Come funziona il 41bis, il carcere duro che umilia il detenuto di Valerio Spigarelli Il Riformista, 21 febbraio 2021 Lo intitolammo Barriere di vetro il libro che la Camera Penale di Roma pubblicò nel 2002 sul 41bis. Nella quarta di copertina scrivemmo “questo libro non è imparziale: la tesi che propugna è che tutto questo non dovrebbe avere cittadinanza in una società democratica”. Il “tutto” che veniva raccontato nel libro erano le storie che avevamo raccolto nei mesi precedenti direttamente dai detenuti allora sottoposti al regime speciale: le condizioni di vita, la segregazione totale, le limitazioni alla socialità, la difficoltà nelle cure mediche, l’impedimento ad ogni sia pur minima manifestazione della personalità, l’impossibilità degli incontri con i familiari. Barriere di vetro erano, e sono, le massicce lastre di vetro antisfondamento che impediscono, negli incontri con i familiari, ogni sia pur minimo contatto fisico; una misura di sicurezza volta ad impedire la trasmissione di messaggi, è la giustificazione ufficiale, un simbolo dell’isolamento totale che si impone affinché non passi, a quegli uomini detenuti, neppure un briciolo di umanità. All’epoca dietro a quel vetro stavano anche i figli piccolissimi, poi la pelosa carità legislativa ha permesso, nel periodo successivo, che fino ai dodici anni possano toccare i genitori; compiuti i dodici anni fine della concessione, nessun contatto fisico. Quando leggemmo quei racconti ci trovammo di fronte alla natura vera, e cruda, del 41bis, quella di un trattamento disumano, volto a piegare il detenuto al fine di farne un collaboratore; cosa che lo Stato italiano confessò impudicamente quando la questione finì di fronte alla Cedu. Quello che colpiva, nei racconti di gente che pure era ritenuta responsabile di fatti gravissimi, erano i particolari, le vessazioni inutili, i divieti assurdi ed arbitrari, che meglio di qualsiasi altra cosa dimostravano che la sicurezza, totem avvolgente che avrebbe dovuto esserne la giustificazione, in larga misura non era in discussione. C’era quello che ti diceva che nel carcere dove si trovava, al nord, in nome della sicurezza, erano vietati i cappelli di lana, oppure quello che ti raccontava l’assurda selezione dei cibi ammessi e di quelli vietati. “Perché non mi posso cucinare pasta e ceci?” ci chiedeva uno. Roba che non si è modificata, da allora, se anche negli ultimi tempi, uno dei temi affrontati - da quel vero e proprio Tribunale speciale che ha sede a Roma con competenza nazionale sul 41bis - è stata il divieto di acquisto di un certo tipo di cibo perché dimostrerebbe, di fronte non si sa bene a chi visto che campano in reparti isolati, un supposto ruolo “dominante” all’interno del carcere. La logica del 41bis è feroce, simbolica e allo stesso tempo infantile: se mangi bene rivendichi il tuo ruolo di boss, persino se leggi libri e giornali la cosa diventa sospetta. Del resto ogni forma disumana di detenzione è fondata su di una idea infantilmente rozza della pena. È inutile a fare distinzioni: il 41bis serve a far star male il detenuto, ad umiliarlo, è una forma di vessazione legalizzata, chi dice il contrario sa bene di mentire. Tra cento anni starà sui libri di storia come un arnese di cui anche la magistratura si vergognerà; oppure come l’antesignano della galera del futuro per i cattivi, e i suoi apologeti celebrati come salvatori dell’umanità. Dipende da quanto sarà incattivita la società del futuro. Per ora registriamo che i grandi criminali, anche se ridotti a larva umana come Provenzano, anche se incapaci di riconoscere i propri familiari dietro a quella sbarra di vetro, come Cutolo, devono crepare al 41bis. In caso contrario qualche jena manettara, che campa in televisione e in parlamento di populismo giudiziario, inizierebbe la solita danza macabra al cui rituale i sinceri democratici non si possono sottrarre perché hanno paura di quella pubblica opinione, ancor più feroce, che loro stessi hanno creato. La sicurezza c’entra poco, si può tutelare in altra maniera, il 41bis è un totem simbolico, la bandiera del volto duro che lo Stato non può ammainare senza perdere la faccia. Il 41bis è una contraddizione dello Stato di diritto ma una società democratica dovrebbe saper fare i conti con le sue contraddizioni. Tempo fa sono stato all’Asinara, carcere oramai chiuso che si mostra ai turisti come un sito archeologico. Arrivati in uno dei padiglioni la guida ci ha spiegato che lì vigeva la regola del silenzio: ai detenuti non era permesso parlare. Ognuno poteva immaginare cosa comportasse la violazione della regola. Poi ci ha illustrato le meraviglie di un altro padiglione, chiamato all’epoca la discoteca, che doveva il suo nome al fatto che era illuminato giorno e notte da enormi fari così da impedire ai detenuti di distinguere l’uno dall’altra. Lo raccontava col sorriso sulle labbra, senza alcun imbarazzo: eppure quelle erano torture, secondo la definizione delle convenzioni internazionali già nel ‘900. In nome della lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, persino al contrasto del fenomeno dei sequestri di persona, la società italiana, il mondo giuridico, la magistratura, permisero quelle pratiche per decenni. In pochi si opposero, i soliti radicali e qualche altra anima bella. La grande stampa no. Nessuno fece pubblicamente i conti con quella stagione neppure dopo, anche quando i casi di Triaca, o quelli che avevano riguardato la vicenda Dozier, avevano dimostrato che in Italia lo Stato torturava nel senso vero e proprio del termine. Nessuno, anche quando il rischio era passato, come invece succede nelle altre grandi democrazie. Oggi si fa lo stesso col 41bis e la lettura dei grandi giornali di informazione, l’ascolto dei tg lo conferma. È morto il Boss, ci dicono, magari qualcuno ci racconta come era ridotto, niente di più. Nessuno che dica, per come è morto, che non c’era senso a tenerlo al 41bis se non quello simbolico della deterrenza. Tra qualche anno i nostri figli andranno a visitare vecchi carceri e reparti 41bis, vedranno le telecamere e i microfoni accesi ventiquattrore al giorno, i cortili angusti con le grate ad oscurare il cielo, oppure scenderanno qualche piano sottoterra senza aria né luce. E ci sarà una guida che col sorriso sulle labbra racconterà che lì è morto un grande boss ridotto talmente male da non riconoscere la propria figlia; quello che non dirà è che, assieme a lui, a quei tempi, in Italia era morta la pietà. Tra le lettere di quel libro semiclandestino che pubblicammo venti anni fa, ce ne era una che mi colpì. Narrava che in carcere girava la notizia che un magistrato di sorveglianza aveva permesso al cane di un detenuto per reati comuni di far visita al padrone per avere una carezza, perché il cane stava morendo di dolore per il distacco. “Vorrei che mio figlio fosse trattato come quel cane” si concluse quella lettera. Penso che lo stesso pensiero sia venuto anche alla figlia di Cutolo. Raffaele Cutolo al 41bis anche nella tomba: pericoloso anche da morto, vietati funerali di Sergio D’Elia Il Riformista, 21 febbraio 2021 È morto Raffaele Cutolo, l’uomo che ha “vissuto” tre vite. La prima l’ha bruciata nell’unica scuola che ha potuto frequentare, quella del crimine, un po’ per strada e un po’ in prigione. La seconda l’ha consumata tra delitti e castighi in un carcere “normale”. La terza vita è stata per lui solo castigo, una pena senza fine espiata al carcere “duro”, fino alla morte. È morto lì dove era stato sepolto vivo nel 1995, nella tomba dei “mafiosi per sempre”, gli irredimibili, marchiati a vita dalla pena di infamia che si commina a chi perde la dignità di persona, la speranza, il diritto a una vita civile e sociale. Con Maurizio Turco ho incontrato Raffaele Cutolo a Belluno nel 2003, alla fine di un giro tra i dannati del 41bis da cui è poi nato il libro Tortura Democratica. Il regime di carcerazione dura era coperto da un segreto di stato ferreo e la nostra ispezione era considerata una minaccia grave allo Stato e alla sicurezza pubblica. Non potevamo sapere chi erano i detenuti speciali, quanti erano e dove erano detenuti. Da una audizione in parlamento dell’allora capo del DAP sapevamo solo che il 41bis non albergava “al di sotto di Secondigliano”. Avevamo un punto di partenza e con il già visto e sentito dire dei detenuti potevamo creare la nostra catena di Sant’Antonio che, anello dopo anello, ci avrebbe portato a scoprire la mappa delle Guantanamo italiane. Cutolo era stato isolato in un’area del carcere riservata tutta a lui. Avevano creato un deserto dove il tempo sembrava essersi fermato, in un luogo non luogo dove regnavano il silenzio, la monotonia e la monocromia tipiche del braccio della morte. In questo deserto chiamato civiltà, quintessenza della privazione della libertà, nel nome della lotta alla mafia, Cutolo era sottoposto a un dominio pieno e incontrollato, un regime di isolamento che lo Stato ha riservato ai nemici dello Stato. Le “regole di Mandela”, adottate dall’ONU nel 2015 in onore dell’ex Presidente del Sudafrica, Nelson Mandela, definiscono isolamento il confinamento per 22 ore o più senza significativi contatti umani e proibiscono perché inumano l’isolamento prolungato, quello superiore e 15 giorni. L’abbandono di Raffaele Cutolo sul binario morto del sistema penitenziario italiano si è protratto senza interruzioni per oltre 25 anni. La privazione di significativi rapporti umani è durata un quarto di secolo. In questo stato, sono stati compromessi sensi umani fondamentali come la vista e l’udito, sono state interdette facoltà sociali minime come il dialogo e la conoscenza. Gli è stato proibito dire al detenuto nella cella di fronte “buonanotte” prima di dormire o “buon appetito” prima di mangiare perché tali convenevoli avrebbero potuto veicolare un messaggio mafioso. Proibito vedere, proibito sentire, proibito parlare, proibito pensare, proibito amare. È questo il “codice penitenziario del nemico” che vige ormai da trent’anni nel nostro Paese. Neanche l’età avanzata fino alla soglia naturale del trapasso, una malattia che lo ha scarnificato fino a ridurlo a un mucchietto di ossa, una mente quasi del tutto offuscata, hanno salvato Raffaele Cutolo da un castigo eterno da scontare in un buco, in catene, in isolamento. È morto come un cane, solo e abbandonato nella sua cuccia, senza il conforto di una carezza, una parola, un addio da parte di una persona da lui amata, in un luogo a lui caro. Un giudice gli ha negato perfino il differimento provvisorio della pena perché il boss, pur moribondo, rappresentava ancora un pericolo, non aveva perso tutto il suo carisma, rimaneva ancora un simbolo del male nell’immaginario collettivo. Cosa si pensa di fare, ora che è morto, del suo corpo per cancellare il valore simbolico della sua persona? Dopo aver vietato il funerale, gli negheranno anche una degna sepoltura? Lo seppelliranno in un’altra “area riservata”? Una tomba del 41bis anche al cimitero? Oppure faranno come con Bin Laden, bruceranno il suo corpo e spargeranno le ceneri nell’Oceano? Con Cutolo è morto anche lo stato di diritto, lo stato di grazia e giustizia, il senso cristiano di pietà. Il diritto non è un lusso, è un bene essenziale. È il limite insuperabile, la soglia sacra dell’inviolabile che noi Stato, noi comunità fissiamo e imponiamo a noi stessi, nel momento in cui dobbiamo affrontare il male assoluto, il pericolo pubblico, la minaccia terribile alla nostra pace e alla nostra sicurezza. Senza il rispetto del diritto lo stato diventa delittuoso, senza il dono della grazia la giustizia diventa disgraziata. Per questo diciamo “no” alla tortura, “no” alla pena di morte, “no” alla pena fino alla morte, “no” alla morte per pena. Con Cutolo, lo Stato ha superato il limite invalicabile, ha violato la soglia sacra, e ha mostrato la sua faccia feroce. Lo ha tenuto in galera per cinquantasette anni, lo ha condannato alla pena di morte mascherata dell’ergastolo, per un quarto di secolo lo ha sottoposto a un regime di tortura, lo ha sotterrato nella fossa comune dei sepolti vivi. Uno Stato che si comporta così non è uno stato forte, è uno Stato feroce e violento tanto quanto il delitto dell’uomo che ha condannato e punito fino alla morte. Povero Stato! Fai letteralmente pena. Povera Italia! Un tempo (ormai lontano) culla, oggi tomba del diritto. Non è un mondo migliore, non è una società più civile ciò che resta dopo la morte di Raffaele Cutolo. Se questo è lo Stato che emerge, se questa è la giustizia che è stata fatta. Cutolo, quando lo Stato è più forte della mafia (se vuole) di Catello Maresca e Antonio Pagliano ilsussidiario.net, 21 febbraio 2021 Carcere di Poggioreale, 7 novembre 1980. Cutolo rientrava da una delle tante udienze del processo alla Nuova Camorra Organizzata. Una guardia penitenziaria si affaccia con aria contrita nella stanza della direzione: “Dottò, Cutolo non si vuole far perquisire. Cosa dobbiamo fare? Sa, noi abbiamo famiglia…”. Giuseppe Salvia, che del carcere di Poggioreale era il vicedirettore, alla cui porta quell’agente aveva bussato, non ci pensò due volte. Uscì dal suo ufficio e fece ciò che prevedeva il regolamento: la perquisizione dei detenuti che rientravano in carcere dopo aver partecipato ad un’udienza processuale. Tra le facce incredule degli agenti di polizia del carcere, cominciò lui stesso la perquisizione a Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata. Il boss rimase spiazzato; fu così sin troppo evidente a tutti i presenti che l’iniziativa del vicedirettore rappresentava per il camorrista che da lì a poco diventerà uno dei veri gestori dei soldi della ricostruzione post-terremoto per via del ruolo assunto nella prima trattativa Stato-mafia per la liberazione dell’assessore democristiano Cirillo, una sorta di sfida. Quel gesto metteva in discussione la sua autorità di boss davanti a tutti. Il boss ebbe persino un moto di stizza e cercò di dare al servitore dello Stato uno schiaffo. Giuseppe Salvia conosceva i codici non scritti della malavita. Lui che il carcere aveva tentato di renderlo anche più umano, sapeva bene che quella perquisizione poteva costargli cara, ma sentiva forte il dovere di riaffermare il potere dello Stato. Il 14 aprile 1981 il vicedirettore, 38 anni, fu ammazzato da un commando di sei uomini, su mandato del boss, mentre tornava a casa. Lo stavano aspettando sua moglie e i due figli, che all’epoca avevano cinque e tre anni. Al suo funerale arriveranno sessantotto corone di fiori. Le invieranno i detenuti comuni come segno di ringraziamento nei confronti di una persona che anche in una istituzione così violenta come il carcere non aveva perso la sua umanità, tenendo sempre alta, al contempo, la bandiera dello Stato che purtroppo a quel sacrificio non ha dato il riconoscimento meritato. Al contrario Raffaele Cutolo ha sempre goduto di uno spropositato e ingiustificato riconoscimento. Un indiscusso uomo di carisma all’interno delle carceri e della sua associazione criminale, ma non solo. Echeggia, ancora ora a distanza di anni, il suo ruolo nella trattativa per la liberazione di Cirillo, come anche il suo famigerato cappotto di cammello sfoggiato ai maxi-processi come segno di eleganza, e poi ancora le canzoni e i libri che lo vedono protagonista, come gli spezzoni del film di Tornatore che su YouTube ragazzi e adulti si passano e condividono. Il tutto rafforzato dalla mitologia del boss che “si è pentito solo davanti a Dio”. Non è questo il messaggio che deve riecheggiare neanche nelle sacche di maggiore emarginazione dei nostri territori. In questi tempi di memorie labili, dimenticanze colpevoli, e riscritture della storia, per quanto possa apparire scontato, è meglio che si ricordi come Raffaele Cutolo fu unicamente il capo di una potente organizzazione criminale. La storia di Cutolo va declinata allora esattamente al contrario, ovvero ribadendo la supremazia dello Stato sui criminali, scandendo a chiare lettere come fare il camorrista non si porta più. Forse banale, ma purtroppo non scontato. Non ci siamo mai sottratti dal parlare di legalità, soprattutto al di fuori di quelli che sono i confini delle nostre professioni. Incontriamo persone di associazioni per discutere delle insidie delle mafie nella società e nell’economia. Abbiamo sempre provato a spiegare che il valore della testimonianza non è importante perché la rende il magistrato “famoso ché ha arrestato boss mafiosi che sembravano inafferrabili”, ma perché quel magistrato (o quel poliziotto, quel professore universitario, quell’imprenditore, chiunque) serve lo Stato, è al servizio dei cittadini ed è non solo colui che garantisce il rispetto delle leggi ma il primo ad esserne soggetto. I mafiosi certificano purtroppo che il principio di rieducazione della pena non può funzionare sempre. E segnatamente che non può funzionare con chi non vuole essere rieducato. Un mafioso, ancorché un essere umano, soprattutto quando commette reati di sangue, merita allora una sola considerazione: dignitose condizioni di detenzione e un trattamento umano in una cella di un carcere. Null’altro. È l’unico rispetto che lo Stato, nella sua magnanima autorevolezza, deve concedere a questi soggetti. Da cristiani, ci auguriamo che Cutolo fosse riuscito ad ottenere almeno il perdono di tutti i familiari delle vittime cadute per le sue drammatiche decisioni criminali. A partire proprio dal barbaro assassinio di Giuseppe Salvia, il vicedirettore del carcere di Poggioreale, lui sì un simbolo, un esempio di servitore dello Stato. Lo Stato con Cutolo ha mostrato, dopo pagine opache ed inquietanti anche di presunti accordi, di essere diventato autorevole, mettendolo in carcere al 41bis e riducendone al lumicino la sua potenzialità criminale. Lui, Cutolo, il suo ergastolo su questa terra l’ha scontato. Ma ci sono decine, centinaia di persone, che hanno avuto loro congiunti uccisi per mano di assassini legati a quest’uomo, che ogni giorno che il buon Dio concede loro di vivere su questa terra, soffrono per aver visto persone che amavano trucidate in maniera crudele per i folli piani criminali di Cutolo come di altri volgari criminali che come lui vivono sepolti da ergastoli che sconteranno. Onorare le vittime innocenti di questi criminali, significa ricordare a tutti noi che la legislazione antimafia di questo Paese è stata scritta col sangue di magistrati, donne e uomini in divisa, preti, operai, giornalisti, italiani e migranti stranieri. La strage dei cittadini africani per mano di Giuseppe Setola e i suoi sodali è una cosa che non scorderemo mai. Onorare le vittime delle mafie significa pretendere di mantenere in vita norme come il 41bis e altre che consentono alla magistratura e alle forze di polizia giudiziaria di eradicare il fenomeno mafioso. Perché la mafia non si deve contrastare ma recidere come si fa con un cancro. È solo questione di volontà politica. Come è questione di volontà politica la certezza e la dignità della pena, che deve tendere alla rieducazione del detenuto, ed assicurare condizioni dignitose di espiazione a tutti. Lo Stato è più forte della mafia. Se vuole. Utile allora ricordare come i mafiosi siano stati spesso arrestati e stanati dentro fogne, tuguri o buchi sotto terra. Tutta la loro potenza è una vita da schifo, sempre braccati. La loro ricchezza è una tana sotto terra dove nascondersi. La loro strada in questa vita, come diciamo spesso ai giovani delle scuole, conduce ad un certo punto ad un bivio: viale del riposo eterno (un cimitero, ucciso per strada) o una cella con la privazione dell’unica ricchezza che abbiamo, la libertà. “Io ultimo a vedere il boss. Ammise l’omicidio Salvia” di Antonio Mattone Il Mattino, 21 febbraio 2021 Ho incontrato Raffaele Cutolo il 22 luglio 2019 nel supercarcere di Parma. Se si escludono i familiari, il legale e gli agenti penitenziari della cittadina emiliana, sono stato l’ultima persona ad averlo visto, a incrociare il suo sguardo, a parlare con lui. Mi aspettavo di riconoscerlo seppure fosse invecchiato: avevo impresse nella mente le immagini che lo ritraevano nelle aule dei tribunali, che lasciavano trasparire la sua arroganza e la sua saccenteria. Tuttavia, con mia grande sorpresa, mi sono trovato di fronte un anziano smagrito, con le mani tremanti e deformate dall’artrite reumatoide, un po’ trasandato con la barba incolta e i capelli spettinati. Devo dire che se non avessi saputo chi fosse, non l’avrei riconosciuto. Avevo chiesto di incontrarlo per raccogliere una sua testimonianza sul delitto di Giuseppe Salvia, il vicedirettore del carcere di Poggioreale, su cui stavo scrivendo un libro che ricostruisce la vicenda dell’omicidio e che uscirà a breve, in occasione del 40mo anniversario della sua morte. Per questo delitto Cutolo fu condannato all’ergastolo per esserne stato il mandante, anche se fino ad allora si era professato sempre innocente. Per parlare con me, il boss ha dovuto rinunciare ad un colloquio con i familiari. Infatti i condannati al regime del 41bis possono avere solo un incontro al mese, indipendentemente se si tratti di parenti o altre persone. E in ogni caso la conversazione avvenne attraverso un citofono, poiché una grande vetrata separa il detenuto dal visitatore. Devo dire che più delle trasformazioni somatiche, mi sono chiesto se il “professore” avesse maturato ripensamenti rispetto alla sua condotta criminale. Oltre all’omicidio Salvia, ho approfondito altri delitti di cui si era macchiato, ed ero rimasto impressionato dall’efferatezza di atroci crimini, come quelli portati a termine nel carcere di Poggioreale la notte del terremoto del 1980, di cui sono entrato in possesso di una dettagliata relazione. Per prima cosa chiesi a Cutolo come stava e lui mi rispose perentorio: “aspettiamo la morte”. Iniziò a raccontarmi della sua condizione di sepolto vivo, che non poteva avere compagni di cella né di passeggio, e gli era persino negato l’ascolto delle canzoni di Sergio Bruni. “Sto sempre nella stanza, non esco neanche per l’ora d’aria”, mi disse. Mi tornò alla mente un appunto ritrovato nella sua cella all’Asinara, dove emergeva in modo drammatico a grande solitudine del boss: “Asinara Natale 1982 giorno 31 l’ultimo dell’anno. Mi ritrovo in una cella nuda. Ho passato l’ultimo dell’anno con un panino e un bicchiere d’acqua”. Quel caldo giorno di luglio, ci volle poco per capire che il vecchio Cutolo manteneva sempre lo stesso piglio, e il suo modo di comunicare non era cambiato affatto. Le battute, il linguaggio allusivo fatto di mezze frasi che lasciavano supporre molto più di quanto in realtà potesse dire, le esagerazioni montate ad arte finalizzate ad impressionare l’interlocutore erano sempre lo stesso copione. Così, dopo aver ammesso in un primo momento di aver fatto tanto male da meritare quella sorte, cambiò improvvisamente versione, affermando che stava subendo una grande ingiustizia. Tuttavia credo fosse ben conscio del fatto che non sarebbe potuto mai uscire dal carcere, piuttosto avrebbe voluto un regime meno duro, dopo 54 anni passati in galera. Il suo cruccio più grande era che da lì a poco tempo non avrebbe potuto più abbracciare la figlia da vicino che stava per compiere 12 anni e, secondo il regolamento, doveva stare dall’altra parte del vetro come tutti gli altri visitatori. Quando seppe che ero volontario a Poggioreale Cutolo mi disse che la criminalità per i giovani era una strada sbagliata, che non portava a nulla: “Uno all’inizio ha l’impressione di avere tanti soldi ma poi finisce male, meglio andare a lavorare”. E ancora: “la camorra non ha futuro, glielo dica a quei ragazzi”. Ma quando gli chiesi se fosse pentito e se avrebbe rifatto le sue scelte criminali non prese le distanze e continuò ad essere ondivago. Alla fine, per la prima volta, ammise di essere stato lui l’artefice della morte di Salvia, dopo averlo negato sia nel processo che al giornalista Joe Marrazzo nella famosa intervista all’interno della gabbia durante la pausa di un processo. Ho spesso ripensato a quell’incontro. Mi sono chiesto come un uomo potesse diventare così crudele e fare tanto male. Il male è davvero un mistero. Forse la fine di un boss come Cutolo può essere emblematica anche per i giovani criminali di oggi perché la sua parabola discendente potrebbe sminuire quella carica attrattiva che ancora mantiene. Il colloquio con Cutolo durò soltanto un’ora. Molte altre cose avrei potuto e voluto chiedergli. il vecchio boss mi salutò accennando a un sorriso e se tornò alla sua vita di ergastolano. Ispettorato cappellani: oggi nelle carceri “La luce della libertà” agensir.it, 21 febbraio 2021 Ceri pasquali dipinti dai detenuti per le cappelle delle carceri italiane: è quanto si propone il progetto artistico formativo dal titolo “La luce della libertà” che avrà inizio oggi, 21 febbraio, prima domenica di Quaresima, per iniziativa dell’Ufficio Ispettorato dei cappellani delle carceri italiane in collaborazione dell’associazione “Liberi nell’arte” (affiliato Acli del Molise) e dell’Associazione Caritas Regina Pacis. L’iniziativa si svolgerà presso la Casa di Reclusione di Paliano (Fr). I ceri, si legge in un comunicato, verranno dipinti interamente a mano da alcuni detenuti del carcere di Paliano che frequenteranno un corso di formazione guidati da un maestro d’arte figurativa. “Sarà un cammino di reinserimento e di Luce - afferma don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei Cappellani e ideatore del progetto - con lo scopo di indicare la strada e annunciare ai detenuti dentro le mura di un carcere, che il Cristo Risorto ha spezzato le catene della schiavitù, ha liberato l’uomo dal suo male, ha rialzato chi è caduto, ha ridonato Misericordia e Tenerezza all’umanità avvolta nelle tenebre. Anche in questo tempo di pandemia, di distanziamento e di solitudine - soggiunge il Capo dei Cappellani - non possiamo ignorare un mondo nascosto e sofferente, dove le persone che hanno sbagliato, stanno pagando il loro errore con la restituzione della pena. Il mondo ha bisogno di essere più umano, libero da pregiudizi che uccidono la speranza e il futuro di uomini già emarginati e macchiati dal reato commesso”. Il percorso di formazione “La luce nella libertà” vedrà, perciò, impegnati i detenuti del carcere di Paliano in attività artistico manipolativo “per perseguire finalità di reinserimento, ma anche come esempio concreto per rilanciare un appello alla giustizia, che non deve essere solo punitiva ma anche capace di sanare le ferite e di colmare il vuoto di tante vittime della società”. L’avvio del progetto artistico formativo, infine, è anche occasione per augurare, da parte dei 230 cappellani, al nuovo Governo, guidato da Mario Draghi, il cammino di rinascita dentro il “sistema di insicurezza sociale per migliorare la condizione delle carceri” da lui indicata. Al nuovo ministro della Giustizia, Marta Cartabia “giunga l’augurio per un appassionato lavoro Istituzionale e di collaborazione”. Al Provveditorato del Lazio-Abruzzo-Molise e alla Direzione del Carcere di Paliano vanno i ringraziamenti per aver sostenuto e promosso il progetto. La Cartabia parte col piede sbagliato e fa melina sulla riforma Bonafede di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 21 febbraio 2021 La riforma Bonafede della prescrizione è stata giudicata senza appello, dalla intera comunità dei giuristi italiani -con due rispettabilissime, ma isolatissime eccezioni - uno sgrammaticato obbrobrio senza capo né coda, un autentico oltraggio all’art. 111 della Costituzione. Quella voce unanime delle Università di tutta Italia ne aveva peraltro, oltre ogni altra censura di merito, sottolineato la grottesca disfunzionalità. Eliminato lo stimolo a concludere la celebrazione dei processi prima che si consumi la prescrizione del reato per il quale si procede, i ritmi già pachidermici dei processi di impugnazione raddoppieranno, a dir poco. Non vi sarà più una sola ragione al mondo per la quale le Corti di Appello di tutta Italia dovranno caricare i propri ruoli di udienza come avviene oggi. A ora di pranzo, tutti a casa. Comprendo bene l’esigenza politica di sminare il percorso del nuovo Governo, e della sua inedita e variegata maggioranza, già ai suoi primissimi vagiti. Aggiungo che nessuno di noi - parlo del vasto e maggioritario fronte avverso a quella riforma- ha mai investito più di tanto su emendamenti soppressivi infilati alla bene e meglio in un Milleproroghe. E nella lettera con la quale l’Unione delle Camere Penali ha inteso rivolgere al nuovo Ministro di Giustizia, professoressa Marta Cartabia, i più sinceri e partecipi voti augurali, abbiamo preannunciato proposte volte ad affrontare in modo organico, serio ed il più possibile condiviso un concreto percorso riformatore, al quale infatti stiamo già lavorando. Ma rinviare, come leggiamo all’esito di un incontro informale del Ministro con la sua maggioranza, la riforma della prescrizione “nell’ambito di un più organico disegno per la riforma del processo penale”, crea più di un allarme. Da un lato, questa tempistica equivale alla passiva accettazione proprio della logica propagandistica di quella riforma, che aveva esattamente invertito l’ordine logico degli interventi. Se le cose hanno un senso, viene prima la riforma dei tempi del processo penale, poi - semmai, e se davvero dovesse residuarne la necessità - la riforma della prescrizione, cioè dell’unico rimedio al momento conosciuto per porre un argine agli effetti devastanti del processo penale infinito. Il secondo - e più grave- motivo di preoccupazione, riguarda poi profilo, identità e natura di questa ventilata “riforma del processo penale”. Leggo le entusiastiche dichiarazioni dell’On. Bazoli (Pd), e ne deduco purtroppo che detta riforma sarebbe quel coacervo di pericolose, velleitarie insensatezze compendiate nella legge delega, sempre recante la firma del Ministro Alfonso Bonafede. Una riforma che, letteralmente dissipando il patrimonio di proficue intese raggiunte al Tavolo ministeriale tra Avvocatura e Magistratura, ha praticamente abbandonato la strada maestra del potenziamento dei riti alternativi (e della udienza preliminare), perché non spendibili a cospetto dell’elettorato populista e della sua grancassa mediatica; vale a dire l’unica soluzione utile, d’altronde comune a tutti i sistemi di rito accusatorio, per incentivare le soluzioni negoziali del processo penale, riducendo in modo drastico e massiccio, il numero dei dibattimenti. In cambio, quella legge delega si balocca nel fissare termini di durata predeterminati (con logiche di calcolo misteriose) per i vari gradi di giudizio, senza tuttavia alcuna sanzione processuale in caso di mancato rispetto di quei termini (ma solo improbabili, discutibili e per di più del tutto teoriche sanzioni disciplinari per i magistrati). Come per gli yogurt: “da consumarsi preferibilmente entro”. Al contrario, quella legge delega è infarcita di interventi volti a limitare gravemente garanzie difensive del cittadino, e a mortificare le connotazioni peculiari del giusto processo (ipertrofia delle letture degli atti rispetto alla oralità ed alla immediatezza della prova, solo per dirne una). Una riforma che si accompagna a modifiche dell’ordinamento giudiziario di portata letteralmente devastante, quali un sistema elettorale destinato ad affidare il Csm interamente nelle mani dei Pubblici Ministeri, ed il definitivo affidamento agli uffici di Procura delle scelte di priorità delle politiche criminali. L’auspicio dunque è che si ridiscuta interamente quella delega, ripartendo dagli originali approdi del Tavolo, così irresponsabilmente abbandonati. I penalisti italiani rilanceranno con forza la propria iniziativa politica, con il conforto della migliore Accademia, per porla al servizio di un’autentica volontà di riforma liberale e costituzionalmente orientata della prescrizione e della durata irragionevole dei processi nel nostro Paese. Non possiamo credere che il Ministro Cartabia abbia inteso davvero dare alla politica giudiziaria del nuovo Governo in materia di giustizia penale il segno e la prospettiva della sopravvivenza di questa controriforma della prescrizione, e di questa legge delega di riforma del processo penale. Per fare questo, d’altronde, bastava di gran lunga il precedente governo. Pisapia. “Il premier ce la farà a riformare la giustizia. Toghe ora impotenti” di Stefano Zurlo Il Giornale, 21 febbraio 2021 L’avvocato: “Vero, ci saranno resistenze ma sarà svolta nel segno del garantismo”. Non ci proveranno. “Sono consapevole dei rischi che Draghi corre e non mi nascondo le difficoltà ma credo che questa volta le riforme arriveranno”. Giuliano Pisapia, eurodeputato ed ex sindaco di Milano, guarda con cauto ottimismo all’eterno cantiere della giustizia tricolore. Avvocato Pisapia, perché Draghi dovrebbe riuscire dove tutti gli altri hanno fallito? “Ci sono condizioni eccezionali, mai verificatesi finora, per adeguare finalmente gli standard del nostro Paese alle aspettative dell’Europa. Proprio l’Europa ci garantirà risorse finora inimmaginabili. Diciamo pure che Draghi risponde a queste attese ed è l’espressione di un momento storico unico e irripetibile”. Ottimista? “No, realista”. Ma il partito dei giudici non si metterà di traverso? “Io non l’ho mai chiamato così”. Lo chiami come vuole, cosa accadrà? “Abbiamo un premier e un ministro della giustizia, Marta Cartabia, autorevolissimi e al disopra delle parti”. Certo, la Cartabia non è Bonafede ma proprio questo potrebbe essere un ostacolo. “No, guardi, la situazione non è più quella di dieci o vent’anni fa. La magistratura non ha più l’interesse e nemmeno la forza per bloccare o rallentare un processo di rinnovamento che è necessario. Di più: magistratura e avvocatura vogliono voltare pagina e la Ue, se non dovessimo procedere, ci taglierebbe i fondi. Davvero, siamo davanti a un’occasione storica e confido che non la sprecheremo”. Il diavolo però sta nei dettagli: cosa succederà se il governo cambierà la legge sulla prescrizione, bandiera dei duri e puri? “Ci saranno resistenze e difficoltà, ovvio, ma mi pare difficile che si possa mandare all’aria una svolta nel segno del garantismo e dell’efficienza”. Cosa si aspetta dal governo? “Intanto il potenziamento, grazie al Recovery Fund, della pianta organica, insomma, del numero dei magistrati, e degli operatori del settore. E già questo è o sarebbe un passaggio storico”. Poi? “Vedo tre versanti. Il potenziamento dei riti alternativi, la riforma del processo penale che non può durare all’infinito, e quella del Csm, per eliminare lo strapotere delle correnti. Ma non solo: pensi alla Sezione disciplinare del Csm: giudici che giudicano altri giudici. Un meccanismo che dev’essere corretto, portando la Disciplinare all’esterno di Palazzo dei Marescialli, mantenendo la sua piena autonomia e indipendenza. E, ancora, mi lasci dire che Draghi ha toccato un altro nervo scoperto come quello delle carceri: è un tema drammatico, il sovraffollamento pare insuperabile, come una malattia endemica, ma anche qui il ministro Cartabia ha mostrato una sensibilità altissima. Quando era alla Consulta ha proseguito il viaggio nelle carceri italiane iniziato dai suoi predecessori. Dovremo anche promuovere la giustizia riparativa: non è detto che la pena debba essere scontata tutta in galera, puntando invece al reinserimento sociale”. Ma i partiti non si metteranno di traverso? “Per andare avanti non ci vuole l’unanimità. E poi Draghi non ha bisogno del consenso elettorale. È stato chiamato per aiutare il Paese in una situazione difficile e non credo che misurerà il proprio appeal nelle urne. I suoi obiettivi sono chiari e farà di tutto per raggiungerli”. La doppia verità del diritto di Matteo Cosenza Corriere del Mezzogiorno, 21 febbraio 2021 In una città - Napoli - in cui, lo si voglia o no, il bene e il male dialogano, si ignorano, confliggono, convivono, avviliscono, inorgogliscono, commuovono e indignano, è quasi naturale che la contraddizione sia nelle cose. La nostra, intesa anche oltre i suoi confini daziari, è una città dialettica dove si discute perennemente e ciò è positivo quando conseguentemente si opera, molto meno quando l’approdo è un vuoto deprimente. Capita così che eventi diversi avvengano quasi contemporaneamente e, mentre fanno discutere, dividono. In questi giorni la morte di un boss della camorra, il “mitico” Raffaele Cutolo, che ormai dovrebbe essere argomento di storia e non di cronaca, ha fatto riemergere ferite evidentemente mai sanate. Intanto tiene banco un’altra morte, meno famosa benché più tragica per la giovanissima età dello sventurato, quella di Ugo Russo, per via del murale che lo ritrae. Persone e esistenze imparagonabili, un vecchio e un ragazzo, un incallito boia grondante del sangue delle sue vittime e un nostro figlio, nato in un contesto che lo ha segnato per sempre, che gioca con la sua vita come pensa si debba fare non avendo altri modelli e educazione a cui ispirarsi. Dunque, che cosa le lega? Noi. Cutolo ha fatto del male. Dovrebbe essere una verità accettata da tutti ma sono in tanti, specie nel suo territorio, a sostenere ancora che ha fatto del bene. E per bene evidentemente si intende quella sorta di “reddito di cittadinanza delinquenziale” distribuito a migliaia di camorristi e alle loro famiglie con i denari estorti con la violenza, gli omicidi e una sadica crudeltà. La lezione è chiara. Passa il tempo ma continuano a convivere due mondi, con intrecci inevitabili, dove la cognizione del giusto, del diritto, della legalità, del rispetto tra le persone è diversa, a dimostrazione inconfutabile che vi è una responsabilità o, se vi piace, una colpa della società e dello stato per non aver debellato, con il lavoro, la formazione, la rieducazione, l’assistenza ai più deboli e la prevenzione, le cause di questa macroscopica contraddizione. Non è un caso che non un boss ma un ragazzo, Ugo, abbia succhiato fin dalla nascita il latte infetto di questa cultura e abbia bruciato la sua esistenza chiamandoci in causa tutti, buoni e cattivi, le “due Napoli” di Rea. Di tragico in queste storie c’è un altro aspetto: le modalità della morte. Cutolo dichiarò di essere già “sepolto” nella sua cella separata da tutti, dal mondo di fuori e anche da quello di dentro. Da mesi era malato e i giudici avevano deciso che in carcere poteva godere delle cure necessarie. Che sia morto di setticemia inquieta. Per parlarci chiaro, dobbiamo distinguere. Chi scrive, se avesse dovuto decidere da solo quando la gente veniva squartata, decapitata e i suoi organi divorati, sarebbe stato tentato, solo per un attimo, dall’invocare il “borghese piccolo piccolo” di Monicelli, ma lo Stato non può e non deve essere vendicativo bensì giusto e garante del diritto di tutti, Cutolo compreso. Per Ugo vale a maggior ragione questo bisogno: che sia fatta “verità e giustizia”. Da un anno si aspettano l’una e l’altra. E si fa bene a rivendicarle anche nell’interesse dell’agente che l’ha ucciso perché si sappia se ha ecceduto o ha fatto solo il suo dovere piuttosto che un’ombra debba opprimere la sua vita e quella della sua famiglia chissà per quanto tempo. Dividersi, quindi, per un murale ha senso? Occorrerebbe riflettere sull’ambiguità di quel messaggio per quanto le tre parole indichino una richiesta e non un’esaltazione, ma quel volto, insieme peraltro a analoghi dipinti e altarini sparsi per la città, possono significare anche altro nella percezione collettiva soprattutto perché stabilmente esposti in uno spazio pubblico. Ecco, se il bisogno legittimo e condivisibile di “verità e giustizia” è preminente ci sono mille altri modi, che sono ben noti e praticati, per soddisfarlo in modo chiaro, preciso, inequivocabile. Quel povero ragazzo è morto perché nessuno o, forse, pochi gli avevano indicato un altro percorso, perché farne oggetto di divisione e, quindi, renderlo vittima una seconda volta e rischiare di trasformarlo nel protagonista involontario di un messaggio equivoco? Valga per lui, come per chiunque altro, lo stato di diritto, uno stato che sia giusto sempre e soprattutto se, malauguratamente, dovesse punire un suo rappresentante. E poi, murale per murale, se ne faccia uno per Franco Della Corte, il vigilante ucciso nella stazione di Piscinola da tre ragazzi quasi coetanei di Ugo per prendersi la pistola e rivenderla per un pugno di euro. Ma è chiaro che c’è bisogno di ben altro che di pareti dipinte. Troppa fretta nel dare giudizi, il rischio è calpestare la verità di Paul Renner Corriere dell’Alto Adige, 21 febbraio 2021 Ho ritrovato nei giorni scorsi gli atti giudiziari di un processo in cui ero stato coinvolto per l’”omicidio Costa”. Pongo tra parentesi il termine “omicidio”, perché tale ipotesi alla fine in realtà si rivelò fallace. L’anziano signor Costa era stato colpito da un infarto miocardico e il presunto omicida è stato prosciolto dopo anni di carcere. In passato era stato arrestato un giovane di Sinigo durante le ricerche del tristemente noto “mostro di Merano”, un serial killer che solo dopo ulteriori vittime si è poi rivelato essere ben altra persona rispetto al sospettato. Chi non ricorda inoltre la triste e paradossale odissea di Enzo Tortora, amato presentatore televisivo, che venne addirittura accusato di essere uno spacciatore di droga. Seppur poi pienamente scagionato, il carcere e il fango piovutogli addosso gli hanno rovinato la vita e hanno fatto insorgere una grave malattia che lo ha condotto in breve alla morte. In questi giorni è di nuovo Alex Schwazer a emergere - pare - come vittima di un ignobile complotto, ordito ad alti livelli per metterlo fuori gioco ed eliminare in tal modo un avversario pericoloso sul piano atletico. Scrivo “pare”, perché i sommi vertici arbitrali dello sport, irridono alla decisione del Tribunale di Bolzano. Che lo sport non sia un terreno ideale e di innocenza lo dimostrano anche le contrarietà che negli scorsi giorni hanno cercato di inibire le prestazioni della nostra amata “Luna Rossa” nel corso delle regate della Prada America’s Cup in Nuova Zelanda. Per salire a un livello ancora più elevato di giudizi temerari, ricordo che proprio a Pasqua si farà memoria di come lo stesso Gesù sia stato accusato di essere un bestemmiatore e corruttore delle sane regole della sua religione e per tali ragioni sia stato messo a morte dopo un processo sommario. L’elenco di errori di valutazione e di giudizio potrebbe continuare all’infinito. E a questo riguardo mi pare ovvio trarre la conclusione che in fondo, che lo ammettiamo o no, siamo tutti colpevolisti, o almeno troppo veloci nel formulare giudizi in base a prove non del tutto acquisite o non adeguatamente valutate. Mamma ripeteva spesso che la fretta è cattiva consigliera. Ce ne accorgiamo sempre di nuovo, quando paghiamo lo scotto di decisioni errate, prese con quella velocità che il nostro tempo ci vuol imporre, ma che spesso va a scapito della verità. Non è infatti “la prima risposta quella che conta”, bensì quella effettivamente giusta. Non è dunque vero che il colpevole sia sempre il maggiordomo. E pure i “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie, ci dovrebbero aiutare a non farci ingannare da ciò che pare ovvio, a non rinunciare a percorrere tutte le vie di indagine possibili per risolvere un delitto, a trarre conclusioni solo a biglie ferme. La legge ci fornisce poi un altro importante criterio che va sempre osservato, ovvero quello della presunzione di innocenza. Una persona ha diritto a essere considerata e trattata come tale, finché non ne sia dimostrata in modo inequivocabile la colpevolezza. “I processi si fanno in tribunale”, viene ripetuto spesso in questi giorni. Cerchiamo allora di attenerci a questo sano principio. Ci aiuti anche un antico proverbio romano il quale osserva ironicamente che “la gatta frettolosa, ha fatto i gattini ciechi”. Sbagliato concedere i benefici a Graviano di Giancarlo Caselli La Stampa, 21 febbraio 2021 Su L’Espresso oggi in edicola Lirio Abbate rivela che un boss del calibro di Filippo Graviano ha voluto mettere a verbale, in un interrogatorio, la sua decisione di “dissociarsi dalle scelte del passato”. Francesco La Licata (su La Stampa di ieri) vi vede una “specie di apripista per tornare a un vecchio pallino di Cosa nostra: la dissociazione”. Puntuale e sagace commento, da riferire ad alcuni dati di fatto. Primo: mentre il “pentimento” comporta la collaborazione con lo Stato, dichiarando quanto si conosce di utile per le indagini (così riparando almeno in parte i danni causati), nulla di tutto questo nella dissociazione, che si realizza senza parlare di niente e di nessuno, si tratti di mafiosi o di complici. Un semplice proclama, senza segni esteriori di apprezzabile concretezza per poter valutare che non sia un bluff o un escamotage per uscire da una situazione difficile. Secondo: da sempre Cosa nostra è alle prese con il complesso problema dei rapporti fra i mafiosi ancora in libertà e quelli detenuti. L’offensiva dello Stato dopo le stragi ha riempito le carceri, e il problema per i mafiosi è diventato una profonda ferita aperta che occorre sanare. Di qui il periodico riemergere di iniziative favorevoli alla “dissociazione”: una pedina fondamentale della scacchiera su cui ancora oggi gioca il gruppo dirigente dell’organizzazione. Il riconoscimento legale della “dissociazione” offre infatti varie prospettive: uscire dal 41bis, qualche ergastolo in meno, qualche permesso in più e soprattutto salvare i propri beni dalla confisca. In sostanza, un progetto funzionale al riconsolidamento di Cosa nostra. In questo contesto può essere interessante ricordare una vicenda raccontata da Alfonso Sabella nel libro Cacciatore di mafiosi (Mondadori, 2008). Nel maggio 2000, la Dna sottopone al ministro della Giustizia (all’epoca Piero Fassino), all’esito di alcuni colloqui investigativi con cinque capi-mandamento detenuti, la possibilità di farli incontrare in carcere con altri quattro boss per concordare una pubblica dissociazione da Cosa nostra. Nel contempo si chiede di valutare - in sede politica - la possibilità di riconoscere dei benefici ai dissociati. Fassino investe della questione il Dap che allora io dirigevo. A mia volta interesso Sabella, capo dell’ispettorato, e l’iniziativa viene bloccata. Qualche tempo dopo (a capo del Dap era stato nominato Giovanni Tinebra) Sabella, ancora direttore dell’ispettorato, scopre che Salvatore Biondino (fedelissimo di Riina) aveva avuto l’incarico di trattare nuovamente la dissociazione con lo Stato, ma stavolta per conto di tutte le organizzazioni mafiose italiane. Sabella lo segnala per iscritto a Tinebra (che il giorno dopo sopprime l’ispettorato) e comunica ogni cosa al nuovo Guardasigilli Castelli, che per tutta risposta lo “licenzia” dal Dap. Sia come sia, è comunque dimostrato il forte interesse delle mafie a ottenere benefici in cambio di una presa di distanza dall’organizzazione escludendo però ogni forma di collaborazione processuale. Vero è che nel 1987 una normativa siffatta è stata varata per i terroristi, ma ciò è avvenuto quando il pericolo del terrorismo era ormai irreversibilmente esaurito. Mentre la mafia, purtroppo, è tuttora un fenomeno criminale in gran “forma”. Sicché eventuali “riconoscimenti” sarebbero - a dire davvero poco - del tutto fuori luogo in quanto controproducenti. “Depistaggi e complicità hanno impedito la verità sull’uccisione di mio padre” di Paolo Comi Il Riformista, 21 febbraio 2021 Parla la figlia di Borsellino. “Il Palamaragate ha stoppato le indagini della Procura generale della Cassazione sul più colossale dei depistaggi: quello relativo alla morte di mio padre!”. Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia a Palermo il 19 luglio del 1992 a soli cinquantuno anni, parla secco, senza diplomazie. A novembre del 2019 si è concluso in appello a Caltanissetta il quarto processo per la strage di via D’Amelio. La Corte ha confermato la sentenza di primo grado, condannando all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage, e a dieci anni i falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Anche in appello i giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato al falso pentito Vincenzo Scarantino. L’uccisione di Borsellino non fu dovuta alla trattativa tra Stato e mafia, come avevano scritto i giudici di Palermo nel 2018, trattandosi invece di un “mosaico pieno di ombre, dove erano coinvolti altri gruppi di potere”. In particolare, le dichiarazioni di Scarantino, poste a fondamento dei precedenti processi sulla strage e di svariate condanne all’ergastolo, sono false in quanto frutto “di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, realizzato da “soggetti inseriti negli apparati dello Stato”. Nelle settimane scorse il gip di Messina ha archiviato le posizioni di Carmelo Petralia e Annamaria Palma, i due pm di Caltanissetta che avevano indagato sull’attentato, e poi erano stati accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. I due magistrati, secondo l’iniziale accusa, in concorso con tre poliziotti tuttora sotto processo, avrebbero depistato le indagini sulla strage, suggerendo a falsi pentiti, fra cui appunto Scarantino, di accusare dell’attentato persone ad esso estranee. La falsa verità, alla quale per anni i giudici hanno creduto, costò la condanna all’ergastolo a sette persone. Le false accuse dei pentiti vennero poi smontate dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. Fiammetta Borsellino, perché il Palamaragate ha bloccato gli accertamenti della Procura generale della Cassazione? Quando nel 2017 venne pronunciata la sentenza del Borsellino Quater che svelò il depistaggio del falso pentito Scarantino, indicando “le anomalie nelle condotte” dei magistrati che si erano occupati di lui, iniziai subito a chiedere che si facesse luce su come era stata gestita l’indagine sulla morte di mio Padre. Cosa aveva evidenziato? Imprecisioni e irregolarità processuali e investigative a non finire. Ad iniziare dalla mancata verbalizzazione del sopralluogo nel garage dove era stata tenuta la Fiat 126 che venne poi imbottita di tritolo per l’attentato. Senza contare l’uso scellerato dei colloqui investigativi. Denunciò l’accaduto? Chiesi che il Consiglio superiore della magistratura si occupasse di queste anomalie rinvenute dai giudici nisseni nell’operato dei magistrati che avevano svolto le indagini sulla strage di in cui morì mio padre. Risposta? Nessuna. E allora? Mi sono più volte rivolta anche al capo dello Stato Sergio Mattarella nella sua qualità di presidente del Csm. Una precisazione: in che anno siamo? 2018 inizio 2019. Questo Csm? Si. Ha chiamato l’attuale vice presidente David Ermini? Certo. Cosa le disse? Mi riferì che senza un’azione della Procura generale della Cassazione la Sezione disciplinare non avrebbe potuto fare alcunché. All’epoca il procuratore generale della Cassazione era Riccardo Fuzio. Esatto. Fuzio mi convocò, insieme a mia sorella Lucia, a Roma per rendere dichiarazioni. Come andò l’interrogatorio? Mi sono subito resa conto che Fuzio non sapeva nulla della vicenda e degli sviluppi processuali e così ho parlato per oltre un’ora di tutto quello che riguardava le anomalie nell’inchiesta, che fu condotta a ridosso della strage e di come nessuno si fosse accorto di un pentito che era palesemente falso. Una ricostruzione dettagliata? Si. Ho riferito fatti che i magistrati dovevano sapere e invece li chiedevano a me. Veda un po’ lei. Poi? Vorrei ricordare che la dottoressa Ilda Boccassini, all’epoca dei fatti in servizio in Sicilia, scrisse una lettera che mise in un cassetto, chiedendo di lasciare la Procura perché era convinta che Scarantino fosse un bluff. Purtroppo nessuno dei magistrati allora nel pool con lei le volle dare retta. Se avesse consegnato quella lettera, forse, le indagini avrebbero preso una piega diversa… Ovvio: sono passati 25 anni per poter avere una sentenza che scrive quello che qualcuno già aveva rilevato nel 1992. Torniamo a Fuzio, soprannominato “baffetto” da Luca Palamara, il magistrato che nel 2017 “soffiò” il posto a Giovanni Salvi, come si legge nel libro dell’ex zar delle nomine al Csm. Fuzio disse che avrebbe inviato la mia deposizione al procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone (in pensione dallo scorso settembre, ndr). Sa se è arrivato il verbale? Non so se quel verbale arrivò mai sul tavolo del procuratore Bertone e né se Bertone lo abbia mai letto. A parte questo? Fuzio mi garantì anche che una delegazione della Procura generale della Cassazione sarebbe andata nella Procura nissena per questa ragione. E anche su questa circostanza non sa dirmi nulla? No. Si sente presa in giro? Mi sembra il minimo. Insieme a mia sorella avevo solo chiesto che il Csm facesse il suo dovere di indagare quei magistrati che una sentenza del 2017 aveva stabilito avessero agito in modo irregolare. Peggio ancora se pensiamo che la Corte d’Assise d’Appello ha confermato interamente quello che scrissero i giudici di primo grado. Veniamo al Palamaragate, nato da una fuga di notizie da parte di tre quotidiani sull’indagine di Perugia. Fuzio, finito nelle intercettazioni di Palamara e ora indagato per rivelazione del segreto d’ufficio insieme a Palamara venne costretto a luglio del 2019 alle dimissioni. Cosa successe? Mi scrisse una mail pietosa con cui si dichiarava dispiaciuto di non aver potuto fare nulla. Il punto però è che era proprio lui a dover fare qualcosa, almeno come ci disse Ermini. E non fece nulla. Ancora conservo quella mail e ricordo bene la rabbia che quel tentativo di ispirare il mio pietismo mi diede. Però, signora Fiammetta, la Procura generale della Cassazione non è il calzolaio che se il titolare va in pensione il negozio chiude… Certo. Spero che chi c’è ora (Giovanni Salvi, ndr) trovi il tempo per farmi sapere che fine hanno fatto le mie deposizioni. Rieti. Covid, focolaio nel carcere. Almeno 10 detenuti contagiati Corriere di Rieti, 21 febbraio 2021 Segnalato un focolaio Covid nella casa circondariale nuovo complesso di Rieti. Una decina di detenuti sono infatti risultati positivi ai test sul coronavirus, effettuati nelle scorse ore e resi necessari dopo che alcuni detenuti hanno accusato i sintomi. Attivato, dunque, il protocollo, per evitare che il contagio si allarghi al resto della popolazione carceraria del complesso reatino. Torna, così, la questione sollevata nei giorni scorsi sulle vaccinazioni in carcere; le strutture sono definite fragili, ma la somministrazione delle dosi ancora non è partita né per i detenuti - nonostante i continui richiami e appelli del Garante - né per la polizia penitenziaria, che non sta seguendo il percorso delle forze armate, già ampiamente immunizzate nei giorni scorsi. La Cgil con una lettera aveva segnalato la disparità di trattamento, richiedendo un avvio celere delle immunizzazioni per gli agenti di Polizia Penitenziaria. Nella lista diramata da Asl, però, non figurano le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, e questo aveva sollevato lo scontento dei sindacati. Come la Fp-Cgil Rieti Roma: “Sono iniziate le vaccinazioni del personale appartenente alle forze dell’ordine con esclusione della Polizia Penitenziaria - si legge nella lettera che Ciro Di Domenico della Cgil ha inviato ad Asl, al Provveditore Regionale del Lazio, Abruzzo e Molise e alla direzione del carcere di Vazia - non comprendiamo la motivazione di codesta scelta discriminante, in quanto a nostro parere, non conforme alle direttive del Ministero della Salute, che non lasciano spazio a interpretazione. Infatti, il Ministero della Salute, in collaborazione con la struttura del Commissario straordinario per l’emergenza Covid, Iss e Agenas, hanno elaborato un documento di aggiornamento al DM del 02/01/2021, documento denominato “Le priorità per l’attuazione della seconda fase del piano nazionale vaccini Covid-19”. Tale documento - conclude Di Domenico - indica la somministrazione del vaccino alle forze di polizia senza indicazioni di esclusioni, inoltre indica come comunità a rischio le realtà penitenziarie. Alla luce di quanto evidenziato e in rispetto delle direttive emanate dal Ministero della Salute, si chiede di rivedere celermente la mancata somministrazione del vaccino alla Polizia Penitenziaria”. Bari. Agente penitenziario suicida, la Procura apre l’inchiesta di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 21 febbraio 2021 La denuncia di parenti e amici: “Insulti a sfondo sessuale”. Saranno gli accertamenti formalmente avviati dalla Procura della Repubblica di Bari a fare chiarezza sul suicidio dell’agente penitenziario di 56 anni di Bitritto che tre giorni fa si è tolto la vita con la pistola di ordinanza. Il pubblico ministero inquirente Daniela Chimienti ha formalmente delegato i carabinieri ad acquisire documenti e dichiarazioni di familiari e amici nel tentativo di ricostruire l’accaduto ed individuare eventuali responsabilità. Nel fascicolo di inchiesta, al momento, non è stata formulata alcuna ipotesi di reato in attesa dell’esito degli accertamenti investigativi. Solo allora il magistrato deciderà se archiviare l’indagine o, al contrario, procedere per istigazione al suicidio. La pm inquirente, in modo particolare, ha chiesto ai carabinieri di controllare le lettere e i referti medici custoditi da un conoscente del 56enne, che attesterebbero la sua condizione di disagio. Non solo. La Procura della Repubblica di Bari ha chiesto ancora di verificare eventuali minacce subite dall’uomo o di raccogliere testimonianze di persone informate sui fatti. Così da ricostruire, in particolare, le ultime ore di vita del poliziotto e capire le ragioni che lo hanno spinto a commettere il suicidio. Alcuni amici e familiari della vittima avrebbero riferito di aver ricevuto alcune confidenze in cui l’uomo diceva di essere “da anni vittima di bullismo a sfondo sessuale” e di sentirsi “perseguitato da alcuni colleghi che lo insultavano”. Intanto l’avvocato Antonio Portincasa che rappresenta la madre ha chiesto che venga fatto un incontro in Procura tra gli inquirenti, la madre dell’agente e l’avvocato Antonio Lascala, amico della vittima. Un incontro che potrebbe portare a chiarire le circostanze della morte e capire la ragione per la quale “era ancora in possesso della pistola di ordinanza nonostante fosse in aspettativa” ha detto Lascala, presidente dell’associazione “Gens Nova” di cui il poliziotto faceva parte. “Sono stato il suo unico amico vero negli ultimi 20 anni - ha detto nei giorni scorsi Lascala spiegando di aver raccolto le confidenze dell’agente sulle “vessazioni subite, uno stalking a sfondo sessuale” e ha ricordato come alcuni colleghi lo tormentassero con l’etichetta di omosessuale. Tra i documenti custoditi nella sede dell’associazione, l’avvocato ha ritrovato cinque lettere che risalgono agli anni 2005 2006, quando l’agente era in servizio a Verona, nelle quali “diceva di sentirsi perseguitato, di essere insultato perché aveva sempre vissuto con i genitori” e perché “non aveva una fidanzata”. L’uomo viveva con la sua famiglia per assistere il padre malato e usufruendo della legge 104 poteva permettersi di assentarsi dal lavoro. Poi, nell’ultimo periodo, aveva chiesto un periodo di aspettativa. Da quando nel 2008 è stato trasferito nel carcere di Turi ha smesso di scrivere lettere, ma le sue confidenze agli amici e ai familiari sono continuate. Fino a tre giorni prima di togliersi la vita. Gorgona (Li). In pensione dopo 34 anni l’educatore del carcere di Stefano Taglione Il Tirreno, 21 febbraio 2021 “Non sono mai voluto andare via”. Dal 1987 ha lavorato fianco fianco con agenti e detenuti. “All’inizio è stato pesante, poi ho solo apprezzato questa vita”. Per 34 anni è stato “l’educatore di Gorgona”. “Non è un lavoro che mi sono scelto io, è arrivato per caso, con un concorso pubblico. Poi, dopo un inizio molto difficile, come a molti è venuto il Mal d’Africa, a me è subentrato il Mal di Gorgona. E non me ne sono più voluto andare”. L’isola dell’Arcipelago toscano si è vestita a festa ieri per l’ultimo giorno di lavoro di Giuseppe Fedele, 67 anni, psicologo e dipendente dell’amministrazione penitenziaria che da oggi è ufficialmente in pensione. Con lui si sono confidati migliaia di detenuti, “che sono contento di aver potuto aiutare, spero di averlo fatto nel migliore dei modi e essermi reso utile per tutti loro”. È stato un punto di riferimento per la colonia penale agricola. Fin dal 1987, da quando ha preso servizio per il ministero della Giustizia. Il suo primo e ultimo incarico quello a Gorgona, visto che non ha mai chiesto di essere trasferito altrove: perché il Mal di Gorgona, con il Mal d’Africa, lo ha colpito dopo pochi mesi di permanenza sull’isola. “Stavo qui per 20-22 giorni consecutivi - racconta - poi per una settimana tornavo a casa. Io sono originario di Taranto, in Puglia, ma sono andato a studiare all’università a Roma. All’inizio, quando rientravo sulla terraferma, tornavo nella Capitale. Poi non riuscivo più a sopportare questa grande differenza fra il caos della metropoli e la pace dell’isola, quindi mi sono trasferito a Marina di Cerveteri, una via di mezzo insomma. È vicina a Livorno, alla fine, dato che c’è il treno regionale che collega direttamente le due stazioni. Ci sto bene, ora tornerò lì”. Nel suo futuro ci sarà ancora un po’ di Gorgona, anche se non totalmente: “Sto cercando di capire come tornare, forse da volontario, devo parlarne con il direttore Carlo Mazzerbo - racconta Fedele - anche se questi primi sei mesi di pensione li passerò a curarmi. Cammino un po’ male, devo farmi un’operazione, finora a causa del lavoro non l’ho potuto fare quindi ne approfitterò ora anche andrò via da qui”. Subito dopo la riabilitazione studierà per diventare diacono: “È una passione...”. aggiunge. Ieri mattina, con la motonave Superba, gli amici e il direttore Mazzerbo gli hanno fatto una sorpresa, con un buffet, regali (alcuni vini) e tanto affetto: “Quest’ultima, insieme alla loro stima, è la cosa più bella che mi potessero donare - prosegue Fedele - perché mi ha fatto capire che mi vogliono veramente. Gli agenti e i detenuti con i quali ho parlato in questi giorni da una parte mi hanno confidato di essere dispiaciuti per la mia partenza, dall’altra di essere felici perché vedono che cammino un po’ male e finalmente avrò il tempo necessario per curarmi e riprendermi. Adesso l’importante è la salute: dedicherò i prossimi sei mesi della mia vita a una completa riabilitazione. Poi farò il volontario da qualche parte e terminerò gli studi da diacono”. In un simbolico passaggio di consegne ieri ha ceduto la campanella - come fanno i presidenti del Consiglio in Italia - all’educatrice livornese Alessia La Villa, che lavora nel carcere delle Sughere, ma già in passato lo ha sostituito a Gorgona durante i suoi periodi di assenza, dato che per una settimana - “Ma anche otto giorni”, dice Fedele - rientravo a casa mia, a Marina di Cerveteri, per poi ritornare a Gorgona per svolgere il mio lavoro. “Rivedo in lei l’entusiasmo che avevo negli anni Ottanta - prosegue - e sono contento che prenda il mio posto. Il ruolo di educatore è molto importante, è con lei è assicurato. È molto competente e lo saprà svolgere nel migliore dei modi”. Per lui è stato duro il primo periodo: erano gli anni Ottanta. “Non c’erano tante motovedette, per cui i collegamenti con Livorno erano veramente pochi - racconta - Ho sofferto tanto, non posso negarlo, ed è stata dura. Poi con il tempo mi sono abituato e ho adorato questa terra. Con il tempo sono aumentate anche le corse marittime per Livorno, quindi era parecchio più facile riuscire a tornare a casa. Avrei potuto essere trasferito se lo avessi chiesto, ma non ho mai voluto. Qui mi sono sempre sentito a casa e ora lascerò Gorgona a malincuore. È arrivato il mio tempo, quella della pensione, ed è tempo di lasciare. Adesso dovrò dedicarmi alla salute, che purtroppo in questo periodo ho un po’ trascurato. Ma a Gorgona tornerò perché è sempre (e sarà sempre) parte del mio cuore”. Scuola e formazione, liberiamoci dalla burocrazia asfissiante di Don Antonio Mazzi Corriere della Sera, 21 febbraio 2021 Esige presenze, firme, orari, norme, programmi eseguiti come avessimo a che fare con dei seminaristi. Rendendo vana tutta la fatica fatta per inseguire i ragazzi. Non vorrei esagerare, come sempre, con le mie annotazioni, saltando le righe e dimenticando i verbi con i loro tempi, i loro condizionali e con i gerundi compresi. Parto dal fuori gioco per arrivare al goal. Penso ai giovani. Uno dei metodi più semplici, anche se più “friabili” per recuperare in parte la povertà, la solitudine il malessere e la depressione che stanno distruggendo molti dei nostri figli, credo sia nella riapertura dei normali luoghi di vita: gli stadi, le palestre, le piscine, le piste di sci, gli oratori, le scuole, i centri di formazione professionale regionali, i teatri, e le molteplici attività giovanili. So bene che buttare sul tavolo questa ipotesi, quasi fosse primaria, crea critiche a non finire, dalle più banali alle più scientifiche. Basterebbe il coronavirus per giustificare abbondantemente tutte le reazioni. Faccio un passo laterale, esplicitando una curiosità. Questo cosiddetto mondo civile e sviluppato sta scoprendo il verde e avendolo cementato con l’aiuto di illustri architetti, l’ha riposizionato liturgicamente, sui davanzali dei grattacieli perché il verde, appena scoperto, è già diventato di moda (lo ha detto perfino il Papa, partendo dall’Amazzonia). Nel contempo i nostri ragazzi che al mattino, si facevano quattro giri nel Parco o andavano nei centri sportivi all’aperto o a sciare, li abbiamo multati e rinchiusi. Evviva le zone! Adesso faccio un passo indietro. Per aprire le porte delle nostre case, dei centri sportivi e musicali è indispensabile che i genitori facciano un bel lavoro educativo fin dall’infanzia e insegnino ai figli che esistono diritti, doveri, sensi del limite, uso corretto dei luoghi, il rispetto delle normative sociali e soprattutto una mentalità rivolta alle prospettive future. Qui purtroppo non ci siamo e quindi le mie sono chiacchiere, belle ma chiacchiere, perché laddove manca l’educazione, non si può ipotizzare un uso corretto della libertà. Mentre biascicavo tra me e me queste mezze eresie e sentivo morsicarmi lo stomaco, leggo un articolo del grande saggio e vecchio (meno di me) Giuseppe Guzzetti. Nel quale articolo faceva una proposta straordinaria al suo ex collega Draghi, dicendo: “Butta il cuore oltre l’ostacolo e trasforma il Ministero della Istruzione in Ministero della Comunità Educante. Urge attivare tutte le agenzie educative del paese per favorire il pieno sviluppo di tutti i minori”. E portava come esempio i programmi del “Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile”, nato nel 2016. Con i miei “gioielli” proprio approfittando di questo Fondo sono partito, alla mia maniera, con alcune esperienze molto affascinanti. Titolo: “Pronti Via!”. E sono in atto cinque carovane, viaggi in mountain bike, due barche a vela all’Isola D’Elba, e alcuni campeggi che vorrei alla fine trasformare in “villaggi scolastici”. Coinvolti molti ragazzi! Purtroppo devo dire ancora una volta, da imbestialito, che siamo inciampati in una burocrazia totalmente inadatta e incapace di elasticizzare i normali regolamenti, con lo scopo di renderli attirabili per queste situazioni. Sta gente (parlo da veneto) nata sulle sedie degli uffici governativi esige presenze, firme, orari, norme, programmi eseguiti come avessimo a che fare con dei seminaristi. Tutta la fatica fatta per preparare i poli-docenti a fare scuola in mezzo al mare, o sotto le tende, o sul Passo del Tonale, mentre scende la sera, oppure a rincorrere il più “dolce” dei ragazzi perché stava scappando per farsi una “pera”, e riportarlo nel gruppo, viene rovinata dalla e-mail degli uffici centrali che sottolinea la mancanza di una firma, o perché l’orario previsto sul programma non veniva espletato correttamente. Questi ragazzi ti distruggono… Però, vi debbo dire che purtroppo ho novant’anni, ma se ne avessi solo venti di meno, mi sentireste gridare da Roma a Milano in questi giorni. Per i burocrati dei Palazzi siamo ancora nel paese delle Olivetti 22. Se questa idea del Ministero della Comunità Educante, fino a ieri applicata in pochissime realtà e quasi derisa perché puzzava da “preti”, passasse da esperienza precaria ad un nuovo tipo di pseudo ministero sperimentale, presso la Presidenza del Consiglio liberato dalla burocrazia, dal binomio costante pubblico-privato e rivolto all’intero mondo giovanile, educativo, formativo, scolastico, associativo, sportivo, universitario e scientifico, non assisteremo più a storie che partendo dalla droga arrivano al cyber bullismo, al suicidio, all’omicidio, all’autodistruzione di se e tantomeno all’emigrazione di 250 mila giovani negli ultimi dieci anni. Qualcuno ha citato Calamandrei con la sua storica frase: “Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento, della Magistratura e della Corte Costituzionale”. Mi fermo! Però se è vero che il nuovo Governo sarà quello del cambiamento, chiedo e supplico perché Mario Draghi ponga questo sogno tra la priorità delle priorità. Diritti civili: omofobia, ius soli, fine vita devono avere una legge di Giovanna Casadio La Repubblica, 21 febbraio 2021 Cirinnà: “Temi divisivi, ma non si fermi la lotta alle discriminazioni”. “Almeno tutto ciò che è già in discussione in Parlamento va votato”, dice la senatrice Pd. Al Senato c’è da votare la legge Zan contro l’omofobia. I diritti dei bimbi delle famiglie arcobaleno non possono essere ancora ignorati. Il “fine vita” ha bisogno di norme, come chiesto dalla Consulta. E poi c’è la legge sulla cittadinanza - lo ius soli o meglio ius culturae - che si fermò a un passo dall’approvazione definitiva già con il centrosinistra. “Ma può un governo europeista non mettersi al passo con l’Europa?”, ragiona Monica Cirinnà. Senatrice del Pd, “madre” della legge sulle unioni civili, responsabile per i diritti civili del partito, all’indomani della fiducia al governo Draghi Cirinnà rimette sul tavolo l’agenda dei diritti civili: “Almeno tutto ciò che è già in discussione in Parlamento va votato”. Sono temi divisivi? “Sì, ma non può esserci una moratoria su questo, perché i diritti civili sono la vita quotidiana, perché la lotta alle discriminazioni non si ferma”. Aggiunge: “La prosecuzione della legislatura è un’opportunità da non perdere, per restituire alla politica - in Parlamento - una centralità che inevitabilmente si indebolisce nel quadro di un governo di larghe intese come quello presieduto da Draghi. Il Pd deve sostenere con forza le proprie parole d’ordine, ridarsi una identità riconoscibile per essere credibile e autorevole agli occhi della sua base” E quindi la legge Zan “contro omolesbobitransfobia, misoginia, abilismo” è stata approvata alla Camera con il sì anche di un pezzo di Forza Italia e l’ostruzionismo della Lega e di Fratelli d’Italia. È ferma in commissione Giustizia al Senato. Stava per arenarsi con l’accusa di punire reati di opinione. È stata modificata per rassicurare tutti. “Basta un giorno per approvarla a Palazzo Madama, blindando il testo arrivato”, sempre Cirinnà. Con il leghista Simone Pillon, ora collega di maggioranza, sarà uno scontro senza esclusione di colpi. Cirinnà: “L’assenza di una legge contro l’omotransfobia porta a gravi carenze di tutela: penso all’assoluzione di Simone Pillon da parte della Corte d’Appello di Perugia, per le sue gravissime frasi contro l’associazione Omphalos - da lui accusata di adescare giovani! - ritenute non diffamatorie”, rimarca Cirinnà. E poi c’è “il fine vita”: la legge è incardinata alla Camera, ma c’è stato un palleggio se doveva proseguire a Montecitorio o al Senato. Tante le proposte. Dopo la sentenza della Consulta che raccomandava tra l’altro il Parlamento a una norma, si pensa a un disegno di legge snello sull’aiuto medico a morire in stato terminale. Più complessa la questione della legge sulla cittadinanza. Se ne parla da vent’anni, ma sotto i colpi delle destre, l’Italia è rimasta ferma allo ius sanguinis. I bambini figli di stranieri nati in Italia non sono cittadini italiani, ma si trovano nel limbo della non cittadinanza. Tutto bloccato, dopo lo stop finale durante il governo Gentiloni e proprio a un passo dall’approdo. “Facciamo che sia l’aula delle Camere a stabilire chi vince e chi perde questa partita dei diritti, ma lo ius soli o meglio lo ius culturae deve riprendere il suo cammino. E poi Salvini non è diventato europeista, pro euro. Potrebbe convertirsi anche su leggi che sono semplicemente europee”, invita Cirinnà. Sono rimasti in sospeso i diritti dei bambini delle famiglie arcobaleno. Durante l’approvazione della legge sulle unioni civili, fu stralciato l’articolo sulla step child adoption. “Ma la questione di come tutelare la condizione delle bambine e dei bambini figli di coppie omogenitoriali non è rinviabile”, avverte Cirinnà, ponendo anche un altro tema: l’adozione da parte dei single. Da affrontare anche la legge sul cognome della madre. Anche questa vicina all’approvazione nella passata legislatura, è finita in un nulla di fatto. Le destre si sono opposte, contestando di volere smantellare la famiglia. “Per gli oscurantisti il concetto di famiglia è quella patriarcale”, attacca la responsabile dei diritti del Pd. Nell’agenda dem anche altri provvedimenti di legge, come quello sull’affettività in carcere. Cirinnà insiste: “Se il Pd vuole tornare a vincere, deve farsi riconoscere. Dobbiamo intensificare l’azione sui diritti civili, sull’inclusione, sul riconoscimento di pari dignità sociale a tante differenze che ancora sono assenti e misconosciute”. Immobile da 10 anni, l’Asl mi nega il suicidio assistito di Mario C. La Stampa, 21 febbraio 2021 Caro direttore, non ho più niente della mia vita precedente. Prima dell’incidente facevo un lavoro che amavo, avevo una vita attiva, ero un ragazzo pieno di interessi, di passioni. La vita è bella e va goduta fino alla fine, ma solo fino a quando si ha la possibilità di viverla con dignità. Per me non è più così. Per me questa non è più vita, ma pura sopravvivenza. Per questo ho fatto la richiesta di accesso al suicidio assistito. E ho scelto di farla in Italia, per poter essere circondato dai ai miei affetti, fino alla fine. Non riesco a muovere più nessuna parte del mio corpo. Per ogni piccola azione come lavarmi i denti, farmi la barba, mangiare, bere, lavarmi, vestirmi, ho bisogno di qualcun’altro. Negli ultimi anni, i dolori sono aumentati, prendo antidolorifici tutti i giorni. Spesso sono costretto a legarmi sul letto per evitare di cadere dal letto a causa delle contrazioni. In questi 10 anni non mi sono mai pianto addosso, ho tentato la riabilitazione in tantissimi centri per riottenere un po’ di autonomia, ma nulla è servito. E ora mi ritrovo a vivere una vita, che non è più vita. Non voglio vivere altri 10-20-30 anni in queste condizioni. Non voglio subire ancora per tutti questi anni che ho davanti a me, l’umiliazione che il mio corpo venga toccato da altri. Solo in chi si trova nelle mie condizioni può capire cosa vuol dire. Non sono depresso, sono sempre rimasto lucido e non sono abbandonato a me stesso: i miei familiari, i miei affetti, l’assistenza, la fisioterapia, mi sono sempre stati accanto, non mi è mai mancato niente. Ognuno però deve avere il diritto di scegliere se andare avanti così, con dolori e sofferenze quotidiane, oppure no. È una scelta dolorosa ma, io preferisco andarmene con dignità piuttosto che vivere altri 40 anni di una vita che non mi appartiene. Ho dunque fatto testamento biologico, nel quale dichiaro di rifiutare accanimento terapeutico e chiedo cure palliative e sedazione profonda nel caso dovessi diventare incapace di esprimere la mia volontà. Ho chiesto all’azienda sanitaria di verificare le mie condizioni, come previsto dalla Corte Costituzionale, per poter accedere al farmaco per il suicidio assistito. La risposta è stata negativa, nonostante io sia tenuto in vita da trattamenti sanitari. Ho quindi deciso di fare ricorso contro questa decisione del Sistema sanitario. Spero che il tribunale intervenga in mio aiuto, ma chiedo in ogni caso al Parlamento di discutere la legge sull’eutanasia, per essere liberi di decidere senza dover andare per tribunali. Droghe. In Italia da SanPa a oggi è cambiato tutto: solo la politica è rimasta immobile di Rita Rapisardi L’Espresso, 21 febbraio 2021 Cresce l’età media degli eroinomani trattati nei Sert, mentre tra i più giovani si diffonde sempre più la cocaina o il multi-consumo. E le tossicodipendenze non sono tutte uguali, ma vanno trattate ognuna con il suo metodo. Per questo lo slogan “No alla droga” che piace alla destra serve a poco. I tempi di SanPa sono lontani, quelli delle catene, del consumo alla luce del sole, del conteggio delle overdosi (1600 nel 1996, 373 nel 2019). Quel tempo in cui la figura del padre-padrone, che in assenza dello Stato, si era incarnata in Vincenzo Muccioli, fondatore di San Patrignano, era l’unica soluzione per “salvare quei ragazzi”. Dopo quarant’anni il successo della serie Netflix, diretta da Cosima Spender e ideata da Gianluca Neri, dimostra che c’è stato un pezzo di storia d’Italia non raccontato, che andava indagato ed espiato, ma che oggi sembra scomparso dal discorso pubblico. “Bisognerebbe scrivere una Bibbia sui cambiamenti epocali degli ultimi vent’anni: riguardano traffico, produzione, consumo, approccio. Tutto è stato banalizzato: se dici che la marijuana fa male come l’eroina, i ragazzi capiscono solo che allora l’eroina non fa così male. La prima cosa da dire, e che negli anni 90 funzionava, è che le droghe non sono tutte uguali”, racconta Salvatore Giancane, esperienza di trent’anni nel servizio pubblico, che ha provato a “riassumere” il tema in oltre 400 pagine (Eroina, La malattia da oppioidi nell’era digitale, 2014). Si riferisce alla legge che oggi disciplina gli stupefacenti, la “Fini-Giovanardi” del 2006 che, avendo messo sullo stesso piano droghe leggere e pesanti e inasprito le pene per i consumatori semplici, ha causato un sovraffollamento delle carceri, riempite più di consumatori che di narcotrafficanti. “La maggior parte dei detenuti sono tossicodipendenti, ormai da trent’anni. Torna comodo trattarli come spacciatori, ma sono persone che hanno prima iniziato a usare e poi a spacciare”, aggiunge Giancane. Basti pensare che i detenuti tossicodipendenti presenti in carcere alla fine del 2019 sono stati 16.934, pari al 28% della popolazione carceraria. La “guerra alla droga”, come diceva Don Gallo, si trasforma spesso in guerra alle persone. Quello delle droghe è un mondo che muta velocemente e andrebbe monitorato di continuo. Per questo, per legge, è prevista una Conferenza Nazionale sulle Droghe che si dovrebbe riunire ogni tre anni, ma che non è convocata da dodici. L’ultimo importante incontro si è tenuto a Genova nel 2000, ha lanciato innovazioni soprattutto sulle nuove droghe e il mondo della notte. In quell’occasione l’allora Ministro della Salute, Sandro Veronesi, aveva proposto di sperimentare la legalizzazione della cannabis. Rimase inascoltato. Senza la volontà della politica di fare passi avanti, la strada è tortuosa: “A sinistra è un argomento divisivo, a destra si riassume tutto con un “no alla droga” che vuol dir tutto e niente: il discorso non è più se le droghe fanno bene o male, ma come regolare gli interventi”, spiega Claudio Cippitelli, sociologo, ex presidente del Coordinamento Nazionale Nuove Droghe (Cnnd) e socio fondatore dell’Associazione Parsec di Roma. “Serve una partecipazione corale: ambiente sanitario e servizi, ma anche forze di polizia e giustizia. Le droghe non si possono sradicare, ma si possono contrastare le patologie sanitarie e sociali a esse collegate”, aggiunge. L’assenza di una linea politica comune crea grosse distinzioni territoriali: accanto a regioni virtuose, dove l’eccellenza è data spesso dalla volontà di chi è a capo di quel servizio, ce ne sono altre dove regna l’abbandono e la confusione: “Se gli eroinomani non si vedono più, è perché c’è un grande lavoro dei servizi, ma le responsabilità della politica sono enormi”, spiega Giancane. Il titolo V, con la sanità in mano alle regioni, ha poi dato la mazzata finale: “I SerT avevano la loro potenza nel rispondere a un Ministero. Oggi alcune regioni hanno inserito i SerT nel Dipartimento di Psichiatria, che non c’entra nulla, altre nelle cure primarie, alcune invece hanno un Dipartimento delle Dipendenze. La riduzione del danno è nei Lea (assistenza essenziale riconosciuta da SSN, ndr), ma se ne fa poca ed è scritta solo per far bella figura”. I servizi pubblici per le dipendenze sono 562, dislocati in 603 sedi ambulatoriali. Gli operatori sono 6.624, per ognuno dei quali risultano in carico quasi 21 utenti. A questi si aggiungono privato sociale, associazionismo e volontariato. Il 64% è in carico per uso primario di eroina e il 21% di cocaina. Dai tempi di Muccioli il consumo è cambiato: i giovani oggi sono spesso policonsumatori e meno problematici, a differenza dei veterani dell’eroina, che costituiscono la maggior parte degli assistiti dai servizi pubblici. Nel 2019 sono stati 136.320 gli utenti in carico ai SerT, l’età media dell’utenza è di 41 anni, in progressivo invecchiamento: il 58% ha più di 39 anni, contro l’11% del 1999. “Tutto è mutato dagli anni 90, soprattutto per la salute dei consumatori”, ricorda Lorenzo Camoletto, nel gruppo Abele dal ‘94, nel clou dell’eroina, quando a decine morivano di Hiv nelle comunità: “In Europa il consumatore di eroina ha in media 42 anni. Una volta era molto più giovane ed era impensabile arrivasse a 50 anni. Adesso sono tanti i “sopravvissuti” a quella ondata. Noi seguiamo per lo più over 50”. Quello che manca è una risposta specifica per questa fascia d’età, dove ormai la richiesta è più sanitaria, che legata all’inserimento in comunità. La maggior parte dei reduci di quel tempo sono immunodepressi, positivi all’Hiv, con l’epatite o problemi legati al consumo decennale. “Smettiamo di dire che tutti possono guarire, Esistono i tossici cronici, cioè di lunga durata: se una persona ha 25 anni di uso, ricadute continue, cinque anni di comunità: come lo chiamiamo?”, rilancia Giancane. E sulla situazione delle comunità c’è dibattito: “Si ha una disponibilità di 18-19mila posti, ma sono occupati meno della metà - spiega Camoletto - La verità è che sono state abbassate le soglie di accesso, nonostante questo le comunità sono vuote. È un modello da rivedere completamente. La riduzione del danno è applicabile a tutti, ma il drug free, come voleva SanPa, non deve essere per forza obiettivo principale”. Anche l’approccio con i nuovi consumatori necessita nuove regole. L’eroina non è più, almeno non come prima, una sostanza che piega chi la usa e spinge ai margini della società. Si è insediata e ha trovato casa nella vita delle persone, che gestiscono il proprio consumo, alternano sostanze, o mutano l’uso a seconda delle situazioni. Oggi la droga è spesso ricreativa: si usa l’eroina alla fine dei rave, per abbassare l’effetto degli eccitanti, ma anche prestazionale sul lavoro, come l’eroina fumata. Pensare di trattare queste differenze con i metodi di SanPa, senza distinzioni, sarebbe fallimentare. “Si gradua il proprio uso secondo il bisogno: le metanfetamine, ad esempio, sono crollate con il covid, in mancanza dei rave - spiega Cippitelli - La diffusione societaria della cocaina, invece, è così vasta che c’è bisogno di pensare a più approcci, non a un’unica risposta. Bisogna tenere a mente: “una persona, una sostanza, un contesto”. Per questo la distinzione tra droghe è fondamentale, permette di ammettere che non è esiste il “tossicodipendente” come figura granitica da trattare con un unico metodo. “Bisogna uscire dallo stigma del drogato: un essere spogliato della personalità, che non ha identità, se non quella di chi usa. Questo ha creato la cultura errata di generalizzare sulle droghe”, spiega Alessio Guidotti, presidente della ItaNPUD, il network italiano delle persone che usano droghe. “SanPa ha illustrato bene questa visione: il tossico come un male morale che andava curato, quel vizio di “salvare i nostri ragazzi”, presente ancora oggi in tante comunità. Ma quale altra malattia è tollerato che sia curata in questo modo? Franco Basaglia è riuscito a ribaltare la visione della malattia mentale, con le sostanze sembra impossibile”. Per questo molti consumatori vorrebbero far parte della discussione intorno alle droghe e dire la loro sui servizi dedicati che, lamentano, con la scusa dell’anonimato, non tengono conto del feedback delle persone: per questo la ItaNPUD ha redatto “Niente su di noi, senza di noi”, una carta dei diritti delle persone che usano sostanze, sostenuta da molte associazioni e SerT. E come spesso accade si guarda all’estero, dove le stanze del consumo sono in molti paesi una realtà storica: “Sono un’urgenza, ma sono bloccate solo per ideologia. A Zurigo si trovano in centro città, tra le ricche banche, noi preferiamo i sottoscala, il degrado”, racconta Cippitelli. A Torino “la stanzetta di Collegno”, un esperimento innovativo in questo senso, è stata chiusa. “Grazie alle stanze si aprono rapporti tra consumatori e operatori sanitari: magari si vuole cambiare il consumo, diminuirlo o sospenderlo per un breve periodo”. In questi posti si fa anche l’analisi della sostanza: per studiare il mercato e i modi con cui viene tagliata la droga, che possono essere a volte letali. “Garantirebbe un diritto alla salute per tutti, che non vuol dire invogliare all’uso”. Come l’eroina terapeutica in Svizzera, data in speciali casi per evitare marginalizzazione e disagio. Un discorso su liberalizzazione completa delle droghe invece sembra impossibile. Molti operatori nei servizi sarebbero d’accordo, seppur con la certezza di trovarsi con nuove problematiche da affrontare. “Le convenzioni internazionali impediscono un discorso di liberalizzazione completa in Europa e Italia, ma si deve spingere per la depenalizzazione totale: qualunque cosa possa mettere il consumatore in condizioni di andare in galera deve essere eliminato”. Altro tema è quello della liberalizzazione della cannabis, discorso spesso rilanciato sulle nostre pagine. Oggi l’uso di marijuana è consentito in Canada, Spagna e in alcuni stati negli Usa, mentre il discorso in Italia è fermo in Parlamento. La proposta di legge per uso ricreativo, portata avanti dai Radicali, è sostenuta anche dal presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone, che la vede come una soluzione per togliere il traffico alla criminalità organizzata. Gli studi, poi, dimostrano che laddove il consumo è consentito, non c’è un aumento esponenziale dell’utilizzo. “Come spieghiamo ai ragazzi l’assoluta tolleranza all’alcool e poi l’arcigna guerra alla cannabis?”, aggiunge Cippitelli che di questo si occupa, ma non ha libertà di parlare di liberalizzazione nei suoi incontri con i giovani: “Si potrebbe farebbe una migliore prevenzione, distinguendo la cannabis dal resto. Il pusher vende sia canapa, che anfetamina e cocaina, e sappiamo che le maggior parte delle overdosi riguardano i giovani”. Nel 2019, solo il 50% degli istituti scolastici superiori ha infatti attuato interventi di prevenzione specifici sui consumi psicoattivi. “Ho coltivato marijuana per curarmi, ora rischio sei anni di carcere” di Rita Rapisardi L’Espresso, 21 febbraio 2021 Cannabis terapeutica, Walter De Benedetto verso il processo. Inizia il procedimento nei confronti dell’uomo affetto da artrite reumatoide che aveva ha iniziato a coltivare cannabis perché il sistema sanitario non gli garantiva la quantità adeguata per alleviare il dolore. “Violato il mio diritto alla salute”. “Non ho più tempo per aspettare i tempi di una giustizia che ha sbagliato il suo obiettivo. Il dolore non aspetta. La mia malattia è andata veloce ed è andata veloce anche la giustizia”. A parlare è Walter De Benedetto, 49 anni, affetto da artrite reumatoide, una malattia degenerativa alleviabile in gran parte con l’uso di cannabis. La giustizia, come la chiama lui, avrebbe dovuto assicurargli il diritto alla cura, quella stessa giustizia che ora lo mette sotto processo. Il prossimo 23 febbraio Walter comparirà per la prima volta davanti al giudice del Tribunale di Arezzo, indagato per coltivazione di sostanza stupefacente, rischia fino a sei anni di carcere. Un’accusa che si è guadagnato dopo aver iniziato a coltivare nel suo giardino le piante di marijuana che gli permettono di alleggerire il grande dolore che la malattia lascia sul suo corpo. Quello che il sistema sanitario gli fornisce è insufficiente: “Quando sto molto male mangio i biscotti, se invece voglio un effetto immediato, ma breve sul dolore (che passa dopo due tre ore) due o tre pipe ad acqua vanno bene - racconta Walter - grazie alla cannabis e grazie ad un’alimentazione sana, la malattia è andata in quiescenza per diversi anni e non era mai capitato”. Da quanto gli è stata diagnosticata la malattia ne sono trascorsi 35, all’epoca Walter era un adolescente di 15 anni e mezzo. La sua condizione comporta una progressiva perdita di mobilità e forti dolori articolari, al momento è impedito nei movimenti e gli è difficile anche parlare. Le prime cure a cui si sottopone negli anni 90 hanno pochi benefici e provocano pesanti effetti collaterali: “Malessere generale, niente energia, vomito, la cura la facevo il sabato e non mi riprendevo per giorni”, ricorda Walter. Questo a causa di potenti antimalarici a cui si abbinavano immunodepressori e chemioterapia: “Stavo morendo di “cure” prima che della malattia”. “Lo Stato mi impedisce cure adeguate per il mio dolore” - Con l’uso della cannabis terapeutica nel 2011 Walter inizia a vedere subito dei risultati. Dopo solo tre mesi abbandona la morfina che pian piano lo stava consumando. Il Servizio Sanitario Nazionale gli garantisce un grammo al giorno: sei confezioni da cinque grammi, che l’uomo ritira una volta al mese alla farmacia dell’ospedale. Con il peggiorare della malattia la quantità prevista non è più sufficiente: la cura passa a due grammi ogni ventiquattro ore (grazie a un farmaco che si chiama Bedrocan), ma alcuni giorni non basta, il quantitativo andrebbe triplicato. L’Asl di Arezzo non riesce a coprire il fabbisogno terapeutico di Walter. L’uomo inizia a spendere di tasca propria, facendosi arrivare trenta grammi dall’Olanda. Nonostante questo, per l’estrazione dell’olio di cannabis, fondamentale per il controllo del dolore, ci vogliono grandi quantitativi. L’unica via è quella della coltivazione privata: “Ho coltivato le piante perché quello che lo Stato mi garantisce non mi basta”. A ottobre 2019, dopo un’irruzione da parte delle forze dell’ordine, scatta la denuncia per lui e un suo amico che lo aiutava a prendersi cura del giardino. “La mia richiesta di aiuto è un atto di accusa contro un Paese che viola il mio diritto alla salute, riconosciuto dalla Costituzione, a ricevere cure adeguate per il mio dolore”, ha detto l’uomo in un appello rivolto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che, in questi mesi, ha ricevuto circa 20mila firme. Walter aveva anche incontrato l’ex Presidente della Camera, Roberto Fico, il quale gli aveva garantito una risoluzione positiva. Ma ad oggi si trova senza terapia e per giunta indagato. Come Walter molti altri: la cannabis prodotta in Italia non basta - La storia di Walter purtroppo non è un caso isolato, sono molti i malati costretti ad arrangiarsi in mancanza di una soluzione garantita dallo Stato italiano. Il ricorso alla cannabis terapeutica in Italia è consentito da 14 anni, ma la richiesta è ben superiore alla produzione nazionale e all’importazione del farmaco. Secondo il report Estimated World Requirements of Narcotic Drugs 2020 dell’International Narcotics Control Board, il fabbisogno italiano è di 1950 kg all’anno. Il decreto ministeriale in merito ha fissato a 500 kg la quantità massima da produrre, individuando come unico soggetto autorizzato alla produzione lo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze (Scfm). Nel 2019 lo Scfm ha distribuito alle farmacie cannabis per soli 157 kg, con un totale di vendite ammontante a 860 kg, di cui 252 kg acquistati dall’Olanda. “Non è un problema solo di Walter - spiega Lorenzo Simonetti, suo avvocato - la filiera degli attori che compaiono in questo caso è molto più ampia del semplice rapporto imputato-tribunale: dal momento in cui la farmacia ospedaliera non procura al paziente la medicina per la quale ha una regolare prescrizione, lasciandolo di fatto senza terapia, il paziente è lasciato solo dallo Stato”. Walter è anche sostenuto dalla campagna Meglio Legale, che da un anno si pone come ponte tra istituzioni e cittadini per aprire un dibattito e discutere i temi riguardanti la legalizzazione della cannabis, con l’appoggio, tra gli altri, di Marco Cappato, Riccardo Magi, Iacopo Melio e Roberto Saviano. “Quello che più dispiace è vedere sul banco degli imputati una persona che cercava solo di alleviare il suo dolore”, ha detto Antonella Soldo, coordinatrice di Meglio Legale. “La mancanza di informazione tra gli operatori sanitari in materia di cannabis terapeutica e la burocrazia farraginosa, che troppo spesso accompagna le regolari prescrizioni, non permette di rispondere adeguatamente al fabbisogno dei malati”. Pena di morte, qualcosa si muove nel mondo. Ma in Italia prende piede l’emotività populista di Giulia Ferri L’Espresso, 21 febbraio 2021 Gli Usa di Joe Biden sono sempre più abolizionisti, Cina e Iran invece i carnefici peggiori. Intanto il nostro Paese si interroga. E le contraddizioni non mancano. Joe Biden è il primo presidente americano apertamente contrario alla pena di morte. Ed è anche per ribadire fino alla fine la distanza tra lui e il futuro presidente, che invece Donald Trump, da luglio 2020, quando sono riprese le esecuzioni federali sospese dal 2003, ha autorizzato tredici esecuzioni. Nessun presidente statunitense ne aveva permesse così tante dal 1896. Un numero senza precedenti se si considera che dal 1988 ne erano state eseguite solo tre. E sono state tre anche negli ultimi venti giorni di Trump alla Casa Bianca. L’ormai ex presidente, mentre distribuiva grazie ad amici ed ex collaboratori, si è affrettato a chiudere il suo mandato presidenziale come aveva iniziato la sua carriera politica nel 1989, quando comprò le pagine dei principali quotidiani newyorkesi per invocare la pena di morte per cinque ragazzi, quattro afroamericani e un ispanico, accusati di aggressione e stupro, ma risultati poi innocenti. Le esecuzioni di Lisa Montgomery, la prima donna dopo 70 anni, affetta da problemi psichici, Dustin Higgs e Cory Johnson, entrambi malati di Covid, hanno riacceso il dibattito sulla pena capitale negli Stati Uniti. Secondo i sondaggi, il favore dell’opinione pubblica per la pena di morte è in calo. E mentre arriva la decisione storica della Virginia, che diventa il 23esimo Stato abolizionista negli Usa e il primo del sud, continuano le pressioni interne perché Biden sospenda immediatamente le esecuzioni federali e commuti le sentenze dei 47 detenuti nel braccio della morte. “Negli Stati Uniti la pena di morte è ancora in vigore perché finora ha prevalso una visione retributiva, in cui la pena è simmetrica rispetto al “male commesso”, un’impostazione che in Europa da molto tempo abbiamo rifiutato”, spiega Mauro Palma, giurista tra i massimi esperti in tema di diritti umani e Garante nazionale per i diritti delle persone private di libertà, che aggiunge: “Gli Stati dove c’è la pena di morte, come gli Usa, sono quelli con il più alto tasso di omicidi: non è vero che è un elemento per diminuire il numero e la gravità dei reati. Non esiste una funzione deterrente”. Tra gli studi più recenti che confermano l’assenza di correlazione tra pena di morte e tasso di omicidi, c’è quello dell’Abdorrahman Boroumand Center, un’organizzazione con sede a Washington, che ha esaminato i tassi di omicidio in undici Paesi che hanno abolito la pena capitale, constatando che in dieci di questi c’è stato un calo degli omicidi nel decennio successivo all’abolizione. Eppure nel mondo sono ancora più di cinquanta gli Stati in cui resta in vigore. Secondo Human Rights Watch (HRW) la Cina continua a essere il peggior carnefice, seppur con numeri incerti, nell’ordine delle migliaia all’anno, seguita dall’Iran che ha giustiziato 233 persone da gennaio a novembre 2020. Le stime fornite dal rapporto 2021 di HRW sullo stato dei diritti umani nel mondo, mostrano invece un cambio al terzo gradino di questo macabro podio: se l’Arabia Saudita, da anni uno degli Stati più inclini all’uso del boia, è passata da 184 esecuzioni nel 2019 a “sole” 15 fino a novembre 2020, in Egitto si è registrato un aumento vertiginoso sia delle sentenze sia delle esecuzioni, con 171 condannati nei primi sei mesi e 83 persone giustiziate tra gennaio e ottobre 2020. In Asia, dove si concentra gran parte dei governi che ancora applica la pena di morte, ci sono Stati come il Bangladesh, che proprio nel 2020 ha deciso di usare la pena di morte per cercare di fermare l’aumento degli stupri. O le Filippine, dove il presidente Rodrigo Duterte sta pensando di introdurre la pena capitale nell’ambito della guerra alla droga che porta avanti dal 2016, e che, secondo il rapporto di HRW, ha già causato la morte di 5903 individui durante le operazioni di polizia. Ancora, secondo il rapporto, il Pakistan è uno degli Stati con più condannati nel braccio della morte, 4600 persone. Non ci sono dati certi su Laos e Corea del Nord, dove però sono state documentate esecuzioni nei kwanliso, i campi di prigionia politica, e neppure sul Vietnam che, come la Cina, considera il numero esatto delle condanne a morte un segreto di stato. In molti dei Paesi non ancora abolizionisti la gamma dei reati per cui è prevista la pena capitale è decisamente ampia. Basti pensare che in Cina sono 46 i reati soggetti alla pena di morte, un terzo dei quali sono di natura economica, come corruzione e uso di tangenti. In altri, come l’Iran, la pena di morte è prevista per omosessuali e adulteri, ma ancor più spesso viene comminata per reati non violenti legati alla droga. Per mettere un punto alla pratica della pena di morte nel mondo è fondamentale il ruolo di quei Paesi di più lunga tradizione abolizionista, Italia in primis. Anche grazie agli sforzi diplomatici portati avanti dalle istituzioni e dalle associazioni di settore italiane, come Nessuno tocchi Caino (NTC) o la Comunità di Sant’Egidio, il Kazakistan il 2 gennaio 2020 ha formalmente abolito la pena capitale. Allo stesso modo, il numero record di 123 Paesi favorevoli alla moratoria per l’abolizione, registrato a dicembre 2020, è un successo almeno in parte attribuibile all’Italia, che nei primi anni 2000 ne propose il progetto e spinse l’Europa a portarla per la prima volta al voto all’Assemblea generale dell’Onu nel 2007. Certo è che l’azione di persuasione di questi Stati può perdere efficacia se intaccata da contraddizioni o se gli impegni a favore dei diritti umani vengono compromessi da decisioni di realpolitik. Lo denuncia Elisabetta Zamparutti, di Nessuno Tocchi Caino, cofirmataria, insieme alle organizzazioni Reprieve e Iran Human Rights, dell’appello rivolto al Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, perché chiarisca la posizione italiana in merito agli aiuti forniti nell’ambito delle operazioni antidroga in Iran. Zamparutti sostiene che sia una “contraddizione inaccettabile per l’Italia quella di essere in prima linea contro la pena di morte, tra i principali promotori della moratoria e poi sostenere regimi tra i più sanguinari e per giunta arrivare a fornire strumenti e supporto a operazioni che condurranno all’esecuzione degli arrestati”. L’appello fa seguito alla notizia apparsa sul Tehran Times secondo cui l’Italia avrebbe incrementato il livello di cooperazione con la polizia antidroga iraniana. Proprio il rischio che l’assistenza europea favorisca l’aumento di esecuzioni in Iran ha portato molti governi europei, tra cui quelli di Austria, Danimarca, Germania, Irlanda e Norvegia, a rifiutare di fornire tali aiuti. NTC riporta che in Iran nel solo mese di dicembre e in una sola prigione sono state confermate 50 condanne a morte per droga e che 33 delle 49 esecuzioni eseguite nel mondo nel primo mese e mezzo del 2021 sono avvenute proprio in Iran, almeno sette per reati di droga. L’appello chiede che sia confermato “che non verrà fornita ulteriore assistenza fino a quando il governo iraniano non abolirà definitivamente la pena di morte per i reati legati alla droga”, ma per ora non c’è stata risposta dalla Farnesina. Se da un lato l’inflessibilità contro la pena di morte deve arrivare innanzitutto dalle istituzioni è altrettanto importante che anche l’opinione pubblica resti fortemente ancorata al rispetto della vita umana. “Il lungo percorso a tappe, iniziato nel 1786 con l’abolizione della pena di morte nel Granducato di Toscana, che ha condotto al concetto di pena utile e non retributiva, è una nostra tradizione di civiltà”, sostiene il Garante Palma. Invece ben due sondaggi nel corso del 2020 hanno paventato il rischio di un’inversione di tendenza tra gli italiani. L’ultimo, quello del Censis, secondo cui il 43,7% degli italiani sarebbe favorevole all’introduzione della pena di morte nel nostro ordinamento e tra i più giovani, il 45% la penserebbe in modo diametralmente opposto da quel 26enne Cesare Beccaria che per primo, oltre due secoli fa, si fece pioniere di una nuova concezione delle pene. Secondo Elisabetta Zamparutti: “Sondaggi e referendum non dovrebbero mai essere fatti su questioni che richiamano principi e valori universalmente acquisiti”, men che meno in un situazione di assenza di dibattito pubblico. E aggiunge: “Questa percentuale è anche poca cosa, considerato lo stato delle cose che ha preso forma nella durata di un regime giudiziario e penitenziario, politico e mediatico che negli ultimi trent’anni si è mangiato lo stato di diritto, lo stato democratico e lo stato di coscienza e umanità del nostro Paese e del popolo italiano”. Allo stesso modo sarebbero da evitare le sentenze nei salotti mediatici o i post sensazionalistici sui social, che invece arrivano puntuali dopo le vicende di cronaca nera, anche da parte di alcuni politici, e che, in un modo o nell’altro, finiscono per alimentare uno sfogo senza pensiero elaborato. Basti pensare ai post che ogni tanto compaiono sui social del leader della Lega Matteo Salvini. L’ultimo in ordine di tempo neanche un mese fa: “Io sono contro la pena di morte, ma devo dire che di fronte a certa infame violenza qualche dubbio mi viene”, cui ha fatto eco quello del presidente pro tempore della Calabria, Nino Spirlì: “Delitti atroci? Non avrei certezza di essere contrario a pena morte”, che ha scatenato migliaia di condivisioni e commenti a favore della pena di morte. “Sono temi che vanno sottratti all’emotività populista, e a quel senso semplicistico che c’è in alcune opinioni: vedo una cosa tremenda e penso a una soluzione drastica. Alcune questioni richiedono la ragionevolezza dell’istituzione, dello Stato”, commenta Mauro Palma, che conclude: “Io sono per l’abolizione del però. Come non sono razzista, però... Ci sono temi su cui va mantenuto un valore assoluto. Quello del non diritto a uccidere è un valore assoluto”. Povera Ucraina, una guerra civile dimenticata nel cuore dell’Europa di Franco Venturini Corriere della Sera, 21 febbraio 2021 Il destino di uno Stato-cuscinetto tra est e ovest, grande quanto la Francia, che parla russo nell’orientale Donbass e ucraino, o polacco, ai suoi confini occidentali. Povera Ucraina, tornata nel dimenticatoio dopo una fugace notorietà nel 2019, quando Trump cercò di colpire il rivale Biden mettendo nel mirino gli affari del figlio Hunter con gli oligarchi di Kiev. Povera Ucraina, di nuovo in soffitta benché la sua guerra civile tra filo-russi e occidentalisti abbia fatto in sette anni, 14.500 morti e decine di migliaia di feriti. Ma chi ne parla? Dopotutto l’Ucraina è uno Stato-cuscinetto tra est e ovest, anche se è grande quanto la Francia. Povera Ucraina, condannata dalla Storia a parlare russo nell’orientale Donbass e ucraino, o polacco, ai suoi confini occidentali (a questi si richiamavano i dimostranti di Piazza Maidan). Povera Ucraina che nel 1954 ricevette da Krusciov il regalo avvelenato della Crimea, oggi annessa dalla Russia di Putin e da allora diventata il secondo Muro dopo quello del Donbass, per la disperazione di chi lamenta la mancanza di una unità nazionale che il crollo dell’URSS pareva aver promesso. Povera Ucraina, che oggi teme di perdere i proventi del transito del gas russo diretto in Occidente se Berlino e Mosca riusciranno a completare il NorthStream-2 a dispetto delle sanzioni americane. Che nel suo esercizio di democrazia dell’aprile 2019 ha eletto Presidente Volodymyr Zelenski, un attore comico noto soprattutto per aver interpretato il ruolo di presidente in uno sceneggiato tv. Ma uomo nuovo che prometteva guerra alla corruzione e un accordo con la Russia. Due anni dopo purtroppo la corruzione è come sempre dilagante (e blocca gli aiuti FMI e UE), e con Putin i sorrisi si alternano a colpi bassi micidiali (chiuse le TV filo-russe in Ucraina, sanzioni contro novanta imprese ucraine in Russia). Gli accordi di Minsk, il “formato Normandia”? Interessano solo un piccolo gruppo di diplomatici. E Biden, se entrasse in scena, non aiuterebbe. Del resto Ucraina, e Libia, vengono considerate affari degli europei. La Libia è già persa, ora povera Ucraina. Turchia. Covid: al via le vaccinazioni nelle carceri ansamed.it, 21 febbraio 2021 Oltre 6,3 milioni le dosi somministrate, ora toccherà ai docenti. Continua l’ampliamento della platea di soggetti vaccinati per il Covid-19 in Turchia. Nei 372 istituti penitenziari del Paese, riferisce la Direzione generale per le carceri di Ankara (Cte), sono state avviate le somministrazioni a detenuti e personale carcerario. Al momento dell’inizio della campagna di immunizzazione, si precisa, sono stati registrati 240 casi di positività in 55 prigioni, con 33 ricoveri in regime ordinario e 2 in terapia intensiva. In poco più di un mese, Ankara ha somministrato oltre 6,3 milioni di dosi, di cui quasi un milione di richiami a 28 giorni dalla prima inoculazione, come previsto per il siero prodotto dall’azienda farmaceutica cinese SinoVac. Le immunizzazioni hanno riguardato principalmente medici e operatori sanitari, ospiti di residenze assistite e over 65. Dalla prossima settimana è atteso inoltre l’avvio delle vaccinazioni per gli insegnati, in vista di un progressivo ritorno in classe da marzo, quando secondo il presidente Recep Tayyip Erdogan inizierà anche un allentamento delle restrizioni su base provinciale. Dall’inizio della pandemia, la Turchia ha registrato oltre 2,6 milioni di casi e 27.821 vittime. Come ha fatto l’Egitto a passare dalla primavera Araba alla repressione di al-Sisi di Federica Bianchi L’Espresso, 21 febbraio 2021 Piazza Tahrir al Cairo è stata il simbolo del movimento di democratizzazione che ha interessato nord-Africa e medio Oriente dieci anni fa. Ma quel sogno è morto presto, lasciando spazio alla dittatura militare. A dieci anni dalla Primavera araba, suo tentativo di risveglio, l’Egitto è ormai sprofondato in un lungo inverno dittatoriale che ha permanentemente congelato ogni anelito di democrazia. L’esercito non soltanto ha ripreso il controllo del Paese con astuzia nel 2013 ma, complice un Occidente, dagli Usa alla Francia, più interessato alla stabilità della regione che ai diritti dei suoi cittadini, negli ultimi anni Il Cairo non ha sentito il bisogno di sbandierare o fingere un sostegno popolare per esercitare il potere assoluto. Ogni opposizione è stata definitivamente stroncata senza nessuna concreta obiezione. L’Egitto del generale Abdel Fattah al-Sisi ospita nelle sue carceri oltre 60mila prigionieri politici, negli ultimi due mesi del 2020 ha eseguito 57 pene capitali (il doppio rispetto a tutto l’anno precedente) e occupa il 166esimo posto su 180 in termini di libertà di stampa. Appena salito al potere nel 2013, al-Sisi non solo massacrò durante la prima protesta 800 oppositori politici ma impose subito nuove leggi per impedire ogni futura protesta; poi nel 2015 impose una legislazione anti-terrorismo che lascia all’esercito arbitrio assoluto; nel 2017 varò una legge per privare della cittadinanza gli egiziani residenti all’estero (se ritenuti pericolosi per lo Stato) e nel 2018 passò una norma anti-terrorismo cibernetico per impedire ogni aggregazione in rete. D’altronde la rivoluzione del 25 gennaio 2011 era nata sul web e si era organizzata sui social. Questo il clima in cui nel gennaio 2016 è stato arrestato e torturato a morte Giulio Regeni, colpevole di fare troppe domande scomode, e in cui è oggi in carcere Patrick Zaki, reo di difendere i diritti umani e, in particolare, quelli delle donne. In Egitto i mariti sono ancora padroni assoluti e le mogli marciscono in galera per adulterio. Sono anni che il mondo si interroga su come una rivoluzione che ha ridato speranza a milioni di disperati possa essere finita così male. Come dal temuto Hosni Mubarak si sia passati al crudele al-Sisi. E dire che per per due anni e mezzo piazza Tahrir, un’enorme rotonda nel cuore del Cairo, schiacciata tra il Nilo e il museo egizio, era divenuta il simbolo mondiale della democrazia, dove i progressisti del movimento 6 aprile e di Kefaya si confrontavano con i giovani della setta islamica dei Fratelli musulmani, riconoscibili per quei lividi in fronte, orgogliosamente ottenuti appoggiando di continuo il capo a terra in preghiera. Tutti intorno a una tazza di tè alla menta, uniti dallo stesso anelito non solo di democrazia ma soprattutto di espressione, un lusso, sull’altra sponda del Mediterraneo. Ad unirli avevano il nemico. A dividerli l’ideologia senza compromessi. Gli islamisti, sostenuti dalla maggioranza del Paese, volevano ottenere il potere politico dopo decenni di oppressione. I progressisti erano e restano minoranza, ma una minoranza più preparata e dialogante con un Occidente afflitto dal terrorismo islamico. Entrambi i fronti non hanno saputo scendere a patti. Inesperienza politica e una certa dose di sfortuna hanno giocato contro. Quando il professore islamista Mohamed Morsi è stato votato democraticamente presidente nel 2012, ha fatto guerra agli ex compagni rivoluzionari anziché scendere a compromessi con i liberali di Mohamed El Baradei e tessere insieme reti per imbrigliare l’immenso potere dell’esercito, che in Egitto controlla tutto, dall’economia alla società. Quest’ultimo ha prima finto di sostenerlo, poi si è organizzato, reclutando giornalisti locali e servizi segreti per alimentare il discontento nella popolazione verso il “terrore islamico”, utilizzando con sapienza i giornalisti occidentali per diffondere la propria propaganda come fosse la volontà del popolo. Ma un movimento come Tamarod, Ribelle, di Mahmoud Badr, il giovane dalla retorica facile che passava ore a conversare con la stampa di mezzo mondo, si scoprì dopo, era tutto tranne che figlio del popolo. Così, senza rendersene conto, in un tripudio di bandiere e canti patriottici, l’Egitto è finito contento nel colpo di Stato ordito dall’esercito, salutato come custode della Patria, il 3 luglio 2013. Non intuendo neppure che, l’arresto del presidente Morsi, avvenuto qualche giorno dopo, rappresentava un nefasto presagio del futuro. Un futuro che oggi è cronaca. Russia. Condanna confermata, Navalnyj verrà trasferito in una colonia penale di Rosalba Castelletti La Repubblica, 21 febbraio 2021 Due condanne in un giorno per Aleksej Navalnyj: l’oppositore russo si è visto confermare la sua condanna al carcere per un caso di frode risalente al 2014 ed è stato multato per diffamazione. Ora potrebbe essere presto trasferito in una colonia penale, eredità dell’Unione sovietica, e costretto ai lavori forzati. Tornato in Russia il 17 gennaio dalla convalescenza in Germania in seguito all’avvelenamento da Novichok, l’avvocato 44enne era stato arrestato con l’accusa di aver violato la libertà vigilata. Un tribunale di Mosca aveva poi convertito la pena sospesa in una sentenza definitiva condannandolo a tre anni e mezzo di carcere. Tenuto conto del periodo già trascorso da Aleksej ai domiciliari, la pena era stata ridotta a due anni e otto mesi che ieri un giudice di Mosca, respingendo l’appello, ha ulteriormente limato di un mese e mezzo. “Il nostro Paese è costruito sull’ingiustizia”, ha detto Navalnyj nel suo appassionato discorso finale citando un versetto della Bibbia (“Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati”), una frase del suo cartone preferito Rick and Morty (“Vivere vuol dire rischiare tutto. Altrimenti saresti solo un mucchio di molecole messe insieme a caso che vagano ovunque le spinga l’universo”) ed Harry Potter (“Il compito del governo è convincervi che siete soli. Il nostro Voldemort nel suo palazzo vuole che mi senta tagliato fuori”). Per concludere: “Siamo un Paese molto triste, siamo in un circolo di tristezza e non riusciamo a venirne fuori. Perciò voglio cambiare slogan. Non basta che la Russia sia libera, la Russia deve essere felice”. Poche ore dopo, in un processo separato, Navalnyj è stato condannato a 850 mila rubli (circa 9.500 euro) di multa per aver diffamato un veterano della Seconda Guerra mondiale che aveva difeso il referendum costituzionale pro-Putin in una clip promozionale. Navalnyj aveva definito “traditori” le comparse nel video, senza riferirsi direttamente all’ex militare, e ha definito il processo un tentativo di screditarlo in un Paese dove la vittoria sovietica sui nazisti ha un posto centrale nella coscienza collettiva e oltraggiare un veterano è un’onta. “Perché siete tutti così tristi?”, ha poi scherzato, raccontando di aver provato a fare il gelato e di aver preparato i cetrioli sottaceto nel famigerato carcere di Matrosskaja Tishina. Le due condanne arrivano dopo che la Corte europea dei diritti umani ha chiesto il rilascio dell’attivista, ma la nuova Costituzione russa ha stabilito la priorità del diritto nazionale su quello internazionale. Turchia. Due giornalisti curdi condannati a sei anni di carcere: “Spie” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 21 febbraio 2021 Arrestati con tre attivisti per aver raccontato le proteste di agosto, sono accusati di aver messo in pericolo la sicurezza dello Stato e di aver passato informazioni segrete all’estero. Contro di loro anche il premier Barzani, simbolo del clientelismo che da decenni governa la regione. Che il Kurdistan iracheno non sia un’oasi di libertà d’espressione è fatto appurato e l’anno appena trascorso lo ha ribadito: nei mesi della crisi sanitaria ma soprattutto delle proteste popolari che hanno attraversato mezzo Iraq, la regione autonoma curda non è stata esente dalla mobilitazione e, di conseguenza, da una copertura mediatica che le autorità hanno provato con diversi mezzi ad annacquare. Agenzie di informazione chiuse e perquisite e giornalisti arrestati sono stati giustificati con il rispetto della legge. Come la n. 2 del 2010 che introduce il crimine mediatico di “incoraggiamento del disturbo pubblico e danneggiamento dell’armonia sociale”, o la n. 11 dello stesso anno che proibisce a chiunque (anche ai reporter) di prendere parte a manifestazioni non autorizzate. È in tale contesto che lo scorso martedì sono stati condannati a sei anni di carcere tre attivisti e due giornalisti, Sherwan Sherwani e Guhdar Zebari. I due reporter erano stati arrestati lo scorso ottobre per aver coperto le proteste dell’agosto precedente a Duhok, una mobilitazione limitata nel tempo ma che si inseriva appieno nell’ondata di dissenso che ormai ininterrottamente dall’ottobre 2019 esplode in tutto il paese e che ha al centro la lotta alle diseguaglianze sociali, alla povertà strutturale (a fronte delle immense ricchezze petrolifere irachene) e al clientelismo e la corruzione delle classi dirigenti. In quell’occasione, con manifestazioni che da oriente, Suleymaniya, a occidente, Duhok (la prima controllata dal Puk dei Talabani, l’altra dal Kdp dei Barzani), oltre a decine di manifestanti arrestati e pestati le forze di sicurezza avevano chiuso la sede dell’emittente tv Nrt. Pochi mesi dopo l’arresto di Sherwani e Zebari. Il primo è stato portato via in piena notte, ammanettato davanti ai figli mentre uno dei poliziotti in borghese gli puntava una pistola alla testa, ha raccontato la moglie Jabbari ad Al Jazeera. È scomparso per 19 giorni, è riapparso per cinque minuti (quelli concessi alla moglie per vederlo) e poi è stato posto in isolamento per due mesi. Lì è stato torturato, come Zebari, accusano le organizzazioni per i diritti umani che seguono il loro caso. A Condannare Sherwani e Zebari è stata la corte penale di Erbil che ha giustificato così la durissima sentenza: avrebbero messo in pericolo la sicurezza nazionale con critiche al governo e spionaggio per aver “raccolto informazioni segrete e averle passate a attori stranieri in cambio di denaro”. “Iniqua e sproporzionata”, così il Committee to Protect Journalists (Cpj) ha definito la sentenza. Gli hanno fatto eco due dei principali partiti politici curdo-iracheni, il Puk a Gorran. Non il Kdp: ad accusarli pubblicamente di spionaggio era stato pochi giorni prima il primo ministro Masrour Barzani, figlio dell’ex presidente e storico leader del Kdp Masoud e cugino dell’attuale presidente Nechirvan (a Erbil il potere è cosa di famiglia). “Con questo verdetto, le autorità curde stanno mandando un messaggio chiaro - il commento di Ignacio Miguel Delgado, rappresentante del Cpj per Medio Oriente e Nord Africa - La libertà di stampa che dicono di difendere e di rispettare non viene rispettata. Il Kurdistan iracheno continua a dire di essere una democrazia. Ma quello a cui abbiamo assistito nel 2020 e quest’anno dice l’esatto opposto”. Il riferimento è ai dati raccolti dal gruppo curdo Metro Center for Journalists’ Rights and Advocacy che, lo scorso anno, ha registrato almeno 385 diverse violazioni. Tra queste spiccano quattro emittenti chiuse, 74 giornalisti arrestati, sei casi di distruzione di equipaggiamento e 42 di confisca. In Algeria parlamento sciolto e attivisti graziati di Stefano Mauro Il Manifesto, 21 febbraio 2021 La mossa presidenziale. Gesto forte di Tebboune: “Hanno salvato il Paese”. Torna libero anche il reporter Khaled Drareni. E a giugno si vota “per rinnovare l’attuale classe politica, coinvolgendo di più i giovani”. Giovedì sera in un discorso televisivo alla nazione - con l’obiettivo anche di mostrare agli algerini di essere in buona salute, nonostante i due ricoveri di questi mesi in Germania per complicanze da Coronavirus - il presidente algerino Tebboune ha decretato la grazia per diverse dozzine di detenuti dell’Hirak ed ha annunciato la sua decisione di sciogliere il Parlamento per elezioni anticipate (previste per giugno), con un rimpasto dell’attuale governo per questo periodo di transizione. “L’Hirak ha salvato la nostra nazione (…) per questo, con la convinzione di aver colto le sue principali istanze, ho deciso di concedere la grazia presidenziale a persone condannate o in attesa di giudizio: tra i 55 e i 60 prigionieri si riuniranno alle loro famiglie nei prossimi giorni” ha dichiarato Tebboune. Un gesto forte di pacificazione da parte del capo dello Stato, mentre il paese si prepara a celebrare il secondo anniversario dell’Hirak: il movimento di protesta che, nel 2019, aveva portato alle dimissioni dell’ex presidente Abdelaziz Bouteflika e aveva spinto migliaia di algerini a protestare per chiedere la fine di un regime considerato corrotto e la nascita di una nuova Algeria democratica. Riferendosi all’aspetto politico, il presidente ha rivendicato tutte le scelte fatte fino ad ora in continuità con le richieste degli algerini: come “la riforma della Costituzione”, scarsamente votata con il referendum dello scorso novembre, o la scelta di anticipare le elezioni “proprio per rinnovare l’attuale classe politica, coinvolgendo di più i giovani”. Secondo la stampa nazionale Tebboune spera così “di calmare un clima di proteste crescenti in tutto il paese”, a causa della profonda crisi economica e sociale, aggravata in quest’ultimo anno dalla pandemia e da una durissima repressione da parte delle forze di sicurezza. Una manovra, come afferma il quotidiano Algerie Patriottique, “per evitare, con l’avvicinarsi dell’anniversario del 22 febbraio, altre proteste come quelle avvenute lo scorso martedì a Kherrata”. Da venerdì sono cominciate le prime scarcerazioni. Tra cui quelle di Rachid Nekkaz e Dalila Touat o del giornalista Khaled Drareni, corrispondente per il canale francese TV5Monde - condannato a due anni di detenzione con l’accusa di “attacco all’integrità del territorio nazionale” per aver informato il mondo riguardo alle proteste in atto in Algeria - che all’uscita dal carcere di Kolea, ha ringraziato “tutte le persone che lo hanno sostenuto nel paese e all’estero”. Secondo Said Salhi, della Lega algerina per i diritti umani (Laddh), l’apertura di Tebboune è “un primo passo nella corretta direzione dopo mesi di ingiustizia e repressione, anche se la democrazia non si limita alle elezioni, ma all’esercizio e alla difesa delle libertà democratiche, prime fra tutte quelle di esprimersi e protestare”. I conti con il passato della Liberia li fa la giustizia finlandese di Jacopo Lentini Il Manifesto, 21 febbraio 2021 Il processo per crimini di guerra a Gibril Massaquoi si sposta da Tampere a Monrovia. Nessun colpevole per i 200 mila morti della guerra civile, Helsinki ci prova esercitando la giurisdizione universale. Se c’è un paese che davvero non ha fatto i conti col passato, questo è la Liberia. Per le atrocità dei due conflitti civili avvenuti tra il 1989 e il 2003 e circa 200mila vittime, la giustizia dello stato africano non ha mai condannato nessuno. L’ex presidente liberiano e signore della guerra Charles Taylor sta scontando 50 anni di carcere per crimini di guerra, ma solo per quelli commessi in Sierra Leone, dopo la condanna della corte speciale istituita d’intesa con le Nazioni unite per quest’altro paese. A nulla sono valse le raccomandazioni della Commissione per la verità e la riconciliazione della Liberia (Trc), che nel suo rapporto finale del 2009 ha indicato i nomi di coloro da perseguire in un tribunale da crearsi ad hoc. Basti pensare che tra i candidati delle scorse elezioni presidenziali c’era anche il senatore Prince Johnson, che in un noto video del 1990 fu ripreso a bere birra mentre i suoi uomini tagliavano le orecchie all’allora presidente Samuel Doe, prima di ucciderlo. E Johnson è solo uno dei tanti ex combattenti che ricopre ruoli di governo. Altri si sono riciclati come pastori di chiesa. È in questo contesto che ora il paese guarda con speranza a una nuova esperienza di giustizia transnazionale. Da domani 22 febbraio, nella capitale Monrovia si svolge una parte del processo a Gibril Massaquoi, 51enne sierraleonese imputato in Finlandia per crimini di guerra commessi in Liberia. Qui, infatti, il procedimento è celebrato dalle autorità di Helsinki con giurisdizione interamente finlandese ed è iniziato lo scorso 1 febbraio a Tampere, in Finlandia, dove Massaquoi viveva dal 2008. In deroga ai principi di territorialità e di nazionalità dell’imputato e delle vittime, la Finlandia esercita la giurisdizione universale, che consente di giudicare uno straniero per crimini contro l’umanità commessi all’estero. La corte finlandese rimarrà fino a maggio in Liberia e passerà anche due settimane in Sierra Leone per ascoltare oltre 50 tra testimoni e vittime. “Questo processo significa che fare giustizia in Liberia è possibile - ha dichiarato l’ex reporter di guerra e attuale membro della Commissione per la verità e la riconciliazione (Trc) Massa Washington. Si è sempre detto che è impossibile istituire una corte nazionale per i crimini di guerra per motivi di sicurezza, problemi logistici e mancanza di fondi. Ma il caso Massaquoi è un test per capire cosa si può fare ed è un momento importante per la società civile liberiana”. Nei giorni scorsi i giudici finlandesi si sono recati nei luoghi incriminati, soprattutto nella contea di Lofa, nel nord-ovest. Qui Massaquoi, allora comandante del Fronte rivoluzionario unito, secondo le 3600 pagine del dossier di imputazione avrebbe commesso e ordinato stupri di massa e omicidi. In un caso, nel villaggio di Kamatahun Hassala, dozzine di civili sarebbero stati rinchiusi in una casa poi data alle fiamme. Ad oggi l’unica persona condannata, nel 2009, per torture nel conflitto armato liberiano è Chucky Taylor, figlio dell’ex presidente Taylor. Di nazionalità statunitense, fu processato dalla giustizia americana interamente a Miami. La Liberia si limitò ad agevolare le indagini. “Nel 2006 a Monrovia fu aperto un procedimento contro un uomo per crimini commessi nel 2003, durante la fine del conflitto, ma poi fu rilasciato per mancanza di prove - spiega Tiawan S. Gongloe, presidente dell’associazione nazionale degli avvocati liberiani ed ex procuratore generale -. Oggi la gente non ha timore di parlare. Anche alla radio si discute sempre di come perseguire i colpevoli della guerra”. Nel merito, però, nessun testimone si è ancora trovato di fronte alla giustizia liberiana. Secondo Kelsey Gutrhie-Jones, legale dell’ong svizzera Civitas Maxima, nonostante sia più facile e sicuro svolgere le udienze in Finlandia, “la corte ha scelto di trasferirsi sul campo per calarsi nel contesto del paese, affrontando la sfida della protezione dei testimoni, scortandoli e garantendone l’anonimato”. È stata proprio Civitas Maxima, nel 2018, a dare informazioni sulle responsabilità di Massaquoi alle autorità finlandesi, che poi lo hanno indagato. Poiché la Liberia non ha mai fatto passo concreti per realizzare il suo tribunale per i crimini di guerra, secondo alcuni osservatori il rischio di instabilità per il paese e di ritorsioni contro testimoni non è ancora quantificabile e non può essere un disincentivo alla sua istituzione. Invece “proprio la mancanza di giustizia è la vera minaccia per la sicurezza e la stabilità”, spiega Aaron Weah, ex ricercatore per la Trc. “La corte finlandese in transito a Monrovia - aggiunge - crea un precedente e darà ai cittadini più prospettive di porre fine all’impunità di quante ce ne fossero dieci anni fa”. Massaquoi attende il suo verdetto per settembre ed è rimasto a Tampere mentre il suo difensore è a Monrovia. “Siamo contenti che finalmente giustizia sarà servita - afferma Mariamu B. Fofana, parlamentare per la contea di Lofa. È importante soprattutto per le nostre donne che hanno subito violenze carnali durante il conflitto”. In Francia, Svizzera e Belgio sono in corso altri procedimenti per crimini di guerra a carico di liberiani. Chissà che il “modello finlandese” non faccia da esempio.