Il governo ora affronti la questione carceraria di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 22 febbraio 2021 A Via Arenula servirebbe un viceministro solo per le carceri. Contro la demagogia punitiva. Il nuovo esecutivo accende speranze anche per il settore della giustizia penale. Cose da fare. La prospettiva del nuovo esecutivo Draghi come governo di competenti accende speranze anche per lo specifico settore della giustizia penale. Un settore che - com’ è noto ed è stato ribadito nelle recenti cerimonie d’apertura dell’anno giudiziario - soffre di così gravi e multiformi patologie, da richiedere in teoria una strategia integrata di interventi chirurgici e di terapie troppo complessa e sofisticata per poter essere anche soltanto concepita da un Guardasigilli grillino intriso di rozza demagogia populista come l’uscente Alfonso Bonafede. Per di più, chi scrive ritiene da tempo che i mali da curare trascendano l’ambito delle consuete doglianze relative alla eccessiva lentezza dei processi, alla enorme quantità di reati che inflaziona la macchina giudiziaria, alle carenze di personale e alle insufficienze di risorse materiali e umane che provocano il malfunzionamento degli uffici giudiziari (cui si aggiungono i perduranti contrasti di vedute e le vivaci polemiche in tema di prescrizione ecc.). Al di là di tutti questi problemi reali, che la pandemia ha in non piccola misura finito con l’aggravare, a mio giudizio esistono infatti e persistono - come ho già scritto su queste colonne (cfr. ad esempio il Foglio del 22 dicembre 2020 e del 5 febbraio 2021) - alcuni nodi di fondo che hanno a che fare con i modelli di cultura giudiziaria e più in generale di cultura penale oggi predominanti, rispettivamente, sia in larghi settori della magistratura sia nella pubblica opinione: modelli che sembrano cioè inclinare verso un tendenziale sbilanciamento in senso iper-punitivista, e che andrebbero auspicabilmente riequilibrati non solo in nome dei princìpi del costituzionalismo garantista ma anche per fugare una fuorviante illusione: cioè l’illusione che la repressione penale possa fungere da rimedio risolutivo contro i più gravi mali sociali di turno. Ben avvertendone gli effetti distorsivi, ha messo più di una volta in guardia da questa illusione persino Papa Francesco nelle sue espliciti prese di posizione contro la demagogia punitiva. Non a caso, lo stesso papa Francesco ha più volte richiamato l’attenzione dei politici anche sulla questione carceraria, che è quella di solito più trascurata nei dibattiti correnti sui problemi della giustizia ma, al tempo stesso, quella che ha fatto affiorare nel modo più esplicito il volto truce e le pulsioni aggressive del peggiore populismo penale nostrano: “Lasciamoli marcire in carcere!” è il noto slogan che fino a poco tempo fa ha infettato la comunicazione politica per veicolare il messaggio di una pena carceraria regressivamente ritornata ad assumere la funzione, anche simbolica, di una implacabile vendetta ritorsiva. Ma, purtroppo, la strumentalizzazione politica della questione criminale in chiave di consenso elettorale è una tentazione storicamente ricorrente, che ben precede l’avvento del populismo di marca grillina e/o sovranista. E, anche a prescindere da forme di conclamata strumentalizzazione, l’allarme criminalità e le conseguenti scelte in materia di delitti e pene hanno, nel corso degli ultimi decenni, sempre più condizionato il dibattito politico generale, entrando comunque a far parte dei temi più determinanti e divisivi in termini di consenso (e ciò rispetto a pressoché tutti gli schieramenti, di destra, sinistra o centro). Proprio la “politicità” conflittuale delle opzioni relative al settore penale - tanto più elevata nel nostro paese a causa della ancora maggiore centralità politica che tale settore ha finito da noi, a torto o a ragione, con l’assumere - ha finora impedito che le linee ispiratrici delle riforme in materia fossero per lo più frutto, piuttosto che di confusi e mediocri compromessi, di razionali e chiari disegni concepiti sulla base di saperi e competenze tecniche all’altezza dei problemi da affrontare. Guardando più da vicino alla questione penitenziaria, è noto come essa sia di recente tornata alla ribalta a causa della emergenza sanitaria da rischio contagio-Covid, la quale ha indotto - sia pure con intermittenza e con l’ennesima esplosione di contrasti e accese polemiche tra fronti contrapposti, anche interni alla magistratura (si allude, com’è intuibile, alle enfatizzate reazioni di allarme subito seguite al presunto grande numero di scarcerazioni di boss mafiosi ammalati e, perciò, più esposti ai potenziali effetti letali di un’infezione) - a riaccendere i riflettori sui persistenti problemi e sulle persistenti esigenze inevase del pianeta carcere: il concreto rischio di contagi diffusi a tutt’oggi deriva, infatti, dal riemerso sovraffollamento, dalle tipiche condizioni di vita carceraria e dalla stessa conformazione strutturale di alcune vecchie prigioni con spazi molto angusti, nonché dalla situazione igienica non sempre a norma, che impediscono un sufficiente distanziamento sociale e l’adozione di tutti gli altri dispositivi di prevenzione più facilmente accessibili alle persone in libertà. È proprio per questa ragione che il garante nazionale Mauro Palma e i garanti territoriali dei diritti dei detenuti hanno già rivolto più di un appello alle autorità politiche e sanitarie competenti affinché sia la popolazione detenuta, sia tutto il personale penitenziario vengano inseriti tra le categorie da considerare in via prioritaria nell’ambito della campagna vaccinale. A ciò si aggiungano le precedenti richieste, tra cui quella molto autorevole del nuovo presidente della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio, rivolte al governo e al Parlamento di deliberare ulteriori provvedimenti deflattivi idonei a ridurre il più possibile il sovraffollamento. Ma vi è di più. L’emergenza sanitaria ha indirettamente fatto riaffiorare i problemi del pianeta carcere anche in una prospettiva più ampia, avendone inevitabilmente determinato un ulteriore aggravamento. È questa l’angolazione prospettica ispiratrice di un appello-documento redato da più di 200 professori di discipline penalistiche, i quali - in adesione alla recente mobilitazione pacifica con sciopero della fame di Rita Bernardini insieme con Sandro Veronesi, Luigi Manconi e Roberto Saviano - hanno sottolineato l’esigenza di riprendere il cammino delle riforme finalizzate a un “carcere più umano”. Che vi sia oggi la necessità, per un verso, di tornare a ridurre il sovraffollamento, di migliorare le condizioni complessive di vita nelle carceri, di integrare il personale penitenziario ai vari livelli (dai poliziotti agli psicologi), di rilanciare i percorsi risocializzativi destinando risorse umane e materiali idonee a promuovere l’istruzione, i corsi di formazione e le opportunità lavorative anche intramurarie; e, per altro verso, di ampliare il ventaglio e i presupposti di accesso alle misure cosiddette alternative, prendendo una buona volta sul serio il principio della pena detentiva come extrema ratio, non lo sostengono soltanto alcune “anime belle” romanticamente legate all’ideale della tutela dei diritti umani degli stessi delinquenti. L’esigenza di migliorare e riformare il sistema penitenziario nelle direzioni suddette, lungi dall’essere motivato da ingenuo “buonismo”, tende al contrario a un obiettivo di concreta utilità sociale nell’interesse della generalità dei cittadini. Il perché lo spiegano, oltre alla maggior parte degli studiosi, qualificati esperti sul campo appartenenti sia alla magistratura di sorveglianza (si legga l’agile saggio “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”, scritto dal giudice Marcello Bortolato insieme col giornalista Edoardo Vigna, Laterza 2020), sia alla stessa amministrazione penitenziaria (assai istruttivi, ad esempio, i recenti libri di esperienze professionali di due direttori di carcere di grande competenza, cioè “Il direttore” di Luigi Pagano, Zolfo 2020, e “Di cuore e di coraggio” di Giacinto Siciliano, Rizzoli 2020), i quali convergono nel condividere tre importanti assunti di massima così sintetizzabili: a) la pena detentiva è tuttora impiegata ben al di là dello stretto necessario, con la conseguenza che essa produce effetti ulteriormente desocializzanti e, per di più, disturbi psicologici di vario tipo su un numero rilevante di carcerati che avrebbero bisogno di misure di ben altra natura; b) un carcere più rispettoso della dignità umana e degli altri diritti costituzionali (istruzione, salute, lavoro ecc.) è un carcere che, nel contempo, rende anche potenzialmente più attraente e credibile l’offerta rieducativa; c) una maggiore disponibilità di sanzioni extra-detentive agevola il reinserimento sociale degli autori di reato, rendendo meno probabile la recidiva. Uno sperabile ritorno di interesse politico verso l’universo della prigione non dovrebbe, però, tendere soltanto all’obiettivo di una riapertura dei cantieri riformistici. Nel contempo, e prima ancora, vi è un’esigenza di più razionale ed efficiente gestione amministrativa e di maggiore diffusione di buone prassi. È questa una esigenza che viene frequentemente segnalata dal personale degli istituti di pena, con il quale ho anch’io occasione di confrontarmi nella mia attuale esperienza di garante siciliano dei diritti dei detenuti. In effetti, non pochi direttori sono soliti mettere in evidenza - e pressoché tutti i garanti dei detenuti sono in grado di confermarlo - che il settore dell’esecuzione penale è talmente esteso, complesso e variegato da esigere un’attenzione politico-istituzionale non marginale ed episodica, ma a tempo pieno e costante: per cui è l’esperienza concreta a dimostrare che anche al migliore dei possibili ministri della Giustizia, proprio perché in ogni caso costretto a occuparsi di una pluralità di settori tutti più o meno complicati, risulterebbe di fatto impossibile dedicare all’universo carcerario tutte le cure e tutto il tempo che sarebbero in teoria necessari. Così stando le cose, non sembri allora troppo azzardato, specie nell’imminente orizzonte di un nuovo governo di “competenti”, prospettare un’idea che so nella sostanza condivisa quantomeno da una parte rilevante degli esperti della materia: l’idea cioè sarebbe quella di giungere a creare una figura simile a un viceministro appositamente destinato al settore specifico dell’esecuzione penale (sia intramuraria: Dap, sia esterna: Dgmc), dotato innanzitutto di una pregressa competenza in questo campo e, inoltre, posto in condizione di operare (con effettivo potere di indirizzo politico nei confronti dei comparti amministrativi di riferimento) in diretto collegamento con il presidente e il Consiglio dei ministri. È una idea troppo ambiziosa e innovativa e, perciò, poco realistica? Forse, vale la pena di prenderla in considerazione. Il paradosso di uno Stato contro la tortura che usa il carcere duro per estorcere collaborazioni di Riccardo Polidoro Il Riformista, 22 febbraio 2021 La morte di Raffaele Cutolo era, purtroppo, prevedibile. Non tanto per la sua età, ma perché, da tempo, in gravissime condizioni di salute. Il 6 luglio scorso, l’Unione Camere Penali Italiane, con l’Osservatorio Carcere, aveva denunciato che, nonostante il quadro sanitario allarmante, non era stata autorizzata la visita del medico di fiducia, per non meglio specificate “ragioni di opportunità”. Ciò nonostante quanto riferito dalla moglie e dalla figlia del detenuto che, in una delle poche occasioni d’incontro concesse, avevano constatato come il loro congiunto non fosse in grado di alzare gli occhi, di portare un bicchiere d’acqua alla bocca, di parlare e comunque di interagire. Stato comatoso confermato anche dal suo difensore che descriveva una persona immobile, condotta in sala colloqui con la sedia a rotelle, con il capo reclinato verso il petto, in silenzio e privo di reazioni di qualsiasi genere. All’epoca, Cutolo assumeva quindici pillole al giorno, straziato dal diabete, dalla prostatite, dall’artrite ed era fortemente ipovedente. Eppure quella piccolissima parte della riforma dell’Ordinamento Penitenziario divenuta legge aveva ribadito che “i detenuti e gli internati possono richiedere di essere visitati a proprie spese da un esercente di una professione sanitaria di loro fiducia” e aggiunto che “possono essere autorizzati trattamenti medici, chirurgici e terapeutici da effettuarsi a spese degli interessati da parte di sanitari e tecnici di fiducia”. Le “ragioni di opportunità” evidentemente furono ritenute prevalenti sul principio costituzionale del diritto alla salute e sulle norme dell’Ordinamento Penitenziario. Non sembrò “opportuno” che un ottantenne, capo di un’associazione criminale che non esiste più da almeno 40 anni, detenuto da 57 anni, potesse avere le cure di un medico di fiducia. Egli doveva attendere che la vendetta giungesse a termine. Oggi il nemico è morto e alla Questura di Napoli è stato affidato il compito di organizzarne il trasferimento da Parma a Ottaviano e la sepoltura. Non vi è dubbio che Raffaele Cutolo sia effettivamente stato un “nemico”, un colpevole di efferati delitti, un uomo che ha voluto la morte di altri uomini, ma dobbiamo continuare a interrogarci su quale sia la strada maestra per avversare tali condotte criminali e, soprattutto, se quella intrapresa sia la migliore e conforme a giustizia. Su questo tema, più volte l’Unione Camere Penali Italiane è intervenuta per denunciare l’illegittimità della detenzione speciale prevista dall’articolo 41bis dell’Ordinamento Penitenziario nel giugno del 1992. Una norma di carattere emergenziale, divenuta poi definitiva e quindi a pieno regime, introdotto nel 2002. Circostanza che conferma, ancora una volta, che nel nostro Paese ciò che è provvisorio diventa definitivo e che non si è in grado di affrontare concretamente un’emergenza destinata a essere cronica. Dal 1992, cioè da circa trent’anni, siamo quindi in perenne allarme. Ma qual era, all’epoca, l’emergenza? Il 23 maggio 1992 vi era stata la strage di Capaci, con la morte di Giovanni Falcone e di altre quattro persone. Il Governo pensò di affrontare la gravità della situazione con il carcere duro, per dare il segnale di uno Stato forte. Ma dopo poco più di un mese dal decreto legge, il 19 luglio 1992, il dramma si replicò con la strage di Via D’Amelio dove persero la vita Paolo Borsellino e altre cinque persone. Quanto accaduto dimostra, senza possibilità di smentita, che la scelta politica non fu delle migliori e che non era - e non è - la strada da intraprendere. Il 41bis prevede che, quando ricorrono gravi motivi di ordine o di sicurezza pubblica, il Ministro della Giustizia possa sospendere il trattamento rieducativo nei confronti di alcuni detenuti. Tale sospensione dovrebbe avere lo scopo d’impedire i collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza. Quanto accaduto dall’entrata in vigore della norma, fa comprendere che la scelta - oltre a essere a nostro avviso illegittima - non paga e che sarebbe meglio, invece, intensificare l’opera di risocializzazione verso queste persone, intervenendo anche all’esterno sul tessuto sociale di appartenenza. Oggi i detenuti che scontano la pena in regime previsto dall’articolo 41bis sono ben 700. Certamente non sono tutti capi di cosche criminali. La maggior parte sono gregari a cui la vita - e dunque lo Stato - non ha offerto alternative e continua a non offrirne, impedendo anche quel trattamento previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Ma la detenzione speciale non è solo sospensione del trattamento. Nella pratica va molto oltre quello che prevede la norma e si concretizza nel termine usato di “carcere duro”. “Duro” perché si è reclusi in istituti o sezioni speciali, sorvegliati da personale specializzato della polizia penitenziaria. Si ha diritto a un solo colloquio al mese, video controllati e registrati, in locali in cui non è possibile alcun contatto. Se non si fa il colloquio, una telefonata al mese di dieci minuti, registrata. Limitazione dei beni e del danaro ricevuto dall’esterno. Censura della corrispondenza. Massimo due ore di aria al giorno con non più di quattro persone. È, di fatto, una detenzione che mira all’annientamento della personalità dell’uomo, in nome di una ragione ufficiale d’impedire i contatti con l’esterno. Ma vi è anche un altro scopo, denunciato più volte dall’Unione Camere Penali Italiane e detto a “bassa voce” da altri, quello investigativo. La collaborazione alle indagini può far venire meno lo stato di detenzione speciale. A fronte di tale unica via d’uscita, per ragioni di sopravvivenza, chi non ha nulla da offrire al suo carnefice, deve recitare un fantasioso copione, con le devastanti conseguenze giudiziarie per altri soggetti spesso innocenti. Vi è poi l’interpretazione restrittiva della norma, nella sua applicazione concreta. Si potrebbero citare un’infinità di casi. Basti per tutti quanto accaduto il mese scorso. È stato vietato ad un recluso al 41bis l’acquisto del libro scritto dall’ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, oggi Ministro della Giustizia. Le ragioni: possibile aumento del suo carisma criminale. Ci si chiede, pertanto, come abbia fatto Raffaele Cutolo a sopravvivere a 34 anni e 2 mesi in regime di 41bis e se della sua detenzione lo Stato - quello di diritto, che ha abolito la pena di morte e introdotto, seppur recentemente, il delitto di tortura - debba essere fiero. Giustizia, il 41bis e i boss in carcere di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 22 febbraio 2021 Le recenti vicende di cronaca confermano la necessità di mantenere il regime speciale per limitare al massimo i contatti con i clan. Tra le questioni più delicate che la nuova titolare del ministero della Giustizia dovrà ben presto affrontare c’è quella relativa al trattamento dei detenuti per reati di mafia. Una recente operazione della Procura di Palermo, che ha portato all’arresto di una ventina di persone per le quali vale ovviamente la presunzione di non colpevolezza, offre in proposito utili elementi di riflessione. Vi è innanzi tutto la conferma che l’abolizione o almeno l’allentamento del regime di cui all’articolo 41bis, introdotto dopo la strage di Capaci, rimane uno dei principali obiettivi dei boss. E non perché - come vuole la vulgata mediatica - si tratti di “carcere duro”, ma perché esso impedisce, o quanto meno ostacola, le comunicazioni tra il carcere e l’esterno, un flusso vitale per i mafiosi che solo così possono mantenere il controllo sui loro affari e il loro ruolo nell’organizzazione. Poiché - come si ascolta in una intercettazione - “la presenza è potenza”, i capimafia sopperiscono all’impossibilità di presidiare fisicamente il territorio attraverso messaggi consegnati o riferiti da persone di fiducia o addirittura partecipando in carcere a riunioni con altri detenuti. Le indagini hanno accertato che la comunicazione dei mafiosi con l’esterno era resa possibile dalla compiacenza/complicità di personale preposto al controllo, con un ruolo ancora più importante di un’avvocatessa (anch’essa arrestata) che non solo consentiva riunioni dei boss nel suo studio, ritenuto al riparo da possibili intercettazioni, ma consegnava messaggi ai clienti detenuti permettendo loro di comunicare tra carceri diverse. Dunque un’ennesima conferma in sede processuale della necessità di mantenere il regime speciale del 41bis per limitare al massimo i contatti con l’organizzazione. In questa logica, può essere anche utile ridurre il numero dei detenuti assegnati al regime speciale, con una rigorosa verifica dell’eventuale venir meno delle condizioni che ne avevano giustificato l’applicazione. Il secondo elemento di riflessione è offerto dall’arresto di due persone che da alcuni anni godevano dei benefici penitenziari nonostante fossero condannate per reati di mafia e non avessero collaborato con la giustizia. Una condizione di per sé ostativa alla concessione dei benefici, ma che era stata superata, come previsto dalla legge, dal Tribunale di sorveglianza che aveva ritenuto la loro collaborazione impossibile perché, in buona sostanza, i due non avrebbero potuto aggiungere nulla a quanto già accertato nei processi. Ai condannati era stata quindi concessa la semilibertà (per lavorare e studiare all’esterno, rientrando in cella per la notte) e, nella convinzione di una progressiva presa di distanza dal passato criminale e di positivo inserimento in una nuova realtà di vita, erano stati anche accordati numerosi permessi premio. Uno dei due, Antonio Gallea, condannato all’ergastolo quale mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino, aveva così potuto trascorrere dei brevi periodi nel suo paese dell’Agrigentino. Ne aveva approfittato per rientrare con ruoli di rilievo nell’organizzazione, facendo valere i suoi 25 anni di detenzione senza mai collaborare, pur avendo molto da dire. In carcere, e poi durante la semilibertà, nel corso della quale prestava servizio presso un centro della Caritas, il Gallea era stato seguito da don Raffaele Grimaldi, il quale, dopo l’arresto, ha manifestato tutta la sua delusione (“mi fidavo di lui”) e la sua meraviglia. Questa amara vicenda conferma la difficoltà del compito che ricade sulla magistratura di sorveglianza, chiamata a prevedere i comportamenti futuri del detenuto, assicurando il delicato equilibrio tra il suo diritto a sperare in una vita diversa e le esigenze di tutela della collettività. In questo senso è necessario attivare strumenti che aiutino il giudice a decidere, a cominciare dalla formazione degli operatori del pianeta carcere, per accrescerne la professionalità. “Il giudice di sorveglianza, come tutti gli altri giudici, può sbagliare. Ma nonostante ciò, il sistema si deve poter autocorreggere” ha giustamente affermato Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze. E le difficoltà si moltiplicano nel caso di detenuti mafiosi proprio perché l’organizzazione mantiene i suoi legami, dentro e fuori il carcere. Di questo si deve tenere conto ed è necessaria una particolare cautela, come ha ribadito anche la Corte Costituzionale. Tutto questo senza porre in discussione la salvaguardia della persona e il principio della rieducazione del condannato. Perché, come ha detto proprio don Grimaldi “tra quanti chiedono aiuto ci può essere chi continua a sbagliare. Ma non può essere questa una scusa per dire: non crediamo più a nessuno”. Polizia penitenziaria, è possibile il suo immediato scioglimento? di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 22 febbraio 2021 Le uniche novità sono che nessuno vuole più operare all’interno del carcere, tanto che si palesa una fuga da parte del personale, in particolare della custodia, verso il mondo esterno, alla ricerca di compiti altri estranei al contesto. La situazione nella quale si trova ora il Corpo di Polizia Penitenziaria è di totale stallo: spicca di vedetta di fronte al Deserto dei Tartari della giustizia, salvo poi trovarsi assalita, d’impeto, da una circolare del Ministero degli Interni a firma del Capo della Polizia. La situazione nella quale si trova ora il Corpo di Polizia Penitenziaria è di totale stallo: spicca di vedetta di fronte al Deserto dei Tartari della giustizia. È chiaro che in questo stato di attesa perenne, l’unica azione possibile sembri essere quella della fuga, facendosi trasferire o promuovere pur di andare oltre o altrove. Le uniche novità sono che nessuno vuole più operare all’interno del carcere, tanto che si palesa una fuga da parte del personale, in particolare della custodia, verso il mondo esterno, alla ricerca di compiti altri estranei al contesto. Le varie proposte di riorganizzazione del Corpo di Polizia Penitenziaria abbozzate in questi ultimi anni, partono da concetti totalmente assurdi ed altrettanto improponibili, lasciando poco spazio alla positività, alla creatività e al buon vivere all’interno di una struttura certamente non libera di organizzarsi o di autogestirsi. Le proposte vanno dalla richiesta di essere incorporati nella Polizia di Stato a quella di essere Educatori di Stato, senza però indicare quale siano le competenze, le mansioni e i servizi ad essi connessi; sono forse boutade per tenere calma la situazione che appare quantomeno disastrosa e incandescente? Personalmente, non posso altro che vedere e indicare come intervento immediato uno scioglimento del corpo di Polizia Penitenziaria, con un contemporaneo passaggio di alcune sue competenze ad altre strutture dello Stato, quali quelle non perfettamente attinenti alle azioni legate al contenimento di persone che hanno violato la legge dello Stato. Pertanto, visto il costante ricorso ad azioni d’impeto per gestire le carceri, sarei dell’idea che queste non vengano mai attuate o, visto che ad impossibilia nemo tenetur, date a corpi estranei alle carceri come la Polizia di Stato. Un passaggio che dovrebbe avvenire attraverso un collegamento funzionale con quest’ultima che viene ad istituire un reparto apposito, nel momento del bisogno di un supporto nelle frequenti situazioni di conflitto e di tensione all’interno della struttura carcere, e terminato questo momento di conflitto che ritornino presso la sede. Recenti disposizioni del Ministero dell’Interno andrebbero verso questa direzione, confermando la mancata capacità del Ministero della Giustizia nel produrre cambiamenti o riconfermare vecchie e conosciute modalità operative. Altra attività in atto, data alla Polizia Penitenziaria, è quella legata al controllo esterno, di soggetti in esecuzione pena non detentiva e attualmente in corso presso gli l’UEPE (ufficio che cura l’attuazione dell’esecuzione penale esterna). Detti compiti di controllo sul territorio delle persone sottoposte a misure di sicurezza o a misure alternative al carcere, è per legge demandata ed assolta ad assistenti sociali del Ministero della Giustizia, ma di fatto viene tolta a detti AA SS e data alla Polizia Penitenziaria. I cambiamenti a cui andrebbe incontro il Corpo di Polizia Penitenziaria coinvolgerebbe quindi anche l’Ufficio che si occupa della gestione della esecuzione non carceraria, esonerandolo dalla funzione del controllo (si spera questa volta venga previsto con una legge). Ad esso rimarrebbero solo i compiti residuali di aiuto, e chi meglio delle Regioni potrebbe attuarli in maniera sussidiaria. Il compito invece del controllo, fatto venire meno, con circolare del DAP, quello di servizio sociale, è già ampiamente codificato ed assodato in maniera organica nel territorio, dalle Forze dell’Ordine, per cui appare più idoneo che questa parte di Polizia Penitenziaria, passi ad un corpo o settore particolare dei Carabinieri, che per compito istituzionale hanno quello non solo dell’indagine, ma anche del controllo territoriale. In sintesi le competenze ora date al Corpo di Polizia Penitenziario sia quelle interne, non di natura trattamentale, al Ministero degli Interni, quelle di pertinenza esterna a nuclei specializzati dei Carabinieri passino con le stesse modalità di acquisizione del Corpo della Forestale, lasciando ai singoli appartenenti del dissolvendo Corpo, la possibilità di scelta tra i due corpi su detteti o permanere in carcere con compiti prevalentemente trattamentali. Infine, altra desiderata (della Polizia Penitenziaria) è che possa avere principalmente una connotazione trattamentale, come indicato dall’ art 71 comma 1 UE del 2006, che comporta un impegno in prima persona del Territorio e del Privato Sociale. Parlo della costituzione di un gruppo trattamentale che faccia capo al settore educatori delle carceri, quindi civile, senza più coinvolgimenti con altre forze di controllo militari del territorio, fatti salvo gli interventi per riportare l’ordine, già demandati alla Polizia di Stato. Un diverso assetto del Corpo di Polizia Penitenziaria non certo diviene la panacea per tutti i problemi del carcere, specie quelli del sovraffollamento e della prescrizione dei reati, ma è un buon punto di partenza. Resta da pensare a soluzioni per ricollocare un alto numero di detenuti in sicurezza attenuata presso strutture sostitutive alle attuali carceri. Penso a strutture di ampie dimensioni gestite dal Privato Sociale, come ex caserme ed ex ospedali dismessi per accogliere chi non ha risorse esterne o chi è invalido e per motivi vari, ha una assenza di familiari che possano accogliere. Queste neo strutture, già previste dal governo Monti, verrebbero finalizzate per le attività socialmente utili e per un graduale personale passaggio alla totale autonomia. Il controllo sarebbe poi totalmente affidato a reparti di Polizia penitenziaria, esterni alla struttura, a garanzia degli accessi e dell’ordine interno alle stesse. L’attuale politica di disperdere il carcere sul territorio, basata sul principio dell’autodeterminazione, in piccoli raggruppamenti di detenuti, garantisce pochi numeri, costi elevati, e pochissima garanzia sul controllo sia delle persone che della struttura che li ospita, Inoltra da avvio, come contro risposta, ad un controllo massiccio del territorio che indirettamente va a colpisce non solo il nucleo di accoglienza del condannato, ma per riflesso tutto il contesto sociale che è nelle vicinanze. Questa soluzione va ad interferire direttamente sulla libertà e sulla privacy del singolo cittadino non coinvolto nel problema, ponendo di fatto le basi per uno Stato di Polizia. Queste soluzioni, dato il graduale venir meno dei principi informatori dell’Ordinamento Penitenziario, voluto dai Padri fondatori, da me già precedentemente presentate, potrebbero essere la risposta nuova e diversa da proporre al nuovo governo fatto di politici e di tecnici, proposta, che vuole la funzionalità legata alla economicità ed alla gestione del buon prodotto, alias inserimento di un soggetto che ha errato all’interno della collettività. *Ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria Cutolo fece uccidere il padre: “Non provo odio, mi batto per prigioni più umane” di Viviana Lanza Il Riformista, 22 febbraio 2021 Parla Claudio Salvia. “Ogni anno partecipo con la comunità di Sant’Egidio al pranzo di Natale nel carcere di Poggioreale che porta il nome di mio padre. Servo a tavola gli ospiti, non mi va di chiamarli detenuti”. È così che Claudio, figlio di Giuseppe Salvia, il vicedirettore del carcere di Poggioreale ucciso il 14 aprile 1981 dalla camorra guidata da Raffaele Cutolo, trasforma il dolore in impegno sociale. Claudio aveva tre anni quando suo padre fu ucciso, quell’evento ha segnato profondamente la vita della sua famiglia e inevitabilmente anche la sua. “Quando ho appreso della morte di Cutolo mi è dispiaciuto perché non ho mai augurato la morte a quella persona nonostante sia stato il carnefice di mio padre. Io e mio fratello siamo vissuti con valori alti e in quei valori, nell’insegnamento che ci ha dato mio padre con il suo esempio, non c’è spazio per la vendetta, per il rancore. Ciò che mi sono sempre augurato da quando ho saputo dell’omicidio di papà è stato solo che la giustizia facesse il suo corso, e così è stato”. I responsabili dell’omicidio di Giuseppe Salvia sono stati processati e condannati. Il vicedirettore fu assassinato per non essersi piegato ai tentativi di corruzione con cui la Nuova Camorra Organizzata di Cutolo aveva provato a comprare lui, dopo aver fatto lo stesso con altri. Erano gli anni 80 e la corruzione era lo strumento con cui il boss di Ottaviano riuscì a creare un clan malavitoso all’interno del carcere. L’episodio della perquisizione a cui Cutolo fu sottoposto al rientro da un processo come era da prassi e che Salvia eseguì personalmente visto che tutti gli agenti si erano rifiutati di farlo fu solo la goccia che fece traboccare il vaso. Prima di quell’episodio, infatti, Salvia aveva già ricevuto minacce. Provarono anche a fargli credere che il fonogramma con cui si disponeva un trasferimento di Cutolo da parte del ministero della Giustizia fosse un documento vero, ufficiale. Ma Salvia non si fece ingannare e solo successivamente si scoprì che quel fonogramma era effettivamente un falso realizzato grazie a una talpa che il clan di Cutolo era riuscito ad agganciare all’interno degli uffici romani. “Mio padre - racconta Claudio Salvia - sapeva bene a cosa andava incontro ma aveva un alto senso dello Stato, e ha rappresentato la resistenza di fronte a una camorra dilagante”. Oggi sono questo esempio e questa resistenza a ispirare il suo impegno sociale per detenuti e giovani a rischio. Servendo il pasto ai detenuti, Claudio Salvia ha potuto osservare più da vicino il mondo del carcere, “un mondo di privazione - racconta - e di mancanza di rapporti sociali. È vero che si tratta di persone che scontano una condanna ma sono soggetti che la nostra società ha il dovere di recuperare perché se chi esce dal carcere, espiata la pena, torna a delinquere, il problema è dello Stato e della società”. Certezza della pena ma in un carcere più umano, ecco il primo auspicio di Salvia al quale fa seguito un secondo non meno importante: “A chi si è smarrito intraprendendo la strada della legalità - conclude il figlio dell’ex vicedirettore di Poggioreale - rivolgo l’invito a tornare indietro e valutare che essere camorristi in fondo non porta vantaggi ma distruzione, sofferenza e tanto dolore per sé e per gli altri”. “Abuso d’ufficio”. Il medico, l’agente, il sindaco tutti assolti ma carriera finita di Valentina Errante Il Messaggero, 22 febbraio 2021 Il fatto non sussiste o non costituisce reato. Da Nord a Sud, circa il 70% delle inchieste per abuso di ufficio si chiude con archiviazioni, proscioglimenti o assoluzioni. Nelle more, però, saltano carriere e incarichi di funzionari pubblici, professori universitari e dirigenti, perché le inchieste e i processi che vengono istruiti, per il reato, più difficile da dimostrare, durano anni. Di storie emblematiche ce ne sono tante. Come quella di Walter Orlandi, all’epoca direttore generale della sanità regionale ed ex dg dell’azienda ospedaliera “Santa Maria della Misericordia” di Perugia, era finito sotto accusa per avere favorito la carriera della dottoressa Manuela Pioppo, nominata direttore sanitario del presidio. Il caso-Orlandi aveva preso le mosse dall’esposto presentato da due medici del Santa Maria della Misericordia nel 2015. Orlandi, secondo il pm Paolo Abbritti, sarebbe stato colpevole di aver determinato una concentrazione di incarichi, procurando alla donna un ingiusto vantaggio patrimoniale di 109 mila euro a titolo di corrispettivi indebitamente erogati. Il medico aveva sempre respinto le accuse sostenendo di avere agito correttamente. Nel 2019, mentre le indagini erano in corso, Orlandi è andato in pensione, sulla decisione della Regione aveva pesato anche l’indagine. L’assoluzione è arrivata lo scorso 2 dicembre prima che iniziasse il dibattimento: “Il fatto non costituisce reato”. Ma a novembre il potentissimo dirigente regionale era tornato in corsia a fare il medico di base, in un Covid hotel allestito dalla Regione Lazio dedicato ai pazienti dimessi dagli ospedali campo. Per l’ispettore di polizia di Messina Luigi Cavalcanti, invece, sono stati necessari undici anni prima di ottenere l’assoluzione dalla Corte d’Appello. In primo grado, nel 2017, l’ispettore era stato condannato a otto mesi di reclusione. E, nonostante l’accusa avesse richiesto la conferma integrale del verdetto, i giudici di secondo grado hanno concluso che la condotta contestata a Cavalcanti non costituisse reato, e lo hanno assolto. E poliziotto era finito sotto accusa per abuso d’ufficio, perché era intervenuto in una complicata vicenda ereditaria. Per undici anni la sua carriera in polizia si è fermata. Dalla Calabria alla Lombardia. Anche per i sindaci e i governatori il reato non regge. L’ex presidente della Regione Molise, Michele Iorio, eletto con una coalizione di centrodestra, ha chiuso la sua vicenda giudiziaria di abuso d’ufficio in Cassazione nel 2018, dopo un’assoluzione in primo grado e la condanna a sei mesi in Appello, che gli era costata la sospensione dal consiglio regionale. La vicenda era legata alla cessione delle quote dello Zuccherificio del Molise ed è finita in un nulla di fatto anche per l’ex assessore Gianfranco Vitagliano. Anche il governatore campano Vincenzo De Luca, Pd, è stato assolto dalla stessa accusa nel processo Crescent, per il complesso immobiliare sul lungomare di Salerno. E non è andata diversamente per Giuseppe Sala, sindaco Pd di Milano ed ex commissario unico di Expo: l’accusa relativa all’appalto per la Piastra dei servizi Expo è caduta con un proscioglimento. Nel 2015 assoluzione anche per l’allora governatore pugliese Nichi Vendola, accusato di abuso d’ufficio in relazione alla selezione di un posto di primario. Mentre per il sindaco di Roma Virginia Raggi sono stati gli stessi pm ad archiviare il reato. Le SS.UU. indicano quale sia lo spazio minimo da garantire al detenuto in una cella comune di Aldo Aceto* quotidianogiuridico.it, 22 febbraio 2021 Spazio detentivo minimo e violazione dell’art. 3 Cedu: per una lettura conforme ai canoni di dignità e umanità della pena. Le sezioni Unite penali della Corte di cassazione hanno dato risposta ai seguenti quesiti: “Se, in tema di conformità delle condizioni di detenzione all’art. 3 CEDU come interpretato dalla Corte EDU, lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per ogni detenuto debba essere computato considerando la superficie calpestabile della stanza ovvero quella che assicuri il normale movimento, conseguentemente detraendo gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e, in particolare, se, tra questi ultimi, debba essere detratto il solo letto a castello ovvero anche quello singolo”. “Se, nel caso di accertata violazione dello spazio minimo, possa comunque escludersi la violazione dell’art. 3 CEDU nel concorso di altre condizioni, come individuate dalla stessa Corte EDU (breve durata della detenzione, sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività`, dignitose condizioni carcerarie) ovvero se tali fattori compensativi incidano solo quando lo spazio pro capite sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati” (Cassazione penale, sezioni Unite, sentenza 19 febbraio 2021, n. 6651). La soluzione - Nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello. I fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività`, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen. *Consigliere della Corte di cassazione Campania. Il Garante: “I cappellani e i volontari sono una zattera per i detenuti” linkabile.it, 22 febbraio 2021 In tutte le parrocchie della Campania oggi si è celebrata la giornata di preghiera, di sensibilizzazione e condivisione per i carcerati. A Poggioreale la celebrazione Eucaristica è stata presieduta dal vescovo ausiliare di Napoli mons. Gennaro Acampa e concelebrata da tutti i cappellani. In chiesa detenuti del padiglione Firenze, i canti sono stati eseguiti da un gruppo di detenuti del padiglione Genova. Presente all’incontro il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Nella sua introduzione il responsabile dei cappellani di Poggioreale don Franco Esposito ha dichiarato: “Come Chiesa di Napoli, in questo tempo, non abbiamo mai fatto mancare la nostra presenza attraverso i cappellani, le suore e qualche volontario. Grazie alla generosità delle nostre parrocchie siamo riusciti a distribuire i generi di prima necessita raccolti tra i fedeli nella giornata per i carcerati e anche in altri momenti organizzati da tanti parroci particolarmente sensibili a questa problematica. Il carcerato è sempre il frutto di un albero: la nostra società, che lo produce, e dopo averlo prodotto lo giudica, lo condanna e lo rinchiude, pensando che la struttura carceraria lo possa cambiare. Il carcere invece con tutto il suo pur innovativo ordinamento rieducativo non sempre vi riesce, la stragrande maggioranza dei detenuti esce dal carcere segnata in modo negativo, mortificati nella dignità, esclusi ormai da qualsiasi possibilità di reinserimento sociale, lavorativo, culturale.” Durante la preghiera dei fedeli il garante Ciambriello ha invitato a chiedere la misericordia di Dio per i quattro detenuti campani morti per Covid, per i tre agenti penitenziari (l’ultimo l’altro giorno, un sovrintendente di 57 anni di Poggioreale), e il medico di Secondigliano. Ciambriello ha poi concluso: “Ringrazio i cappellani e i volontari che entrano in carcere per stare con i detenuti, sono una terra di mezzo, un ponte tra il dentro e il fuori, una zattera dove i diversamente liberi si rigenerano da ansie, paure. Sono i generosi cristiani che vivono “La Chiesa in uscita” e con gioia la sesta opera di misericordia corporale Visitare i carcerati, che è di certo la più disattesa tra tutte le altre.” Orvieto (Pg). Il Covid entra nel carcere: 8 agenti e 4 detenuti positivi di Alessandro Maria Li Donni orvietolife.it, 22 febbraio 2021 Fino ad ora si era riusciti ad evitare un cluster, seppure piccolo ad Orvieto ma, secondo notizie non ancora ufficialmente confermate ma riferite da più fonti nella casa circondariale di Orvieto sarebbero in attesa di risposta al tampone classico 8 agenti della Polizia Penitenziaria e 4 detenuti per un totale di 12 persone. Non si hanno conferme ufficiale, lo ribadiamo, ma se i numeri fossero confermati potrebbe essere il primo cluster interno ad una comunità. Sono scattati i protocolli riguardanti il tracciamento per gli agenti della penitenziaria ed anche per i detenuti e lo screening per capire l’entità del contagio e decidere, di conseguenza, eventuali azioni di controllo e isolamento se le autorità sanitarie competenti lo dovessero ritenere necessario. Prima, però, di avanzare ipotesi sul prossimo futuro attendiamo che arrivino le conferme ufficiali soprattutto sui numeri del contagio. Vicenza. Al via il corso “Oltre il carcere: una nuova possibilità di reintegrazione sociale” Ristretti Orizzonti, 22 febbraio 2021 Giovedì 25 febbraio, dopo quasi due mesi di chiusura a ogni attività che prevedesse la partecipazione di persone o volontari provenienti dall’esterno, nella Casa Circondariale Lo Papa - S. Pio X di Vicenza inizia la seconda parte (la prima si è conclusa il 30 dicembre dello scorso anno) del corso “Oltre il carcere: una nuova possibilità di reintegrazione sociale” finanziato con i fondi dell’8 per mille della Chiesa Valdese e promosso da Progetto Carcere 663 - Acta non Verba OdV con il sostegno dell’Area Giuridico - Pedagogica del carcere vicentino. Più breve della precedente, si articolerà in 5 incontri su Educazione Civica e Ricerca attiva di un lavoro sostenute da una parte psicologica dedicata a “Comunicazione & Autostima”. Sarà tenuto da professioniste legate all’OdV PC663 (avvocato, criminologa e psicologa) che alterneranno nell’esposizione dei vari argomenti secondo la loro specifica competenza. Si confida, anche questa volta, in un’attiva partecipazione dei detenuti, selezionati dai funzionari dell’Area Giuridico - Pedagogica, poiché, al solito, analoghe iniziative proposte anni scorsi, hanno sempre incontrato un’ottima accoglienza dai partecipanti che hanno manifestato grande soddisfazione per questo tipo di azione formativa e per le docenti. L’odio da odiare senza divisioni di Walter Veltroni La Stampa, 22 febbraio 2021 “State buoni, se potete”. L’antico ammonimento di San Filippo Neri vale per il progressivo degradare del discorso pubblico in questo Paese. Si moltiplica, generato e amplificato dall’universo dei social, l’uso sconsiderato di uno dei beni più preziosi di cui disponiamo: le parole. Se autorevoli docenti universitari di sinistra, persone di cultura, si lasciano andare a incredibili espressioni, come è accaduto nei confronti di Giorgia Meloni, che contengono più manifestazioni di disprezzo: nei confronti di chi ha opinioni diverse dalle proprie, di chi è donna e anche di chi fa lavori umili, evocati come paradigma della volgarità. Spero e non credo che chi ha pronunciato quelle parole coltivi realmente, razionalmente, dentro di sé quei molteplici disvalori. Ma lo “spirito del tempo” sembra autorizzare l’insulto come forma normale di comunicazione, come codice capace di assicurare ascolto e seguito. Non esiste un odio giusto e uno sbagliato. L’odio va sempre odiato. E personalmente ritengo parte di questo male il carattere sincopato delle reazioni, che si accendono se viene colpita la propria parte e si attenuano fino a sparire quando riguardano gli avversari. Anzi, in questo tempo livido, i “nemici”. Se si ha l’onestà di condannare, come ha fatto il presidente della Repubblica, gli epiteti orrendi usati contro Giorgia Meloni si ha poi l’autorità per condannare episodi analoghi di segno opposto. E viceversa. L’intermittenza dell’indignazione è parte di questo clima venefico. Quello che ha generato l’assurdità, non troppo censurata a destra, degli insulti e delle minacce fasciste a una donna, il meglio della società italiana, come Liliana Segre. Proprio lei ha detto: “Mi sono data il compito di fare qualcosa per evitare che il mondo vada verso una deriva d’odio. L’odio nasce dalle parole e dai piccoli gesti quotidiani e poi finisce nell’orrore, come io ho potuto vedere da chi prima l’ha predicato con le parole e poi messo in pratica con i fatti”. L’odio di sinistra e quello di destra si assomigliano. Non hanno a che fare con il conflitto, che è anima della democrazia. L’odio è sempre la demonizzazione della diversità, di ogni diversità. Quella razziale, religiosa, sociale, di sesso. E quella politica. Eppure la storia dovrebbe aver insegnato ai vari seminatori d’odio di professione che poi può capitare, ed è allora grottesco, che il bersaglio dei propri stirali ad un certo punto, oplà, diventi non solo il rispettato interlocutore di un dibattito ma persino un alleato di governo. Ho un’immagine che porto nella memoria. Quella di Sandro Pertini che, negli anni in cui i ragazzi di destra e di sinistra si uccidevano per le strade, si recò, lui presidente partigiano, al capezzale di un ragazzo di destra preso a sprangate dai violenti di turno. Odiamo l’odio, tutti insieme. Solo così si vedranno nitidamente le differenze di valori e programmi. Quelle di cui una democrazia ha bisogno. Addio storytelling, ecco i silenzi istituzionali: così Draghi rivoluziona le parole del potere di Massimiliano Panarari La Stampa, 22 febbraio 2021 Cambio di passo. E di tempistiche. Dal metodo del “rinvio permanente” del predecessore Giuseppe Conte all’individuazione immediata di un’agenda definita e di una scaletta di priorità da perseguire senza indugi. E la chiara indicazione dell’esigenza di correre su questioni che, in precedenza, restavano tendenzialmente nel limbo. Mario Draghi “l’accelerazionista” in politica è, altresì, il neopresidente del Consiglio che ha appena introdotto lo “stile banchiere centrale” nella comunicazione politica nostrana. Finita a palazzo Chigi la stagione del “roccocasalinismo”, pilastro del contismo, siamo entrati nella nuova fase del “governo del Paese”, quello “senza aggettivi” e di responsabilità nazionale. Con lo spostamento dell’accento da una comunicazione del primo ministro significativamente consensus-oriented (cosa che spiega i prolungati picchi di popolarità del prof. Conte) a una che risulterà più marcatamente istituzionale, dato il carattere di governo “del Presidente” (o, se si preferisce “dei due Presidenti”) di quello guidato dal prof. Draghi. Non secondariamente poiché la “ragione sociale” di questo gabinetto coincide con l’essere un esecutivo tecnico-politico edificato su una maggioranza senza formula politica, obbligato quindi a sovrastare mediante il carattere istituzionale dei suoi messaggi le propensioni propagandistiche ed elettoralistiche dei partiti che lo sostengono. A riprova dello “stile banchiere centrale” applicato anche al paradigma comunicativo, è arrivata infatti ad affiancare Draghi Paola Ansuini, ed è entrato nello staff quale consigliere per le relazioni con i media internazionali il giornalista Ferdinando Giugliano. Figure di elevata professionalità, e comprovata competenza (ex Bankitalia e con un solidissimo background internazionale), che fanno plasticamente intendere il tramonto del retroscenismo di palazzo per il periodo a venire. E, dunque, parleranno i fatti (insieme ai numeri), secondo il modello di una comunicazione, basata sull’essenzialità e declinata in termini di sobrietà, che poggia direttamente sulla dotazione di autorevolezza e credibilità di Mario Draghi. Una comunicazione per sottrazione, nella quale la discrezione e il riserbo - caratteristici dell’approccio alla governance delle istituzioni di regolazione dell’economia globale - si sposano con il “discernimento”, fondamento del modello educativo gesuitico (appreso da Draghi durante la formazione giovanile). Un “codice comunicativo” (che l’ex presidente della Bce vuole estendere ai suoi ministri) profondamente differente da quello degli inquilini precedenti di palazzo Chigi, da Matteo Renzi a Conte, passando (seppure in misura minore) per Paolo Gentiloni. Altrettanti governi nei quali, all’insegna di caratteristiche differenti, i registi delle macchine comunicative (in due casi su tre un campione del settore, Filippo Sensi) immettevano abbondanti dosi di spin, storytelling e politica pop nei flussi di informazioni in uscita, prodigandosi per orientare il newsmaking. E si tratta di quel format della comunicazione politica postmoderna che si ripropone dalla Parigi di Emmanuel Macron alla Londra di Boris Johnson, fino alla squadra tutta al femminile che cura l’immagine di Joe Biden, messo sotto taluni aspetti soltanto in standby dalla pandemia. Una comunicazione postpolitica (ed emozionale) da cui ha preso sostanzialmente le distanze solo Angela Merkel, che ha fatto spesso ricorso a dei “silenzi comunicativamente eloquenti”, utilizzandoli come formula prudenziale (e negoziale) per tenersi alla larga dalle issues divisive. E, difatti, nel Bildungsroman da decision-maker del nuovo premier italiano (di cui vari osservatori sottolineano alcuni tratti culturali “teutonici”) hanno giocato molto gli anni trascorsi a Francoforte. Di questo nuovo genere di comunicazione c’è, dunque, un gran bisogno. Anche se, nondimeno, non va trascurato un rischio. L’allergia al sensazionalismo, alla cacofonia e alle derive della digital propaganda, infatti, non può tradursi in silenzio (ovvero blackout comunicativo). Perché in politica e in comunicazione il vuoto non esiste, e qualcuno potrebbe riempirlo mediante la misinformation o incrementando il tasso di incivility in rete. Per evitarlo, i media - corpi intermedi dell’informazione nell’età dell’ossessione disintermediatrice - risultano vitali (come ha mostrato, in primis, il loro ruolo di argini di fronte alla marea di fake news sul Covid). E lo è anche il presidio dell’ecosistema digitale (dove imperversa il populismo “anti-establishment”) da parte del rinnovato registro comunicativo di palazzo Chigi. Rifuggire da un certo circo Barnum mediatico come dal teatrino della politica-spettacolo non equivale all’assenza e al silenzio totale. In una società democratica l’opinione pubblica deve poter contare su un flusso costante di informazioni riguardo le decisioni di chi regge le istituzioni (una consapevolezza che, del resto, emergeva in modo netto dal discorso della fiducia in Senato). E tanto maggiormente nel quadro emergenziale odierno, che si somma al contesto di “post-sfera pubblica” di questi ultimi decenni, dominati dalla frammentazione e dalle sue derive centrifughe. La costruzione di una relazione regolare (al medesimo tempo, continuativa e dialettica) con il mondo dell’informazione è, dunque, oggi ancora più indispensabile. E lo è pure una “comunicazione (persuasiva) interna” al governo di larghe intese, dal momento che per i partiti l’esecutivo Draghi rappresenta un autentico stress test. Da cui può derivare anche una positiva riconfigurazione del sistema politico, unicamente, però, al termine di un lungo percorso irto di ostacoli e bisognoso appunto di parecchia attenzione nel rapporto con i partiti della maggioranza. E, dunque, di un’alchimia - difficile, ma imprescindibile - tra una comunicazione davvero istituzionale e la comprensione delle aspettative della politica (come ben sa uno che della materia se ne intende, il capo di gabinetto del premier Antonio Funiciello). Suicidio assistito, 4 anni dalla morte di dj Fabo di Caterina Pasolini La Repubblica, 22 febbraio 2021 Cappato: “Uno al giorno ci chiede di andare in Svizzera”. Da martedì in onda su RaiPlay il documentario, con il racconto della compagna Valeria, sugli ultimi anni di vita di Fabiano Antoniani. “Ogni giorno almeno una persona ci ha chiamato nell’ultimo mese, chiedendo aiuto, informazioni per andare a morire in Svizzera, volendo addormentarsi per sempre come ha fatto Dj Fabo il 26 febbraio di quattro anni fa”, dice Marco Cappato, dell’Associazione Coscioni, che accompagnò nel suo ultimo viaggio oltre confine Fabiano Antoniani, tetraplegico dopo un incidente, e per questo è stato processato e infine assolto dall’accusa di istigazione e aiuto al suicidio per il quale rischiava fino a 12 anni di carcere. Da allora molte cose sono cambiate, nuove leggi e nuove sentenze sono arrivate, ma la realtà è che “sono sempre più numerose le donne gli uomini che, stanchi delle sofferenze di malattie terminali, di un corpo piegato da incidenti, trasformato in una prigione insopportabile chiedono di andarsene con dignità, chiedono l’eutanasia che in Italia non c’è. Sei volte più dell’anno scorso, portando a quasi mille le richieste in 6 anni solo alla nostra associazione. Trenta in un mese e quattro di loro hanno avviato il percorso con la Svizzera”, dice Cappato. Sono giovani e anziani, figli per i genitori disperati in cerca di notizie. Cittadini che si sentono soli nel dolore, nella malattia, davanti ad uno Stato che sembra averli dimenticati nel momento peggiore. Davanti ad una classe politica che in Parlamento dopo le sentenze della Consulta, gli inviti pressanti della Corte Costituzionale a legiferare sull’eutanasia, dopo più di un anno ancora tace. Molto è cambiato dalla mattina in cui Dj Fabo e morto come voleva morire, con la sua Valeria accanto, dopo anni di una esistenza che riteneva indignitosa, insopportabile e che ora vengono raccontati dalla sua compagna nell’emozionante documentario da martedì 23 in onda su RaiPlay nella serie Ossi di seppia il rumore della memoria, prodotto da 42 parallelo. Alcune leggi sono state approvate e altre sentenze della Corte Costituzionale hanno cambiato la storia da quel febbraio 2017. Pochi mesi dopo l’addio a Fabiano, a dicembre è stato approvato il testamento biologico, le disposizioni anticipate di trattamento che consentono nel rispetto della Costituzione di rifiutare, un domani in cui non si avranno parole per dirlo, cure vitali, il diritto alla sedazione in fase terminale. Ma poco o nulla è stato fatto, accusa l’associazione, per far conoscere alla gente i nuovi diritti. Tanto che solo dopo una campagna informativa promossa dalla Coscioni sono stati scaricati in un mese mille moduli per dettare le proprie volontà in materia sanitaria. “La sentenza del processo per la morte di Fabo ha stato stabilito che se sono rispettati 4 punti fondamentali, è un diritto essere aiutati a morire. Insomma ora ci sono le leggi il problema resta la loro applicazione”. E il risultato sottolinea Cappato si vede nelle continue richieste di aiuto, perché non essendoci direttive, protocolli di intervento, molti pazienti non ricevono chiarimenti dovuti sui loro diritti, e non risultano casi di persone che abbiano ottenuto il diritto a morire in nosocomi. “Anzi l’unico che seguiamo ha visto la Asl opporre un netto rifiuto alla sua richiesta di andarsene, ed è uomo in una situazione molto simile a Fabiano” “La realtà, denuncia ancora l’associazione Coscioni, è che da noi una legge, se non ha procedure, se non sono indicati determinati obblighi risulta inattuabile, e come se non ci fosse. Ci vuole invece una legge sull’eutanasia per non dovere sempre finire per tribunali, una legge che la Corte costituzionale ha invitato più di un anno fa il Parlamento ad approvare. Richiesta caduta nel vuoto. Il punto fondamentale è proprio la centralità del Parlamento dove giace da sette anni la legge di iniziativa popolare, chiesta con più di 150mila firme. Persone che aspettano risposte visto che la proposta di legge non è mai stata neppure discussa”, conclude Cappato. Stati Uniti. Il software che ridà la libertà ai detenuti che lo meritano La Repubblica, 22 febbraio 2021 Non è vero che i giovani cambieranno il mondo. Lo hanno sempre fatto, lo stanno già facendo. Vi presento Clementine Jacoby. Ha realizzato un software che aiuta le carceri americane, un’ottantina finora, a gestire meglio i detenuti, analizzando tutti i dati personali, con l’obiettivo di far uscire in sicurezza coloro che non c’è alcun serio motivo di tenere dietro le sbarre. Negli Stati Uniti l’affollamento delle carceri è un problema: i detenuti sono due milioni, con una forte prevalenza di neri, e si calcola che centinaia di migliaia potrebbero stare fuori senza rischi per la sicurezza pubblica. Senza un ragionevole rischio di recidiva. Il software si chiama Recidiviz ed è stato adottato da trentaquattro Stati americani con risultati clamorosi: in due anni il suo algoritmo ha aiutato a identificare ben 44 mila detenuti che avevano i requisiti per uscire e nel Nord Dakota, che ha avviato questa collaborazione fin da subito, c’è stata una riduzione della popolazione carceraria del 20 per cento. Uno su cinque. Non era questo che Clementine Jacoby pensava che avrebbe fatto da grande: studi a Stanford, laurea in ingegneria, diventa manager a Google dove lavora quasi quattro anni. A un certo punto, mentre sta progettando un gioco per telefonino con la realtà aumentata, si rende conto che non è questa la vita che vuole fare. I dati, che a Google ha imparato ad usare, possono essere usati per qualcosa di più utile dell’ennesima app. Il tema delle carceri la tocca personalmente: in famiglia c’è stato un caso, dice, che andava risolto con la cura non con le sbarre; e quando ha lavorato come acrobata da circo in Messico e Brasile, ha fatto progetti di inclusione con le gang locali per tenere i giovani lontano dal crimine. Poi è arrivata a Google, certo. Era tutto facile, scontato anche. Ma usare la scienza dei dati per aiutare chi ha sbagliato a redimersi e ricominciare deve esserle parso il vero modo che aveva per cambiare il mondo. Time l’ha appena inserita fra i 100 giovani più interessanti del pianeta. Egitto. Nel carcere di Tora si muore di Covid: le autorità negano trasporto in ospedale di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2021 Ezzat Mohamed Kamel aveva 70 anni. Gli appelli presentati alla Procura per farlo curare in un ospedale esterno al carcere sono caduti nel vuoto. È la nona vittima della negligenza medica nelle carceri dall’inizio dell’anno. E i sintomi del Covid vengono considerati dalle autorità come semplici episodi influenzali. Il Coronavirus è ormai dentro le carceri egiziane e inizia a mietere vittime. In quello di Tora al-Balad, il famigerato penitenziario alla periferia meridionale del Cairo, l’ultimo decesso risale alla mattinata di martedì con la morte di un ex professore del dipartimento di chirurgia ortopedica dell’Università Ain Shams. Ezzat Mohamed Kamel aveva 70 anni e nonostante i disperati appelli presentati dal suo avvocato alla Procura per la Sicurezza Nazionale per farlo curare in un ospedale esterno al carcere non c’è stato nulla da fare per salvargli la vita: “Con il professor Kamel salgono a nove le vittime per reati politici all’interno delle carceri egiziane dall’inizio del 2021, tutte per negligenza medica”, affermano in una nota alcune organizzazioni anti-regime. Da quanto è stato possibile ricostruire, il professor Kamel si è infettato nel gennaio scorso dentro la prigione dove sono rinchiusi decine e decine di attivisti per la difesa dei diritti umani. Tra loro il ‘nostro’ Patrick Zaki che pochi giorni fa ha superato il primo anno di detenzione in attesa di giudizio. Il timore di contrarre il virus all’interno della prigione di Tora è uno degli scenari più temuti dai familiari e dai sostenitori di Zaki, soprattutto in considerazione della totale mancanza di cure mediche adeguate all’interno del penitenziario. Quelli che sono considerati i sintomi tipici della polmonite bilaterale, in Egitto come nel resto del mondo in piena emergenza pandemica, febbre alta, spossatezza e oppressione al petto, vengono considerati dalle autorità egiziane come semplici episodi influenzali. E probabilmente è quanto accaduto anche al professor Kamel, un professionista stimato, un docente universitario di livello, arrestato il 18 dicembre scorso e buttato dentro una cella con l’accusa infamante di “aver preso il comando di un gruppo terroristico” in base ad un rapporto della Sicurezza Nazionale. “Il dottore si è ammalato più di due settimane fa - spiega l’avvocato del defunto, Nabeh Elganadi. Il procuratore non ha mai risposto ai nostri appelli per trasferirlo in un ospedale esterno al carcere per essere curato, nonostante la malattia aumentasse il suo peso e nonostante l’età”. L’ultimo appello per far curare il docente universitario è stato il 6 febbraio scorso, anch’esso caduto nel vuoto. Non è da escludere che il professor Ezzat Kamel si sia infettato nei giorni in cui è rimasto nella stazione di polizia subito dopo il suo arresto, prima del trasferimento a Tora. I sintomi, tuttavia, il docente li ha iniziati ad avere in cella e in due settimane lo hanno portato alla morte. Adesso l’avvocato e i familiari di Ezzat Mohamed Kamel attendono la salma per lo svolgimento dell’autopsia e l’apertura di un fascicolo sulla sua morte. Le critiche al regime sulla gestione della pandemia in Egitto sono state fatali per Kamel, iscritto al caso giudiziario 970 del 2020. La notte del 18 dicembre i soliti sgherri della Nsa sono piombati dentro la sua abitazione, divisa con la famiglia, hanno sequestrato telefono e pc e da quel giorno di lui non si è più saputo nulla per una settimana. Il 26 dicembre Kamel è ricomparso davanti alla Procura della Sicurezza Nazionale che gli ha rinnovato il primo periodo di custodia cautelare in carcere. Come Zaki e tutti gli altri prigionieri di coscienza lasciati a marcire per anni senza processo. A proposito di attivisti e Coronavirus, qualcosa di molto simile alla tragedia dell’ortopedico è accaduta ad Ahmed Douma, una delle anime della Rivoluzione di piazza Tahrir del gennaio 2011. Douma, 35 anni, arrestato sotto ogni regime che si è alternato negli ultimi quindici anni, a differenza di Zaki e di tanti altri, una condanna l’ha ricevuta all’ergastolo nel febbraio del 2015, poi ridotta a 15 anni nel gennaio 2019. La sua positività al Coronavirus è notizia di questi giorni, denunciata dallo stesso Douma proprio nel giorno della morte del professor Kamel. Rispetto al docente, Douma ha la metà degli anni e questo per ora sta facendo la differenza, ma la situazione clinica del noto blogger (il suo volto stampato sui muri di ogni strada del Cairo) è attenzionata. La situazione resta comunque seria e tutte le organizzazioni dell’attivismo egiziano si sono mobilitate chiedendo cure specifiche per lui. Anche il giornalista di al-Jazeera Mahmoud Hussein, scarcerato pochi giorni fa dopo quattro anni di carcere, avrebbe contratto il Coronavirus secondo le ong del Cairo. Hussein divideva la cella con Douma nella sezione di Tora Liman e forse non è un caso che entrambi siano risultati positivi al virus. Lo stesso Douma oltre a rendere nota la sua malattia ha fatto emergere l’ipotesi che all’interno del penitenziario di Tora i casi di Covid-19 possano essere diversi. Spagna. “Lesa maestà”, il caso del rapper in carcere per i suoi messaggi Dario Ronzoni linkiesta.it, 22 febbraio 2021 Pablo Hasél è stato condannato per avere offeso il re e incitato al terrorismo. Il suo arresto ha sollevato un dibattito sulle pene per i reati di opinione, anche se a suo carico si contano anche altre condanne. Ha definito il re Juan Carlos “un cretino”, un “mafioso di Borbone” che festeggia con la monarchia saudita, i suoi “amici criminali”. La corona di Spagna è “fascista”, i poliziotti sono “mercenari”, “assassini”, che pestano e uccidono gli immigrati. Sono alcune delle espressioni, usate sui social e nelle canzoni, per cui è stato condannato Pablo Rivadulla Duró, rapper spagnolo conosciuto come Pablo Hasél, a nove mesi di carcere per insulti alla corona e incitamento al terrorismo. Chiamato a entrare in carcere dall’Audiencia Nacional, il cantante ha preferito barricarsi nell’università di Lleida, obbligando la polizia a fare irruzione martedì 16 febbraio. All’arresto sono seguiti scontri e manifestazioni tra Madrid e la Catalogna, dispersi dalle forze dell’ordine con lacrimogeni e proiettili di gomma. Il risultato, al momento è di una sessantina di arresti e altrettanti feriti. Cui si aggiunge un dibattito serrato sulla libertà di espressione, i suoi limiti e le pene previste dal codice, giudicate troppo severe. Ma il caso di Pablo Hasél è qualcosa di più, perché si pone all’incrocio di una serie di tensioni che agitano la Spagna. Il rapper, comunista, è un grande sostenitore dell’indipendenza della Catalogna, ha preso le difese dell’ETA, l’organizzazione terroristica basca, e si è fatto fotografare insieme a Victoria Gómez, rappresentante del gruppo marxista Grapo (ora dissolto) dicendo che apprezzava le proteste ma a volte bisognava fare come loro, cioè andare oltre. L’incitamento alla violenza è indiscutibile, ma il suo messaggio cade in mezzo a questioni irrisolte - passate e presenti - che accrescono la visibilità dei suoi gesti. A tutto questo si aggiunga la mancanza di rispetto per la corona. I testi incriminati risalgono al biennio 2014-2016. Il processo, iniziato subito dopo, si è concluso con una prima condanna nel 2018 a due anni e un giorno di carcere e una multa di 24.300 euro. Nell’appello è stata abbassata a nove mesi, con la motivazione che i messaggi non rappresentassero un rischio reale. Nel 2020 arriva la conferma del Tribunal Supremo. Troppo pesante? Secondo i giudici no. Pablo Hasél non meriterebbe alcuna sospensione perché, era stato già condannato nel 2015 per fatti simili, e nel 2017 è stato condannato per resistenza a pubblico ufficiale e nel 2018 per irruzione in un locale. Si tratta di un soggetto che - hanno scritto - per condotta e circostanze non merita attenuanti. In più solo nel 2020 ha ricevuto due condanne in primo grado per lesioni nei confronti di un giornalista di TV3 e per l’aggressione contro un uomo che aveva testimoniato a favore di un poliziotto della Guardia Nacional di Lleida. Ha fatto ricorso in appello. Myanmar. Migliaia in strada sfidano la giunta. L’esercito minaccia l’uso della forza La Repubblica, 22 febbraio 2021 La mobilitazione è così massiccia tanto che quella odierna potrebbe diventare la più imponente giornata di protesta dal giorno in cui è stato compiuto il colpo di Stato, il 1 febbraio. Manifestazioni di massa in tutto il Myanmar, dove nonostante i divieti imposti dalla giunta militare si continua a scendere in piazza contro il golpe del primo febbraio. Gli attivisti hanno ribattezzato la giornata di oggi la “rivoluzione dei cinque due”, con riferimento alla data del 22.2.2021, e l’hanno paragonata alla data all’8 agosto 1988 (i “quattro otto”) quando i militari hanno risposto con una dura repressione, uccidendo e ferendo centinaia di manifestanti. Manifestazioni oceaniche si sono viste oggi nella principale città del Paese Yangon, nella capitale Naypyidaw e a Mandalay, come riporta Frontier Myanmar. Nelle ultime ore la giunta militare ha avvertito che “la via dello scontro” significherà la morte per molti. Sin dalla mattina le principali arterie di Rangun, Naypyidaw, Mandalay e altre città sono state occupate dai manifestanti, che chiedono il ripristino della democrazia e il rilascio dei prigionieri politici. La mobilitazione è così massiccia tanto che quella odierna potrebbe diventare la più imponente giornata di protesta dal giorno in cui è stato compiuto il colpo di Stato, il 1 febbraio. A Yangon, la città più popolata, le strade vicino alla maggior parte delle ambasciate, soprattutto quelle di Usa e Corea del Sud, sono state bloccate dalle forze dell’ordine. Le marce sembrano ignorare, anzi sfidare la repressione della polizia, particolarmente violenta da qualche giorno e che sabato scorso è costata la vita a due manifestanti a Mandalay. Un alto manifestante è morto a Yangon: la prima a morire era stata la scorsa settimana una ventenne, diventata simbolo della protesta. “I manifestanti ora incitano le persone, soprattutto adolescenti e giovani che si lasciano trasportare dalle emozioni, a un percorso di confronto in cui subiranno la morte”, si legge nel comunicato dei militari trasmesso dalla televisione di stato birmana. Tom Andrews, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Birmania, si è detto preoccupato per questo messaggio “minaccioso” e ha avvertito la giunta militare su Twitter che, a differenza di quanto accaduto durante le sanguinose rivolte del 1988, le azioni delle forze di sicurezza vengono registrate e quindi dovranno assumersi la responsabilità di quanto accadrà. Con le tre vittime delle ultime ore, ci sono già quattro morti nelle proteste: venerdì infatti è stato confermato il decesso di Mya Thwe Thwe Khine, la giovane colpita alla testa da un Naypyidaw e che non si è mai ripresa; ieri, domenica si sono svolti i suoi funerali nella capitale amministrativa e anche quello è stato occasione di una forte protesta, nel ricordo di una giovane che ormai è diventata il simbolo delle manifestazioni.