoriere, guarda oltre. Parte dal lodo Cartabia e lo considera un passo verso una nuova era. “Serve il contributo di tutti. Si rinunci ai totem degli uni e ai tabù degli altri”. C’è un totem, o tabù, molto ingombrante: la prescrizione. Come si fa? Basterebbe ragionare così: interveniamo sul ddl penale in modo da ridurre davvero i tempi di tutti i procedimenti. Dopodiché, per garantire a tutti gli imputati le tutele previste dalla Carta costituzionale, si può ricorrere alla prescrizione processuale, cioè a un limite massimo di durata per ciascuna fase del processo, limite oltre il quale non si può andare. Non è poco. Solo che Bonafede, due giorni fa, in un’intervista al Fatto quotidiano, ha detto: non si va oltre il lodo Conte bis. E quindi? E quindi mi chiedo: preferiamo avere un processo interminabile, lunghissimo, e come corollario la prescrizione bloccata, o dall’altro lato la prescrizione che fa morire il processo? Ci siamo innamorati di un modello negativo? Se è così, certo, allora chi come il Movimento 5 Stelle è favorevole al blocco della prescrizione resterà abbarbicato a quella norma. Così come chi avversa quella norma ne chiederà la rimozione, e basta. Invece io dico: lavoriamo sul testo del ddl penale. Si tratta ormai di giorni: l’8 marzo scade il termine degli emendamenti. Eliminiamo i tempi morti del processo, recepiamo le proposte venute da avvocatura e magistratura. A quel punto a che serve preoccuparsi della prescrizione? Si introduce un limite per fasi, ma nella consapevolezza che con nuove regole, assunzioni, digitalizzazione, non si arriverebbe mai al termine di prescrizione. Il famigerato pomo della discordia verrebbe confinato sullo sfondo. Tra l’altro la prescrizione processuale evita che un reato si estingua solo perché scoperto tardi, ma nello stesso tempo evita che l’imputato resti stritolato da un primo grado o un appello interminabili... Vorrebbe dire tenere le regole del processo entro i margini della Costituzione. Risultato a cui servono contributi precisi: innanzitutto ridurre i tempi morti, relativi per esempio alle notifiche. Così si arriva a un processo che può durare 6 anni, con garanzie per l’aspettativa della vittima, certo non interessata ad attendere vent’anni perché maturi il pieno diritto al risarcimento, così come per l’imputato, che non può esserlo a vita, e del quale si deve presumere la non colpevolezza fino a sentenza definitiva. Siamo sempre lì: i 5 stelle accetteranno la logica? Mi pare l’abbiano già fatto. Siamo già d’accordo sulla via d’uscita dalla trappola delle bandierine: ridurre i tempi, sia del processo civile che del penale. Nel primo caso il governo è orientato ad anticipare alcune parti della riforma con un decreto. Nel secondo abbiamo la scadenza degli emendamenti dietro l’angolo. Sono leggi delega, d’accordo: ma una volta approvate, davvero credete ci vogliano più di tre mesi, per i decreti legislativi? Fra un anno ne siamo fuori. E possiamo occuparci anche di cambiare il Csm, nel rispetto dello sforzo di autoriforma di cui va dato atto, per esempio, al vicepresidente David Ermini. Vogliamo alzare ulteriormente l’asticella? E certo, faccia pure... Credo che una fase politica in grado di andare avanti per due anni possa sciogliere anche il nodo dell’abuso d’ufficio. Sindaci e amministratori devono poter lavorare senza l’ansia di rispondere penalmente per scelte compiute nell’interesse pubblico. Il reato andrebbe circoscritto ai fatti gravi e dolosi. Programma da condividere. Sempre che i 5 stelle si affranchino dal totem prescrizione. Basta concentrarsi sul fine ultimo di tutte le riforme della giustizia: più efficienza nel rispetto della Costituzione. È lo spirito dell’ordine del giorno, predisposto alla Camera con la ministra Marta Cartabia. È anche una preziosissima occasione per smettere di usare la giustizia come una clava. E per lasciarci alle spalle vent’anni di guerre termonucleari. Capisco le tensioni all’interno del Movimento 5 Stelle. Ma credo sia il momento di deporre le bandiere e guardare oltre. Certo, sui giornali leggo editoriali che insinuano il veleno nel fronte dei pentastellati, con messaggi del tipo “vogliono fregarvi sulla vostra riforma della prescrizione”. Da sponda opposta c’è chi definisce vergognoso l’accantonamento della prescrizione. Io dico: sotterriamo l’ascia, stipuliamo una tregua e cambiamo definitivamente prospettiva. Senza concentrarci sulla bandierina della prescrizione. L’ordine del giorno è un invito sottoscritto da tutti. Insomma, lei confida in un passo avanti... Colgo un segnale. Nella commissione Giustizia di Montecitorio sono relatore di una legge voluta da Paolo Siani, fratello del giornalista ucciso dalla camorra, per superare la vergogna dei bambini in carcere. Ho illustrato il testo oggi (ieri per chi legge, ndr): sono d’accordo tutti, nessuno escluso. Forza Italia ha proposto il ricorso alla procedura deliberante: vorrebbe dire legge approvata senza il passaggio in Aula, in tempi brevissimi. Mi pare il miglior auspicio possibile per liberarci delle discussioni tossiche sulla giustizia. E per andarewverso un’altra importante riforma. Quale? Quella dell’ordinamento penitenziario. Va recuperato il testo Orlando in tutte le sue parti, con la formazione, il lavoro, le misure alternative. Significa davvero ridurre le recidive, in vista di una maggiore sicurezza. Come Pd ne avevamo già parlato durante i tentativi di non compromettere il Conte bis, con il lodo Orlando. Abbiamo riproposto al presidente Draghi anche la necessità di riformare il carcere. Si può fare. Affrancarsi dalle bandierine sulla giustizia renderà più interessante anche il futuro dell’intesa fra Pd e M5S? Mi limito a dire una cosa. Solo sulla riforma del processo penale abbiamo svolto oltre quaranta sedute di audizione: avvocatura, magistratura, accademia, associazioni. C’è un confronto intenso. Ci sono tutte le condizioni per superare gli aspetti tossici e divisivi, in modo da dedicarsi solo alla pars costruens. Facciamolo: se non ora, quando? Non ci guadagna un’alleanza ma il Paese. Credo sia maturata una consapevolezza nuova anche all’interno della magistratura. Ho letto l’intervista al Dubbio di Giuseppe Santalucia, presidente del’Anm, figura apprezzata, che non fa esercizi di rimozione. A un impegno del genere si deve guardare con rispetto. Vedo uno sguardo rivolto al futuro, da parte di tutti. Libero, finalmente, dagli opposti estremismi. Vaccinare gli avvocati per garantire il diritto di difesa di Simona Musco Il Dubbio, 24 febbraio 2021 La difesa è diritto inviolabile per questo gli avvocati italiani vanno vaccinati al più presto. Considerare tra le categorie prioritarie per il vaccino anche i protagonisti dell’amministrazione della Giustizia, tra i quali pari rango dovrebbe essere riconosciuto alla categoria degli avvocati. È quanto chiesto dal senatore Franco Dal Mas, in quota Forza Italia, al ministro della Giustizia Marta Cartabia e al ministro della Salute Roberto Speranza. Una richiesta inoltrata alla Guardasigilli dal presidente della seconda commissione permanente Giustizia al Senato Andrea Ostellari (Lega), che ha anche chiesto di conoscere lo stato della campagna vaccinale nelle carceri. L’iniziativa ricalca il sentimento dell’avvocatura, come dimostrato dalle richieste inoltrate dai vari ordini territoriali a governo e Consigli regionali, ottenendo in alcuni casi l’inserimento della categoria tra quelle prioritarie per la vaccinazione. E ciò perché “la Giustizia non può tollerare ulteriori ostacoli e condizionamenti al proprio regolare e corretto funzionamento, né i cittadini ingiustificabili limitazioni ai propri diritti”, come si legge nella nota inviata dall’Unione degli ordini forensi della Sicilia al governo e ai vertici dell’avvocatura. Quello che viene chiesto non è una corsia preferenziale, ma un’esigenza concreta. Perché la Giustizia rientra a pieno titolo tra i servizi pubblici essenziali, con la diretta conseguenza che l’attività degli addetti a tale comparto - così come avviene per la sanità e per l’istruzione - sia da ritenere, a pieno titolo tra quelle di rilevante interesse pubblico e generale, destinate alla collettività. Il punto di partenza di questa discussione, che da mesi tiene banco tra gli addetti ai lavori, non può che essere l’articolo 24 della Costituzione, secondo cui la difesa è diritto inviolabile. E i diritti, anche in tempo di Covid, non possono essere messi tra parentesi in nome della crisi. Tant’è vero che, nonostante le difficoltà, la macchina giudiziaria ha continuato a lavorare: a rilento, dimostrando tutte le sue criticità, ma senza sosta. Almeno per gli avvocati che, anche nel periodo più buio della crisi pandemica, hanno continuato a recarsi in Tribunale, ricominciando a farlo quasi quotidianamente con l’allentamento delle misure. La ragione è una: la Giustizia è un servizio che non può essere messo in stand by. E in particolare per quanto riguarda i “provvedimenti restrittivi della libertà personale e quelli cautelari ed urgenti, nonché i processi penali con imputati in stato di detenzione”. Ora che i tribunali sono quasi completamente operativi, sono all’ordine del giorno assembramenti e problemi logistici, che rendono i luoghi della Giustizia, a tutti gli effetti, luoghi a rischio. Al momento, però, non c’è una regola che valga per tutti. Le richieste arrivano da lontano: a gennaio erano stati l’Associazione nazionale magistrati e il Consiglio nazionale forense a chiedere all’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede di far vaccinare avvocati e giudici per far ripartire la Giustizia. Richiesta avanzata, poi, anche da Cassa Forense, che ha contato nel frattempo oltre 10mila avvocati indennizzati causa Covid. Numeri che rendono l’idea dell’effettivo grado di rischio vissuto quotidianamente. Adesso, però, sono i singoli ordini a muoversi. In Sicilia e in Toscana i risultati sono già arrivati: i rispettivi Consigli regionali hanno, infatti, già provveduto ad inserire gli avvocati tra le categorie prioritarie per il vaccino. Mentre nessuna risposta è arrivata alle uguali richieste formulate dagli Ordini territoriali di Lazio, Lombardia e Calabria. Ad evidenziare l’assurdità di regole diverse per territorio è il presidente dell’ordine degli avvocati di Roma, Antonino Galletti. “Per quanto riguarda l’Avvocatura, siamo all’assurdo oramai di una vaccinazione a macchia di leopardo sul territorio nazionale - ha evidenziato. Capita così che gli avvocati siano considerati categoria a rischio in Sicilia ed in Toscana e non invece altrove, ad esempio, a Roma e nel Lazio, dove fin da novembre abbiamo chiesto come Coa Roma e come Unione degli Ordini Forensi del Lazio di procedere alla vaccinazione degli iscritti quanto prima per assicurare continuità al servizio primario della Giustizia. Per ora non sono arrivate risposte - ha aggiunto - eppure sia a Palermo, sia a Firenze e sia a Roma, gli avvocati frequentano aule d’udienza affollate, visitano i detenuti, incontrano una pluralità di assistiti, contribuiscono come parte essenziale al funzionamento di un servizio pubblico essenziale quale quello della Giustizia, che non può certo fermarsi, non potendosi sbattere le porta in faccia ai diritti ed alle libertà”. Il punto, ovviamente non è chi vaccinare prima e chi dopo tra coloro che appartengono alle categorie considerate a rischio e all’interno della stessa categoria in zone diverse della Penisola, ha proseguito Galletti, “ma procedere a un intervento organico che riguardi tutto il territorio nazionale, per evitare che almeno su temi delicati come questi, il diritto alla salute e il diritto alla Giustizia, non vi siano sperequazioni e non si riproducano situazioni grottesche come quella dei provvedimenti organizzativi assunti nei Tribunali durante la prima ondata della pandemia, quando ogni sezione, ufficio e ogni singola cancelleria procedevano con disposizioni autonome e del tutto scollegate dalle altre: i famosi dieci chili di carte e burocrazia che pesammo pubblicamente a Roma”. Vaccini: avvocati categoria a rischio a regioni alterne di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2021 Sicilia e Toscana hanno inserito i legali nel piano vaccinale, nessuna risposta alle richieste degli Ordini territoriali nel Lazio, Lombardia e Calabria. Forza Italia si fa promotrice di una interrogazione al Ministro. Vaccinazione senza regole omogenee per gli avvocati. Mentre alcune Regioni, come la Sicilia e la Toscana, hanno inserito i legali tra le categorie a rischio, includendoli nella profilassi prevista per gli uffici giudiziari, altri Ordini territoriali che pure ne avevano fatto richiesta non hanno avuto risposte. A lanciare l’allarme è Antonino Galletti, Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, il più grande d’Italia, che ha rivolto un appello al neo Ministro Cartabia, perché “riporti un minimo di razionalità in un procedere finora abbastanza schizofrenico”. La questione monta nel corso della giornata e nel tardo pomeriggio, il senatore di Forza Italia Franco Dal Mas rende noto che, su richiesta del suo gruppo, la Commissione Giustizia del Senato ha dato mandato al presidente Andrea Ostellari di richiedere al ministro competente “di introdurre criteri omogenei sul territorio nazionale, e di specificare formalmente che il settore giustizia oltre al personale della giustizia, comprende anche gli avvocati per la funzione che viene quotidianamente esercitata secondo quanto esposto in premessa”. “Per quanto riguarda l’Avvocatura - spiega Galletti - siamo all’assurdo oramai di una vaccinazione a macchia di leopardo sul territorio nazionale. Capita così che gli avvocati siano considerati categoria a rischio a Palermo ed in Firenze e non invece altrove, ad esempio, a Roma e nel Lazio, dove fin da novembre abbiamo chiesto come COA Roma e come Unione degli Ordini Forensi del Lazio di procedere alla vaccinazione degli iscritti quanto prima per assicurare continuità al servizio primario della Giustizia”. “Per ora non sono arrivate risposte - prosegue Galletti - eppure sia in Sicilia, sia in Toscana e sia nel Lazio, gli avvocati frequentano aule d’udienza affollate, visitano i detenuti, incontrano una pluralità di assistiti, contribuiscono come parte essenziale al funzionamento di un servizio pubblico essenziale quale quello della Giustizia, che non può certo fermarsi, non potendosi sbattere le porta in faccia ai diritti ed alle libertà”. “Siamo così al paradosso - prosegue - che un avvocato romano, che pure potrebbe essere chiamato a partecipare un’udienza in presenza a Firenze non è vaccinato, a differenza dei colleghi di quella città”. Secondo Galletti dunque è necessario procedere a un “intervento organico che riguardi tutto il territorio nazionale”. A richiedere il riconoscimento come categoria a rischio è anche il presidente dell’Ordine degli avvocati di Catanzaro Antonello Talerico con una lettera inviata al presidente facente funzioni della Regione Nino Spirlì. E un intervento prioritario per la categoria è stato chiesto nella giornata di ieri dal Presidente del Coa Napoli nord, Gianfranco Mallardo. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo, invece, come detto, ha ricevuto comunicazione dell’inserimento degli Avvocati tra le categorie con priorità del programma di vaccinazione. Il Presidente del COA, avv. Giovanni Immordino, ha commentato: “Gli avvocati hanno continuato a lavorare, mettendo sempre a rischio la propria salute”. Polemiche in Toscana dopo che l’Ordine degli avvocati di Firenze ha comunicato agli iscritti: “La Regione ha accolto la richiesta di inserire nella campagna di vaccinazione anti Covid il personale dell’amministrazione giudiziaria e gli avvocati”. Legali dunque inclusi insieme alle forze dell’ordine, al personale scolastico e ai membri del sistema giudiziario fra i destinatari delle dosi AstraZeneca. A gettare acqua sul fuoco l’assessore regionale alla Sanità, Simone Bezzini, che ha spiegato che siccome le dosi “possono essere somministrate solo a persone fra i 18 e i 55 anni, in buono stato di salute”, non verrebbero sottratte né agli anziani né ad altri i soggetti con fragili. A rivolgersi al Presidente della Regione Lombardia, l’avvocato Attilio Fontana, ed all’Assessore al Welfare, Letizia Moratti, l’Unione lombarda degli Ordini forensi: “Avuto notizia - si legge nella missiva - che il personale degli Uffici Giudiziari è stato inserito nella somministrazione prioritaria prevista dal Piano Vaccini fase 2 della Regione Lombardia”, e ritenuta l’iniziativa “lodevole e di grande interesse per il sistema giudiziario”, prosegue il Presidente Angelo Proserpio, “mi permetto di rilevare che il piano di prevenzione potrà essere più utile ed efficace se la somministrazione prioritaria dei vaccini coinvolgerà anche gli Avvocati”. Ricordando che “nei giorni scorsi” anche la rappresentanza istituzionale dell’avvocatura aveva espresso il medesimo suggerimento, condiviso peraltro dall’Anm. Mafia, l’allarme della Dia al Parlamento di Giuliano Foschini e Salvo Palazzolo La Repubblica, 24 febbraio 2021 “Business pandemia. Boom di riciclaggio, corruzione e scambi elettorali”. La relazione della direzione investigativa antimafia conferma le denunce di magistrati ed esperti sui rischi in infiltrazione durante il lockdown: raddoppiate le denunce di mafia. Una lista di padrini scarcerati all’attenzione di chi indaga, potrebbero riorganizzarsi. Un nuovo patto criminale Sicilia-Usa. Cade il muro dell’omertà nell’Ndrangheta: aumento nelle collaborazioni. L’allarme che arriva da Foggia. “Il lockdown ha rappresentato l’ennesima occasione per le consorterie criminali di sfruttare la situazione per espandersi nei circuiti dell’economia legale e negli apparati della pubblica amministrazione”. Non è più un sospetto, è una certezza. Gli analisti della Direzione investigativa antimafia hanno ripercorso le statistiche dei reati commessi su tutto il territorio nazionale e hanno scoperto un dato preoccupante che racconta come si è sviluppata la regia dei padrini: “Nei primi sei mesi del 2020, il numero dei reati commessi con l’aggravante del metodo mafioso è il doppio rispetto all’anno precedente”. A crescere sono soprattutto i “casi di riciclaggio, di reimpiego di denaro e di corruzione”. Anche lo scambio elettorale politico mafioso ha fatto registrare un balzo delle statistiche giudiziarie: “Al Sud, si sono quintuplicati” gli episodi scoperti. Segno del livello di infiltrazione negli enti locali. L’ultima relazione semestrale della Dia al Parlamento dà sostanza all’allarme di questi mesi arrivato da magistrati ed esperti: “Si prospetta il rischio che le attività imprenditoriali medio-piccole (ossia quel reticolo sociale e commerciale su cui si regge principalmente l’economia del sistema nazionale) vengano fagocitate nel medio tempo dalla criminalità, proprio diventando strumento per riciclare e reimpiegare capitali illeciti”. La chiave della grande aggressione sta nella disponibilità di liquidità che i clan continuano ad offrire: “A privati ed imprese in difficoltà”, spiega la Direzione investigativa antimafia oggi diretta da Maurizio Vallone. Indagini, processi e sequestri di beni non sembrano aver fiaccato i padrini. Al contrario: nei primi sei mesi dello scorso anno sono stati denunciati il doppio dei mafiosi rispetto agli anni precedenti. “È la riprova - scrive la Dia - che il lockdown, se da un lato ha determinato una contrazione delle “attività criminali di primo livello” necessariamente condizionate da una minore mobilità sul territorio, dall’altro ha rappresentato l’ennesima occasione per le consorterie criminali di sfruttare la situazione per espandersi nei circuiti dell’economia legale e negli apparati della Pubblica Amministrazione. Non a caso, anche lo scambio elettorale politico mafioso ha fatto registrare un aumento di casi nel 2020”. Sotto osservazione c’è adesso una lista di scarcerati che hanno finito di scontare il loro debito con la giustizia. Boss che hanno conservato un cospicuo portafoglio in questi anni in carcere, e soprattutto il segreto di tante relazioni. Le ultime indagini hanno messo in risalto un gran fermento nelle cosche in giro per l’Italia: la parola chiave per capire oggi è “alleanza”. Per fare fronte contro magistrati e forze dell’ordine. Per massimizzare i profitti con investimenti ancora maggiori. L’alleanza che più preoccupa gli investigatori è il “rinnovato” patto con i “cugini” americani. Nell’ottica di un “superamento” delle divisioni fra vincenti e perdenti del passato. La Dia ricorda che quattro delle cinque famiglie mafiose di New York (Gambino, Genovese, Lucchese e Colombo) sono originarie di Palermo e provincia, la quinta, quella dei Bonanno, ha radici a Castellammare del Golfo, Trapani. Negli ultimi mesi, c’è un stato un gran via vai di ambasciatori per trattare affari, non è ancora chiaro quali. Le indagini della procura di Palermo hanno intercettato due mafiosi agrigentini mentre parlavano della visita di un emissario della famiglia Gambino: era in cerca di una grande azienda in crisi, da riempire di “soldi che vengono da Singapore” e poi fare fallire con un crac. Una grande operazione di riciclaggio, sfruttando in modo eclatante la crisi. Le crepe nell’Ndrangheta - Affari internazionali continuano a fare i boss dell’Ndrangheta, che resta leader del narcotraffico. Ma l’organizzazione “non appare più così monolitica ed impermeabile a fenomeni quali la collaborazione con la giustizia di affiliati e di imprenditori e commercianti sino a ieri costretti all’omertà dal timore che tale organizzazione mafiosa imponeva loro”. È una novità importante messa in risalto dalla Dia: “Un numero sempre maggiore di collaborazioni con la giustizia di soggetti appena tratti in arresto per vari reati sta frantumando quel clima di omertà e di impenetrabilità che aveva contraddistinto l’Ndrangheta”. La galassia della Camorra - “La Camorra napoletana, invece, può oggi facilmente suddividersi in varie classi - scrive la Dia - In prima classe, sicuramente appaiono cartelli di famiglie che hanno saputo resistere nel tempo anche a momenti di grave crisi legate alle vicende delle guerre di camorra che si sono combattute nell’area nord e centro di Napoli. Attualmente risultano salde le posizioni dell’Alleanza di Secondigliano in un’area che va dal centro di Napoli sino a Giugliano, le attività criminali spaziano dai traffici di stupefacenti al commercio internazionale di prodotti con marchi contraffatti (di cui sono indiscussi leader a livello europeo) alla gestione di appalti pubblici. Sullo stesso piano la giungla di famiglie generalmente riconducibili al nucleo familiare dei Mazzarella, oggi egemoni nel centro est di Napoli”. Preoccupano anche gli altri “micro clan operanti in città e provincia che vivono per lo più di traffico di stupefacenti ed estorsioni”. La scarcerazione di un boss o di un “soggetto particolarmente determinato” può anche creare conflitti “che possono sfociare pure in omicidi per il riposizionamento sul territorio”, avverte la Dia. La mafia foggiana - Se mai ce ne fosse bisogno, la relazione della Dia evidenzia anche l’altra nuova emergenza criminale con cui il nostro Paese deve fare i conti ormai da tempo: la mafia foggiana. “Ormai da qualche anno - scrive la Dia, citando le parole del procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho - si ha la consapevolezza che esiste una quarta mafia, una mafia forte, sanguinaria, arrogante, che crede di poter combattere con lo Stato”. “Un quadro evolutivo sempre più spregiudicato, tale da creare un serio allarme sociale, con ripercussioni sul locale tessuto socio-economico”, scrive la Dia. In un quadro in cui è sempre più chiaro uno scambio tra “mafia degli affari e quella che indichiamo come la borghesia mafiosa, punto d’incontro tra gli interessi dei clan e di certa parte del mondo imprenditoriale e della politica. Le organizzazioni mafiose foggiane stanno crescendo, si stanno evolvendo, stanno passando da un modello sempre più tradizionale di mafia militare ad un modello più evoluto di mafia degli affari, e questo sta modificando gli assetti, i rapporti di alleanze perchè quanto più gli obiettivi sono ambiziosi, tanto più le relazioni, le cointeressenze si fanno strutturate”. Per due giudici deve andare ai domiciliari: ma l’istanza è rigettata di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 febbraio 2021 Il magistrato di Sorveglianza ha respinto l’istanza per i domiciliari dei difensori di Carmine Alfano, affetto da “broncopatia cronica asmatiforme”. È affetto da una grave malattia respiratoria, tanto che per i due processi pendenti i giudici hanno dato il via libera ai domiciliari perché “esposto a pericolo di vita”. Ha anche un residuo pena di 8 mesi ancora da scontare, ma la magistratura di sorveglianza ha rigettato l’istanza. Una vicenda non isolata, ma di “ordinaria amministrazione”, utile a capire quanto sia tuttora difficoltoso garantire il diritto alla salute nonostante che il periodo pandemico ne richiede maggiore urgenza. In questo caso parliamo di Carmine Alfano, detenuto attualmente nel carcere di Siracusa, affetto, come si evince dalla sua cartella clinica, da “broncopatia cronica asmatiforme” e da “enfisema bolloso parasettale”, vale a dire da “bolle d’aria sulla superficie pleurica del polmone”, tali da determinare il collasso dell’organo e, quindi, “l’interruzione della funzione ventilatoria che garantisce l’ossigenazione sanguigna”. Il problema è che è stato già colpito da due attacchi di pneumotorace spontaneo “a carico del polmone sinistro, che ha determinato insufficienza respiratoria acuta che ha richiesto il drenaggio in emergenza del cavo pleurico”. Ha una severa patologia e rischia la vita in caso di Covid 19 - In sede di consulenza tecnica, all’esito di un accurato esame clinico, il dottore ha formulato una prognosi “quoad vitam infausta”, rappresentando che, nell’ipotesi in cui il pneumotorace “si verificasse contemporaneamente nell’emitorace destro e in quello sinistro, il soggetto andrebbe incontro a morte certa per insufficienza respiratoria acuta”. In considerazione della severa patologia e del rischio esponenziale in caso di contagio da Covid-19, il medico ha sollecitato “la Direzione Sanitaria della Casa Circondariale di Siracusa ad effettuare una visita specialistica pneumologica”, in realtà già richiesta dal mese di agosto del 2019. La stessa Area Sanitaria della Casa circondariale di Siracusa, con nota del 19 marzo 2020, ha segnalato che il detenuto Alfano “ha avuto un pneumotorace spontaneo ed alla Tac sono state evidenziate bolle di enfisema a carico del lobo superiore di destra e sinistra. (…) Alla visita odierna ha riferito dispnea notturna ed obiettivamente erano presenti lievi sibili respiratori. (…) In atto le sue condizioni sono apparentemente buone, ma non si può escludere che un eventuale contagio con Covid 19 possa cagionare un pregiudizio alla salute”; sempre nella nota il medico del carcere ha rilevato che Alfano “è in attesa di effettuare visita pneumologica e test di bronco dilatazione e Dlcop presso l’Ospedale Umberto I di Siracusa, inoltre, poiché ha lamentato disturbi urinari ed è stata richiesta ecografia vescica e prostata”. Sia il Gip sia la Corte d’Assise di Salerno hanno evidenziato la pericolosità della carcerazione - A tutt’oggi, però, nonostante i reiterati solleciti, non è stato effettuato alcun accertamento clinico.Com’è detto, Carmine Alfano ha due processi pendenti. In uno, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Salerno ha sostituito la misura di massimo rigore con quella degli arresti domiciliari, reputando il protrarsi della carcerazione particolarmente pericoloso per il detenuto e ritenendo addirittura superflua un’eventuale perizia. Il Gip ha evidenziato la necessità di costanti contatti con le strutture sanitarie esterne e la correlata difficoltà a causa dell’epidemia da Covid 19. Tale provvedimento viene assunto a seguito di una nota trasmessa, il 28 dicembre 2020, dall’Area Sanitaria della Casa circondariale di Siracusa, dove viene rimarcata la criticità delle condizioni di salute di Alfano. Analoga decisione di concessione degli arresti domiciliari in luogo della carcerazione, adottata il 12 gennaio scorso, è giunta anche dalla Corte di Assise di Salerno. Ha rilevato come “nel caso di specie si è proprio in presenza di una valutazione in concreto, operata dalla stessa casa circondariale, secondo cui la necessità di contatti e trasferimenti continui del detenuto presso strutture esterne, indispensabile per la cura della patologia è resa oltremodo difficoltosa dalla attuale situazione emergenziale degli Ospedali, sicché diviene effettivo il rischio che il detenuto non possa essere curato o soccorso con la tempestività necessaria e sia, perciò, esposto a pericolo di vita”. Dopo quasi un mese e mezzo il detenuto si è visto rigettare dalla magistratura di sorveglianza l’istanza per la detenzione domiciliare. Il problema è che, essendo affetto da enfisema bolloso bilaterale, nella malaugurata e sfortunatissima eventualità che il pneumotorace si verificasse contemporaneamente nell’emitorace destro e in quello sinistro, andrebbe incontro a morte certa per insufficienza respiratoria acuta. La questione diventa ancora più pericolosa nel momento in cui rischia di contrarre il Covid. Problematica recepita da ben due giudici, tranne dalla magistratura di sorveglianza che ha disposto il trasferimento presso il carcere sardo di Cagliari. Reati sessuali, la privacy della vittima cede solo davanti a un essenziale interesse pubblico di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2021 Il giornalista deve dimostrare di aver valutato il diritto alla dignità umana in rapporto alla rilevanza di dare la notizia con le generalità. Il Codice della privacy esclude la divulgazione dei nomi delle vittime di violenza sessuale, a meno che sia necessaria ai fini della corretta informazione sulla vicenda e che tale informazione corrisponda a un essenziale interesse pubblico. La Corte di cassazione con la sentenza n. 4690/2021 ha accolto il ricorso di una moglie che, violentata dal marito in un ambito di maltrattamenti in famiglia, lamentava la pubblicazione da parte di un giornalista delle proprie generalità. Il rinvio è stato giustificato dalla carenza della motivazione del giudice di merito che, nel respingere la domanda della donna di risarcimento danni, ha ritenuto legittima la condotta del giornalista. La prima difesa dell’autore dell’articolo - che emerge tra le righe della sentenza di legittimità - si attagliava sulla piena riconoscibilità della vittima a causa della doverosa divulgazione delle generalità del marito autore del reato. Ma tanto il giornalista quanto il giudice - chiamato a valutarne il comportamento - non possono limitarsi a una tale constatazione, che non è spendibile de plano. La divulgazione di nome e cognome della vittima va, infatti, comunque valutata in rapporto alla circostanza che siano essenziali alla notizia e che questa sia di interesse generale. ma soprattutto, che tali dati coperti da privacy non siano “eccedenti” rispetto al fine di rendere una corretta informazione di un fatto che per le sue peculiarità coinvolge la dignità umana della vittima. L’articolo 137 del Codice Privacy mira a tutelare la riservatezza delle persone offese dalla commissione di alcuni gravi reati, segnatamente di natura sessuale. Ma la verità del fatto, la rilevanza dell’interesse pubblico a conoscerlo e la continenza nell’esporlo, da parte del giornalista, sono fattori che lasciano sopravanzare il diritto di cronaca sull’interesse alla privacy della persona offesa dal reato sessuale. Cioè la tutela di rilievo costituzionale della dignità della persona può essere superata da una puntuale valutazione giornalistica - oggetto dell’esame del giudice, in caso di lite - sull’essenzialità dell’interesse a divulgare la notizia. Quindi la bilancia può ben pendere dal lato della libertà di espressione in merito a un fatto che coinvolge la privacy individuale. Nel caso concreto la Corte annulla la sentenza per la carente motivazione fornita sul punto di tale bilanciamento. Umbria. Una struttura per i detenuti con disturbi psichiatrici. Il Consiglio regionale vota “sì” perugiatoday.it, 24 febbraio 2021 Approvata una mozione per l’istituzione di una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza come quella in cui è rinchiuso Luigi Chiatti. La chiusura degli istituti psichiatrici per detenuti ha aperto la strada alle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, cioè quelle strutture dove rinchiudere persone condannate o non giudicabili, ma per le quali è necessario un regime detentivo. L’Umbria ne è sprovvista e invia le persone soggette a questo tipo di misura in Sardegna (come Luigi Chiatti, condannato per il duplice omicidio di bambini a Foligno) oppure in Toscana. Il costo per un detenuto in Rems, a carico dello Stato e delle Regioni, è di 350 euro giornalieri. Nel Carcere perugino di Capanne risultano 120 degli attuali 360 detenuti presentano problemi psichiatrici certificati e, anche se non tutti necessitano del ricovero in una Rems, costituiscono un problema per la gestione quotidiana da parte degli agenti di Polizia penitenziaria, spesso costretti ad affrontare atti di autolesionismo e aggressioni da parte dei detenuti. Della condizione dei detenuti con problemi psichiatrici si è occupato anche il Garante dei detenuti nella relazione 2019, a conferma che il carcere non è il luogo adatto per questi soggetti: aumento degli eventi critici, spesso innescati da soggetti affetti da patologie psichiatriche, tentativi di suicidio, rivolte, scioperi della fame, atti di autolesionismo, aggressioni al personale, baratto dei medicinali. Analoghe difficoltà seppur in numero inferiore, sono state rilevate anche nel carcere di Terni e in quello di Orvieto. La soluzione potrebbe essere quella di realizzare una Rems in Umbria, così come chiesto dalla mozione promossa dai consiglieri della Lega Francesca Peppucci, Eugenio Rondini, Valerio Mancini, Daniele Carissimi, Daniele Nicchi e dal Gruppo di Fratelli d’Italia, con Eleonora Pace e Marco Squarta. Un atto con il quale si chiede di “rivedere l’accordo interregionale con la Regione Toscana relativo alla realizzazione e gestione di residenze comuni per detenuti con patologie psichiatriche e di dotare l’Umbria di una struttura propria Rems”. L’Umbria non aveva mai realizzato una propria Rems in quanto al momento dell’istituzione di tali strutture si trovavano ristretti solo sette detenuti, rientranti nei criteri previsti. Da qui l’accordo con Liguria, Sardegna e Toscana per ospitare, nelle proprie strutture, gli internati provenienti dal territorio umbro, “fermo restando l’impegno reciproco di favorire la dimissibilità, con presa in carico dei Dipartimenti di salute mentale del territorio di provenienza, delle persone che cessano di essere socialmente pericolose” ha ricordato la consigliera Peppucci. Nonostante l’accordo, ad oggi i posti riconosciuti all’Umbria risultano, però, insufficienti, con difficoltà di gestione dei detenuti ritenuti pericolosi e bisognosi del servizio, ma anche una lunga lista di attesa per usufruire dei posti. “Ci siamo attivati dopo l’incontro con la Procura che ha posto questa necessità. I numeri sono notevolmente aumentati, servirebbero 10 posti più altri 10, per altrettanti pazienti maschi e femmine, che dopo adeguate valutazioni mediche e di percorso in relazione ai reati commessi dovrebbero gradualmente essere reimmessi nella società - ha detto in aula l’assessore Coletto - Proprio per questo c’è necessità di una Rems, e con la delibera dello scorso 16 dicembre è stato approntato un gruppo di lavoro per determinare la collocazione e la costruzione della residenza. Quindi sono stati aggiunti dei tecnici per arrivare in tre mesi a definire collocazione e tipo di struttura”. Palermo. Detenuto suicida in cella: medici imputati per omicidio colposo di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 24 febbraio 2021 Avrebbero dato il via libera a un trasferimento singolo. “Rispettate sempre le linea guida”. Ci sono due imputati per la morte di Samuele Bua, che nel novembre 2018 si suicidò all’interno del carcere Pagliarelli di Palermo. Aveva 29 anni. Il procuratore aggiunto Ennio Petrigni e il sostituto Renza Cescon hanno chiesto il rinvio a giudizio per omicidio di colposo nei confronti dei medici in servizio nel penitenziario. Il 20 aprile prossimo sapranno dal giudice per l’udienza preliminare Stefania Brambille se deciderà di mandarli o meno sotto processo. Samuele era un soggetto affetto da “schizofrenia grave”. Un giorno i vicini sentirono delle urla provenire dalla casa e avvertirono i carabinieri. Samuele finì in carcere. “Non è lì che doveva stare”, hanno sempre detto i familiari, che hanno presentato una denuncia tramite l’avvocato Giorgio Bisagna. Una volta in cella Samuele Bua si tolse la vita impiccandosi con in lacci delle scarpe. Era stato posto in isolamento. Secondo l’accusa, i due imputati non avrebbero tenuto conto della certificazione di un altro medico che aveva disposto le dimissioni dal reparto di psichiatria e il trasferimento in una cella del reparto “grande sorveglianza” in compagnia di un altro detenuto che potesse controllarlo. Ed invece Bua finì in una cella da solo. Gli furono pure riconsegnati gli oggetti di uso comune, fra cui rasoi, lenzuola e lacci delle scarpe. Quei lacci che il detenuto avrebbe poi usato, un mese dopo, per mettere fine alla sua vita. I due imputati, assistiti dagli avvocati Claudio Gallina Montana, Valeria Minà e Gianluca Corsino, hanno sempre professato la loro innocenza, escludendo qualsiasi colpa nel loro operato, approntato sempre al rispetto delle linee guida. C’è un ulteriore giallo in questa strana storia. L’autopsia svelò che Bua aveva tracce di alcol nel sangue. Davvero strano per un soggetto che si trovava in isolamento in carcere. San Gimignano (Si). Le torture e le responsabilità istituzionali taciute di Giusy Santella mardeisargassi.it, 24 febbraio 2021 Appena qualche settimana fa, in seguito alla prima condanna per tortura per un agente del carcere di Ferrara, parlavamo non solo di quanto fosse stata necessaria la previsione di questa fattispecie di reato nel 2017, ma soprattutto di quanto fosse stato - e tuttora sia - difficile fare luce su ciò che avviene negli istituti penitenziari. Pochi giorni or sono, abbiamo avuto la conferma di quanto affermato: dieci agenti in servizio presso il carcere di San Gimignano sono stati condannati per tortura e lesioni aggravate ai danni di un detenuto tunisino che nell’ottobre 2018 era stato vittima di un brutale pestaggio durante un trasferimento di cella. La vicenda giudiziaria riguarda anche un medico dell’istituto, condannato per rifiuto d’atti d’ufficio, per non aver visitato e refertato il detenuto, nonché altri cinque agenti, rinviati a giudizio ordinario nei prossimi mesi in un procedimento in cui si è costituita parte civile pure l’Associazione Antigone. Anche in quell’occasione, il detenuto non si era sentito nelle condizioni di denunciare: il fatto di essere straniero lo aveva posto probabilmente in una situazione di marginalità ancora maggiore di quella ordinaria, costringendolo a vivere in una condizione di trauma e terrore per mesi, rifiutandosi addirittura di vedere un medico. È stato solo grazie all’attenzione di un’educatrice e al coraggio di altri detenuti che le atrocità subite sono emerse ed è stato possibile allertare il magistrato di sorveglianza e poi le autorità competenti per le indagini. Ma cosa accade quando questo coraggio manca? Quando prevale la paura di ritorsioni o si hanno di fronte altri complici di un sistema penitenziario repressivo e disumano? I particolari che stanno venendo fuori riguardo ai fatti di San Gimignano sono ogni giorno che passa più raccapriccianti: gli agenti erano quindici, ognuno con i guanti, semplicemente per trasferire da una cella a un’altra un detenuto del tutto inconsapevole di ciò che stava per accadergli. Stentiamo a capire il motivo di un simile gesto. Di cosa si tratta? Frustrazione, divertimento, cattiveria? Ho parlato con coloro che sono stati crocifissi come torturatori, mentre sono onesti lavoratori, che fanno uno dei lavori più difficili del mondo. Ci sono aggressori senza aggrediti, torturatori senza torturati e denunciati senza denuncianti. Gli uomini e le donne in divisa non meritano di essere trattati come delinquenti: queste le parole che furono pronunciate al momento dell’apertura del procedimento dall’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini, che si recò immediatamente a San Gimignano a mostrare la propria solidarietà agli agenti indagati, certo della loro innocenza e chiedendo che il video che li incriminava fosse mostrato pubblicamente, in modo che tutto il popolo italiano potesse farsi un’idea. Ma la giustizia non è fatta di idee e non si fa né sulle forche nelle piazze né tantomeno dietro a uno schermo, bensì nelle aule dei tribunali e attraverso persone che sono adibite e competenti per una tale funzione. Intanto, il video è stato mostrato: tutti abbiamo potuto vederlo, osservarne la brutalità, la noncuranza degli aggressori, le grida di dolore, il corpo esanime sul pavimento e le voci degli altri reclusi provenienti dalle celle lungo il corridoio, cui viene intimato di stare zitti. Abbiamo visto, ci siamo fatti un’idea e dovremmo vergognarcene. Se è vero che la presunzione di innocenza vale per chiunque fino a prova contraria, non bisogna neppure essere certi che un uomo, solo perché in divisa, non possa aver sbagliato. Durante l’espiazione della pena, i detenuti sono posti sotto la custodia dello Stato che ha un obbligo positivo di tutela nei loro confronti e di rispetto dei loro diritti fondamentali. Chi indossa una divisa rappresenta lo Stato nell’esercizio delle sue funzioni e non può in alcun modo sottoporre a trattamenti inumani le persone recluse, qualsiasi siano i motivi. Tra le guardie e i ladri sceglierò sempre le guardie, aggiunse allora Salvini: l’idea per la quale ci siano buoni e cattivi e ai secondi sia sempre possibile attribuire tutte le colpe è una costruzione irrealistica che non trova nessun riscontro nei fatti. Chi ha commesso un reato non ha, soltanto per questo, meno credibilità di un uomo incensurato né meno diritto a vedere tutelata la propria persona. Compito di uno Stato di diritto - quale si propugna l’Italia - non è coccolare e accudire i buoni cittadini, mentre reprime quelli che appartengono alle categorie più marginali della società, che abbiano sbagliato o che non si mostrino figli accondiscendenti e sottomessi. È suo preciso compito schierarsi sempre dalla parte degli oppressi e mai da quella degli oppressori, chiunque essi siano. Ci sono delle responsabilità istituzionali precise dietro i fatti di San Gimignano e tutte le atrocità commesse in carcere in questi anni: uno Stato che non si ferma a riflettere su un sistema che produce tali brutalità è esso stesso carnefice e il moltiplicarsi di fatti analoghi, nonché le ben due condanne per torture in poche settimane, ci dimostrano che non possiamo nasconderci più dietro singoli cui addossare tutta la responsabilità. Un sistema malsano va rivisto completamente, ne vanno scardinate le basi e le colonne portanti. Solo allora potremo dire di essere uno Stato di diritto che reinserisce in società chi ha commesso un reato e lo fa in maniera umana e dignitosa. Fino ad allora, ci resteranno la vergogna e una lunga strada da percorrere. Carinola (Ce). Covid, i sindacati: “Nel carcere di un pericoloso focolaio” anteprima24.it, 24 febbraio 2021 “La prevista e temuta terza ondata della pandemia da Covid-19 sta investendo a largo raggio anche la nostra regione con effetti devastanti e, in particolar modo, il carcere di Carinola (Caserta), laddove si sta registrando un pericoloso focolaio con un aumento quotidiano e vertiginoso del contagio, tanto da rimanere pericolosamente sguarnito”. È quanto fanno sapere, in una nota congiunta, i sindacati polizia penitenziaria Si.N.A.P.Pe, Osapp, Uil P.A. Pp, Uspp, Fns Cisl, Cnpp E Fp Cgil, rispettivamente con i segretari Gallo, Palmieri, De Benedictis, Auricchio, Strino, Napoletano e Scocca, che hanno inviato una lettera, tra gli altri, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, al prefetto di Caserta Raffaele Ruberto e al provveditore regionale Antonio Fullone. Su 130 unità in servizio nell’istituto penitenziario, quasi trenta sono malati e altri dieci sono in quarantena. “Nell’istituto in questione - aggiungono i sindacalisti - in un turno pomeridiano si è registrata addirittura la presenza di sole 2 unità in confronto alle 13, numero già al di sotto della soglia minima di sicurezza. È di pochi giorni fa la triste e sconvolgente notizia inerente alla scomparsa di due servitori dello Stato, entrambi vittime del virus, la cui colpa è stata quella di prestare servizio presso l’istituto di Carinola e quello di Napoli Poggioreale. È evidente che l’evoluzione della pandemia richiede un contenimento immediato ed incisivo teso a salvaguardare la salute di quegli uomini e di quelle donne che con spirito di abnegazione servono lo Stato, nonché la sicurezza stessa degli istituti penitenziari. Nello specifico, infatti, presso l’istituto in questione la carenza di personale dovuta ai numerosi contagi sta causando enormi problemi di carattere organizzativo e gestionale con inevitabile ripercussione negative sia sulla sicurezza interna, che sull’ordine pubblico. Purtroppo, i provvedimenti adottati nell’immediato dall’amministrazione Penitenziaria, ai vari livelli interessati, come era già prevedibile, sono risultati inefficaci, inefficienti e fallimentari come dimostrato dallo stato dei fatti”. I sindacati, “al fine di fronteggiare e contenere ai minimi rischi l’emergenza in atto”, chiedono “l’immediato invio di personale di polizia penitenziaria in missione con provvedimenti di carattere stabile con tutti gli istituti giuridici ed economici che prevede la normativa, oltre alla chiusura di tutti i locali di aggregazione presenti in istituto che possano comportare pericolosi assembramenti. Si chiede altresì una tempestiva ispezione delle autorità sanitarie ed amministrative finalizzata a valutare l’idoneità, la salubrità ed igiene dei luoghi di lavoro ed il rispetto dei protocolli Covid sottoscritti sia a livello centrale che periferico. Per i fatti sopraesposti, le scriventi organizzazioni sindacali regionali proclamano sin da ora lo stato di agitazione del personale di Polizia Penitenziaria dell’istituto di Carinola fino a quando non saranno presi concreti provvedimenti finalizzati a risolvere le questioni rappresentate”. “In assenza di risposte concrete da parte degli organi in indirizzo, si valuteranno altre e più incisive forme di protesta informandone costantemente i superiori uffici, le rispettive segreterie nazionali e locali, le autorità competenti e gli organi di stampa”, conclude la nota congiunta dei sindacati. Crotone. Coronavirus, l’appello del Garante: “Vaccinare anche i detenuti” zoom24.it, 24 febbraio 2021 Il Garante comunale dei detenuti si unisce all’ appello per l’inserimento dei detenuti calabresi nel piano vaccini, lanciato dal Garante regionale. Mi unisco e condivido l’appello lanciato ieri dal, Garante regionale dei detenuti per la Calabria avv. Agostino Siviglia sulla richiesta di inserimento nel Piano vaccini regionale calabrese, delle persone recluse e del personale in servizio presso i luoghi di reclusione, soggetti appartenenti alle categorie a maggior rischio di contagio. La questione sollevata riguarda i 12 istituti penitenziari calabresi e dunque anche la Casa Circondariale di Crotone. Ritengo dunque fondamentale un’attenzione istituzionale in tal senso come questione di somma urgenza. Evidenzio che, nel periodo emergenziale a Crotone, sono stati consegnati fino al novembre del 2020, oltre 2000 dispositivi di protezione individuale per la profilassi e che gli stessi rappresentano una misura solo temporanea per assicurare il diritto alla salute. Restiamo tutti in attesa della somministrazione vaccinale antiCovid19 per le persone recluse, misura indispensabile per garantire la salute e scongiurare anche un solo contagio a chi vive in situazioni particolari di privazione della propria libertà e dunque in vulnerabilità sociale. Come già sottolineato dal garante regionale, in alcune aree territoriali quali il Lazio vi è già una programmazione in tal senso e pertanto, a metà marzo inizierà la somministrazione del vaccino anti-Covid ai detenuti e al personale carcerario, mi auguro che la nostra realtà regionale e locale non rimanga ultima in quest’azione necessaria e urgente. Roma. Disordini a Rebibbia: indagate venti detenute di Giulio De Santis Corriere della Sera, 24 febbraio 2021 La rivolta del 9 marzo 2020. Lenzuola incendiate, insulti e qualche spintone alle agenti. È la protesta inscenata da venti detenute, ora indagate dalla Procura, nell’area femminile del carcere di Rebibbia il 9 marzo del 2020 in seguito all’adozione delle misure per contenere il Covid-19. Disordini avvenuti nelle stesse ore nella zona riservata agli uomini. Le responsabili della protesta sono indagate per resistenza e danneggiamento. Ai loro “colleghi” sono invece contestati reati più gravi, dal sequestro di persona alla devastazione e saccheggio. Differenze dovute al tipo di protesta. Le donne, apprese le restrizioni dovute al coronavirus, hanno cominciato a fare rumore e gettare dall’interno delle celle nel corridoio antistante lenzuola e cartoni in fiamme. I poliziotti penitenziari hanno provato a dissuaderle, ma ne è nato qualche tafferuglio animato da insulti e spintoni. Al contrario degli uomini che hanno fatto finire lo stesso 9 marzo di un anno fa un ispettore in ospedale. Verbania. Il lavoro come fonte di riscatto: l’esperienza dei detenuti diventati pasticceri di Cristina Pastore La Stampa, 24 febbraio 2021 La produzione della “Banda Biscotti” è cresciuta molto in 15 anni: ora la cooperativa Divieto di sosta dà lavoro a dieci soci. Una lista di oltre venti dolci, in vendita anche all’Ipercoop e nei negozi di commercio equo e solidale. La produzione della Banda Biscotti, e la distribuzione, è cresciuta molto in 15 anni. Era il 2006 quando, nel carcere di Verbania, l’ente di formazione Casa della carità arte e mestieri insieme a quella che da lì a poco sarebbe diventata la cooperativa sociale “Divieto di sosta, organizzò il primo corso di pasticceria. Il primo laboratorio venne ricavato in una cella. Oggi i dieci soci lavoratori che di media sono occupati con la Banda Biscotti hanno forno e attrezzature alla scuola di polizia penitenziaria, a poca di stanza dal carcere. Vengono selezionati secondo attitudine e motivazione. Integrazione e inclusione sono le parole chiave dell’impegno quotidiano di Divieto di sosta e del Sogno: le due cooperative stanno per fondersi, per portare avanti un’attività che nel tempo si è ampliata. La Banda Biscotti ora sforna baci di dama, lingue di gatto, margheritine, damotti e tante altre paste secche insieme a dolci al cucchiaio, muffin, croissant e crostate. Parte finisce in un circuito di negozi, il resto viene servito alla mensa sociale Gattabuia, che a villa Olimpia a Pallanza è gestita dal Sogno, così come la caffetteria sociale Casa Ceretti a Intra. “Banda Biscotti oggi propone una linea convenzionale e una biologica. Per la seconda vengono utilizzati prodotti di una filiera corta, locale e regionale” spiega Erika Bardi, che per il Sogno si occupa delle attività di reinserimento dei detenuti. Il lavoro tra creme, farciture e impasti è seguito dalla pasticcera Chiara Spigolon con la supervisione di Alessandro Ghitti e il coordinamento, per acquisti, certificazioni e confezionamento, di Alice Brignone. Il progetto di economia carceraria (lo stipendio ai soci lavoratori è pagato con le vendite) s’incrocia con altre iniziative provinciali di carattere sociale, come La cura è di casa per il mantenimento di anziani soli nelle loro abitazione. La Banda Biscotti - con la consulenza dello chef Max Celeste - ha anche creato il “biscotto di Emma” dedicato alla supercentenaria di Verbania, scomparsa a 117 anni nel 2017. Migranti. Aumentano gli sbarchi ma 5 milioni di stranieri sono regolari Corriere della Sera, 24 febbraio 2021 In aumento gli sbarchi nell’anno della pandemia ma secondo l’analisi di Fondazione Ismu si va incontro a una stagnazione del fenomeno migratorio. Dei 5 milioni di stranieri residenti, la metà lavora. Ma la crisi mette in difficoltà giovani e donne. In Italia è straniero poco meno di un residente su dieci. La stima è di Fondazione Ismu (al 1° gennaio 2020). Tra i presenti (5.923.000 su una popolazione di 59.641.488), i regolari e residenti sono 5 milioni, i regolari non iscritti in anagrafe 366mila, mentre gli irregolari sono poco più di mezzo milione. In sostanza, rispetto alla stessa data del 2019, il numero di stranieri presenti è sostanzialmente invariato con un calo pari a -0,7%. Nel 2020, l’anno della pandemia Covid-19, si è registrato un aumento degli sbarchi (34mila), dopo due anni di diminuzione (23mila nel 2018 e 11mila nel 2019). Mentre sono calate le richieste d’asilo (28mila nel 2020 contro le 43.783 dell’anno precedente). Nonostante la ripresa degli sbarchi, il fenomeno migratorio nel nostro Paese mostra i segnali di una fase di relativa stagnazione. Tendenza che potrebbe accentuarsi anche a seguito della crisi economica che il post-pandemia porterà con sé. In prospettiva, Ismu prevede una riduzione della consistenza numerica anche per quanto riguarda la componente irregolare, su cui agiranno “sia gli effetti della sanatoria intervenuta nel corso di quest’anno, sia l’eventuale riduzione della forza trainante di un mercato del lavoro che quasi certamente faticherà a recuperare le posizioni, già non brillanti, dell’epoca pre-Covid”. Sono i principali dati del XXVI Rapporto sulle migrazioni di Fondazione Ismu (Iniziative e Studi sulla Multietnicità), presentato martedì mattina in collaborazione con la Fondazione Cariplo e con la Rappresentanza a Milano della Commissione Europea. Tra gli ospiti Mariella Enoc, presidente di Fondazione Ismu; Giovanni Fosti, presidente di Fondazione Cariplo; Patrick Doelle, capo della Rappresentanza a Milano della Commissione europea. La migrazione in Italia - Tra i 5 milioni di residenti stranieri i maschi rappresentano il 48,2% del totale e le femmine il 51,8% (tra la popolazione italiana le donne sono il 51,2% del totale), i minorenni il 20,2% (sono il 14,8% di quelli di cittadinanza italiana) e gli ultrasessantacinquenni sono il 4,9% (contro il 24,9% tra gli italiani). Gli irregolari - La dinamica dell’irregolarità registra un’inversione di tendenza: le persone prive di un valido titolo di soggiorno scendono in un anno da 562mila a 517mila (-8,0%). Le restrizioni alla mobilità causate dalla pandemia hanno influito sugli spostamenti finalizzati alla richiesta di asilo o protezione umanitaria che avvengono attraverso le frontiere aeroportuali. Negli ultimi dieci anni, le richieste d’asilo sono state 608.225. Durante il 2020 le richieste d’asilo sono state 28mila, quasi dimezzate rispetto all’anno precedente. In calo anche il numero di nuovi permessi di soggiorno concessi nei primi 6 mesi 2020: circa 43mila nuovi permessi di soggiorno, meno della metà del primo semestre 2019. Il calo maggiore ha riguardato le concessioni per richiesta di asilo, passate da 51mila nel 2018 a 27mila nel 2019 (-47,4%). Al 1° gennaio 2020 si contano in totale 3 milioni e 616mila cittadini non comunitari con un permesso di soggiorno, di cui i lungo-soggiornati costituiscono il 63,1%. Gli sbarchi - Passando agli ingressi via mare i dati sono in controtendenza rispetto a quelli della mobilità generale: le persone sbarcate in Italia nel 2020 sono state 34mila, in aumento dopo due anni di diminuzione (23mila nel 2018 e 11mila nel 2019). Tra gli altri canali di ingresso che alimentano potenzialmente le richieste di asilo c’è quello degli arrivi irregolari via terra che dall’inizio dell’anno al 26 novembre 2020 sono stati 5.032 (nel 79% dei casi provenienti dalla Slovenia). Le provenienze - Il 22,7% dei residenti stranieri proviene dalla Romania, il gruppo nazionale più numeroso con un milione e 146mila residenti, il 22,7% del totale degli stranieri residenti in Italia. Seguono circa 422mila albanesi (8,4%) e 414mila marocchini (8,2%). Al quarto posto si collocano i cinesi con quasi 289mila unità (5,7% del totale stranieri in Italia), poi gli ucraini con quasi 229mila unità, i filippini (quasi 158mila), gli indiani (poco più di 153mila), i bangladeshi (quasi 139mila), gli egiziani (circa 128mila) e i pakistani (meno di 122mila). Le prime tre nazionalità rappresentano da sole quasi il 39,3% del fenomeno migratorio complessivo, mentre in totale le prime dieci raggiungono il 63,5%. Nelle strutture di accoglienza - In Italia al 31 dicembre 2020 risultavano accolte in strutture di accoglienza (negli hotspot, nei Siproimi - Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati - e nei centri di accoglienza straordinari) 80mila migranti, in netta diminuzione rispetto agli anni precedenti. La Lombardia - La Lombardia è la Regione che al 31 dicembre 2020 ospita il maggior numero di migranti, 10.494 (13% sul totale), seguita da Emilia Romagna (8.392) e Lazio (7.491). Minori stranieri non accompagnati. Negli ultimi cinque anni la quota di minori stranieri non accompagnati (Msna) sul totale degli sbarcati è stata sempre superiore alla media decennale, oscillando fra il 13,2% e il 15,1%. Sul fronte dell’accoglienza dei minori stranieri soli, al 31 dicembre 2020 risultavano presenti e censiti nelle strutture di accoglienza italiane 7.080 Msna, in grande maggioranza maschi (96,4%) e soprattutto giovani quasi-adulti (il 67% di loro ha 17 anni). Il lavoro - Nel 2019 gli occupati stranieri hanno superato i 2 milioni e mezzo, su una popolazione in età da lavoro di oltre 4 milioni Gli stranieri rappresentano il 10,4% della popolazione in età attiva, l’11,2% delle forze di lavoro, il 10,7% degli occupati e ben il 15,6% dei disoccupati totali. Nel 2019 il tasso di occupazione degli stranieri è del 61% e subisce una lieve flessione, a causa dell’andamento negativo di quello femminile. Il tasso di disoccupazione è del 13,8% (contro il 9,5% degli italiani), con punte più alte tra la componente femminile (16,3%) e i giovani extracomunitari (24%). Migrazione e pandemia - L’impatto della pandemia e scenari post Covid-19. L’emergenza determinata dal Covid-19 ha posto in evidenza l’elevata percentuale dei migranti tra i key-workers, impegnati nella produzione dei servizi essenziali, quali la filiera agroalimentare, il settore sanitario e della cura, la logistica. In particolare è emersa la dipendenza dei sistemi di produzione alimentare dei paesi sviluppati dai lavoratori immigrati. Inoltre la crisi sanitaria ha avuto l’effetto non soltanto di rivelare la precarietà e la vulnerabilità dei migranti sul mercato del lavoro, ma anche di rafforzarle. Su questo quadro si è innestata la regolarizzazione che ha portato in totale a 207.542 domande di emersione, di cui 176.848 per lavoro domestico e assistenza alla persona e 30.694 per lavoro nel settore primario (agricoltura e pesca): un esito importante ma in grado di incidere solo in parte sul problema dell’irregolarità dei rapporti di impiego. La regolarizzazione: luci e ombre - Pur senza toglierle il merito di aver permesso l’emersione di migliaia di lavoratori irregolari, questa regolarizzazione ha una volta di più ribadito la distanza tra la legge e la realtà. Il XXVI Rapporto sulle migrazioni 2020 di Fondazione Ismu tratta anche altre tematiche di attualità: razzismo e discriminazione ai tempi della pandemia; i rifugiati e l’azione umanitaria; Unione europea, Africa e migrazioni, le novità legislative. Anche in questa edizione è riservato uno sguardo all’Europa, in particolare alle nuove prospettive per le politiche migratorie europee (opinione pubblica e budget dell’Unione) e all’evoluzione del quadro normativo. Il XXVI Rapporto sulle migrazioni 2020 di Fondazione Ismu: www.ismu.org/presentazione-xxvi-rapporto-sulle-migrazioni-2020. Se volete leggere storie di energie positive e buone pratiche ed essere informati sui temi che riguardano il Terzo settore iscrivetevi qui alla newsletter gratuita di Buone Notizie: la riceverete dal 22 febbraio ogni lunedì alle 12. Migranti. La solidarietà diventa reato, irruzione a Linea d’Ombra di Marinella Salvi Il Manifesto, 24 febbraio 2021 L’associazione assiste migranti accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Presidio spontaneo in piazza Libertà, ieri pomeriggio, per ricordare che quella è la piazza di tutti, la piazza di Linea d’Ombra e della Strada Si.Cura e dei migranti feriti, affamati, spaventati, che hanno percorso la rotta balcanica e sono arrivati fino a lì. Pochi, alla spicciolata, attraversando nazioni e confini e filo spinato, rincorsi dai cani, bastonati dalle polizie, ributtati indietro senza spiegazioni nella neve delle discariche e dei boschi della Bosnia. Senza diritti, nemmeno quello di provare a sopravvivere. Solidarietà a Linea d’Ombra perché all’alba la polizia aveva fatto irruzione nell’abitazione privata di Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir che è anche sede dell’associazione. Sono stati sequestrati i telefoni personali, i libri contabili e diverso altro materiale, alla ricerca di prove per un’imputazione di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il notiziario regionale ha balbettato qualcosa riguardo al presunto aiuto fornito ad una famiglia di curdi, chissà come, chissà quando. I lettori del manifesto hanno imparato a conoscere Lorena, hanno letto più volte della sua presenza in piazza e come i suoi genitori partigiani le avessero insegnato l’attenzione per gli ultimi ed il rispetto per la vita. Un lascito che Lorena ha rispettato con tutte le sue forze, con a fianco Gian Andrea compagno di una vita e i volontari che, sempre più numerosi, hanno scelto di esserci. Così, con il suo carrettino verde ecco Lorena ogni pomeriggio in Piazza Libertà, la “piazza del mondo”, a portare un gesto di solidarietà e attenzione, una medicazione, un panino, un po’ d’acqua. È anche grazie a Lorena, a Gian Andrea e agli altri volontari, se questa città riesce a riscattarsi dall’immagine di intolleranza e razzismo che mostra troppo spesso. È grazie a loro se un gesto umanitario è diventato un gesto politico chiarissimo, un’accusa senza sconti dell’ingiustizia, una scelta di campo di assoluta coerenza. Questa improvvisa iniziativa delle forze dell’ordine, le modalità stesse della perquisizione, preoccupano e sgomentano. Brutto segnale in una città dove, tra l’altro, l’amministrazione comunale di destra non ha organizzato nulla per chi non ha una casa, per accogliere chi arriva, per il freddo dell’inverno; anzi, ha chiuso l’Help Center che da anni si trovava in stazione e i Centri diurni che garantivano almeno un momento di calore, un bagno, l’acqua, a chiunque ne avesse bisogno. A questa sordità, a questa quotidiana umiliazione della dignità umana, hanno sempre cercato di supplire l’ICS, la Caritas e i tanti che non voltano la schiena alla sofferenza ma la accolgono cercando di mitigarla, come Lorena e Gian Andrea. Già in mattinata, ieri, il comunicato di Linea d’Ombra: “Oggi, in Italia, regalare scarpe, vestiti e cibo a chi ne ha bisogno per sopravvivere è un’azione perseguitata più che l’apologia al fascismo, come abbiamo potuto vedere il 24 ottobre scorso proprio in Piazza Libertà” (il riferimento è alla manifestazione di neofascisti autorizzata dalle autorità cittadine e “difesa” da un ingente spiegamento di polizia, ndr). Prosegue il comunicato: “Condanniamo le azioni repressive nei confronti di chi è solidale, chiediamo giustizia e rispetto di quei valori di libertà, dignità ed uguaglianza, scritti nella costituzione, che invece lo Stato tende a dimenticare”. Durissimo anche il comunicato di Rete Dasi: “Le uniche pratiche esplicitamente fuori legge sono quelle che si arroga lo Stato nei suoi respingimenti informali contro i richiedenti asilo che giungono in Italia e che vengono rimandati in Slovenia e giù giù, attraverso maltrattamenti e vere e proprie torture fino in Bosnia”. Vicinanza a Lorena e Gian Andrea viene espressa da Rifondazione Comunista: “Riteniamo che i reati di clandestinità e di solidarietà siano il frutto di ideologie superate e contrarie ai diritti umani, purtroppo tramutatesi in leggi dello Stato. Esprimiamo piena vicinanza a Fornasir e Franchi. La solidarietà non si inquisisce né si processa!” e dal consigliere regionale di Open Sinistra FVG Furio Honsell: “Esprimiamo sconcerto e preoccupazione per le notizie relative alle indagini su Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi che rappresentano un esempio di solidarietà nei confronti degli ultimi. Siamo fiduciosi che la Giustizia al più presto chiarirà il loro ruolo con piena soddisfazione di chi non è indifferente al problema dei migranti”. Sono in tanti a chiedere che sia fatta rapidamente luce sulla vicenda e a sperare si possa realizzare al meglio l’ultima iniziativa di Lorena, quel “ponte di corpi” che ha lanciato un mese fa stilandone il bel manifesto. È la convocazione di donne e uomini per chiedere l’apertura delle frontiere: il 6 marzo “un ponte di corpi” attraverserà l’Italia dal sud al nord e, nello stesso giorno, alcune donne si incontreranno sul confine più violento, quello della Croazia. Un’azione per gridare contro le violenze e i respingimenti di cui sono vittime ogni giorno donne e uomini della rotta balcanica. “Con il nostro corpo di donne su un confine di morte vogliamo dire che il migrante è portatore di vita” scrive Lorena “Noi siamo coloro che dicono no alla paura. Noi siamo coloro che maledicono i confini”. Coca e pasticche alle medie: per la droga l’età delle “prime volte” si abbassa sempre di più di Monica Serra La Stampa, 24 febbraio 2021 La denuncia di Exodus e della comunità La Casa del giovane di Pavia: “I ragazzi soffrono la fatica di vivere”. Cocaina, eroina, pasticche già alle scuole medie. La percentuale è bassa, siamo intorno all’un per cento degli studenti (1, 7 a Pavia, 1, 4 a Milano che scende a 0, 21 in Sicilia), ma l’età media è allarmante: 12 anni. Dati che aumentano fino al 4, 68 per cento di Pavia, 2, 8 di Milano e 0, 74 della Sicilia quando si parla di hashish e marijuana. I numeri, per il momento parziali, vengono fuori da una ricerca sull’adolescenza condotta nel 2020 dal centro studi “Semi di melo” nato dalla collaborazione della fondazione Exodus di don Antonio Mazzi, con la Casa del giovane di Pavia, l’unica comunità del Nord Italia per minori con dipendenze certificate dal Servizio sanitario nazionale. L’indagine, denominata “Selfie” perché è “la fotografia che i giovani fanno di loro stessi”, è stata eseguita su un campione di oltre 60 mila alunni di scuole medie e superiori in tutta Italia. Ma i dati non sono ancora tutti aggregati: “Ci vorrà del tempo e l’aiuto dell’Università di Pavia, con cui abbiamo iniziato a lavorare”, spiega Simone Feder, psicologo che coordina l’area dipendenze della Casa del giovane e volontario sempre in prima fila al fianco dei ragazzi nella lotta ad alcol, droga e gioco d’azzardo. A oggi i risultati cristallizzati riguardano le due province lombarde (1430 alunni milanesi, 470 pavesi) e 949 studenti di sei istituti siciliani, per quanto riguarda i ragazzi delle scuole medie, “ma ci danno comunque il polso di una situazione che abbiamo visto ripetersi ovunque”, sottolinea Feder. Quel che più preoccupa è che la maggior parte dei giovanissimi che hanno già provato la droga (tra il 16 e il 17 per cento) lo hanno fatto per “affrontare momenti difficili”. “Perché lo fanno tutti, l’emulazione del gruppo che in passato era la prima risposta oggi è diventata la terza”, riflette Feder. “Non bisogna soffermarsi sul tipo di droga assunta ma sul perché viene assunta. Sempre più spesso lo scopo è lenitivo: ragazzi così giovani che percepiscono la fatica di vivere. E questo si associa spesso ad atti autolesionistici, come piccoli tagli sul corpo, e alla sempre maggiore difficoltà di comunicare con gli adulti, genitori ed educatori, mentre gli amici restano il loro punto di riferimento”. Tutto questo accade in un Paese in cui, secondo la Relazione annuale 2020 al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze (che si riferisce al 2019), sono in aumento le overdose e i ricoveri legati all’uso di sostanze, oltre alle diagnosi tardive di Aids. Il mercato in generale si è leggermente contratto, ma è aumentata la diffusione della cocaina e delle nuove droghe sintetiche. Nel 2019 sono state, infatti, sequestrate in Italia quasi 55 tonnellate di droga in tutto e 223 mila piante di cannabis (con un decremento del 55,7 e 57,4 per cento dal 2018), oltre a 59 mila dosi o compresse di stupefacente (+74 per cento). L’82 per cento dello stupefacente sequestrato è hashish e marijuana, come negli anni precedenti, ma quel che è triplicato nel tempo è il quantitativo di cocaina finita sotto sigilli, che nel 2019 ha raggiunto le 8, 3 tonnellate. Numeri in realtà parziali rispetto alla diffusione del fenomeno perché - dicono esperti e investigatori - sotto sequestro finisce soltanto il 10 per cento della droga sul mercato. Non si conoscono i dati relativi all’ultimo anno, di lockdown e pandemia, ma “di certo traffico degli stupefacenti e sequestri non si sono ridotti con la reclusione tra le mura domestiche, anzi sono proseguiti regolarmente”, spiega Alessandra Dolci, capo della Dda di Milano. Dove si acquista la droga? Per la maggior parte dei ragazzini intervistati nella ricerca “Selfie”, per strada, al parco (40 per cento) e su internet (30 per cento). “Quando questi giovani arrivano da noi, nelle comunità, è troppo tardi - sottolinea Feder - per questo bisogna intervenire prima, con la prevenzione, e andare a prenderli in strada, nei luoghi di ritrovo”. Purtroppo, secondo Feder, questo 2020 segnato dalla reclusione in casa per molti ragazzini, lontano da scuola ed educatori, non ha migliorato la situazione: “Solo oggi alla mia comunità sono arrivate tre richieste di ingresso di giovani tra i 14 e i 16 anni, da Asti, Genova e la Lombardia. Uno dei ragazzini però è già irreperibile, fuggito all’estero e a oggi nessuno riesce a rintracciarlo”. La sua Africa. Un continente dimenticato dai media di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 24 febbraio 2021 I rapimenti non sono certamente l’unico mezzo di sostentamento dei gruppi armati che, in una terra di confine come questa tra Congo e Ruanda, possono facilmente contrabbandare i materiali preziosi estratti illegalmente nella zona. La verità. Tutti si impegnano a cercarla, come sempre, di fronte all’assassinio di “servitori dello stato” diventati “eroi”. I giornali “aprono gli occhi” sull’Africa ma li chiuderanno subito dopo la sepoltura delle salme. Difficilmente si scoprirà cosa si nasconde veramente dietro l’agguato teso al convoglio del World Food Programme. Che trasportava anche l’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci. Ipotesi diverse, plausibili che lasceranno il posto all’oblio. Come in molti altri casi. La politica, i media non si occupano di un continente grande e soprattutto ricchissimo, ma le sue ricchezze sono fonte di sfruttamento, affari, speculazioni che si realizzano meglio senza testimoni. Nelle zone dove i conflitti sono endemici e le risorse naturali enormi sono in molti i contendenti che per combattere la propria guerra usano qualsiasi mezzo. E la regione del Kivu è una di queste: minerali tra i più preziosi (come il coltan, il cobalto e i diamanti), una zona estremamente fertile, il parco nazionale dei Virunga, il più grande dell’Africa e patrimonio dell’Unesco, paradiso dei gorilla di montagna, il lago Kivu che copre un giacimento di metano. In questo contesto sono nati e si sono moltiplicati i gruppi armati, tra i quali quelli formati dagli hutu che hanno lasciato il Ruanda dopo il genocidio contro i tutsi senza rinunciare a riprendersi il controllo del paese e il ramo locale dello Stato islamico. Milizie che si scontrano con i ranger che proteggono il parco (sei di loro sono stati uccisi all’inizio di gennaio), le Forze armate della repubblica congolese e i caschi blu della missione delle Nazioni unite (Monusco). Si tratta della più importante missione Onu in Africa - conta oltre 17mila unità tra civili e militari (12mila) - istituita undici anni fa nel 2010 per proteggere i civili, personale umanitario e attivisti dei diritti umani e sostenere il governo del Congo per stabilizzare e consolidare la pace. In scadenza lo scorso dicembre, la missione era stata prolungata di un anno riducendo però il dispiegamento nelle regioni in cui “la minaccia rappresentata dai gruppi armati non è più significativa”. Lunedì mattina quando l’ambasciatore italiano è stato colpito si trovava su un’auto della missione Onu. Questo fatto suscita molti dubbi sulla capacità della Monusco di proteggere civili e personale umanitario, di valutare la pericolosità della situazione e di mettere in campo le azioni di peacekeeping. L’imboscata mirava a sequestrare o a uccidere i componenti del convoglio? La dinamica dei fatti sembra accreditare il tentativo di sequestro, anche perché di rapimenti ce ne sono spesso nella zona anche se soprattutto di locali, per estorcere denaro. Lo scontro a fuoco, pare, con ranger ha portato al drammatico epilogo e l’intervento delle forze governative è servito solo a trasportare in ospedale a Goma Luca Attanasio ma non a salvargli la vita. I rapimenti non sono certamente l’unico mezzo di sostentamento dei gruppi armati che, in una terra di confine come questa tra Congo e Ruanda, possono facilmente contrabbandare i materiali preziosi estratti illegalmente nella zona. Non è azzardato immaginare che le imprese che lavorano nella regione, per la loro “sicurezza”, siano costrette a dare il loro contributo alle milizie di turno. Ma al di là di tutte le supposizioni un dato è certo: in queste situazioni di conflitti esasperati a rimetterci sono le persone che si mettono in gioco, che non si accontentano di condannare o di stare a guardare, che scelgono da che parte collocarsi, quella della popolazione che soffre, anche per colpa nostra. Ancora più grave quando affrontando una pandemia dagli esiti incerti in tutto il mondo ci si preoccupa solo di suddividere i vaccini tra europei o occidentali lasciando gli scarti ai popoli del sud del mondo. Dove solo la Cina è arrivata, sicuramente non per altruismo, ma per un tornaconto che si traduce in una penetrazione capillare nel continente africano ricco di materie prime. La Cina è diventata un nemico per l’occidente difficile da combattere con l’egoismo dei privilegiati. Luca Attanasio parlava del suo lavoro come di una “missione”, altri di “restare umani” di fronte alla barbarie. Attanasio, la verità di Kinshasa e quella dei ribelli ruandesi di Marco Boccitto Il Manifesto, 24 febbraio 2021 Il gruppo accusato dal governo congolese nega e contrattacca. Silenzio dalla Monusco. In Italia è il triste giorno del rientro delle salme. Il giorno dopo l’agguato nel nord-est della Repubblica democratica del Congo in cui hanno perso la vita l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, insieme al loro autista Mustapha Milambo, il ricordo di chi conosceva le vittime, le bandiere a mezz’asta, lo stringersi intorno alle famiglie ha fatto da preludio dolente al rientro in serata delle salme, con un volo di stato, all’aeroporto di Ciampino. A Kinshasa l’ufficio della presidenza ha diffuso ieri una prima ricostruzione di quanto accaduto sulla RN2 nei pressi di Goma. Gli aggressori “erano in 6, armati con 5 Kalashnikov e un machete”. Avrebbero freddato quasi subito l’autista, mentre su Attanasio e Iacovacci avrebbero sparato a bruciapelo successivamente, quando erano già lontani dalla strada, durante l’intervento delle guardie forestali e di un’unità dell’esercito che “si è mobilitata per inseguire il nemico”. L’inchiesta per catturare i colpevoli “è già in corso”, vi faremo sapere. Niente sul resto, neanche l’identità delle tre persone - dipendenti locali del Programma alimentare mondiale (Pam) - che viaggiavano sul piccolo convoglio e che erano date per scomparse insieme ai rapitori. Solo in serata l’organismo umanitario dell’Onu rivelava che si trattava dell’”assistente del Pam per i progetti di mense scolastiche Fidele Zabandora, il responsabile della sicurezza del Pam Mansour Rwagaza e il secondo autista del convoglio Claude Mukata”. E che erano tutti sani e salvi. Come d’altro canto Rocco Leone, l’altro italiano uscito illeso dalla vicenda, che viaggiava sulla seconda auto e che del Pam in Congo è il vicedirettore. In questa frammentazione caotica e contraddittoria di elementi il team investigativo dei Ros che è già al lavoro sul terreno deve contare molto sul suo racconto per ricostruire almeno i fatti. Secondo alcuni testimoni gli uomini armati parlavano kinyarwanda, un dettaglio a sostegno della tesi del governo, che poche ore dopo l’attacco accusava senza esitazioni le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr). Nati in territorio congolese come ultima frontiera del cosiddetto hutu power, che del genocidio ruandese è stato un motore, già attivi nella Seconda guerra del Congo e oltre, i “ribelli ruandesi” hanno replicato ieri con un comunicato ufficiale degno del più moderato dei governi, in cui si condanna fermamente l’”ignobile gesto” e si esprime vicinanza all’Italia e alle famiglie delle vittime. Già che ci sono, oltre a declinare ogni implicazione e a invocare l’accertamento della verità da parte dell’Onu, i ribelli fanno notare come il convoglio dell’ambasciatore sia stato attaccato “nella zona detta delle ‘Tre Antennè, sulla frontiera con il Ruanda, non lontano da una postazione delle Forze armate della Repubblica democratica del Congo e delle Forze di difesa ruandesi: le responsabilità vanno cercate nei ranghi di questi due eserciti”. Sia come sia - le ipotesi plausibili al momento non escludono la matrice di altri gruppi tra i troppi che infestano la zona, un’intricata genealogia di formazioni vicine e lontane ai miliziani hutu - l’occasione era a suo modo ghiotta per denunciare il recente patto tra Kinshasa e Kigali, una forza congiunta (un’altra) creata allo scopo di eradicare l’Fdlr, che qui ha la sua roccaforte anche per la tolleranza di cui ha goduto durante il regno di Joseph Kabila (2001-2018) nell’ex Congo belga. Il vecchio capo di stato, sopravvissuto anche alla sconfitta elettorale, proprio in questi giorni è dato in viaggio negli Emirati arabi uniti. Ufficialmente per rispondere a un vecchio invito, ma c’è chi non esita a collegare l’ospitalità emiratina con la situazione politica che sta maturando a Kinshasa: l’attuale presidente Felix Tshisekedi prova a svincolarsi dall’abbraccio di Kabila che finora gli è stato indispensabile per governare, rifondando a suo vantaggio la maggioranza. E qualche giudice potrebbe presto presentare il conto di presunti illeciti finanziari all’ex presidente. Ecuador. Rivolte nelle carceri, almeno 50 morti adnkronos.com, 24 febbraio 2021 Almeno 50 persone sono rimaste uccise nel corso di diverse rivolte scoppiate nelle carceri dell’Ecuador. “Le organizzazioni criminali stanno portando avanti contemporaneamente una serie di atti violenti in un certo numero di centri di detenzione”, ha scritto il presidente Lenin Moreno su Twitter, riferendo che “la polizia e il ministero dell’Interno stanno lavorando per riprendere il controllo delle carceri di Guayaquil, Cuenca e Latacunga”. Paraguay. Rivolta dei detenuti scoppiata nel carcere di Tacumbú di Francesco Ricupero L’Osservatore Romano, 24 febbraio 2021 La recente violenta rivolta nel carcere di Tacumbú, che ha causato la morte di sette persone e molti feriti, “ci mostra, ancora una volta, le terribili condizioni in cui si trovano le nostre carceri e l’intero sistema carcerario paraguaiano”: è quanto si legge in una dichiarazione della Conferenza episcopale del Paraguay, in seguito ai sanguinosi disordini avvenuti nei giorni scorsi nel penitenziario di Tacumbú, il più grande del Paese, con circa 4.100 detenuti, il doppio della capienza prevista. Centinaia di carcerati, armati di coltello, hanno scatenato caos per 24 ore prendendo il controllo di uno dei padiglioni della prigione, dove c’erano otto guardie. Le forze antisommossa hanno ripreso il controllo dell’istituto di pena, ma la rivolta ha causato almeno sette morti. Il ministro della giustizia, Cecilia Pérez ha assicurato che “non si tratta di uno scontro tra clan”, dopo che alcuni media locali avevano fatto accenno ad una lite tra detenuti della mafia paraguaiana. Secondo il governo di Asunción, la rivolta sarebbe iniziata in seguito al trasferimento di un detenuto affiliato a un clan che distribuiva droga all’interno della prigione. L’episcopato non nasconde la propria amarezza e preoccupazione per quanto accaduto e per le difficili condizioni nelle quali vivono migliaia di detenuti nel Paese sudamericano. “I fatti mostrano che non serve una super-struttura dove confinare le persone che hanno conti pendenti con la giustizia, se nelle carceri continua a regna-re un’elevata corruzione e se non viene attuata una profonda riforma carceraria. Ci rammarichiamo - aggiungono i vescovi - per la mancanza di azione e di una gestione efficace e corretta per ridurre la popolazione carceraria in attesa di giudizio per evitare il sovraffollamento, che nuoce ai diritti fondamentali di ogni persona umana. Siamo anche preoccupati per l’estrema violenza con cui agiscono i gruppi criminali che ricattano le autorità nazionali e hanno il controllo sulla popolazione carceraria. Sono sempre più numerosi e violenti”. Le rivolte nelle carceri non sono una novità. Purtroppo, si susseguono quasi con triste regolarità in molti Paesi del mondo, testimoniando problemi di sopravvivenza e di dignità umana in questi ambienti spesso segnati dal degrado. Problemi aggravati, nell’ultimo anno, dalle restrizioni provocate dalla pandemia La prigione di Tacumbú, per esempio, ospita il doppio dei detenuti rispetto alla capienza. Per diverso tempo gli istituti di pena del Paese di fatto sono stati a lungo “governati” dalle mafie o dalla corruzione, alcune prigioni sono dominate da vari gruppi malavitosi. Sia i clan che le mafie sono cresciute e si sono rafforzate nelle carceri paraguaiane a causa delle pessime condizioni in cui vivono i detenuti, con un livello molto alto di sovraffollamento, la mancanza di accesso adeguato ai servizi sanitari, alimentari e anche igienici. Per questa ragione i presuli paraguaiani hanno lanciato l’ennesimo appello esortando il governo nazionale, la magistratura e il parlamento a “raddoppiare i loro sforzi e a maturare una visione molto più umana e umanizzante a favore delle persone private della libertà che meritano veramente una seconda possibilità”. Cosa che, sottolineano i vescovi, “dopo tutto, è un vantaggio per tutta la popolazione”. Nella dichiarazione, inoltre, l’episcopato sottolinea come Papa Francesco non perda mai l’occasione di visitare carceri e persone private della loro libertà, esprimendo solidarietà e dedicando parole di conforto. E facendo riferimento alla visita del Santo Padre, prima presso l’istituto di correzione di Curran-Fromhold a Philadelphia, negli Stati Uniti, (27 settembre 2015), e successivamente in Paraguay, l’episcopato ha ricordato che in quell’occasione il Papa li ha esortati a tornare sulle strade, alla vita. Il Santo Padre “vuole - concludono i presuli - che questo tempo di reclusione non sia sinonimo di espulsione”. Russia. Chi è davvero Aleksej Navalnyj, il nemico numero uno del Cremlino di Rosalba Castelletti La Repubblica, 24 febbraio 2021 Il veleno e la prigione hanno trasformato un oppositore (l’unico) in un vero eroe. Che però un giorno potrebbe rivelarsi un Putin 2.0. Ecco come. E soprattutto perché. Camicia rimboccata al gomito e jeans, col suo continuo gesticolare, l’oppositore più famoso di Russia ostentava normalità quel marzo di tre anni fa. “Sono una persona semplice. Non sono un dissidente” insisteva nel suo ufficio al quinto piano di un business center a Sud di Mosca. Sulla sua scrivania fogli e libri sparsi, un notes e un pc. In una stanza accanto, quasi spoglia, ragazzi ticchettavano sulle tastiere, mentre nello studio televisivo si lavorava all’ultima video-inchiesta sull’élite putiniana. “I dissidenti sovietici erano isolati. Io so di certo di rappresentare milioni di cittadini che vogliono una vita migliore in Russia. So di stare dalla parte del bene. Con me, dalla parte del bene, c’è tantissima gente”. Oggi Aleksej Navalnyj è entrato a pieno titolo nel mito dell’eroe del bene. Avvelenato, partito sei mesi fa dalla Russia in coma e miracolosamente guarito in Germania, ha smascherato i suoi attentatori ed è tornato in patria pur consapevole che lo avrebbero incarcerato. Sapeva che solo così avrebbe potuto rivendicare il ruolo che inseguiva da anni: nemico pubblico numero 1. A prima vista sembrerebbe esattamente l’uomo che l’Occidente vorrebbe al Cremlino. Anti-corruzione, anti-oligarchia e, soprattutto, anti-Putin. Ma a differenza dei vecchi dissidenti sovietici, Navalnyj non combatte per il diritto di criticare il potere, ma per il potere stesso. E quindi non è affatto detto che il peggior nemico oggi di Vladimir Putin diventi il miglior amico domani della democrazia. La corsa verso il vertice dell’avvocato 44enne inizia nel 2007 con un blog, un samizdat digitale. Laureato in Legge con un master in Finanza, Navalnyj acquista azioni di compagnie statali e invoca il suo statuto di azionista di minoranza per esigere l’accesso ai conti che pubblica su LiveJournal e poi su Navalny.ru. Reduce da una borsa di studio a Yale, nel 2010 lancia il sito RosPil che scava nelle irregolarità degli appalti pubblici. Si circonda di giovani attivisti che lo venerano - anche se lui è un decisionista, a tratti autoritario - e si finanzia con microdonazioni. Comincia così la sua lotta al malaffare che porterà alla nascita della Fondazione anti-corruzione (Fbk) e di un canale YouTube che oggi conta oltre sei milioni di iscritti. Il “Julian Assange russo” nel contempo non nasconde le sue simpatie nazionaliste. Partecipa all’annuale Marcia Russa dell’ultradestra e lancia il movimento patriottico Narod, Popolo. Iniziative che nel 2007 gli costano l’espulsione dal partito liberale Jabloko, dove militava dal ‘99. Paragona i caucasici a scarafaggi da eliminare, preferibilmente con una pistola. E quando l’anno dopo scoppia il conflitto in Ossezia del Sud, sostiene l’intervento russo a Tbilisi e invoca l’espulsione dei georgiani chiamandoli grizuni: roditori. Benché oggi rinneghi gli insulti razzisti, in realtà Navalnyj non ha cambiato posizione. Anzi dice che, se fosse presidente, non restituirebbe la Crimea all’Ucraina. Nonostante tutto ciò, in una Russia asfittica, oggi è lui l’unico in grado di mobilitare la popolazione. Come? Dieci anni fa l’infaticabile censore del potere comprende che l’opposizione virtuale può diventare materiale, il dissenso in rete un movimento di piazza. All’indomani delle contestate parlamentari del 2011, sul suo blog e su Twitter invita “nazionalisti, liberali, sinistroidi, verdi, vegetariani, marziani” a scendere in strada. Lo slogan arriva per caso in un’intervista radio: etichetta Russia Unita, la formazione al potere, “il partito dei ladri e truffatori”. La formula diventa virale. All’appuntamento si materializzano cinquemila persone: “criceti del computer”, li chiama il leader russo. È la prima grande rivolta dell’era Putin, avvisaglia delle oceaniche proteste che riempiranno Piazza Bolotnaja per tutto l’inverno. Talentuoso oratore, il giovanotto alto, biondo e dagli occhi blu galvanizza le folle con attacchi virulenti. Ma le strade presto si svuotano. Dei leader della rivolta non resta nessuno. Molti, come lo scacchista Kasparov, scelgono l’esilio, altri vengono neutralizzati da scandali e carcere. Nemtsov viene ucciso. Resta Navalnyj, che diventa così l’unico volto dell’opposizione “anti-sistemica” costretta a operare fuori delle strutture ufficiali. Il ribelle della politica russa aggira la censura grazie a internet. Insieme al team di Fbk martella il cerchio magico putiniano con clip che mescolano l’approccio forense a satira e cultura pop. Nel 2017 il video sulla corruzione di Dmitrij Medvedev diventa la miccia di un’ondata di proteste che per la prima volta non si limita a Mosca, ma attraversa la Russia lungo tutti gli undici fusi orari. Lo stesso miracolo che si è ripetuto un mese fa dopo la pubblicazione dell’inchiesta sul lussuosissimo “Palazzo di Putin”. Se nel 2017 il simbolo del malcontento erano paperelle di plastica e scarpe sportive, allusione a uno stagno popolato da anatre e a una collezione di sneakers dell’allora premier, stavolta il feticcio è uno scopino da water, riferimento agli scopettoni dorati che arrederebbero i bagni del presidente. La forza di Navalnyj sta anche in astuzie come queste. È così che è diventato un attore riconoscibile nella Russia politicamente esangue di Putin: senza bisogno di partiti o coalizioni, ma grazie a milioni di seguaci sul web che riesce a convertire alla piazza. Per la prima volta Putin ha un avversario. E inizia la persecuzione giudiziaria. Processi costruiti ad arte, sostiene Navalnyj - e la Corte europea dei diritti umani gli dà ragione. Il fratello minore Oleg finisce in una colonia penale. Aleksej colleziona 474 giorni agli arresti tra detenzioni amministrative e domiciliari, anche se passa solo una notte in carcere e non sconta mai pene lunghe. È ancora la tattica del Cremlino: ostacolarne l’attività d’oppositore senza però farne un eroe. Nel 2013 le autorità lasciano addirittura che si candidi come sindaco di Mosca. Nella sorpresa generale Navalnyj ottiene il 27 per cento e sfiora il ballottaggio. Cinque anni dopo, “il blogger” - come lo chiama Putin senza mai citarlo per nome - mira ancora più in alto: la presidenza. La sua piattaforma punta su lotta alla corruzione e sentimenti anti-élite. Promette di liberare le ricchezze monopolizzate dall’oligarchia per fornire istruzione, sanità e infrastrutture. Slogan vaghi e populisti. Lui rifugge collocazioni politiche: “Le definizioni ideologiche europee non si applicano qui. I comunisti si definiscono di sinistra, ma sono conservatori di destra, per di più religiosi. Mentre il nostro partito liberaldemocratico è quello del nazionalista Zhirinovskij” ci disse allora. Stavolta il Cremlino non ammette rivali e respinge la candidatura col pretesto dei precedenti penali. Navalnyj si lancia comunque nella campagna sul terreno. Apre uffici in 84 città, subisce raid e provocazioni. Viene colpito con la zeljonka, o “verde brillante”, un liquido antisettico. Per poco non perde un occhio. “La mia famiglia mi sostiene. Mia moglie Julija è persino più estremista di me. I miei figli, Dasha e Zakhar, si divertono a scovare gli agenti che ci pedinano. Per loro è un gioco. Come si dice? Se la vita ti dà un limone, fanne una spremuta”. Nonostante tutti gli ostacoli, Navalnyj raggiunge traguardi inediti. Nel 2019 crea il “Voto intelligente”, una piattaforma che suggerisce agli elettori il candidato che ha più probabilità di battere il partito al potere. La strategia paga: dimezza i deputati di Russia Unita nella capitale e l’anno dopo segna due vittorie a Novosibirsk e Tomsk. È qui che avviene l’avvelenamento da Novichok che quasi gli costa la vita. In crisi di consensi, il Cremlino teme infatti che le tattiche di Aleksej possano pregiudicare le parlamentari di settembre, vigilia della delicata transizione da Putin a Putin o, ancor più delicata, da Putin a un altro. Quando Aleksej risorge dal coma, Mosca tenta di costringerlo all’esilio ma Navalnyj torna e non lascia altra scelta al suo rivale che mandarlo in carcere trasformandolo così in un potente simbolo di resistenza. Questo non vuol dire che Putin sia in pericolo, solo che ha trovato il suo antagonista più efficace. Nella saga da Davide contro Golia, il “liquido” agitatore delle piazze è riuscito a mettere l’immobile inquilino del Cremlino sulla difensiva. Con il video sul Palazzo visto oltre 110 milioni di volte, l’Innominato costringe Putin a smentire. E da dietro le sbarre trascina in piazza migliaia di persone. Tutto ciò che il Cremlino ha fatto negli ultimi mesi per contrastarlo ha solo trasformato Navalnyj in martire ed eroe. Persino chi metteva in guardia dal suo passato nazionalista è pronto a dimenticarsene. Ma se Putin cadesse, venuto meno il contraltare, il modello politico di Aleksej potrebbe non essere sostenibile a lungo termine. Non solo si fonda su un programma nebuloso, ma rispecchia le dinamiche del potere attuale: tendenza all’autoritarismo e patriottismo. Il governo di un uomo solo. Così, se mai, ipotesi remota, un domani dovesse salire al potere, l’anti-Putin potrebbe rivelarsi un altro Putin. Solo più padrone del linguaggio del 21° secolo. Un Putin 2.0.