Amnistia: è la premessa per la riforma di Massimo Donini* Il Riformista, 23 febbraio 2021 Serve, è urgente, e questo è il momento giusto: solo un esecutivo di unità nazionale ha l’opportunità di azioni parlamentari sorrette da una maggioranza altrimenti impensabile. Il Governo Draghi inizia a operare sotto gli auspici di un nuovo Risorgimento. È nelle aspettative di molti. Non solo il primo obiettivo dell’uscita da una emergenza sanitaria ed economica nazionale, oltre che internazionale, ma anche, insieme a questo scopo di per sé autosufficiente, la realizzazione delle premesse perché non si tratti di evitare semplicemente i gravi rischi di recessione, isolamento europeo, assenza di prospettive generazionali per un indebitamento irrecuperabile, prevedibili divisioni laceranti nel corpo sociale e politico. Nel secondo obiettivo, strettamente legato al primo, rientrano infatti la ripresa, la rinascita, e un nuovo corso, resi possibili dai finanziamenti straordinari ottenuti a seguito della pandemia. Come sempre avviene, questi orizzonti non sono costituiti solo da numeri, economie e interessi materiali. Le premesse del funzionamento della giustizia civile e anche della disciplina dell’insolvenza, nel quadro di un’azione economica di recupero del sistema produttivo, appaiono davvero importanti. E la loro priorità di agenda agevola l’uscita dal clima panpenalistico che ha ispira. to in vario modo gli ultimi due precedenti governi in materia di giustizia. La società civile viene prima della macchina punitiva. Tuttavia alcuni problemi permanenti del sistema, aggravati e non alleviati da provvedimenti di strumentalizzazione politica della giustizia penale che risalgono a più legislature, non potranno essere rinviati per intero al prossimo Parlamento. Anzi, solo un esecutivo di unità nazionale ha l’opportunità di azioni parlamentari sorrette da una maggioranza altrimenti impensabile. L’amnistia, come noto, è un tipo di provvedimento che venne di fatto rimosso dalla legislazione dopo Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica, con la previsione (art. 79 Cost.) di una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Si starebbe quasi per dire adesso, o mai più. Non per regalare impunità, ma per gettare le basi della riforma della giustizia penale. Uno scopo non semplicemente utile, ma davvero necessario. Ci sono nel Paese forze politiche o movimenti di opinione che vorrebbero cancellato l’istituto dell’amnistia come se fosse retaggio di secoli di privilegi e disuguaglianze. Ma se esso esiste ancora, in un quadro costituzionalmente corretto, è esattamente per situazioni come la nostra. L’amnistia è una depenalizzazione parziale, perché opera solo sul passato. Chi non si oppone alla depenalizzazione, che riguarda passato e futuro (peraltro votabile con maggioranze ordinarie), non dovrebbe avere preclusioni di principio, e in ogni caso, contro un istituto di rilevanza costituzionale solo retrospettivo. Ma la depenalizzazione può seguire o accompagnare l’amnistia, ovviamente, riguardando altri reati. Non credo tuttavia che sarebbe sufficiente a fare ripartire l’organizzazione della giustizia su basi solide, che costituisce il primo obiettivo. Non sarebbe da sola risolutiva, perché in parte ininfluente da decenni se si toglie un reato se ne aggiungono poi altri dieci, perché non esiste una riserva di legge rafforzata per introdurre i reati, ciò che sarebbe assai più importante di una riserva costituzionale per abolirli temporaneamente; e in parte risulterebbe una soluzione modesta: soprattutto reati di scarso impatto processuale sono facilmente depenalizzabili in uno Stato che punta (troppo, di sicuro) sul penale come etica pubblica, e dove le persone più smaliziate pensano che “se non è penale” ogni illecito si può mettere nel budget; e poi perché comunque trasferirebbe gli accertamenti su altri giudici (non penali), senza risolvere un difetto del sistema. Dunque realisticamente in un’ottica deflativa essa avrebbe un effetto parziale e forse anche passeggero. Se invece intesa in una dimensione non di puro sfoltimento, si tratterebbe di un impegno importante, capace di dare un segnale forte alla gente comune, alla società tutta, che non ha compreso che oggi la legislazione penale è una vera emergenza, più della stessa criminalità. Tutti sono a rischio penale e i magistrati delle Procure vanno salvati dal loro abnorme successo massmediatico (più che processuale). Sono di grande utilità anche le depenalizzazioni in concreto, quelle che non eliminano i reati, ma solo il provvedimento punitivo, tuttavia a determinate condizioni di serie misure o condotte riparatorie, risarcitorie alternative. Sono soluzioni, peraltro, che non alleggeriscono i compiti del giudice e per questo occorre che una depenalizzazione maggiore di questo tipo sia preparata da un provvedimento davvero incisivo sul processo, perché le depenalizzazioni serie devono ancorarsi a principi più solidi, e non dipendere da bisogni contingenti e strumentali di mera deflazione. Proprio per questo una amnistia si può accogliere come una premessa idonea a liberare il tavolo dei magistrati senza apparire un “colpo di spugna” sul piano dei princìpi e della tutela futura, perché ha la più nobile finalità di preparare e accompagnare, in un clima rinnovato di solidarietà, una più ampia riforma della giustizia Naturalmente, si tratterebbe di provvedimento che, collegato a un contestuale indulto, guarda anche al carcere, e al suo sovraffollamento, calibrandosi sulle scelte politiche ritenute più opportune. Non si deve invece coltivare il retropensiero che questi steps siano mezzi politici per accontentare alcune parti sociali, elettori o peggio ancora aree criminali. Il progetto deve rimanere generale e il passo successivo riguardare riforme di fondo. processuali e penali: sono solo le premesse di una crescita nei valori del patto costituzionale ora rinnovato, ma anche strumenti adeguati a renderlo possibile. La valenza anche simbolica e culturale del penale, non di quello solo “di lotta” e “di guerra” contro i nemici della società, potrebbe ritrovare in questo tipo di disegno un senso condiviso. *Ordinario di diritto penale - Università di Roma La Sapienza Il 41bis aiuterà pure la lotta ai clan ma rade al suolo lo Stato di diritto di Davide Varì Il Dubbio, 23 febbraio 2021 È bastata una sola settimana e l’eterno ricorso a una sorta di “ragion di Stato” per convincere Giuseppe Pignatone ad archiviare la lezione di Leonardo Sciascia sui diritti. In un bellissimo articolo di qualche giorno fa l’ex procuratore di Roma aveva infatti citato uno dei pensieri più limpidi e netti di Sciascia il quale, sulla lotta alla mafia, aveva le idee assai chiare: per nessun motivo la battaglia contro le organizzazioni criminali deve scalfire diritti e garanzie dell’imputato. Di ogni imputato. “La repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli non sono gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti e associazioni criminali come mafia, `ndrangheta e camorra”, aveva scritto Pignatone citando Sciascia. E ancora: “La soluzione passerà attraverso il diritto o non ci sarà; opporre alla mafia un’altra mafia non porterebbe a niente, porterebbe a un fallimento completo”. Come dire: c’è una linea, la linea tracciata dal nostro Stato di diritto, che non va superata neanche in nome della lotta alle mafie. Ma nell’editoriale uscito su La Repubblica di ieri, l’ex magistrato sembra tornare sui suoi passi. La “pietra d’inciampo” è il 41bis, l’istituto del “carcere duro” che il nostro Paese riserva a boss - talvolta solo presunti boss - e affini. Una misura contestatissima dagli altri stati europei e più volte bocciata e liquidata come tortura proprio così: tortura - dalla Corte europea dei diritti umani. Pignatone, come molti altri magistrati antimafia, insinua il dubbio, o meglio la convinzione, che il 41bis sia uno strumento indispensabile per la lotta alle mafie perché impedisce le comunicazioni tra il carcere e l’esterno: “un flusso vitale per i mafiosi che solo così possono mantenere il controllo sui loro affari e il loro ruolo nell’organizzazione”. E a suffragio del suo ragionamento Pignatone porta l’esempio di un mafioso che, potendo beneficiare di nuovi spazi di libertà, si era riavvicinato all’organizzazione criminale. E in effetti non c’è alcun dubbio che isolare una persona per 23 ore al giorno in una cella di 10 metri quadrati, consentirgli l’ora d’aria solo quando gli altri detenuti sono rinchiusi e proibirgli la visita di figli, mogli e nipoti, di certo rende difficile qualsiasi attività criminale. Ma una democrazia moderna deve sempre chiedersi: è legittimo tutto questo? Chiudere le nostre Guantánamo rischia di indebolire la lotta alla mafia, ma indebolire il nostro Stato di diritto forse è ancora più rischioso. Al 41bis è vietato anche scegliere come morire di Maria Brucale Il Riformista, 23 febbraio 2021 Un detenuto ha chiesto i moduli per depositare il proprio testamento biologico, ma il magistrato di sorveglianza glieli ha negati. Il motivo? Surreale: avrebbe potuto veicolare messaggi criminali. E il suo diritto all’autodeterminazione che fine fa? La legge “In materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, n. 219/2017, entra in vigore dal 31.01.2018. Nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge” Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. È un approdo importante che si nutre delle battaglie storiche di Marco Pannella e di quanti, come l’Associazione Luca Coscioni, fondata da Luca Coscioni nel 2002, hanno posto la libertà di scelta individuale, in particolare per quel che concerne il fine vita (ma ogni libertà di scelta, dall’inizio alla fine della vita, per tutti) al centro della propria azione politica. Un cammino ancora incompiuto, una materia certamente difficile che raccoglie in sé l’evoluzione del sentire collettivo rispetto al concetto della dignità della vita e della dignità della morte e, soprattutto, alla lenta affermazione del principio che le scelte sulla propria vita sono personalissime e che c’è, nella malattia, una soglia del dolore tanto insopportabile da mutare la stessa semantica della parola suicidio che diventa fine di una non vita. Accade allora che un detenuto in 41bis immagini di contrarre il virus in tempo di pandemia e decida di depositare il proprio testamento biologico. I familiari, allora, su sua richiesta, gli mandano i moduli dell’Associazione Luca Coscioni. La corrispondenza è soggetta, come sempre, a censura ma dovrebbe essere legale un modello del tutto asettico da compilare con le proprie disposizioni, ai sensi della legge 219/2017. Già, perché è per tutti “il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona”. Anche per i detenuti, perfino per i ristretti nel luogo di silenzio trattamentale ed emozionale del 41bis. E invece no! Perché un magistrato di sorveglianza di Roma decide di non consegnare la corrispondenza al ristretto. La motivazione è che, ritenuto ancora di alto spessore criminale (in 41bis da 24 anni!) “attraverso eventuali interpolazioni del testo, lo stesso potrebbe veicolare messaggi illeciti”. E “occorre contemperare il principio dell’efficienza dell’attività amministrativa con le esigenze poste alla base della sicurezza interna ed esterna che si concretizza attraverso la puntuale verifica di contenuti criptici eventualmente inseriti mediante la possibilità di interpolare i documenti inviati”. Non c’è (ovviamente) nulla di criptico, indebito, fraintendibile nel modulo che non viene consegnato, ma nel compilarlo il recluso potrebbe veicolare messaggi criminali. È surreale, abominevole, tanto assurdamente in violazione di legge da sembrare una burla. E, invece, è proprio scritto, nero su bianco. È una censura all’ipotesi di intenzione, una aberrazione del sospetto sulla eventuale e futuribile possibilità che la persona detenuta, per comunicare un volere delittuoso all’esterno, si faccia mandare un modulo per le disposizioni anticipate di trattamento e nel compilarlo introduca indicazioni per i sodali che saranno sempre filtrate dall’ufficio censura del carcere che ogni scritto, in entrata o in uscita, capillarmente analizza. Oltre alla feroce violazione di un diritto garantito a tutti dalla legge che involge principi fondamentali di rango costituzionale - la libertà, la salute, la vita - si trova nell’assurdo provvedimento, la negazione per il ristretto di scrivere alcunché restando aperta la possibilità che trasmetta il proprio comando oltre le sbarre. Vietato pensare, sperare, desiderare. Perfino scegliere come morire. *Membro del Comitato di giuristi dell’Associazione Luca Coscioni Vaccino in carcere, priorità anche ai volontari! www.societadellaragione.it, 23 febbraio 2021 Lo sforzo profuso da La Società della Ragione nella petizione sui vaccini in carcere, che ha raggiunto quasi 1900 firme, non è stato vano. Tutt’altro. Gli istituti di pena, anche nel dibattito politico, sono finalmente entrati a far parte di quei luoghi che richiedono un’attenzione particolare nel piano vaccini. Attualmente, personale penitenziario e detenuti dovrebbero rientrare nella seconda e terza fascia di vaccinazioni, assieme ad altre categorie specifiche, quali il personale docente e le forze dell’ordine. Come più volte ribadito, tuttavia, le carceri sono comunità chiuse? ed aperte al tempo stesso, dove giornalmente, e per fortuna aggiungerei, accedono molte persone: associazioni di volontariato, insegnanti, tutors, assistenti sociali, psicologi e tutti quei soggetti coinvolti, a vario titolo, in progetti di recupero e reinserimento sociale. Si tratta di un numero di persone non elevato ma che necessita di una tutela rafforzata, così come tutti gli altri ospiti ed operatori dei luoghi di detenzione, dove sovraffollamento e condizioni igieniche rappresentano indubbi elementi di pericolo e diffusione del virus. La formazione del nuovo governo, con l’annunciato potenziamento del piano vaccinale e la? riconferma del ministro Speranza alla Sanità, sono segnali positivi che ci spingono a rilanciare la nostra battaglia. Nella lettera che abbiamo inviato al Ministro della Salute, subito prima della crisi di Governo, abbiamo chiesto un incontro per poter discutere della situazione carceraria durante il Covid, e non solo, e delle priorità sanitarie. Occorre ripartire da qui e far comprendere che anche il volontariato che opera in carcere, e non solo il personale, richiede un’attenzione particolare. E questo per le stesse ragioni che hanno spinto il Governo ad una rimodulazione del piano vaccinale, con un evidente cambio di marcia nei confronti di carcere e detenuti. Firma la petizione: https://www.change.org/p/ministro-della-salute-covid19-il-vaccino-subito-nelle-carceri Rivolte in carcere e presidi di protesta, le linee guida del capo della polizia di Lorenza Pleuteri repubblica.it, 23 febbraio 2021 A un anno dalle proteste che causarono la morte di 13 detenuti, una circolare riservata stabilisce le procedure per reprimere sommosse e azioni violente e per contrastare i picchetti. Critiche e perplessità dai direttori dei penitenziari. I dubbi che basti un atto amministrativo per disciplinare competenze in carico a soggetti diversi. Pianificazione a monte, a livello provinciale. Attivazione diretta dei comandanti della polizia penitenziaria, scavalcando i direttori delle carceri, da parte dei questori. Impiego dei reparti Mobili, gli ex celerini, da schierare in caso di rivolte e di manifestazioni di protesta, con una attenzione particolare alle iniziative organizzate da anarchico-insurrezionalisti. Elicotteri e idranti, protezione aerea e navale. Coinvolgimento delle Direzioni investigative antimafia, delle teste di cuoio di Nocs e Gis e pure dei militari dell’operazione Strade sicure. A quasi un anno dalle violente rivolte in decine di case di reclusione e dalla morte di 13 detenuti - una strage senza precedenti - qualcosa si muove. Scarica la Circolare: https://static.gedidigital.it/repubblica/pdf/2021/politica/1502circolareviminale.pdf Direttori penitenziari: dal Viminale un cavallo di Troia per scavalcarli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 febbraio 2021 Allarme del Si. DI. Pe. per un documento che, di fatto, mette in discussione il ruolo dei direttori penitenziari in caso di disordini. Ritorna di nuovo l’ombra del modello securitario che punta a togliere poteri ai direttori penitenziari e trasferirli, in caso di disordini, alle forze di polizia. Tale timore è scaturito dal fatto che, prima dell’arrivo di Marta Cartabia al ministero della Giustizia, è stato elaborato un documento dal ministero dell’Interno e trasmesso anche al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ai Provveditorati regionali e alle Direzioni degli istituti penitenziari. Un documento che, di fatto, mette in discussione il ruolo del direttore penitenziario in caso di disordini. Un documento elaborato dopo le rivolte di marzo 2020 - Si tratta di linee guida da adottare nel caso in cui, eccezionalmente, si renda necessario l’intervento delle altre Forze di polizia dall’esterno per ristabilire l’ordine e la sicurezza interna negli istituti penitenziari. Il documento, elaborato a seguito delle rivolte carcerarie di marzo scorso, sottolinea come l’intervento all’interno dell’istituto “è di natura assolutamente eccezionale e pertanto connesso con il verificarsi di eventi non ordinari”. Potrà dunque verificarsi “esclusivamente in via residuale e straordinaria e solo dopo che siano stati esperiti tutti i sistemi di contenimento e le risorse a disposizione dell’amministrazione penitenziaria”. Come viene sottolineato nel documento, inoltre, in caso di eventi di “straordinaria eccezionalità” potrà essere convocata l’Unità di crisi, con l’eventuale impiego dei reparti speciali quali Nocs e Gis. Ma il nodo critico che della circolare del Viminale è quello riguardante il ruolo dei direttori degli istituti penitenziari. In caso di rivolte, il questore potrà avviare contatti direttamente con il comandante della polizia penitenziaria, scavalcando, di fatto, il direttore dell’istituto coinvolto. Non solo. Se il direttore di un carcere in rivolta chiederà aiuto e rinforzi tramite il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria o attraverso il prefetto, la gestione e la responsabilità degli interventi passeranno nelle mani del questore. E sarà lui, anche in questo caso, ad avviare contatti con il comandante degli agenti dell’istituto e a valutare se affidargli il comando delle operazioni o farlo affiancare da un suo funzionario. L’allarme del sindacato dei direttori penitenziari - Rosario Tortorella, segretario nazionale del Sindacato direttori penitenziari (Si. DI. Pe.), ha inviato una nota al Dap e al ministero della Giustizia per ricordare le regole penitenziarie che disciplinano l’ordine pubblico, le quali sono differenti da quelle che vigono fuori dalle mura. “Quello penitenziario - si legge nella nota del Si. DI. Pe. -, infatti, è contesto del tutto peculiare e specifico ed è regolato, sul punto, da proprie norme, anche di rango primario, che declinano un concetto di ordine, sicurezza e disciplina, proprio degli istituti penitenziari. Si tratta, cioè, di un peculiare contesto, dotato di una sua autonomia, di propri organi di governo e di gestione delle situazioni emergenziali, fatte salve le doverose sinergie e collaborazioni istituzionali tra i diversi organi amministrativi e di Polizia, che di ordine e sicurezza pubblica elettivamente si occupano sul territorio”. Tortorella ci tiene a sottolineare che la dirigenza penitenziaria, all’interno delle carceri, svolge “un ruolo essenziale di armonizzazione e governo complessivo del sistema penitenziario poiché, in ossequio ai principi contenuti nell’art. 27 della Costituzione e compiutamente declinati dall’Ordinamento Penitenziario, negli istituti devono trovare bilanciamento le esigenze dell’ordine, della sicurezza e della disciplina con quelle del trattamento rieducativo e della risocializzazione”. Il ruolo dei direttori penitenziari secondo le norme vigenti - Il sindacato dei direttori penitenziari ha richiamato alla memoria il quadro normativo di riferimento che deve essere tenuto presente e applicato nel caso si verifichino disordini nelle carceri come quelle di marzo. Innanzitutto c’è il “Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà”, il quale prevede, che, soltanto qualora si verifichino negli istituti penitenziari disordini collettivi con manifestazioni di violenza o tali da far ritenere che possano degenerare in manifestazioni di violenza, il Direttore dell’istituto, laddove non sia in grado di intervenire efficacemente con il personale tutto a disposizione, richiede al Prefetto l’intervento delle Forze di Polizia e delle altre Forze eventualmente poste a sua disposizione. La norma prevede, poi, che il Direttore informi immediatamente il magistrato di Sorveglianza e il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria competenti per territorio nonché il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. C’è l’articolo 41bis della Legge 26 luglio 1975 n. 354 recante le “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, la cui rubrica recita inequivocabilmente “Situazioni di emergenza” prevede, inoltre, che, in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, sia il ministro della Giustizia - e non il ministro dell’Interno - ad avere la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nell’istituto interessato ai disordini o alle rivolte l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione, peraltro, deve essere sempre motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del suddetto fine. In casi eccezionali spetta al direttore di avvalersi delle Forze di polizia - L’articolo 74, sesto comma, del Dpr. n. 230/2000, ancora, prevede che, in casi eccezionali, per operazioni di perquisizione generale dell’istituto penitenziario, sia il Direttore che possa avvalersi, della collaborazione di personale appartenente alle Forze di polizia e alle altre Forze poste a disposizione del Prefetto, ai sensi del quinto comma dell’articolo 13 della legge 1° aprile 1981, n. 121.L’articolo 66 del Dpr. n. 230/2000 prevede che sia sempre il Direttore dell’istituto ove è ristretto il detenuto beneficiario che è tenuto a comunicare i provvedimenti esecutivi di concessione dei permessi premio o di necessità al Prefetto della Provincia competente per territorio rispetto al luogo dove il permesso deve essere fruito, nella sua qualità di Autorità provinciale di Pubblica sicurezza. In caso di ammissione di un detenuto al lavoro all’esterno, ancora, l’articolo 48, comma 14, del suddetto Dpr. prevede che sia la Direzione dell’istituto a consegnare, al detenuto o internato, ed a trasmettere al Dap, al Provveditore regionale e al direttore dell’Ufficio di Esecuzione penale esterna, copia del provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno, dandone notizia all’autorità di Pubblica sicurezza del luogo in cui si dovrà svolgere il lavoro all’esterno. Le norme elencate indicano, inequivocabilmente, che il Direttore dell’istituto è responsabile di vertice dell’ordine, della disciplina e della sicurezza interna dell’istituto penitenziario. È lui il superiore gerarchico di tutto il personale, compreso quello della polizia penitenziaria e quindi anche del comandante di reparto. Ci sono taluni sindacati di polizia penitenziaria come il Sappe che vorrebbero essere alle dipendenze del ministero dell’Interno. Ciò però significherebbe un ritorno a un modello di pura custodia e di sola polizia. Le linee guida del Viminale, specifiche per i solo disordini, rischiano di diventare un cavallo di Troia per occuparsi dei penitenziari e scavalcare i direttori? Il timido programma di Mario Draghi sulla giustizia: serve più coraggio di Nicola Ferri Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2021 Sarà rimasto deluso chi si attendeva che nel campo della Giustizia il programma enunciato dal presidente del Consiglio nel discorso sulla fiducia alle Camere prevedesse riforme di più ampia portata come quella del processo civile e del processo penale (gli ultimi, timidi tentativi in questa direzione erano stati compiuti dal ministro Bonafede, rimasti negli archivi delle commissioni Giustizia). In effetti Draghi, nel suo intervento, si è limitato a raccogliere le Country Specific Recomandations della Ue indicando quali obiettivi di riforma l’insolvenza, il funzionamento più efficiente dei tribunali e una migliore gestione dei carichi di lavoro e infine la repressione della corruzione. Si tratta di un programma ristretto, in gran parte dedicato al settore civile (la lotta alla corruzione ha già fatto passi avanti con la Spazza-corrotti) che, si spera, possa essere integrato e rilanciato dalle iniziative della neo ministra Cartabia, non solo sul versante della giustizia civile ma, soprattutto su quello del processo penale. Per quest’ultimo l’auspicio è che il Guardasigilli abbandoni la strada delle “leggine” seguita dai suoi predecessori con ben scarsi risultati, e si muova al di fuori dell’ottica del codice di procedura vigente risalente al 1989, che presenta un pauroso tasso di obsolescenza e di inefficienza, causa principale della montagna di arretrato, con 2.676.750 processi pendenti al 30 settembre 2020. Le ultime statistiche hanno messo in luce, ancora una volta, l’irrazionalità di un sistema i cui. tempi, nella fase pre-dibattimentale, si snodano per mesi e mesi attraverso le indagini del Pm, l’udienza del giudice delle indagini preliminari (Gip), i ricorsi intermedi al tribunale del Riesame e alla Cassazione sulla libertà personale e sui sequestri di beni, l’udienza davanti al giudice dell’udienza preliminare (Gup) e, spesso, con altri tempi morti per cause varie. È una situazione catastrofica che, con gli strumenti attuali, appare senza ritorno, la quale imporrebbe una svolta radicale, all’insegna del coraggio e della lungimiranza, con l’introduzione del processo accusatorio che già Falcone aveva auspicato come ineludibile strumento di modernizzazione, razionalizzazione e velocizzazione della Giustizia penale. Circa il processo civile basterebbero pochi punti per mettere in soffitta l’attuale macchinoso “processo di cognizione” e sostituirlo con il rito alternativo affermatosi a seguito dell’impatto del Covid-19, un rito che va sotto il nome di “udienza cartolare” o “udienza figurata” in cui prevale la trattazione scritta, o, in alternativa, con la presenza “da remoto” dei giudici, degli avvocati e delle parti. Ciò comporta la drastica riduzione dei tempi, l’acquisizione delle prove mediante investigazioni difensive, anche sostituendo le testimonianze e le perizie con dichiarazioni giurate certificate dal difensore (salvo l’intervento del giudice nei casi di dichiarazioni false), l’eliminazione delle udienze di mero rinvio e la previsione di due sole udienze “in presenza”: la prima, di presentazione dell’azione al giudice da parte dell’attore in contraddittorio con il convenuto; la seconda per la precisazione delle conclusioni con preventivo scambio di memorie, cui segue la deliberazione e la pubblicazione della sentenza entro un termine breve. Entrambe tali riforme dovrebbero essere accompagnate dall’introduzione del giudice monocratico in appello e dalla riduzione dei collegi giudicanti in Cassazione da cinque a tre magistrali. Da ultimo la spinta riformatrice dovrebbe comprendere, anche per il Supremo collegio, la redazione delle sentenze sotto forma semplificata di ordinanza, tranne casi di particolare complessità e fermo: le “sentenze-manifesto” sono un lusso che non ci possiamo più permettere. Giustizia, nel Milleproroghe il colpo di mano di Fdi sulla prescrizione di Liana Milella La Repubblica, 23 febbraio 2021 E la maggioranza alla Camera si divede. Il partito di Meloni ripropone all’articolo 8 lo stesso emendamento di Costa di Azione, Fi, Lega, Italia viva. In assenza della fiducia si astengono Fi, Lega e Iv. Inutilmente i renziani hanno cercato un voto unitario. Costa non partecipa al voto. Sulla prescrizione la maggioranza per la prima volta si divide alla Camera. Finisce con 227 voti contrari, quelli di Pd e M5S, i 29 favorevoli di FdI, e tutti gli altri astenuti per 162 voti. A sorpresa, ecco di nuovo l’incubo prescrizione che torna nel decreto Milleproroghe. Fratelli d’Italia presenta, all’articolo 8, esattamente lo stesso emendamento di Enrico Costa di Azione, Forza Italia e Lega. Nonché di Italia viva. In assenza di un voto di fiducia decidono di astenersi Fi e il partito di Salvini. Con la motivazione che si tratta dello stesso emendamento già presentato in commissione Affari costituzionali e Bilancio. Si astiene anche Italia viva, visto che, appena giovedì scorso, durante il vertice di maggioranza con la Guardasigilli Marta Cartabia, tutti i gruppi del governo si erano trovati d’accordo con l’ordine del giorno presentato dalla ministra, e che sarà votato in aula alla fine della discussione, che rinviava il nodo prescrizione in attesa di rivedere i disegni di legge sulla riforma del processo penale. Quindi dopo l’elaborazione di una riforma organica. Il ministero per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà di M5S ha comunque confermato che “l’intendimento del governo è di raggiungere una sintesi positiva sulla questione in tempi rapidi”. I renziani, con la capogruppo alla Camera Maria Elena Boschi, hanno cercato insistentemente di convincere gli alleati a raggiungere un voto unitario, ma senza riuscirci. Tra le indiscrezioni circola quella che proprio Forza Italia abbia insistito per non andare alla fiducia sul Milleproroghe per votare sulla prescrizione. Probabilmente per la pressione degli avvocati e delle Camere penali di Giandomenico Caiazza deluse dalla decisione di Francesco Paolo Sisto, responsabile Giustizia di Fi, che ha accettato l’ordine del giorno di Cartabia. Anche Nicolò Ghedini, l’avvocato di Berlusconi, sarebbe stato contrario al rinvio del voto. In aula Pierantonio Zanettin ha spiegato le ragioni per cui comunque l’emendamento di FdI, in quanto uguale a quello forzista, al massimo poteva meritare un’astensione. Invece Costa non ha partecipato al voto: “Ci siamo impegnati a non affrontare il tema della prescrizione nel Milleproroghe, ma nel merito non potrei né votare no, né astenermi perché Fratelli d’Italia ha copiato il mio emendamento. Giudico contraddittoria l’astensione e ritengo inopportuno in questo momento disattendere l’accordo di maggioranza sottoscritto con Cartabia”. Ma c’è di più. Si era capito già sabato che il partito di Berlusconi aveva digerito a fatica l’accordo proposto da Cartabia. Infatti, durante il voto in commissione degli emendamenti, in più di un’occasione, i forzisti hanno minacciato di fare marcia indietro sull’intesa. Proprio con l’intenzione di votare sì allo slittamento della legge dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede al 2023. Ci sono stati molti momenti di tensione, poi è prevalsa la stanchezza e la voglia di chiudere sul Milleproroghe. Prescrizione, altre scintille: tornano i rischi sul Recovery di Errico Novi Il Dubbio, 23 febbraio 2021 Mentre in Senato si discute sui fondi Ue per la giustizia, M5S e FdI sfidano il lodo di Cartabia. Bonafede: “Cambiare la legge? Solo col lodo Conte bis”. Le svolte politiche creano sempre un clima da luna di miele. All’inizio. Vale anche per la giustizia. Giovedì scorso la ministra Marta Cartabia ha trovato in pochi minuti un punto d’incontro sulla prescrizione dopo due anni di risse: semplicemente, ha ricordato che se pure esiste l’esigenza di “effettività della pena” non si può comunque andare contro l’articolo 111 della Costituzione e la ragionevole durata del processo. Logica inattaccabile, tradotta in un ordine del giorno collegato al Milleproroghe, sul quale Montecitorio dovrà votare oggi. Ma già ieri, il piccolo miracolo politico di Cartabia è stato insidiato dalle parole del predecessore Alfonso Bonafede: “Sulla prescrizione sono arrivati segnali positivi. Detto questo, per noi”, secondo l’ex ministro della Giustizia 5 stelle, “deve restare il punto di caduta citato nel post che ha lanciato il voto su Rousseau, ossia il cosiddetto lodo Conte-bis, che introduce una distinzione tra condannati e assolti. Siamo disposti a muoverci esclusivamente nel perimetro del lodo”. Parole affidate all’intervista di ieri sul Fatto quotidiano. Il lodo Conte bis è molto diverso dal lodo Cartabia: non pone limiti di durata alle fasi del processo successive al primo grado, per chi in primo grado è condannato. In pratica, conferma il blocco della prescrizione senza che si possa prima verificare se un’eventuale riforma del processo riesca davvero a scongiurare la follia dell’imputato a vita. È proprio per rimediare al paradosso, che il “fronte garantista” aveva presentato, in commissione Affari costituzionali, emendamenti al Milleproroghe: avrebbero congelato la legge Bonafede. Il lodo Cartabia ha prodotto come prima conseguenza proprio la rinuncia al voto su quegli emendamenti. E infatti il decreto Milleproroghe ieri è arrivato illeso, riguardo alla prescrizione, nell’aula di Montecitorio. Ma ci sono almeno tre incognite a offuscare di nuovo la tregua. Intanto, a sfidare l’equilibrio sul penale trovato da Cartabia all’interno della maggioranza, ha provveduto il solo partito rimasto interamente all’opposizione, Fratelli d’Italia, che ha invece proposto con una propria modifica, respinta dalla Camera, il congelamento della norma Bonafede. Si è insomma rimaterializzato, seppur senza successo, il siluro disinnescato, “per rispetto nei confronti di Cartabia”, da Enrico Costa di Azione, Francesco Paolo Sisto e Pierantonio Zanettin di Forza Italia, Lucia Annibali di Italia viva, Riccardo Magi di +Europa e dal gruppo della Lega. Seconda questione: è ovvio che le parole di Bonafede rischiano di destabilizzare il clima di fiduciosa attesa suscitato dalla guardasigilli nel fronte garantista. Ma soprattutto, il riaffiorare di un contrasto così insidioso sul processo penale può riverberarsi sulle altre partite che attendono la maggioranza, compreso il Recovery plan. A partire da oggi, nelle commissioni Giustizia di Senato e Camera si terranno le audizioni sul Piano di ripresa, in vista del parere da trasmettere alle commissioni Bilancio. Ed è chiaro che l’attività consultiva riguarderà gli interventi relativi all’efficienza della giustizia. Ma una maggioranza che riscopre, nelle parole di Bonafede, di essere ancora divisa sulla prescrizione, sul nodo costato la crisi del Conte bis, potrà serenamente confrontarsi sulla destinazione delle risorse per l’efficienza dei tribunali? Come minimo la discussione rischia di essere meno serena del previsto. Anche considerato che le parti del Recovery dedicate alla giustizia saranno riviste e riscritte, ovviamente, da Marta Cartabia. Cioè dalla promotrice della tregua sulla prescrizione raggiunta pochi giorni fa. Ieri nell’Aula di Montecitorio il lodo della guardasigilli ha retto bene. Il ministro 5s ai Rapporti col Parlamento Federico D’Incà ha ribadito che “il confronto è in corso”, non ha ottenuto da Fratelli d’Italia lo stop all’emendamento sulla prescrizione, che però è stato votato solo dal partito di Giorgia Meloni: 29 favorevoli e 227 contrari. Si sono astenuti in 162, vale a dire gli interi gruppi di Lega, Forza Italia e Italia viva, con Azione che non ha partecipato allo scrutinio. Lucia Annibali, renziana che ha ideato e prestato il nome all’emendamento anti Bonafede, ha ribadito che il passo indietro è legato alla “convinzione che con il nuovo governo, e con la nomina della ministra Cartabia, si sia segnata una discontinuità importante” e che si arriverà a “riaffermare una cultura giuridica garantista e coerente con i principi costituzionali”. Ma Annibali ha tenuto a ripetere come, rispetto alla riforma Bonafede, i renziani restino “profondamente contrari”. Le parole di Bonafede sul lodo Conte bis come unica possibile concessione dei Cinque Stelle sono rimaste sullo sfondo. Oggi la road map della nuova guardasigilli sarà messa ai voti come ordine del giorno. E sarà importante verificare il tono delle dichiarazioni in Aula. Può darsi che la fiducia delle forze garantiste in una ministra come Cartabia tenga lontano il rischio di nuove fibrillazioni. Ma la guardasigilli punta a risolvere il nodo, non a ignorarlo. La riforma penale arriverà al dunque entro marzo, quando scadrà il termine per gli emendamenti nella commissione Giustizia di Montecitorio. L’intesa trovata nella nuova maggioranza sarà tradotta in una modifica della prescrizione che, dal punto di vista di Cartabia, non può ridursi al lodo Conte bis. Ed è lì che si capirà se davvero se i Cinque Stelle metteranno, come anticipato da Bonafede, in discussione l’equilibrio. Depenalizzare per tornare a rispettare la nostra Costituzione di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 23 febbraio 2021 Nell’idea dei Padri Costituenti la Legge Penale aveva, tra i suoi scopi, anche e soprattutto quello di rieducativo per consentire il reinserimento. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nell’idea dei Padri Costituenti la Legge Penale aveva, tra i suoi scopi, anche e soprattutto quello di rieducativo al fine di consentire al soggetto interessato di reinserirsi nel tessuto sociale. Dal dettato dell’art. 27 Cost. emerge con impeto il ruolo che la Legge Penale svolge nell’Ordinamento: un ruolo che si è affievolito a causa delle traversie politiche allorquando la Giustizia Penale diviene mera questione di Partito. Anche le leggi di depenalizzazione sono cadute nello snaturare l’extrema ratio del Sistema penale, destituendolo anche di forza deterrente. Non solo, si è assistito negli anni ad un progressivo slittamento dell’asse delle garanzie, tipicamente penali, anche in altri ambiti quali quello amministrativo, reso forse necessario dal progressivo appiattimento delle differenze proprie dei differenti sistemi sanzionatori, amministrativo da un lato e penale dall’altro. Siffatto appiattimento di differenze comporta che, ad oggi, parlare di “depenalizzazione” significa “travaso” di fattispecie tra i due sistemi. Attenzione: con ciò non si vuole dire che l’Ordinamento Giudiziario sia giunto al punto in cui tra procedimento penale e amministrativo non vi sia più alcuna differenza; significa invece andare a puntellare le differenze formali e sotto il versante sostanziale eliminare la norma e rendere il fatto del tutto lecito. Si è soliti pensare alla depenalizzazione come strumento di alleggerimento del carico di lavoro degli uffici giudiziari, non rendendosi conto che quanto si ottiene è solo postergare il problema, dal settore penale, a quello amministrativo, ovvero civile. Pertanto, più che per un alleggerimento del carico di lavoro, gravante sul settore penale - la quale dovrebbe essere perseguita, in primis, tramite l’assunzione di nuovo organico, come già lo stesso scrivente faceva presente in queste pagine - la depenalizzazione si rende necessaria anche per altri, attuali, principi. In prima linea v’è il problema dei cd. reati “minori”, contravvenzionali, che, di fatto, risultano sotto la Legge penale solo nella forma, ma non già nella sostanza e risultano del tutto incompatibili con gli scopi primari del diritto sostanziale. Si pensi alle numerose contravvenzioni del Testo Unico di Pubblica Sicurezza (Tulps), la maggior parte delle quali potrebbero ben essere semplicemente sanzionati in via amministrativa tramite l’irrogazione di una pena pecuniaria, la cui misura potrebbe essere agevolmente adeguata alla gravità del fatto, soddisfacendo ugualmente le dovute esigenze repressive. A tal proposito, per molti reati, si passi il termine, “minori” la forza deterrente, scaturente da una sanzione pecuniaria di natura amministrativa, risulterebbe di per sé sufficiente a dissuadere eventuali soggetti da porre in essere condotte contra legem, oltre alla considerazione che per simili reati è del tutto superfluo accostare quelle che sono le garanzie tipiche del sistema penale (e pertanto i costi statali che ne conseguono); altrettanto superfluo ed eccessivo è pretendere che tramite la punizione di quelle fattispecie di minore entità si perseguano i più alti obiettivi repressivi. Ma la depenalizzazione non è certamente l’unica strada percorribile in ordine ad uno “sfoltimento” della Legge penale, nonché perseguimento dei già suesposti obiettivi. A parere dello scrivente, nell’attesa che la materia penale riacquisti quel suo ruolo di extrema ratio, un allargamento delle maglie dell’art. 131- bis del C. P. potrebbe costituire un valido strumento per consentire alle Procure, appesantite dal vetusto obbligo dell’esercizio dell’azione penale, di smaltire ancor prima della fase dibattimentale tutti quei fatti sui quali la pretesa punitiva statale appare del tutto superflua, se non nociva, per l’indagato stesso. Sempre allo scopo di alleggerire il carico di lavoro gravante sugli Uffici giudiziari, è necessario intraprendere un dibattito e riflessione profonda sull’introduzione di sistema deflattivi, come l’oblazione, non solo nella fase procedimentale antecedente al dibattimento, ma anche nei successivi gradi di giudizio, come accade con patteggiamento o concordato in appello. D’altro canto appare corretta la strada intrapresa dal Legislatore in ordine alla responsabilità degli Enti: grazie all’introduzione del sistema punitivo per quote. E se fosse proprio una Giustizia preventiva il futuro del Sistema Penale italiano? Forse il meccanismo delle quote (in via esclusivamente pecuniaria) potrebbe essere la corretta via per una semi- depenalizzazione. Non ci si può infatti illudere che tramite la semplice riscrittura dei Codici di rito si possa fare fronte ad anni di tagli alla Spesa Pubblica che hanno lasciato il Sistema giudiziario in grave difficoltà ed hanno ridotto talune fasi, quale l’udienza preliminare, a mera cenerentola del processo penale. Procure nel caos, 67 magistrati scrivono a Mattarella: “Al Csm ci vuole il sorteggio” di Davide Varì Il Dubbio, 23 febbraio 2021 Dopo il caso Palamara. Tra i firmatari il gip di Palermo Giuliano Castiglia, Clementina Forleo del Tribunale di Roma, Lorenzo Matassa di Palermo, Gabriella Nuzzi di Napoli. Sessantasette magistrati che scrivono una lettera accorata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e gli chiedono un “intervento immediato nel suo ruolo di garante della Costituzione, “affinché sia finalmente intrapreso il cammino per l’eliminazione dei fattori distorsivi dell’imparzialità e buon andamento della funzione di autogoverno ripristinando la legalità delle sue dinamiche”. Per uscire dal caos e recuperare trasparenza i magistrati firmatari della lettera ritengono che serva “il sorteggio perla selezione dei componenti del Csm”. I togati si rivolgono dunque direttamente al Capo dello Stato per chiedere “che siano rimosse le cause che hanno condotto alla grave delegittimazione di articolazioni essenziali dell’Ordinamento Giudiziario e del Sistema di autogoverno della Magistratura e che sia assicurato l’allontanamento da tali ruoli di coloro che non sono risultati all’altezza del compito”. In una lettera resa pubblica dall’Adnkronos, i 67 giudici scrivono a Mattarella, anche in qualità di Presidente del Csm. Tra i firmatari ci sono il gip di Palermo Giuliano Castiglia, Clementina Forleo del Tribunale di Roma, Lorenzo Matassa di Palermo, Gabriella Nuzzi di Napoli. “Le chiediamo, signor Presidente, di tornare a intervenire con la Sua autorevolezza, per avviare finalmente l’ormai non più differibile azione di recupero della fiducia di cui l’Ordine Giudiziario e la gran parte dei Magistrati meritano di godere, e della credibilità della Giurisdizione, baluardo prezioso ed essenziale dello Stato di diritto delineato dai nostri Costituenti”, scrivono i magistrati. I magistrati fanno poi riferimento all’intervento di Mattarella, il 19giugno del 2019 al Csm, quando “esprimeva, con fermezza, il grave sconcerto e la riprovazione per la degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati, evidenziando come tali fenomeni avessero pesantemente compromesso il prestigio e l’autorevolezza dell’Ordine Giudiziario”, E al nuovo intervento, un anno dopo, il 29 maggio 2020, quando, “imperversando e intensificandosi ulteriormente lo scandalo che sta abbattendo completamente la credibilità delle istituzioni giudiziarie, attraverso una nota del Suo Ufficio stampa, nell’evidenziare come in quel momento non potesse farsi luogo allo scioglimento del CSM, Ella ha ribadito come sia compito del Parlamento quello di predisporre e approvare una legge che preveda un Consiglio Superiore della Magistratura formato in base a criteri nuovi e diversi”. E proseguono poi nella lettera: “Oggi, un altro anno è passato ma, con grande rammarico, dobbiamo prendere atto che il Suo accorato auspicio è rimasto inevaso e che le iniziative legislative, pur annunciate come imminenti, sono ben lungi dal tradursi in realtà. Nel frattempo, lo scandalo continua a imperversare e, lungi dal placarsi, è costantemente alimentato dall’uscita di nuove e allarmanti notizie che rendono il quadro complessivo sempre più inquietante e inaccettabile”. E ancora: “Al netto di ogni tentativo di strumentalizzazione, di cui siamo pienamente consapevoli, riteniamo che i fatti, come pubblicamente esposti dagli organi di informazione, siano troppo gravi per rimanere inesplorati e non verificati”. “Si avverte, inoltre, una profonda contraddizione rispetto all’esigenza di trasparenza e completa conoscenza di quanto risultante dagli atti. Ufficialmente, essi sono confinati nelle mani di poche Autorità; di fatto, però, sono nella disponibilità di tantissimi, a cominciare dai media. Così, in questo contesto delicatissimo, il rischio di un loro uso strumentale e distorto, condizionato da convenienze e scopi particolari, è straordinariamente grave”, denunciano i 67 magistrati. “Il vano trascorrere del tempo, inoltre, anche in ragione dei termini normativamente previsti per l’accertamento delle condotte dei singoli, pone a rischio ogni possibilità di futura verifica, tanto da farci ritenere auspicabile l’intervento di una Commissione Parlamentare di inchiesta volta a fare definitiva chiarezza - chiedono poi i magistrati- E tuttavia, pensiamo di non potere rassegnarci alla inerzia”. “Siamo da tempo e restiamo fermamente convinti che la via per il ripristino della credibilità della Giurisdizione, oltre che per un’inequivoca e pubblica risposta agli appelli alla trasparenza (troppo spesso elusi, strumentalizzati o del tutto inevasi), passi ineludibilmente per una radicale riforma dell’Ordinamento giudiziario- concludono. Avvertiamo, in questo, perfetta sintonia con quanto Ella, purtroppo finora inascoltata, ha così autorevolmente e ripetutamente sollecitato. Due dovrebbero essere, a nostro giudizio, i punti essenziali e imprescindibili di tale iniziativa l’inserimento del sorteggio nella procedura di selezione dei componenti del Csm e la rotazione degli incarichi direttivi e semi-direttivi. Lungi dall’essere in contrasto con la Carta costituzionale, specie ove seguito da una elezione successiva tra un numero predeterminato di candidati estratti a sorte (e non il contrario, come, forse non a caso, alcuni esponenti delle c.d. correnti hanno in passato proposto),il sorteggio rappresenta l’unico sistema idoneo a garantire l’imparzialità della funzione di autogoverno e l’effettività dei principi di distinzione dei magistrati soltanto per diversità disfunzioni, di indipendenza dei magistrati e di soggezione dei giudici soltanto alla legge”. “La rotazione, a sua volta, è in grado di eliminare in radice il carrierismo e la concentrazione di potere in mano a pochi, fenomeno preoccupante e dei cui effetti distorsivi e dannosi le recenti cronache ci hanno resi tutti ancor più consapevoli”. Detenuti, spazio minimo disponibile secondo le Sezioni Unite di Eleonora Pergolari edotto.com, 23 febbraio 2021 Alle Sezioni Unite penali è stata sottoposta una questione di legittimità in tema di conformità delle condizioni di detenzione all’art. 3 della Cedu, per come interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo. Era stato chiesto, in particolare, se lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per ogni detenuto dovesse essere computato considerando la superficie calpestabile della stanza ovvero quella che assicuri il normale movimento, conseguentemente detraendo gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e, in particolare, se, tra questi ultimi, dovesse essere detratto il solo letto a castello ovvero anche quello singolo. Con sentenza n. 6551 del 19 febbraio 2021, le SS.UU. hanno fornito la loro soluzione rispetto agli orientamenti della Corte di cassazione non uniformi sui criteri di calcolo dello spazio minimo da assicurare a ciascun detenuto: le pronunce, in particolare, divergevano per quel che riguarda la stessa nozione di “spazio disponibile”, inteso come “superficie materialmente calpestabile” ovvero come “superficie che assicuri il normale movimento nella cella”. La Suprema corte ha enunciato apposito principio di diritto ai sensi del quale: “I fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 Cedu derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen.”. Calabria. Vaccini, l’appello del Garante: “Priorità anche per i detenuti” Gazzetta del Sud, 23 febbraio 2021 Invito alle autorità ad includere nell’elenco delle categorie prioritarie per la somministrazione dei vaccini anti Covid le persone detenute nei 12 penitenziari calabresi. Un invito alle autorità ad includere nell’elenco delle categorie prioritarie per la somministrazione dei vaccini anti Covid le persone detenute nei 12 penitenziari calabresi e il personale ad altro titolo operante, è stato rivolto dal garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Agostino Siviglia. “Ritengo doveroso segnalare - scrive Siviglia - la necessità di inserire nel Piano vaccini regionale per la Calabria, fra le categorie prioritarie, le persone detenute nonché il personale in conformità con le linee di indirizzo in tal senso formulate dal commissario straordinario per l’emergenza sanitaria, Domenico Arcuri, in quanto rientranti tra le categorie a rischio. Nel mentre, si registra positivamente l’inserimento nel calendario vaccini presentato dal presidente della Regione Calabria del personale di polizia penitenziaria. Inoltre, mi preme segnalare ancora una volta, la necessità e l’urgenza del più tempestivo intervento (in specie da parte dell’Asp di Catanzaro) in merito all’avvio dell’attività funzionale della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Girifalco (Catanzaro)”. Sicilia. La Fials: “Stabilizzare gli operatori sanitari nelle carceri” livesicilia.it, 23 febbraio 2021 La richiesta del sindacato inviata all’assessore regionale Razza e ai direttori generali delle Asp. La Fials Sicilia sollecita tutte le Aziende sanitarie ad accelerare i processi di stabilizzazione del personale che opera all’interno delle carceri siciliane. Lo scrive in una nota la segreteria regionale guidata da Sandro Idonea che rivendica “pari dignità agli operatori sanitari in attesa della stabilizzazione”. La Fials Sicilia torna così a chiedere con forza di portare a termine “il processo di stabilizzazione degli operatori impegnati in prima linea nella lotta contro il Covid 19, oltre al difficile compito di assicurare la quotidiana assistenza al personale recluso. La legge Madia - scrive la Fials - offre la concreta possibilità di una svolta nella normalizzazione del rapporto di lavoro svolta per altro sollecitata e condivisa dall’assessorato”. Da qui la richiesta inviata all’assessore regionale Razza e ai direttori generali delle Asp. Napoli. Giustizia riparativa e volontariato: nuovo accordo tra Csv e Uiepe Redattore Sociale, 23 febbraio 2021 L’intesa riguarda i soggetti in esecuzione penale esterna e prevede percorsi di formazione, attività per il reinserimento sociale, lavorativo e per lo sviluppo delle competenze. Percorsi di formazione, attività per il reinserimento sociale e lavorativo, promozione dei beni comuni e della cittadinanza attiva. Sono questi gli obiettivi più importanti del protocollo d’intesa siglato in Campania tra l’Uiepe (ufficio interdistrettuale dell’esecuzione penale esterna) e il Csv Napoli, che puntano così a consolidare la loro collaborazione nell’ambito della “giustizia di comunità”. Le attività previste dall’accordo, che si aggiunge ad altre collaborazioni simili avviate dai Csv in tutta Italia, riguardano i soggetti in esecuzione penale esterna ovvero sottoposti a misure alternative al carcere e vedranno, grazie all’attività di coordinamento del Csv, il coinvolgimento diretto degli enti del terzo settore del territorio. L’intesa, che come sottolinea la direttrice del Csv Giovanna De Rosa “formalizza una collaborazione già in essere da tempo nell’ambito della giustizia minorile e del volontariato in carcere” porterà all’organizzazione di iniziative per l’acquisizione e lo sviluppo di competenze e prevede anche l’attivazione di percorsi di istruzione e formazione modulari e personalizzati. “Crediamo - commenta Nicola Di Caprio, presidente del Csv - che insieme si possa crescere culturalmente e socialmente e stimolare la cittadinanza attiva così da migliorare i territori della nostra città metropolitana e realizzare iniziative concrete per favorire percorsi di inclusione”. Avellino. Nel carcere il progetto sulla genitorialità di Viviana Lanza Il Riformista, 23 febbraio 2021 “Puntare su inclusione socio-lavorativa per i diversamente liberi”. Nel carcere di Bellizzi Irpino si è concluso un progetto sulla genitorialità promosso dal garante campano Samuele Ciambriello e realizzato dall’associazione “Social Skills”, che ha visto coinvolti per diversi mesi 15 detenuti del nuovo padiglione. Alla manifestazione di chiusura erano presenti la presidente dell’associazione Rossella Chiapparelli e la vicepresidente Simona d’Agostino, il direttore del Carcere Paolo Pastena, la vicedirettrice Laura Abruzzese, il comandante Attilio Napolitano e il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Per la vicepresidente dell’associazione Simona d’Agostino: “Questa esperienza è stato un qualcosa di umano ed arricchente. Il progetto è stato rivolto ad un gruppo di detenuti padri, che sono stati coinvolti in un percorso di consapevolezza della propria vita affettiva e relazionale, attraverso un approccio autobiografico, affinché potessero affrontare meglio una genitorialità fatta, inevitabilmente, di rinunce e di distanza”. Dopo le testimonianze di alcuni detenuti ha concluso la manifestazione il garante campano Ciambriello che ha dichiarato: “Questo progetto, promosso dal mio ufficio, ha proseguito la linea di un altro già fatto per la sezione femminile del carcere, poiché penso che il tema della genitorialità faccia recuperare responsabilità e speranza. I progetti promossi da me nelle carceri campane hanno una valenza di inclusione sociale, di recupero di risorse, competenze e ruoli dei diversamente liberi. Mi auguro che il Ministero della Giustizia e l’amministrazione penitenziaria, d’intesa con le amministrazioni locali, gli enti del terzo settore, mettano in campo anche nella provincia di Avellino, senza enfasi, progetti di inclusione sociale e socio lavorativi evitando così le recidive e diminuendo l’insicurezza dei nostri quartieri e delle nostre città. Tali interventi sono la logica costituzionale del reinserimento e dell’accudimento dei diversamente liberi”. Prima di andare via, il Garante ha regalato ai detenuti mascherine e libri. Nel carcere di Avellino ci sono oggi 421 detenuti, di cui 23 donne. Il garante comunica che il suo ufficio, nelle carceri avellinesi, ha in corso progetti quali: uno sportello di ascolto, un corso di sartoria nella sezione femminile del carcere di Avellino e un progetto che partirà a breve di teatro nel carcere di Ariano Irpino, ed ha finanziato un progetto mirato al riciclo della plastica per il carcere di Sant’Angelo dei Lombardi. Ancona. Nel carcere di Barcaglione è nato il primo agnello e lo hanno chiamato “Boss” di Michele Romano agi.it, 23 febbraio 2021 Nell’istituto di pena alla periferia della città è in atto un programma di recupero dei detenuti. È stata realizzata una piccola azienda agricola in circa due ettari di terreno demaniale. Si chiama Boss ed è il primo agnello nato all’interno di un gregge allevato nella fattoria interna al carcere Barcaglione di Ancona, dove è in atto da tempo un programma di recupero dei detenuti. Il gregge vive nel penitenziario dorico dalla fine dello scorso anno, quando è stato trasportato dal Montefeltro. Alla periferia nord del capoluogo delle Marche, il carcere è immerso in circa due ettari di terreni demaniali, destinati a una piccola azienda agricola. Una fattoria modello a ciclo chiuso - Negli ultimi quindici anni, in particolare da quando nel 2006 l’istituto di pena fu aperto sotto la guida della direttrice Manuela Ceresani, sono state realizzate numerose attività lavorative che hanno coinvolto i detenuti in un percorso di formazione, curato dall’agronomo Sandro Marozzi, con l’obiettivo di trasmettere loro manualità e competenze, utili una volta reinseriti nella società. La fattoria, un modello a ciclo chiuso, si è dotata nel tempo anche di un oliveto con 300 piante autoctone e del frantoio, di un apiario, di una serra per piccoli frutti e infine di un orto. C’è anche un piccolo caseificio - I passaggi successivi hanno soddisfatto l’esigenza di tenere all’interno di questo spazio verde anche qualche animale che potesse pascolare e un locale adeguato dove trasformare il latte prodotto in formaggio. Il progetto si è concretizzato alla fine dello scorso anno, quando anche con il contributo del gruppo jesino Tre-Valli Cooperlat sono arrivate nella fattoria del carcere di Barcaglione anche venti pecore partorienti e, contemporaneamente, è stato allestito un piccolo caseificio. L’azienda agroalimentare si è occupata finora di fornire gratuitamente il latte per consentire di provare a produrre formaggio: l’obiettivo è di far crescere questa attività, affiancando agli ospiti del carcere le proprie maestranze esperte nelle produzioni casearie di qualità della controllata Fattorie Marchigiane. Si punta così a formare operatori in grado di produrre latte di pecora da trasformare in formaggio di fossa certificato Prodotto Agroalimentare Tradizionale. Milano. Cyberbullismo, il carcere dei minori “apre” il suo teatro in streaming di Paolo Foschini Corriere della Sera, 23 febbraio 2021 Lo spettacolo “New Wild Web - le armi del cyberbullismo”, scritto e interpretato dai giovani detenuti dell’istituti Beccaria di Milano, sfonda per un giorno le mura del carcere e grazie alla tecnologia streaming va in scena per tutti. Lo spettacolo parla di cyberbullismo. È scritto e interpretato da una compagnia di ragazze e ragazzi del carcere minorile Beccaria di Milano. Il progetto si era già classificato al primo posto nella campagna di raccolta fondi “Chi odia paga”, a suo tempo sostenuta tra gli altri proprio da Buone Notizie. Ora lo spettacolo New Wild Web - Le armi del cyberbullismo debutta in streaming direttamente dal teatro del carcere. Alle 10 di martedì 23 febbraio: orario scomodo, direte, ma son gli orari di un carcere. E tuttavia questo avviene proprio mentre tutti i teatri d’Italia, appesi alle parole del ministro Dario Franceschini che dice “l’Italia suia la prima a ripoartire”, stanno diventando pazzi per cercare il modo (appunto) di ripartire. Per questo diamo spazio qui alla forza di volontà con cui, dentro un carcere, i minorenni del Beccaria e i loro educatori hanno continuato a prepararsi e prepararli per tutto questo tempo pur tra le mille limitazioni dovute al Covid. Oggi, martedì 23 febbraio, è il loro giorno. La produzione è stata realizzata dal Teatro Puntozero, la struttura da 200 posti che all’interno del Beccaria promuove dal 2015 laboratori teatrali mirati al reinserimento professionale di giovani (sia come attori sia come tecnici) attraverso un approccio sperimentale a forte contenuto innovativo. Lo spettacolo attuale poi, per le modalità della sua diffusione, è quasi un metaspettacolo: un testo sulle forme di comunicazione digitale, e sulle sue distorsioni, rappresentato attraverso le tecnologie video e streaming da una generazione che mai più di così potrebbe incarnare se stessa e la condizione dei suoi componenti “nativi digitali”. Oltre a vedere lo spettacolo il pubblico interessato potrà anche interagire con commenti e domande attraverso i seguenti link: su Vimeo per la visione dello spettacolo (https://vimeo.com/event/712533 - password: NWW) e su Slido per l’interazione quiz e chat (https://app.sli.do/event/oocnjyh3). Vigevano (Pv). “Rumore D’Ali Teatro”, la compagnia nata in carcere durante la pandemia di Antonella Barone gnewsonline.it, 23 febbraio 2021 In un periodo di sipari chiusi e platee deserte, all’interno della casa di reclusione di Vigevano, è nata la compagnia teatrale Rumore D’Ali Teatro. Un evento che può sembrare in controtendenza ma che invece rientra negli obiettivi di Per Aspera ad Astra, progetto che ha consentito di mantenere viva e vitale l’attività artistica in molti istituti durante la pandemia, utilizzando gli strumenti di didattica a distanza. Nato per iniziativa dalla Compagnia della Fortezza di Volterra e realizzato con il contributo dell’Associazione Fondazioni Casse di Risparmio - ACRI, il progetto coinvolge 12 istituti che condividono buone pratiche di teatro. Tra queste, la formazione professionale nei mestieri del teatro, che comprendono, oltre agli ad attori e drammaturghi, anche scenografi, costumisti, truccatori, fonici e addetti alle luci. Se “Rumore d’ali teatro” è appena nata, ha invece già una storia il laboratorio FormMattArt, di cui la compagnia è espressione, diretto dalla regista e performer Alessia Gennari, non nuova a esperienze del genere: negli ultimi cinque anni ha infatti realizzato, sempre nella casa di reclusione di Vigevano, produzioni teatrali per il progetto “Tecniche da inserimento” della Regione Lombardia. Il nome della compagnia è stato suggerito da una farfalla scoperta a volare sul palcoscenico: “Cosa ci faceva una farfalla dentro al teatro del carcere e proprio in quel momento? - racconta un operatore del laboratorio sul profilo social dell’associazione - Quando si è trattato di trovare il nome per il nostro gruppo, già di fatto attivo dal 2016 ma fino ad allora “anonimo”, è stato abbastanza immediato tornare a quel momento. Le ali di una farfalla, quando sbattono, non le sente nessuno, figurarsi se vola dentro le mura di un carcere”. Il prossimo spettacolo di FormMattArt, il primo messo in scena dalla compagnia, nasce dal monologo scritto da un giovane straniero che, anni fa, durante il laboratorio, era riuscito a imparare l’italiano al punto da raccontare il carcere in maniera efficace e ironica, utilizzando la metafora dell’hotel piccolo e tranquillo. Durante il lockdown è sembrato ai componenti del gruppo teatrale che la portata simbolica dell’hotel, dove gli ospiti si trasformano cambiando solo di stanza, si prestasse a essere estesa a quella del luogo chiuso che abbiamo tutti sperimentato. In programma, a breve, una prima versione digitale dello spettacolo, con contenuti video e audio che andranno a integrare la rappresentazione dal vivo quando il teatro ritroverà finalmente il suo pubblico. Covid-19, 500 mila invisibili rischiano di essere esclusi dalla vaccinazione di Marina Della Croce Il Manifesto, 23 febbraio 2021 Sono sotto gli occhi di tutti eppure per le istituzioni praticamente non esistono. Sono tanti, quasi un esercito: 500 mila persone tra senza fissa dimora, sia italiani che stranieri, uomini e donne privi di documenti o di un permesso di soggiorno, apolidi, ma anche una parte della popolazione Roma e Sinti. Invisibili dal punto di vista amministrativo e per questo impossibilitati in piena pandemia a rientrare nel piano nazionale vaccini. A sollevare l’attenzione su di loro sono state, con una lettera al ministro della salute Roberto Speranza. le associazioni che aderiscono al Tavolo immigrazione e salute (Tis), tra cui la Caritas, Emergency, medici senza frontiere, Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm) e Sanità di frontiera. Tutte hanno chiesto al nuovo governo di emanare al più presto indicazioni nazionali per definire le modalità di inclusione nel Piano nazionale vaccinazioni di queste 500 mila persone. “Il diritto al vaccino c’è, ma non è praticabile”, spiega l’avvocato Marco Poggi dell’Asgi. “Aver individuato nel medico di famiglia il tramite per l’accesso al vaccino rischia di tradursi in un ostacolo insormontabile per questa particolare fascia di popolazione. A meno che in ogni Asl non si individui un medico di riferimento per queste persone”. Quello che le associazioni chiedono è di prevedere una “flessibilità amministrativa così come indicato dall’Aifa, eventualmente anche mediata da enti locali oppure da organizzazioni dell’associazionismo e del terzo settore” per agevolare le vaccinazioni anche a coloro che al momento sono esclusi perché non hanno documenti come la tessera sanitaria, il codice fiscale o una carta di identità. Il tavolo ricorda come anche nelle indicazioni dell’Aifa ci sia la raccomandazione di effettuare le vaccinazioni alle persone, sia italiane che straniere, che si trovino in condizioni di fragilità accettando “qualsiasi documento (non necessariamente on corso di validità) che riporti l’identità delle persone da vaccinare”. Ma anche che, “in mancanza di un qualsiasi documento verranno registrati i dati anagrafici dichiarati dalla persona e l’indicazione di u eventuale ente/struttura/associazione di riferimento”. Non stante queste il fatto che per prenotare il vaccino occorre iscriversi a una piattaforma nazionale o presso il medico di famiglia oppure in un altro luogo attraverso il codice fiscale o la tessera sanitaria, rischia di rappresentare un ostacolo per la popolazione più fragile. Esempi in tal senso on mancherebbero. Le associazioni ricordano come questo sia già accaduto in alcune Regioni “con l’obbligatorietà della ricetta dematerializzata e la prenotazione on line”. I dati forniti dall’Istituto superiore di sanità evidenziano come i casi di positività al Covid 19 sono meno numerosi tra gli stranieri rispetto a quelli riscontrati tra i cittadini residenti ma, avvertono e associazioni, “tra le persone straniere c’è un certo numero di diagnosi ritardate che, comportando un aggravamento clinico, portano a una maggiore ospedalizzazione rispetto agli italiani. Il ritardo diagnostico spesso, è determinato dalla scarsa assistenza socio- sanitaria”. Da qui la richiesta di valutare la possibilità di procedere alla somministrazione del vaccino nei centri per i migranti, negli alloggi affollati e nei rifugi per senza tetto. Come usa la polizia italiana il riconoscimento facciale? di Andrea Daniele Signorelli La Stampa, 23 febbraio 2021 Adoperato soprattutto per prevenire il terrorismo e l’immigrazione clandestina, non è mai stato oggetto di dibattito pubblico. E ora arriva anche da noi una raccolta di firme che ne chiede la messa al bando. Negli ultimi anni, la tecnologia del riconoscimento facciale è stata spesso al centro della cronaca: città come San Francisco od Oakland, per esempio, hanno recentemente messo al bando quest’applicazione dell’intelligenza artificiale (che permette di riconoscere la persona ripresa da una videocamere confrontando l’immagine con il database fotografico a disposizione dell’algoritmo), mentre un esponente politico di spicco come la deputata statunitense Ocasio-Cortez si è scagliata contro le discriminazioni nei confronti delle minoranze etniche causate dall’impiego di questi software. Una questione globale - Sarebbe però sbagliato pensare che questa controversa tecnologia sia un affare soltanto statunitense. Dalle sperimentazioni avvenute a Londra fino all’utilizzo nelle scuole superiori francesi, è sempre più evidente come il riconoscimento facciale si stia diffondendo anche in Europa. Italia inclusa. Almeno a partire dal 2018 (quando ha ricevuto il via libera dal garante della privacy), la polizia italiana usa infatti un sistema noto come Sari Enterprise, un software che permette di confrontare i fotogrammi ripresi dalle videocamere di sorveglianza con i nove milioni di volti archiviati nel database AFIS, che contiene non solo le foto segnaletiche di chi ha compiuto crimini, ma anche quelle di migranti e richiedenti asilo. Sari Realtime - C’è però un secondo strumento per cui la polizia italiana - come ha svelato un’indagine condotta da Irpimedia - ha recentemente indetto una gara d’appalto: Sari Realtime, software in grado di analizzare in tempo reale i volti dei soggetti ripresi dalle telecamere, confrontandoli con un database di circa diecimila persone. Come spiega a La Stampa Riccardo Coluccini, vicepresidente della ong per i diritti civili in ambito digitale Hermes Center, “nei documenti della gara d’appalto è scritto nero su bianco che l’obiettivo delle forze dell’ordine è utilizzare questo software per monitorare le attività di sbarco dei migranti”. Si tratta di uno strumento utilizzato già oggi, visto che la gara d’appalto riguarda il suo aggiornamento? “Non è chiaro”, prosegue Coluccini. “Il ministero degli Interni non ha rilasciato comunicazioni a riguardo e non ha risposto alle domande in merito. Per la stessa ragione non si sa nemmeno a quale scopo lo si vuole impiegare: per identificare gli scafisti che ormai sappiamo non restare più a bordo? Per identificare potenziali terroristi? Nessuno lo sa, perché il ministero non ha mai chiarito questi aspetti”. C’è un altro aspetto fondamentale, ovvero che l’utilizzo di Sari Realtime non è mai stato approvato dal garante della privacy: “Il garante della privacy ha aperto un’istruttoria tre anni fa”, prosegue il vicepresidente di Hermes Center. “La richiesta di fare una valutazione d’impatto - in base ai documenti che abbiamo ottenuto - non ha però mai ricevuto risposta dal ministero. Ma senza l’approvazione del garante, questi strumenti non si potrebbero utilizzare”. I rischi - Quali sono i rischi? Prima di tutto, è ormai ampiamente documentato come questi software abbiano un tasso di accuratezza non sufficientemente elevato; una mancanza che negli Stati Uniti ha già provocato - almeno in tre casi - l’arresto e l’incarcerazione di persone di colore innocenti. “Ma se anche funzionassero alla perfezione, questi sono strumenti che disumanizzano le persone, trattate quasi come codici a barre viventi”, prosegue Coluccini. Se non bastasse, il timore è che strumenti di questo tipo vengano un domani impiegati anche per sorvegliare la popolazione nel suo complesso: è ormai noto da tempo come videocamere dotate di riconoscimento facciale siano infatti state in azione nella città di Como e come se ne stia sperimentando l’utilizzo anche a Firenze, Torino e altrove. Al di là dei casi che hanno riguardato alcuni comuni, la sensazione, conclude Coluccini, “è che il ministero dell’Interno stia tirando dritto senza nemmeno instaurare un dialogo con la società civile e, a quanto pare, senza nemmeno coinvolgere il garante della privacy”. “Ridateci la faccia” - È anche per questo che la coalizione Reclaim Your Face - di cui fanno parte l’Hermes Center, l’Associazione Luca Coscioni, Privacy Network e altri - ha lanciato la raccolta firme per la messa al bando del riconoscimento facciale. Un’iniziativa che mira a raccogliere un milione di firme in sette paesi UE nell’arco di 12 mesi e che è stata organizzata all’interno del programma ECI (Iniziativa cittadini europei) dell’Unione Europea. Se avrà successo, Reclaim Your Face obbligherà la Commissione Europea ad aprire un dibattito sul tema con gli stati membri del Parlamento Europeo e a valutare la messa al bando di una tecnologia che mette in serio pericolo la privacy di tutti i cittadini. Non c’è crisi per l’Italia militare nella Nato di Manlio Dinucci Il Manifesto, 23 febbraio 2021 Mentre l’Italia è paralizzata dalla “crisi economica che la pandemia ha scatenato” (come la definisce Draghi nel discorso programmatico), c’è un settore che non ne risente ma anzi è in pieno sviluppo: quello militare nella Nato. Il 17-18 febbraio, nel momento in cui Senato e Camera votavano la fiducia al Governo Draghi, il riconfermato ministro della Difesa Lorenzo Guerini (Pd) già partecipava al Consiglio Nord Atlantico, il primo con la presenza della nuova amministrazione Biden. All’ordine del giorno l’ulteriore aumento della spesa militare. Il 2021, ha sottolineato il segretario generale della Nato Stoltenberg, sarà il settimo anno consecutivo di aumento della spesa militare da parte degli Alleati europei, che l’hanno accresciuta di 190 miliardi di dollari rispetto al 2014. Usa e Nato chiedono però molto di più. Il ministro Guerini ha confermato l’impegno dell’Italia ad aumentare la spesa militare (in termini reali) da 26 a 36 miliardi di euro annui, aggiungendo agli stanziamenti della Difesa quelli destinati a fini militari dal Ministero dello sviluppo economico: 30 miliardi più 25 richiesti dal Recovery Fund. Il tutto, ovviamente, con denaro pubblico. L’Italia si è impegnata, nella Nato, a destinare almeno il 20% della spesa militare all’acquisto di nuovi armamenti. Per questo, appena entrato in carica, il ministro Guerini ha firmato il 19 febbraio un nuovo accordo di 13 paesi Nato più la Finlandia, definito Air Battle Decisive Munition, per l’acquisto congiunto di “missili, razzi e bombe che hanno un effetto decisivo nella battaglia aerea”. Con tale formula, simile a quella di un gruppo di acquisto solidale (non però di ortaggi ma di missili), si realizzano risparmi che la Nato afferma essere del 15-20% senza però dire a quanto ammonti la spesa. I missili e le bombe di nuova generazione, che l’Italia sta acquistando, serviranno ad armare anche i caccia F-35B della Lockheed Martin, imbarcati sulla portaerei Cavour, arrivata il 13 febbraio nella base Usa di Norvolk (Virginia): qui resterà fino ad aprile acquisendo la certificazione per operare con questi aerei. L’Italia, ha annunciato orgogliosamente il ministro Guerini, sarà uno dei pochi paesi al mondo - insieme a Stati uniti, Gran Bretagna e Giappone - ad avere una portaerei con caccia di quinta generazione. In tal modo l’Italia, come sottolinea il premier Mario Draghi, rafforzerà il suo ruolo di “protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori”, accrescendo in particolare “la nostra proiezione verso le aree di naturale interesse prioritario, come il Mediterraneo allargato, con particolare attenzione alla Libia e al Mediterraneo orientale, e all’Africa”. Nel “Mediterraneo allargato” - che nella geografia Nato si estende dall’Atlantico al Mar Nero e a sud fino al Golfo Persico e all’Oceano Indiano - opera da Sigonella, con droni AGS RQ-4D forniti dagli Usa, la Forza Nato di “sorveglianza terrestre”. È divenuta operativa il 15 febbraio: lo ha annunciato il generale Usa Told Walters, Comandante Supremo Alleato in Europa (carica che spetta sempre a un generale statunitense). I droni Nato, che da Sigonella “sorvegliano” (ossia spiano) quest’area per preparare azioni militari, sono agli ordini di un altro generale Usa, Houston Cantwell. Il premier Draghi, che considera la nuova Amministrazione Usa “più cooperativa nei confronti degli alleati”, si dichiara “fiducioso che i nostri rapporti e la nostra collaborazione non potranno che intensificarsi”. C’è da esserne sicuri. Il 17 febbraio, si è svolto in videoconferenza il primo meeting, patrocinato dal Pentagono, in cui 40 industrie militari e centri di ricerca universitari italiani offrono i propri prodotti e servizi alle forze armate Usa. Titolo dell’incontro “Innovate to Win” (Innovare per vincere). L’innovazione, spiega il Ministero della Difesa, è “la chiave di volta non solo per ottenere un vantaggio competitivo su potenziali avversari - attuali e futuri - sul piano militare, ma per il recovery del tessuto industriale nazionale al termine del periodo di crisi dovuto alla pandemia Covid-19”. Migranti. Processo alla solidarietà di Lucia Gennari* e Enrica Rigo** Il Manifesto, 23 febbraio 2021 Comincia oggi a Roma l’appello a quattro eritrei accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver aiutato due donne a fuggire dal Paese africano. Quando Abramo (nome di fantasia) riceve la richiesta di aiuto da due giovani donne in fuga sta lavorando nei campi come raccoglitore di angurie, in un paese a lui straniero, dove da poco ha trovato a sua volta rifugio e dove si guadagna da vivere per una paga irrisoria e “al nero”. La scena non risale alle rivolte contro la schiavitù di un secolo e mezzo fa, ma è tratta dalle intercettazioni dell’inchiesta “Agaish” (ospiti in lingua tigrina), sulla base della quale il 23 febbraio si aprirà a Roma il processo in Corte di Appello per 4 imputati eritrei, tutti rifugiati politici, condannati in primo grado per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Per aver risposto a quella richiesta di aiuto, acquistando a proprie spese i biglietti che hanno consentito alle donne di raggiungere il Nord d’Italia, Abramo ha già scontato oltre 18 mesi di carcere e affrontato un processo in cui il pubblico ministero aveva chiesto in primo grado 14 anni di reclusione. A evocare la schiavitù non sono tanto le immagini della piantagione, dell’asservimento della manodopera allo sfruttamento estremo di un nascente capitalismo predatorio e estrattivo, delle donne in fuga da un regime, quanto la circostanza che rendere illegale la fuga e trattare da criminale chi la rendeva possibile fosse essenziale a perpetuare il sistema schiavistico. È lo stesso filo rosso che collega il processo che si aprirà a Roma il 23 febbraio, quelli che vedono coinvolte le Ong per i salvataggi in mare e la disobbedienza di Carola Rackete contro le leggi mortifere del controllo dei confini: ora come allora, colpire la solidarietà è funzionale a dissuadere la fuga, a disperdere la reti di relazioni che rendono possibile la libertà di movimento attraverso i confini, anche quando questa è volta a salvarsi e a salvare vite. Nel processo di primo grado, le imputazioni per il reato associativo che collegavano la presunta cellula romana al trafficante di uomini Mered Medhaine sono cadute di fronte alle contestazioni puntuali di un collegio difensivo composto da tutte avvocate. D’altro canto, non senza clamore mediatico, l’uomo incarcerato a Palermo come Mered Medhaine era stato oggetto di uno scambio di persona e liberato senza troppe scuse dopo una lunga carcerazione. Ciononostante, non sono caduti i processi satellite che avevano preso avvio dall’inchiesta e, anzi, altri ne sono scaturiti negli anni. Nell’impianto accusatorio, il traffico di esseri umani è configurato come una sorta di impresa logistica che consente, seguendo un’unica trama, la mobilità dei migranti dal Corno d’Africa al Nord d’Europa; ogni nodo è collegato, non da rapporti materiali, ma dalla calotta interpretativa del reato associativo, senza distinzione tra chi gestisce i lager libici e chi offre ospitalità o aiuto. È una distinzione che, però, sanno fare bene i migranti, come ha mostrato il processo di primo grado contro i rifugiati eritrei, dove le presunte persone offese dal reato, a loro volta riconosciute come rifugiati, hanno testimoniato a favore degli imputati che li avevano aiutati nel viaggio. Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, lo stesso che è contestato tra gli altri capi di imputazione a Carola Rackete, così come ai capitani e capi missione delle Ong che effettuano salvataggi in mare, è una bestia a più corna. Il traffico (smuggling, in inglese) è perseguibile anche in assenza dello scopo di lucro, richiesto però, nella misura dell’ingiusto vantaggio, per il favoreggiamento della permanenza sul territorio. Mentre l’imputazione di “scafisti” per chi effettua i soccorsi in mare può essere fatta cadere grazie alle scriminanti dell’adempimento di un dovere e dello stato di necessità, per il favoreggiamento della permanenza sul territorio opera una clausola di salvaguardia umanitaria che raramente viene riconosciuta a favore degli stranieri che prestano soccorso ai connazionali, evidentemente assegnati a un universo morale in cui la solidarietà è esclusa sulla base dell’appartenenza razziale. Le indagini e il processo che hanno portato alle condanne in primo grado dei quattro eritrei romani non hanno accertato alcun vantaggio economico nell’aiuto prestato ai connazionali, ma hanno comunque configurato le condotte come “altri atti” volti a favorire l’attraversamento illegale dei confini interni all’Europa. Ancora una volta, aiutare qualcuno ad acquistare un biglietto ferroviario o offrirgli da dormire è, insomma, considerato il nodo di una rete logistica che in quanto tale va smantellata. Le modifiche ai decreti Salvini del governo Conte bis hanno ridotto le sanzioni pecuniarie per lo Ong, ma non hanno modificato il quadro penale su cui si basano i processi. Rispetto al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, il Tribunale di Bologna ha recentemente sollevato un’eccezione di legittimità costituzionale, contestando le pene sproporzionate previste dalla fattispecie aggravata dell’utilizzo di documenti falsi. La parola sugli aspetti tecnici del reato spetta ora alla Corte Costituzionale, e si vedrà se dimostrerà la stessa apertura che, nel 2018, ha mostrato il Consiglio Costituzionale francese nella pronuncia scaturita dal celebre caso di Cedric Herrou, scriminando i comportamenti di solidarietà e riconoscendo a ciascuno la libertà di portare aiuto agli altri. Si tratta, nondimeno, di una battaglia che non può essere lasciata solo alle aule dei tribunali, ai collegi difensivi dei casi celebri o alle avvocate che, con meno clamore, a Roma come a Palermo, difendono chi si ritrova imputato per aver guidato il gommone in cambio di uno sconto sul prezzo della fuga o, ancora più spesso, per la stessa contropartita si presta a denunciarsi come scafista. Proprio come contro la schiavitù, quella da combattere è una battaglia per l’abolizionismo. Non quello astratto delle frontiere, ma quello concreto dei dispositivi repressivi che impediscono la libertà di movimento e la fuga attraverso le frontiere. Quello contro gli apparati di controllo che hanno trasformato i confini in siti di morte, così come contro le fattispecie penali che criminalizzano la solidarietà. Alla chiamata per combatterla, negli ultimi due anni, le Ong del soccorso in mare hanno risposto radicalizzando la loro azione politica, senza farsi intimidire dalla retorica che le voleva affiancare ai trafficanti e, anzi, decostruendola anche grazie agli atti di disobbedienza. Proprio il coraggio di questa rivendicazione radicale ha trovato sostegno in tante e tanti attivisti e nella società. Lo stesso sostegno è necessario per decostruire la retorica dei trafficanti che, dietro l’alibi di una stessa fattispecie penale, non distingue tra chi sfrutta e approfitta e chi presta sostegno e aiuto nella fuga. Durante il processo di primo grado, la solidarietà che è stata costruita attorno alla comunità eritrea romana di Ponte Mamolo, portata da associazioni locali, da studenti e da qualche attivista, ha trovato spazio solo sulle pagine del quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung. A rilanciarla assieme a noi è oggi Mediterranea nell’ambito della rete transnazionale del soccorso in mare. È la stessa “flotta civile” che ha costruito una campagna di solidarietà attorno ai giovani naufraghi accusati a Malta di aver dirottato il mercantile El Hiblu per impedire che riportasse in Libia oltre 100 migranti soccorsi in mare. Fare nostra la richiesta di giustizia per gli eritrei del processo romano è fondamentale per riconoscere che quella per il salvataggio in mare e quella contro la criminalizzazione della solidarietà dei migranti sono parte di una stessa battaglia per la libertà. *Mediterranea Saving Humans **Clinica Legale Immigrazione Università Roma Tre In morte di un diplomatico di Daniele Raineri Il Foglio, 23 febbraio 2021 Rapitori uccidono l’ambasciatore Luca Attanasio nella Repubblica democratica del Congo e il carabiniere Vittorio Iacovacci. L’errore incredibile sulla sicurezza e i sospetti sui massacratori etnici. Ieri alle dieci del mattino locali alcuni uomini armati hanno ucciso l’ambasciatore italiano nella Repubblica democratica del Congo, Luca Attanasio, e il carabiniere che gli faceva da scorta, Vittorio Iacovacci. Secondo il governo del Congo è stato un tentativo di sequestro: un gruppo di sei rapitori ha prima ucciso l’autista della jeep della Nazioni Unite sulla quale stavano viaggiando, Moustapha Milambo, poi ha portato via i due italiani e altre tre persone sulla strada tra Goma e Rutshuru, nella regione del Nord Kivu. Le immagini della jeep sono compatibili con questa versi on e. ha un finestrino laterale sfondato, ma non ci sono altri segni di combattimento. A quel punto, a poca distanza, c’è stato uno scontro a fuoco con i ranger del Parco nazionale del Virunga che sono arrivati dopo avere sentito gli spari contro l’autista e i due italiani sarebbero stati feriti in quel momento. Sono morti poco dopo. Le misure a protezione dell’ambasciatore erano insufficienti perché le condizioni di sicurezza in quella zona del Congo sono un disastro. Il confine orientale è infestato da un assortimento di milizie armate e molte di esse potrebbero sfidare senza problemi anche un convoglio di veicoli blindati della missione Monusco, il contingente di quindicimila soldati delle Nazioni Unite che tenta di riportare la stabilità in quel territorio. Il Kivu Security Tracker, un progetto che monitora le attività di guerriglieri e terroristi in quella fascia, proprio ieri ha pubblicato un rapporto che conferma la presenza di 122 gruppi armati. Le truppe della Repubblica democratica del Congo hanno smesso di operare in quella regione e hanno delegato la sicurezza ai ranger del parco e ai soldati stranieri di Monusco. Nel 2017 però la missione delle Nazioni Unite è stata ridotta per un taglio di fondi e cinque basi militari proprio nel Nord Kivu, che assicuravano un minimo di presenza, sono state chiuse e abbandonate per rientrare nei costi. I soldati della missione internazionale hanno cambiato strategia e hanno adottato la cosiddetta “protection by projection”, vale a dire: non stiamo lì fissi, ma anche senza una presenza stabile ci impegniamo a passare spesso da quelle parti per garantire un minimo di controllo. Le condizioni sono però peggiorate e nel 2018 i guerriglieri hanno assaltato una base Monusco nel Nord Kivu e hanno ucciso diciotto soldati delle Nazioni Unite. Un paio di jeep non blindate con i colori della missione Onu non erano sufficienti a garantire la protezione dell’ambasciatore durante lo spostamento, anche se la strada era classificata “sicura”. La classificazione era sbagliata. Carly Nzanzu Kasivita, il governatore del Nord Kivu, dice in un’intervista telefonica al New York Times che gli aggressori parlavano kinyarwanda, che è un linguaggio parlato in Rwanda - appena oltre il confine, molto vicino al luogo del rapimento - e che in quella zona operano spesso i guerriglieri delle Forze democratiche per la liberazione del Rwanda “anche se - aggiunge - sono necessarie altre indagini”. Questa fazione, che conta circa settemila uomini (fonte: una ricerca sul campo dell’International Crisis Group), è quel che resta delle milizie ruandesi che nel 1994 uccisero ottocentomila civili di etnia tutti e poi cercarono salvezza fuori dal paese. Sono fanatici e suprematisti etnici e alcuni reparti nel corso degli anni si sono spezzettati in una miriade di gruppi minuscoli da cinque, sei uomini che sopravvivono grazie a un ciclo incessante di sequestri. Un rapporto dell’anno scorso di Human Right Watch ha contato almeno 170 rapiti “tra aprile 2017 e marzo 2020”, in quella zona vicino al parco del Virunga, tutti compiuti da gruppi di “cinque, sei uomini” che spesso secondo i sopravvissuti parlano kinyarwanda, sono armati di machete e fucili e hanno metodi incredibilmente brutali. I testimoni dicono anche che i diversi gruppi di rapitori sono collegati, gli uomini si conoscono tutti e si chiamano con soprannomi. Sembra l’identikit della fazione che ha ucciso Attanasio e Iacovacci. C’è anche l’ipotesi Stato islamico, che dispone di affiliati nel Congo - però non sono mai arrivati a meno di centocinquanta chilometri (quindi: un viaggio molto lungo) dal luogo dell’attacco. Myanmar. Migliaia in strada sfidano la giunta: l’esercito minaccia l’uso della forza La Repubblica, 23 febbraio 2021 La mobilitazione è così massiccia tanto che quella odierna potrebbe diventare la più imponente giornata di protesta dal giorno in cui è stato compiuto il colpo di Stato, il 1 febbraio. Appello Onu: “Stop alle violenze”. Manifestazioni di massa in tutto il Myanmar, dove nonostante i divieti imposti dalla giunta militare si continua a scendere in piazza contro il golpe del primo febbraio. Gli attivisti hanno ribattezzato la giornata di oggi la “rivoluzione dei cinque due”, con riferimento alla data del 22.2.2021, e l’hanno paragonata alla data all’8 agosto 1988 (i “quattro otto”) quando i militari hanno risposto con una dura repressione, uccidendo e ferendo centinaia di manifestanti. Manifestazioni oceaniche si sono viste oggi nella principale città del Paese Yangon, nella capitale Naypyidaw e a Mandalay, come riporta “Frontier Myanmar”. Nelle ultime ore la giunta militare ha avvertito che “la via dello scontro” significherà la morte per molti. Sin dalla mattina le principali arterie di Rangun, Naypyidaw, Mandalay e altre città sono state occupate dai manifestanti, che chiedono il ripristino della democrazia e il rilascio dei prigionieri politici. La mobilitazione è così massiccia tanto che quella odierna potrebbe diventare la più imponente giornata di protesta dal giorno in cui è stato compiuto il colpo di Stato, il 1 febbraio. A Yangon, la città più popolata, le strade vicino alla maggior parte delle ambasciate, soprattutto quelle di Usa e Corea del Sud, sono state bloccate dalle forze dell’ordine. Le marce sembrano ignorare, anzi sfidare la repressione della polizia, particolarmente violenta da qualche giorno e che sabato scorso è costata la vita a due manifestanti a Mandalay. Un alto manifestante è morto a Yangon: la prima a morire era stata la scorsa settimana una ventenne, diventata simbolo della protesta. “I manifestanti ora incitano le persone, soprattutto adolescenti e giovani che si lasciano trasportare dalle emozioni, a un percorso di confronto in cui subiranno la morte”, si legge nel comunicato dei militari trasmesso dalla televisione di stato birmana. Tom Andrews, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Birmania, si è detto preoccupato per questo messaggio “minaccioso” e ha avvertito la giunta militare su Twitter che, a differenza di quanto accaduto durante le sanguinose rivolte del 1988, le azioni delle forze di sicurezza vengono registrate e quindi dovranno assumersi la responsabilità di quanto accadrà. Anche il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres si è rivolto ai militari chiedendo di “mettere fine immediatamente alla repressione” e di “rilasciare i detenuti”. Nel discorso di apertura della 46esima sessione del Consiglio Onu sui diritti umani che si è aperto a Ginevra, Guterres ha condannato la “forza brutale” usata dalla giunta militare birmana per reprimere le manifestazioni in corso in tutto il Paese. “Oggi mi rivolgo all’esercito birmano al quale chiedo di fermare immediatamente la repressione. Mettete fine alla violenza. Rilasciate i prigionieri. Rispettate i diritti umani e la volontà del popolo”, ha dichiarato Guterres. Colombia. Violenza sistematica contro chi difende i diritti umani di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 23 febbraio 2021 Più di 400 omicidi negli ultimi cinque anni. Il dossier di Human Rights Watch e l’allarme delle Organizzazioni umanitarie. Il governo finora ha usato solo parole di condanna, ma risposte inefficaci. La Colombia è il Paese più pericoloso al mondo per chi difende i diritti umani. Lo affermava un’analisi di Frontline Defenders del 2019. Solo in quell’anno, si legge nel loro dossier, sono stati registrati oltre cento omicidi e molti altri non sono mai venuti a galla, nel clima di impunità e isolamento che regna in molte zone del Paese. Il report di Human Rights Watch. Il recente rapporto di Human Rights Watch (HRW) “Lasciati soli: gli omicidi degli attivisti nelle comunità isolate della Colombia” conferma la grave emergenza in corso nel Paese latinoamericano. I gruppi armati che attaccano gli attivisti e le attiviste per i diritti umani sono una realtà preoccupante e pervasiva. Il dossier prende in esame i casi degli ultimi cinque anni: sono oltre 400 le persone uccise, secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. HRW ha intervistato oltre 130 persone, incluse autorità giudiziarie, ufficiali governativi, lavoratori e lavoratrici per i diritti umani, volontari. “Tra i Paesi dell’America latina, la Colombia è quello con il numero di omicidi più alto tra chi lotta per i diritti umani. La risposta del governo è stata poco incisiva, più parole che fatti”, dice José Miguel Vivanco, direttore della sezione Americhe a HRW. “Il presidente Duque condanna spesso le atrocità commesse, ma le soluzioni proposte non funzionano”. Gruppi armati in lotta. Attentati e uccisioni si sono moltiplicati a partire dal 2016, anno in cui è avvenuta la smobilitazione delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc) come parte di un accordo di pace con il governo. Tuttavia, osserva HRW, sono emersi nuovi gruppi armati che hanno ingaggiato lotte per il controllo del territorio e per la spartizione delle attività illegali. Il numero di omicidi, aggressioni e rapimenti verso i civili è rapidamente aumentato. Secondo l’Ufficio Colombiano per i diritti umani, indipendente dal governo, gli atti di violenza sono cresciuti ulteriormente tra il 2019 e il 2020. Traffico di droga e controllo del territorio. Uccisioni, rapimenti e rappresaglie hanno dinamiche diverse a seconda delle regioni. Nel Cauca del nord, i gruppi emersi dallo scioglimento delle Farc hanno preso di mira attivisti delle comunità indigene Nasa che si opponevano alla presenza dei gruppi armati e al traffico di droga nei loro territori. “Queste milizie hanno tutto: armi, macchine, soldi. Possono attaccarci quando vogliono”, racconta un capo indigeno a HRW. A Tumaco, i gruppi armati hanno ucciso attivisti sospettati di collaborare con il governo, o persone che hanno rifiutato di sottostare agli ordini del gruppo stesso. Presi di mira in particolare i progetti che miravano alla sostituzione delle piantagioni di coca - la pianta da cui si ottiene la cocaina - con piantagioni ad uso alimentare. Lo stigma sociale. C’è anche una questione sociale: chi difende i diritti umani nel Paese è vittima di stigma, è trattato con sospetto. Un atteggiamento spesso incoraggiato dagli ufficiali governativi locali, agenti di polizia, imprenditori corrotti e membri di gruppi armati. Un rapporto ONU presentato al Consiglio per diritti umani del 2020 osservava che “la maggioranza di chi lavora nelle associazioni per i diritti umani in Colombia non può operare in condizioni sicure o protette. Sono malvisti e mal tollerati, sminuiti e criminalizzati per ciò che fanno”. La risposta del governo. La Colombia ha sviluppato, nel corso degli anni, regolamenti, leggi e procedure per scongiurare gli abusi verso le categorie vulnerabili. Tuttavia, l’applicazione di queste leggi è spesso inefficace, ha rilevato HRW. Secondo i dati raccolti da HRW, il governo non è riuscito a garantire il controllo del territorio e la protezione per le categorie più vulnerabili. Ad esempio, è aumentato il dispiegamento militare in alcune aree del Paese ma è mancata una riforma del sistema giudiziario. Uno dei limiti del sistema di protezione, gestito da una specifica unità del Ministero dell’Interno, è che si attiva solamente in seguito a minacce ricevute e riportate alle autorità. La mancanza è evidente, perché moltissime persone sono state uccise senza preavviso. L’unità di protezione di gruppi o comunità vulnerabili invece è sottofinanziata e ha rifiutato quasi tutte le richieste. Sistema giudiziario da potenziare. Molti assassini sono stati processati e assicurati alla giustizia - circa 59 dal 2016. Tuttavia, il problema rimane a monte: la rete di violenza e i mandanti degli omicidi sono ancora in piedi. Il governo aveva annunciato nel 2019 la creazione di una squadra speciale di giudici e personale giudiziario per esaminare questi casi, ma è rimasta una promessa. “Se il governo non concretizza le sue parole, ci saranno molte più vittime tra chi difende i diritti umani, e comunità sempre più vulnerabili in mano alle milizie e ai gruppi armati”, afferma Vivanco.